
Due aspetti, strettamente correlati fra loro, vanno qui messi in evidenza: la Resistenza fu la continuazione della guerra imperialista iniziata dal regime fascista in alleanza con la Germania nazista; e fu anche lo strumento che consentì alla classe dirigente di questo Paese di ottenere dagli Alleati condizioni meno pesanti e umilianti per la sua resa. Solo in questo senso è quantomeno plausibile, ma non del tutto corretto sul piano rigorosamente storico, dire che quella italiana è una «Repubblica nata dalla Resistenza». Grazie alla Resistenza l’Italia, media potenza regionale, poté giocare sulla scena internazionale la sua tradizionale partita tesa a lucrare il massimo possibile anche nelle peggiori circostanze.
Scrive Gianfranco Pasquino: «I fascisti si schierarono con i nazisti, divenendo più che collaborazionisti, veri e propri traditori della patria. In questo senso è accettabile parlare di morte della patria quando i fascisti costituirono lo stato fantoccio noto come Repubblica di Salò». La Resistenza riscattò l’onore della Patria infangato dal ventennio fascista, come piace dire ai custodi del mito antifascista? E sia! Non ho nulla da obiettare a questa patriottica rappresentazione. Mi limito a ricordare a me stesso, come si dice, che gli anticapitalisti sono acerrimi nemici della Patria, a prescindere dalla sua contingente “sovrastruttura” politica, ideologica e istituzionale. Per questi “bizzarri” personaggi (naturalmente parlo soprattutto di me), oggi ampiamente minoritari in Italia e nel mondo, l’onore e la salvezza della Patria non rappresentano pane per i loro denti – mentre sono il veleno che la classe dominante somministra sempre di nuovo alle classi subalterne. Per questo il mio antifascismo non solo non ha niente a che fare con la Festa Nazionale che si celebra ogni 25 aprile che la democrazia capitalistica manda in terra, ma ne rappresenta l’esatto opposto. Tra l’altro, al 25 aprile del 1977 risale il mio primo scontro politico con gli stalinisti dell’ANPI, e allo stesso anno risalgono le mie prime bastonature da parte dei militanti del Fronte della Gioventù. Diciamo che anche in questo aneddoto c’è una logica – se non storica (siamo seri!), di certo politica, soprattutto in chiave autobiografica.
A questo punto, e mi scuso per l’artificio retorico, sarebbe inutile confessare a chi legge quanto il dibattito di questi giorni intorno alla ricerca di una “memoria condivisa” mi appaia una merce stravecchia (che Festa della Liberazione sarebbe senza una bella scaramuccia polemica tra destri” e “sinistri”?), avariata, repellente, maleodorante, in una sola e semplice parola: escrementizia. «Il 25 aprile appartiene a tutti gli italiani», si dice a “destra” come a “sinistra”; ed è esattamente per questo che non è la mia “festa” – nell’accezione politico-ideologica del concetto, perché alla tradizionale scampagnata con amici e parenti non ho mai rinunciato: Ora e sempre Scampagnata! So di offendere la buonanima di Piero Calamandrei ma poco m’importa. Mi interessa invece costatare che anche il Primo Maggio è stato di fatto statalizzato e liberato dai “vecchi” contenuti di classe, e questo soprattutto grazie alla “sinistra” politica e sindacale, da Togliatti e Di Vittorio in poi. E anche questo ha a che fare con la cosiddetta Liberazione.
Provo insomma a dare il mio modesto contributo alla demistificazione della “memoria condivisa” di cui sopra, e lo faccio attraverso la demistificazione del mito che il regime postfascista ha costruito intorno alla cosiddetta Resistenza. «Un Paese senza memoria è un Paese senza storia, come avvertiva già nel 1975 Pier Paolo Pasolini», ha scritto Antonio Polito sul Corriere della Sera del 21 aprile. Anche – e soprattutto – la logica del Paese (della Patria, o della Nazione, come ripetono fino alla nausea i Fratelli d’Italia) mi è del tutto estranea. Per «imparare le lezioni della storia», per dirla con il Presidente della Repubblica Mattarella, la sola memoria non basta: occorre che essa venga illuminata e orientata dalla coscienza critico-rivoluzionaria, perché gli eventi non vanno solo ricordati ma vanno soprattutto compresi nel loro essenziale (radicale) significato, e per far questo occorre uscire fuori dalla logica del Paese, che è la logica del dominio sociale. Evidentemente, e comprensibilmente, Mattarella ha in testa una memoria molto diversa, direi opposta, da quella che frulla in testa a chi scrive. Diciamo allora che anche la memoria non è e non deve essere politicamente neutrale. Se «La politica è la continuazione della guerra con altri mezzi», come recita giustamente il titolo dell’articolo pubblicato sul Domani che Gianfranco Pasquino ha dedicato all’eterna Resistenza («In un certo senso, vista la necessità di profondi mutamenti sociali e culturali, è vero che la Resistenza deve continuare»), è altrettanto corretto dire che la memoria storica è la continuazione della lotta politica – e di classe – con altri mezzi.
Nella sua recente visita ad Auschwitz il Presidente Mattarella ha soprattutto denunciato la complicità dei regimi fascisti europei, a iniziare da quello italiano, nello sterminio di milioni di ebrei e di “indegni di vivere”. Quello che naturalmente egli non poteva dire è che il «regime sanguinario nazista» fu un prodotto 1. della lunga crisi sociale capitalistica che devastò la Germania uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, e 2. della logica imperialista che informava – e continua a farlo – le maggiori nazioni del mondo. «Oggi più che mai nel riproporsi di temi e argomenti che avvelenarono la stagione degli anni ‘30 del secolo scorso con l’infuriare dell’inumana aggressione russa all’Ucraina, la memoria dell’Olocausto rimane un monito perenne che non può essere evaso». Questo ha dichiarato Mattarella. Memoria, monito: ritornano sempre gli stessi concetti, concetti che la classe dirigente europea ripete ormai da quasi ottant’anni, in riti sempre più stanchi e distanti dalla sensibilità delle nuove generazioni. In un post di dieci anni fa dedicato ad Auschwitz scrivevo che «Se l’uomo non esiste, tutto il peggio è possibile – e altamente probabile». Qui per uomo intendevo la Comunità umanizzata, la cui genesi presuppone il superamento rivoluzionario della dimensione classista della storia, del processo sociale come si è dato fino ai nostri giorni. Solo all’interno di questo quadro concettuale la parola Liberazione assume per me un significato emancipativo, rivoluzionario, ostile a ogni mistificazione della pessima condizione umana. «Signori, non vi lasciate suggestionare dalla parola astratta di libertà. Libertà di chi? Non è la libertà di un singolo individuo di fronte a un altro individuo. È la libertà che ha il capitale di schiacciare il lavoratore» (1).
Sempre nel citato Discorso sulla questione del libero scambio del 1848, Marx sostenne che «Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo» (2). Appoggiandomi indegnamente alla sua barba mi sento di dire che si può essere nemici del regime postfascista senza essere per questo amici del regime fascista. Di più: a mio avviso i due regimi vanno considerati, sul piano storico-sociale, tra loro in “dialettica” quanto radicale (sociale) continuità, come le due facce di una stessa medaglia, due diversi modi di organizzarsi dello stesso dominio di classe, quello capitalistico, appunto. Questa radicale continuità è ben mostrata dall’Art. 1 della Costituzione della Repubblica Italiana: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Sul lavoro salariato, ossia sfruttato, mercificato, disumanizzato e disumanizzante: il lavoro salariato non rende né liberi, per richiamare la cinica promessa dei nazisti, né umani. Quanto alla «sovranità popolare», concetto squisitamente borghese (e quindi ostile alla realtà del dominio di classe), la lascio ai creduloni – che comunque rinvio ai miei diversi scritti dedicati alla democrazia capitalistica.
Lungi dall’essere stato un’aberrazione storica, una deviazione dal virtuoso cammino dell’italica nazione, il movimento fascista fu invece un prodotto genuino della società italiana, sempre considerata in un preciso contesto storico di respiro internazionale. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta del secolo scorso: «Chi non vuole parlare di capitalismo non deve parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine totalitario non è altro che l’ordine precedente senza i suoi freni. […] Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (3). L’ordine totalitario sul piano politico-istituzionale si dà come “sovrastruttura” e strumento dell’ordine sociale totalitario, del sistema sociale, oggi di dimensione planetaria, basato sulla totalitaria “legge” del profitto. E questo vale anche per l’ordine democratico, per la democrazia capitalistica, la quale negli ultimi settantotto anni ha ottimamente servito il dominio capitalistico, e questo piccolissimo particolare va segnalato soprattutto ai professionisti dell’antifascismo militante, i quali vedono solo la pagliuzza dell’eterno e sempre ritornante/incombente fascismo, mentre non si avvedono della trave rappresentata dal Dominio di classe. E così, “emergenza antifascista” dopo “emergenza antifascista”, eccoci ancora qui a parlare dell’ennesima… “emergenza antifascista”!
Il solo antifascismo che personalmente riesco a concepire ha dunque una natura radicalmente anticapitalistica, e quindi si tratta di un antifascismo che nella sostanza non si differenzia in nulla dalla mia ostilità nei confronti di ogni altra ideologia filo-capitalistica – soprattutto nei confronti di quelle che, falsamente e ridicolmente, si richiamano al “socialismo”, al “comunismo” e al “marxismo”: vedi lo stalinismo in tutte le sue varianti nazionali, a cominciare da quella cinese. Questo lo scrivo non per esibire chissà quale originalità o radicalità di pensiero, o per scandalizzare qualcuno, ma per rendere evidente la prospettiva da cui approccio la “problematica” resistenzialista. Quanto all’evocato stalinismo, ho sempre pensato che rispetto al fascista lo stalinista ha una “colpa” in più: egli chiama “comunismo” (per la gioia dei fascisti!) la sua ultrareazionaria ideologia. Lo stalinismo è stato di gran lunga il miglior alleato degli anticomunisti, i quali ovviamente hanno potuto contare sulla miserabile realtà del cosiddetto “socialismo reale”, cioè del reale capitalismo edificato in Russia ai tempi dell’Unione Sovietica (4) e in Cina ai tempi di Mao Tse-tung e di Xi Jinping – e qui, a dire il vero, le cose si complicano per i detrattori del “comunismo”, visto che il Celeste Imperialismo si è arrampicato sul tetto del mondo e oggi insidia il primato capitalistico degli Stati Uniti, motore e gendarme della “civiltà occidentale”.
Quest’anno la celebrazione resistenzialista “cade” in un momento politicamente particolare, ossia quando gli eredi del Movimento Sociale Italiano, che non faceva certo mistero di richiamarsi al fascismo “repubblichino” (la Repubblica di Salò come reazione alla «morte della Patria» avvenuta l’8 settembre del ‘43), sono al governo in un ruolo centrale, e non marginale, com’era accaduto ai tempi di Gianfranco Fini – il cui partito, come si ricorderà, fu fagocitato da Forza Italia circa quattordici anni fa. La cosa mentre lascia del tutto indifferente chi scrive, probabilmente suscita nella cosiddetta sinistra sentimenti contrastanti, perché se da un lato non può certo rallegrarsi del successo elettorale della “destra destra”, d’altro canto essa vede nel governo Meloni l’occasione per rinverdire l’appassita pianta dell’antifascismo militante: «Ora e sempre Resistenza!» Insomma, con un governo di “destra destra” l’antifascismo militante viene molto meglio. Auguri! O condoglianze, punti di vista, come sempre. C’è poi chi individua nell’aggressione russa dell’Ucraina e nella «eroica resistenza del popolo ucraino» accadimenti che gettano una vivificante luce sulla Resistenza e sulla guerra di liberazione di quasi ottant’anni fa. «Sono convinto che alla fine di questa guerra anche l’Ucraina avrà una nuova festa, come il 25 aprile in Italia». Lo ha dichiarato il sindaco di Kramatorsk, Oleksandr Honcharenko, in un’intervista all’Ansa. «Lo spirito della Liberazione oggi vive a Kiev», ha detto, forse non del tutto a torto, qualcuno. Su questo particolare aspetto “resistenziale” rinvio al post La guerra in Ucraina vista da Zimmerwald e, in generale, ai miei scritti dedicati alla guerra sistemica (o imperialista) internazionale che si combatte con le armi in Ucraina – mentre si prepara un altro conflitto armato nel Pacifico, dove pare che stiano convergendo, a titolo “puramente dimostrativo”, anche assetti navali italiani.
Quella che si celebra il 25 aprile di ogni anno è probabilmente fra le più significative delle feste comandate (o Nazionali) che la democrazia capitalistica di questo Paese organizza per i suoi cittadini. Non a caso si parla della cosiddetta Liberazione nei termini di un «mito fondante». E in effetti di vero e proprio mito si deve parlare. Così com’è corretto parlare, dal punto di vista di chi scrive, di cosiddetta Liberazione, un’etichetta appiccicata alla guerra dai vincitori – i quali occuparono l’Italia per liberarla dai tedeschi e dai loro alleati italiani rimasti fedeli al morente fascismo. Si “liberava” il Paese dal vecchio regime e dalla sua vecchia collocazione geopolitica per dargli un nuovo regime politico-istituzionale e una nuova alleanza imperialista. Va da sé che il nuovo regime doveva entrare in perfetta sintonia con la nuova alleanza che si era imposta con la forza sul nazifascismo: via dunque il regime fascista, avanti il regime antifascista. Il «mito fondante» è chiamato a dare a questa violenta e drammatica “transizione” un significato positivo per il Paese sconfitto e stremato, ed è così che la responsabilità della guerra e – soprattutto – della sconfitta fu attribuita in esclusiva al regime fascista (e non alla classe dominante italiana nel suo complesso), mentre al passaggio nel campo della democrazia occidentale, avvenuto a forza di bombardamenti aerei e navali, venne dato il carattere di una libera scelta, la libera scelta compiuta, ovviamente, dalle “forze migliori” del Paese, le quali si palesano per fortuna (o per opportunismo?) soprattutto nei momenti tragici della storia nazionale. Il Comitato di Liberazione Nazionale doveva dare a queste forze un preciso orientamento politico e un ferreo inquadramento organizzativo.

Scriveva Maurizio Stefanini sul Foglio del 25 aprile 2004: «“Siamo comunque grati agli americani per averci liberato, col concorso dei partigiani”. Curiosamente in un centro sinistra che spara contro Bush per la sua visita del 4 giugno, è quasi Fausto Bertinotti quello che si mostra più pacato. Ma anche lui usa poi un giro di parole la cui implicazione sembra essere che il lavoro sia stato per lo meno fifty-fifty, se non che addirittura siano stati i partigiani a fare lo sforzo principale. Prima ancora di essere il mito fondante dei partiti della Prima Repubblica, e in particolare del Pci, questo assunto fu fatto proprio dallo stesso Stato italiano, proprio per ottenere condizioni di pace meno gravose. “Anche l’Italia ha vinto”, era il famoso titolo di un numero speciale del 1945 del Mercurio, rivista culturale allora di grande prestigio». Come stanno davvero le cose?
Come attestano moltissimi libri dedicati alla guerra partigiana scritti da studiosi estranei alla mitologia resistenzialista, la Resistenza ebbe soprattutto un’importanza politica, verificabile sul piano della politica interna e, soprattutto, su quella estera, mentre il suo apporto specificamente militare alla “liberazione” del Paese fu modesto, se non marginale, e comunque certamente non decisivo. «Conclusione: senza i partigiani, gli Alleati ci avrebbero messo un po’ di mesi in più a risolvere la guerra in Italia. Ma senza gli Alleati, la Resistenza non avrebbe potuto neanche cominciare». A scriverlo è sempre Stefanini. Il fascismo non cadde il 25 luglio 1943 ad opera della Resistenza antifascista, ma a causa di una resa dei conti interna allo stesso regime fascista, una volta che la sconfitta militare dell’Italia appariva ormai inevitabile; si trattava piuttosto di determinarne le dimensioni e il significato complessivo sul piano interno e internazionale. Già nel 1942 si erano attivate dentro il Partito Fascista e nel seno della monarchia forze ostili alla permanenza di Mussolini al potere, tant’è che lo stesso Duce non si stupì più di tanto quando la fronda “antifascista” si palesò alla luce del sole. Lo stesso assetto politico-istituzionale del regime fascista rendeva impraticabile una soluzione di continuità graduale e non traumatica, che infatti non ebbe luogo. Com’è noto, la Resistenza prese corpo solo dopo l’8 settembre 1943.
Quando il 23 gennaio del ’43 gli inglesi entrano a Tripoli, Mussolini fu costretto a togliere, su precisa e sempre più incalzante indicazione del Re, il generale Cavallero dal vertice dello Stato Maggiore, per rimpiazzarlo con Vittorio Ambrosio, un generale piemontese molto vicino agli ambienti monarchici e ostile ai tedeschi. Il Duce avvertì chiaramente il segnale di sfiducia, se non ancora di aperta ostilità, alla sua persona che partì dal Quirinale. Più il fascismo si indeboliva, più si rafforzava il ruolo politico-istituzionale della monarchia, notoriamente non particolarmente amata e stimata dal “Duce del Fascismo”, il quale aveva sempre sofferto l’ingombrante figura del “monarca nano”. Da quel momento dentro il regime vi fu un succedersi sempre più confuso e contraddittorio di movimenti politici dal significato tuttavia inequivocabile: bisognava “licenziare” Mussolini per salvare ciò che rimaneva del regime fascista. Al peggio, bisognava sbarazzarsi (liberarsi) anche dello stesso fascismo, la cui vitalità politica e ideologica sembrava esaurirsi a una velocità vertiginosa, impressionante, come sempre del resto accade a tutti i fenomeni sociali e politici nei momenti critici, quando il processo storico-sociale subisce una violenta accelerazione.
Alla vigilia dell’incontro di Belluno (detto di Feltre) del 19 luglio fra Hitler e Mussolini, organizzato per discutere della situazione che si era venuta a determinare dopo lo sbarco angloamericano in Sicilia del 10 luglio («Li fermeremo sul bagnasciuga», aveva detto con inconsapevole comicità Mussolini), il Generale Ambrosio parlò al Duce con brutale franchezza: solo uscendo immediatamente dal conflitto l’Italia avrebbe potuto salvarsi dalla catastrofe imminente. Ambrosio precisò che anche Vittorio Emanuele la pensava allo stesso modo. Non c’era tempo da perdere: per la «suprema decisione» bisognava contare i giorni, forse perfino le ore, non certo i mesi. Mussolini gli confessò che da tempo egli si arrovellava il cervello su come rompere l’alleanza con la Germania senza provocare la sua terribile reazione, ma che non riusciva a trovare una soluzione, una possibile via di fuga plausibile, se non effettivamente possibile. Evidentemente l’ex capo del fascismo si sentiva sovrastato da forze che non riusciva neanche lontanamente a controllare, e forse nemmeno a capire, e il suo mitico corpo, quel corpo che tanto aveva affascinato le masse (o il gregge), che così bene egli aveva saputo vendere all’opinione pubblica nazionale (e non solo), non riusciva a nascondere nemmeno un po’ il suo disperato senso di impotenza.
Durante l’incontro del 19 luglio, monopolizzato dalle violente invettive hitleriane contro l’«inetto esercito italiano», Mussolini ebbe un improvviso crollo fisico e psichico, anche perché nel frattempo Roma era stata pesantemente bombardata dagli angloamericani. Tra l’altro Hitler era stato debitamente informato da Heinrich Himmler circa le manovre orchestrare da Vittorio Emanuele III per sostituire Mussolini con Pietro Badoglio. Nell’ultima riunione del gabinetto del governo fascista, tenutasi il 19 giugno 1943, il senatore Vittorio Cini, Ministro delle Comunicazioni e massimo rappresentante dell’industria italiana nel Partito Fascista, attaccò senza mezzi termini il suo Primo Ministro, dicendogli che doveva trovare il coraggio di portare il Paese fuori dal conflitto. L’azzardo che il Duce aveva tentato tre anni prima confidando maldestramente in una rapidissima quanto trionfale vittoria delle armate tedesche in ogni parte d’Europa era miseramente fallito, e adesso toccava a Lui rimediare. Come si dice, la vittoria ha molti padri, mentre la sconfitta è sempre colpa degli altri. D’altra parte Mussolini aveva mostrato di fidarsi fin troppo del proprio – supposto – genio strategico, e questo errore di valutazione sulla propria persona probabilmente costituì per lui il colpo più duro. Cini comunque non aspettò le decisioni del suo ex Capo, e dopo la riunione si dimise. Era tempo di cambiare cavallo, tanto più che Mussolini appariva ormai come un pugile suonato incapace di reagire ai colpi che il nemico gli assestava sempre di nuovo.
La borghesia italiana che aveva finanziato, protetto e coccolato il fascismo affinché il suo manganello spezzasse definitivamente le reni al proletariato industriale e ai contadini salariati radicalizzati dalla crisi economico-sociale postbellica e dall’esempio sovietico (ma sfiancati dall’intelligente “manovrismo” giolittiano fatto di piccole concessioni e di grandi promesse), e che lo aveva sostenuto nelle sue velleità di potenza sperando di trarne enormi vantaggi economici, adesso lo lasciava cadere miseramente nella polvere affinché, gattopardescamente, tutto politicamente cambiasse per salvare l’essenziale: il suo dominio di classe. Esattamente com’era accaduto agli inizi degli anni Venti con il fascismo in ascesa (successo reso possibile anche dal “patto di pacificazione” con i fascisti dell’agosto 1921 voluto dal Partito Socialista Italiano), il periodo della Resistenza antifascista segnò il successo della classe dominante colta nella sua totalità – cioè a prescindere dalla sorte di alcune sue frazioni, di alcuni suoi individui o gruppi di individui, sacrificabili “per il bene supremo del Paese”. Il regime fascista e Mussolini non potevano certo rappresentare un’eccezione all’aurea regola. Solo formalmente la caduta del fascismo fu quindi l’esito di una lunga “congiura di palazzo” culminata nella “sfiducia” espressa dal Gran Consiglio al Duce votando il famoso Ordine del giorno presentato da Dino Grandi nella notte tra il 24 e il 25 luglio del ’43. La “congiura” fu il risultato di forze storico-sociali esorbitanti la volontà di chicchessia.
Subito dopo il 25 luglio la divisione della classe dirigente italiana in due ben distinte configurazioni politiche (a Nord alleanza con la Germania nazista, a Sud alleanza con le potenze angloamericane) non fu solo il frutto della divisione del Paese realizzata dagli eventi bellici, ma fu anche, se non soprattutto, il risultato dell’”ambiguità strategica” di fondo che ha sempre, dall’Unità nazionale in poi, caratterizzato la borghesia italiana, sempre pronta a seguire la corrente internazionale più forte e più promettente del momento per inseguire le sue esagerate (rispetto alla sua reale forza economica) ambizioni. Essa cessò di giocare sui due contrapposti tavoli geopolitici, nei quali aveva giurato “fedeltà eterna” all’alleato di turno, solo quando si convinse definitivamente (e non ci volle molto tempo per farlo) che la Germania non avrebbe più potuto ribaltare la situazione sul fronte, e che quindi bisognava abbandonarla istantaneamente al suo triste destino per non finire inghiottita con essa nel gorgo della disfatta totale – come capiterà in sorte anche al Giappone, che peraltro dovette sperimentare, come tragica e mai più ripetuta anteprima assoluta, l’apocalisse nucleare. Avvezza al doppio, e qualche volta anche al triplo gioco, la classe dominante italiana ha saputo far fronte meglio di quella tedesca e di quella giapponese alla superiorità militare dei “liberatori”. Superiorità che esprimeva nella forma più violenta e appariscente la superiorità sistemica (economica, tecnoscientifica, ideologica) degli ex nemici diventati nel frattempo gli amici di oggi e di domani – sempre per “libera e democratica scelta”, si intende. Qui siamo appunto alla costruzione del mito antifascista.
Per Renzo De Felice Mussolini fece un’opposta ma analoga considerazione: egli avrebbe accettato, sia pure dopo mille esitazioni e sempre in modo estremamente riluttante, di mettersi alla testa della Repubblica Sociale Italiana, costituitasi a Salò il 23 settembre ‘43, «nella convinzione, in primo luogo, che solo così sarebbe stato possibile evitare che Hitler facesse dell’Italia occupata una sorta di Polonia e, in secondo luogo, che la sua presenza avrebbe potuto rendere meno pesante il regime di occupazione e impedire l’annessione di territori italiani al Reich» (5). In ogni caso, ben presto Mussolini capirà perfettamente di essere nelle mani dei tedeschi più come una loro sciocca marionetta, che in qualità di alleato degno di rispetto e di fiducia, come invece gli diceva, per rincuorarlo, Claretta Petacci. La sua liberazione ad opera dei tedeschi da Campo Imperatore, avvenuta in circostanze a dir poco “rocambolesche” nel settembre ’43, ebbe molto il senso di una cattura, la cattura di una preda ferita e umiliata che si sarebbe prestata docilmente alle cure dei suoi “liberatori”.
Il mito fascista post 25 luglio parla di tradimento (soprattutto da parte della monarchia), di destino cinico e baro, di sabotaggi organizzati da una borghesia pronta a vendersi al nemico di ieri per un piatto di lenticchie, e che per questo meritava la “socializzazione” dell’economia approntata in fretta e furia dagli economisti ancora fedeli al Duce. Anselmo Vaccari, in un rapporto diretto a Mussolini, confessò che «I lavoratori considerano la socializzazione come uno specchio per le allodole, e si tengono lontano da noi e dallo specchio. Le masse ripudiano di ricevere alcunché da noi» (6). Diciamo pure che c’era un limite a tutto, anche alla spregiudicata demagogia fascista. In ogni caso, alla “sinistra fascista”, che era stata emarginata per due decenni dal capo del fascismo italiano, non parve vero di poter riprendere dalla soffitta la dismessa fraseologia “antiborghese” dei vecchi tempi. Nel caos generale il mito della “rivoluzione fascista tradita” affascinò non pochi giovani alla ricerca di un’identità politica e ideologica a cui aggrapparsi in tempi molto bui e tempestosi; alcuni di questi giovani faranno poi un’eccellente carriera come intellettuali (scrittori, saggisti, professori, attori, registi, cantanti), esibendo peraltro quasi tutti un’impeccabile pedigree antifascista.
«Meglio morire che tradire!» E infatti molti giovanissimi “repubblichini” (di fatto i primi combattenti repubblicani dell’Italia moderna) moriranno, portandosi dietro non pochi coetanei che militavano dal lato opposto della barricata: «Meglio morti che fascisti!» Tutto sangue versato in nome della Patria, cioè del dominio sociale capitalistico – italiano e mondiale. «Ma il male minore allora dove stava? Non stava forse dalla parte delle potenze democratiche?» Confesso un mio grande limite (uno dei tanti): sul piano della riflessione storica e sociale non riesco proprio a ragionare nei termini di “male minore” e di “nemico principale”. Infatti, dalla storia del processo sociale capitalistico ho tratto la convinzione che la strada che porta al male maggiore è lastricata di “male minore”. «Coloro che scelgono il male minore, dimenticano molto rapidamente di aver scelto il male», scrisse una volta Hannah Arendt. E questo vale anche per la guerra in corso in Ucraina. Ci sono “compromessi politici” che equivalgono a una resa incondizionata al nemico – di classe.
Dopo il miserabile crollo del fascismo, causata dalla soverchiante forza degli anglo-americani, l’Italia “scoprirà” improvvisamente la sua vocazione democratica e antifascista, e abbraccerà il nuovo corso politico-istituzionale con lo stesso zelo con cui si era stretta solo qualche anno prima intorno al Duce nelle celebri fascistissime adunate oceaniche: «Duce! Duce! Duce!». Che l’ex capo del regime si sentisse tradito e abbandonato dagli italiani è più che comprensibile, se si prende in considerazione il suo punto di vista e la sua mentalità. D’altra parte la ragione pende sempre dalla parte di chi vince, e il torto sempre dalla parte di chi perde, e questo Mussolini lo sapeva benissimo. «La massa ama gli uomini forti. La massa è donna», aveva confidato allo storico tedesco Emil Ludwig nei suoi colloqui del 1932 (7). Dopo il 25 luglio del ’43 la sua debolezza era fin troppo palese, ed egli non ne fece mistero neanche con se stesso, come si evince dal suo carteggio con l’amata Claretta, che lo incitava a non abbattersi e a nutrire fiducia nelle proprie capacità di statista di livello mondiale e nell’amico Adolf. Più facile a dirsi che a farsi, gli rispondeva Ben, sempre più convinto, a quanto pare, a consegnarsi nelle mani degli inglesi, che sempre gli avevano riconosciuto la statura di leader politico europeo e, soprattutto, di brutale nemico del proletariato rivoluzionario, degli odiati rossi. Gli elogi di Churchill su questo punto sono ben noti.
La dittatura militare instaurata dal Re dopo le “dimissioni” di Mussolini del 26 luglio fece subito le sue vittime proletarie: a Reggio Emilia il 28 luglio i soldati aprirono il fuoco sugli operai delle Officine Reggiane, uccidendone 9; lo stesso giorno a Bari si registrarono 9 morti e 40 feriti. Nei giorni successivi si aggiungeranno altri morti, feriti e arrestati (1.500 in soli cinque giorni, dopo il 25 luglio). La Circolare diramata il 26 luglio dal Capo di stato maggiore Mario Roatta su ordini del Re, prevedeva l’immediata fucilazione anche di chi si fosse limitato a solidarizzare con chi avesse semplicemente proferito insulti contro le forze armate e di polizia. La guerra contro gli oppressi continuava!
Crollato miseramente il regime fascista, evaporata l’autorità della monarchia, che quel regime aveva sostenuto fin dall’inizio, disgregato e disperso l’esercito italiano, inceppato quasi del tutto il meccanismo economico: la Resistenza organizzata e diretta dal CLN rappresentò il tentativo, riuscito, della classe dominante italiana di salvare il salvabile e iniziare a porre le condizioni della futura rinascita del capitalismo nazionale. In particolare si trattava, come già detto, di saltare sul carro dei vincitori per cercare di strappare condizioni di resa che fossero il meno pesanti possibile. «Oggi – si legge nel manifesto del CLN del 9 settembre – per i figli d’Italia c’è un solo fronte: quello contro i tedeschi e contro la quinta colonna fascista. Alle armi!». Oggi, appunto. Appena ieri «per i figli d’Italia» c’era stato un altro fronte a difesa del quale bisognava sacrificarsi e morire. Solo ieri la «quinta colonna» era stata rappresentata dall’antifascismo, che invece oggi non solo era permesso dal nuovo regime in formazione, ma diventava addirittura obbligatorio: che straordinario ribaltamento di fronte! E soprattutto che cinismo. Ciò che non mutava di un solo atomo nello spericolato “salto della quaglia” qui sinteticamente rappresentato, e divenuto ben presto proverbiale in tutto il mondo, era ovviamente la natura capitalistica del dominio sociale: su questo fondamentale e decisivo terreno la continuità fra vecchio e nuovo regime fu assoluta. A dire il vero, la continuità tra i due regimi coinvolse anche diversi e importanti aspetti della vita nazionale, riguardanti soprattutto la struttura economica del Paese (il ruolo dello Stato e delle corporazioni sociali, sindacato compreso) e gli apparati repressivi dello Stato (giustizia, polizia, servizi segreti) (8).
Per accreditare il Paese come meritevole della fiducia dei nuovi padroni, pardon, alleati, il CLN chiederà «il sacrificio dei suoi figli», così da rendere se non credibile quantomeno accettabile agli occhi delle Potenze mondiali che combattevano «sotto le bandiere della libertà» la colossale balla secondo la quale l’Italia era «stata trascinata contro la sua volontà all’alleanza con la Germania» (Comunicato del 29 gennaio 1944). Come se esistesse un’entità astratta chiamata Italia, la quale sarebbe stata appunto traviata e ingannata dai cattivi di turno. In realtà all’azzardo mussoliniano («Mi servono poche miglia di morti per potermi sedere da vincitore al tavolo della pace») non diedero alcun credito solo pochissimi alti generali, che ben conoscevano l’impreparazione del Regio Esercito ad affrontare una guerra anche di limitate proporzioni e dalla breve durata. La borghesia assaporava già la facile vittoria e il popolo (o gregge che dir si voglia) ne condivideva l’ottimismo: «Duce! Duce! Duce!» Da Palazzo Venezia a Piazzale Loreto il viaggio non è stato poi così lungo.
Quei morti che Mussolini non ottenne per sedersi al tavolo della “pace” in qualità di vincitore, li otterrà dunque De Gasperi per sedersi a quel tavolo in qualità di sconfitto ma amico dei vincitori. Che italica astuzia!
«Il consenso non cade di colpo con l’entrata in guerra, ma gradualmente e attraverso molte oscillazioni; la fiducia nel fascismo entra in crisi non per l’iniziativa dell’antifascismo, debolissima e quasi assente, ma per corrosione dall’interno, in relazione ai disagi economici e alimentari, alla corruzione del regime e soprattutto ai disastri militari. In conclusione il mito della Resistenza, legato all’idea di una Italia che ha subito il fascismo e che se ne è liberata per volontà e guerra di popolo è servito alla classe dirigente di fronte ai vincitori; è servito agli italiani sul piano psicologico; ma non risponde che per una parte limitata alla realtà: non si può proiettarlo validamente verso il futuro. Il fascismo è stato sconfitto, ma le armate alleate sono state l’elemento decisivo di questa sconfitta. L’eredità del fascismo è destinata a durare a lungo nel profondo della società italiana e con essa la democrazia italiana dovrà misurarsi» (9). A differenza di quanto hanno propagandato per decenni i custodi del mito antifascista, i documenti dell’epoca dimostrano in modo inoppugnabile che la guerra partigiana diventa un «movimento popolare di massa» solo nelle settimane immediatamente precedenti la capitolazione dei tedeschi, quando cioè la vittoria degli Alleati appare ormai certa. La chiamata all’«insurrezione popolare» nella primavera del 1945 da parte del CLN Alta Italia ebbe soprattutto il significato di un’iniziativa politica intesa a “mettere il cappello” sulla vittoria degli Alleati (10). E all’interno di questa intelligente strategia i “comunisti” cercarono di presentarsi all’opinione pubblica nazionale come i veri vincitori, potendo contare sul loro cospicuo numero, maggioritario rispetto alla concorrenza politica (soprattutto di matrice azionista), e sulla loro superiore capacità organizzativa, temprata in anni di clandestinità e di lotta: vedi la guerra in Spagna. Anche per questo i “comunisti” diventarono subito i più ostinati, intransigenti e ottusi sacerdoti del mito resistenzialista; essi relegarono il contributo dato alla Resistenza dai cosiddetti “partigiani bianchi” in uno spazio davvero residuale, e alimentarono nella destra italiana il contro-mito di una Resistenza sostanzialmente “rossa e comunista”, più che tricolore e antifascista.
Giustamente i “comunisti” sono stati accusati dagli antifascisti “bianchi” di voler egemonizzare per fini politico-ideologici il mito della Resistenza (11), cosa che risultava ai loro occhi tanto più disdicevole se si considerava il fatto che la Russia Sovietica e i loro sodali italiani erano certamente antifascisti ma altrettanto certamente non antitotalitari: «I comunisti italiani volevano fare come in Russia!». Senza contare che la guerra mondiale era iniziata con Hitler e Stalin nella veste dei fraterni amici (12), e che se non fosse stato per l’errore commesso da Hitler il fatale 21 giugno 1941 chissà quale storia staremmo oggi raccontando… Di questa “guerra civile ideologica” si trovano ampie tracce anche nel dibattito politico e parlamentare che ha preceduto il 25 aprile di quest’anno: «I partiti di governo chiedono agli avversari l’abiura dei totalitarismi, anche e soprattutto del comunismo. Ma anche su questo punto le strade non si incontrano. Il Pd risponde: “I comunisti italiani hanno avuto nella nostra storia doppiezze e contraddizioni, ma si sono battuti per la libertà”» (Ansa). Qui è solo il caso di dire che non la marxiana dittatura rivoluzionaria del proletariato avevano in testa gli stalinisti italiani, ma piuttosto la dittatura capitalistica in salsa russa (o “sovietica”), da aggiustare poi secondo la realtà italiana, come prevedeva la teoria del “socialismo nazionale” (o socialnazionalismo) codificata a Mosca negli anni Trenta. Naturalmente questa sottigliezza storica e “dottrinaria” non dice niente agli antifascisti ligi alla Patria, non importa se “bianchi”, “rossi”, “neri” o “gialli”. Le «doppiezze» e le «contraddizioni» del Pci si giocarono interamente sul terreno della difesa intransigente della società capitalistica, ed è per questo che “comunisti” e “anticomunisti” avevano (e hanno) fra loro più cose in comune di quanto fossero (e siano) disposti ad ammettere o semplicemente a sospettare. L’immagine delle due facce di una stessa medaglia anche qui soccorre benissimo a sintetizzare complessi ragionamenti: l’economia di pensiero non è necessariamente una cosa cattiva!
Gli scioperi nelle fabbriche del Nord del marzo 1943, che ebbero un carattere sostanzialmente rivendicativo (aumenti salariali, riduzioni di orario, migliori condizioni di lavoro), non furono affatto un preannuncio della Resistenza, come diranno più tardi gli artefici del mito resistenzialista, ma per la classe dominante italiana essi rappresentarono un drammatico annuncio di sventura, un campanello d’allarme circa la pericolosa piega che avrebbe potuto prendere la crisi economico-sociale resa esplosiva dai rovesci bellici. Dal caos generale, dalla catastrofe economica e dalla crisi morale delle masse sarebbe potuto venire fuori un poderoso movimento rivoluzionario, e questa prospettiva naturalmente non poteva non spaventare la classe dominante, soprattutto nel momento in cui il bastone fascista si era ormai del tutto infradiciato politicamente e ideologicamente, e risultava perciò inservibile per contenere, cavalcare e reprimere una sempre possibile ondata rivoluzionaria. La classe dominante è avvezza a non escludere mai, in linea di principio, le possibilità di quel tipo: essa preferisce sopravvalutare il nemico interno, anziché correre il rischio di sottovalutarne la forza e le capacità. La soluzione rivoluzionaria della crisi sociale è insomma uno spettro che la classe dominante ha sempre dinanzi agli occhi.
Fu piuttosto la monarchia e la fronda fascista a politicizzare quegli scioperi in chiave antimussoliniana, per dimostrare che il regime da lui diretto per due decenni aveva perso il consenso degli operai, fatto estremamente grave in un momento particolarmente critico della guerra.
Scriveva Renzo Del Carria: «Alla fine del settembre 1943 in Italia le masse popolari, se giustamente dirette, avrebbero potuto iniziare la loro “rivoluzione interrotta” che le avrebbe potute portare nel giro di qualche decennio a costituire il loro stato (degli operai, dei contadini e del ceto medio) perché tutti gli elementi della dittatura di classe si erano in quel momento dissolti sotto la spinta dell’invasione e della propria inettitudine (13). Al mito resistenzialista bisogna aggiungere quello, non meno rognoso e certamente più risibile, della «Resistenza tradita». La genesi di questo mito è da ricercare soprattutto nell’ala stalinista più oltranzista (più “dura e pura”) del Pci, la quale rivendicò per l’Italia un immediato passaggio al “socialismo” di stampo sovietico (nel senso di russo, non di rosso), un esito a essa precluso dalla nuova collocazione geopolitica del Paese – peraltro pienamente accettata da Mosca e, per suo tramite, da Togliatti. Negli anni Settanta del secolo scorso furono soprattutto le Brigate Rosse a sostenere la necessità di completare l’opera lasciata incompleta dai «partigiani rossi» negli anni della Resistenza, a dimostrazione di quanto fosse forte il legame del “partito armato” con la tradizione stalinista del Pci. Non a casa Rossana Rossanda evocò il famigerato «album di famiglia» – al quale mi onoro di non aver mai fatto parte. Ingannata, più che tradita, fu allora la classe subalterna italiana e internazionale; ma l’inganno ai suoi danni da parte dello stalinismo si era consumato molti anni prima, quando la terminologia della tradizione socialista e comunista fu usata dalla Chiesa Moscovita e dai suoi fedeli sparsi in tutto il mondo per “declinare” una prassi che con il socialismo e il comunismo non aveva nulla a che spartire ma ne era anzi l’esatto opposto. Ecco perché le bandiere rosse sventolate allora dai «partigiani rossi» non mi hanno mai commosso, né inorgoglito o entusiasmato, tutt’altro. Non basta sventolare le bandiere rosse, cantare l’Internazionale, e portare in processione i sacri ritratti di Marx, Engels e Lenin (e magari pure quelli di Stalin e Mao!) per essere dei comunisti. Penso anche che i cortei che celebrano il 25 aprile che non accettano le bandiere degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Brigata Ebraica esibiscono una profonda ignoranza storica e una faziosità ideologica che la dice lunga sui censori, molti dei quali agitano le bandiere rosse come drappi esorcistici. Ma ritorniamo alla «rivoluzione tradita».
Chi rimprovera al Pci di non aver saputo o voluto approfittare della crisi sociale prodotta dalla guerra e poi dalla caduta del regime fascista «per fare la rivoluzione» non considera, a prescindere da ogni altra considerazione, un piccolo particolare: quel Partito non solo non era un soggetto rivoluzionario, ma dalla fine degli anni Venti in poi ebbe un carattere decisamente (radicalmente) controrivoluzionario, proprio in quanto espressione della controrivoluzione stalinista iniziata in Russia nella seconda metà degli anni Venti e radicalizzatasi nel decennio successivo – anche con metodi estremamente oppressivi, violenti, sanguinari (14). Il Pcd’Italia nato nel gennaio 1921 sotto gli auspici della rivoluzione proletaria mondiale non esisteva più (come d’altra parte non esisteva più, se non sul mero piano formale, il Partito Bolscevico di Lenin: sulle sue ceneri nacque quello di Stalin): il fascismo lo aveva distrutto fisicamente, lo stalinismo lo distruggerà anche (ma non solo!) politicamente e ideologicamente. Che senso ha rimproverare a un partito controrivoluzionario (o, più semplicemente, borghese) di non aver voluto organizzare una bella rivoluzione anticapitalista? La cosa non ha certamente alcun senso, mentre dice molto sul tipo di “rivoluzione” che hanno in testa certi “comunisti”.
Un’ipotetica soluzione rivoluzionaria della crisi che dal ’43 al ’45 devastò l’Italia si sarebbe scontrata anche con il Partito di Palmiro Togliatti, la cui politica esprimeva in modo sintetico, e spesso contraddittorio, l’alleanza imperialistica tra gli angloamericani e i russi – che come dimostrò la guerra civile spagnola erano interessati a espandere l’influenza politica dell’Unione Sovietica, non certo a preparare “rivoluzioni proletarie” a destra e a manca, la cui possibilità anzi ostacolarono in tutti i modi, anche uccidendo i militanti autenticamente rivoluzionari. Già nel 1938, ad esempio, la direzione del Pci sostenne la necessità di liquidare, all’occorrenza anche fisicamente, i “trotskisti” e i “bordighisti”, accusati di essere «spie al soldo dei fascisti e degli imperialisti» – gli stessi imperialisti con i quali i “comunisti” si alleeranno qualche anno dopo! Nel dicembre 1945 l’Unità ricordava con orgoglio che il Pci aveva sostenuto «la fucilazione dei trotskisti russi», e stigmatizzava quei compagni italiani che «considerano ancora in buona fede il trotskismo come una corrente della classe operaia». «In tal senso, è emblematico l’appoggio del PCI all’ordine del colonnello alleato Graham Chapman contro gli scioperi nell’Italia liberata, con punizioni prevedenti anche la pena di morte per gli scioperanti» (16).
La cosiddetta svolta di Salerno non fu affatto una radicale svolta politica, ma piuttosto l’esito coerente della politica stalinista praticata dal Pci ormai dai tempi della famigerata “bolscevizzazione” dei Partiti “comunisti”, i quali si convertiranno alla fede moscovita. Le poche obiezioni che allora si levarono dentro quel Partito, saranno marginalizzate e poi superate assai rapidamente, a dimostrazione proprio della sua natura radicalmente stalinista, la quale in quella circostanza storica esigeva dai “comunisti” italiani l’accettazione degli equilibri interimperialistici realizzati dalla guerra, ossia la spartizione del mondo operata dall’alleanza anglo-russo-americana.
Se Togliatti dimostrò di essere più realista del Re (e di Badoglio), i suoi oppositori di “sinistra” interni al Partito furono più stalinisti di Stalin – che difatti li abbandonò al loro miserrimo destino, che fu quello di ritornare mestamente, previa la solita “sincera e spregiudicata autocritica”, a lustrare le scarpe al Migliore. «Compagno Stalin, noi attendiamo a Roma il glorioso esercito rosso!», si legge sul giornale Spartaco pubblicato nel 1944 a cura di un fantomatico Partito Comunista Indipendente che criticava “da sinistra” il Pci. Addavenì Baffone! Alcuni in Italia lo stanno ancora aspettando – e intanto ingannano l’attesa sostenendo i successi ottenuti da Putin e Xi Jinping contro l’ordine mondiale centrato sull’«Occidente collettivo» a guida americana.
I pochi ma eroici, detto senza alcuna enfasi, militanti comunisti che cercarono di organizzare una lotta armata anticapitalista (e in questo peculiare senso anche antifascista) si scontrarono in primo luogo con le forze della repressione organizzate dal Pci, e alcuni di loro trovarono anche la morte per mano degli stalinisti, zelanti servitori degli interessi nazionali – ma sempre con un occhio rivolto a Mosca!
Non nego affatto che tra il 1943 e il 1945 si siano verificati in Italia diversi episodi di lotta autenticamente classista; sostengo invece che queste significative eccezioni non potevano modificare il significato storico-sociale complessivo di ciò che chiamiamo Resistenza. A me pare che ai pochi autentici comunisti rimasti allora sul terreno della lotta di classe (e quindi sopravvissuti alla congiunta repressione fascista e stalinista) il problema si ponesse nei “semplici” termini che seguono: come trasformare la guerra partigiana in guerra civile rivoluzionaria? Questa trasformazione era un obiettivo realistico, aveva davvero una possibilità? Mi sono fatta la convinzione, che naturalmente sono pronto a rivedere sulla base di nuove letture, di nuovi studi, che allora quell’obiettivo non avesse nessuna possibilità di successo, sebbene non disprezzo affatto, tutt’altro, chi si mosse in quel senso, magari solo per lasciare una importante testimonianza politica alle nuove generazioni: ben fatto! Bisogna anche considerare che chi scrive lo fa post festum, a cose fatte, sulla scorta del comodo senno di poi, mentre chi ottant’anni fa agì “dal vivo” probabilmente non poteva abbracciare con lo sguardo la complessa totalità del quadro.
L’elemento a mio avviso decisivo che milita a favore di quell’impossibilità va ricercato soprattutto nella sconfitta patita dal movimento operaio italiano – e internazionale – a opera del fascismo e dello stalinismo, che ne stroncarono la capacità di iniziativa politica autonoma, e non fu certo un caso se il proletariato italiano accettò praticamente senza fiatare, prima la guerra iniziata dal regime fascista in alleanza con quello nazista, e poi la sua continuazione in guisa antifascista e antinazista. Si tratta di un problema che il proletariato d’allora ha lasciato in eredità al proletariato (ai nullatenenti) dei nostri giorni, il quale vive impigliato nella fitta e variopinta trama politico-ideologica tessuta dalla classe dominante. Insomma, e per concludere rapidamente, in quegli anni (1943-1945) non passò alcun metaforico treno della Rivoluzione che invitasse i comunisti a salirvi sopra per essere diretto nella giusta direzione. Anche il “treno perduto della rivoluzione” può forse essere annoverato fra i miti prodotti dalla Resistenza. Di certo, il mito di gran lunga più minoritario e più “simpatico”, almeno ai miei occhi.
Mi rendo conto che quello che ho scritto urta non poco la sensibilità degli italici patrioti e che poco si armonizza con la ricostruzione mitologica (strumentale, in chiave interna e internazionale) della Resistenza, della guerra partigiana, con l’aggravante di farlo nel giorno in cui la Nazione celebra da par suo la vittoria sul nazifascismo – certo, con il contributo “marginale” degli angloamericani. Ma è proprio questo l’obiettivo che intendevo cogliere. Oggi Marco Tarquini scrive che «La Resistenza al mostro non è ancora finita» (Avvenire). Diciamo piuttosto che la resistenza deve ancora iniziare. Ma qui il mostro si chiama società capitalistica mondiale e la resistenza lotta di classe.
(1) K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, Opere, VI, p. 481, Editori Riuniti, 1973.
(2) Ibid., p. 482.
(3) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 55, Savelli, 1978.
(4) Scriveva Giampiero Mughini qualche settimana fa: «Caro Dago, Nanni Moretti ha avuto un’idea magnifica nel far partire il suo film (Il sol dell’avvenire) dalla condizione di un regista che sta girando un film sui fatti d’Ungheria del 1956, ossia dalla narrazione simbolicamente e intellettualmente la più importante per almeno tre o quattro generazioni del nostro dopoguerra. […] Una decina di anni fa sono stato a Budapest. Sono arrivato a sera tarda. Alla mattina dell’indomani la prima cosa che ho fatto è stata prendere un taxi che portasse me e Michela al numero 60 di viale Andrássy dov’è la Casa del terrore che ospitò dapprima la polizia fascista e successivamente la polizia stalinista ungherese. […] C’era una stanza in cui la scrivania cui sedeva il capo dei boia mentre interrogava i prigionieri era messa con la stessa angolazione che era stata la sua al tempo dell’orrore, ed era naturalmente la stessa scrivania usata prima da un capo fascista e poi da un capo comunista. Mai nella mia vita ho visto nulla di simile, pareti e arredi che era come se sanguinassero, stanze che trasudavano l’eco della sofferenza e del dolore. Appunto, il comunismo reale» (Dagospia). La continuità dell’orrore raccontata da Mughini ci parla di due facce della stessa (capitalista/imperialista) medaglia. Si tratta in primo luogo di una continuità sociale, radicata in peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e non di una continuità puramente politico-istituzionale apprezzabile sul piano della critica ideologica.
(5) R. De Felice, La guerra civile 1943-1945, in Mussolini l’alleato 1943-1945, II, Einaudi, 1997.
(6) Rapporto Vaccari al Duce, cit. tratta da S. Peli, Storia della Resistenza in Italia,p. 69, Einaudi, 2006.
(7) E. Ludwig, Colloqui con Mussolini, p. 81, Mondadori, 1965.
(8) «Per fare un esempio, il fascismo in Italia non è stata una parentesi, ha avuto complesse radici economiche e sociali, e ha lasciato un segno indelebile, ci ha lasciato comunque un’eredità che pesa ancora. Oggi ci stupiamo che negli anni ’20 e ’30 in Italia “tutti” fossero fascisti; come ci stupiamo che in Germania “nessuno” vedesse i delitti di Hitler e del nazismo. Sperando di non venire frainteso, direi che il fascismo ha cambiato l’Italia nel male e nel bene. Non è necessario che mi dilunghi sul male. Ma il fascismo anticipò quell’intervento dello Sato nell’economia che sarebbe poi diventato una caratteristica generale dello Sato moderno: per fare solo un esempio, l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) fu istituito nel 1933 per salvare le prime 3 banche italiane, due mesi dopo Roosevelt copiò l’idea, poi giocò un ruolo fondamentale nella ricostruzione postbellica, ed è stato sciolto solo nel 2002. Il fascismo creò il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). In ogni caso, non ci siamo mai veramente “liberati” dal fascismo, basti pensare che la burocrazia italiana è rimasta quella e ha continuato (e continua) a condizionare pesantemente il nostro Paese» (A. Baracca, Pressenza). Ho il sospetto che Baracca consideri un cambiamento «nel bene» l’interventismo statalista inaugurato dal fascismo. Tra l’altro è anche significato il fatto che oggi i sinistri rimproverano ai destri di aver perso per strada «l’anima sociale» (quella esibita dal Movimento Sociale!), e di essere diventati dei “liberisti selvaggi”. È la stessa accusa che il Manifesto, il noto quotidiano “comunista”, lanciò contro Gianfranco Fini all’epoca della fondazione di Alleanza Nazionale. Leggi: LA PERFETTA CONTINUITÀ DELLO STATO. OVVERO: LO STATO ETERNO.
(9) P. Scoppola, 25 aprile. Liberazione, pp. 7-12, Einaudi, 1995.
(10) Scrive Giulio Sapelli: «La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all’Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana» (Storia economica dell’Italia contemporanea, p. 1, Bruno Mondadori, 2008). Nulla da aggiungere. Successivamente quel mito funse da collante ideologico nazionale, uno strumento politico-ideologico particolarmente usato dalla “sinistra” italiana contro i suoi avversari. Merita di essere ricordato il passaggio del discorso di Alcide De Gasperi, pronunciato il 10 agosto 1946 in relazione alla bozza del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, che mise formalmente fine alle ostilità tra l’Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale, laddove afferma: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione».
(11) «Nei tornanti storici in cui è stata sconfitta o ha rischiato l’emarginazione, la sinistra ha usato la Resistenza per “delegittimare” i nemici del momento. Così il De Gasperi che nel 1947 fa un governo senza i comunisti viene accusato di aver rotto l’unità antifascista della lotta di Liberazione; nel 1960 il governo Tambroni, che si fa votare la fiducia dal Msi, viene imputato di riaprire le porte al fascismo; e i gruppi extraparlamentari negli anni ’70 identificano nella Dc il “nuovo fascismo”; e le Brigate Rosse si propongono come la “nuova Resistenza”; e nel 1994 perfino Umberto Bossi si materializza alla manifestazione del 25 aprile promossa dal Manifesto contro la vittoria elettorale del “Cavaliere nero”, perché stava per portare al governo i post-fascisti di Fini; e nel 2006 la sindaca di Milano, Letizia Moratti, viene cacciata a furia di fischi e cori dal corteo, nonostante spingesse la sedia a rotelle del padre, deportato a Dachau e decorato con la medaglia della Resistenza; e la Brigata ebraica, che alla liberazione dell’Italia ha partecipato per davvero, viene fischiata ogni anno. Perché è “ebraica”» (A. Polito Corriere della Sera 21/4/2023).
(12) Scriveva il 25 novembre 1939 il settimanale del Pci negli USA, L’Italia del Popolo: «Ogni italiano emigrato in America deve aderire ai comitati d’azione per tenere gli USA fuori dalla guerra». Quei comitati erano composti da elementi fascisti o molto vicini al fascismo ed erano finanziati da Berlino. Ancora nel maggio 1941 il Pci sosteneva che «La guerra contro l’Inghilterra non è una guerra per la nostra libertà, non è un conflitto tra proletari e plutocratici. Essa è una guerra tra briganti imperialisti per l’egemonia mondiale, per la spartizione delle colonie e delle ricchezze del mondo intero» (Per la libertà e l’indipendenza d’Italia, relazione della Direzione del PCI al V Congresso, Roma, 1945). Solo dopo il tradimento del camerata Hitler gli stalinisti, russi e italiani, scopriranno la natura «democratica e antinazista» della guerra imperialistica.
(13) R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, pp. 116-117, Savelli, 1977.
(15) Non si trattò della continuazione dell’Ottobre con altri mezzi, soprattutto per fare i conti con la borghesia rurale (i famigerati kulaki), come scriveranno (e scrivono!) gli stalinisti italiani, o di un “Termidoro” politico che però lasciava praticamente intonse le “conquiste sociali” della Rivoluzione sovietica, come scriverà il pur grande Trotsky (e ripeteranno i suoi assai più modesti): si trattò appunto di una controrivoluzione capitalistica che spazzò via la natura proletaria e internazionalista dell’Ottobre, la sua funzione di avanguardia della rivoluzione sociale internazionale. Ciò che nella Russia cosiddetta sovietica rimase in piedi fu la prospettiva dell’accumulazione capitalistica, della modernizzazione capitalistica, della formazione di un moderna nazione, di un moderno imperialismo in grado di rivaleggiare con l’imperialismo occidentale – tedesco, in primis. Rinvio ai miei diversi scritti sulla Rivoluzione d’Ottobre. Alcuni titoli: Lo scoglio e il mare; Lenin e la profezia smenaviekhista; Il Grande Azzardo.
(16) A. Catto, Palmiro Togliatti, il PCI e la democrazia progressiva tra lotta antifascista e costituzionalizzazione, p. 36, Università Cà Foscari, 2016. «Lo stesso rimando alle Brigate Internazionali nel nome e alla figura di Garibaldi (ripresa poi dal successivo Fronte Popolare nelle elezioni postbelliche) fa capire quale sia l’alveo ideologico e il portato storico che la formazione delle brigate antifasciste del PCI reca con sé, ed è interessante attenzionare anche i nomi delle singole brigate in questo senso, quasi nessuna recante insegne, nomi o simboli riconducibili alla stagione del bolscevismo rivoluzionario» (Ivi). «Togliatti tende a incarnare lo scontro resistenziale in uno scontro patriottico, interclassista e nazionalpopolare» (Ibid., p. 74). «La moderazione in campo sociale e politico era il biglietto da visita che la direzione togliattiana presentava alla monarchia e alla classe dominante italiana» (A. Peregalli, L’altra Resistenza, il PCI e le opposizioni di sinistra, p. 143, Graphos, 1991). Confesserà Togliatti nel 1947: «I lavoratori, grazie all’azione del PCI, hanno moderato il loro movimento, l’hanno contenuto nei limiti in cui era necessario contenerlo per non turbare l’opera di ricostruzione» (Cit., ivi, p. 153).