Informazioni su sebastianoisaia

Sebastiano Isaia (Catania, 1962) è uno studioso del pensiero critico economico e sociale. Devoto a Karl Marx e al materialismo dialettico, ritiene che il comunismo non sia mai stato realizzato in nessun luogo e in nessun tempo, dunque è acerrimo nemico di ogni marxismo (stalinismo, maoismo etc.). Influenzato da Adorno e Horkheimer, detesta Toni Negri e i teorici del “capitalismo cognitivo”. Non sa chi sia Naomi Klein ed è un polemista di vocazione. Un tempo è stato anche marinaio.

LA GUERRA DELLE VALUTE E LA “BATTAGLIA DEL SECOLO” TRA STATI UNITI E CINA

Possiamo far risalire l’inizio della guerra delle valute fra Stati Uniti e Cina al 2015, quando in risposta all’aggressiva politica dei dazi decisa dal governo americano ai danni del Made in China Pechino decise una forte svalutazione della divisa cinese. «La banca centrale cinese ha fatto scivolare per la prima volta la parità dollaro-renminbi sotto la quota simbolica 7 a 1, un netto indebolimento della moneta cinese con cui Xi Jinping tenta di compensare l’effetto dei nuovi dazi Usa. Rapida la reazione di Washington: per la prima volta da quando la Cina è entrata nell’economia globale, il Tesoro Usa la condanna come una nazione che “manipola la valuta”, aprendo la strada a nuove misure sanzionatorie. È la dichiarazione ufficiale di una guerra delle monete che si affianca a quella dei dazi» (F. Rampini, La Repubblica, 6/7/2019). La mossa cinese inquietò non poco anche gli Europei, a cominciare dai tedeschi, considerato che la Germania era allora la prima esportatrice verso il Dragone e anche il principale Paese avanzato ad avere una bilancia commerciale attiva con il grande Paese asiatico, e questo in piena continuità con la storia delle relazioni commerciali dei due Paesi.

È dal 1978 che il capitalismo tedesco, esattamente come quello giapponese, punta molte delle sue fiches sullo sviluppo capitalistico della Cina. quell’anno il Cancelliere tedesco Helmut Schmidt dichiarò che «Noi – cioè i tedeschi – esportiamo circa il 30% del PNL ed importiamo altrettanto. Ciò significa che dipendiamo molto più dallo sviluppo del resto del mondo che le altre grandi economie». Allora la Germania era al secondo posto, alle spalle degli Stati Uniti, nella classifica dei Paesi esportatori, e quindi la sua economia era particolarmente sensibile alle manovre monetarie messe a punto da Washington per difendere il primato capitalistico degli americani insidiato proprio dai tedeschi – e dai giapponesi. Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, oltre che la seconda potenza mondiale esportatrice di merci, la Germania Occidentale si apprestava a diventare la seconda potenza mondiale bancaria, strappando quell’ambita posizione ai britannici, declinanti sul terreno industriale e commerciale. La supremazia industriale e commerciale della Germania in Europa trovava un puntuale riscontro sul terreno finanziario-monetario, con il rafforzamento e l’espansione della cosiddetta area del marco. Bonn si batteva per un rapido inserimento di Spagna, Portogallo e Grecia, mercati in forte crescita affamati di merci tedesche, nella CEE proprio per conseguire quell’obiettivo. Gli Stati Uniti, potendo anche contare sul sostegno di Londra, si opposero strenuamente al progetto di un Fondo Monetario Europeo che avrebbe avuto nella Germania la sua spina dorsale – e probabilmente nella Francia il suo scudo politico-militare. «I tedeschi, lamentavano stizziti che gli Stati Uniti stavano esportando inflazione. Per la fine degli anni Settanta lo stato di frustrazione della Germania raggiunse il suo massimo di fronte alle politiche monetarie inflazioniste americane; i tedeschi informarono Volcker [Presidente della Federal Reserve] di voler creare un sistema monetario europeo per proteggere se stessi e l’Europa Occidentale dalle erratiche e inflattive politiche economiche americane» (1). Da parte sua, la Gran Bretagna apprezzò particolarmente lo sforzo messo in essere da Washington per contrastare il progetto tedesco volto a creare un polo industriale europeo tecnologicamente molto avanzato (la cosiddetta strukturpolitik), in grado anche di diminuire la dipendenza europea dalle fonti energetiche fossili, soprattutto dal petrolio, molto rincarato negli ultimi anni. La Banca Europea degli Investimenti avrebbe dovuto finanziare quell’ambiziosissimo progetto.

Alla fine di quel decennio le riserve valutarie delle grandi banche mondiali erano costituite per l’80% da dollari (percentuale in declino) e per il 15% da marchi (percentuale in ascesa). Il ventennio successivo vedrà gli Stati Uniti attuare, come e più di prima, politiche monetarie orientate a penalizzare soprattutto l’esportazione di beni, servizi e capitali di Germania e Giappone, il quale molto irritò gli “alleati” americani quando, alla fine degli anni Ottanta, si disse pronto a sostenere la ristrutturazione del debito dei Paesi latinoamericani, con ciò mettendo il becco nel giardino di casa dell’imperialismo americano, e ad accrescere il peso dello yen come valuta di riserva del FMI. Washington parlò senza mezzi termini di una mossa propagandistica da parte di Tokio dal chiaro sapore antiamericano. Nell’85 il Giappone diventa “ufficialmente” la seconda potenza economica mondiale e il maggior Paese esportatore nei mercati cinesi (31,2%); Tokyo allora teneva strettamente i cordoni della borsa dei debiti della Corea del Sud, della Thailandia, delle Filippine, di Taiwan, dell’Indonesia e della Malesia.

Nel 1981 tra le prime 100 banche del mondo 24 erano giapponesi, 12 americane, 11 tedesche, 8 francesi e 8 italiane. Oggi le cose sono molte diverse, com’è ovvio che sia del resto.  «Al primo posto della classifica mondiale delle banche per attivi totali si trova Industrial & Commercial Bank of China con 5438 miliardi di USD, seguita da China Construction Bank con 4618 miliardi di USD, Agricultural Bank of China con 4435 miliardi di USD, Bank of China con 4073 miliardi di USD » (VeraFinanza). Si tratta delle cosiddette Big Four cinesi. Al quinto posto troviamo la statunitense JPMorgan Chase & Co (3684 dollari), al sesto la giapponese Mitsubishi UFJ Financial Group (3269 dollari), al settimo la francese BNP Paribas (3174 dollari), all’ottavo l’americana Bank of America (3030 dollari), al nono la britannica HSBC Holdings (2976 dollari) e al decimo la francese Credit Agricole Group (2731 dollari). Le uniche due banche italiane che si trovano nella classifica delle 61 banche più grandi del mondo per attivi sono Intesa Sanpaolo e Unicredit: la prima si trova al ventinovesimo posto con 1256 miliardi di dollari di attivi, e la seconda al trentaseiesimo posto con 1128 miliardi. Questa classifica riporta quanto segue (numero di banche per Paese): 15 Cina, 6 Stati Uniti, 6 Giappone, 6 Francia, 5 Gran Bretagna, 4 Australia, 3 Spagna, 3 Canada, 2 Italia, 2 Svizzera, 2 Germania, 2 Paesi Bassi, 1 India, 1 Lussemburgo, 1 Finlandia. «Gli attivi totali sono uno degli indicatori più importanti e che viene maggiormente utilizzato per confrontare le banche tra di loro. Maggiori sono gli attivi, maggiore è il peso e l’importanza di una banca a livello nazionale e internazionale» (VeraFinanza).

Credo che sia sempre utile guardare i fatti contingenti anche da una prospettiva storica. Ma riprendiamo il filo del ragionamento iniziale.

La svalutazione competitiva cinese del 2015 si spiega anche con il primo forte rallentamento subito dall’economia cinese dopo decenni di forte crescita, rallentamento che ebbe un puntuale riflesso nella borsa di Shangai, che tra la fine di giugno e i primi di luglio del 2015 bruciò circa il 32% del suo valore, stimato in 2.525 miliardi di euro. La scossa borsistica di Shangai si fece sentire sull’intero sistema finanziario mondiale, soprattutto su quello europeo, da qualche tempo in tensione a causa dalla crisi del debito sovrano che aveva la Grecia come suo centro paradigmatico. «A fine maggio il Fmi si era opposto all’inserimento della valuta cinese tra le monete di riserva, per la manipolazione politica della sua parità» (Il Mattino, 2015). E qui ci avviciniamo al punto caldo della questione. Oggi infatti la guerra delle valute si combatte su un terreno qualitativamente molto più alto e avanzato, e investe il futuro della stessa supremazia finanziaria-monetaria mondiale. probabilmente siamo solo agli inizi, peraltro molto “promettenti”, di uno scontro di grandi proporzioni sulla configurazione degli assetti monetari mondiali.

Leggo sul Quotidiano del Popolo Online del 27 aprile: «Il 26 aprile, ora locale, il ministro argentino dell’economia, Sergio Massa, ha tenuto una conferenza stampa, nella quale ha annunciato che l’Argentina smetterà di utilizzare dollari Usa per pagare le merci importate dalla Cina, e utilizzerà invece il RMB per i regolamenti dei conti. Zou Xiaoli, ambasciatore cinese in Argentina, è stato invitato a partecipare alla conferenza stampa. Massa ha dichiarato che dopo aver raggiunto un accordo con diverse società, questo mese l’Argentina utilizzerà il RMB per pagare le merci importate dalla Cina, per un valore di circa 1,04 miliardi di dollari. Si prevede inoltre che l’Argentina utilizzerà lo yuan per pagare importazioni cinesi per un valore tra i 790 milioni e 1 miliardo di dollari a partire da maggio. Nel gennaio di quest’anno, la Banca Centrale Argentina ha annunciato che Argentina e Cina hanno ufficialmente ampliato il loro accordo di swap valutario, mossa che rafforzerà le riserve in valuta estera dell’Argentina, già pari a 130 miliardi di yuan, e attiverà una linea di credito disponibile per 35 miliardi di yuan». Dieci giorni prima lo stesso organo di informazione del regime cinese dava conto delle dichiarazioni del Presidente Lula: «“Perché questi Paesi devono operare in dollari americani? Perché non può essere in yuan cinese o in altre valute?” Le parole di Lula il 13 scorso, durante la cerimonia di inaugurazione del presidente della Banca di Nuovo Sviluppo Dilma Rousseff a Shanghai, hanno attirato l’attenzione del mondo. Attualmente, alcuni Paesi sviluppati stanno promuovendo vigorosamente la “globalizzazione inversa” e sostengono il “disaccoppiamento e la rottura della catena” [del valore], che ha creato grandi difficoltà per la ripresa economica globale. Al fine di frenare l’inflazione interna, gli Stati Uniti hanno costantemente alzato i tassi di interesse in modo aggressivo, con effetti negativi che si riversano costantemente, causando gravi impatti sui Paesi dei mercati emergenti. Cresce l’appello a questi ultimi di unirsi e rafforzarsi. Alla fine di marzo, il governo brasiliano ha dichiarato che il Brasile aveva raggiunto un accordo con la Cina per regolare il commercio nella sua valuta locale. Secondo la dichiarazione congiunta rilasciata questa volta da Cina e Brasile, entrambe le parti concordano di approfondire il dialogo in campo economico e finanziario, rafforzare il commercio con valuta locale e promuovere la cooperazione nel campo del finanziamento sostenibile». L’articolo terminava osservando che «le relazioni Cina-Brasile nella nuova era raggiungeranno un livello più elevato, porteranno maggiori benefici ai due popoli e infonderanno nuova vitalità alla cooperazione Cina-America Latina, nonché alla pace e allo sviluppo nel mondo». Tutto quello che promuove il Celeste Imperialismo non può che portare pace e prosperità nel mondo, e chi dice il contrario (eccomi!) mente sapendo di mentire – non è il mio caso.

Scrive Romano Prodi: «Oggi oltre il 20% delle riserve mondiali è denominato in Euro. Dobbiamo tuttavia sottolineare che, pur con una diminuzione di oltre dieci punti dal suo massimo, quasi il 60% delle riserve rimane in mani americane e la valuta americana domina ancora in modo schiacciante nel commercio internazionale. La Cina continua nel suo obiettivo di creare un posto crescente al Renminbi, ma cerca di adattarlo al suo nuovo ruolo politico ed economico. In primo luogo, dopo la guerra di Ucraina, ha ottenuto non solo che gli scambi fra Russia e Cina avvengano progressivamente in moneta cinese, ma che la stessa valuta sia utilizzata per i pagamenti russi con Asia, Africa e America Latina. Di maggiore significato è quindi l’accordo fra Lula e Xi Jinping di regolare in Rmb i crescenti rapporti fra Cina e Brasile. Un accordo che fa parte dell’esplicita strategia cinese di aumentare il ruolo del Renminbi nel commercio con tutti i paesi non allineati. [..]. Nel corso degli anni, tuttavia, i rapporti politici ed economici internazionali della Cina sono aumentati in modo impressionante. E’ sufficiente riflettere sul fatto che, in questo momento, ben centoventi paesi hanno la Cina come primo partner commerciale e i nuovi rapporti economici includono in modo crescente la clausola di utilizzare la valuta cinese. Siamo naturalmente ancora di fronte a un cambiamento più programmatico che reale perché, anche se in forte crescita, le riserve in Rmb non superano ancora il 3% del totale mondiale, ma il lavoro quotidiano cinese, costruito su una presenza estesa in tutti i continenti, sta producendo frutti e, soprattutto, sta seminando per il futuro. Non era forse questo un compito dell’Europa, forte dei suoi antichi rapporti economici con quasi tutti i paesi del mondo? La preoccupazione di una progressiva perdita di influenza del dollaro, in conseguenza di questa nuova strategia cinese di coinvolgimento dell’immenso Terzo Mondo, comincia infatti a farsi strada anche in una significativa parte dell’establishment americano. Come infatti osservano, forse con una certa malignità, alcuni osservatori britannici, anche la sterlina pareva invincibile, ma poi…» (Il Messaggero, 22/4/2023). Prodi è tra i non pochi personaggi illustri europei che auspicano la formazione di un polo imperialista europeo autonomo dagli Stati Uniti e ben disposto nei confronti della Cina e certamente non nemico della Russia. «Ci stiamo facendo rubare l’Africa da sotto il naso dai cinesi senza alzare un dito» (2), sembra rimprovera l’ex Premier italiano alla leadership europea. Che peccato!

Alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso i rapporti di forza capitalistici che resero possibile gli accordi di Bretton Wood, che sancirono la supremazia finanziaria degli Stati Uniti (espressione della loro supremazia capitalistica globale: industriale, commerciale, scientifica, tecnologica, militare, ideologica), apparivano significativamente modificati, e la cosa fu resa evidente in tutta la sua pregnanza economica e politica dalla scossa tellurica monetaria dell’agosto 1971, quando Washington dichiarò di abbandonare la parità aurea del dollaro (evidentemente non più «buono come l’oro»). È da allora che si parla sempre più insistentemente, e fondatamente, della necessità di un nuovo sistema monetario mondiale. Pur indebolita e sempre più duramente attaccata, la supremazia finanziaria e monetaria degli Stati Uniti non è stata ancora sopraffatta: essa esibisce una “resilienza” che molto irrita gli antiamericani d’ogni specie e Paese. Ma oggi è apparsa sulla scena un Paese che a buon diritto può vantare lo status di potenza capitalistica globale: la Cina, la quale può davvero colpire al cuore la supremazia finanziaria/monetaria degli Stati Uniti. Al “multipolarismo” geopolitico potrebbe associarsi un “multipolarismo” monetario, magari come fase di transizione verso un assetto finanziario e monetario radicalmente diverso.

«Di fronte alle sanzioni occidentali che limitano il commercio in dollari con la Russia, l’idea dello yuan cinese come alternativa è stata rilanciata da Lula, dal malese Anwar Ibrahim e dal Bangladesh, che ha deciso di pagare in yuan una tranche del prestito concesso da Mosca per una centrale nucleare. Sullo sfondo del blocco occidentale, schiacciato dall’aggressione russa, sta prendendo forma un altro asse che cerca di unire i pezzi del mondo frammentato. Intorno alla Cina e contro l’asse occidentale» (S. Kauffmann, Le Monde). La crisi economica internazionale iniziata negli Stati Uniti nel 2008, la crisi sociale pandemica del 2019-22 e la guerra in Ucraina hanno accelerato processi e tendenze in atto già da molto tempo.

Indubbiamente stiamo assistendo a un fenomeno di portata mondiale che possiamo definire nei termini di una ristrutturazione finanziaria e monetaria. Si tratta di vedere se siamo dinanzi a un cambiamento strutturale destinato con il tempo a rafforzarsi e approfondirsi, fino a determinare un vero e proprio capovolgimento degli attuali rapporti di forza monetari (3). Se il mutamento nei rapporti economici (industriali, commerciali, finanziari) fra i grandi Paesi capitalistici deve, prima o poi, riflettersi sul terreno dei rapporti monetari e nella geopolitica, non dobbiamo mai dimenticare che il processo sociale capitalistico, colto nella sua totalità, non è solo ineguale nella sua espressione eminentemente economica, ma è anche caotico e contraddittorio, e che quindi in linea di principio è sbagliato rappresentare come rettilinee le tendenze che prendono corpo in quel processo. E questo anche in considerazione del fatto che a ogni tendenza fa quasi sempre riscontro una controtendenza – più o meno di pari intensità. La risultante non è deterministicamente prevedibile.

In ogni caso con la contesa per il primato finanziario-monetario ci troviamo al cuore e al vertice della contesa interimperialistica, e fanno ridere, per non dire altro, quei personaggi che, citando malamente i teorici dell’Imperialismo (Hobson, Hilferding, Lenin, Luxemburg, Grossmann), cercano di negare alla Cina lo status di potenza imperialista. Per chi scrive, è ormai da anni che il Celeste Imperialismo merita quello status (4).

La guerra delle divise è dunque un momento fondamentale nella «battaglia del secolo» che combattano Cina e Stati Uniti: la prima per conquistare il vertice assoluto del potere capitalistico mondiale, i secondi per arginare questa (irresistibile?) ascesa e salvare il salvabile della loro vecchia supremazia. Ripeto: è meglio non dare nulla per scontato – nemmeno la natura “pacifica” di quella battaglia: d’altra parte sempre di divise si tratta…

(1) R. Gilpin, Le insidie del capitalismo mondiale, 2001, p. 81, Università Bocconi Editore, 2004

(2) «La presenza cinese in Africa è definita da un isolamento intenzionale dalla popolazione indigena. Le aziende cinesi portano i propri autisti, operai edili e personale di supporto, negando queste opportunità di lavoro agli africani e spesso vivono separati dalle società africane in cui risiedono. Queste attività sono solo un esempio del comportamento abusivo della Cina in Africa. L’Africa ha sopportato il colonialismo e il neoimperialismo per centinaia di anni. Proprio come l’Africa si è liberata da quei legami, ha bisogno di lavorare con l’Occidente e altri stati per fornire alternative al denaro e alle infrastrutture cinesi. La più grande minaccia che l’Africa deve affrontare oggi è il sino-imperialismo. Ora rischia di essere catturato dal sinistro sino-imperialismo cinese che impedirà all’Africa di entrare nel suo rinascimento. Le attività della Cina nel continente africano devono ancora ricevere l’attenzione che meritano in Occidente. Il comportamento della Cina in Africa è importante per tre motivi principali. In primo luogo, la Cina è la fonte di un significativo capitale di investimento gemellato con una prodigiosa capacità di creare infrastrutture, entrambe necessarie a molti stati africani. In secondo luogo, il comportamento della Cina in Africa fornisce al resto del mondo informazioni su come si comporterà nei confronti di altri stati, in particolare gli stati del Sud del mondo, man mano che diventerà pari al potere con gli Stati Uniti. In terzo luogo, ciò che la Cina sta facendo in Africa non è di buon auspicio per il resto del mondo. Le attività e il comportamento della Cina in Africa possono essere descritti solo come neocoloniali e sfruttatori dei popoli africani e dell’ambiente» (Nationalinterest). Ovviamente io non faccio alcuna differenza tra il «sino-imperialismo» e l’imperialismo occidentale, o giapponese o altro ancora. Ciò che va sottolineato è come il continente africano stia diventando un punto caldissimo nella contesa interimperialistica. Sulla crisi sudanese rinvio a un mio post del 2021: SUDAN. TANTA MISERIA E TANTI AFFARI IN GIOCO – SULLA PELLE DEGLI ULTIMI.

(3) L’ultimo rapporto del Credit Suisse Research Institute, pubblicato il 17 gennaio scorso, ha come titolo Il futuro del sistema monetario, ed esamina «gli svantaggi di un sistema monetario dominato dal dollaro USA e le possibili alternative». Eccone alcuni passi. «Da quando è stato formalmente lanciato a Bretton Woods nel 1944, il sistema monetario incentrato sul dollaro USA ha subito profondi cambiamenti, di norma in risposta a crisi sistemiche. I cambi di rotta nella politica monetaria statunitense continuano tuttavia ad amplificare i cicli economici o addirittura a innescare crisi in altri Paesi. Sebbene la Federal Reserve statunitense in collaborazione con altre banche centrali abbia sviluppato degli strumenti per limitare le ripercussioni negative, permane l’esigenza di un cambiamento sistemico. Come altri Paesi, gli Stati Uniti stanno affrontando un’impennata dell’inflazione, mentre l’economia rallenta. Gli squilibri fiscali ed esterni si sono notevolmente acuiti. È una situazione che ricorda per certi aspetti quella degli anni Settanta, quando la fiducia nel dollaro USA era notevolmente diminuita. Inoltre, le tensioni geopolitiche hanno toccato un nuovo apice dopo la Seconda guerra mondiale. Questa concomitanza di circostanze solleva lo spettro di un potenziale allontanamento dal dollaro USA. Il peso del dollaro USA nelle riserve valutarie resta un indicatore della sua “egemonia”. Ciò premesso, le fluttuazioni dei tassi di cambio, le migliori politiche macroeconomiche di molti mercati emergenti e la disponibilità di linee di swap fra le banche centrali riducono la necessità di tali riserve. Sul fronte opposto, riserve cospicue sono state spesso il risultato dei tentativi delle banche centrali di contrastare l’apprezzamento delle loro valute contro il dollaro USA. Nel frattempo, tuttavia, è evidente che le principali banche centrali stanno operando una diversificazione rispetto al dollaro e ai Treasury statunitensi, mentre i principali detentori di riserve stanno investendo in asset reali. Al momento non vi sono dei validi candidati in grado di sostituire il dollaro USA come moneta di riferimento e la creazione di una moneta globale resta improbabile data l’instabilità dell’attuale contesto geopolitico. Tuttavia, la crescita del mercato dei capitali e l’aumento degli scambi fra i principali mercati emergenti stanno rafforzando il ruolo delle loro valute».

(4) Scrive Tommaso Carboni: «Lungo la Via della Seta la Cina ha prestato in questi dieci anni 900 miliardi di dollari a 151 Paesi a basso reddito, principalmente per la costruzione di autostrade, ponti, dighe. Washington ha spesso accusato Pechino di essersi impegnata in una “diplomazia della trappola del debito”: un esempio classico è il porto di Hambantota, in Sri Lanka. Sei anni fa il governo di Colombo non riusciva più a pagare le rate e così ne ha concesso il controllo alla Cina per 99 anni. La via della seta – “il progetto del secolo” secondo Xi Jinping – vacilla in un mare di debiti e corruzione. La quantità di prestiti d’emergenza concessi dalla Cina è enorme: 240 miliardi di dollari elargiti negli anni più recenti – in particolare, dal 2019 al 2021, la Cina ha dato quasi la metà del Fondo monetario internazionale. Ma a tassi per nulla di favore: 5% , quando il Fondo monetario chiede il 2 per cento. Così la Cina crea legami ancora più stretti con molti paesi oggi in difficoltà e fa crescere il peso del renminbi come alternativa al dollaro. Resta il fatto che dietro i salvataggi ci sono investimenti mal congegnati; spesso, poi, l’obiettivo è salvare le banche statali cinesi che hanno concesso i primi finanziamenti. “In ultima analisi, Pechino sta cercando di salvare le proprie banche. Ecco perché è entrata nel business rischioso dei prestiti di ultima istanza”, spiega Carmen Reinhart, professoressa della Harvard Kennedy School ed ex capo economista della Banca Mondiale. Qualcosa sembra andato storto nei piani di Xi Jinping. Se da una parte è vero che la gran massa di prestiti riflette il ruolo di superpotenza economica di Pechino – la Cina, per certi versi, ha sostituito gli Stati Uniti nel salvataggio di paesi a medio e basso reddito indebitati, scrive il New York Times. Dall’altra però troppi paesi non riescono a pagare i debiti. Certo, dipende dall’economia globale che rallenta e dai tassi d’interesse che invece salgono – una congiuntura sfavorevole, secondo Pechino, innescata dagli Stati Uniti alzando i tassi della Federal Reserve. Ma c’entra anche la carenza di progettazione generale dello schema cinese. Prestiti elargiti in modo troppo superficiale, pochi studi di fattibilità e mancanza di trasparenza. I prestiti di salvataggio hanno toccato 22 Stati, tra cui Argentina, Bielorussia, Ecuador, Egitto, Laos, Mongolia, Pakistan, Suriname, Sri Lanka, Turchia, Ucraina e Venezuela. Dal 2019 al 2021, la Cina ha elargito 104 miliardi di dollari in linee di credito d’emergenza a paesi in via di sviluppo. Alcuni progetti sono diventati celebri nel mondo come esempi di tutto ciò che non va fatto quando si concedono prestiti. […] Poi c’è il ruolo di prestatore di ultima istanza. In gran parte serve a proteggere da perdite le banche statali cinesi, tenendo a galla i paesi in difficoltà in modo che continuino a pagare i debiti. Non tutti però ricevono i prestiti d’emergenza. Vengono privilegiati i paesi a medio reddito. Questo perché hanno in pancia l’80% del totale dei prestiti all’estero della Cina, quindi pongono grossi rischi di bilancio e le banche cinesi hanno tutto l’interesse a non farli fallire. Sorte diversa toccherebbe ai paesi poveri. Loro sono meno importanti per le banche, fanno solo il 20% dei prestiti esteri, e raramente vengono salvati» (Ansa, 31/3/2023). Dinanzi alle magagne dello «schema cinese» di penetrazione imperialistica verrebbe da dire: niente di nuovo sotto il cielo. Che Washington accusi oggi, dopo oltre un secolo di diplomazia del dollaro, Pechino di praticare la «diplomazia della trappola del debito» è risibile oltre che scontato. La Cina si trova ad affrontare i problemi tipici di un capitalismo maturo che oltre alle merci esposta anche capitali, e lo fa con quelle «caratteristiche cinesi» che nell’essenziale poco si discostano dalle vecchie «caratteristiche occidentali» di penetrazione imperialistica. La “logica” è sempre la stessa: espandere il proprio potere economico e geopolitico vendendo merci, esportando capitali, costruendo infrastrutture all’estero (vedi l’Africa, in primis), acquistando materie prime d’ogni genere, sfruttando i lavoratori e la natura.

MITI ULTRAREAZIONARI E FESTE COMANDATE. SUL 25 APRILE

Due aspetti, strettamente correlati fra loro, vanno qui messi in evidenza: la Resistenza fu la continuazione della guerra imperialista iniziata dal regime fascista in alleanza con la Germania nazista; e fu anche lo strumento che consentì alla classe dirigente di questo Paese di ottenere dagli Alleati condizioni meno pesanti e umilianti per la sua resa. Solo in questo senso è quantomeno plausibile, ma non del tutto corretto sul piano rigorosamente storico, dire che quella italiana è una «Repubblica nata dalla Resistenza». Grazie alla Resistenza l’Italia, media potenza regionale, poté giocare sulla scena internazionale la sua tradizionale partita tesa a lucrare il massimo possibile anche nelle peggiori circostanze.

Scrive Gianfranco Pasquino: «I fascisti si schierarono con i nazisti, divenendo più che collaborazionisti, veri e propri traditori della patria. In questo senso è accettabile parlare di morte della patria quando i fascisti costituirono lo stato fantoccio noto come Repubblica di Salò». La Resistenza riscattò l’onore della Patria infangato dal ventennio fascista, come piace dire ai custodi del mito antifascista? E sia! Non ho nulla da obiettare a questa patriottica rappresentazione. Mi limito a ricordare a me stesso, come si dice, che gli anticapitalisti sono acerrimi nemici della Patria, a prescindere dalla sua contingente “sovrastruttura” politica, ideologica e istituzionale. Per questi “bizzarri” personaggi (naturalmente parlo soprattutto di me), oggi ampiamente minoritari in Italia e nel mondo, l’onore e la salvezza della Patria non rappresentano pane per i loro denti – mentre sono il veleno che la classe dominante somministra sempre di nuovo alle classi subalterne. Per questo il mio antifascismo non solo non ha niente a che fare con la Festa Nazionale che si celebra ogni 25 aprile che la democrazia capitalistica manda in terra, ma ne rappresenta l’esatto opposto. Tra l’altro, al 25 aprile del 1977 risale il mio primo scontro politico con gli stalinisti dell’ANPI, e allo stesso anno risalgono le mie prime bastonature da parte dei militanti del Fronte della Gioventù. Diciamo che anche in questo aneddoto c’è una logica – se non storica (siamo seri!), di certo politica, soprattutto in chiave autobiografica.

A questo punto, e mi scuso per l’artificio retorico, sarebbe inutile confessare a chi legge quanto il dibattito di questi giorni intorno alla ricerca di una “memoria condivisa” mi appaia una merce stravecchia (che Festa della Liberazione sarebbe senza una bella scaramuccia polemica tra destri” e “sinistri”?), avariata, repellente, maleodorante, in una sola e semplice parola: escrementizia. «Il 25 aprile appartiene a tutti gli italiani», si dice a “destra” come a “sinistra”; ed è esattamente per questo che non è la mia “festa” – nell’accezione politico-ideologica del concetto, perché alla tradizionale scampagnata con amici e parenti non ho mai rinunciato: Ora e sempre Scampagnata! So di offendere la buonanima di Piero Calamandrei ma poco m’importa. Mi interessa invece costatare che anche il Primo Maggio è stato di fatto statalizzato e liberato dai “vecchi” contenuti di classe, e questo soprattutto grazie alla “sinistra” politica e sindacale, da Togliatti e Di Vittorio in poi. E anche questo ha a che fare con la cosiddetta Liberazione.

Provo insomma a dare il mio modesto contributo alla demistificazione della “memoria condivisa” di cui sopra, e lo faccio attraverso la demistificazione del mito che il regime postfascista ha costruito intorno alla cosiddetta Resistenza. «Un Paese senza memoria è un Paese senza storia, come avvertiva già nel 1975 Pier Paolo Pasolini», ha scritto Antonio Polito sul Corriere della Sera del 21 aprile. Anche – e soprattutto – la logica del Paese (della Patria, o della Nazione, come ripetono fino alla nausea i Fratelli d’Italia) mi è del tutto estranea. Per «imparare le lezioni della storia», per dirla con il Presidente della Repubblica Mattarella, la sola memoria non basta: occorre che essa venga illuminata e orientata dalla coscienza critico-rivoluzionaria, perché gli eventi non vanno solo ricordati ma vanno soprattutto compresi nel loro essenziale (radicale) significato, e per far questo occorre uscire fuori dalla logica del Paese, che è la logica del dominio sociale. Evidentemente, e comprensibilmente, Mattarella ha in testa una memoria molto diversa, direi opposta, da quella che frulla in testa a chi scrive. Diciamo allora che anche la memoria non è e non deve essere politicamente neutrale. Se «La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi», come recita giustamente il titolo dell’articolo pubblicato sul Domani che Gianfranco Pasquino ha dedicato all’eterna Resistenza («In un certo senso, vista la necessità di profondi mutamenti sociali e culturali, è vero che la Resistenza deve continuare»), è altrettanto corretto dire che la memoria storica è la continuazione della lotta politica – e di classe – con altri mezzi.

Nella sua recente visita ad Auschwitz il Presidente Mattarella ha soprattutto denunciato la complicità dei regimi fascisti europei, a iniziare da quello italiano, nello sterminio di milioni di ebrei e di “indegni di vivere”. Quello che naturalmente egli non poteva dire è che il «regime sanguinario nazista» fu un prodotto 1. della lunga crisi sociale capitalistica che devastò la Germania uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, e 2. della logica imperialista che informava – e continua a farlo – le maggiori nazioni del mondo. «Oggi più che mai nel riproporsi di temi e argomenti che avvelenarono la stagione degli anni ‘30 del secolo scorso con l’infuriare dell’inumana aggressione russa all’Ucraina, la memoria dell’Olocausto rimane un monito perenne che non può essere evaso». Questo ha dichiarato Mattarella. Memoria, monito: ritornano sempre gli stessi concetti, concetti che la classe dirigente europea ripete ormai da quasi ottant’anni, in riti sempre più stanchi e distanti dalla sensibilità delle nuove generazioni. In un post di dieci anni fa dedicato ad Auschwitz scrivevo che «Se l’uomo non esiste, tutto il peggio è possibile – e altamente probabile». Qui per uomo intendevo la Comunità umanizzata, la cui genesi presuppone il superamento rivoluzionario della dimensione classista della storia, del processo sociale come si è dato fino ai nostri giorni. Solo all’interno di questo quadro concettuale la parola Liberazione assume per me un significato emancipativo, rivoluzionario, ostile a ogni mistificazione della pessima condizione umana. «Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore» (1).

Sempre nel citato Discorso sulla questione del libero scambio del 1848, Marx sostenne che «Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo» (2). Appoggiandomi indegnamente alla sua barba mi sento di dire che si può essere nemici del regime postfascista senza essere per questo amici del regime fascista. Di più: a mio avviso i due regimi vanno considerati, sul piano storico-sociale, tra loro in “dialettica” quanto radicale (sociale) continuità, come le due facce di una stessa medaglia, due diversi modi di organizzarsi dello stesso dominio di classe, quello capitalistico, appunto. Questa radicale continuità è ben mostrata dall’Art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Sul lavoro salariato, ossia sfruttato, mercificato, disumanizzato e disumanizzante: il lavoro salariato non rende né liberi, per richiamare la cinica promessa dei nazisti, né umani. Quanto alla «sovranità popolare», concetto squisitamente borghese (e quindi ostile alla realtà del dominio di classe), la lascio ai creduloni – che comunque rinvio ai miei diversi scritti dedicati alla democrazia capitalistica.

Lungi dall’essere stato un’aberrazione storica, una deviazione dal virtuoso cammino dell’italica nazione, il movimento fascista fu invece un prodotto genuino della società italiana, sempre considerata in un preciso contesto storico di respiro internazionale. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta del secolo scorso: «Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. […] Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (3). L’ordine totalitario sul piano politico-istituzionale si dà come “sovrastruttura” e strumento dell’ordine sociale totalitario, del sistema sociale, oggi di dimensione planetaria, basato sulla totalitaria “legge” del profitto. E questo vale anche per l’ordine democratico, per la democrazia capitalistica, la quale negli ultimi settantotto anni ha ottimamente servito il dominio capitalistico, e questo piccolissimo particolare va segnalato soprattutto ai professionisti dell’antifascismo militante, i quali vedono solo la pagliuzza dell’eterno e sempre ritornante/incombente fascismo, mentre non si avvedono della trave rappresentata dal Dominio di classe. E così, “emergenza antifascista” dopo “emergenza antifascista”, eccoci ancora qui a parlare dell’ennesima… “emergenza antifascista”!   

Il solo antifascismo che personalmente riesco a concepire ha dunque una natura radicalmente anticapitalistica, e quindi si tratta di un antifascismo che nella sostanza non si differenzia in nulla dalla mia ostilità nei confronti di ogni altra ideologia filo-capitalistica – soprattutto nei confronti di quelle che, falsamente e ridicolmente, si richiamano al “socialismo”, al “comunismo” e al “marxismo”: vedi lo stalinismo in tutte le sue varianti nazionali, a cominciare da quella cinese. Questo lo scrivo non per esibire chissà quale originalità o radicalità di pensiero, o per scandalizzare qualcuno, ma per rendere evidente la prospettiva da cui approccio la “problematica” resistenzialista. Quanto all’evocato stalinismo, ho sempre pensato che rispetto al fascista lo stalinista ha una “colpa” in più: egli chiama “comunismo” (per la gioia dei fascisti!) la sua ultrareazionaria ideologia. Lo stalinismo è stato di gran lunga il miglior alleato degli anticomunisti, i quali ovviamente hanno potuto contare sulla miserabile realtà del cosiddetto “socialismo reale”, cioè del reale capitalismo edificato in Russia ai tempi dell’Unione Sovietica (4) e in Cina ai tempi di Mao Tse-tung e di Xi Jinping – e qui, a dire il vero, le cose si complicano per i detrattori del “comunismo”, visto che il Celeste Imperialismo si è arrampicato sul tetto del mondo e oggi insidia il primato capitalistico degli Stati Uniti, motore e gendarme della “civiltà occidentale”.

Quest’anno la celebrazione resistenzialista “cade” in un momento politicamente particolare, ossia quando gli eredi del Movimento Sociale Italiano, che non faceva certo mistero di richiamarsi al fascismo “repubblichino” (la Repubblica di Salò come reazione alla «morte della Patria» avvenuta l’8 settembre del ‘43), sono al governo in un ruolo centrale, e non marginale, com’era accaduto ai tempi di Gianfranco Fini – il cui partito, come si ricorderà, fu fagocitato da Forza Italia circa quattordici anni fa. La cosa mentre lascia del tutto indifferente chi scrive, probabilmente suscita nella cosiddetta sinistra sentimenti contrastanti, perché se da un lato non può certo rallegrarsi del successo elettorale della “destra destra”, d’altro canto essa vede nel governo Meloni l’occasione per rinverdire l’appassita pianta dell’antifascismo militante: «Ora e sempre Resistenza!»  Insomma, con un governo di “destra destra” l’antifascismo militante viene molto meglio. Auguri! O condoglianze, punti di vista, come sempre. C’è poi chi individua nell’aggressione russa dell’Ucraina e nella «eroica resistenza del popolo ucraino» accadimenti che gettano una vivificante luce sulla Resistenza e sulla guerra di liberazione di quasi ottant’anni fa. «Sono convinto che alla fine di questa guerra anche l’Ucraina avrà una nuova festa, come il 25 aprile in Italia». Lo ha dichiarato il sindaco di Kramatorsk, Oleksandr Honcharenko, in un’intervista all’Ansa. «Lo spirito della Liberazione oggi vive a Kiev», ha detto, forse non del tutto a torto, qualcuno. Su questo particolare aspetto “resistenziale” rinvio al post La guerra in Ucraina vista da Zimmerwald e, in generale, ai miei scritti dedicati alla guerra sistemica (o imperialista) internazionale che si combatte con le armi in Ucraina – mentre si prepara un altro conflitto armato nel Pacifico, dove pare che stiano convergendo, a titolo “puramente dimostrativo”, anche assetti navali italiani.

Quella che si celebra il 25 aprile di ogni anno è probabilmente fra le più significative delle feste comandate (o Nazionali) che la democrazia capitalistica di questo Paese organizza per i suoi cittadini. Non a caso si parla della cosiddetta Liberazione nei termini di un «mito fondante». E in effetti di vero e proprio mito si deve parlare. Così com’è corretto parlare, dal punto di vista di chi scrive, di cosiddetta Liberazione, un’etichetta appiccicata alla guerra dai vincitori – i quali occuparono l’Italia per liberarla dai tedeschi e dai loro alleati italiani rimasti fedeli al morente fascismo. Si “liberava” il Paese dal vecchio regime e dalla sua vecchia collocazione geopolitica per dargli un nuovo regime politico-istituzionale e una nuova alleanza imperialista. Va da sé che il nuovo regime doveva entrare in perfetta sintonia con la nuova alleanza che si era imposta con la forza sul nazifascismo: via dunque il regime fascista, avanti il regime antifascista. Il «mito fondante» è chiamato a dare a questa violenta e drammatica “transizione” un significato positivo per il Paese sconfitto e stremato, ed è così che la responsabilità della guerra e – soprattutto – della sconfitta fu attribuita in esclusiva al regime fascista (e non alla classe dominante italiana nel suo complesso), mentre al passaggio nel campo della democrazia occidentale, avvenuto a forza di bombardamenti aerei e navali, venne dato il carattere di una libera scelta, la libera scelta compiuta, ovviamente, dalle “forze migliori” del Paese, le quali si palesano per fortuna (o per opportunismo?) soprattutto nei momenti tragici della storia nazionale. Il Comitato di Liberazione Nazionale doveva dare a queste forze un preciso orientamento politico e un ferreo inquadramento organizzativo.

Scriveva Maurizio Stefanini sul Foglio del 25 aprile 2004: «“Siamo comunque grati agli americani per averci liberato, col concorso dei partigiani”. Curiosamente in un centro sinistra che spara contro Bush per la sua visita del 4 giugno, è quasi Fausto Bertinotti quello che si mostra più pacato. Ma anche lui usa poi un giro di parole la cui implicazione sembra essere che il lavoro sia stato per lo meno fifty-fifty, se non che addirittura siano stati i partigiani a fare lo sforzo principale. Prima ancora di essere il mito fondante dei partiti della Prima Repubblica, e in particolare del Pci, questo assunto fu fatto proprio dallo stesso Stato italiano, proprio per ottenere condizioni di pace meno gravose. “Anche l’Italia ha vinto”, era il famoso titolo di un numero speciale del 1945 del Mercurio, rivista culturale allora di grande prestigio». Come stanno davvero le cose?

Come attestano moltissimi libri dedicati alla guerra partigiana scritti da studiosi estranei alla mitologia resistenzialista, la Resistenza ebbe soprattutto un’importanza politica, verificabile sul piano della politica interna e, soprattutto, su quella estera, mentre il suo apporto specificamente militare alla “liberazione” del Paese fu modesto, se non marginale, e comunque certamente non decisivo. «Conclusione: senza i partigiani, gli Alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli Alleati, la Resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare». A scriverlo è sempre Stefanini. Il fascismo non cadde il 25 luglio 1943 ad opera della Resistenza antifascista, ma a causa di una resa dei conti interna allo stesso regime fascista, una volta che la sconfitta militare dell’Italia appariva ormai inevitabile; si trattava piuttosto di determinarne le dimensioni e il significato complessivo sul piano interno e internazionale. Già nel 1942 si erano attivate dentro il Partito Fascista e nel seno della monarchia forze ostili alla permanenza di Mussolini al potere, tant’è che lo stesso Duce non si stupì più di tanto quando la fronda “antifascista” si palesò alla luce del sole. Lo stesso assetto politico-istituzionale del regime fascista rendeva impraticabile una soluzione di continuità graduale e non traumatica, che infatti non ebbe luogo. Com’è noto, la Resistenza prese corpo solo dopo l’8 settembre 1943.

Quando il 23 gennaio del ’43 gli inglesi entrano a Tripoli, Mussolini fu costretto a togliere, su precisa e sempre più incalzante indicazione del Re, il generale Cavallero dal vertice dello Stato Maggiore, per rimpiazzarlo con Vittorio Ambrosio, un generale piemontese molto vicino agli ambienti monarchici e ostile ai tedeschi. Il Duce avvertì chiaramente il segnale di sfiducia, se non ancora di aperta ostilità, alla sua persona che partì dal Quirinale. Più il fascismo si indeboliva, più si rafforzava il ruolo politico-istituzionale della monarchia, notoriamente non particolarmente amata e stimata dal “Duce del Fascismo”, il quale aveva sempre sofferto l’ingombrante figura del “monarca nano”. Da quel momento dentro il regime vi fu un succedersi sempre più confuso e contraddittorio di movimenti politici dal significato tuttavia inequivocabile: bisognava “licenziare” Mussolini per salvare ciò che rimaneva del regime fascista. Al peggio, bisognava sbarazzarsi (liberarsi) anche dello stesso fascismo, la cui vitalità politica e ideologica sembrava esaurirsi a una velocità vertiginosa, impressionante, come sempre del resto accade a tutti i fenomeni sociali e politici nei momenti critici, quando il processo storico-sociale subisce una violenta accelerazione.

Alla vigilia dell’incontro di Belluno (detto di Feltre) del 19 luglio fra Hitler e Mussolini, organizzato per discutere della situazione che si era venuta a determinare dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia del 10 luglio («Li fermeremo sul bagnasciuga», aveva detto con inconsapevole comicità Mussolini), il Generale Ambrosio parlò al Duce con brutale franchezza: solo uscendo immediatamente dal conflitto l’Italia avrebbe potuto salvarsi dalla catastrofe imminente. Ambrosio precisò che anche Vittorio Emanuele la pensava allo stesso modo. Non c’era tempo da perdere: per la «suprema decisione» bisognava contare i giorni, forse perfino le ore, non certo i mesi. Mussolini gli confessò che da tempo egli si arrovellava il cervello su come rompere l’alleanza con la Germania senza provocare la sua terribile reazione, ma che non riusciva a trovare una soluzione, una possibile via di fuga plausibile, se non effettivamente possibile. Evidentemente l’ex capo del fascismo si sentiva sovrastato da forze che non riusciva neanche lontanamente a controllare, e forse nemmeno a capire, e il suo mitico corpo, quel corpo che tanto aveva affascinato le masse (o il gregge), che così bene egli aveva saputo vendere all’opinione pubblica nazionale (e non solo), non riusciva a nascondere nemmeno un po’ il suo disperato senso di impotenza.

Durante l’incontro del 19 luglio, monopolizzato dalle violente invettive hitleriane contro l’«inetto esercito italiano», Mussolini ebbe un improvviso crollo fisico e psichico, anche perché nel frattempo Roma era stata pesantemente bombardata dagli angloamericani. Tra l’altro Hitler era stato debitamente informato da Heinrich Himmler circa le manovre orchestrare da Vittorio Emanuele III per sostituire Mussolini con Pietro Badoglio. Nell’ultima riunione del gabinetto del governo fascista, tenutasi il 19 giugno 1943, il senatore Vittorio Cini, Ministro delle Comunicazioni e massimo rappresentante dell’industria italiana nel Partito Fascista, attaccò senza mezzi termini il suo Primo Ministro, dicendogli che doveva trovare il coraggio di portare il Paese fuori dal conflitto. L’azzardo che il Duce aveva tentato tre anni prima confidando maldestramente in una rapidissima quanto trionfale vittoria delle armate tedesche in ogni parte d’Europa era miseramente fallito, e adesso toccava a Lui rimediare. Come si dice, la vittoria ha molti padri, mentre la sconfitta è sempre colpa degli altri. D’altra parte Mussolini aveva mostrato di fidarsi fin troppo del proprio – supposto – genio strategico, e questo errore di valutazione sulla propria persona probabilmente costituì per lui il colpo più duro. Cini comunque non aspettò le decisioni del suo ex Capo, e dopo la riunione si dimise. Era tempo di cambiare cavallo, tanto più che Mussolini appariva ormai come un pugile suonato incapace di reagire ai colpi che il nemico gli assestava sempre di nuovo.

La borghesia italiana che aveva finanziato, protetto e coccolato il fascismo affinché il suo manganello spezzasse definitivamente le reni al proletariato industriale e ai contadini salariati radicalizzati dalla crisi economico-sociale postbellica e dall’esempio sovietico (ma sfiancati dall’intelligente “manovrismo” giolittiano fatto di piccole concessioni e di grandi promesse), e che lo aveva sostenuto nelle sue velleità di potenza sperando di trarne enormi vantaggi economici, adesso lo lasciava cadere miseramente nella polvere affinché, gattopardescamente, tutto politicamente cambiasse per salvare l’essenziale: il suo dominio di classe. Esattamente com’era accaduto agli inizi degli anni Venti con il fascismo in ascesa (successo reso possibile anche dal “patto di pacificazione” con i fascisti dell’agosto 1921 voluto dal Partito Socialista Italiano), il periodo della Resistenza antifascista segnò il successo della classe dominante colta nella sua totalità – cioè a prescindere dalla sorte di alcune sue frazioni, di alcuni suoi individui o gruppi di individui, sacrificabili “per il bene supremo del Paese”. Il regime fascista e Mussolini non potevano certo rappresentare un’eccezione all’aurea regola. Solo formalmente la caduta del fascismo fu quindi l’esito di una lunga “congiura di palazzo” culminata nella “sfiducia” espressa dal Gran Consiglio al Duce votando il famoso Ordine del giorno presentato da Dino Grandi nella notte tra il 24 e il 25 luglio del ’43. La “congiura” fu il risultato di forze storico-sociali esorbitanti la volontà di chicchessia.

Subito dopo il 25 luglio la divisione della classe dirigente italiana in due ben distinte configurazioni politiche (a Nord alleanza con la Germania nazista, a Sud alleanza con le potenze angloamericane) non fu solo il frutto della divisione del Paese realizzata dagli eventi bellici, ma fu anche, se non soprattutto, il risultato dell’”ambiguità strategica” di fondo che ha sempre, dall’Unità nazionale in poi, caratterizzato la borghesia italiana, sempre pronta a seguire la corrente internazionale più forte e più promettente del momento per inseguire le sue esagerate (rispetto alla sua reale forza economica) ambizioni. Essa cessò di giocare sui due contrapposti tavoli geopolitici, nei quali aveva giurato “fedeltà eterna” all’alleato di turno, solo quando si convinse definitivamente (e non ci volle molto tempo per farlo) che la Germania non avrebbe più potuto ribaltare la situazione sul fronte, e che quindi bisognava abbandonarla istantaneamente al suo triste destino per non finire inghiottita con essa nel gorgo della disfatta totale – come capiterà in sorte anche al Giappone, che peraltro dovette sperimentare, come tragica e mai più ripetuta anteprima assoluta, l’apocalisse nucleare. Avvezza al doppio, e qualche volta anche al triplo gioco, la classe dominante italiana ha saputo far fronte meglio di quella tedesca e di quella giapponese alla superiorità militare dei “liberatori”. Superiorità che esprimeva nella forma più violenta e appariscente la superiorità sistemica (economica, tecnoscientifica, ideologica) degli ex nemici diventati nel frattempo gli amici di oggi e di domani – sempre per “libera e democratica scelta”, si intende. Qui siamo appunto alla costruzione del mito antifascista.

Per Renzo De Felice Mussolini fece un’opposta ma analoga considerazione: egli avrebbe accettato, sia pure dopo mille esitazioni e sempre in modo estremamente riluttante, di mettersi alla testa della  Repubblica Sociale Italiana,  costituitasi a Salò il 23 settembre ‘43, «nella convinzione, in primo luogo, che solo così sarebbe stato possibile evitare che Hitler facesse dell’Italia occupata una sorta di Polonia e, in secondo luogo, che la sua presenza avrebbe potuto rendere meno pesante il regime di occupazione e impedire l’annessione di territori italiani al Reich» (5). In ogni caso, ben presto Mussolini capirà perfettamente di essere nelle mani dei tedeschi più come una loro sciocca marionetta, che in qualità di alleato degno di rispetto e di fiducia, come invece gli diceva, per rincuorarlo, Claretta Petacci. La sua liberazione ad opera dei tedeschi da Campo Imperatore, avvenuta in circostanze a dir poco “rocambolesche” nel settembre ’43, ebbe molto il senso di una cattura, la cattura di una preda ferita e umiliata che si sarebbe prestata docilmente alle cure dei suoi “liberatori”.

Il mito fascista post 25 luglio parla di tradimento (soprattutto da parte della monarchia), di destino cinico e baro, di sabotaggi organizzati da una borghesia pronta a vendersi al nemico di ieri per un piatto di lenticchie, e che per questo meritava la “socializzazione” dell’economia approntata in fretta e furia dagli economisti ancora fedeli al Duce. Anselmo Vaccari, in un rapporto diretto a Mussolini, confessò che «I lavoratori considerano la socializzazione come uno specchio per le allodole, e si tengono lontano da noi e dallo specchio. Le masse ripudiano di ricevere alcunché da noi» (6). Diciamo pure che c’era un limite a tutto, anche alla spregiudicata demagogia fascista. In ogni caso, alla “sinistra fascista”, che era stata emarginata per due decenni dal capo del fascismo italiano, non parve vero di poter riprendere dalla soffitta la dismessa fraseologia “antiborghese” dei vecchi tempi. Nel caos generale il mito della “rivoluzione fascista tradita” affascinò non pochi giovani alla ricerca di un’identità politica e ideologica a cui aggrapparsi in tempi molto bui e tempestosi; alcuni di questi giovani faranno poi un’eccellente carriera come intellettuali (scrittori, saggisti, professori, attori, registi, cantanti), esibendo peraltro quasi tutti  un’impeccabile pedigree antifascista.

«Meglio morire che tradire!» E infatti molti giovanissimi “repubblichini” (di fatto i primi combattenti repubblicani dell’Italia moderna) moriranno, portandosi dietro  non pochi coetanei che militavano dal lato opposto della barricata: «Meglio morti che fascisti!» Tutto sangue versato in nome della Patria, cioè del dominio sociale capitalistico – italiano e mondiale. «Ma il male minore allora dove stava? Non stava forse dalla parte delle potenze democratiche?» Confesso un mio grande limite (uno dei tanti): sul piano della riflessione storica e sociale non riesco proprio a ragionare nei termini di “male minore” e di “nemico principale”. Infatti, dalla storia del processo sociale capitalistico ho tratto la convinzione che la strada che porta al male maggiore è lastricata di “male minore”. «Coloro che scelgono il male minore, dimenticano molto rapidamente di aver scelto il male», scrisse una volta Hannah Arendt. E questo vale anche per la guerra in corso in Ucraina. Ci sono “compromessi politici” che equivalgono a una resa incondizionata al nemico – di classe.

Dopo il miserabile crollo del fascismo, causata dalla soverchiante forza degli anglo-americani, l’Italia “scoprirà” improvvisamente la sua vocazione democratica e antifascista, e abbraccerà il nuovo corso politico-istituzionale con lo stesso zelo con cui si era stretta solo qualche anno prima intorno al Duce nelle celebri fascistissime adunate oceaniche: «Duce! Duce! Duce!». Che l’ex capo del regime si sentisse tradito e abbandonato dagli italiani è più che comprensibile, se si prende in considerazione il suo punto di vista e la sua mentalità. D’altra parte la ragione pende sempre dalla parte di chi vince, e il torto sempre dalla parte di chi perde, e questo Mussolini lo sapeva benissimo. «La massa ama gli uomini forti. La massa è donna», aveva confidato allo storico tedesco Emil Ludwig nei suoi colloqui del 1932 (7). Dopo il 25 luglio del ’43 la sua debolezza era fin troppo palese, ed egli non ne fece mistero neanche con se stesso, come si evince dal suo carteggio con l’amata Claretta, che lo incitava a non abbattersi e a nutrire fiducia nelle proprie capacità di statista di livello mondiale e nell’amico Adolf. Più facile a dirsi che a farsi, gli rispondeva Ben, sempre più convinto, a quanto pare, a consegnarsi nelle mani degli inglesi, che sempre gli avevano riconosciuto la statura di leader politico europeo e, soprattutto, di brutale nemico del proletariato rivoluzionario, degli odiati rossi. Gli elogi di Churchill su questo punto sono ben noti.

La dittatura militare instaurata dal Re dopo le “dimissioni” di Mussolini del 26 luglio fece subito le sue vittime proletarie: a Reggio Emilia il 28 luglio i soldati aprirono il fuoco sugli operai delle Officine Reggiane, uccidendone 9; lo stesso giorno a Bari si registrarono 9 morti e 40 feriti. Nei giorni successivi si aggiungeranno altri morti, feriti e arrestati (1.500 in soli cinque giorni, dopo il 25 luglio). La Circolare diramata il 26 luglio dal Capo di stato maggiore Mario Roatta su ordini del Re, prevedeva l’immediata fucilazione anche di chi si fosse limitato a solidarizzare con chi avesse semplicemente proferito insulti contro le forze armate e di polizia. La guerra contro gli oppressi continuava!

Crollato miseramente il regime fascista, evaporata l’autorità della monarchia, che quel regime aveva sostenuto fin dall’inizio, disgregato e disperso l’esercito italiano, inceppato quasi del tutto il meccanismo economico: la Resistenza organizzata e diretta dal CLN rappresentò il tentativo, riuscito, della classe dominante italiana di salvare il salvabile e iniziare a porre le condizioni della futura rinascita del capitalismo nazionale. In particolare si trattava, come già detto, di saltare sul carro dei vincitori per cercare di strappare condizioni di resa che fossero il meno pesanti possibile. «Oggi – si legge nel manifesto del CLN del 9 settembre – per i figli d’Italia c’è un solo fronte: quello contro i tedeschi e contro la quinta colonna fascista. Alle armi!». Oggi, appunto. Appena ieri «per i figli d’Italia» c’era stato un altro fronte a difesa del quale bisognava sacrificarsi e morire. Solo ieri la «quinta colonna» era stata rappresentata dall’antifascismo, che invece oggi non solo era permesso dal nuovo regime in formazione, ma diventava addirittura obbligatorio: che straordinario ribaltamento di fronte! E soprattutto che cinismo. Ciò che non mutava di un solo atomo nello spericolato “salto della quaglia” qui sinteticamente rappresentato, e divenuto ben presto proverbiale in tutto il mondo, era ovviamente la natura capitalistica del dominio sociale: su questo fondamentale e decisivo terreno la continuità fra vecchio e nuovo regime fu assoluta. A dire il vero, la continuità tra i due regimi coinvolse anche diversi e importanti aspetti della vita nazionale, riguardanti soprattutto la struttura economica del Paese (il ruolo dello Stato e delle corporazioni sociali, sindacato compreso) e gli apparati repressivi dello Stato (giustizia, polizia, servizi segreti) (8).

Per accreditare il Paese come meritevole della fiducia dei nuovi padroni, pardon, alleati, il CLN chiederà «il sacrificio dei suoi figli», così da rendere se non credibile quantomeno accettabile agli occhi delle Potenze mondiali che combattevano «sotto le bandiere della libertà» la colossale balla secondo la quale l’Italia era «stata trascinata contro la sua volontà all’alleanza con la Germania» (Comunicato del 29 gennaio 1944). Come se esistesse un’entità astratta chiamata Italia, la quale sarebbe stata appunto traviata e ingannata dai cattivi di turno. In realtà all’azzardo mussoliniano («Mi servono poche miglia di morti per potermi sedere da vincitore al tavolo della pace») non diedero alcun credito solo pochissimi alti generali, che ben conoscevano l’impreparazione del Regio Esercito ad affrontare una guerra anche di limitate proporzioni e dalla breve durata. La borghesia assaporava già la facile vittoria e il popolo (o gregge che dir si voglia) ne condivideva l’ottimismo: «Duce! Duce! Duce!» Da Palazzo Venezia a Piazzale Loreto il viaggio non è stato poi così lungo.   

 Quei morti che Mussolini non ottenne per sedersi al tavolo della “pace” in qualità di vincitore, li otterrà dunque De Gasperi per sedersi a quel tavolo in qualità di sconfitto ma amico dei vincitori. Che italica astuzia!

«Il consenso non cade di colpo con l’entrata in guerra, ma gradualmente e attraverso molte oscillazioni; la fiducia nel fascismo entra in crisi non per l’iniziativa dell’antifascismo, debolissima e quasi assente, ma per corrosione dall’interno, in relazione ai disagi economici e alimentari, alla corruzione del regime e soprattutto ai disastri militari. In conclusione il mito della Resistenza, legato all’idea di una Italia che ha subito il fascismo e che se ne è liberata per volontà e guerra di popolo è servito alla classe dirigente di fronte ai vincitori; è servito agli italiani sul piano psicologico; ma non risponde che per una parte limitata alla realtà: non si può proiettarlo validamente verso il futuro. Il fascismo è stato sconfitto, ma le armate alleate sono state l’elemento decisivo di questa sconfitta. L’eredità del fascismo è destinata a durare a lungo nel profondo della società italiana e con essa la democrazia italiana dovrà misurarsi» (9). A differenza di quanto hanno propagandato per decenni i custodi del mito antifascista, i documenti dell’epoca dimostrano in modo inoppugnabile che la guerra partigiana diventa un «movimento popolare di massa» solo nelle settimane immediatamente precedenti la capitolazione dei tedeschi, quando cioè la vittoria degli Alleati appare ormai certa. La chiamata all’«insurrezione popolare» nella primavera del 1945 da parte del CLN Alta Italia ebbe soprattutto il significato di un’iniziativa politica intesa a “mettere il cappello” sulla vittoria degli Alleati (10). E all’interno di questa intelligente strategia i “comunisti” cercarono di presentarsi all’opinione pubblica nazionale come i veri vincitori, potendo contare sul loro cospicuo numero, maggioritario rispetto alla concorrenza politica (soprattutto di matrice azionista), e sulla loro superiore capacità organizzativa, temprata in anni di clandestinità e di lotta: vedi la guerra in Spagna. Anche per questo i “comunisti” diventarono subito i più ostinati, intransigenti e ottusi sacerdoti del mito resistenzialista; essi relegarono il contributo dato alla Resistenza dai cosiddetti “partigiani bianchi” in uno spazio davvero residuale, e alimentarono nella destra italiana il contro-mito di una Resistenza sostanzialmente “rossa e comunista”, più che tricolore e antifascista.

Giustamente i “comunisti” sono stati accusati dagli antifascisti “bianchi” di voler egemonizzare per fini politico-ideologici il mito della Resistenza (11), cosa che risultava ai loro occhi tanto più disdicevole se si considerava il fatto che la Russia Sovietica e i loro sodali italiani erano certamente antifascisti ma altrettanto certamente non antitotalitari: «I comunisti italiani volevano fare come in Russia!».  Senza contare che la guerra mondiale era iniziata con Hitler e Stalin nella veste dei fraterni amici (12), e che se non fosse stato per l’errore commesso da Hitler il fatale 21 giugno 1941 chissà quale storia staremmo oggi raccontando… Di questa “guerra civile ideologica” si trovano ampie tracce anche nel dibattito politico e parlamentare che ha preceduto il 25 aprile di quest’anno: «I partiti di governo chiedono agli avversari l’abiura dei totalitarismi, anche e soprattutto del comunismo. Ma anche su questo punto le strade non si incontrano. Il Pd risponde: “I comunisti italiani hanno avuto nella nostra storia doppiezze e contraddizioni, ma si sono battuti per la libertà”» (Ansa).  Qui è solo il caso di dire che non la marxiana dittatura rivoluzionaria del proletariato avevano in testa gli stalinisti italiani, ma piuttosto la dittatura capitalistica in salsa russa (o “sovietica”), da aggiustare poi secondo la realtà italiana, come prevedeva la teoria del “socialismo nazionale” (o socialnazionalismo) codificata a Mosca negli anni Trenta. Naturalmente questa sottigliezza storica e “dottrinaria” non dice niente agli antifascisti ligi alla Patria, non importa se “bianchi”, “rossi”, “neri” o “gialli”. Le «doppiezze» e le «contraddizioni» del Pci si giocarono interamente sul terreno della difesa intransigente della società capitalistica, ed è per questo che “comunisti” e “anticomunisti” avevano (e hanno) fra loro più cose in comune di quanto fossero (e siano) disposti ad ammettere o semplicemente a sospettare. L’immagine delle due facce di una stessa medaglia anche qui soccorre benissimo a sintetizzare complessi ragionamenti: l’economia di pensiero non è necessariamente una cosa cattiva!

Gli scioperi nelle fabbriche del Nord del marzo 1943, che ebbero un carattere sostanzialmente rivendicativo (aumenti salariali, riduzioni di orario, migliori condizioni di lavoro), non furono affatto un preannuncio della Resistenza, come diranno più tardi gli artefici del mito resistenzialista, ma per la classe dominante italiana essi rappresentarono un drammatico annuncio di sventura, un campanello d’allarme circa la pericolosa piega che avrebbe potuto prendere la crisi economico-sociale resa esplosiva dai rovesci bellici. Dal caos generale, dalla catastrofe economica e dalla crisi morale delle masse sarebbe potuto venire fuori un poderoso movimento rivoluzionario, e questa prospettiva naturalmente non poteva non spaventare la classe dominante, soprattutto nel momento in cui il bastone fascista si era ormai del tutto infradiciato politicamente e ideologicamente, e risultava perciò inservibile per contenere, cavalcare e reprimere una sempre possibile ondata rivoluzionaria. La classe dominante è avvezza a non escludere mai, in linea di principio, le possibilità di quel tipo: essa preferisce sopravvalutare il nemico interno, anziché correre il rischio di sottovalutarne la forza e le capacità. La soluzione rivoluzionaria della crisi sociale è insomma uno spettro che la classe dominante ha sempre dinanzi agli occhi.

Fu piuttosto la monarchia e la fronda fascista a politicizzare quegli scioperi in chiave antimussoliniana, per dimostrare che il regime da lui diretto per due decenni aveva perso il consenso degli operai, fatto estremamente grave in un momento particolarmente critico della guerra.

Scriveva Renzo Del Carria: «Alla fine del settembre 1943 in Italia le masse popolari, se giustamente dirette, avrebbero potuto iniziare la loro “rivoluzione interrotta” che le avrebbe potute portare nel giro di qualche decennio a costituire il loro stato (degli operai, dei contadini e del ceto medio) perché tutti gli elementi della dittatura di classe si erano in quel momento dissolti sotto la spinta dell’invasione e della propria inettitudine (13). Al mito resistenzialista bisogna aggiungere quello, non meno rognoso e certamente più risibile, della «Resistenza tradita».  La genesi di questo mito è da ricercare soprattutto nell’ala stalinista più oltranzista (più “dura e pura”) del Pci, la quale rivendicò per l’Italia un immediato passaggio al “socialismo” di stampo sovietico (nel senso di russo, non di rosso), un esito a essa precluso dalla nuova collocazione geopolitica del Paese – peraltro pienamente accettata da Mosca e, per suo tramite, da Togliatti. Negli anni Settanta del secolo scorso furono soprattutto le Brigate Rosse a sostenere la necessità di completare l’opera lasciata incompleta dai «partigiani rossi» negli anni della Resistenza, a dimostrazione di quanto fosse forte il legame del “partito armato” con la tradizione stalinista del Pci. Non a casa Rossana Rossanda evocò il famigerato «album di famiglia» – al quale mi onoro di non aver mai fatto parte. Ingannata, più che tradita, fu allora la classe subalterna italiana e internazionale; ma l’inganno ai suoi danni da parte dello stalinismo si era consumato molti anni prima, quando la terminologia della tradizione socialista e comunista fu usata dalla Chiesa Moscovita e dai suoi fedeli sparsi in tutto il mondo per “declinare” una prassi che con il socialismo e il comunismo non aveva nulla a che spartire ma ne era anzi l’esatto opposto. Ecco perché le bandiere rosse sventolate allora dai «partigiani rossi» non mi hanno mai commosso, né inorgoglito o entusiasmato, tutt’altro. Non basta sventolare le bandiere rosse, cantare l’Internazionale, e portare in processione i sacri ritratti di Marx, Engels e Lenin (e magari pure quelli di Stalin e Mao!) per essere dei comunisti. Penso anche che i cortei che celebrano il 25 aprile che non accettano le bandiere degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Brigata Ebraica esibiscono una profonda ignoranza storica e una faziosità ideologica che la dice lunga sui censori, molti dei quali agitano le bandiere rosse come drappi esorcistici. Ma ritorniamo alla «rivoluzione tradita».

Chi rimprovera al Pci di non aver saputo o voluto approfittare della crisi sociale prodotta dalla guerra e poi dalla caduta del regime fascista «per fare la rivoluzione» non considera, a prescindere da ogni altra considerazione, un piccolo particolare: quel Partito non solo non era un soggetto rivoluzionario, ma dalla fine degli anni Venti in poi ebbe un carattere decisamente (radicalmente) controrivoluzionario, proprio in quanto espressione della controrivoluzione stalinista iniziata in Russia nella seconda metà degli anni Venti e radicalizzatasi nel decennio successivo – anche con metodi estremamente oppressivi, violenti, sanguinari (14). Il Pcd’Italia nato nel gennaio 1921 sotto gli auspici della rivoluzione proletaria mondiale non esisteva più (come d’altra parte non esisteva più, se non sul mero piano formale, il Partito Bolscevico di Lenin: sulle sue ceneri nacque quello di Stalin): il fascismo lo aveva distrutto fisicamente, lo stalinismo lo distruggerà anche (ma non solo!) politicamente e ideologicamente. Che senso ha rimproverare a un partito controrivoluzionario (o, più semplicemente, borghese) di non aver voluto organizzare una bella rivoluzione anticapitalista? La cosa non ha certamente alcun senso, mentre dice molto sul tipo di “rivoluzione” che hanno in testa certi “comunisti”.

Un’ipotetica soluzione rivoluzionaria della crisi che dal ’43 al ’45 devastò l’Italia si sarebbe scontrata anche con il Partito di Palmiro Togliatti, la cui politica esprimeva in modo sintetico, e spesso contraddittorio, l’alleanza imperialistica tra gli angloamericani e i russi – che come dimostrò la guerra civile spagnola erano interessati a espandere l’influenza politica dell’Unione Sovietica, non certo a preparare “rivoluzioni proletarie” a destra e a manca, la cui possibilità anzi ostacolarono in tutti i modi, anche uccidendo i militanti autenticamente rivoluzionari. Già nel 1938, ad esempio, la direzione del Pci sostenne la necessità di liquidare, all’occorrenza anche fisicamente, i “trotskisti” e i “bordighisti”, accusati di essere «spie al soldo dei fascisti e degli imperialisti» – gli stessi imperialisti con i quali i “comunisti” si alleeranno qualche anno dopo! Nel dicembre 1945 l’Unità ricordava con orgoglio che il Pci aveva sostenuto «la fucilazione dei trotskisti russi», e stigmatizzava quei compagni italiani che «considerano ancora in buona fede il trotskismo come una corrente della classe operaia». «In tal senso, è emblematico l’appoggio del PCI all’ordine del colonnello alleato Graham Chapman contro gli scioperi nell’Italia liberata, con punizioni prevedenti anche la pena di morte per gli scioperanti» (16).

La cosiddetta svolta di Salerno non fu affatto una radicale svolta politica, ma piuttosto l’esito coerente della politica stalinista praticata dal Pci ormai dai tempi della famigerata “bolscevizzazione” dei Partiti “comunisti”, i quali si convertiranno alla fede moscovita. Le poche obiezioni che allora si levarono dentro quel Partito, saranno marginalizzate e poi superate assai rapidamente, a dimostrazione proprio della sua natura radicalmente stalinista, la quale in quella circostanza storica esigeva dai “comunisti” italiani l’accettazione degli equilibri interimperialistici realizzati dalla guerra, ossia la spartizione del mondo operata dall’alleanza anglo-russo-americana. 

Se Togliatti dimostrò di essere più realista del Re (e di Badoglio), i suoi oppositori di “sinistra” interni al Partito furono più stalinisti di Stalin – che difatti li abbandonò al loro miserrimo destino, che fu quello di ritornare mestamente, previa la solita “sincera e spregiudicata autocritica”, a lustrare le scarpe al Migliore. «Compagno Stalin, noi attendiamo a Roma il glorioso esercito rosso!», si legge sul giornale Spartaco pubblicato nel 1944 a cura di un fantomatico Partito Comunista Indipendente che criticava “da sinistra” il Pci. Addavenì Baffone! Alcuni in Italia lo stanno ancora aspettando – e intanto ingannano l’attesa sostenendo i successi ottenuti da Putin e Xi Jinping contro l’ordine mondiale centrato sull’«Occidente collettivo» a guida americana.

I pochi ma eroici, detto senza alcuna enfasi, militanti comunisti che cercarono di organizzare una lotta armata anticapitalista (e in questo peculiare senso anche antifascista) si scontrarono in primo luogo con le forze della repressione organizzate dal Pci, e alcuni di loro trovarono anche la morte per mano degli stalinisti, zelanti servitori degli interessi nazionali – ma sempre con un occhio rivolto a Mosca!  

 Non nego affatto che tra il 1943 e il 1945 si siano verificati in Italia diversi episodi di lotta autenticamente classista; sostengo invece che queste significative eccezioni non potevano modificare il significato storico-sociale complessivo di ciò che chiamiamo Resistenza. A me pare che ai pochi autentici comunisti rimasti allora sul terreno della lotta di classe (e quindi sopravvissuti alla congiunta repressione fascista e stalinista) il problema si ponesse nei “semplici” termini che seguono: come trasformare la guerra partigiana in guerra civile rivoluzionaria? Questa trasformazione era un obiettivo realistico, aveva davvero una possibilità? Mi sono fatta la convinzione, che naturalmente sono pronto a rivedere sulla base di nuove letture, di nuovi studi, che allora quell’obiettivo non avesse nessuna possibilità di successo, sebbene non disprezzo affatto, tutt’altro, chi si mosse in quel senso, magari solo per lasciare una importante testimonianza politica alle nuove generazioni: ben fatto! Bisogna anche considerare che chi scrive lo fa post festum, a cose fatte, sulla scorta del comodo senno di poi, mentre chi ottant’anni fa agì “dal vivo” probabilmente non poteva abbracciare con lo sguardo la complessa totalità del quadro.

L’elemento a mio avviso decisivo che milita a favore di quell’impossibilità va ricercato soprattutto nella sconfitta patita dal movimento operaio italiano – e internazionale – a opera del fascismo e dello stalinismo, che ne stroncarono la capacità di iniziativa politica autonoma, e non fu certo un caso se il proletariato italiano accettò praticamente senza fiatare, prima la guerra iniziata dal regime fascista in alleanza con quello nazista, e poi la sua continuazione in guisa antifascista e antinazista. Si tratta di un problema che il proletariato d’allora ha lasciato in eredità al proletariato (ai nullatenenti) dei nostri giorni, il quale vive impigliato nella fitta e variopinta trama politico-ideologica tessuta dalla classe dominante. Insomma, e per concludere rapidamente, in quegli anni (1943-1945) non passò alcun metaforico treno della Rivoluzione che invitasse i comunisti a salirvi sopra per essere diretto nella giusta direzione. Anche il “treno perduto della rivoluzione” può forse essere annoverato fra i miti prodotti dalla Resistenza. Di certo, il mito di gran lunga più minoritario e più “simpatico”, almeno ai miei occhi.

Mi rendo conto che quello che ho scritto urta non poco la sensibilità degli italici patrioti e che poco si armonizza con la ricostruzione mitologica (strumentale, in chiave interna e internazionale) della Resistenza, della guerra partigiana, con l’aggravante di farlo nel giorno in cui la Nazione celebra da par suo la vittoria sul nazifascismo – certo, con il contributo “marginale” degli angloamericani. Ma è proprio questo l’obiettivo che intendevo cogliere. Oggi Marco Tarquini scrive che «La Resistenza al mostro non è ancora finita» (Avvenire). Diciamo piuttosto che la resistenza deve ancora iniziare. Ma qui il mostro si chiama società capitalistica mondiale e la resistenza lotta di classe.

(1) K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, Opere, VI, p. 481, Editori Riuniti, 1973.

(2) Ibid., p. 482.

(3) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 55,  Savelli, 1978.

(4) Scriveva Giampiero Mughini qualche settimana fa: «Caro Dago, Nanni Moretti ha avuto un’idea magnifica nel far partire il suo film (Il sol dell’avvenire) dalla condizione di un regista che sta girando un film sui fatti d’Ungheria del 1956, ossia dalla narrazione simbolicamente e intellettualmente la più importante per almeno tre o quattro generazioni del nostro dopoguerra. […] Una decina di anni fa sono stato a Budapest. Sono arrivato a sera tarda. Alla mattina dell’indomani la prima cosa che ho fatto è stata prendere un taxi che portasse me e Michela al numero 60 di viale Andrássy dov’è la Casa del terrore che ospitò dapprima la polizia fascista e successivamente la polizia stalinista ungherese. […] C’era una stanza in cui la scrivania cui sedeva il capo dei boia mentre interrogava i prigionieri era messa con la stessa angolazione che era stata la sua al tempo dell’orrore, ed era naturalmente la stessa scrivania usata prima da un capo fascista e poi da un capo comunista. Mai nella mia vita ho visto nulla di simile, pareti e arredi che era come se sanguinassero, stanze che trasudavano l’eco della sofferenza e del dolore. Appunto, il comunismo reale» (Dagospia). La continuità dell’orrore raccontata da Mughini ci parla di due facce della stessa (capitalista/imperialista) medaglia. Si tratta in primo luogo di una continuità sociale, radicata in peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e non di una continuità puramente politico-istituzionale apprezzabile sul piano della critica ideologica.

(5) R. De Felice, La guerra civile 1943-1945, in Mussolini l’alleato 1943-1945, II, Einaudi, 1997.

(6) Rapporto Vaccari al Duce, cit. tratta da S. Peli, Storia della Resistenza in Italia,p. 69, Einaudi, 2006.

(7) E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, p. 81, Mondadori, 1965.

(8) «Per fare un esempio, il fascismo in Italia non è stata una parentesi, ha avuto complesse radici economiche e sociali, e ha lasciato un segno indelebile, ci ha lasciato comunque un’eredità che pesa ancora. Oggi ci stupiamo che negli anni ’20 e ’30 in Italia “tutti” fossero fascisti; come ci stupiamo che in Germania “nessuno” vedesse i delitti di Hitler e del nazismo. Sperando di non venire frainteso, direi che il fascismo ha cambiato l’Italia nel male e nel bene. Non è necessario che mi dilunghi sul male. Ma il fascismo anticipò quell’intervento dello Sato nell’economia che sarebbe poi diventato una caratteristica generale dello Sato moderno: per fare solo un esempio, l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) fu istituito nel 1933 per salvare le prime 3 banche italiane, due mesi dopo Roosevelt copiò l’idea, poi giocò un ruolo fondamentale nella ricostruzione postbellica, ed è stato sciolto solo nel 2002. Il fascismo creò il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). In ogni caso, non ci siamo mai veramente “liberati” dal fascismo, basti pensare che la burocrazia italiana è rimasta quella e ha continuato (e continua) a condizionare pesantemente il nostro Paese» (A. Baracca, Pressenza). Ho il sospetto che Baracca consideri un cambiamento «nel bene» l’interventismo statalista inaugurato dal fascismo. Tra l’altro è anche significato il fatto che oggi i sinistri rimproverano ai destri di aver perso per strada «l’anima sociale» (quella esibita dal Movimento Sociale!), e di essere diventati dei “liberisti selvaggi”. È la stessa accusa che il Manifesto, il noto quotidiano “comunista”, lanciò contro Gianfranco Fini all’epoca della fondazione di Alleanza Nazionale. Leggi: LA PERFETTA CONTINUITÀ DELLO STATO. OVVERO: LO STATO ETERNO.

(9) P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, pp. 7-12, Einaudi, 1995.

(10) Scrive Giulio Sapelli: «La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all’Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana» (Storia economica dell’Italia contemporanea, p. 1, Bruno Mondadori, 2008). Nulla da aggiungere. Successivamente quel mito  funse da collante ideologico nazionale, uno strumento politico-ideologico particolarmente usato dalla “sinistra” italiana contro i suoi avversari. Merita di essere ricordato il passaggio del discorso di Alcide De Gasperi, pronunciato il 10 agosto 1946 in relazione alla bozza del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, che mise formalmente fine alle ostilità tra l’Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale, laddove afferma: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione».

(11) «Nei tornanti storici in cui è stata sconfitta o ha rischiato l’emarginazione, la sinistra ha usato la Resistenza per “delegittimare” i nemici del momento. Così il De Gasperi che nel 1947 fa un governo senza i comunisti viene accusato di aver rotto l’unità antifascista della lotta di Liberazione; nel 1960 il governo Tambroni, che si fa votare la fiducia dal Msi, viene imputato di riaprire le porte al fascismo; e i gruppi extraparlamentari negli anni ’70 identificano nella Dc il “nuovo fascismo”; e le Brigate Rosse si propongono come la “nuova Resistenza”; e nel 1994 perfino Umberto Bossi si materializza alla manifestazione del 25 aprile promossa dal Manifesto contro la vittoria elettorale del “Cavaliere nero”, perché stava per portare al governo i post-fascisti di Fini; e nel 2006 la sindaca di Milano, Letizia Moratti, viene cacciata a furia di fischi e cori dal corteo, nonostante spingesse la sedia a rotelle del padre, deportato a Dachau e decorato con la medaglia della Resistenza; e la Brigata ebraica, che alla liberazione dell’Italia ha partecipato per davvero, viene fischiata ogni anno. Perché è “ebraica”» (A. Polito Corriere della Sera 21/4/2023).

(12) Scriveva il 25 novembre 1939 il settimanale del Pci negli USA, L’Italia del Popolo: «Ogni italiano emigrato in America deve aderire ai comitati d’azione per tenere gli USA fuori dalla guerra». Quei comitati erano composti da elementi fascisti o molto vicini al fascismo ed erano finanziati da Berlino. Ancora nel maggio 1941 il Pci sosteneva che «La guerra contro l’Inghilterra non è una guerra per la nostra libertà, non è un conflitto tra proletari e plutocratici. Essa è una guerra tra briganti imperialisti per l’egemonia mondiale, per la spartizione delle colonie e delle ricchezze del mondo intero» (Per la libertà e l’indipendenza d’Italia, relazione della Direzione del PCI al V Congresso, Roma, 1945). Solo dopo il tradimento del camerata Hitler gli stalinisti, russi e italiani, scopriranno la natura «democratica e antinazista» della guerra imperialistica. 

(13) R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, pp. 116-117, Savelli, 1977.

(15) Non si trattò della continuazione dell’Ottobre con altri mezzi, soprattutto per fare i conti con la borghesia rurale (i famigerati kulaki), come scriveranno (e scrivono!) gli stalinisti italiani, o di un “Termidoro” politico che però lasciava praticamente intonse  le “conquiste sociali” della Rivoluzione sovietica, come scriverà il pur grande Trotsky (e ripeteranno i suoi assai più modesti): si trattò appunto di una controrivoluzione capitalistica che spazzò via la natura proletaria e internazionalista dell’Ottobre, la sua funzione di avanguardia della rivoluzione sociale internazionale. Ciò che nella Russia cosiddetta sovietica rimase in piedi fu la prospettiva dell’accumulazione capitalistica, della modernizzazione capitalistica, della formazione di un moderna nazione, di un moderno imperialismo in grado di rivaleggiare con l’imperialismo occidentale – tedesco, in primis. Rinvio ai miei diversi scritti sulla Rivoluzione d’Ottobre. Alcuni titoli: Lo scoglio e il mareLenin e la profezia smenaviekhistaIl Grande Azzardo.

(16) A. Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, p. 36, Università Cà Foscari, 2016. «Lo stesso rimando alle Brigate Internazionali nel nome e alla figura di Garibaldi (ripresa poi dal successivo Fronte Popolare nelle elezioni postbelliche) fa capire quale sia l’alveo ideologico e il portato storico che la formazione delle brigate antifasciste del PCI reca con sé, ed è interessante attenzionare anche i nomi delle singole brigate in questo senso, quasi nessuna recante insegne, nomi o simboli riconducibili alla stagione del bolscevismo rivoluzionario» (Ivi). «Togliatti tende a incarnare lo scontro resistenziale in uno scontro patriottico, interclassista e nazionalpopolare» (Ibid., p. 74). «La moderazione in campo sociale e politico era il biglietto da visita che la direzione togliattiana presentava alla monarchia e alla classe dominante italiana» (A. Peregalli, L’altra Resistenza, il PCI e le opposizioni di sinistra, p. 143, Graphos, 1991). Confesserà Togliatti nel 1947: «I lavoratori, grazie all’azione del PCI, hanno moderato il loro movimento, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l’opera di ricostruzione» (Cit., ivi, p. 153).

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

UN 25 APRILE DI GUERRA (IMPERIALISTA). ESATTAMENTE COME ALLORA!

LIBERARSI DAL MITO DELLA LIBERAZIONE

IL CAPITALE COME “INTELLIGENZA ARTIFICIALE GENERALE” E COME “MACCHINA SOCIALE”

Nella macchina la scienza realizzata appare
di fronte agli operai come capitale (K. Marx).

L’intelligenza artificiale generale secondo Altman

Secondo Sam Altman, fondatore nel 2015 di OpenAi e “padre” di ChatGpt, «La tecnologia succede perché è possibile». Ma cosa rende possibile la tecnologia, lo sviluppo tecnologico, l’implementazione tecnologica della ricerca scientifica? Questo l’imprenditore, nonché guru dell’Intelligenza Artificiale non sa dirlo. Ed è talmente distante dalla giusta risposta, da potersi permettere la “stravagante” (altri la giudicano invece “utopica”, altri ancora  “distopica”) idea che segue: «Altman è convinto che l’azienda intercetterà gran parte della ricchezza del mondo attraverso la creazione dell’intelligenza artificiale generale e che poi la ridistribuirà alle persone, anche se non ha ancora ben chiaro in che modo l’azienda potrà ridistribuirla. I soldi potrebbero avere un significato completamente diverso in questo mondo nuovo: “Ho la sensazione che l’intelligenza artificiale generale potrebbe aiutarci a capire come fare”» (New York Times). Ho la sensazione che il nostro potenziale benefattore non abbia ben chiara la natura della ricchezza sociale in regime capitalistico, né quella del denaro, che di quella ricchezza è la più compiuta e potente espressione. Ho anche il sospetto che il suo concetto di «intelligenza artificiale generale» evochi, in forma feticizzata, una realtà estremamente importante concettualizzata da Marx già più di un secolo e mezzo fa. È sufficiente qui ricordare il ruolo fondamentale che il comunista di Treviri attribuisce alla tecnoscienza nel fondamentale passaggio «dalla sottomissione formale del lavoro al capitale» a quella «reale» che segna la nascita del «modo di produzione specificamente capitalistico» (1). Parafrasando il barbuto credo che si possa affermare con qualche fondamento che nella cosiddetta Intelligenza Artificiale la scienza realizzata appare di fronte all’umanità come capitale.

La macchina sociale secondo Cristianini

Per Nello Cristianini, professore a Bristol, «uno degli scienziati più influenti del decennio nel campo dell’Intelligenza Artificiale» (Il Gazzettino) e autore del saggio La scorciatoia. Come le macchine sono diventate intelligenti senza pensare in modo umano (Il Mulino, 2023), «Esiste una cosa che si chiama macchina sociale». Si tratta di un’«idea nata nel 1999 da Tim Berners-Lee l’inventore del World Wide Web – e dobbiamo saperlo bene: una macchina sociale è qualunque meccanismo in cui alcune componenti sono persone, alcune funzioni cioè le svolgono le persone. Pensiamo ad una catena di montaggio. Il meccanismo collettivo riesce a fare cose pazzesche e l’uomo è dentro. Il web consente di creare macchine sociali mediante meccanismi digitali. Una cosa buona? Quando mi trovo davanti a you-tube che mi raccomanda dieci video che ha scelto tra dieci miliardi di video mi chiedo: chi ha preso questa decisione? L’ha presa un meccanismo che non è un algoritmo come crede qualcuno, ma è fatto anche dai 2.5 miliardi di utenti umani che forniscono le informazioni necessarie. Una macchina sociale è ogni utente che guarda i video e fornisce informazioni sui propri gusti alla macchina. Questo ci dice quanto sia facile predire il comportamento umano se abbiamo quantità mostruose di dati. La macchina prevede senza capire niente di noi (umani) e del mondo e della psicologia: vive di statistica. Se uno poi sta a lungo su un video la macchina capisce ancora di più di quella persona, eccetera. […] Adesso l’esempio di intelligenza non è quella umana, è come Amazon raccomanda un libro. Amazon ha da tempo eliminato i recensori umani; che però hanno pubblicato un annuncio sui giornali ricordando come “La gloriosa confusione della carne e del sangue prevarrà”. Qualcuno tifa per loro» (Il Gazzettino).

Che la «macchina sociale» non sia altro che il capitalismo, la società capitalistica colta nella sua complessa e contraddittoria totalità, ebbene questo elementare concetto non sembra nemmeno sfiorare la mente del nostro pur notevole scienziato. Impostare il problema nei termini di un conflitto tra Intelligenza Artificiale e «gloriosa confusione della carne e del sangue» significa non capire niente di essenziale intorno alla Società-Mondo dei nostri tempi, e difatti il pensiero di Altman e di Cristianini, ossia di due espertissimi in fatto di Intelligenza Artificiale, brancola nel buio e inciampa continuamente in feticismi tecno-scientifici davvero grossolani. Come ho scritto altre volte, il problema che ci interroga non ha al suo centro la cosiddetta Intelligenza Artificiale ma l’Intelligenza del Capitale, il quale «evoca tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali [che esso si appropria gratuitamente], al fine della creazione della ricchezza» (2). Una ricchezza che sul fondamento dei rapporti sociali vigenti in tutto il mondo è prodotta necessariamente attraverso lo sfruttamento degli individui e della natura. È al servizio di questa imperiosa (anche imperialista) e vitale (per il dominio sociale capitalistico, s’intende) necessità che lavora la tecnoscienza, che opera la macchina, “stupida” o “intelligente” che sia (3). Già Marx aveva capito come nella società dominata dal rapporto sociale capitalistico di produzione (di beni, servizi e individui, cioè di merci) l’«intelletto sociale» debba necessariamente sorridere al Capitale, che ne fa appunto una potente leva posta al suo servizio.

Vediamo se sono riuscito a convincere l’illustre scienziato di Gorizia: «Vorrei un mondo dove noi potessimo scegliere di non essere controllati o giudicati da una macchina bensì da un umano. Il Parlamento europeo sta completando in queste settimane l’IA Act: una scelta importante, tra le più avanzate al mondo, per salvaguardare il rapporto tra uomini e Intelligenza Artificiale». Come non detto!

Una volta Paul Klee disse che «L’arte rende visibile l’invisibile»: è quello che si sforza di fare la critica radicale della società. Infatti, qui non si tratta di intelligenza (“naturale” o “artificiale”), né di scienza (quantomeno nella sua accezione positiva, tradizionale) ma di coscienza – di classe.

(1) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 65, Newton Compton Editori, 1976.

(2) K. Marx, Lineamenti, II, p. 402, La Nuova Italia, 1978. «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale forma le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (p. 403).

(3) Leggo da qualche parte: «In seguito a questa “pianificazione” politico-economico-tecnologica, oggi la Cina va decisamente superando gli USA anche nel campo tecnologico avanzato e specificatamente in quello dell’Ai. Dalle università e dalle aziende ad altissimo tasso tecnologico di Pechino la nuova frontiera dello sviluppo tecnologico va rapidamente irradiandosi in tanta parte delle università e delle fabbriche cinesi: università, aziende e fabbriche sotto il segno della tecnologia digitalizzata e dell’Ai e in grandissima parte sotto il controllo pubblico. E ciò proprio perché, per la Cina socialista, l’intelligenza artificiale riveste un ruolo di fondamentale importanza, non solo come cardine per una vincente competizione mondiale sui mercati d’avanguardia, ma anche come motore centrale per un nuovo ciclo – ritenuto imprescindibile dalla Cina di Xi Jinping – di rivoluzione scientifica e industriale nazionale. […] La stessa inclinazione cinese verso il marxismo scientifico e non verso “il marxismo esistenzialista” trova, forse, le sue basi materiali anche in questa antica “riserva intellettuale scientifica” del popolo cinese». A mio modesto avviso chi, dinanzi alla gigantesca realtà del Capitalismo/Imperialismo cinese, parla di «Cina socialista» e di «inclinazione cinese verso il marxismo scientifico» non esibisce un’intelligenza politico-concettuale superiore a quella che possiamo riscontrare nella meno intelligente delle cosiddette macchine intelligenti.

SALTO TECNOLOGICO O SALTO UMANO?

UMANO, FIN TROPPO UMANO. PRATICAMENTE UNA PARODIA DI UMANITÀ;

 UMANO, FIN TROPPO UMANO; MESSAGGIO DEL NOSTRO FRATELLO MACCHINA

A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. Sul concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale

Sul potere sociale della scienza e della tecnologiaIo non ho paura – del robotRobotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significareCapitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salarialeAccelerazionismo e feticismo tecnologico

MACRON ALLA CORTE DEL CELESTE IMPERIALISMO

Pechino ci tiene molto a rafforzare e diffondere nel mondo l’immagine della Cina come cuore pulsante della globalizzazione capitalistica, realtà confezionata con cura dal Partito-Stato per essere venduta all’opinione pubblica mondiale come la sola garanzia di “pace e prosperità”. Non deve stupire nessuno, quindi, la redazione di articoli come quello che segue, pubblicato il 6 aprile scorso sul Quotidiano del Popolo Online e il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: L’ordine mondiale è diventato più stabile grazie al profondo coinvolgimento della Cina. L’ordine mondiale di cui si parla è ovviamente quello capitalistico/imperialistico fondato sullo sfruttamento intensivo di miliardi di nullatenenti in tutto il mondo nonché della natura, ridotta ovunque a mera risorsa economica. Intanto, per difendere la “stabilità” dell’ordine mondiale il Celeste Imperialismo affila la spada e si dichiara «pronto alla guerra in qualsiasi momento» per difendere la sovranità del grande Paese asiatico – a cominciare da Taiwan, la “provincia ribelle” sobillata da Washington. Ecco adesso il testo dell’articolo propagandistico:

«Recentemente il giornale svizzero Neue Zürcher Zeitung ha pubblicato un articolo intitolato “La ricerca della Cina per un posto al sole – guardare alla sua lunga storia è una chiave nella negoziazione”. Per chi scrive, guardare alla lunga storia della Cina è invece una chiave nella comprensione della sua natura capitalistica/imperialistica. Ma andiamo avanti – anche per non irritare i tifosi del «Socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova epoca. «Secondo l’articolo l’ordine mondiale è diventato più stabile grazie al profondo coinvolgimento della Cina. Il rispetto reciproco e l’inclusione coincidono con gli interessi dell’Occidente. L’autore dell’articolo, Urs Schoettli, ritiene che l’Europa dovrebbe abbandonare la sua prospettiva storica eurocentrica e riconoscere il fatto che nel XXI secolo il mondo è multipolare non solo politicamente ed economicamente, ma anche culturalmente. L’Occidente deve apprezzare una Cina sempre più prospera e sicura di sé. Secondo l’articolo, l’Occidente non solo manca di consapevolezza storica nella comprensione della questione cinese, ma anche nel suo approccio alla globalizzazione. L’attuale regresso della globalizzazione è legato alla mancanza di prospettiva storica nei principali paesi occidentali. A questo proposito, l’Occidente ha trascurato il fatto che la globalizzazione, dopo la Guerra Fredda, abbia avviato una nuova distribuzione del peso dei paesi asiatici nell’economia mondiale, di cui anche l’Occidente ha potuto trarre grandi benefici. L’articolo ha sottolineato che la leadership del PCC in Cina non è nata dal nulla, ma è il risultato dell’interazione di molti fattori storici. I paesi occidentali dovrebbero cercare di riconoscere e accettare l’idea che la Cina può essere moderna e democratica».

È interessante leggere alla luce di quanto appena riportato le dichiarazioni che il Presidente Macron ha rilasciato alla fine della sua visita di “pace” e di affari (a quanto pare più di affari che di “pace”) in Cina: l’Europa deve costruire rapidamente una sua «autonomia strategica», non deve cioè seguire acriticamente gli Stati Uniti in ogni loro iniziativa politico-militare, ad esempio impicciandosi di «crisi che non le appartengono: non siamo dei vassalli». Il riferimento alla crisi taiwanese è chiarissimo. Sulla logica delle sfere di influenza e del “cortile di casa” ho scritto proprio ieri. Le Figaro ha subito messo in guardia il Presidente francese circa i pericoli insiti in una sua postura nazionalista-gollista: è una pia illusione pensare alla Francia come a una potenza autonoma e neutrale. Anche in Italia si è aperto il dibattito: Macron parla in nome della Francia o dell’Unione Europea?

Pure il campo dei filoamericani si è spaccato: se per Il Foglio l’autonomia strategica di cui parla il leader – contestatissimo in patria – Macron non entra necessariamente in contraddizione con l’alleanza strategica che lega gli europei agli Stati Uniti, per Il Corriere della Sera il Terzo Polo dell’ordine mondiale immaginato dal Presidente (che sarebbe quindi un polo imperialista unitario a trazione francese, o franco-tedesco) espone l’Unione Europea a tragiche illusioni neutraliste, tanto più nel momento in cui Pechino cerca di inglobare Mosca nella sua sfera di influenza, con ciò che ne segue anche per quanto riguarda la crisi ucraina, una crisi sempre più sanguinosa e complessa. Analisti più maliziosi hanno voluto carpire nelle espressioni di Macron durante le sue visite organizzate scientificamente dal regime («Che bagni di folla, che calore popolare!») la sua invidia per uno Stato che sa come tenere a bada il popolo. Attendiamo rapide smentite!

LA GUERRA IN UCRAINA VISTA DA ZIMMERWALD

Esiste un unico mezzo pratico per accelerare la
fine del massacro dei popoli. Questo mezzo è la
fraternizzazione dei soldati al fronte (Lenin).

Non abbiamo forse sempre detto che le sconfitte
del proprio Paese facilitano la causa della classe
rivoluzionaria? (Lenin).

Nella guerra attuale il proletariato dotato di coscienza
di classe non può identificare la sua causa con nessun
campo militare (R. Luxemburg).

1. Chi si sforza di ragionare con un minimo di senso storico (qui non è neanche il caso di scomodare il più impegnativo concetto di materialismo storico) e un minimo (si fa quel che si può!) di coscienza di classe viene puntualmente additato alla stregua di un inguaribile quanto astratto dottrinario da chi sostiene “da sinistra” (meglio se “radicale”) le ragioni dell’Ucraina – senza peraltro fare alcuna distinzione tra la nazione e la popolazione, anzi dando per scontata la sovrapposizione dei due concetti. Sovente questo personaggio, che sprizza “realismo” e saggezza politica da tutti i pori (si tratta poi di vedere l’autentica natura politica di questo “realismo” e di questa saggezza), combatte a colpi di citazioni tratti dal Manifesto di Zimmerwald e dai testi leniniani dedicati all’autodecisione delle nazioni l’astratto dottrinario fermo alla parola d’ordine di oltre un secolo fa Trasformare la guerra imperialista in guerra civile rivoluzionaria. Del Manifesto di Zimmerwald i filoucraini di “estrema sinistra” riprendono soprattutto le rivendicazioni a carattere democratico-nazionale, e si capisce bene perché. Per queste persone un secolo di processo storico-sociale è passato invano, e quindi ai loro occhi le rivendicazioni di quel tipo conservano praticamente immutata la loro pregnanza storica e sociale. Chi scrive la pensa in modo del tutto diverso, come cercherà di argomentare nelle disordinate e abbastanza confuse riflessioni che seguono. Come spesso mi capita di fare, metterò insieme considerazioni legate alla stretta attualità con riflessioni di più largo respiro storico e concettuale.

2. Intanto occorre dire che se la Conferenza di Zimmerwald, che si tenne dal 5 all’8 settembre del 1915, realizzò un deciso passo in avanti rispetto al socialsciovinismo europeo divampato un anno prima insieme alla guerra, le sue conclusioni lasciarono molto a desiderare quanto a chiarezza di concetti e a indicazioni politiche. Il Manifesto che ne venne fuori fu definito piuttosto vago e generico dal suo stesso autore materiale, Trotsky, e fu il frutto di un compromesso tra le diverse anime del socialismo europeo (in primo luogo tra i fautori di un generico pacifismo e i sostenitori dell’antimilitarismo rivoluzionario) che si diedero convegno nel piccolo villaggio svizzero – «su in montagna», come scriverà Trotsky nella sua opera autobiografica. Lenin, che comunque sottoscrisse senza indugi il Manifesto, rimase piuttosto isolato dagli altri congressisti, i quali non avevano rotto del tutto con la politica della Seconda Internazionale che per il capo del bolscevismo aveva fatto completa bancarotta.

3. Dopo la Rivoluzione di Febbraio in Russia Lenin arrivò a definire la Conferenza di Zimmerwald una «palude non più tollerabile» (1), nel senso che i compromessi politici e le ambiguità che ne resero possibile il relativo successo non erano più tollerabili nella nuova situazione. «L’Internazionale di Zimmerwald ha assunto fin dall’inizio una posizione esitante, “kautskiana”, “centrista”, la qual cosa ha costretto la sinistra di Zimmerwald a dissociarsi subito» (2). Per Lenin l’importanza storica di quella Conferenza risiedeva nell’aver essa realizzato un passo avanti nella giusta direzione, ossia verso la costituzione di una nuova e autenticamente rivoluzionaria Internazionale. Assai significativo è, a questo proposito, il modo in cui egli caratterizzò l’essenziale contributo che la sinistra socialdemocratica (poi comunista) cercò di dare all’esperienza zimmerwaldiana: «Lotta rivoluzionaria intransigente contro il proprio governo imperialistico e contro la propria borghesia imperialistica. Il suo principio è: “Il nemico principale è nel nostro paese”. Lotta implacabile contro la smielata fraseologia socialpacifistica» (3). Si tratta di concetti che mi onore di conservare, spero non come sacre reliquie ma come vitali indicazioni, nel mio modestissimo bagaglio politico.

4. Chi si muove sul terreno degli interessi nazionali, ossia sul terreno degli interessi capitalistici (spesso malamente nascosti dietro parole dal chiaro significato demagogico come “popolo”, “bene comune”, ecc.), è in grado di vedere solo gli interessi che fanno capo alle classi dominanti e che trovano la loro più compiuta, organizzata e violenta espressione nello Stato. Ecco quindi che “a sinistra” c’è chi difende il diritto della Russia a reagire contro l’espansione a Est del cosiddetto Occidente collettivo, e chi invece difende il diritto dell’Ucraina a opporre resistenza all’aggressione russa anche appoggiandosi all’imperialismo occidentale. Si tratta di due diverse posizioni che hanno però una comune matrice concettuale e politica: il riconoscimento degli interessi nazionali come suprema istanza politica. Nel XXI secolo questi interessi sono intimamente e inestricabilmente intrecciati con il Sistema Imperialista Mondiale (o Imperialismo Unitario), dimodoché risulta impossibile isolare l’aspetto nazionale del problema da quello internazionale – cioè imperialistico. Naturalmente questa considerazione è priva di pregnanza politica per chi non approccia la questione dal punto di vista anticapitalista, prospettiva che invita a collocare le questioni concrete e contingenti nella totalità del processo sociale mondiale. In generale, solo il punto di vista della totalità permette di afferrare la reale natura dei fenomeni sociali. Non si tratta solo di un approccio “olistico” alla dinamica sociale: si tratta in primo luogo di un approccio critico-rivoluzionario che ha un immediato risvolto politico. La galassia della cosiddetta sinistra radicale di matrice stalinista e post-stalinista (insomma, gli eredi del PCI) è divisa in tre posizioni: quella che difende il diritto dell’Ucraina a difendersi, quella che difende gli interessi dell’imperialismo russo e quella che sostiene un pacifismo più o meno neutralista. In queste posizioni è inutile cercare un’analisi di classe, una posizione che esprima un punto di vista autonomo in chiave anticapitalista e antimperialista. Si tratta di posizioni che condividono infatti un comune terreno di iniziativa politica: quello della conservazione dei rapporti sociali capitalistici – nella loro multiforme fenomenologia politica, istituzionale e ideologia: vedi i filoputiniani e gli antiputiniani, gli antieuropeisti e i filo europeisti, i filocinesi e gli anticinesi, gli antiamericani e i filoamericani, gli statalisti duri e puri e i riformisti radicali, e così via. Per quanto mi riguarda si tratta di facce della stessa (capitalistica e imperialistica) medaglia.

5. Il conflitto armato trova i suoi presupposti oggettivi nella “pacifica” competizione interimperialistica, e non ha dunque alcun senso, dal punto di vista anticapitalista, stabilire quale Paese o quale coalizione imperialista ha lanciato la prima bomba, quale esercito nazionale o internazionale ha per primo varcato i “sacri confini” del Paese nemico. Quello che a tal proposito si può dire è che le classi dirigenti di tutti i Paesi sono bravissimi quando si tratta di accollare al nemico la responsabilità della guerra: «È vero, noi ci siamo mossi per primi, ma solo per prevenire l’aggressione, preparata con cura già da tempo, da parte del nemico». La miglior difesa è l’attacco, non c’è dubbio! Anche la distinzione tra armi difensive e armi offensive, così presente nel dibattito sulla guerra in Ucraina fa semplicemente sorridere e fa comprendere fino a che punto di ipocrisia propagandistica può spingersi la cosiddetta diplomazia. Per l’anticapitalista la vittima della guerra non è mai la nazione, non è il suolo patrio, non è la democrazia (capitalistica), non è la civiltà (capitalistica): egli considera solo e sempre due vittime: la classe oppressa e sfruttata, in particolare, e l’umanità, concepita anche nel suo vitale rapporto con la natura, in generale. Anziché per difendere la nazione aggredita, le classi subalterne devono armarsi per rovesciare il potere politico e porre le basi per superare le cause sociali delle guerre. Gli anticapitalisti del Paese aggredito devono (dovrebbero, posta la loro esistenza) lavorare in questa direzione, cercando di coordinarsi con gli anticapitalisti del Paese che aggredisce, per realizzare un fronte comune di lotta – anche armata – tra le classi subalterne di entrambi i Paesi. Non si tratta infatti di lottare per la “pace”, ma di lottare per il potere. Come scriveva Lenin, «La guerra è la continuazione della politica di pace, e la pace è la continuazione della politica di guerra».

6. Chi parteggia per l’Ucraina sostiene che chi non appoggia la resistenza del «popolo ucraino» (cioè, tradotto, della nazione ucraina, dello Stato ucraino) oggettivamente lavora per la Russia imperialista. Ma altrettanto fondatamente si potrebbe dire che chi sostiene tale resistenza lavora “oggettivamente” per far vincere la nazione ucraina, che per gli anticapitalisti è una realtà ultrareazionaria (come lo sono tutte le nazioni del mondo, a cominciare dalla propria nazione), e i suoi alleati occidentali, ossia la coalizione imperialista a trazione statunitense. Ragionare nei termini di quale entità capitalistica e imperialistica si favorisce “oggettivamente” (ne sapevano qualcosa i disfattisti della Grande Guerra, accusati di “intelligenza col nemico” e di alto tradimento dai loro Stati) significa porsi senz’altro sul terreno della contesa interimperialistica senza praticare un minimo di autonomia politica, cosa che conduce necessariamente chi ragiona in quel modo a sostenere le ragioni di uno dei contendenti. L’autonomia politica esige dall’anticapitalista la contrarietà al Sistema Imperialistico Mondiale colto nella sua totalità – e sempre riaffermando il principio inderogabile secondo il quale il nemico principale contro cui combattere le classi subalterne lo hanno dentro casa: si chiama classe dominante, Stato capitalistico, Nazione, Patria. L’anticapitalista è ostile a tutte le ragioni che fanno capo a tutte le nazioni e a tutti gli imperialismi. Non pochi analisti geopolitici statunitensi ed europei consigliano a Washington e Bruxelles di lasciare l’Ucraina nelle grinfie dell’orso russo, soprattutto perché l’allargamento verso Est della Nato e dell’Unione Europea rende più precaria la pace nel Vecchio Continente e legittima sul piano politico-ideologico l’espansione sistemica (cioè non meramente economica) cinese in quella che viene ancora oggi considerata la sfera di influenza degli americani (America Latina) e degli europei (Balcani). Si tratta della ben nota logica delle sfere di influenza e del cortile di casa molto praticata dagli analisti della scuola “realista”. Inutile dire che quel consiglio è molto apprezzato da chi sostiene le ragioni e gli interessi (due modi diversi di richiamare lo stesso concetto) dell’imperialismo russo.

7. La guerra in Ucraina non è solo una “guerra per procura” ma è anche e necessariamente una “guerra per procura”. Dietro il nazionalismo ucraino si erge infatti l’imperialismo occidentale: è un fatto, questo, che prescinde dalla volontà della stessa classe dirigente ucraina. Contro le astratte generalizzazioni incapaci di cogliere l’essenza dei problemi sociali, Lenin sottolineava sempre la necessità, per i marxisti, di «un’analisi concreta di un determinato fenomeno nel suo ambiente e nel suo sviluppo» (4). Ebbene, l’analisi puntuale della guerra in corso in Ucraina ci restituisce la natura complessivamente reazionaria di questa guerra, la quale si configura fin nelle sue premesse, nella sua genesi (impossibile da isolare dal precedente e dall’attuale assetto del cosiddetto ordine mondiale), come un momento della generale guerra sistemica tra le più grandi potenze imperialistiche del pianeta: Stati Uniti, Cina, Unione Europea, Russia. Oggi a farne le spese sono soprattutto gli ucraini (civili e militari) e i giovani russi inquadrati nell’esercito e trattati da Mosca come carne da cannone – secondo gli sperimentati canoni militari russi: vedi la mitica Guerra Patriottica del secolo scorso. «La sostanza reale di questa guerra non è nazionale, ma imperialistica. […] La guerra si svolge tra due gruppi di oppressori, tra due briganti, che bisticciano sul modo di spartirsi il bottino. […] La “difesa della patria” è in questa guerra un inganno, una sua giustificazione. […] Per spacciare la presente guerra come una guerra nazionale i socialsciovinisti si richiamano all’autodeterminazione delle nazioni. Contro di loro vi è un’unica lotta giusta: bisogna dimostrare che la guerra in corso non si combatte per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei grandi briganti debba opprimere più nazioni» (5). Mutatis mutandis (e tra poco vedremo quel che c’è, a mio avviso, da mutare), credo che la valutazione fatta da Lenin nel 1916 colga nel segno anche a proposito dell’attuale guerra sistemica internazionale, la quale ha nell’Ucraina (tanto per cominciare!) solo il suo fronte militare.

8. Indebolire solo l’imperialismo russo è, «in questa fase storica», un obiettivo meritevole d’essere sostenuto dagli anticapitalisti/internazionalisti attivi in Europa occidentale? Assolutamente no, e questa risposta va ovviamente estesa all’imperialismo statunitense e a quello europeo. Gli anticapitalisti si battono contro il Sistema Imperialistico Mondiale considerato nella sua compatta, ed estremamente contraddittoria e conflittuale, totalità (6). Essi conoscono una sola eccezione a questa altrimenti inderogabile regola: il loro nemico principale è il proprio Paese, la propria Nazione, la propria Patria. Lavorare per indebolire uno solo dei «briganti», per dirla sempre con Lenin, significa di fatto lavorare per rafforzare la posizione della concorrenza, degli altri briganti, e quindi del Sistema Imperialistico Mondiale nel suo complesso. Chi infatti sostiene gli interessi e le ragioni di una frazione imperialistica contro gli interessi e le ragioni della frazione rivale sostiene anche l’imperialismo come realtà sociale di dimensione planetaria. Gli opposti “campisti” si muovono su un comune, quanto escrementizio, terreno. Mutatis mutandis, le considerazioni fin qui svolte valgono anche per la sempre più esibita volontà di annessione di Taiwan da parte del Celeste Imperialismo. La mia solidarietà va dunque alle classi subalterne taiwanesi costrette nella tenaglia imperialistica che le costringe a “scegliere” in quale campo imperialistico esse preferiscono farsi opprimere e sfruttare. Il fatto che oggi queste classi siano disposte a morire per difendere la «sovranità nazionale» di Taiwan, oppure, al contrario, per «riunirsi alla madrepatria cinese», ebbene ciò dimostra quanto tragica sia l’assenza in quel Paese (come nel resto del mondo) di un’autonoma soggettività proletaria. Come diceva Marx, non esiste classe proletaria in senso politico, e non meramente sociologico, senza coscienza di classe, senza la costituzione in partito della classe degli oppressi e degli sfruttati. Per l’anticapitalista essere realisti significa guardare in faccia, senza infingimenti né illusioni ideologicamente fondate, questa tragica realtà e fare quanto è in suo potere e nella sua capacità per lottare contro questa pessima situazione.

9. Leggo da qualche parte: «I diritti di autodeterminazione che si accompagnano a quello di resistenza prevedono la possibilità di schierarsi “militarmente” anche con forze tradizionalmente ostili alla sinistra e appartenenti al campo della Nato. Nella storia del secolo scorso è già successo varie volte: durante la Guerra civile spagnola, nella Seconda Guerra Mondiale quando era necessario battersi contro il fascismo montante. I lavoratori e gli oppressi, in certe condizioni, hanno da perdere di meno in un campo piuttosto che in un altro» (7). Questa obiezione nemmeno sfiora la mia posizione, visto che per me la Guerra civile spagnola (8) rappresentò, per molti e fondamentali aspetti, la premessa alla Seconda guerra imperialistica mondiale, definita “Guerra di Liberazione” da chi quella guerra la vinse. L’attiva e nefasta (soprattutto per il proletariato internazionale) presenza della Russia stalinista (e quindi antisocialista) in entrambe le guerre è di per sé rivelatrice della natura sociale di esse. Com’è noto, l’Unione Sovietica non ebbe alcuna remora nell’allearsi con la Germania nazista nell’agosto del 1939: allora Mosca non avvertì alcuna necessità di «battersi contro il fascismo montante». Se il 21 giugno 1941 un Hitler galvanizzato dai trionfi riscossi in Europa occidentale non avesse “tradito” le aspettative del camerata Stalin, probabilmente staremmo a commentare una ben diversa storia (9). Per quanto mi riguarda, la cosiddetta Resistenza antifascista rappresentò per l’Italia la continuazione della guerra imperialista nelle mutate circostanze realizzate dall’avanzata delle potenze alleate e dal miserabile crollo del vecchio regime – fascista e monarchico (10). Quanto alla tesi secondo la quale «I lavoratori e gli oppressi, in certe condizioni, hanno da perdere di meno in un campo piuttosto che in un altro», si tratta del principio ultrareazionario del “male minore” che tanta acqua al mulino della conservazione sociale ha portato negli ultimi 78 anni – cioè dalla fine del secondo macello imperialistico mondiale. Il proletariato non ha il compito di modificare o di conservare la geografia politica degli Stati capitalistici e il loro assetto geopolitico sulla scacchiera mondiale, ma quello di organizzarsi e lottare sulla base della geografia politica nazionale e degli assetti interimperialistici che si trova dinanzi. In linea generale, per il proletariato non c’è un assetto nazionale, un sistema politico-istituzionale (11) e un “equilibrio” interimperialistico migliore dell’altro, che ne migliori l’esistenza o ne agevoli la lotta di emancipazione dal capitalismo. Su questo terreno l’indifferentismo è la sola linea politica praticabile per un proletariato cosciente e geloso della propria autonomia politica.

10. Polemizzando con i socialisti russi ed europei che azzeravano la complessa e contraddittoria realtà del capitalismo mondiale del suo tempo servendosi in modo astratto e “caricaturale” del concetto di imperialismo, Lenin pone la distinzione tra guerra imperialista e guerra nazionale: la prima ha una natura inequivocabilmente reazionaria e va combattuta “senza se e senza ma” dal proletariato d’avanguardia; la seconda può avere invece una natura storicamente progressiva (non progressista) ed è quindi meritevole di un sostegno da parte della socialdemocrazia rivoluzionaria. Un sostegno, beninteso, sempre subordinato agli interessi strategici del movimento anticapitalista: «Ogni rivendicazione democratica (compresa l’autodecisione) è subordinata per gli operai agli interessi superiori del socialismo» (12). Lo stalinismo, a conferma della sua natura capitalistica (ultrareazionaria soprattutto in riferimento al proletariato internazionale, da esso ingannato sul piano ideologico mediante la menzogna del “Socialismo in un solo Paese”), capovolgerà l’impostazione marxista del problema e subordinerà invece il movimento proletario internazionale alle rivendicazioni democratico-borghesi, con esiti a dir poco disastrosi: vedi la guerra civile cinese di fine anni Venti, culminati nel massacro di Shanghai e Canton del 1926-27 ad opera del Kuomintang di Ciang-Kai-shek. Chiudo la parentesi. Storicamente parlando, le guerre nazionali possono essere di due tipi: le guerre nazionali rivoluzionarie o storicamente progressive e le guerre nazionali reazionarie in quanto conservatrici dell’ordine sociale vigente. Le guerre nazionali del primo tipo hanno avuto la borghesia in ascesa come fondamentale centro motore, sia in Europa che nel resto del mondo – Cina compresa: vedi la rivoluzione nazionale guidata dal cosiddetto Partito Comunista Cinese, funzionario del rapporto sociale capitalistico chiamato a rivoluzionare la società cinese, in gran parte ancora immersa nella dimensione precapitalistica. Nel XXI secolo, salvo rarissime eccezioni (Palestina, Kurdistan), sono possibili solo guerre nazionali del secondo tipo, e cioè reazionarie, anche quando esse dovessero configurarsi come guerre nazionali di resistenza contro un nemico aggressore. Paese aggressore e Paese aggredito sono infatti dominati dallo stesso rapporto sociale di sfruttamento e partecipano entrambi, che lo vogliano o no, al Sistema Imperialistico Mondiale che fa di loro, appunto, un Paese che aggredisce e un Paese che subisce un’aggressione: si tratta di due facce della stessa medaglia, di una divisione del lavoro, per così dire, funzionale alla conservazione del sistema capitalistico mondiale. Lenin ai suoi tempi dava per scontata la natura progressiva della guerra nazionale perché allora vastissime regioni del mondo (Cina, India, Sud-Est Asiatico, Medio Oriente, Africa) dovevano ancora emanciparsi dai rapporti sociali precapitalistici. Com’è noto, l’Impero zarista era considerato da Lenin come il peggiore degli imperialismi dell’epoca, perché esso «opprimeva un maggior numero di nazioni e una massa maggiore di popolazioni in Europa e in Asia». Di qui, l’odio che i nazionalisti russi, a cominciare da Putin, nutrono nei confronti dell’internazionalista Lenin. Anche gli antirussi Marx ed Engels hanno un posto specialissimo nella “considerazione storica” di quella feccia.

11. Per guerra nazionale Lenin intendeva dunque in primo luogo la rivoluzione democratico-borghese che ancora ai suoi tempi era all’ordine del giorno in molte aree del mondo; egli pensava alla lotta delle colonie e delle semicolonie: pensava alla Cina, all’India, all’Egitto, al Siam. Ma pensava anche alla Norvegia, che nel 1905 aveva conquistato l’indipendenza dalla Svezia, e all’«insurrezione irlandese del 1916 [che] ha dimostrato, è il caso di dirlo, che non avevano parlato a vanvera della possibilità di insurrezioni nazionali persino in Europa» (13). In questi casi la socialdemocrazia doveva «riconoscere il carattere progressivo dell’insurrezione nazionale, il carattere progressivo della nascita, nel caso del buon esito dell’insurrezione, di un nuovo Stato autonomo e della creazione di nuovi confini». Occorre ricordare, ed è l’aspetto più importante che voglio mettere in luce, che al tempo in cui Lenin elaborò la sua posizione sulla scottante e controversa questione nazionale «la stragrande maggioranza dei paesi e la maggior parte della popolazione terrestre non si trovano ancora nello stadio capitalistico o si trovano nella fase iniziale dello sviluppo capitalistico» (14). Lenin caratterizzava la politica imperialistica della Russia zarista nei termini di una politica «di tipo semifeudale». Ha un senso, un fondamento storico e sociale, oggi, dopo più di un secolo di sviluppo capitalistico su scala mondiale, impostare quella questione negli stessi termini, quando il mondo esibisce una faccia che il rivoluzionario russo (per non parlare di Marx!) faticherebbe a riconoscere come quella del pianeta che egli provò a trasformare radicalmente? Pensiamo, ad esempio, cosa sono diventati nel frattempo la Cina e l’India; e pensiamo alla stessa Russia, la cui politica imperialistica non può certo essere definita «di tipo semifeudale», nonostante la relativa arretratezza del suo capitalismo. Lenin si dichiarò a favore del diritto di autodeterminazione dei popoli fino alla separazione e alla formazione di nuove entità nazionali non in ossequio alla democrazia borghese, o sulla scorta di astratte considerazioni storiche circa le “leggi del progresso storico”; egli lo fece in primo luogo pensando alla realtà dell’Imperialismo russo, che per lui andava indebolito ad ogni costo, anche per il suo ruolo di gendarme della controrivoluzione che aveva da sempre giocato – in “sinergia” con gli interessi, alternativamente, dell’Inghilterra, della Francia e della Germania.

12. Per l’anticapitalista essere contro l’annessione dell’Ucraina, o di parti di essa, da parte della Russia non significa sostenere il diritto dello Stato ucraino di organizzare una difesa militare del territorio ucraino: significa piuttosto opporsi alla politica imperialista della Russia, e chiamare alla lotta, anche armata, contro questa politica le classi subalterne di entrambi i Paesi, a cominciare dai proletari inquadrati nei rispettivi eserciti nazionali, chiamati dall’anticapitalista alla fraternizzazione. Il tutto naturalmente inquadrato in un’azione di respiro internazionale tesa a coinvolgere i proletari di tutti i Paesi toccati, più o meno direttamente, dal conflitto, a cominciare dal proprio Paese: «Nessun coinvolgimento economico e militare dell’Italia! Nessun sacrificio per alimentare la guerra! Solidarietà di classe ai proletari ucraini e russi massacrati in una guerra che non è la loro guerra!». Si tratta quindi di un’opposizione (anche armata, certamente) al conflitto che non richiede il sostegno (“fraterno” o interessato che sia) da parte dell’imperialismo concorrente, ma fa affidamento unicamente alla solidarietà di classe internazionale. Non si tratta dunque affatto di arrendersi al nemico, o di attestarsi su una posizione di “neutralità” (più o meno “attiva”), ma di fare la guerra (anche armata, secondo le circostanze e le possibilità) al vero nemico delle classi subalterne: al nemico di classe, ossia al capitalismo, all’imperialismo, allo Stato. È questa la sola resistenza che mi sembra sorridere agli interessi degli oppressi e degli sfruttati di tutto il mondo, nonché alla causa dell’emancipazione di tutta l’umanità dalla disumana dimensione del dominio di classe, che poi è la vera causa dei conflitti armati tra le nazioni. Si tratta infatti di conflitti preparati e fertilizzati dalla “pacifica” competizione sistemica: economica, tecnologica, scientifica, ideologica, geopolitica. Anziché farsi uccidere in una guerra ultrareazionaria, da tutti i punti di vista, i proletari farebbero bene a rischiare la vita per affermare i loro interessi di classe. È la bandiera dell’internazionalismo e della rivoluzione sociale che mi piacerebbe veder sventolare in Ucraina, in Russia, in Europa, negli Stati Uniti, in Cina, ovunque nel mondo, e il fatto che tale piacere debba rimanere per chissà quanto tempo ancora del tutto insoddisfatto, ebbene ciò non rende meno seria e politicamente urgente la pratica dell’internazionalismo e dell’anticapitalismo. L’inesistenza di quella splendida bandiera non manifesta la tragedia personale di chi scrive ma quella, ben più importante, di un’intera classe sociale (quella che per vivere deve vendere sul mercato una qualche capacità lavorativa) e dell’intera umanità.

13. La lotta contro le annessioni e contro il mantenimento con la forza di nazioni (e di etnie) oppresse entro la frontiera di uno Stato non è dunque fatta dall’anticapitalista del XXI secolo in nome del diritto di autodecisione delle nazioni, ma ha lo scopo di colpire lo Stato oppressore e di chiamare alla fraternizzazione le classi subalterne del Paese che opprime e della nazione (o dell’etnia) oppressa. Ad esempio, personalmente non sostengo l’indipendentismo catalano, che considero l’espressione di un nazionalismo reazionario, ma certamente non sostengo le ragioni del nazionalismo madrileno che usa la forza per impedire la secessione della Catalogna. Nel conflitto tra le due parti sostengo esclusivamente la necessità di una solidarietà di classe fra tutti i proletari che vivono nell’attuale Spagna, della cui integrità nazionale non m’importa nemmeno un po’ – e ancor meno m’importa dell’integrità nazionale del mio Paese, dell’Italia: la minacciata secessione della “Padania” non mi ha mai tolto il sonno! Agli opposti nazionalismi si risponde con l’autonomia di classe e con l’internazionalismo proletario, il quale non è un astratto principio ideologico, ma una peculiare linea politica intesa a spezzare l’unità nazionale (tanto nella nazione che opprime quanto nella nazione oppressa) e a favorire l’unità di classe tra tutti i proletari a prescindere dalla casacca nazionale (religiosa, ideologica, ecc.) che le classi dominanti cercano – purtroppo quasi sempre con successo – di far loro indossare.

14. Scriveva Lenin: «Per gli ucraini e i bielorussi, per esempio, solo chi vive con la testa su Marte potrebbe negare che il movimento nazionale è ancora incompiuto, che il risveglio delle masse per la conquista di una propria lingua e letteratura […] è ancora in via di compimento. Qui, la “patria” non ha cantato ancora il suo storico canto del cigno. Qui, la “difesa della patria” può essere ancora la difesa della democrazia, della propria lingua, della libertà politica, contro i paesi oppressori, contro il medioevo» (15). Dopo più di un secolo di sviluppo capitalistico come stanno le cose? L’Ucraina e la Bielorussia non devono separarsi dalla Russia ma trovare una propria collocazione geopolitica all’interno del Sistema Imperialistico Mondiale, esattamente come accade a tutti i Paesi di piccola o di media stazza sistemica. Negli ultimi venti anni Kiev ha cercato, sebbene in modo assai contraddittorio (cosa che naturalmente si spiega con la complessa realtà della società ucraina, con il passato lontano e recente di quel Paese), di prendere le distanze da Mosca, e per farlo si è dovuta avvicinare al cosiddetto «Occidente collettivo», esattamente come hanno fatto i Paesi che un tempo vivevano la pessima condizione di satelliti dell’Unione Sovietica o ne facevano parte in modo organico – come i Paesi Baltici. È questa dinamica che ha determinato l’espansione dell’imperialismo occidentale a trazione statunitense verso Est. Dal suo punto di vista, l’imperialismo russo fa bene a reagire come sa e come può a questa espansione: si tratta di vedere se ne ha la forza sistemica – perché da sola quella militare non basta, come abbiamo visto proprio a proposito dell’Unione Sovietica, crollata per debolezza capitalistica, e non certo per il complotto organizzato dai soliti cattivoni occidentali in combutta con i “traditori della patria socialista” – tipo Gorbaciov. Per conservare la sua autonomia nei confronti di una Russia che non accetta la triste condizione di «potenza regionale», come la definì una volta Obama, l’Ucraina è dunque costretta a integrarsi nel sistema occidentale, sia politicamente che economicamente e militarmente. “Scegliere”, magari con un referendum popolare, da quale parte del sistema di brigantaggio (copyright leniniano) quel Paese vuole – ha più interesse – stare, dal punto di vista antimperialista non cambia di un solo atomo i termini del discorso. Espandersi grazie alla forza dell’economia oppure in grazia della potenza militare: si tratta di due fenomenologie della stessa realtà: l’imperialismo – nelle sue diverse articolazioni geopolitiche: regionali, continentali, mondiali. Ovviamente chi crede nella democrazia capitalistica e nella possibilità di un “capitalismo dal volto umano”, o semplicemente meno cattivo (bisogna inchinarsi dinanzi al realismo e al principio del “male minore”!); chi ha fiducia nella «Società dei briganti» chiamata Onu, chi crede in tutto questo deve necessariamente pensarla in modo assai diverso da chi scrive. La prospettiva di un ingresso nel breve-lungo periodo dell’Ucraina nella Nato tramonta nel 2014; Washington infatti non poteva certo essere favorevole all’importazione della crisi russo-ucraina nell’Alleanza occidentale.

15. L’adesione della Svezia (Turchia permettendo) e della Finlandia (già ratificata ufficialmente) alla Nato ha certamente un carattere difensivo (nei confronti della Russia) ma in primo luogo si tratta pur sempre della difesa di un’entità sociale ultrareazionaria (la società capitalistica) e in secondo luogo tale adesione rafforza ed espande un’entità se possibile ancora più reazionaria: l’alleanza imperialistica guidata dagli Stati Uniti. Già ai tempi di Lenin (nell’area del capitalismo sviluppato) e soprattutto ai nostri tempi (nell’epoca del dominio mondiale del rapporto sociale capitalistico) porre la distinzione tra Paese aggressore e Paese aggredito non ha alcun significato dal punto di vista anticapitalista, mentre ne ha molto dal punto di vista delle classi dominanti dei Paesi che entrano in una collisione di interessi. Occorre ricordare che Lenin si schierò contro i socialdemocratici svizzeri che sostenevano la difesa nazionale della piccola, democratica, federale e “neutrale” Svizzera: «Nella guerra imperialistica in corso, come nelle nuove in preparazione, la “difesa della patria”, per ciò che concerne la Svizzera, è solo un inganno del popolo ad opera della borghesia. […] Gli operai e i contadini si farebbero uccidere in questa guerra non per i loro interessi o per la democrazia, ma per gli interessi della borghesia imperialistica» (16). Anche per la piccola Svizzera Lenin concepiva un tipo solo di guerra legittima: «la guerra del proletariato contro la borghesia per l’emancipazione dell’umanità dalla schiavitù salariata». Questo a proposito delle piccole nazioni, il cui status sociale e politico non implica affatto una deroga al principio antinazionale e antipatriottico. Tra l’altro leggere gli scritti leniniani sulla Svizzera del 1916 è molto istruttivo perché fa capire la linearità del percorso che portò Lenin a formulare nelle famose Tesi d’Aprile del 1917 la necessità del disfattismo rivoluzionario, anche dopo la nascita della Repubblica borghese rivoluzionaria, e della rivoluzione sociale nell’arretrata Russia come catalizzatore della rivoluzione sociale internazionale.

16. Marx ed Engels consideravano due sole cause nazionali valide per il movimento operaio europeo del loro tempo: quella irlandese e quella polacca. Particolarmente interessante è l’impostazione che i due comunisti diedero alla questione irlandese. Scriveva Marx: «L’obiettivo più importante dell’Internazionale è di accelerare la rivoluzione sociale in Inghilterra. L’unico mezzo per accelerarla è rendere indipendente l’Irlanda. […] Il compito specifico del Consiglio centrale di Londra è di risvegliare nella classe operaia inglese la consapevolezza che l’emancipazione nazionale dell’Irlanda non è per essa una questione di giustizia astratta o di sentimenti umanitari, bensì la prima condizione per la loro stessa emancipazione sociale. […] In tutti i centri industriali e commerciali dell’Inghilterra vi è adesso una classe operaia divisa in due campi ostili, proletari inglesi e proletari irlandesi. L’operaio comune inglese odia l’operaio irlandese come un concorrente che comprime il tenore di vita. Egli si sente di fronte a quest’ultimo come parte della nazione dominante, e proprio per questo si trasforma in strumento dei suoi aristocratici e capitalisti contro l’Irlanda, consolidando in tal modo il loro dominio su se stesso. L’operaio inglese nutre pregiudizi religiosi, sociali e nazionali verso quello irlandese. Egli si comporta all’incirca come i bianchi poveri verso i negri negli Stati un tempo schiavisti dell’Unione americana. L’irlandese lo ripaga con la stessa moneta. Egli vede nell’operaio inglese il corresponsabile e lo strumento idiota del dominio inglese sull’Irlanda. […] Questo antagonismo è il segreto dell’impotenza della classe operaia inglese a dispetto della sua organizzazione» (17). L’attualità (anche alla luce del problema dei flussi migratori) di questa riflessione marxiana non sfugge a nessuno. Il senso del sostegno che Marx ed Engels diedero alla questione nazionale irlandese appare chiaro: si trattava di svelenire la relazione, intossicata da pregiudizi ultrareazionari, tra il proletariato inglese e quello irlandese, di spezzare il corto circuito degli opposti orgogli nazionali per rendere possibile la fraterna unità fra lavoratori di diversa nazionalità ma che appartenevano alla stessa classe sociale: quella dei nullatenenti, dei salariati. Per porre in piena luce il dato sociale occorreva insomma sbarazzarsi del velo nazionalistico radicato nell’oppressione inglese dell’Irlanda.

17. Sul fondamento della società capitalistica mondiale ci saranno sempre nazioni dominanti e nazioni dominate, piccole, medie e grandi nazioni, imperialismi relativamente (e contingentemente) più deboli e imperialismi relativamente (e contingentemente) più forti degli altri. L’uguaglianza politica delle nazioni è una ridicola menzogna propagandistica, è una balla ideologica smentita tutti i giorni dal reale processo sociale mondiale. Questo era vero, nell’area capitalisticamente avanzata, ai tempi di Lenin ed è ancor più vero oggi, nell’epoca del dominio globale (nel senso di totale, totalitario) del rapporto sociale capitalistico di produzione e riproduzione della vita degli esseri umani. «Perché? Perché il capitalismo si sviluppa in modo ineguale, e la realtà oggettiva ci mostra, accanto alle nazioni capitalistiche evolute, tutta una serie di nazioni economicamente molto deboli e non sviluppate» (18). Va da sé che il concetto leniniano di sviluppo ineguale del capitalismo va rivisto – cioè approfondito e generalizzato – alla luce del capitalismo mondiale del XXI secolo: qui lo sviluppo ineguale non si dà tra Paesi capitalisticamente arretrati, o addirittura non ancora assoggettati al rapporto sociale capitalistico di produzione, e Paesi capitalisticamente sviluppati, come ai tempi di Lenin, bensì tra Paesi che condividono un – relativamente – alto sviluppo capitalistico. Lungi dallo svuotarsi, il concetto leniniano acquista oggi un significato ancora più pregnante sul piano teorico come su quello politico. Ed è per questo che se Lenin ebbe allora ragione contro Rosa Luxemburg sulla questione dell’autodecisione delle nazioni, da lei gravemente sottovalutata se non addirittura negata (soprattutto in merito all’Impero Russo), oggi è il punto di vista antinazionale della grande spartachista che appare assai più attuale (19).

18. All’«errore nazionalista» di Junius (Rosa Luxemburg), che contrapponeva al «falso patriottismo» dei socialsciovinisti tedeschi «l’esempio classico di tutti i tempi» (il 1793 della Grande Rivoluzione Francese) e «il programma di Marx, Engels e Lassalle» del 1848, Lenin replicò come segue: «L’errore del suo ragionamento salta agli occhi. […] Egli propone di “contrapporre” alla guerra imperialista il programma nazionale. Propone alla classe d’avanguardia di volgere lo sguardo al passato e non all’avvenire! Nel 1793 e nel 1848, in Francia, in Germania e in tutta l’Europa, obiettivamente era all’ordine del giorno la rivoluzione democratica borghese, della democrazia del tempo, programma attuato nel 1793 dagli elementi più rivoluzionari della borghesia e dalla plebe, programma sostenuto nel 1848 da Marx a nome di tutta la democrazia d’avanguardia. Alle guerre feudali e dinastiche si contrapposero allora, obiettivamente, le guerre democratiche rivoluzionarie, le guerre di liberazione nazionale. Tale era l’essenza dei compiti storici del tempo. Oggi […] alla guerra borghese imperialista, alla guerra del capitalismo sviluppato, obiettivamente si può soltanto contrapporre, dal punto di vista progressivo, dal punto di vista della classe d’avanguardia, la guerra contro la borghesia per il potere, la guerra senza la quale non è possibile un serio movimento progressivo» (20). Per Lenin in caso di guerra imperialista la sola posizione storicamente progressiva (non progressista!) concepibile per la classe d’avanguardia che vive nell’area capitalisticamente sviluppata del pianeta è quella che va nel senso della trasformazione di quella guerra ultrareazionaria in una guerra civile rivoluzionaria. Per l’area capitalisticamente arretrata, per le colonie, le semicolonie e le nazionalità oppresse inglobate negli imperi (come quello russo ed austroungarico) egli invece ritiene concepibile e anzi doveroso il sostegno da parte del proletariato rivoluzionario al movimento rivoluzionario democratico-borghese. Sostegno, si badi bene, tutt’altro che incondizionato e acritico, come abbiamo visto. Rinfacciare a Rosa Luxemburg il «programma nazionale» appare alquanto forzato da parte di Lenin, alla luce della posizione indiscutibilmente internazionalista della rivoluzionaria, la quale peraltro non annetteva alla questione nazionale una grande importanza nemmeno in relazione alle nazioni oppresse (ad esempio dalla Russia). Ma alcune frasi del suo celebre saggio del 1915 La crisi della socialdemocrazia si prestavano effettivamente a qualche equivoco e Lenin ne approfittò, com’era suo costume, per meglio definire la sua posizione.

(19) «Nell’era dell’imperialismo scatenato non c’è più posto per guerre nazionali. Gli interessi nazionali servono soltanto di pretesto per porre le masse lavoratrici al servizio del loro mortale nemico, l’imperialismo. […] Le piccole nazioni, le cui classi dirigenti sono appendici e conniventi dei loro compagni di classe dei grandi Stati costituiscono soltanto delle pedine nel gioco imperialistico delle grandi potenze. […] La pace mondiale non può essere assicurata da piani utopici o fondamentalmente reazionari come l’arbitrato di tribunali internazionali di diplomatici capitalisti, accordi diplomatici su “disarmo”, “libertà dei mari”, “abolizione del diritto di preda marittima”, “Confederazione di Stati europei “, “Unioni doganali centro-europee”, Stati nazionali cuscinetto e simili. Imperialismo, militarismo e guerre non sono eliminabili o limitabili, finché le classi capitalistiche esercitino incontrastate il loro dominio di classe. L’imperialismo, come ultima fase ed estremo sviluppo dell’egemonia politica mondiale del capitale, è il comune nemico mortale del proletariato di tutti i paesi. L’unico mezzo di offrire loro una resistenza vittoriosa, e l’unica garanzia della pace mondiale, sono la capacità di azione politica e la volontà rivoluzionaria del proletariato internazionale di far pesare sulla bilancia la propria forza. […] Il compito più immediato del socialismo è la liberazione spirituale del proletariato dalla tutela della borghesia, quale si esprime nell’influenza dell’ideologia nazionalistica. I socialisti devono denunciare la tradizionale fraseologia nazionalista come strumento borghese di egemonia» (21). Le obiezioni, in parte fondate (basti pensare alla Questione Polacca nell’ambito della Russia zarista), che Lenin avanzò alle posizioni di Rosa Luxemburg sulla questione dell’autodecisione (in primis, «l’errata negazione di tutte le guerre nazionali») oggi non trovano alcuna base nella realtà del processo sociale oggettivo, né negli interessi delle classi subalterne che hanno la ventura di vivere in Paesi grandi e piccoli, e tanto meno nella tattica che gli anticapitalisti (posta la loro esistenza in vita) sono chiamati a “implementare”. Nel XXI secolo è la posizione internazionalista e antimperialista della grande comunista che spicca per attualità come e più – molto di più – di prima. Va da sé che chi confonde l’attualità di una posizione politica con il suo contingente successo (o insuccesso) politico può legittimamente sorridere dinanzi alla mia irrealistica posizione.

20. Oggi la difesa del diritto all’autodecisione delle nazioni non ha più il significato progressivo e antimperialista che ebbe al tempo della Prima guerra mondiale, e dal punto di vista che ho cercato di esporre qui essa conserva un significato politicamente “accettabile” solo in aree estremamente ridotte del pianeta – che comunque non riguardano il Vecchio Continente. Nel XXI secolo, nelle’epoca del dominio totale (e totalitario, a prescindere dalla forma politico-istituzionale che tale dominio sociale assume nei diversi Paesi), non ha alcun fondamento storico, politico e sociale ogni rivendicazione a carattere nazionale, essendo le nazioni, grandi o piccole che siano, non più che nodi della rete capitalistica mondiale. L’Ucraina aggredita dall’imperialismo russo non fa eccezione, come non farebbero alcuna eccezione le nazioni che un tempo facevano parte dell’Impero Russo (dalla Russia zarista alla Russia stalinista) o che erano intergrate nella sfera di influenza sovietica qualora dovessero subire la stessa sorte dell’Ucraina. Il fatto che dopo la caduta del famigerato Muro e il crollo dell’Unione Sovietica quei Paesi si siano immediatamente precipitati nella sfera di influenza dell’imperialismo che ha vinto la Guerra Fredda proprio per trovare riparo dalle mire del potente vicino, questo solo fatto dimostra oltre ogni ragionevole dubbio quanto sia illusoria ogni rivendicazione di autonomia nazionale: o si sta da una parte dell’Imperialismo Unitario, o si sta dall’altra parte di esso. La nazione e la patria sono categorie storiche, e come tali esse mutano la loro realtà – e quindi il loro concetto – con il mutare della realtà storico-sociale. Ciò che ieri aveva un contenuto storico e sociale progressivo, o addirittura rivoluzionario (la nazione e la patria al tempo della borghesia antifeudale e della rivoluzione borghese), può benissimo oggi avere un contenuto radicalmente diverso e anzi opposto: è la dialettica del processo sociale, la quale trasforma la natura delle formazioni sociali e dei fenomeni sociali. Gli Stati Uniti, ad esempio, nascono in seguito a una guerra nazionale rivoluzionaria contro il Regno Unito per diventare nell’arco di poco tempo una potenza imperiale e poi senz’altro imperialista.

21. Per quanto sopra argomentato, non so con quanta chiarezza, intelligenza e “originalità” di giudizio, ritengo che sostenere il diritto della difesa nazionale dell’Ucraina aggredita dall’imperialismo russo richiamandosi al famoso Manifesto di Zimmerwald, o citando i passi leniniani dedicati al diritto di autodecisione delle nazioni, come mi è capitato di leggere ultimamente, mi appare a dir poco infondato sul piano dell’interpretazione storica come su quello dell’analisi e dell’iniziativa politica. Questo diritto può essere oggi sostenuto coerentemente solo dal punto di vista dell’ideologia dominante, che, come diceva il barbuto di Treviri, è l’ideologia che fa capo, sempre con le dovute “mediazioni dialettiche”, alle classi dominanti. Detto altrimenti, la rivendicazione della cosiddetta autodeterminazione nazionale ha un senso compiuto (ultrareazionario) solo dal punto di vista nazionale e patriottico, che è, appunto, il punto di vista delle classi dominanti e del loro Stato. Mettersi sul terreno della difesa nazionale significa dunque porsi sul terreno delle classi dominanti, dalla parte dei loro multiformi interessi – economici, politici, geopolitici e così via. È proprio nell’ora del massimo pericolo che occorre piantare in asso la patria (anche in guisa di “Patria Europea”), per non finire inghiottiti dalla macchina mostruosa che si nutre di carne umana e che ha il solo obiettivo di conservare e rafforzare la disumana dimensione del dominio sociale capitalistico – i cui confini oggi sono quelli del mondo, diventato la patria del Capitale. Concludo osservando che, in linea generale (teorica), non esiste una soluzione dei conflitti che rappresenti la soluzione più favorevole alla ripresa della lotta di classe rivoluzionaria su scala mondiale; troppi fattori, “oggettivi” e “soggettivi”, nazionali e internazionali, intervengono infatti nella genesi di un processo rivoluzionario per poter fissare in anticipo sui tempi quale soluzione porti più acqua al mulino degli anticapitalisti, e questa considerazione è tanto più vera oggi, quando cioè non vediamo sulla scena internazionale un unico grande gendarme dell’imperialismo mondiale.

(1) Lenin, I compiti del proletariato, aprile 1917, Opere, XXIV, p. 74, Editori Riuniti, 1966.
(2) Ibid., p. 73.
(3) Ibid., p. 70
(4) Lenin, A proposito dell’opuscolo di Junius, 1916, Opere, XXII, p. 308, Editori Riuniti, 1966.
(5) Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo, ottobre 1916, Opere, XXIII, p. 31, Editori Riuniti, 1965.
(6) Concettualizzo l’imperialismo del XXI secolo nei termini di un sistema unitario. Ai suoi tempi Lenin parlò di «Fronte unico livellato delle potenze imperialiste, della borghesia imperialista». Mi cito e mi scuso: «Il conflitto totale (economico, tecnologico, scientifico, ideologico, geopolitico) tra le grandi nazioni si dà all’interno di un sistema sociale che oggi ha le dimensioni del nostro pianeta. Esiste dunque un solo sistema sociale, una sola società, quella dominata dai rapporti sociali capitalistici. In questo peculiare senso l’imperialismo del XXI secolo ha un carattere unitario nei suoi presupposti sociali e nella sua dinamica: sfruttamento del lavoro umano, saccheggio delle risorse naturali, lotta tra le imprese, tra le nazioni e tra i sistemi di alleanze imperialistiche per la conquista dei mercati, il controllo delle materie prime e la spartizione del plusvalore sociale mondiale. Questo sistema sociale altamente complesso, contraddittorio, conflittuale e fortemente diseguale al suo interno, che ha nelle diverse nazioni del mondo i suoi nodi locali reciprocamente connessi da mille relazioni (il concetto di “sovranità nazionale” deve confrontarsi con questa realtà), si oppone unitariamente alle classi subalterne di tutto il mondo. Queste classi avrebbero quindi tutto l’interesse a formare un fronte altrettanto unitario contro il nemico comune, ma questo oggi purtroppo è lungi dal verificarsi; l’anticapitalista deve porre questo problema al centro della sua riflessione politica e teorica, senza nulla concedere al consolatorio – quanto impotente – “ottimismo della rivoluzione”: la realtà è pessima e bisogna comprenderne le ragioni vicine e lontane, contingenti e storiche. L’imperialismo mondiale come fenomeno sociale di prima grandezza si dà dunque come lotta tra le diverse potenze imperialistiche; ciò che definisco Sistema Imperialistico Mondiale ha questo preciso significato, il quale esclude in radice una pacifica convivenza tra quelle potenze. Per questo ciò che definisco Imperialismo Unitario è l’esatto opposto del Superimperialismo a suo tempo concettualizzato da Kautsky – e smentito mille volte dai fatti. Chi sostiene, per qualsiasi ragione, un imperialismo o un’alleanza di Paesi imperialisti in realtà sostiene il sistema imperialista nella sua compatta e disumana totalità» (La natura della guerra in corso in Ucraina).
(7) https://www.matrioska.info/attualita/piattaforma-dei-socialisti-e-libertari-per-la-resistenza-ucraina-e-la-pace/
(8) Qui mi limito a ricordare che tutte le volte che il movimento di opposizione sociale spagnolo, costituito dai salariati urbani e dai contadini poveri, cercò di praticare l’autonomia di classe contro l’oppressione politica e lo sfruttamento si scontrò puntualmente con le forze della repressione statale, anche durante il periodo egemonizzato dalla sinistra spagnola (giugno 1931 primavera 1939). Allora antifascismo e fascismo fecero, di fatto, fronte comune contro una possibile (seppur remota) soluzione rivoluzionaria della crisi sociale determinata dai fallimentari tentativi di modernizzazione capitalistica messi in campo dalla classe dirigente del Paese dalla fine del XIX secolo in poi. Molto debole sul piano sociale, la borghesia spagnola si rivelò invece assai intelligente e capace sul piano politico, dove seppe ben giocare la carta sinistrorsa (antifascista) e quella destrorsa (fascista).
(9) Nel secondo dopoguerra Mosca attribuì la sottoscrizione da parte dei russi del famigerato Patto Ribbentrop-Molotov del 23 agosto 1939 alla Francia e all’Inghilterra, accusate di essersi arresi alle pretese di Hitler nel settembre del 1938 a Monaco, isolando così pericolosamente l’Unione Sovietica, che strinse con Berlino un cosiddetto Patto di non aggressione al solo scopo di comprare tempo per prepararsi alla “inevitabile” guerra contro il nazifascismo. Niente di più falso. Il compromesso raggiunto a Monaco non isolò affatto la Russia, che infatti mantenne rapporti diplomatici con la Francia e l’Inghilterra in vista di un’alleanza militare. Quando Mosca e Berlino firmano il noto accordo economico e militare (con tanto di Protocollo segreto) i delegati di Londra e Parigi si trovavano ancora a Mosca, ignari di quanto stava accadendo alle loro spalle. Tra l’altro, Francia e Inghilterra giustificarono i risultati di Monaco con la necessità di prendere tempo per meglio far fronte sul piano militare alla minaccia tedesca. Com’è noto, chi allora, nel 1938 e nel 1939, “acquistò tempo” contro il nazifascismo non ne fece buon uso, diciamo così. Leggi anche Protocolli segreti e falsità storiche.
(10) Scrive Giulio Sapelli: «La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all’Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana» (Storia economica dell’Italia contemporanea, p. 1, Bruno Mondadori, 2008). Nulla da aggiungere. Successivamente quel mito  funse da collante ideologico nazionale, uno strumento politico-ideologico particolarmente usato dalla “sinistra” italiana contro i suoi avversari. Merita di essere ricordato il passaggio del discorso di Alcide De Gasperi, pronunciato il 10 agosto 1946 in relazione alla bozza del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, che mise formalmente fine alle ostilità tra l’Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale, laddove afferma: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione».
(11) «In generale la democrazia politica è soltanto una delle possibili (benché teoricamente normale per il capitalismo “puro”) forme di sovrastruttura del capitalismo. Sia il capitalismo che l’imperialismo, come dimostrano i fatti, si sviluppano sotto qualsiasi forma politica, sottomettendole tutte» (Lenin, Risultati della discussione sull’autodeterminazione, Opere, XXII, p. 325, Editori Riuniti, 1966).
(12) Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo, p. 54. Scriveva Engels: «Noi dobbiamo collaborare alla liberazione del proletariato occidentale, e tutto dev’essere subordinato a questo obiettivo. Per quanto possano essere interessanti gli slavi dei Balcani, ecc., possono andarsene al diavolo, se il loro sforzo di liberazione entra in conflitto con l’interesse del proletariato» (Lettera di Engels a E. Bernstein del 22-25 febbraio 1882, in Storia del marxismo, II, pp. 794-795, Einaudi, 1979).
(13) Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo, p. 61.
(14) Ibid., p. 56.
(15) Ibid., pp. 36-37.
(16) Lenin, I compiti degli zimmerwaldiani di sinistra, 1916, Opere, XXIII, p. 135, Editori Riuniti, 1965.
(17) Lettera di Marx a S. Meyer e A. Vogt del 9 aprile 1870, in Storia del marxismo, II, pp. 799-800, Einaudi, 1979.  «Mi domandate che cosa pensano gli operai inglesi della politica coloniale: esattamente ciò che pensano della politica in generale, ossia esattamente quello che ne pensano i borghesi. Qui non esiste, come sapete, un partito operaio: vi sono soltanto conservatori e liberali radicali, e gli operai mangiano allegramente la loro parte di ciò che apporta il monopolio dell’Inghilterra sul mercato mondiale e in campo coloniale» (Lettera di Engels a K. Kautsky del 12 settembre 1882, in Storia del marxismo, II, p. 801).
(18) Lenin, Intorno a una caricatura del marxismo, p. 58.
(19) Particolarmente interessante mi sembrano i passi luxemburghiani che seguono dedicati all’imperialismo russo: «L’imperialismo in Russia, come negli altri Stati occidentali, risulta dall’intreccio di diversi elementi. Il principale tuttavia non è costituito, come in Germania, o in Inghilterra, dall’espansione economica del capitale avido di sacculazione, ma dall’interesse politico dello Stato. Naturalmente l’industria russa, com’è tipico per la produzione capitalistica in generale, malgrado l’impreparazione del mercato interno, da molto tempo cerca di avviare la sua esportazione verso Oriente, in Cina, in Persia e nell’Asia centrale ed il governo zarista cerca con tutti i mezzi di incoraggiare questa esportazione come un fondamento desiderato  per la sua “sfera di interessi”.  ma la politica dello Stato è qui la parte determinante, non la parte determinata. Da un lato, nelle tendenze conquistatrici dello zarismo si estrinseca l’espansione tradizionale del potente impero […] che per ragioni economiche e politiche cerca di raggiungere lo sbocco sul mare libero, all’ Oceano Pacifico in Oriente, al Mediterraneo al sud. D’altro lato dice qui la sua parola anche l’interesse vitale dell’assolutismo, la necessità di mantenere nella gara generale delle grandi potenze nel campo della politica mondiale una posizione onorevole, per assicurarsi all’estero capitalista il credito finanziario, senza il quale lo zarismo è assolutamente incapace di esistere. […] Anche moderni interessi borghesi però entrano sempre più in considerazione come fattori dell’imperialismo degli zar. Il giovane capitalismo russo […] vede innanzi a sé un brillante avvenire per le smisurate risorse naturali di quell’impero gigantesco. […] Lo zarismo non è più soltanto un prodotto della situazione russa: le sue seconde radici si possono cercare nella situazione capitalistica dell’Europa occidentale» (R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, 1915, in Scritti politici, pp. 481-497, Editori Riuniti, 1967). Inutile dire che, mutatis mutandis e senza abbandonarsi acriticamente alle analogie storiche, i passi luxemburghiani si armonizzano senza forzature con la Russia di oggi.  Rosa Luxemburg non aveva «alcun dubbio» sul fatto che non appena la Russia avesse fatto «piazza pulita dell’assolutismo», questo Paese si sarebbe sviluppato «rapidamente fino a diventare il primo Stato capitalistico moderno». La previsione non è stata azzeccata, ed è piuttosto la Cina, che al tempo in cui scriveva la comunista di Zamość viveva la triste condizione di Paese vittima dei famelici interessi imperialistici occidentali e giapponesi, si candita oggi a diventare «il primo Stato capitalistico moderno»: “dialettica” del processo storico-sociale!
(20) Lenin, A Proposito dell’opuscolo di Junius, pp. 314-315.
(21) R. Luxemburg,  Appendice a La crisi della socialdemocrazia,  in Scritti politici, pp. 548-551.

MANEGGIARE CON CURA ROSA LUXEMBURG!

UN ANNO DOPO

L’ASSE DEL MALE È SEMPRE PIÙ FORTE E MINACCIOSO

LA DIMENSIONE MONDIALE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO

DAMMI SOLO UN SÍ O UN NO!

Trovo particolarmente antipatica la domanda formulata nei termini che seguono: «Sei contrario o sei favorevole a questo fenomeno sociale?» Mi si chiede insomma di rispondere con un o con un no alla domanda che riguarda un qualsiasi fenomeno/problema sociale di cui molto si parla (più spesso si straparla): si tratti del cosiddetto utero in affitto o della cosiddetta Intelligenza Artificiale. Per non parlare del superamento del motore a combustione interna (ovviamente in vista della salvezza del nostro amato pianeta)! «Sei d’accordo o sei contrario?» Trovo ancor più antipatico dover rispondere al mio interlocutore che la domanda formulata in quei termini per me non ha alcun senso, che essa andrebbe posta, sempre per come la vedo io, in questi termini: «Secondo te qual è il significato di questo fenomeno/problema sociale? Cosa ne pensi?» In questo caso mi si proporrebbe di fare un ragionamento, non si sa quanto intelligente, chiaro e convincente, ma in ogni caso si tratterebbe di una riflessione, e non di una risposta a dir poco secca a una domanda riguardante un fenomeno sociale complesso e contraddittorio.

La domanda che come risposta ammette solo un o un no genera tifoserie rivali (i tifosi del contro i tifosi del No: lo abbiamo visto ai tempi della crisi pandemica) e promuove/rafforza la tendenza a non riflettere seriamente sui fenomeni sociali, che poi è esattamente quello che desiderano i cosiddetti potenti, i quali peraltro sanno di poter contare sull’abitudine della “gente comune” a delegare ai cosiddetti esperti l’approfondimento dei problemi più complessi posti alla comunità dal processo sociale. Tra l’altro questo fatto la dice lunga sul significato dei sondaggi d’opinione commissionati dal marketing commerciale e politico.

Alla “gente comune” è offerta dunque solo la “libertà” di dire un (sono favorevole) o un No (non sono favorevole): «Sei contrario o favorevole alla carne coltivata, anche detta artificiale?» Veramente io vorrei piuttosto provare a fare un ragionamento (Ciriaco De Mita avrebbe detto ragionamendo)… «Uffa che sei noioso! Ti avevo chiesto un o un no e te ne esci con il ragionamento! Vuoi forse darmi a intendere che la sai più lunga di me? Oppure hai paura di schierarti?» Anche mazziato! Quando si dice essere inattuali…

SUL RIFLESSO CONDIZIONATO AUTORITARIO

Scrive il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky: «In Italia si può donare un rene, ma non si può venderlo, e questo lo trovo giusto. Ciò che importa è che nessuno possa commercializzare il proprio corpo. Gestazione per altri? Distinguerei tra utero in affitto a pagamento, che è inaccettabile, e un approccio solidale». Per Zagrebelsky è dunque giuridicamente lecito ed eticamente corretto la gestazione per altri che non abbia uno scopo economicamente sensibile, che non sia cioè finalizzata a uno scambio mercantile, ma che si configuri piuttosto come un dono a vantaggio di chi non può avere un figlio mentre lo desidera più di ogni altra cosa.

È dunque sul cosiddetto utero in affitto, ossia sulla compravendita del “servizio gestazione” che si concentrano le condanne o quantomeno le perplessità dei “progressisti”, i quali ci tengono a differenziare la loro contrarietà da quella espressa dalla “destra” omofoba e che riconosce come “naturale” solo «la famiglia composta da una madre, da un padre e dai figli». Qui è solo il caso di ricordare che la cosiddetta famiglia naturale non è mai esistita, se non nella testa appunto degli ultrareazionari. La famiglia è sempre stata per società, non per natura. Nell’ambito del solo patriarcato si contano, nel tempo, diversi modelli di famiglia, soprattutto in relazione alla differenza che corre tra città e campagna. Un noto attore italiano ha lamentato qualche tempo fa il fatto che «i genitori sono diventati dei bancomat»: non sanno più dire un solo no alle pretese dei figli, che infatti approfittano in tutti i modi della debolezza dei genitori. C’è del vero, anzi c’è molto di vero in quel che dice l’attore; ma anziché concludere la lamentela con la solita triviale banalità del «si stava meglio quando si stava peggio», o con il consiglio di ripristinare la perduta autorità genitoriale sui figli (magari imponendo loro di usare meno i cosiddetti social: come se la cosiddetta realtà virtuale non fosse la continuazione della realtà “propriamente detta”!), dovremmo interrogarci su quella autorità alla luce dello strapotere delle forze sociali capitalistiche – le quali spesso si manifestano come tecnologia mediatica e come marketing orientato alla spesa compulsiva. Ci si illude forse di poter mettere al riparo la famiglia (“naturale” o meno che sia) da quelle forze che premono da tutte le parti (anche da quelle della cui esistenza non si sospettava nemmeno) la società e ogni singolo individuo?

Contrapporre poi il bisogno (buono perché “naturale”) al desiderio (cattivo perché “artificiale”) sulla base di una concezione antistorica (1) delle relazioni umane, significa porsi su una strada lastricata di pessime decisioni personali e politiche – distinzione che com’è noto è anch’essa assai dubbia. Storicamente siamo passati dalla repressione dei corpi e dei bisogni alla loro graduale e poi sempre più accelerata integrazione nella logica capitalistica, che ne ha fatti dei zelanti quanto potenti alleati del dominio sociale capitalistico: in questo contesto contrapporre i bisogni ai desideri (ad esempio, desiderare un figlio anche se si è omosessuali) è francamente ridicolo e spiana la strada che conduce il pensiero su posizioni autoritarie. Ma ritorniamo al punto scottante.

Cosa possiamo dire sul cosiddetto utero in affitto? Prendo in considerazione solo questa “fattispecie” perché la gestazione per altri come dono, come puro atto altruistico, “non fa problema” in gran parte degli ambienti progressisti del nostro Paese. Bisogna invece fare i conti con la pratica che crea scandalo e indignazione pressoché universali. Troppo facile camminare sul soffice e piano terreno della gratuità, del dono e dell’altruismo! Non ci sarebbe alcun merito, per dirla con Nostro Signore.

Intanto si può dire che quella di cui ci stiamo occupando è una pratica estremamente minoritaria a cui ricorrono in larga maggioranza le coppie eterosessuali. Nonostante l’esiguità dei numeri la questione tocca molti nervi scoperti di diversa natura, e ci si pone alla riflessione come un classico tema controverso e divisivo, come dimostra il dibattito interno a ciò che rimane del movimento femminista. Per la “femminista storica” Marina Terragni «Il femminismo radicale è convinto che lo sfruttamento delle donne e il mercato dei bambini vada perseguito ovunque, anche all’estero» (Avvenire). Si tratta della proposta di legge, avanzata anche da molti politici sinistrorsi, intesa a far diventare «reato universale» (nientedimeno!) la vendita del servizio gestazione (2).

Per chi scrive non si tratta di schierarsi a favore o contro un fenomeno sociale che ha i requisiti appena accennati, ma di capirne la natura sociale, collocandolo nel contesto sociale di cui esso  è parte e da cui riceve il suo autentico significato. Se infatti isoliamo una pratica sociale, di qualsiasi genere e impatto sociale, da questo contesto non solo non ne comprendiamo il significato profondo  (il nesso che lega il particolare al generale, la singolarità alla totalità), ma non riusciamo nemmeno a individuarne la dinamica, la tendenza, e soprattutto ci esponiamo al rischio di connotarla in termini ideologici e moralistici, cosa che non può non ripercuotersi negativamente anche sul piano delle nostre scelte politiche. È esattamente quel che accade a chi approccia la cosiddetta gestione per altri con un atteggiamento punitivo, repressivo e proibizionista. Il processo di mostrificazione dell’utenza del servizio in questione in questi giorni ha superato abbondantemente i limiti del parossismo, in una gara a chi la spara più grossa contro «i ricconi che vogliono soddisfare un desiderio sfruttando il corpo di una donna bisognosa». Grande scoperta sociologica: nel migliore dei mondi possibili (cioè nella società capitalistica) esistono i “ricconi” e le donne bisognose! Prendo la notevole scoperta e la porto a casa.

Non ci piace un fenomeno sociale? Vietiamolo! Dinanzi a un fenomeno sociale che non comprendiamo o che esecriamo con tutte le nostre forze si attiva in noi una sorta di riflesso condizionato autoritario. La formazione della personalità autoritaria ha molto a che fare con l’impotenza dell’individuo sussunto sotto la totalità sociale ostile all’umano. La personalità autoritaria è la faccia opposta dell’individualismo come illusione e come ideologia: «La società è giunta ad esercitare sul singolo una pressione strapotente, e le reazioni individuali sono ristrette entro limiti più che mai ridotti:  quanto meno individui abbiamo, tanto più individualismo (3). In effetti non abbiamo individui, ma atomi sociali che spesso “fanno massa” aggregandosi con altri individui atomizzati.

Azzardo un’analogia. Come dimostrano le politiche italiane intese a governare l’uso delle droghe e il mercato della prostituzione, l’approccio di cui sopra da me stigmatizzato si rivela una mera illusione autoritaria che realizza solo un plus di sofferenze e di problemi a carico delle persone coinvolte a vario titolo in quei due fenomeni. Non solo non si risolvono i problemi, com’è peraltro ovvio sul fondamento della vigente società, ma si finisce per aggravarli e per creare nuovi problemi, e questo a prescindere dalle ottime intenzioni che ispirano i proibizionisti chiamati a governare i fenomeni sociali. Peraltro le organizzazioni criminali che gestiscono il mercato delle sostanze proibite sono da sempre contrarissime alla loro legalizzazione che ne farebbe crollare il prezzo nel giro di qualche giorno. In ogni caso il proibizionismo è un’illusione che genera effetti deleteri assai concreti (4).

Parliamo della prostituzione: è “bello”, è “giusto”, è rispettoso della dignità della persona offrire un “servizio sessuale” in cambio di denaro? Prima di rispondere alla domanda intanto bisogna capire la natura del fenomeno in questione alla luce della realtà sociale che lo rende possibile. Qui naturalmente intendo riferirmi alla prostituzione esercitata da una persona, donna o uomo che sia, esercitata come “libera attività”, e non alla prostituzione come pratica sfruttata da un’organizzazione criminale o dal classico magnaccia. “Libera attività”, beninteso, come può essere libera qualsivoglia attività economica esercitata nella società dominata dal Dio denaro, nella società plasmata dai rapporti sociali capitalistici di produzione di beni, servizi e individui – cioè di merci. Scrive l’avvocato Francesco Dandria: «L’attività di meretricio, ossia offrire una prestazione sessuale in cambio di denaro, da parte di una persona adulta, non costituisce reato se la prestazione sessuale viene compiuta liberamente e volontariamente. In altre parole, se non vi è costrizione da parte di alcuno ognuno può scegliere di fare ciò che vuole con il proprio corpo. Ciò rientrerebbe nelle scelte individuali della persona umana e dunque nel principio costituzionale della libertà personale». Su questo tema vige ancora la cosiddetta Legge Merlin varata nel lontanissimo 20 febbraio 1958. In Italia vendere il servizio sessuale non è un reato mentre lo è acquistarlo: come si spiega questo incredibile paradosso? Con la tradizionale moralistica ipocrisia del nostro Paese? Fatto sta che l’utente sessuale corre il rischio di incorrere nel reato di favoreggiamento della prostituzione.

Una persona mercifica il suo corpo per ottenere denaro: vogliamo forse punirla? Io no! Opporsi all’intenzione punitiva significa considerare bella e buona la prostituzione (magari indotti da un “conflitto di interessi”…)? Solo uno sciocco può pensare questo. C’è anche chi, pur non volendo criminalizzare sul piano giuridico quella pratica, avverte tuttavia il bisogno di consigliare a chi esercita “liberamente” «l’attività di meretricio» di cambiare lavoro, di sceglierne uno “meno riprovevole” sul piano etico: «Magari guadagni di meno e fatichi di più, ma in compenso acquisti in dignità e autorispetto». Personalmente non ho alcun consiglio da dare né una predica da fare a chi ritiene più utile alle proprie aspettative di vita vendere un servizio sessuale a qualcuno anziché venderne un altro di diversa qualità. Per come la vedo io, sul terreno della compra-vendita tutte le vacche sono grigie! Posta la domanda (un bisogno sociale di qualsiasi genere), segue l’offerta: nel capitalismo la mercificazione di entrambi i poli del mercato è fisiologica – e difatti si chiama mercato. Ti vendo un bene o un servizio e in cambio tu mi dai dei soldi. Come scriveva Marx, la domanda in grado di pagare è la sola domanda che può vantare giusti diritti nella società capitalistica. E chi non può pagare? Si arrangi!

A chi si riempie la bocca di mercificazione del corpo delle donne e del nascituro, faccio rispettosamente notare la tremenda realtà della mercificazione universale. La mercificazione del corpo del lavoratore (e non solo del suo lavoro) è ad esempio una realtà che da sola è sufficiente, sempre a mio avviso, a relativizzare, se non a ridicolizzare, tanti indignati discorsi sull’utero in affitto e sul mercato dei bambini. 

Mi si può sempre obiettare, soprattutto “da sinistra”, che comunque occorre organizzare una resistenza nei confronti della disumana potenza del Moloch capitalistico, senza attendere che la palingenesi sociale (aspetta e spera!) ce ne liberi una volta per sempre. «Occorre mettere un argine alla strapotenza del Mostro!» Sono perfettamente d’accordo! Resistere, resistere, resistere! Il problema è semmai come resistere, con quali strumenti politici e con quale approccio concettuale. Solo resistendo oggi è possibile preparare (sempre si spera) la rivoluzione sociale di domani. Resistendo alle continue pressioni del Capitale i lavoratori imparano la solidarietà di classe, si rafforzano, possono sperare di conquistare sempre nuove posizioni contro gli interessi dei padroni e del loro Stato. L’anticapitalista non ha mai contrapposto il futuro al presente, la strategia alla tattica, la teoria alla prassi. Ebbene, io credo che la resistenza alla continua disumanizzazione degli individui (di ogni loro relazione, di ogni loro attività) imposta dai vigenti rapporti sociali basata su un approccio punitivo, repressivo e proibizionista ai fenomeni sociali, anche di quelli che ci appaiono più lontani dalla nostra sensibilità umana e politica; penso che questo approccio sorrida alla conservazione sociale e volti invece le spalle all’emancipazione universale. Questo tipo di resistenza non mi piace neanche un poco.

(1) Qualche epigono di Freud non particolarmente profondo e soprattutto l’intero esercito di neuroscienziati inchiodano alla croce del determinismo biologico il “padre della psicoanalisi” a causa del suo celebre enunciato che recita «L’anatomia è il destino». «Modificando una nota frase del grande Napoleone, si potrebbe dire a questo proposito: “l’anatomia è il destino”. I genitali stessi non hanno seguito l’evoluzione delle forme corporee verso la bellezza, sono rimasti animaleschi, e così anche l’amore è rimasto nella sua essenza animale come è sempre stato. Le pulsioni erotiche sono difficilmente educabili, la loro educazione ora dà troppo, ora troppo poco. Ciò che la civiltà vuol fare di esse non pare raggiungibile senza sensibile scapito di piacere, la persistenza degli impulsi inutilizzati è riconoscibile nell’attività sessuale come mancato soddisfacimento.

A questo punto, dovremmo forse abituarci all’idea che un adeguamento della pulsione sessuale alle esigenze della civiltà non sia affatto possibile; che rinuncia e sofferenza nonché, in lontanissima prospettiva, il pericolo di estinzione del genere umano in seguito alla sua evoluzione civile non possano venir evitati» (S. Freud, Contributi alla psicologia della vita amorosa, in Opere, vol. 6, p. 431, Boringhieri, 1974). L’enunciato freudiano non può venir isolato da altri enunciati di analogo argomento senza perdere il suo autentico significato. Due soli esempi: «Le differenze [biologiche] di sesso non possono pretendere ad alcuna caratterizzazione psichica particolare» (L’interesse per la psicoanalisi, in Opere, vol. 7, p. 265); «Ciò che costituisce la mascolinità o la femminilità [è] un carattere sconosciuto, che l’anatomia non è in grado di cogliere» (Introduzione alla psicoanalisi (nuova serie di lezioni), Lezione 33. La femminilità, in Opere, vol.11, p. 221). L’anatomia non è in grado di cogliere, mentre una psicologia che fosse orientata in senso critico-sociologico potrebbe farlo. L’enunciato freudiano va anche letto alla luce dei che passi che seguono, i quali hanno come loro obiettivo polemico la morale sessuale repressiva borghese del tempo in cui scriveva il Nostro: «Che i bambini non abbiano alcuna vita sessuale – eccitamenti e bisogni sessuali e una specie di soddisfacimento – ma la acquistano improvvisamente tra i 12 e i 14 anni, sarebbe (a prescindere da tutte le osservazioni) biologicamente inverosimile, anzi insensato: come se dicessimo che non vengono al mondo con i genitali, ma che questi si formano in loro solo all’epoca della pubertà» (La vita sessuale umana, in Introduzione alla psicoanalisi, p. 281, Boringhieri, 1985). Scriveva Lacan: «Freud ci dice: L’anatomia è il destino. Lo sapete bene, in certi momenti mi è capitato di protestare contro questa formula per quello che ha di incompleto. Essa diventa vera se diamo al termine anatomia il suo senso stretto e, se così posso dire, etimologico, il quale mette in rilievo, ana-tomia, la funzione del taglio» (J. Lacan, Il Seminario. Libro X. L’angoscia, p. 256, Einaudi,  2007). La formula freudiana non è sbagliata ma incompleta: come completarla?  Lacan suggeriva di collocare «la sessualità […] nelle reti della costituzione soggettiva, nelle reti del significante», cosa che a mio avviso chiama in causa il processo sociale inteso nella sua complessa totalità.

(2) Qualche sinistro personaggio ha tirato in ballo un articolo di Gramsci scritto nel 1918 per suffragare la bontà della rivendicazione. Scriveva Gramsci: «Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità. Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini e si libereranno di un pericolo. […] Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite, alle guaste signore che troppo si sono divertite e vogliono ricuperare il numero perduto. I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani, necessari per tramandare la stirpe dei pizzicagnoli arricchiti. […] Il quattrino deturpa, abbrutisce tutto ciò che cade sotto la sua legge implacabilmente feroce. La vita, tutta la vita, non solo l’attività meccanica degli arti, ma la stessa sorgente fisiologica dell’attività, si distacca dall’anima, e diventa merce da baratto; è il destino di Mida, dalle mani fatate, simbolo del capitalismo moderno» (A. Gramsci, Scritti 1913-1926, p. 88, Einaudi, 1984). Detto che non sono mai stato un grande estimatore di Gramsci (essendomi formato alla scuola di Amadeo Bordiga), mi sembra che qui egli si “limiti” a denunciare acutamente un fenomeno sociale, nei termini in cui poteva farlo un socialista che scriveva un secolo fa, riconducendolo alle sue radici sociali e, soprattutto, senza rivendicare leggi repressive.

(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, p. Einaudi, 2001.

(4) «Ogni anno circa 4.000 giovani, quasi tutte ragazze, perdono la vita per anoressia e disturbi alimentari. È la prima causa di morte dopo gli incidenti stradali sotto i 25 anni. Il partito della Meloni vuole introdurre un nuovo articolo del codice penale: il 580 bis, ovvero il reato di istigazione ai disturbi alimentari, l’anoressia su tutti. La norma prevede la reclusione in carcere fino a due anni e sanzioni da 20 mila a 60 mila euro per chiunque “determina o rafforza l’altrui proposito di ricorrere a condotte alimentari idonee a provocare o rafforzare i disturbi del comportamento alimentare”, primo fra tutti l’anoressia» (Ansa).

RAGIONANDO PER ASSURDO CON I TIFOSI DEL REGIME CINESE

Chi avesse ancora dubbi sulla natura pienamente imperialista della Cina, farebbe bene a prendere atto della relazione economica e politica che si sta venendo a realizzare tra questo Paese e la Russia – peraltro definita imperialista da Lenin e da Rosa Luxemburg già ai tempi dello zarismo (*). Ma non è su questa importante questione che adesso voglio riflettere – sebbene non escludo affatto che i lettori potranno trovare non pochi “agganci” tra quello che ho appena scritto e ciò che scriverò qui di seguito.

Un mio amico mi ha fatto notare come sia una «missione impossibile» quella intesa a convincere gli estimatori sinistrorsi della Cina, già nostalgici dello stalinismo “sovietico”, che quel Paese non ha niente di socialista mentre ha invece tutto (economia, regime politico-istituzionale, politica interna ed estera, ecc.) di capitalista. Gli ho suggerito una diversa strategia comunicativa, per così dire, un diverso approccio “dialettico” se proprio ci tiene a mantenere un qualche rapporto con quelle eccellenti persone: abbandonare l’assurda idea di convincerle circa la natura capitalista/imperialista della Cina (e della Russia di Stalin e “compagni”), e anzi dare loro pienamente ragione proprio su questo rognoso punto. Fatto questo, si può azzardare il ragionamento “per assurdo” (più che per ipotesi) che segue.

Se il socialismo, non quello “ideale” che esiste nei sogni degli utopisti ma quello che è realisticamente possibile realizzare in questa imperfetta dimensione umana, è quello che dite voi; se sulla base del “marxismo” si realizza quello che abbiamo imparato a conoscere come socialismo reale: se tutto questo è vero, come fate a dirvi socialisti e marxisti senza provare vergogna? A meno che non vi piaccia lo sfruttamento e l’oppressione sociale che si consuma ogni giorno in Cina (e nel passato in Unione Sovietica) ai danni delle classi subalterne del grande Paese asiatico. Lo stesso sfruttamento e la stessa oppressione sociale che, beninteso e mutatis mutandis, osserviamo in Occidente: chi scrive rema (come può e come sa) contro tutti i Paesi del mondo, a cominciare dal suo.   

Personalmente se mi convincessi che quello realizzato nella Russia “sovietica” e nella Cina (da Mao a Xi) andrebbe in effetti definito come socialismo, che esso sia veramente una coerente realizzazione del marxismo (il “salto dialettico” dalla teoria alla prassi); ebbene se pervenissi a questa tragica conclusione non esiterai un attimo a dirmi radicalmente antisocialista e antimarxista. Getterei Marx, barba compresa, non in soffitta, ma dentro il cesso delle ideologie, con rispetto parlando, e mediterei molto sulla mia passata incoscienza. Affiancherei insomma al mio vecchio anticapitalismo/antimperialismo un antisocialismo e un antimarxismo nuovi di zecca, perché io sono contro lo sfruttamento e contro l’oppressione sociale a prescindere dalla loro radice sociale. Sono contro la società disumana (dagli Stati Uniti alla Cina, passando per l’Unione Europea) e contro i regimi ultrareazionari (dagli Stati Uniti alla Cina, passando sempre per l’Unione Europea) a prescindere appunto dalla loro natura sociale: capitalismo e socialismo per me pari sono (sarebbero)! Con rispetto parlando, la cacca rimane cacca in ogni sua possibile “declinazione” sociale, politica e ideologica.

E quindi voi tifosi del «socialismo con caratteristiche cinesi nella nuova era» mi state dicendo che vi piace la cacca cinese, sempre per usare una terminologia rigorosamente materialistico-dialettica (e dunque oggettivamente scientifica!), solo perché essa esibisce l’etichetta “Socialismo”? Mi state dicendo che solo per questo la preferite a quella statunitense o a quella europea? E al contempo mi state dicendo che per voi internazionalisti, così almeno dite di essere,  la cacca che la società cinese propina alle classi subalterne vi sta bene mentre non vi sta bene quella che viene propinata alle classi subalterne nel cosiddetto Occidente Collettivo? O forse, più semplicemente, per voi non si tratta affatto di cacca in salsa cinese, ma di una eccellente e profumatissima pietanza alternativa alla robaccia che offre l’odiato Occidente a chi per vivere è costretto a vendere una qualche capacità lavorativa (cosa che peraltro vale anche in Cina)? Ho inteso bene?

D’altra parte tutto è relativo, come si dice, e ciò che a me appare oltremodo ripugnante e da combattere, a un altro, che guardasse la stessa cosa ma da un diverso punto di vista, informato cioè da una ben diversa “concezione del mondo” (ad esempio su ciò che chiamiamo libertà, umanità, felicità, prosperità e così via), a un altro, dicevo, la cosa potrebbe benissimo apparire in una guisa radicalmente diversa. Bisogna dunque rassegarsi al “relativismo” concettuale e abbandonare ogni illusione circa l’esistenza di una realtà oggettiva assolutamente indipendente dal soggetto che ne sperimenta gli effetti. Il mio “correlazionismo ontologico” mi suggerisce questa conclusione, benché sia difficile da digerire.

E qui mi rendo conto che questo ragionamento “per assurdo”, già viziato dai troppi richiami al prodotto della digestione (e a questo proposito bisogna ammettere che ci vuole uno stomaco di ferro per digerire certe panzane ideologiche!) rischia di avvitarsi in un circolo vizioso; forse la mia strategia “comunicativa” non è poi così intelligente e “dialettica” come pensavo. Forse il mio amico ha ragione: è impossibile insinuare dubbi nella testa dei filocinesi.

In ogni caso, e vado rapidamente a concludere questa sconclusionata riflessione, preferisco di gran lunga avere a che fare con chi pensa, a torto, che cacca socialista e cacca capitalista si equivalgono, e che occorre dunque sbarazzarsi quanto prima di entrambe le sostanze escrementizie, che discutere con chi trova tutt’altro che repellente e comunque meritevole di rispetto («bisogna rispettare tutte le culture»: come se si trattasse di un problema culturale!) il regime sociale cinese – e quello “sovietico” dei vecchi tempi. Con il primo condividerei quantomeno lo stesso desiderio di emancipazione umana dallo sfruttamento e dall’oppressione sociale, e magari l’idea che sia possibile, oltre che auspicabile, l’uscita dell’umanità dalla dimensione classista della società. Il secondo è meglio, è più igienico, diciamo così, lasciarlo sguazzare nelle sue escrementizie convinzioni. «Del resto non si può escludere, in linea di principio, che egli possa scoprire da solo che non si tratta affatto di socialismo ma di capitalismo, e che quindi si può essere contro il Celeste Imperialismo senza per questo dar ragione all’Imperialismo Occidentale e torto a Karl Marx». Dopo tutto il mio amico si conferma essere un’inguaribile ottimista, e soprattutto – e per fortuna! – non ha bisogno dei miei consigli.

(*) Particolarmente interessante mi sembra a questo proposito l’analisi di Rosa Luxemburg: «L’imperialismo in Russia, come negli altri Stati occidentali, risulta dall’intreccio di diversi elementi. Il principale tuttavia non è costituito, come in Germania, o in Inghilterra, dall’espansione economica del capitale avido di sacculazione, ma dall’interesse politico dello Stato. Naturalmente l’industria russa, com’è tipico per la produzione capitalistica in generale, malgrado l’impreparazione del mercato interno, da molto tempo cerca di avviare la sua esportazione verso Oriente, in Cina, in Persia e nell’Asia centrale ed il governo zarista cerca con tutti i mezzi di incoraggiare questa esportazione come un fondamento desiderato  per la sua “sfera di interessi”.  ma la politica dello Stato è qui la parte determinante, non la parte determinata. Da un lato, nelle tendenze conquistatrici dello zarismo si estrinseca l’espansione tradizionale del potente impero […] che per ragioni economiche e politiche cerca di raggiungere lo sbocco sul mare libero, all’ Oceano Pacifico in Oriente, al Mediterraneo al sud. D’altro lato dice qui la sua parola anche l’interesse vitale dell’assolutismo, la necessità di mantenere nella gara generale delle grandi potenze nel campo della politica mondiale una posizione onorevole, per assicurarsi all’estero capitalista il credito finanziario, senza il quale lo zarismo è assolutamente incapace di esistere. […] Anche moderni interessi borghesi però entrano sempre più in considerazione come fattori dell’imperialismo degli zar. Il giovane capitalismo russo […] vede innanzi a sé un brillante avvenire per le smisurate risorse naturali di quell’impero gigantesco. […] Lo zarismo non è più soltanto un prodotto della situazione russa: le sue seconde radici si possono cercare nella situazione capitalistica dell’Europa occidentale» (R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, 1915, in Scritti politici, pp. 481-497, Editori Riuniti, 1967). Inutile dire che, mutatis mutandis e senza abbandonarsi acriticamente alle analogie storiche, i passi luxemburghiani si armonizzano senza forzature con la Russia di oggi.  Rosa Luxemburg non aveva «alcun dubbio» sul fatto che non appena la Russia avesse fatto «piazza pulita dell’assolutismo», questo Paese si sarebbe sviluppato «rapidamente fino a diventare il primo Stato capitalistico moderno». La previsione non è stata azzeccata, ed è piuttosto la Cina, che al tempo in cui scriveva la comunista di Zamość viveva la triste condizione di Paese vittima dei famelici interessi imperialistici occidentali e giapponesi, si candita oggi a diventare «il primo Stato capitalistico moderno»: “dialettica” del processo storico-sociale!

La Cina è un paese capitalista?La Cina è un paese socialista?Centenari che suonano menzogneri; Tutto sotto il cielo – del CapitalismoChuang e il “regime di sviluppo socialista”Sulla campagna cineseSocial ContagionŽižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinesePiazza Tienanmen e la “modernizzazione” capitalistica in Cina. Il ruolo degli studenti e dei lavoratori nella primavera cinese del 1989Tienanmen! 

MANEGGIARE CON CURA ROSA LUXEMBURG!

Scrive il Collettivo Euronomade: «La guerra in Ucraina deve dunque essere fermata al più presto, mentre i rifornimenti di armi all’Ucraina da parte dell’Occidente (con i Paesi europei ormai in prima fila) non fanno che prolungarla, prolungando così lo strazio di corpi, città e territori. Ma devono essere fermati al tempo stesso i regimi di guerra che, ben al di là di Russia e Ucraina, stanno proliferando in molte parti del mondo, e in particolare in Europa. Va da sé che per regimi di guerra non intendiamo una forma di organizzazione politica interamente (totalmente) definita dalla guerra. Ci riferiamo piuttosto a una penetrazione flessibile della logica della guerra (dell’“interesse nazionale”) nella vita politica e nell’economia al di là del diretto impegno bellico di un Paese. L’aumento delle spese militari, la militarizzazione di settori “civili” dell’economia, l’inclusione nel calcolo “geopolitico” di questioni come il governo delle migrazioni, la politica energetica e le infrastrutture digitali sono tre esempi delle molteplici manifestazioni del regime di guerra. Altri se ne potrebbero facilmente aggiungere. […] E se le immagini che provengono dal fronte ucraino riportano alla mente le trincee e le “tempeste d’acciaio” della grande guerra, quando la pace sociale e l’unità patriottica vennero imposte in tutti i Paesi coinvolti, risuonano per noi da quegli anni le parole di Rosa Luxemburg: “è la guerra come tale, e quale ne sia l’esito militare, a significare la maggiore sconfitta per il proletariato europeo; farla finita con la guerra e forzare al più presto la pace con l’azione combattiva del proletariato, ecco ciò che può rappresentare l’unica vittoria per la causa proletaria” (Juniusbroschüre, aprile 1915)».

La citazione luxemburghiana è tratta dall’importante saggio La crisi della socialdemocrazia scritto da Rosa Luxemburg nell’aprile del 1915 e pubblicato il 2 gennaio dell’anno successivo (1). Come si armonizza la posizione radicalmente antimperialista (e del resto non è possibile concepire un antimperialismo che non sia radicale, che non colga cioè il problema alle sue radici storico-sociali) della grande rivoluzionaria con la posizione sostenuta dal Collettivo Euronomade? Non si armonizza neanche un poco, a mio avviso. Di più: le due posizioni mi appaiono radicalmente (ci risiamo!) inconciliabili. Provo a dimostrarlo in termini assai sintetici.

Il Collettivo Euronomade è schierato non contro l’imperialismo colto nella sua totalità e unità (estremamente contraddittoria e conflittuale), ma solo contro l’imperialismo occidentale a trazione statunitense. Esprimo questo giudizio sulla base di due articoli che ho letto firmati appunto Collettivo Euronomade. Il titolo di uno di essi non lascia alcun dubbio a proposito: Autonomia europea contro euroatlantismo. Si allude forse all’autonomia delle classi subalterne europee? Nient’affatto! Si auspica piuttosto l’autonomia dell’Unione Europea come centro imperialista indipendente dall’imperialismo statunitense. Perché di capitalismo/imperialismo si tratta, ovviamente, quando si parla di Unione Europea. Si auspica dunque un’Europa autonoma, magari ben integrata nel nuovo ordine mondiale multipolare di cui parlano ormai da tempo Putin e Xi Jinping.

I due menzionati articoli lamentano una ridottissima «autonomia europea, la marginalizzazione dell’asse franco-tedesco [che] non lascia altra alternativa che un’Europa atlantica e, dentro l’alleanza, subalterna. […] In sintesi: un’Europa all’angolo, che vive la fine dell’Europa a traino franco-tedesco amministrando la sua residualità sulla scena globale e che, contemporaneamente, assiste al tramonto della possibilità intravista in pandemia di rinvigorire la migliore eredità del suo modello sociale welfaristico». Ripeto: qui non c’è solo la constatazione di un fatto (la relativa marginalizzazione dell’imperialismo europeo soprattutto nei confronti dell’imperialismo statunitense che cerca di reagire alla stretta “multipolare” Russo-Cinese), ma c’è anche e soprattutto l’espressione di un rammarico, di una delusione, ma anche di un auspicio (neanche troppo nascosto ma sufficientemente esplicito): il ritorno delle «politiche di coesione europee che, sia pure tra contraddizioni e resistenze, avevano animato la risposta alla pandemia».

Per il Collettivo l’europeismo può anche andare bene, soprattutto se è declinato in termini “progressisti” (nella “migliore tradizione” welfaristica europea…), mentre esso condanna senza appello l’euroatlantismo, il quale «segna l’aspirazione a liquidare ogni accenno di autonomia europea. […] Noi abbiamo sempre insistito sulla questione dello spazio europeo come problema non aggirabile per l’efficacia delle lotte. Il punto ora si qualifica ulteriormente – e drammaticamente: mettere in questione l’euroatlantismo, ponendo all’agenda delle lotte dei movimenti sociali la questione della centralità politica dell’autonomia europea. Provare a disarticolare l’euroatlantismo è il presupposto perché le lotte possano ritrovare ora capacità politica di mordere, possano ricostruire un proprio cervello collettivo. […] Rivendicare l’autonomia del modello sociale europeo è così, per le lotte, un presupposto per rivendicare alternative al blocco delle dinamiche salariali e all’ulteriore destrutturazione del welfare come uniche possibili “cure” dell’inflazione».

L’autonomia europea, comunque declinata politicamente e ideologicamente, non solo non ha nulla a che fare con l’autonomia di classe ricercata dagli anticapitalisti (anche seguendo le gigantesche orme della comunista di Zamość), ma ne è piuttosto la sua più radicale negazione. Porre «all’agenda delle lotte dei movimenti sociali la questione della centralità politica dell’autonomia europea» significa lavorare per incatenare le classi subalterne europee al carro dell’imperialismo europeo comunque esso venga a configurarsi nel breve o nel medio termine. Che l’antiamericanismo non sia sinonimo (tutt’altro!) di antimperialismo è un concetto che non riesce a farsi largo nella testa di molti “antimperialisti”.

Ecco come invece impostava il “problema europeo” Rosa Luxemburg: « Niente sarebbe più fatale per il proletariato che voler salvare dall’attuale guerra mondiale la minima illusione e speranza sulla possibilità di un ulteriore sviluppo idillico e pacifico del capitalismo. […] Solo dal’Europa, solo dai più antichi paesi capitalistici può partire, quando l’ora sarà matura, il segnale della rivoluzione sociale liberatrice. Soltanto i lavoratori inglesi, francesi, belgi, tedeschi, russi, italiani uniti possono guidare l’esercito degli sfruttati e degli oppressi dei cinque continenti» (2).  Il Collettivo Uninomade non “aggiorna” il pensiero di Rosa Luxemburg: lo respinge nel modo più netto.

Tra l’altro, e a proposito di “aggiornamento”, la posizione antimperialista di Junius appare più attuale oggi, nelle’epoca del dominio totale (totalitario, mondiale) del rapporto sociale capitalistico di produzione (di beni, servizi ed esseri umani, in una sola parola: di merci), che al tempo in cui essa venne elaborata per reagire alla «capitolazione del proletariato socialista» e al «processo imperialistico di spartizione del mondo». Un solo esempio: «La politica imperialistica non è opera di uno o di alcuni Stati, è il prodotto di un determinato grado di maturazione nello sviluppo mondiale del capitale, un fenomeno internazionale per definizione, un tutto indivisibile, che si può riconoscere in tutti i suoi vicendevoli rapporti e al quale nessuno Stato singolo può sottrarsi. Solo da questo punto di vista può essere giustamente valutata la questione della “difesa della nazione” in questa guerra» (3).

In quegli anni Lenin poteva ancora criticare con un certo fondamento la posizione luxemburghiana in materia di autodecisione delle nazioni (soprattutto per colpire al cuore l’imperialismo russo che opprimeva popoli e nazioni: di qui il comprensibile odio putiniano nei confronti di Lenin); ma nel XXI secolo questa critica non troverebbe più alcun appiglio, non avrebbe più alcun senso. Nei passi sopra citati si trova il concetto di imperialismo unitario che è centrale nella mia riflessione sulla guerra in Ucraina come conflitto sistemico (economico, tecnoscientifico, geopolitico, ideologico, militare) mondiale.

Ma allora che senso ha citare Rosa Luxemburg in un contesto concettuale che nulla a che vedere ha con le sue posizioni rivoluzionarie, ma che ne sono anzi la frontale negazione? Si tratta a mio avviso di mera fuffa ideologica intesa ad affettare una postura politica pseudo radicale.

(1) R. Luxemburg, La crisi della socialdemocrazia, in Scritti politici, p. 540, Editori Riuniti, 1967.

(2) Ibid., p. 544. «La pace mondiale non può essere assicurata con piani utopistici o a base reazionaria, come tribunali arbitrali internazionali dei diplomatici capitalistici, accordi diplomatici su “disarmo”, “libertà dei mari”, abolizione del diritto di preda marittima, “federazione degli stati europei”, “unione doganale europea”, stati nazionali cuscinetto et similia. Imperialismo, militarismo e guerre non si potranno evitare o arginare finchè le classi capitalistiche eserciteranno indisturbate il loro predominio di classe. L’unico mezzo di opporre loro vittoriosa resistenza e l’unica certezza di pace mondiale sta nella capacità politica di azione e nella volontà rivoluzionaria del proletariato internazionale, di gettare sulla bilancia la sua forza» (R. Luxemburg, Princípi direttivi sui compiti della socialdemocrazia internazionale, in Appendice a La crisi della socialdemocrazia, pp. 548-549).

(3) Ibid, p. 519.

SALTO TECNOLOGICO O SALTO UMANO?

Scrive Vincenzo Ambriola su Avvenire: «Il racconto della guerra del Vietnam, presentato con crudezza da Coppola e Kubrick in Apocalypse Now e Full Metal Jacket, aveva lo scopo di denunciare gli irrimediabili danni provocati da quel conflitto. Un’entità digitale avrebbe saputo cogliere volontariamente questi aspetti o, animata da stimoli arbitrari e guidata da un enorme archivio di immagini, avrebbe agito in maniera inconsapevole? L’inserimento di un sistema etico in un’entità artificiale autonoma richiede un salto tecnologico attualmente ritenuto impossibile. “Per le AI non è pensabile alcuna forma di etica automatica o implicita”, così scrive Paolo Benanti in Human in the loop – Decisioni umane e intelligenze artificiali (Mondadori Università). […] Diamo per scontato che le entità digitali operino nel rispetto di regole che proteggono gli umani. Chi costruisce tali entità deve rispettare standard stringenti che garantiscono aspetti qualitativi elencati minuziosamente dall’ingegneria del software, tra cui sicurezza, innocuità, rispetto della privacy. Si parla esplicitamente di etica “per” le entità digitali, nel senso che il sistema di valori deve essere presente e rispettato da parte di chi tali entità progetta e realizza. Ma quando diventano “intelligenti” e autonome, allora si parla di etica “delle” entità digitali, un’etica che deve controllarne i comportamenti. Al momento non sappiamo costruire questa forma di etica, perché inevitabilmente ricadiamo nell’altra, quella di chi le entità le realizza. Detta in maniera più semplice, l’etica non si può programmare razionalmente perché scaturisce dall’esperienza e dal libero arbitrio umano. “Le risposte dovremo trovarle noi, dal momento che le tecnologie che stiamo creando non possono fornirci alcuna risposta a riguardo”, afferma Simone Natale nell’introduzione a Macchine ingannevoli (Einaudi). Studiare le entità digitali senza pregiudizi e in maniera interdisciplinare sembra, per ora, la buona indicazione».

I grovigli concettuali che si trovano nei passi citati sorgono a mio avviso da una lettura feticistica e del tutto superficiale del processo sociale, la quale induce il pensiero a scambiare gli effetti con le cause, il prodotto con il suo produttore. E qui già incalza una fondamentale domanda: sotto quali presupposti sociali il produttore realizza i suoi prodotti?

Il problema “etico” e politico qui evocato non sta nel pericolo insito in una supposta autonomizzazione della cosiddetta Intelligenza Artificiale, ma nella realtà di una società (capitalistica) che non consente agli esseri umani di padroneggiare razionalmente il processo sociale, ma ne è anzi largamente dominato. In questo peculiare – critico e non razionalistico – senso è legittimo dire che, come umanità, oggi manchiamo di intelligenza, nonostante siamo in grado di progettare e produrre macchine sempre più “intelligenti”. È insomma l’umanità che deve conquistare un’autentica autonomia esistenziale e un “libero arbitrio” degno di questo nome, mentre oggi essa è, nelle sue attività più importanti e vitali, controllata in modo sempre più stringente e oppressivo da una potenza sociale «estranea e ostile» (Marx). Noi non produciamo (anche l’AI) secondo umanità (ossia secondo razionalità, libertà, amore per il prossimo e per la natura) ma secondo le necessità economico-sociali informate dal rapporto sociale capitalistico. Si tratta insomma non di costruire «entità digitali [che] operino nel rispetto di regole che proteggono gli umani», ma di costruire una Comunità autenticamente umana.

Negli anni Cinquanta del secolo scorso Werner Heisenberg, riflettendo sul «ruolo della fisica moderna nell’attuale sviluppo umano», scriveva che «l’intero sviluppo del progresso tecnico si è per lungo tempo sottratto a un qualsiasi controllo da parte di forze umane», e consigliava la società del tempo ad accettare questo fatto «come uno dei tratti più essenziali del nostro tempo» (Fisica e filosofia, 1958). Ebbene bisogna estendere e generalizzare all’intera prassi sociale quanto denunciato dal grande fisico tedesco, anch’egli turbato dalle implicazioni politico-militari delle più avanzate ricerche scientifiche sull’atomo.

Oggi «gli umani» non sono minacciati, sfruttati e disumanizzati dalle “macchine intelligenti” ma dal Moloch capitalistico, il quale ha il potere di infantilizzarci, ossia di lasciarci appunto in balìa di processi sociali che non riusciamo né a comprendere nella loro reale essenza (storica, sociale, esistenziale), né a padroneggiare sul terreno della prassi – economica, tecnoscientifica, politica, geopolitica, relazionale. Sotto questo aspetto, le riflessioni di carattere filosofico e politico intorno alla possibilità che il prodotto “intelligente” possa un domani dominare il suo – sciocco? – produttore colgono, sebbene senza che gli autori ne abbiano alcuna contezza, una realtà che sperimentiamo tutti i giorni.  

«Per le AI non è pensabile alcuna forma di etica automatica o implicita»: e difatti il problema non è se e quanta «etica automatica o implicita» è possibile mettere dentro una macchina “intelligente” (un problema sciocco già nella sua stessa formulazione); il problema è, almeno per l’anticapitalista, riflettere sui fondamenti sociali di un’etica autenticamente umana. Il salto di cui si parla nell’artico citato deve avere insomma una natura umana (storica, sociale), non tecnologica. Se la comunità umana non cade sotto il «controllo da parte di forze umane», per l’umanità tutto il peggio è non solo possibile ma anche altamente probabile.

IL SENSO DELLA VITA

L’ATTIVISMO POLITICO SENZA PRECEDENTI DEL CELESTE IMPERIALISMO

Dal Medio Oriente all’Africa, dal Sudest Asiatico all’Europa: è tutto un fiorire di iniziative “pacifiste” Made in China. Qui non importa il merito di queste iniziative, la loro reale consistenza politica, il loro probabile esito nel breve o nel medio termine; qui importa prendere atto della loro semplice esistenza.  Insomma, come spiegare il grande attivismo “diplomatico” messo in campo negli ultimi mesi dal Celeste Imperialismo?

Il peso economico della Cina nella competizione intercapitalistica globale è diventato talmente rilevante, da esigere da quel Paese un’azione geopolitica adeguata al ruolo che esso si è conquistato sul terreno economico – industriale, commerciale, finanziario, e quindi anche tecnoscientifico. Anche se non volesse farlo, e si tratta di una mera ipotesi, la Cina sarebbe comunque costretta a praticare una più attiva iniziativa geopolitica su scala mondiale anche solo per difendere le posizioni conquistate sul terreno puramente economico. Il gigante economico deve insomma diventare anche un gigante politico! Questa stringente necessità attesta peraltro il carattere oggettivo del fenomeno sociale che va sotto il nome di imperialismo. La politica estera dello Stato deve necessariamente assecondare, supportare e difendere, all’occorrenza anche militarmente, gli interessi del capitale, il quale a sua volta rende possibile l’espansione della potenza sistemica dello Stato. Viene così a realizzarsi ciò che potremmo definire il circolo virtuoso dell’imperialismo, il quale vede la “struttura” e la “sovrastruttura” di una nazione crescere mutuamente in potenza, dimodoché risulta quasi impossibile distinguere con nettezza gli interessi che fanno capo all’economia da quelli che fanno capo alla politica. È l’impasto, l’intimo e inestricabile intreccio delle due sfere che difatti caratterizza il moderno imperialismo.

La maturità capitalistica della Cina, la sua presenza economica in ogni parte del nostro pianeta: è questo il fondamento oggettivo della politica imperialistica del grande Paese asiatico, il cui precedente profilo basso in politica estera celava appunto una sua sempre più aggressiva strategia di penetrazione economica su scala mondiale. Questo profilo basso esprimeva una condizione (sociale e geopolitica) che la Cina si è lasciata ormai da anni alle sue spalle, e che era funzionale alla strategia di cui sopra. La talpa capitalistica cinese ha ben scavato! Oggi Pechino sfida Washington anche sul terreno squisitamente ideologico (dalla qualità della democrazia ai cosiddetti “diritti umani”) (*), proponendosi al mondo, soprattutto a quella parte di mondo, il “Sud collettivo”, che ha conosciuto molto bene il colonialismo/imperialismo occidentale, come una validissima alternativa al modello statunitense, descritto dai leader cinesi come un modello centrato su una «mentalità da guerra fredda». La «Civiltà Globale» di cui parla Xi Jinping è tutt’altra cosa!

È con questo imperialismo in ascesa che deve fare i conti il declinante (ma solo relativamente) imperialismo statunitense.    

(*) Due soli esempi: «Mercoledì 15 marzo, il ministero degli Esteri cinese ha affermato che i fatti hanno ripetutamente dimostrato che il dramma per la democrazia orchestrato dagli Stati Uniti non è mai un vantaggio ma una rovina per il mondo. Wang ha fatto le osservazioni durante una regolare conferenza stampa commentando i rapporti sull’imminente secondo “Vertice per la democrazia” alla fine di questo mese. “Questo cosiddetto ‘Summit per la democrazia’ è essenzialmente contro la democrazia”, ha detto Wang. Ha affermato che il primo cosiddetto “Summit for Democracy” ha palesemente tracciato una linea ideologica tra i Paesi e ha creato divisioni nel mondo. È stato uno spettacolo assurdo in violazione dello spirito della democrazia e ha esposto l’egemonia degli Stati Uniti sotto le spoglie della democrazia, che è stata criticata e osteggiata da molti Paesi. Secondo un sondaggio del Pew Research Center, solo circa un quinto degli americani afferma di fidarsi del proprio governo, uno dei più bassi della storia. […] Gli Stati Uniti hanno praticato una “dottrina Neo-Monroe” in America Latina, istigato “rivoluzioni colorate” in Eurasia e orchestrato la “primavera araba” in Asia occidentale e Nord Africa, portando costantemente caos, problemi di sussistenza e disastri dei diritti umani in molti Paesi , ha detto Wang, aggiungendo che questo è solo uno dei tanti esempi da manuale di come la democrazia statunitense destabilizzi il mondo» (Quotidiano del Popolo Online). La democrazia con caratteristiche cinesi nella nuova era è tutta un’altra cosa! «Gli Stati Uniti hanno sempre sostenuto di essere i cosiddetti “difensori dei diritti umani” e puntano spesso il dito contro la situazione dei diritti umani in altri Paesi. La tutela dei diritti umani è una finzione degli Stati Uniti, che copre un “buco nero” della situazione dei diritti umani negli Stati Uniti. Il Dipartimento del lavoro degli Stati Uniti ha annunciato in precedenza che, secondo una sua indagine, Packers Sanitation Services Inc. (PSSI), uno dei maggiori fornitori di servizi di sicurezza e sanificazione alimentare degli Stati Uniti, impiegava illegalmente centinaia di bambini in lavori pericolosi. Questi minori lavoravano di notte negli impianti di lavorazione della carne, utilizzando sostanze chimiche pericolose per pulire le attrezzature affilate, e spesso si infortunavano. L’abuso del lavoro minorile è un problema cronico della società americana. Gli Stati Uniti non hanno ancora ratificato la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e sono stati ripetutamente criticati dall’Organizzazione internazionale del lavoro. […] L’allarmante problema del lavoro minorile rivela una verità: gli Stati Uniti, autoproclamatisi “difensori dei diritti umani”, non sono in grado di proteggere i diritti legali dei bambini» (Quotidiano del Popolo Online). Gli orrori, le infamie e gli abusi del capitalismo ci parlano della sua fisiologia, negli Stati Uniti come in Cina e ovunque nel capitalistico mondo.

Aggiunta del 21 marzo 2023

DIETRO LA CORTINA FUMOGENA “PACIFISTA”

Dietro la cortina fumogena dell’iniziativa “pacifista” è possibile intravvedere la reale sostanza della visita di Xi Jinping al «carissimo amico» Vladimir Putin. Qui elenco solo tre aspetti della questione.

1. Gigante politico-militare e nano economico, la Russia si presta come un’ottima carta nella guerra alla leadership statunitense che la Cina sta conducendo con sempre maggiore vigore, determinazione e chiarezza di visione strategica. La Russia come junior partner di Pechino? Esattamente. Inutile dire che Mosca pensa di poter ottenere più vantaggi che svantaggi, quantomeno nel medio termine, dalla sua relazione “sbilanciata” con la Cina. Si sa che la classe dirigente di un Paese pensa sempre di essere più intelligente e più furba delle classi dirigenti degli altri Paesi, amici o nemici che siano. Il reale processo sociale stabilisce poi, presto o tardi, la verità delle cose. Intanto Putin accoglie il Presidente cinese con un articolo così intitolato: «Russia e Cina: una partnership orientata al futuro». Un futuro di “pace” e “prosperità”, si spera…

2. Mentre costituisce un gigantesco serbatoio di materie prime, peraltro ancora in larga parte da mettere a profitto (e il grande Paese asiatico ha le giuste “competenze” per farlo), la Russia di Putin non rappresenta invece una minaccia per la Cina sotto il profilo della competizione economica e tecnoscientifica. Nel 2022 l’interscambio tra i due Paesi ha toccato la cifra record di 190 miliardi di dollari, e questo fa capire quanto stia diventando importante per la Russia la sua relazione economica – ineguale – con la Cina dopo la rottura con i Paesi europei – soprattutto con la Germania. Oggi la Cina compra dalla Russia gas e petrolio a prezzi di saldo. Qui la logica imperialistica si esprime al meglio.

3. Non bisogna poi sottovalutare la possibilità di una frantumazione della Federazione Russa, evento che porterebbe caos e instabilità ai confini del Celeste Imperialismo. Per Pechino si tratta dunque di puntellare la Russia di Putin, mettendola al riparo anche da una possibile “rivoluzione colorate” che ne sposterebbe l’asse geopolitico verso Occidente. «Xi Jinping Ha osservato che la Russia terrà le elezioni presidenziali il prossimo anno e, sotto la forte leadership di Putin, la Russia ha compiuto buoni progressi nello sviluppo e nel ringiovanimento del Paese. Xi Jinping si è detto fiducioso che il popolo russo continuerà a dare un fermo sostegno a Putin» (Quotidiano del Popolo Online). Diciamo che si tratta di una fiducia più interessata che fondata.

Per quanto riguarda la cosiddetta “iniziativa di pace” cinese, il suo fallimento può sempre essere attribuito dai carissimi amici di Mosca e Pechino alla «mentalità da guerra fredda» degli occidentali.

UN ANNO DOPO

L’ASSE DEL MALE È SEMPRE PIÙ FORTE E MINACCIOSO

LA DIMENSIONE MONDIALE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO

DUE PAROLE SU LANDINI

Nel Suo discorso di chiusura del XIX Congresso Nazionale del sindacato collaborazionista di “sinistra” che lo ha riconfermato alla segreteria, Maurizio Landini ha cercato subito di smarcarsi dalla Premier Giorgia Meloni sul fondamentale tema del lavoro: «C’è un punto di fondo che va chiarito, la ricchezza la produce chi lavora. Qui c’è un punto di fondo, perché nel momento in cui si nega questa banale verità e si teorizza che la ricchezza la producono l’impresa e la finanza si nega un principio di fondo. Bisogna rimettere al centro il lavoro e la persona per cambiare il modello economico. Nonostante il numero di persone che per vivere devono lavorare sia in aumento, negli anni c’è stata una frantumazione dei diritti e una concentrazione della ricchezza in mano a pochi. Questo significa che il modello di società che si costruisce deve avere un modello nel quale la ricchezza prodotta deve essere redistribuita. Quando diciamo che il lavoro si è svalorizzato fino a diventare merce, allora questo è il punto da cui bisogna ripartire». Il senso politico reale di queste parole si comprende alla luce di quanto Landini aveva detto qualche secondo prima: «Ringrazio Sergio Mattarella, che con il suo messaggio al Congresso ha riconfermato il valore della nostra Costituzione e del lavoro». Com’è noto, «Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale» (Art. 87). Dice Landini: «La Presidente del Consiglio ha ricordato ieri il giorno dell’unità nazionale. Un valore importante, ma vorrei che se ne ricordasse non solo il 17 marzo, ma il 18, il 19, il 20, il 21. C’è una contraddizione: come si fa a votare l’autonomia differenziata e poi venire qui a parlare di unità nazionale?» Cerco di estrarre da quanto riportato alcune brevissime considerazioni.  

«La ricchezza la produce chi lavora»: non c’è alcun dubbio! Si tratta della ricchezza sociale che nella sua forma attuale (capitalistica) presuppone e pone sempre di nuovo lo sfruttamento dei lavoratori da parte del Capitale. Creare ricchezza sotto il presupposto degli attuali rapporti sociali di produzione, che oggi dominano su scala planetaria, significa creare giorno dopo giorno la seguente “banale” realtà: chi è nullatenente è costretto a vendere una capacità lavorativa di qualche tipo, “intellettuale” o “manuale” che sia, alla classe che detiene il monopolio dei cosiddetti fattori della produzione. Come diceva l’uomo con la barba, a un polo i nullatenenti, al polo opposto i funzionari del capitale. « In Italia, in Europa e nel mondo il numero di persone che per vivere devono lavorare è in aumento»: esattissimo! Rinvio al post Non ci sono più le classi di una volta!

Quando l’evocato comunista di Treviri parlava di miseria sociale, egli alludeva proprio al modo in cui si crea la ricchezza sociale nella società capitalistica, ossia attraverso lo sfruttamento del lavoro umano, la sua mercificazione, la sua alienazione esistenziale. Il concetto marxiano di miseria sociale non ha infatti nulla a che fare con il livello, alto o basso del salario, come invece affermavano i progressisti del suo tempo e come continuano a dire i progressisti dei nostri tempi, secondo i quali il rapporto di sfruttamento “scatterebbe” sotto una determinata soglia; quel concetto è invece radicato nel lavoro salariato in quanto tale, il quale appunto presuppone e pone sempre di nuovo un rapporto sociale di sfruttamento e di dominio, sugli uomini e sulla natura. Il lavoro di cui parla la nostra Costituzione è proprio questo tipo di lavoro: senza volerlo, essa confessa alla società che la Repubblica [capitalistica] si fonda sullo sfruttamento dei lavoratori. Posta questa “banale” realtà, la realtà del lavoro salariato, la precarizzazione del lavoro e la stessa disoccupazione non rappresentano affatto una contraddizione rispetto a quanto sostiene l’Art. 1 della «Costituzione [capitalistica] più bella del mondo» (gli apologeti del capitalismo si accontentano di pochissimo!) ma piuttosto una sua conferma.

Al contrario di quanto sostiene l’ideologia progressista, la natura di merce del lavoro non rappresenta dunque un’aberrazione sociale e morale, ma è al contrario «una tremenda realtà» (Marx) che costituisce la norma nella società sussunta sotto il rapporto sociale capitalistico di produzione – di “beni e sevizi”. Dal punto di vista dell’anticapitalista (che ovviamente non è il punto di vista di Landini), avere come fine ultimo la «redistribuzione della ricchezza» significa difendere “da sinistra” l’odierno status quo sociale.

C’è da dire, per concludere, che la «frantumazione dei diritti» dei lavoratori è stata assecondata anche dal sindacalismo collaborazionista, Cgil in primis. Il fatto che il “simpatico” Segretario della Cgil si accrediti come un devoto dell’unità nazionale, e che rinfacci alla “destrorsa” Meloni di non esserlo abbastanza, ebbene questo è perfettamente coerente con il suo ruolo di funzionario del sistema capitalistico.

I «PRINCIPI FONDATIVI» DELLA CGIL

LAVORO POVERO E MISERIA CRESCENTE

ANDIAMOCI PIANO!

C’È DISAGIO E DISAGIO! Alcune riflessioni sulla Teoria della classe disagiata.

SE QUESTO CAPITALE È UMANO

Dialettica del dominio capitalistico