1921-2021. CENTENARI CHE SUONANO MENZOGNERI

La celebrazione della data di fondazione del cosiddetto Partito Comunista Cinese probabilmente non è mai stata così importante come oggi, per il suo virtuale centenario. Infatti, dopo oltre un anno di pandemia questa celebrazione lungamente preparata dal Partito-Regime assume un significato particolare non solo per la Cina, ma per tutto il mondo, visto che essa cade nel momento in cui il grande Paese asiatico si presenta agli occhi di tutti come la potenza che esce trionfante dalla guerra pandemica, la sola grande nazione che non ha fatto registrare indici di sviluppo negativi (nel 2020 il Pil cinese è cresciuto di circa il 2,3%) e che si appresta a farne registrare di fortemente positivi già quest’anno. Spesso il Presidente Xi Jinping ha ricordato i cosiddetti due obiettivi del centenario: la costruzione di una «società moderatamente prospera» entro il 2021, centesimo anniversario della fondazione del PCC, e la creazione di «un’economia prospera e avanzata» entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Obiettivi molto ambiziosi, non c’è dubbio.

«La Cina dichiara vinta la battaglia contro la povertà assoluta. La provincia Sud-Occidentale del Guizhou ha cancellato le ultime nove contee dalla lista delle aree che versano in stato di povertà. La linea ufficiale di povertà in Cina è stata fissata nel 2010 al di sotto di un reddito annuo di 2.300 yuan (294,18 euro al cambio attuale) più bassa quindi della soglia fissata dalla Banca Mondiale di 1,90 dollari al giorno. L’obiettivo fissato nel 2015, e da raggiungere entro la fine di quest’anno, era di eliminare la povertà assoluta, ma il governo cinese deve fare ancora i conti con il forte divario di reddito tra la popolazione urbana e quella rurale e le disparità tra le varie province» (Agi). Sulla reale condizione di vita e di lavoro dei migranti cinesi, cioè del grande esercito di lavoratori che tutti gli anni si sposta dalle zone rurali del Paese per raggiungere i distretti industriali cinesi, dove sarà sfruttato a dovere dal capitale nazionale e internazionale, rimando al post La pessima condizione dei migranti cinesi.

All’inizio di questo breve post ho scritto «cosiddetto Partito Comunista Cinese» e «suo virtuale centenario»: perché?  Perché quello che oggi si chiama Partito Comunista Cinese, e che costituisce l’impalcatura politica, ideologica e burocratica dello Stato (capitalista/imperialista) cinese, non ha nulla a che fare con il Partito fondato il Iº luglio 1921 a Shanghai da alcuni esponenti del Movimento del 4 maggio (1919), tra i quali ricordo Ch’en Tu-hsiu,  professore di filologia che fu il primo segretario del PCC, caduto in disgrazia dopo i sanguinosi eventi del 1927, e Li Ta-chao, tra i fondatori nel 1918 della Società per lo studio del marxismo. Catturato da un Signore della guerra nel 1927, Li Ta-chao venne strangolato dalla polizia dopo lunghe torture.  Il Movimento del 4 maggio si caratterizzò per un acceso antimperialismo rivolto contro le potenze occidentali e contro il Giappone, il quale grazie alla Conferenza di Versailles ereditò tutti i diritti acquisiti nel corso degli anni dalla Germania, la potenza battuta dall’Intesa.

Mao Tse-tung, «un povero studente hunanese, sempre avvolto in un’unica vestaglia nera, ancora preso dai complessi di inferiorità del contadino da poco giunto nella capitale» (E. C. Pischel), partecipò al congresso di fondazione del PCC, ma non vi ebbe un ruolo rilevante. Solo alla fine degli anni Venti Mao crebbe in statura politica, per acquisire nel gennaio del 1935 quel ruolo centrale nella vita del PCC che manterrà per molto tempo, tra cadute mai rovinose e risalite sempre “prodigiose”. A quel punto si trattava però di un soggetto politico, certamente rivoluzionario, ma di natura borghese – nazionalista e antimperialista.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere della Cina, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il più grande, se non l’unico, esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al contesto storico e sociale cinese. Il PCC di Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. La politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese in Cina, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata da Lenin per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale. Tale politica era centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti avrebbero dovuto difendere come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima significativa dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute e conferme sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

L’accesa conflittualità che si manifesterà a partire dai primi anni Sessanta tra l’Unione Sovietica “revisionista” e la Cina ”maoista” si spiega non tirando in ballo dispute politico-ideologiche, ma con la natura capitalistica dei due Paesi: il primo saldamente al vertice della competizione imperialistica mondiale, insieme agli Stati Uniti, e il secondo che cercherà di svilupparsi come grande nazione sottraendosi dall’influenza economica e militare delle due Super Potenze.

Il nuovo PCC degli anni Trenta non fu, dal punto di vista sociologico, sociale, politico e ideologico, il Partito dei contadini, ossia l’espressione diretta dei loro interessi di classe, ma piuttosto un Partito borghese-nazionale che cercò nei contadini la sua fondamentale base sociale d’appoggio per centrare obiettivi di natura squisitamente borghese-nazionale: in primis, l’indipendenza nazionale e lo sviluppo del capitalismo – anche attraverso una riforma agraria più o meno radicale. Scrive Arturo Peregalli nella sua ottima Introduzione alla storia della Cina: «È quindi a giusto titolo che Mao può richiamarsi a Sun Yat-sen, dichiarandosi suo discepolo e continuatore della sua politica. Se Mao è il “vero Dio” della rivoluzione cinese, Sun Yat-sen fu il suo profeta».

Il particolare rapporto politico-sociale che strinse il PCC e i contadini spiega, non solo la completa esclusione della classe operaia del Paese dalla strategia rivoluzionaria dei “comunisti” cinesi, il cui esclusivo obiettivo era, al di là della fuffa ideologica tipica dei soggetti politici d’ispirazione stalinista, l’ascesa della Cina nel “concerto” mondiale in quanto grande nazione capitalistica; ma spiega anche l’andamento contraddittorio, e spesso conflittuale (fino alla violenza armata), di quel rapporto, dal momento che il mondo rurale cinese presentava una complessa stratificazione sociale – a cominciare dalla storica divisione tra contadini poveri e contadini ricchi.

Sulla natura borghese-nazionale della Rivoluzione cinese e del PCC, nonché sulla natura capitalistica della Cina (da Mao a Xi), tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ad alcuni miei scritti dedicati al grande Paese asiatico:  Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Sulla campagna cinese; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Sotto ogni punto di vista (sociale, politico, ideale) non solo non si scorge alcuna continuità tra il PCC del 1921 e il Partito che cento anni dopo porta lo stesso nome e dice di volerne celebrare la nascita, ma quest’ultimo rappresenta piuttosto la più radicale negazione del Partito di Ch’en Tu-hsiu e Li Ta-chao, il quale ancora fragile dal punto di vista sociale e politico, e ancora immaturo da quello dottrinario, mosse nondimeno i primi promettenti passi in un momento in cui la rivoluzione proletaria internazionale sembrava ancora possibile. Scriveva Li Ta-chao nel 1918: «Il fine dei bolscevichi è di distruggere i confini che sono ostacoli al socialismo e di distruggere il sistema di produzione in cui il profitto è monopolizzato dal capitalista. I soviet uniranno il proletariato del mondo e creeranno la libertà universale. Questa è la teoria della rivoluzione del nostro secolo!  La rivoluzione russa non è che una delle rivoluzioni del mondo. La campana ha suonato l’ora dell’umanità, l’alba della libertà è arrivata». Solo retrospettivamente è possibile comprendere come nel 1921, l’anno di nascita del Partito Comunista Cinese e del Partito Comunista d’Italia, la marea della rivoluzione mondiale si stesse rapidamente ritirando, lasciando i bolscevichi isolati nell’oceano del capitalismo mondiale e a dover fare i conti con la catastrofe sociale creata dalla guerra imperialista e dalla guerra civile. La controrivoluzione antiproletaria che porterà il nome di Stalin (ma che non ha a che fare con la cattiva personalità di chicchessia) ebbe in quel tragico isolamento i suoi fondamentali presupposti, e a farne le spese saranno anche i proletari e i comunisti degli altri Paesi, Cina e Italia compresi.

Mutatis mutandis, la celebrazione del centenario della nascita del Partito Comunista Cinese e quella del Partito Comunista Italiano hanno un comune risvolto ideologico, si celebra cioè  una grande menzogna che affonda le sue radici, appunto, nello stalinismo internazionale e nella sconfitta del movimento operaio internazionale, della quale il primo fu, al contempo, una delle principali cause e la più verace e odiosa espressione. Odiosa soprattutto perché siamo ancora qui a parlare del cosiddetto “comunismo” cinese e italiano.

Dal Partito Comunista Cinese del 1921 al Partito Capitalista Cinese del 2021: cosa marca la continuità storica tra i due soggetti politici? L’acronimo!

Scriveva ieri Le Monde: «La Cina crede già di aver vinto la partita con gli Stati Uniti, e forse sta qui il suo maggiore errore di valutazione». Vedremo chi si sbaglia. Di certo non sbaglia chi lotta, “senza se e senza ma”, contro l’Imperialismo Unitario (*).

(*) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporta con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

SI RISCALDA LA COMPETIZIONE IMPERIALISTICA NEL SUD-EST ASIATICO 

Il Sud-Est asiatico è il «teatro primario del confronto che oppone gli Stati Uniti e i loro alleati alla Repubblica Popolare Cinese. Lo Stretto di Malacca costituisce il collo di bottiglia tra gli oceani Indiano e Pacifico ed è la giugulare economico-militare dell’Asia sud-orientale, presidiata da Washington. Il Sud-Est asiatico è il perno geografico del Quad, il quadrilatero difensivo anticinese a guida Usa cui aderiscono India, Australia e Giappone. Raggruppamento riesumato dal presidente Donald Trump e rinsaldato dal suo successore Joe Biden – i cui emissari hanno incontrato per la prima volta le controparti cinesi il 18-19 marzo ad Anchorage, in Alaska. Nell’Indo-Pacifico gli Stati Uniti dispongono di una rete di alleanze – formali o meno – che impedisce alla Cina di proiettarsi compiutamente nel suo estero vicino (a partite dal conteso Mar Cinese Meridionale) e sfidare il primato globale della superpotenza. Al contrario di Pechino, che in Indocina può contare solo su Cambogia e Laos, e che perciò sfrutta la leva economica – nuove vie della seta comprese – e le faglie strutturali dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico (Asean) per aumentare la propria influenza» (L. Di Muro, Limes).

Limes

Il Celeste Imperialismo Cinese userà tutti i mezzi necessari (per adesso sta usando soprattutto la potentissima “leva economica”) per indebolire, nel breve periodo, e poi eliminare del tutto l’influenza dell’imperialismo statunitense dal suo «estero vicino» –  o cortile di casa che dir si voglia. «Non vogliamo conflitti con voi, ma non ci spaventa una ruvida concorrenza», ha detto Jake Sullivan, il Consigliere per la sicurezza americano, alla delegazione cinese nel corso dell’infuocato vertice Usa-Cina di Anchorage. «Ruvida concorrenza»: chissà cosa intendeva dire…

Gli amici italiani del “popolo cinese” (leggi: del Partito-Regime cinese) non comprendono la «pervicace volontà degli Stati Uniti di mantenere ad ogni costo il proprio primato, che è sempre più in discussione per effetto di processi oggettivi ed inarrestabili» (Contropiano); ma è realistico pensare che Washington accetti con pacifica rassegnazione «i processi oggettivi ed inarrestabili»? E poi, non è stata ancora scritta l’ultima parola sulla  primazia imperialistica mondiale.

IL MYANMAR E IL «RISPETTO DELLA LEGGE» SECONDO PECHINO

Domenica di sangue

«Nella sola Yangon, le forze di sicurezza birmane hanno ucciso ieri 59 manifestanti e ferito altri 129. Lo riferisce il sito di informazione birmano Myanmar Now, citando fonti di tre ospedali dell’ex capitale e aggiungendo che gli stessi dottori credono che il bilancio sia ancora più alto. Se confermato, la giornata di ieri sarebbe la più sanguinosa dall’inizio delle proteste contro il golpe del primo febbraio» (ANSA).

Se il movimento di protesta pesta la coda del dragone

«La legge marziale è stata introdotta dalla giunta militare del Myanmar in due distretti di Yangon dopo assalti e saccheggi in alcune fabbriche di proprietà cinese. L’annuncio è giunto domenica, al termine di una giornata di scontri tra manifestanti e reparti dell’esercito e della polizia. Secondo Myanmar Now, agenzia di stampa con sede a Yangon che trasmette in birmano e in inglese, la legge marziale è stata introdotta nei distretti di Hlaing Tharyar e Shwepyitha. Stando all’ambasciata di Pechino, “fabbriche sono state saccheggiate e distrutte e molti dipendenti cinesi sono stati feriti e bloccati”. In un messaggio diffuso sui social network la rappresentanza diplomatica ha chiesto alla giunta “di adottare misure efficaci per fermare tutte le azioni violente, punire i responsabili nel rispetto della legge e garantire la sicurezza delle aziende e del personale cinese in Myanmar”» (Avvenire). A quanto pare il regime militare birmano ha subito accolto la richiesta cinese.

Per dirla alla “vecchia” maniera:

Contro la dittatura militare sostenuta dalla Cina! Contro il sistema capitalistico birmano (in ogni sua configurazione politico-istituzionale)! Contro il capitalismo/imperialismo cinese! Contro ogni forma di xenofobia (ad esempio, nei confronti dei lavoratori cinesi impiegati nelle zone industriali del Myanmar)! Per l’unità di classe dei lavoratori birmani e cinesi!

Aggiunta del 27 marzo 2021

Myanmar. Ieri la giunta militare ha mietuto altre 90 vittime, potendo ancora contare sull’appoggio di Cina e Russia. «Le vittime totali della repressione seguita alla protesta potrebbero oggi raggiungere quota 400, in una delle giornate più sanguinose tra quelle seguite al colpo di Stato del primo febbraio» (Il Messaggero).

Mentre in questi giorni Pechino cerca di mantenere un profilo basso nella crisi birmana, che disturba non poco la sua “pragmatica” linea politica (fare affari con chiunque), Mosca ci tiene invece a far sapere al mondo che la sua “amicizia” nei confronti del “popolo birmano” è più forte che mai.

«Il Paese guidato ora dalla giunta militare si candida a diventare l’ennesimo punto di attrito tra Occidente e Russia. Mosca ha mandato il suo viceministro della difesa Alexandr Fomìn a incontrare il capo delle forze armate birmane, Min Aung Hlaing nella capitale birmana, Naypyitaw, dove ha precisato che per la Russia, il Myanmar dei generali è un “alleato affidabile”. E sempre Fomin ha aggiunto che “la Russia aderisce a una linea strategica per intensificare le relazioni tra i due paesi”, oltre a sottolineare un particolare non trascurabile: il generale birmano ha “preso parte alla nostra parata lo scorso anno, per il 75esimo anniversario della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale”. Parole di un certo peso dopo il colpo di stato del primo febbraio 2021 e anche dopo che gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, l’Australia e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni al consiglio militare al potere e alla vasta rete di imprese legate all’esercito» (askanews).

«SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) conferma che le importazioni di armi del Myanmar per il 2010-19 hanno raggiunto i 2,4 miliardi di dollari, di cui 1,3 miliardi di dollari in armi fornite dalla Cina e 807 milioni dalla Russia. Gli aerei da combattimento russi, tra le nuove risorse militari del Myanmar, sono MiG-29, SDu-30MK e JF-17 e i velivoli da addestramento K-8, Yak-130 e G 120TP. Secondo fonti stampa, alcuni giorni prima del colpo di stato, il ministro della Difesa russo, generale Sergei Shoigu, ha visitato il Myanmar per finalizzare un accordo per una nuova fornitura di armi: il sistema missilistico terra-aria Pantsir-S1, droni di sorveglianza Orlan-10E e apparecchiature radar. Le importazioni di armi dalla Russia risalgono alla cooperazione tecnico-militare iniziata nel 2001 e successivamente, con l’accordo di cooperazione militare del 2016. Questo ha spianato la strada per l’addestramento in Russia di migliaia di ufficiali militari del Myanmar, oltre 6.000 fino al 2019. Molti ufficiali birmani parlerebbero fluentemente il russo» (Il Tazebao).

Sempre secondo la SIPRI, la Cina rappresenta il 50% delle principali importazioni di armi del Myanmar, «comprese navi da guerra, aerei da combattimento, droni armati, veicoli blindati e sistemi di difesa aerea», mentre la Russia ha fornito il 17% delle importazioni militari, «principalmente aerei ed elicotteri da combattimento».

Oggi questo micidiale dispositivo militare è puntato contro una popolazione inerme e sempre più disperata. L’obiettivo della giunta militare è oltremodo chiaro: terrorizzare chi è disposto a scendere in strada per protestare, ed esasperare fino al parossismo una parte della popolazione per costringerla a sostenere il regime «che lavora per il ripristino della pace e della democrazia». Anche qui, sporchi – e insanguinati – giochi di Potere (nazionale e internazionale) sulla pelle della povera gente.

Leggi: MYANMAR. AUTODIFESA E VALUTAZIONE CRITICA DELLA SITUAZIONE

LA PESSIMA CONDIZIONE SOCIALE DEI MIGRANTI CINESI

Le foglie cadute tornano alle loro radici.
落叶归根

In Cina la condizione sociale dei lavoratori migranti rimane assai dura e precaria, nonostante l’impetuoso sviluppo capitalistico del grande Paese asiatico abbia lasciato cadere anche su questi lavoratori, considerati di serie B, qualche briciola. Per migranti alludo naturalmente ai circa 300 milioni di individui che ogni anno si spostano dalle aree rurali della Cina per riversarsi nelle sue aree urbane, formando quel gigantesco esercito di proletariato che ha reso possibile l’ascesa del Paese ai vertici del capitalismo mondiale. Per capire di cosa parliamo è sufficiente ricordare il “modello” Foxconn, la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici: occupazione di massa, supersfruttamento, bassi salari, condizioni di vita e di lavoro che spesso hanno portato i lavoratori alla disperazione e al suicidio. Oggi circa il 51% dei migranti è occupato nel settore terziario, in linea con le trasformazioni intervenute nel corso del tempo nella struttura del capitalismo cinese.

Questo esercito di operai, di fattorini, di camerieri e di commercianti dà vita a una migrazione interna che per consistenza non ha eguali nella storia umana,  e le cui mete più ambite sono le ricche province del Guandong e dello Zhejiang e le megalopoli come Shanghai e Pechino. Durante il lungo capodanno cinese, questa laboriosa (leggi: sfruttata) «popolazione fluttuante» (in cinese 流动人口, liúdòng rénkǒu) ritorna nelle regioni rurali, per trascorrervi le meritate vacanze. A causa della nota pandemia, nel 2020 moltissimi migranti non hanno potuto riabbracciare i loro cari, e sono rimasti sequestrati nelle megalopoli, anche perché esse hanno avuto più che mai bisogno di fattorini (raider) in grado di consegnare ai clienti, velocemente e a qualsiasi ora del giorno e della notte, cibo e ogni genere di merce trasportabile in quella modalità. Il tutto, per riscuotere un salario di circa 4000 yuan (500 euro, contro i 126 offerti dalla campagna), che nelle metropoli cinesi non è certo sufficiente per vivere “decorosamente”.

Scrive Qiao Yan: «La tradizione degli emigrati cinesi rappresentata dal detto “le foglie cadute tornano alle loro radici”, nei tempi contemporanei non è più osservata come prima. Questo cambiamento di pensiero è in linea con i mutamenti sociali, economici e politici della Cina a partire dall’anno 1978» (L’emigrazione cinese, 2013). A quanto pare, le foglie cadute “desiderano” rimanere là dove le ha trasportate il vento.

«Malgrado gli effetti negativi del coronavirus sull’occupazione, i lavoratori migranti vogliono rimanere a vivere nelle città. Essi non vedono opportunità nelle aree rurali da dove provengono e sperano di poter accedere ai servizi educativi e sanitari cittadini, che sono migliori rispetto a quelli dei loro centri di origine. È quanto emerge da uno studio del Social Work Development Centre for Facilitators, pubblicato il 30 agosto. Il 58,84% dei migranti cinesi vuole continuare a vivere in un centro urbano anche se i loro figli non avranno accesso alle scuole locali. Il governo comprime i diritti dei lavoratori migranti per evitare che i costi dello stato sociale vadano fuori controllo. Il mancato riconoscimento della residenza nelle zone urbane, insieme alla mancanza di lavoro e al taglio dei salari per la pandemia, rendono sempre più difficile la vita in città per chi si è trasferito dalle campagne. Ciò non li spinge però a “tornare a casa”. Il reddito pro-capite nella Cina rurale è in calo dal 2014» (AsiaNews). Il proletariato migrante si trova quindi stretto in una morsa sociale sempre più stretta, e non è certo un caso se la maggior parte delle agitazioni operaie degli ultimi tempi hanno avuto proprio esso come loro protagonista indiscusso, anche se non esclusivo.

In Cina il salario minimo si aggira ancora intorno a 1500 yuan (185 euro). Lo stesso Premier Li Keqiang, ha ricordato in occasione dell’Assemblea nazionale del popolo della scorsa primavera che ci sono circa 600 milioni di cinesi che guadagnano meno di 140 dollari al mese. Nella conferenza stampa di chiusura del NPC, Li espresse un giudizio positivo sulla possibilità di tamponare la crisi occupazionale sviluppando nuovamente un’economia di strada fatta di bancarelle e venditori ambulanti, simile a quella emersa negli anni ’80, suscitando una forte contrarietà presso la fascia maggioritaria del Partito-Regime, sintetizzabile nello slogan: «Indietro non si torna!».

Scriveva Alessandra Colarizi nell’aprile del 2020: «Sebbene, stando agli ultimi dati ufficiali, a marzo il tasso di disoccupazione si è stabilizzato a quota 5,9%, in discesa rispetto all’incremento record del 6,2% riportato nei primi due mesi dell’anno, statistiche indipendenti calcolano il numero reale dei cinesi senza un’occupazione tra i 60 e i 200 milioni se si includono i migranti (mingong), esonerati dalle stime ufficiali ma rilevanti in termini numerici, rappresentando un terzo dei 442 milioni di lavoratori urbani» (Il Manifesto). Pur «rilevanti in termini numerici», i lavoratori migranti non compaiono nemmeno nelle statistiche ufficiali, che infatti vanno sempre lette criticamente e confrontate con i dati forniti da fonti “informali”.

«La parola cinese usata per indicare i lavoratori migranti è 农民工 nóngmíngōng, dove nóngmín significa contadino, e gōng lavoratore. Il termine si riferisce appunto a coloro nati nelle zone rurali del paese, ma emigrati verso le aree industriali in cerca di occupazione. L’etimologia della parola riflette accuratamente il ruolo ambivalente del lavoratore migrante, in equilibrio tra la città di destinazione e la terra di origine a cui è legato. L’origine di questa contraddizione giace nell’esistenza del sistema di registrazione familiare cinese, comunemente noto come 户口 hùkǒu. Secondo questo peculiare meccanismo, l’accesso ai diritti civili e legali di ogni cittadino è vincolato al luogo di nascita di quest’ultimo. Nato nei primi anni ’50 su emulazione della Propiska sovietica, lo hukou è un documento fondamentale nella vita di ogni abitante cinese; ancora oggi, resta indispensabile per ottenere l’accesso a istruzione, cure sanitarie, pensione e assicurazione. Tutti questi servizi vengono garantiti esclusivamente nel proprio paese natale, da cui lo hukou viene rilasciato. Il mancato possesso dello hukou locale costituisce quindi un ostacolo alla libera circolazione della popolazione. Ma non solo. Il sistema cinese ha portato alla creazione di una società diseguale, che nega il diritto all’istruzione e cure mediche a milioni di cittadini. Basti pensare che, nonostante sulla carta l’istruzione sia un diritto garantito, molte scuole pubbliche chiedono ai genitori migranti il pagamento di tasse aggiuntive salatissime. Queste richieste proibitive costringono molti bambini migranti a fare ritorno al proprio villaggio o ad iscriversi in scuole private non riconosciute dal sistema scolastico statale. Davanti a queste premesse, è evidente come l’emarginazione istituzionale e sociale generata dal sistema dello hukou abbia influenzato le vite dei migranti cinesi; a causa della loro identità rurale, essi sono percepiti dai loro concittadini come individui senza cultura ed una minaccia alla stabilità collettiva. Esclusione sociale e mancanza di opportunità hanno condannato i migranti alla segregazione di mercato e all’immobilità di classe, in virtù di uno Stato padre di due cittadinanze distinte: urbana e rurale. […] L’ultima riforma dello hukou prometteva la cittadinanza urbana a 100 milioni di residenti rurali. Tuttavia, sembrerebbe che il piano tenda a favorire ancora una volta l’entrata di capitali, rimanendo in silenzio di fronte alle richieste della popolazione fluttuante» (Bridging China ). Un Paese perfettamente capitalista, non c’è che dire.

Scrive Simone Pieranni, autore di Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (e qui faccio gli scongiuri!): « Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del “socialismo di mercato”. Un apparente ossimoro, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro». Qui siamo ancora al gatto di Deng Xiaoping («Non importa il colore del gatto, purché questo acchiappi il topo»)! Per quanto mi riguarda, è del tutto ininfluente il giudizio che il regime cinese, e la stessa “opinione pubblica” cinese danno sul loro modello sociale.Come diceva qualcuno, nei peridi di “pace sociale” l’ideologia dominante è l’ideologia che fa capo alle classi dominanti.

Il «socialismo di mercato» non è affatto «un apparente ossimoro», ma piuttosto una gigantesca balla ideologica che può affascinare solo chi non conosce la natura del rapporto sociale capitalistico di produzione e ha in mente un concetto assai miserabile di “socialismo” – del genere impallinato da Marx già un secolo e mezzo fa.

Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese;; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

MYANMAR. PER CHI SUONA LA PENTOLA…

BEAT YOUR POT! La gente la sera, dalle 20, batte le pentole dalle case come segno di protesta. Un vecchio rito popolare contro il maligno che è stato trasformato in atto di ribellione e di protesta contro il colpo di stato.

Dopo i proiettili di gomma, ora militari e polizia usano pallottole vere per fermare le proteste contro il colpo di Stato dello scorso 1º febbraio. Già si contano i primi morti e molti feriti. «Le forze armate (Tatmadaw) hanno imposto il divieto di raduni di più di quattro persone in dieci regioni e Stati, incluso Yangon, ma decine di migliaia di persone hanno ignorato l’ordine e si sono affollate per le strade. Per la prima volta da quando sono scoppiate le proteste, agenti antisommossa sono stati dispiegati per le strade di Yangon e nella capitale Naypyidaw e avrebbero aperto il fuoco sui manifestanti» (ISPI). Non «avrebbero»: lo hanno fatto. Questo è, come si dice, poco ma sicuro. I manifestanti, che rischiano fino a 20 anni di carcere, hanno deciso di fare di oggi, 22 febbraio, una grande giornata di mobilitazione e di lotta. La probabilità che l’Esercito birmano (espressione soprattutto della comunità Bamar) usi contro i manifestanti il pugno di ferro è altissima. Confessava cinicamente un militare birmano nel 1988, nel corso di una delle tante ondate repressive che hanno segnato la recente storia birmana: «L’esercito non ha la tradizione di sparare in aria. L’esercito spara per uccidere». E infatti allora tra i manifestanti si contarono centinaia, se non migliaia di morti.

Ultim’ora: «La giunta militare ha intanto diffuso una nota su Mrtv accusando i manifestanti in piazza oggi di incitamento alla “rivolta e anarchia”. Il Consiglio di amministrazione dello Stato, nome ufficiale della giunta militare, ha affermato che “i manifestanti stanno ora incitando le persone, in particolare adolescenti e giovani emotivi, a un percorso di confronto in cui subiranno la morte”» (adnKronos). La giunta militare sta mettendo in conto – e forse pianificando – un bagno di sangue?

Limes

Comprendere i motivi del colpo di Stato militare in Birmania (Myanmar) non appare, a un primo sguardo, impresa agevole, nel senso che è dal colpo di Stato “socialista” del 1962 che l’Esercito gioca in quel Paese un ruolo politico ed economico a dir poco centrale (1). Il sistema politico del Myanmar è sempre rimasto saldamente sotto il controllo del Tatmadaw (le Forze armate birmane) anche durante il «processo di democratizzazione» del Paese avviato nel 2011, e che ha visto Lady Aung San Suu Kyi diventare di fatto la leader del Paese e il suo partito (Lega nazionale per la democrazia) la principale forza politica, almeno sul piano formale-elettorale.

Secondo Soe Lin Aung, «Da un certo punto di vista, i militari non avevano bisogno di lanciare un colpo di Stato; l’esercito detiene già un notevole potere politico ed economico, nonostante abbia consentito nel 2011 a un governo formalmente civile di prendere forma dopo decenni di suo dominio. Nella dispensa post-2011, i militari si sono riservati un quarto dei seggi in parlamento, abbastanza per prevenire eventuali emendamenti alla costituzione del 2008, che in gran parte ha scritto per proteggere la propria posizione. Tre ministeri chiave sono rimasti sotto il controllo esclusivo dei militari» (Chuang). Ma negli ultimi anni il compromesso tra militari e classe dirigente civile si è indebolito, sfilacciato e incrinato, diventando sempre più precario, e il grande successo elettorale dello scorso novembre ottenuto dalla Lega nazionale per la democrazia (oltre l’80% dei voti) ha messo in allarme il gruppo dirigente del Tatmadaw, il quale ovviamente non vuole perdere il suo ruolo di perno centrale del sistema. La giunta militare, capeggiata dal generale Min Aung Hlaing, ha parlato di «brogli elettorali» e ha dichiarato di voler mettere in sicurezza la “democrazia”, compito che la Costituzione del 2008 (voluta dall’Esercito!) assegna appunto ai militari.

La posta in gioco in quel Paese non è insomma la democrazia (2), la libertà e il benessere dei cittadini, ma il potere economico e politico, dopo che la crisi economica degli ultimi anni, le tensioni etniche mai sopite e anzi sempre più accese, nonché le dinamiche geopolitiche hanno rotto l’equilibrio che si era appunto realizzato tra l’esercito e la classe dirigente “civile” – corresponsabile peraltro della dura repressione dei gruppi etnici che popolano i confini del Paese. «Le minoranze etniche del Myanmar sono state oggetto di spietate campagne di controinsurrezione per decenni. Saw Kwe Htoo Win, vicepresidente dell’Unione nazionale Karen, ha affermato: “Non importa se i militari inscenano un colpo di stato, il potere è già nelle loro mani. Per noi nazionalità etniche, sia che la NLD sia al potere o che l’esercito prenda il potere in esclusiva, non cambia nulla, perché non ne facciamo ancora parte. Noi siamo quelli che continueranno a soffrire a causa di questo sciovinismo» (Chuang).

Scrive Emanuele Giordana: «Alla fine di agosto dello scorso anno si era tenuta una Conferenza di pacificazione nazionale tra governo, esercito e minoranze etniche che sembrava aver ottenuto buoni risultati, soprattutto perché «tutte le parti hanno concordato, per la prima volta, sull’idea di costruire uno stato federale. […] Ora però questa già difficile e fragile architettura rischia di andare in pezzi e di vanificare un’operazione che è stata la vera vittoria politica nazionale di Aung San Suu Kyi e della Lega proprio in quanto rappresentanti di un governo civile in grado di far apparire i militari non più l’unico arbitro di una possibile negoziato di pace ma solo dei comprimari. Il vero pericolo per il Myanmar viene da lì. Da un possibile riaccendersi dello uno scontro etnico-identitario e da una nuova spinta verso l’autonomia secessionista. Un elemento non solo di conflitto e sofferenza interna ma un puzzle che, andando in pezzi, rischia seriamente di minare l’intera stabilità regionale in gran parte del Sud-est asiatico e al confine meridionale cinese» (ISPI).

C’è da dire che le Forze armate birmane sono molto presenti e attive anche nell’economia “informale” (o “illegale”): narcotraffico, contrabbando di pietre preziose e di legni pregiati, eccetera. Nell’angolo remoto e roccioso nel quale si uniscono le frontiere del Laos, della Thailandia, della Birmania e della Cina da moltissimo tempo è fiorente la coltivazione del papavero per il mercato dell’oppio e altri suoi derivati oggi più di moda – soprattutto nelle società occidentali.

Scrive Lorenzo di Muro: «La posta in gioco era e resta l’intelaiatura del potere in Birmania. La partita geopolitica centrata sulla sfida indopacifica tra Pechino e Washington ha fornito la cornice utile al golpe delle Forze armate (Limes). La Cina per adesso sta a guardare, e probabilmente il Partito-regime non ha gradito l’iniziativa dei militari: il mantra dell’imperialismo cinese è infatti la difesa della stabilità politico-sociale che agevola la sua penetrante iniziativa economica. «Si tratta di affari interni a quel Paese, la cui sovranità va sempre rispettata»: come no! Anche la Thailandia, fedele alleata degli Stati Uniti e retta da una giunta militare, ha parlato degli avvenimenti birmani come di «affari interni», al pari di Cambogia e Filippine – i cui regimi politici com’è noto non sono esattamente “democratici”.

Alcuni analisti pensano invece che i militari birmani hanno agito, magari solo in parte, dietro una precisa “sollecitazione” cinese. Comunque sia, a questo punto la sconfitta dei militari potrebbe rappresentare per Pechino un pericoloso precedente: la resistenza di Hong Kong è stata infatti piegata, ma non ancora spezzata, e sotto la cenere della repressione e dell’emergenza pandemica la brace continua a bruciare.

Per Giorgio Cuscito, «La Cina non gioisce per il colpo di Stato in Myanmar, ma i suoi interessi strategici la obbligano a preservare i rapporti con il governo instaurato dal Tatmadaw, le Forze armate birmane. Pechino ha tre obiettivi. Il primo è evitare che il golpe comprometta il completamento del Corridoio economico sino-birmano. Il progetto serve ad accedere all’Oceano Indiano senza passare per lo Stretto di Malacca, presidiato dagli Stati Uniti. Il secondo è preservare l’accesso alle cospicue risorse energetiche e minerarie del vicino meridionale. La Repubblica Popolare è il primo partner commerciale del Myanmar e la sua seconda fonte di investimenti esteri dopo Singapore. Infine, da tempo il governo cinese vuole servirsi dell’appoggio di Naypyidaw per accrescere il suo soft power nel Sud-Est asiatico. Allo stesso tempo la combinazione tra golpe, epidemia di coronavirus, rallentamento economico e proteste (come quelle scoppiate a Yangon) rende il contesto birmano incerto e scoraggia Pechino a schierarsi definitivamente. La Repubblica Popolare non rinnegherà esplicitamente il dialogo instaurato negli ultimi anni con Aung San Suu Kyi (leader di fatto del paese) e la Lega nazionale per la democrazia (Lnd) grazie agli investimenti e al sostegno sulla questione dei rohingya. Soprattutto, Pechino continuerà a interagire con i gruppi armati di etnia cinese del Nord del Myanmar per usarli come arma negoziale nei confronti del Tatmadaw» (Limes).

Come si sa, il Celeste Imperialismo è, sul piano politico-ideologico, molto “pragmatico” e “realista”, e alla fine esso sceglie sempre la carta che offre le più ampie garanzie ai suoi investimenti economici e geopolitici. Al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la Cina ha prontamente bloccato la risoluzione che condannava il colpo di Stato dell’Esercito birmano, ma questo non esclude affatto che Pechino stia lavorando nell’ombra per un compromesso accettabile dai militari golpisti e dal partito della “Lady”.

L’inno della rivolta birmana del 1988 suonava così: «Non saremo soddisfatti fino alla fine del mondo». L’inno degli anticapitalisti di tutto il mondo suona invece come segue: «Non saremo soddisfatti fino alla fine del capitalismo/imperialismo». Lo so, ci tocca essere insoddisfatti ancora per molto tempo…

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(1) Allora il colpo di Stato guidato dal generale Ne Win si spiegava soprattutto come un tentativo della fragile nazione birmana di non soccombere dinanzi alle rivolte dei vari gruppi etnici e di non lasciarsi fagocitare dal conflitto interimperialistico giocato nella regione del Sudest asiatico da Stati Uniti, Russia e Cina. Soprattutto quest’ultima incuteva molto timore nella classe dirigente birmana, sia perché la presenza cinese nell’economia (soprattutto in quella creditizia) del Paese cresceva di anno in anno, e anche perché Pechino ispirava l’azione di molti gruppi politici birmani, molti dei quali sostenevano la lotta armata delle etnie che rivendicavano l’indipendenza o quantomeno una maggiore autonomia. La «via birmana al socialismo» (sic!) si concretizzò in una nazionalizzazione di industrie, banche e attività commerciali che ebbe come immediato risultato la fuoriuscita dal Paese del capitale estero  e la morte del turismo (quasi tutti gli indiani e i cinesi presenti nel Paese fecero le valigie), cosa che precipitò la Birmania in una grave crisi economica di lunga durata. Quasi tutti i generi di prima necessità (riso, pesce, sale, olio da cucina, gamberi, latte, sapone, indumenti) vennero razionati. Il crollo dell’esportazione del riso ridusse drasticamente l’afflusso di divise estere nel Paese. La Birmania ricavava allora dal riso il 70% delle sue entrate in divise estere. Il primato dell’esportazione di riso che prima le apparteneva passò nelle mani della Thailandia. La crisi economica si fece sentire molto meno nelle zone rurali, le quali potevano contare su un’economia di sussistenza in grado di fornire cibo e indumenti in quantità sufficienti. Ne Win si giustificò dicendo che la priorità del Paese era quello di irrobustire la sua fibra morale corrosa dalla fascinazione del capitalismo occidentale, il quale prometteva ai Paesi del Sudest asiatico aiuti economici e militari solo per assoggettarli  economicamente e “spiritualmente”. I «diavoli della strada» (cioè i giovani) di Rangoon facevano il possibile per seguire la moda dei loro coetanei londinesi e italiani, e questo al generale sciovinista, che rimpiangeva i giorni della guerra («Allora eravamo tutti uniti, adesso ognuno fa per conto suo»), non andava affatto bene. Egli si diceva disposto a tutto, pur di conquistare e conservare uno straccio di indipendenza nazionale. La stessa logica infernale guiderà in Cambogia i Khmer rossi.

La Birmania diventa indipendente il 4 gennaio 1948. Nel 1885 i britannici avevano fatto di quel Paese una provincia dell’India. In seguito alla rivolta contadina del 1931, nel 1937 la Birmania venne separata dall’India e si vide riconosciuta dalla Gran Bretagna un’ampia autonomia politico-amministrativa.

(2) «Il presunto collegamento tra apertura politica ed economica non sembra più così chiaro. Invece, assistiamo a una transizione capitalistica lunga decenni, intrecciata con una varietà di forme politiche. Anche una breve occhiata ai vicini del Myanmar (Cina, Thailandia, Singapore) dimostra che il capitalismo difficilmente garantisce la democratizzazione. Qui spicca una certa configurazione del potere borghese. Sia in Myanmar che nella Grande Cina, ad esempio, un apparato statale centralizzato (i militari nel primo caso, una burocrazia del Partito-Stato nel secondo) ha navigato in una relazione tesa con frazioni borghesi separate dal regime, alcune delle quali sono politicamente liberali e più collegate a Capitale occidentale. Cosa significa rompere questo allineamento? In Myanmar, i militari non avranno più lo stesso accesso al capitale occidentale. Tuttavia, la lunga transizione capitalista del Myanmar è stata sempre alimentata molto di più dai capitali dell’Asia orientale e sud-orientale, che vanno dal suo tremolante settore dell’abbigliamento alle sue industrie agroalimentari in crescita e alle principali forme di estrazione di risorse (vale a dire petrolio e gas, in particolare le riserve di gas offshore della Thailandia, e i doppi oleodotti e gasdotti che scorrono verso lo Yunnan, Cina). L’agricoltura di semisussistenza continuerà a erodersi nelle vaste aree rurali del Myanmar e nelle zone montuose di confine man mano che il lavoro precario a basso salario si espande nei centri urbani» (Chuang). Qui per «transizione capitalistica» va inteso il passaggio da un’economia fortemente controllata dallo Stato (che chiamare “socialista” è a mio avviso semplicemente ridicolo, per non dire altro) a un’economia centrata sul capitale “privato”. Sulla natura sociale del capitale, statale o privato che sia, rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema.

 

 

 

 

 

 

IL MONDO “CAPOVOLTO” DEL WORLD ECONOMIC FORUM

È sufficiente leggere gli interventi dei protagonisti del World Economic Forum di quest’anno, per capire chi oggi sta vincendo la partita della competizione capitalistica/imperialistica mondiale. Sto forse alludendo alla Cina? Soprattutto al grande Paese asiatico, com’è ovvio di questi tempi; ma è tutta la regione dell’Asia-Pacifico che si conferma sempre più come l’area capitalisticamente più strutturata, forte e dinamica del mondo. Certo, anche quella più “resiliente” ai cigni neri (incluse le pandemie), tanto per civettare anch’io con il lessico modaiolo.

Mentre i leader occidentali ostentano pessimismo e perplessità sul futuro dell’attuale modello di Capitalismo (ovviamente non sul Capitalismo in quanto tale, come peculiare modo di produzione fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento storicamente determinati: questa è roba vecchia!), accusato di generare contraddizioni, conflitti (anche generazionali), disuguaglianze mai viste prime, ingiustizie sociali d’ogni tipo, degrado ambientale e quant’altro; mentre accade questo «solo Xi Jinping, il presidente cinese, resta ancorato alla globalizzazione di prima della pandemia, come se nulla fosse accaduto, forte dei successi economici che i brandelli del multilateralismo, ancora rimasti sul terreno dopo il tornado Trump, ancora gli concedono. Nessuna riflessione o aggiustamento da parte del leader cinese» (Businnessinsider.com). Qualche commentatore particolarmente spiritoso (e arguto) ha scritto che più che a Davos (ancorché virtuale, causa Coronavirus), per certi versi sembra di trovarsi al Forum sociale di Porto Alegre, tra i nemici dell’onnipotenza del potere del denaro e degli eccessi dell’ultra-liberalismo della scuola dei Chicago Boys. Perfino il Presidente francese Macron non ha voluto fare mancare la sua personale critica: «Il modello capitalista non può più funzionare»; ma ha subito aggiunto che in ogni caso «il capitalismo e l’economia di mercato non si possono certo liquidare in fretta»: e che premura c’è? Per Macron bisogna insomma emendare il «lato oscuro» del Capitalismo, non fare di esso una caricatura per buttare, come si dice, il bambino insieme all’acqua sporca. Personalmente non vedo che acqua sporchissima e un Moloch che si nutre della vita degli individui. Occorre, ha concluso il Presidente francese, «mettere al centro del problema la risposta alle problematiche del modello capitalista»: chissà che voleva dire.

Come sempre la Cancelliera Tedesca ha cercato di rassicurare sia Washington («Dobbiamo lavorare insieme ma con trasparenza»: vedi le responsabilità cinesi sulla genesi della pandemia) che Pechino («Chiudersi non serve, il multilateralismo è centrale. Non si deve guardare solo indietro, ma anche avanti»). Il senso di questo guardare avanti è probabilmente anche contenuto nell’accordo Cina-UE del 30 dicembre scorso. Ancora la Cancelliera (rivolta alla Cina): «Quando iniziano le interferenze? e quando finiscono se si sostengono valori fondamentali? Il presidente della Cina si è impegnato a rispettare la dichiarazione delle Nazioni Unite (sui diritti dell’uomo, ndr). Bisogna discutere questa questione, non importa da quale sistema sociale proveniamo» (Il Sole 24 Ore). Tranquilla, Angela: «proveniamo» dallo stesso sistema sociale, quello capitalistico – ovviamente.

Dopo aver esternato la sua – solita – apologia della globalizzazione capitalistica (che oggi vede appunto vincente la Cina), Xi Jinping ha voluto lanciare alla concorrenza (soprattutto agli Stati Uniti) un messaggio forte e chiaro: «Chi crea clan o inizia una nuova guerra fredda, chi rifiuta, minaccia o intimidisce gli altri, chi imporre l’allontanamento tra i popoli, o interrompe le catene di appalti con le sanzioni, al fine di indurre l’isolamento, sta solo spingendo il mondo alla divisione e persino allo scontro». La nuova Amministrazione statunitense è avvertita. Il punto più caldo della competizione capitalistica globale oggi si trova nell’area dell’Est-Pacifico, e non è un caso se le strategie militari della Cina e degli Stati Uniti sono sempre più focalizzate su quell’area.

Aveva detto Xi Jinping al Forum di Davos del 2017: «La Cina ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare»: la concorrenza, soprattutto quella che oggi boccheggia, se n’è accorta, eccome!

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Accade nella Cina capitalista. Il lavoro forzato non macchia, arricchisce; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Accade nella Cina capitalista. IL LAVORO FORZATO NON MACCHIA, ARRICCHISCE

«I consumatori dovrebbero chiedersi perché i nostri vestiti sono così economici. La risposta sta nello sfruttamento di intere fasce di persone della regione uigura, la cui manodopera è costretta a produrre cotone a basso costo» (Joanna Ewart-James, Direttore esecutivo di Freedom United). «La moda globale fa uso di cotone, filati e tessuti prodotti da lavoro forzato uiguro» (Forced Labour Fashion).

Il Domani pubblica oggi un articolo di Youssef Hassan Holgado dedicato alla pessima, a dir poco, condizione di vita e di lavoro che affligge gli uiguri che vivono nello Xinjiang, nel Nordovest della Cina: «Lavori forzati, sorveglianza strettissima, torture, la minoranza musulmana prova a liberarsi dall’oppressione di Pechino e sogna l’indipendenza. Ma ora anche la Turchia, che per anni li ha difesi e ospitati, non è più sicura. A fine dicembre la Cina ha ratificato l’accordo di estradizione con la Turchia siglato nel 2017, quando il primo ministro Erdogan era andato a Pechino per un incontro sulla nuova Via della Seta, l’ambizioso progetto di Xi Jinping che punta a migliorare i collegamenti commerciali con l’Africa e l’Europa. Una delle nuove rotte commerciali passa proprio per la Turchia, un regalo difficile da rifiutare per il governo di Erdogan. La paura è che siano i rapporti economici tra i due paesi a spostare l’ago della bilancia sul tema della repressione uigura. Fino a ora Ankara ha sempre cercato di ritardare la ratifica del trattato vista la forte opposizione all’interno del parlamento, ma la Cina sta spingendo affinché avvenga il prima possibile. Xi Jinping tiene sotto ricatto economico, e ora anche sanitario dato che la Turchia ha acquistato il vaccino cinese della SinoVac, il primo ministro Erdogan».

«Ankara non rimpatria direttamente gli uiguri in Cina, ma si libera di loro espellendoli in paesi terzi come il Tagikistan dove l’estradizione presenta meno difficoltà e dove non si ha alcuno scrupolo a rinviarli in Cina. In questo modo accontenta Pechino e fa apparire in patria tale pratica più accettabile dalla comunità musulmana turca» (Huffingtonpost). Quando si dice salvare le apparenze…

Com’è noto, il regime cinese costringe centinaia di migliaia di uiguri e altre minoranze (kazaki e musulmani turchi) a lavorare nei campi di cotone e nelle fabbriche tessili (dalla raccolta del cotone alla confezione dei capi finiti: un completo quanto infernale ciclo produttivo) in condizioni di totale schiavitù. Il Partito Capitalista Cinese ovviamente nega tutto, e parla di «scuole di formazione professionale», di «campi di rieducazione» (basata sul verbo di Mao secondo l’interpretazione di Xi Jinping) e di «riduzione della povertà». Chi ha letto 1984 di George Orwell, conosce i principi della neolingua, i quali trovano una loro puntuale e sistematica applicazione soprattutto (ma non solo) nei regimi totalitari.

«Secondo gli analisti dell’ASPI International Cyber Policy Centre, ben 80mila cittadini di etnia uigura negli ultimi tre anni sarebbero stati spostati e costretti a operare nelle linee di produzione di fabbriche sparse per tutta la nazione. Verrebbero inoltre sottoposti a “ricondizionamento” coatto, compiuto tramite controllo politico, sorveglianza digitale, rieducazione e, appunto, il lavoro» (DolceVita). Forse il lavoro non rende liberi, come promettevano i nazisti, ma probabilmente può “rieducare” le persone mettendole al servizio, ad esempio, del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

«Fino al 2019, 83 aziende straniere e cinesi avrebbero beneficiato direttamente o indirettamente dell’uso di lavoratori uiguri al di fuori dello Xinjiang attraverso programmi di trasferimento . Di queste, quasi un quarto è nel settore tessile. Nomi celebri e molto amati da sportivi e giovani: Abercrombie & Fitch, Adidas, Calvin Klein, Cerruti 1881, Fila, Gap, H&M, Jack & Jones, Lacoste, Nike, The North Face, Polo Ralph Lauren, Puma, Skechers, Tommy Hilfiger, Uniqlo, Victoria’s, Secret, Zara, Zegna».

Un mese fa Adrian Zenz, un membro anziano della Victims of Communism Memorial Foundation di Washington, ha lanciato dalla BBC un appello al mondo della moda: «Chiunque abbia a cuore le ragioni dell’etica deve guardare allo Xinjiang, che rappresenta l’85% del cotone cinese e il 20% di quello mondiale, e dire: no, non possiamo più farlo». Ma il Capitale, in Cina come nel resto di questo capitalistico mondo, ha a cuore solo le ragioni del profitto, e non potrebbe essere diversamente. Si calcola che «Un capo di abbigliamento su cinque, in tutto il mondo, è macchiato dal colore del lavoro forzato» (Collettiva.it). Si tratta del colore del Capitale nella sua espressione più brutale e disumana. In realtà il lavoro forzato non macchia nemmeno le coscienze dei buoni di spirito, mentre ovviamente arricchisce chi lo sfrutta – magari “a sua insaputa”…

«I lavoratori forzati nella regione uigura – aggiunge Scott Nova del Worker Rights Consortium – si trovano ad affrontare violente ritorsioni se dicono la verità sulla loro situazione». Sempre a calunniare il grande Partito Capitalista Cinese e uno straordinario Paese che si avvia a passo spedito (si parla del 2028) verso il primato capitalistico mondiale!

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SULL’ACCORDO CINA-UE DEL 30 DICEMBRE 2020

Qui di seguito cercherò di dare una mia prima valutazione sul significato del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) firmato il 30 dicembre scorso dalla Cina e dall’Unione Europea, e lo farò come sempre riportando le considerazioni di analisti e politici che mi sono sembrate più interessanti – non necessariamente più condivisibili, soprattutto sul piano dell’interpretazione politica di fondo, com’è ovvio.

Sul terreno propriamente economico, il Comprehensive Agreement on Investment appare come un netto successo per l’UE (e, sembra quasi inutile precisarlo, soprattutto per la Germania), la quale strappa a Pechino una serie di importanti concessioni, come l’accesso agli investitori europei di diversi settori dell’industria, dei servizi e della finanza cinesi, compresi alcuni di quelli considerati strategicamente “delicati”, come le telecomunicazioni. Scrive Alessia Amighini: «Le aziende europee avranno ora un migliore accesso ai settori manifatturiero, ingegneristico, bancario, contabile, immobiliare, delle telecomunicazioni e della consulenza. I negoziatori della Commissione sono riusciti a inserire una clausola secondo la quale i loro investimenti non devono essere “trattati in modo meno favorevole” rispetto ai concorrenti nazionali. I funzionari dell’UE hanno anche convenuto che la Cina deve essere più trasparente riguardo ai sussidi statali. In cambio di un migliore accesso al mercato europeo ancor più grande di quello che ha oggi, Pechino sarà obbligata a pubblicare ogni anno una lista di sussidi forniti ai settori designati» (ISPI). Inutile dire che su quest’obbligo molti analisti nutrono forti dubbi. «Sul lavoro forzato, una questione che aveva minacciato i negoziati, l’UE ha dichiarato: “La Cina si è impegnata ad attuare efficacemente le convenzioni dell’ILO che ha ratificato, e ad adoperarsi per la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’ILO, comprese sul lavoro forzato“» (South China Morning Post, Hong Kong). Anche su questo “impegno” è lecito nutrire qualche dubbio, diciamo così. Infatti, è dal 2001, anno di ingresso della Cina nel WTO, che Pechino fa “melina” sui suoi impegni riguardanti il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, oggi parlamentare europeo, ha dichiarato: «Le storie che escono dallo Xinjiang sono puro orrore. In queste circostanze, qualsiasi firma cinese sui diritti umani non vale la carta su cui è scritta». Sull’orrore che caratterizza la situazione nello Xinjiang, siamo d’accordo (esclusi ovviamente i miserabili sostenitori del capitalismo con caratteristiche cinesi, soprattutto quelli che si definiscono “comunisti”); sui «cosiddetti diritti umani» (Marx) usati dagli Stati come arma di lotta sistemica (economica, ideologica, geopolitica), personalmente stendo un velo pietosissimo, e il richiamo ai “diritti” mi serve solo per ribadire, per quel che vale, la mia radicale ostilità all’Imperialismo Unitario (ma non unico, tutt’altro!) colto nella sua compatta e disumana totalità (1).

L’accordo del 30 dicembre per un verso si limita a prendere atto di un fatto: oggi l’interscambio commerciale tra l’Unione Europea e la Cina è più intenso di quello che stringe gli europei agli Stati Uniti: secondo l’Eurostat il sorpasso della Cina sugli Usa come principale partner commerciale dell’UE si è consumato a luglio 2020; nei primi dieci mesi del 2020 il volume degli scambi tra UE e Cina si è assestato a 477 miliardi di euro (582,8 miliardi di dollari USA), il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. «Al contrario, il commercio di merci con gli Stati Uniti nel periodo gennaio-ottobre è sceso a 460,7 miliardi di euro, in calo dell’11,2% su base annua. A ottobre, l’Unione Europea ha esportato beni per 178,9 miliardi di euro, in calo del 10,3% su base annua, e ha importato 150,8 miliardi di euro, con una diminuzione del 14,3% rispetto al mese di ottobre del 2019» (Il Sole 24 Ore). Il trend di crescita nell’interscambio commerciale UE-Cina ha subito una netta accelerazione nel 2009, nel momento in cui gli Stati Uniti facevano ancora fatica a trovare un sentiero di crescita dopo la nota crisi.

Par altro verso il CAI pone le premesse per una serie di sviluppi a medio/lungo termine che superano di molto la semplice dimensione economica, andando a investire direttamente i rapporti e gli equilibri geopolitici tra le grandi potenze capitalistiche del mondo. Ed è proprio su questo terreno, tutt’altro che limpido e di facile lettura, che si è focalizzato l’interesse di politici e di analisti geopolitici.

Francia e Germania sembrano aver rilanciato insieme il tradizionale asse strategico Parigi-Berlino che detta l’agenda agli altri Paesi dell’Unione, ma la realtà è che ancora una volta è Berlino che guida le danze, mentre Parigi deve fare buon viso a cattivo gioco per rimanere sulla scia della potenza europea egemone, tanto più che adesso non può più giocare di sponda come prima con la riottosa Gran Bretagna. Controllare la potenza sistemica tedesca per la Francia diventa più difficile che nel passato, e per mascherare la propria debolezza nei confronti della Cancelliera tedesca Macron ha fatto di tutto per strappare a Berlino e a Bruxelles la sua presenza alla videoconferenza del 30 dicembre, cosa che ha fatto irritare soprattutto l’Italia, sempre più fragile e isolata nel contesto europeo e internazionale. Il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto, notoriamente molto legato a Washington, ha espresso le “perplessità” con cui il governo italiano ha seguito le fasi conclusive dell’accordo: «Devo esprimere la mia più grande sorpresa per il formato. Era ovvio che ci fossero Von der Leyen e Michel e per le istituzioni Ue e Merkel come presidente di turno. Ma avere Macron, la scelta di un solo Paese sugli altri 26, non credo si giustifichi. È un formato irrituale che segna anche una sconfitta per noi italiani. E ci dice che quello sciagurato accordo sulla Via della Seta che il precedente governo ha concluso nel 2019 è stato un fallimento completo. Non solo non ci ha aiutato nel rapporto commerciale e ci ha fatto pagare un prezzo politico: non ci ha dato neanche la credibilità per essere leader in questa negoziazione. Fu una mossa sbagliata, che non vincolava i cinesi a nessun obbligo commerciale, ma dava loro un enorme dividendo politico. Tutto questo rivela la nostra debolezza» (Il Corriere della Sera). Una debolezza che l’Italia di oggi esibisce anche nel suo storico cortile di casa, e basta pensare a cosa accade in Libia per averne un immediato riscontro. Per il “nostro” Paese non sarà facile conservare (o riconquistare?) lo status di media potenza regionale.

L’italica irritazione nei confronti della Germania si esprime senza infingimenti “europeisti” soprattutto a “destra”; scrive ad esempio Gianni Micalessin «L’obbiettivo politico ed economico della Cancelliera è emerso in tutta la sua spregiudicata evidenza il 30 dicembre quando, nel penultimo giorno di Presidenza tedesca dell’Unione, è arrivato l’annuncio dell’intesa con Pechino sul trattato per gli investimenti. Il trattato, messo a punto dopo sette anni di negoziati, dovrebbe in teoria garantire ad Europa e Cina un terreno comune per i reciproci affari. In verità rappresenta un meschino e stupido apparentamento con una potenza comunista pronta a farsi beffe dei diritti umani e a venderci merci prodotte grazie al lavoro a costo zero di centinaia di migliaia di musulmani uiguri deportati nei lager e utilizzati alla stregua di schiavi. Dietro l’intesa sugli investimenti ci sono i calcoli di una Cancelliera convinta che il futuro dell’economia tedesca sia strettamente e inevitabilmente legato a Pechino. Dal suo punto di vista non ha torto. L’Europa piegata, ancor prima che dal Covid, dal surplus commerciale teutonico ben difficilmente potrà assorbire ulteriori crescite produttive di Berlino. E ben difficilmente accetterà di farlo un’America decisa, fin dai tempi di Obama, a contrastare la rapacità di una Germania sorda ad ogni richiesta di riequilibrio commerciale». (G. Micalessin, Il Giornale).

Per Carlo Pelanda, docente di Geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi ed esperto di Studi strategici, «al momento, l’accordo è una finzione che evita una restrizione all’export tedesco in Cina da cui dipende una parte rilevante del Pil della Germania (e dell’Italia che fornisce componenti all’industria tedesca). Ma anche una finzione utile a negoziare con gli Stati Uniti. In sintesi, il problema dell’Ue è non riuscire ancora a formulare una strategia di collocamento dell’Ue stessa entro il conflitto tra Cina e America. Merkel lo ha risolto provvisoriamente con una tattica di finzione e rinvio, nonché cerchiobottismo, facendo comunicare al proxy Valdis Dombrovskis che l’accordo con la Cina non impedisce un trattato euroamericano. Ma evidentemente la formulazione di una strategia di collocamento internazionale stabile dell’Ue non è più rinviabile» (La Verità). Non dimentichiamo che appena un anno fa Bruxelles ha definito la Cina «rivale sistemico», offrendo agli Stati Uniti la sponda europea nel suo sforzo di contenimento della Cina.

Interessante questa riflessione “analogica” di carattere storico sempre di Pelanda: «Un fatto curioso mostra la difficoltà di Berlino. Merkel ha usato la tattica cinese, codificata da Sun Tsu (L’arte della guerra) nel 500 avanti Cristo, di usare l’estensione del tempo e la finzione per risolvere un problema contingente, mentre Xi ha adottato lo schema (1831) del prussiano Carl von Clausewitz con enfasi sulla massima rapidità – compressione del tempo, blitz – per raggiungere un obiettivo». Come si spiega, secondo Pelanda, la tattica adottata dal Presidente cinese? «Anche Xi è in difficoltà. Deve contrastare l’isolamento della Cina e, soprattutto, un accordo economico forte euroamericano che creerebbe il nucleo imbattibile di un impero e mercato delle democrazie molto più grande e potente del suo. Ha usato una megacarota, ma anche un megabastone: il ricatto di restringere l’export tedesco se l’accordo non fosse stato firmato entro fine 2020 perché voleva chiuderlo prima che Joe Biden entrasse nei pieni poteri (il 20 gennaio). I collaboratori di Biden, infatti, agli inizi di dicembre hanno dato forti segnali di irritazione nei confronti dell’Ue». E difatti il Financial Times riportava pochi giorni prima dell’accordo una dichiarazione rilasciata da un membro dello “staff di transizione” statunitense, secondo cui «l’amministrazione Biden-Harris ha intenzione di consultarsi con la UE in un approccio coordinato sulle pratiche economiche corrette e altre importanti sfide». La Merkel ha voluto bruciare i tempi e mettere la nuova Amministrazione americana di fronte a un fatto compiuto, un fatto che in ogni caso non preclude nulla e che si segnale piuttosto per la sua molteplicità di interessi e di significati, non necessariamente univoci e coerenti tra loro, tutt’altro.

Per Pelanda, che giudica il CAI «un accordo che apparentemente offre un grande successo al Partito comunista cinese e al suo regime autoritario, aggressivo, repressivo, schiavista e bugiardo», la giusta strategia per l’UE deve necessariamente parlare il linguaggio della forza, il solo che capiscono i “comunisti”: «Stringere con l’America un accordo economico fortissimo, ravvivando quello militare».

Anche per Federico Rampini l’accordo di dicembre segna un punto a favore della Cina: «Nell’applicazione concreta Xi potrà continuare a privilegiare il suo “capitalismo politico”, i campioni nazionali dell’industria di Stato, e a discriminare contro gli imprenditori europei. Le promesse più vaghe sono quelle che riguardano ambiente, diritti umani, trattamento dei lavoratori. Biden può ancora sperare di far deragliare questo accordo nella fase di ratifica all’Europarlamento, dove le obiezioni americane troveranno consensi. Ma non si fa illusioni. Il presidente eletto ha troppa esperienza di politica estera per non capire il segnale che arriva da Bruxelles. L’Ue lo accoglierà a braccia aperte, felice di chiudere il capitolo Trump. Ma un conto saranno le buone maniere, altro è la sostanza» (La Repubblica). E la sostanza è fatta, oggi come ieri e come sempre in regime capitalistico, dagli interessi sistemici e dai rapporti di forza, nient’altro che da questo. Tutto il resto è fumisteria propagandistica venduta ai politici e agli intellettuali di serie B, nonché, soprattutto, all’opinione pubblica interna e internazionale.

«Nella nuova guerra fredda Usa-Cina», continua Rampini, «gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa». Sulla sostanziale continuità della politica estera americana attraverso l’alternarsi delle Amministrazioni presidenziali non è possibile nutrire alcun serio dubbio, anche se sarebbe sbagliato, a mio avviso, pensare al sistema sociale capitalistico americano nei termini di un blocco unico privo di contraddizioni interne, con quel che ne segue anche sul terreno della “dialettica politica” nazionale (2). Mutatis mutandis, e non è davvero poco, analogo discorso vale anche per il sistema sociale capitalistico cinese.

La Commissione europea ha cercato, prima e dopo l’accordo con la Cina, di rassicurare gli “alleati” americani circa l’impegno dell’UE nella comune politica di contenimento del “nemico strategico”: «L’accordo non influirà sull’impegno del blocco per la cooperazione transatlantica, che sarà essenziale per affrontare una serie di sfide create dalla Cina». Ma non saranno certo le dichiarazioni diplomatiche che potranno convincere Washington, e probabilmente non passerà molto tempo per assistere alla contromossa americana. Comunque l’accordo non entrerà in vigore immediatamente, ma dovrà attendere il superamento di non pochi e complessi passaggi politici e tecnici, e questo darà agli europei (soprattutto ai tedeschi) il tempo di aggiustare la loro linea di condotta nei confronti della Cina e degli Stati Uniti. La ratifica da parte del Parlamento Europeo è infatti prevista per il 2022/2023.

Danilo Taino teme una pericolosa “deriva bipolarista”: «Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali, o tra blocchi (la sola Ue ne ha firmati 72). Così, il commercio non è più un veicolo per la collaborazione tra Paesi ma diventa sempre più spesso strumento di alleanze, di divisioni e in certi casi viene “militarizzato” a scopi geopolitici. Se affrontato in una dimensione bilaterale, il rapporto con Pechino è destinato a favorire la divisione del mondo in rapporti preferenziali, nel tempo fondamento di conflitti. Solo in una dimensione multilaterale la relazione con la Cina può avere un carattere proficuo. L’accordo Ue-Cina non va in questa direzione» (Il Corriere della Sera). Che il commercio internazionale sia «un veicolo per la collaborazione tra Paesi» può crederlo solo un bambino o un ingenuo “idealista” di stampo liberale-liberista.

A proposito di ideologia liberale-liberista, vale la pena riportare il pensiero del Caro e Celeste Leader: «Il presidente cinese ha sottolineato che l’accordo avrà una grande forza trainante per la ripresa economica post-pandemica, promuovendo la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti globali, intensificando la fiducia della comunità internazionale verso la globalizzazione economica e il libero commercio e dando importanti contributi cinesi ed europei alla costruzione di un’economia mondiale più aperta» (Formiche.net). Non sono commoventi queste parole? Per il resto, qui è solo il caso di ricordare che la politica della porta (leggi mercato mondiale) aperta è storicamente la politica seguita dalle potenze in ascesa che sanno di poter rivaleggiare con successo con le potenze concorrenti più o meno declinanti. Non dimentichiamo che la firma del Comprehensive Agreement on Investment segue quella che ha suggellato un altro importante accordo commerciale, il Regional Comprehensive Economic Partnership, sottoscritto tra i paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In ogni caso, ancora nel 2021 non bisogna dare come definitivo il declino assoluto della potenza statunitense, la quale possiede tutti i mezzi (compreso ovviamente quello militare) per frenare quantomeno la tendenza a essa sfavorevole.

La crisi pandemica ha proiettato la Cina ancora più in alto nella gerarchia imperialista del pianeta, essendo stato il suo sistema sociale, capitalistico al 100 per 100 (3), quello che è riuscito a subire meno danni rispetto agli altri Paesi concorrenti (Stati Uniti, in primis) e ad avvantaggiarsi di più delle altrui disgrazie. Come in ogni guerra, c’è chi vince e c’è chi perde – e poi ci sono quelli che, pur perdenti, recitano la parte dei vincenti: ogni riferimento alla Francia e all’Inghilterra del 1945 è puramente voluto.

Scrive il “marxista” David Harvey: «L’altro lato che è importante da un punto di vista anticapitalista, è che la Cina è ancora impegnata nella sua posizione marxista. È ancora governata da un partito comunista, e se molti diranno che il Partito Comunista è in realtà un partito di classe capitalista, è comunque un partito nominalmente comunista in cui i pensieri di Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, e ora Xi Jinping, sono considerati come centrali per le loro ambizioni. L’ultimo congresso del partito ha dichiarato che prevede di diventare un’economia pienamente socialista entro il 2050» (L’importanza della Cina nell’economia mondiale, Antiper). Se è per questo, io dichiaro di diventare bellissimo e intelligentissimo entro il 2030, salvo incidenti di percorso sempre possibili nelle ambiziose “fasi di transizione”. Beninteso, si tratta di una mera previsione… «Il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (K. Marx). Certi “marxisti” amano attenersi feticisticamente alla «natura del tutto esteriore» delle cose: contenti loro!

Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, Xi Jinping: che bell’ammucchiata! «Io non sono un marxista!», disse una volta il comunista di Treviri: che saggezza! che lungimiranza!

A proposito: che fine ha fatto Jack Ma?

(1) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporto con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.
(2) L’imperialismo americano tra realtà e “narrazione”; Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”.
(3) Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

 

 

 

 

 

 

 

CHUANG E IL «REGIME DI SVILUPPO SOCIALISTA» NELLA CINA DI MAO

La “Questione Cinese” come momento centrale
nella riflessione anticapitalistica del XXI secolo

 

Prima di entrare nel merito della questione che intendo affrontare, credo che sia opportuno premettere quanto segue. Considero molto interessante il lavoro politico e analitico portato avanti dal Collettivo Chuang per almeno due motivi. In primo luogo perché tale Collettivo (che spesso chiamerò semplicemente Chuang) non sostiene in alcun modo, e anzi combatte, il Capitalismo/Imperialismo cinese, non aderendo esso alla miserrima tesi del “socialismo con caratteristiche cinesi” [1]. «La nazione che illustriamo è la Cina che vediamo oggi, una Cina che tiene insieme l’economia globale alle sue radici in disgregazione. Una Cina che, speriamo, sarà finalmente distrutta da più milioni di cinesi, insieme a miliardi di altri che distruggeranno le loro nazioni e, con esse, questa mostruosa economia che lega tutti a tutti e tutti a nessuno». Anch’io, nel mio infinitamente piccolo, mi sento parte di questo straordinario e umanissimo progetto rivoluzionario che riguarda le classi subalterne di tutto il mondo, oggi sottomesse (materialmente, ideologicamente, politicamente e psicologicamente)  allo stesso dominio sociale: quello capitalistico. Mai come oggi, il grido di guerra Proletari di tutto il mondo, unitevi! ha avuto un significato così vero e così importante per il futuro dell’intera umanità.

In secondo luogo, ritengo che gli scritti di Chuang offrano agli anticapitalisti che operano in Occidente un prezioso contributo di analisi sulla società cinese, potendo i suoi esponenti accedere a un vasto materiale documentario redatto anche in lingua cinese. La conoscenza della difficile – e graficamente assai bella – lingua cinese consente di attingere anche alla cosiddetta microstoria, ossia alla storia che dà conto della vita quotidiana delle masse: del loro lavoro, delle lolle loro relazioni, dei loro conflitti interni e con il potere, della loro cultura, ideologia, psicologia, eccetera. Particolarmente interessanti trovo, ad esempio, le analisi di Chuang che hanno per oggetto la differenza tra proletariato urbano e lavoratori rurali nella Cina del XXI secolo.

Non c’è dubbio che quello cinese sia oggi, nel contesto dei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, lo Stato di gran lunga più autoritario, diciamo pure totalitario, visto anche il ruolo esclusivo che nella Cina ha sempre avuto il Partito-Regime; questo ovviamente non induce gli autentici anticapitalisti a pensare per un solo istante di poter accordare il loro sostegno “tattico” agli Stati meno totalitari sul terreno della “democrazia” e dei “diritti umani”. Personalmente ho mantenuto questa posizione anche nei confronti della crisi che da anni travaglia Hong Kong. Ciò che per me fa premio su tutto è la natura totalitaria del rapporto sociale capitalistico di sfruttamento (dell’uomo e della natura) che oggi domina l’intero pianeta.

La puntuale e approfondita conoscenza di quanto accade nel Paese che è diventato uno dei pilastri centrali del dominio capitalistico mondiale, con ciò che ne segue – o ne dovrebbe auspicabilmente seguire – anche sul terreno della lotta di classe internazionale, consente all’anticapitalista occidentale di condurre una guerra efficace contro i sostenitori del Partito-Regime cosiddetto comunista attivi da questa parte del mondo. «Chuang è un collettivo di comunisti che ritengono che la “questione cinese” sia di importanza centrale nelle contraddizioni del sistema economico globale e nelle potenzialità per un suo superamento. […] Per i proletari al di fuori della Cina, vorremmo sottolineare che, nel XXI secolo, siamo tutti più o meno connessi alla Cina. Soprattutto per quanto riguarda le prospettive di una rivoluzione comunista, i proletari cinesi saranno centrali in un modo o nell’altro a causa del ruolo della Cina e dei lavoratori cinesi nell’economia globale, per non parlare della semplice magnitudine della popolazione cinese» [2]. Non c’è dubbio. È appunto perché considero la “questione cinese” un momento centrale nell’iniziativa anticapitalistica internazionale che da sempre dedico molta attenzione a quanto avviene nella società cinese a tutti i livelli della prassi sociale: dai conflitti sociali alle tensioni etniche, dalla crisi ambientale (inquinamento, distruzione degli ecosistemi, ecc.) alle politiche di repressione e controllo, per non parlare dell’attivismo (economico, militare, politico, ideologico) del Celeste Imperialismo.

Diversi tifosi italiani del «socialismo con caratteristiche cinesi» hanno polemizzato con questa mia insistenza, la quale a loro dire farebbe il gioco dell’imperialismo occidentale (anche nelle loro risibili accuse i nipotini di Stalin e di Mao peccano di originalità); qualcuno è perfino arrivato ad accusarmi di disprezzare il «popolo cinese», sorvolando sulla stratificazione classista della società cinese, e sulla natura capitalista/imperialista di essa – nonché della sua “sovrastruttura” politico-istituzionale. Un dettaglio! Peraltro, e detto en passant, ho avuto sempre in massima considerazione la millenaria storia del grande Paese asiatico – grande anche in termini di civiltà, nell’accezione più alta e meno banale del termine.

Anche questo aspetto politico-ideologico (una società ultracapitalista definita, da amici e nemici, “Comunista”, o quantomeno “Socialista”) conferisce alla “Questione Cinese” una particolare centralità: demistificare il falso socialismo/comunismo è purtroppo un rognosissimo compito che l’anticapitalista di questa epoca non può non assumersi, se intende portare acqua al mulino della possibilità rivoluzionaria: la Comunità umana è davvero possibile, oltre che auspicabile, oggi ancora più che nel passato, nonostante tutto sembra negarlo nel modo più radicale, violento e doloroso. Nella misura in cui i lavori di Chuang offrono materiale prezioso a chi intende dimostrare la natura pienamente Capitalista/Imperialista della Cina (sia nel suo fondamento “strutturale”, sia nella sua architettura politico-istituzionale), tale lavoro va nella direzione che possiamo caratterizzare con il seguente slogan: ripristinare il futuro, accreditare cioè l’idea che il Capitalismo non è, nel modo più assoluto, il solo mondo concretamente possibile – al punto che oggi la fine del mondo, magari per via epidemica, appare agli occhi della gente più credibile della fine del Capitalismo per via rivoluzionaria.

È insomma da questa prospettiva tutt’altro che preconcetta e ostile nei confronti dei compagni di Chuang che mi accingo a mettere in chiaro ciò che non condivido della posizione da essi sostenuta circa quello che chiamano «periodo socialista» dello sviluppo economico-sociale della Cina. Per quanto mi riguarda, non si tratta affatto, come temono questi compagni, di «resuscitare antiche faide intestine alla sinistra», della quale peraltro chi scrive non ha mai fatto parte (se si allude alla “sinistra” che in qualche modo ha avuto a che fare con lo stalinismo, con il maoismo e con le altre correnti politico-ideologiche imparentate con il cosiddetto “Comunismo Novecentesco” e con il “socialismo reale”); si tratta piuttosto di capire cosa intendiamo oggi per “socialismo”, “comunismo”, “progetto comunista” e così via. Polemizzare con il passato ovviamente non ha alcun senso, ma capire una posizione politica attuale anche attraverso il giudizio che essa dà della storia passata, non credo  equivalga a «proporre un gioco di replay storico»: tutt’altro. In ogni caso, mi limito a criticare delle posizioni espresse da Chuang nell’ambito della sua ricostruzione della storia della Cina moderna, tutto qui. Possiamo anche considerare la critica che mi accingo a svolgere come il mio personale contributo a quella ricostruzione.

Per il resto, le analisi e le riflessioni di Chuang sulla Cina e sul mondo mi trovano in larga parte consenziente.

Ho letto Sorghum and Steel: The Socialist Developmental Regime and the Forging of China, Red Dust: The Transition to Capitalism in China, più altri scritti brevi; quasi tutte le citazioni di Chuang che compaiono in questo scritto sono tratte da Sorghum and Steel. Mi scuso in anticipo, soprattutto con gli autori, se la mia traduzione fosse, soprattutto per quanto riguarda la sostanza, eccessivamente difettosa. Spero che la lettera non tradisca troppo lo spirito. Leggendo gli scritti di Chuang ho preso degli appunti, che adesso “socializzo” tali e quali per economia di pensiero e per esigenze di sintesi. Mi auguro che la ripetizione di formule e di concetti non disturbi oltremodo i lettori. Per una più approfondita conoscenza del mio punto di vista sulla Cina rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema [3].

Se ho capito bene, la tesi fondamentale che sta al centro della riflessione del Collettivo Chuang sulla Rivoluzione cinese è che a un certo punto della tentata transizione della Cina al socialismo, la polvere rossa della produzione capitalistica globale avrebbe soffocato quella straordinaria esperienza, lasciando in campo solo la tendenza capitalistica. Chuang parla, infatti, di «fallimento del regime di sviluppo socialista»; di «fallimento del progetto comunista in Cina». Un fallimento che avrebbe appunto reso possibile «l’integrazione globale della Cina al commercio mondiale e la sua transizione al capitalismo negli anni ‘70». Quando si sarebbe manifestato in tutta la sua drammatica e dirompente ampiezza questo fallimento? «Il regime evolutivo socialista» sarebbe entrato in crisi alla fine degli anni Sessanta: «L’anno 1969 ha segnato lo sfaldamento del socialismo in Cina».

Scrive Chuang: «Ciò significava che il periodo di sviluppo socialista in Cina vide alla fine soppiantare lo stesso progetto comunista, poiché sempre di più veniva sacrificato alla linea di fondo della costruzione di un’economia nazionale. Questo è stato il fallimento strutturale dall’epoca. La mitologia del movimento operaio ha contribuito a rendere possibile questo errore, poiché tendeva a fondere in modo teleologico l’espansione della produzione e dell’occupazione industriale con il progresso storico della società verso il comunismo. Ma di gran lunga più importante era la condizione assediata e isolata in cui si svolgeva questo esperimento. A partire da una povertà così estrema, è difficile criticare i primi comunisti per aver enfatizzato lo sviluppo». A mio avviso ciò che fallì, e comunque occorre precisare i contorni di questo fallimento, non fu il tentativo di costruire il socialismo in un solo Paese (la Cina), ma piuttosto l’ipotesi di uno sviluppo autarchico del capitalismo cinese, ipotesi che prese corpo non sulla base di una precisa scelta ideologica, sebbene sarà presentata dal Partito-Stato proprio in questi termini (prassi del resto tipica nello stalinismo e nel maoismo), ma a causa di fattori interni e internazionali che lo stesso Chuang ha ben individuato. In poche parole, il fallimento del «periodo socialista» dello sviluppo economico cinese appare tale solo dalla prospettiva di chi concede credito alla natura socialista della Rivoluzione cinese, del Partito che la diresse e, più in generale, del mondo del cosiddetto “socialismo realismo”. Dal mio punto di vista l’esperienza del periodo maoista (individuo un nome solo per economia di pensiero) appare invece complessivamente vincente sul piano storico, perché essa riuscì, pur con molti limiti e contraddizioni, a portare il Paese sostanzialmente unito alle soglie del suo definitivo decollo capitalistico: come ho scritto altrove, si tratta di un successo interamente conseguito sul terreno capitalistico, il solo praticato dal PCC e dalla Rivoluzione cinese. Il «progetto socialista cinese» non è fallito semplicemente perché esso non è mai esistito – se non nella versione ideologica del PCC, il quale di Comunista aveva solo il nome.

Io ho sempre rigettato la tesi del fallimento in Cina della transizione dal capitalismo (o dal precapitalismo o come altro vogliamo chiamarlo) al socialismo, semplicemente perché a mio avviso all’ordine del giorno nella Cina moderna c’è sempre stato il problema della transizione al capitalismo, dello sviluppo economico-sociale cinese fondato sui rapporti sociali di produzione capitalistici, mentre tutti i discorsi intorno alla possibilità del socialismo nel grande Paese asiatico nascevano sul terreno dell’ideologia stalinista tradotta nella lingua di Mao Tse-tung. Mascherare i reali antagonismi di classe con fumose fraseologie e risibili giochi di parole: fu questo il significato politico-ideologico più importante del maoismo, espressione di un populismo “con caratteristiche cinesi” (vedi teoria delle quattro classi [4]) che amava presentarsi in (goffi) abiti “marxisti”.

A differenza di quanto avvenne in Russia, dove una rivoluzione proletaria venne effettivamente portata a termine, pur tra mille contraddizioni e limiti, e in stretta connessione con il movimento operaio internazionale, e dove si verificò una devastante controrivoluzione (quella passata alla storia con il nome di Stalin), in Cina non si verificò nulla di tutto questo, e quindi nel contesto della sua storia recente (dal 1949 in poi) il concetto di controrivoluzione è del tutto fuori luogo. Quel concetto, nel contesto cinese, non spiega nulla che possa avere un legame con il reale processo sociale.

Quello che Chuang definisce «regime di sviluppo socialista» io lo considero come un momento interno al processo di sviluppo del capitalismo cinese, un momento particolarmente complesso e contraddittorio dell’accumulazione capitalistica originaria. Le cause della complessa contraddittorietà che ha caratterizzato la prima fase della “modernizzazione” capitalistica della Cina vanno ricercate nella struttura economico-sociale del Paese e nella sua collocazione internazionale, come del resto i compagni di Chuang hanno ben dimostrato con i loro approfonditi studi.

«Il regime di sviluppo socialista» non è stato «smantellato e incorporato nell’economia capitalista» semplicemente perché tale regime in Cina (e altrove nel mondo) non si è mai realizzato, nemmeno in una forma semplicemente abbozzata. Ciò che Chuang concettualizza come «smantellamento» di un progetto socialista, io lo interpreto appunto come uno sviluppo e un’accelerazione interni al reale processo di accumulazione capitalistica dopo la proclamazione della Repubblica Popolare. È evidente che il concetto di “socialismo” che ho in testa io è diverso da quello che hanno in testa i compagni del Collettivo Chuang.

Ad esempio, e sempre se ho ben compreso, Chuang interpreta lo stalinismo come un fenomeno di ossificazione e di sclerosi burocratica interna alla transizione “socialista” dell’Unione Sovietica; per me si deve invece parlare di una vera e propria controrivoluzione capitalistica, la quale distrusse completamente, alle radici, il potere rivoluzionario che aveva trovato nei Soviet e nel Partito di Lenin la sua più verace espressione. Per questo non condivido la tesi trotskista della «degenerazione burocratica» del Partito bolscevico e del regime sovietico che avrebbe comunque lasciato sostanzialmente in vita le conquiste sociali dell’Ottobre rivoluzionario. Affronto la questione della burocrazia (e oggi della tecnocrazia) come – supposta – nuova classe dominante in uno scritto intitolato Dialettica del dominio capitalistico.

Controrivoluzionario sul terreno della rivoluzione sociale anticapitalista, e rivoluzionario sul terreno dello sviluppo capitalistico: è questa, a mio avviso, la natura storicamente “dialettica” dello stalinismo, la quale ha conferito a questo fenomeno, tutt’altro che riducibile alla personalità di un singolo individuo (Joseph Stalin), un carattere particolarmente difficile da comprendere per chi non ha compreso l’essenza del Capitalismo e, quindi, dell’anticapitalismo. In ogni caso il comunismo occidentale antistalinista non ha dovuto aspettare decenni per denunciare il carattere controrivoluzionario dello stalinismo, visto che vi si oppose appena esso si manifestò come il pieno dispiegarsi di una crisi che era iniziata ben prima, già alla fine del cosiddetto Comunismo di guerra, quando apparve drammaticamente chiaro che il proletariato più avanzato d’Europa (quello tedesco, in primis) non sarebbe andato tanto presto, come la situazione imponeva, in soccorso dell’eroico ma assai traballante potere sovietico. Come scrivo in uno studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) [5], l’isolamento del Paese dei Soviet lasciò che le onde generate dallo scatenarsi delle forze sociali capitalistiche si abbattessero in modo distruttivo sul piccolo scoglio proletario – già sfiancato dalla guerra imperialista e dalla guerra civile.

«Al tempo dell’invasione giapponese, il Guomindang (GMD) trovò la sua principale opposizione sotto forma di un esercito contadino mobilitato da un reinventato Partito Comunista Cinese (PCC). Ma lo stesso PCC aveva iniziato decenni prima, nato dallo stesso tumultuoso ambiente intellettuale del Guomindang, entrambi nati sul fondamento di interessi prevalentemente urbani. Il congresso di fondazione del PCC del 1921 doveva originariamente tenersi a Shanghai. Interrotta dalla polizia, la riunione fu spostata a nord, a Jiaxing, dove dodici delegati hanno fondato il PCC come ramo dell’Internazionale comunista. Con la crescita di questo primo PCC, rimase in auge un progetto prevalentemente urbano, gestito da intellettuali e lavoratori industriali qualificati. Sei anni dopo la sua fondazione, fu di nuovo a Shanghai che questa prima incarnazione del PCC giunse alla sua fine violenta. In un’alleanza sostenuta dalla Russia con il GMD, i rivoluzionari hanno preso il controllo della maggior parte delle città chiave della Cina in una serie di insurrezioni con personale operaio. Dopo che la vittoria fu assicurata con il successo dell’insurrezione di Shanghai del 1927, il GMD si rivoltò contro i comunisti, arrestando un migliaio di membri del PCC e leader dei sindacati locali, uccidendone ufficialmente circa trecento e facendone sparire altre migliaia. Il “massacro di Shanghai” ha avviato la distruzione a livello nazionale del movimento comunista urbano. Le rivolte a Guangzhou, Changsha e Nanchang furono represse. Nello spazio di venti giorni, più di diecimila comunisti nelle province meridionali della Cina sono stati arrestati e giustiziati sommariamente. Nel complesso, nell’anno successivo all’aprile 1927, si stima che ben trecentomila persone morirono nella campagna di sterminio anticomunista del GMD. Gli unici frammenti sopravvissuti del PCC erano le sue basi rurali tra i contadini. Alla conclusione della Lunga Marcia, sette anni dopo, il Partito si era ricomposto reclutando contadini, espropriando terre e concentrando la sua agitazione sulle tensioni di lunga data nelle campagne commercializzate, espandendo così questa base rurale. Trasformato in un esercito contadino, il nuovo partito gestiva solo un’ala urbana marginale e sotterranea anche dopo aver riconquistato l’influenza nazionale».

La ricostruzione storica di Chuang lascia molto a desiderare su un punto che a me appare fondamentale: essa non dice nulla sulle enormi responsabilità che il Partito Bolscevico di Stalin e Bucharin ebbe sui sanguinosi fatti del 1927. Mi piacerebbe sapere come  Chuang giudica la lotta che soprattutto Trotsky e Zinoviev condussero contro la linea politica fissata dal Partito di Stalin e Bucharin, e fatta sua da un Comintern ormai russificato, circa l’atteggiamento che il PCC avrebbe dovuto assumere nei confronti del Kuomintang di Chiang Kai-shek e, in generale, della rivoluzione nazionale-borghese allora all’ordine del giorno in Cina.

Quello che determinò la trasformazione del PCC da soggetto rivoluzionario urbano (proletario) a soggetto rivoluzionario contadino (nazionale-borghese) non fu tanto l’eliminazione fisica dei comunisti che agivano nelle città e il venir meno dei suoi contatti con il mondo della metropoli: la causa della sua “mutazione genetica” (in realtà sociale) va ricercata più in profondità, ossia nella distruzione della sua precedente identità di classe autonoma che bisognava preservare a tutti i costi anche nel corso della rivoluzione nazionale-borghese (antimperialista) [6]. Ma questo fu possibile perché nel biennio cruciale 1926-1927 il Partito Bolscevico riuscì nell’intento di fare del PCC l’ala sinistra del Kuomintang, ossia di una soggettività politica borghese. Scriveva Trotsky in una lettera del 4 marzo 1927 indirizzata a Karl Radek: «Abbiamo trasformato il Partito comunista cinese in una varietà di menscevismo e quel che peggio, non nella varietà migliore, cioè non nel menscevismo del 1905, quando si unì temporaneamente al bolscevismo, ma nel menscevismo del 1917, quando si alleò con i Socialisti Rivoluzionari di destra e sostenne i cadetti. […] Temo che le cose, in larga misura, stano appunto così[7]. Voja Vujovič, segretario generale dell’Internazionale giovanile dal 1922, espulso dal Comintern nel settembre 1927 e pochi mesi dopo deportato in Siberia (un “classico” dello stalinismo), nel maggio del ’27 riassumeva in questi termini l’atteggiamento del Partito Bolscevico e del Comintern nei confronti del PCC: «Il PCC ha cercato ripetutamente di correggere la propria linea e di uscire dal “blocco ad ogni costo” con Chiang Kai-shek. Purtroppo, tutti i tentativi del Partito cinese di correggere la propria linea politica e la propria tattica errata si sono scontrati ogni volta nella decisa opposizione del comp. Borodin e del rappresentante del CE dell’IC in Cina» [8].

Il mutamento nella composizione sociale del movimento comunista cinese registrò una sua ben più radicale trasformazione: infatti, da promettente soggetto rivoluzionario proletario, il Partito Comunista Cinese, fondato nel giugno del 1921 e sottoposto alle “amorevoli” cure dello stalinismo (espressione più emblematica della controrivoluzione in Russia e nel mondo), diventò un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese. In altre parole, con il PCC di Mao non siamo dinanzi a un semplice cambiamento nella strategia politica dei comunisti, intesa ad adeguarla alla nuova situazione; ci troviamo piuttosto di fronte alla morte della natura proletaria (nell’accezione teorico-politica, e non meramente sociologica, del concetto) di quel Partito, nonostante esso conservasse il vecchio nome – secondo l’esempio sovietico. Il PCC dopo la sanguinosa controrivoluzione del 1927 era diverso dal PCC esistente prima di quella data nel senso più radicale – sociale – possibile. Il Partito del 1921non «era stato riformattato dai suoi anni nelle campagne cinesi», come scrive Chuang: esso si era estinto come soggetto proletario rivoluzionario. Proletario, beninteso, nell’accezione storico-sociale, e non sociologica, del termine. Soggetto proletario nel senso marxiano del concetto, tanto per intenderci.

Scrive Chuang: «Mentre il vecchio PCC si è formato in un’era di rivoluzione internazionale in cui il rovesciamento dei regimi nel cuore dell’Europa sembrava ancora plausibile, il nuovo PCC è emerso in un mondo schiacciato sotto il tallone degli imperialisti reazionari, in cui i movimenti rivoluzionari più promettenti erano stati smembrati e le forze armate dei paesi imperialisti erano gonfie di guerra»: ecco l’essenziale! Sotto le macerie causate dalla controrivoluzione capitalistica internazionale rimasero sia il Partito di Lenin sia il Partito dei comunisti cinesi che «furono screditati, retrocessi e sostituiti da figure la cui strategia prevedeva un ruolo molto più primario per il progetto di sviluppo nazionale rispetto all’espansione internazionale della rivoluzione comunista». Mutatis mutandis, al PCC toccò la stessa sorte del PCR (B) e degli altri ex Partiti Comunisti che nella seconda metà degli anni Venti subiranno il trattamento della famigerata bolscevizzazione.

L’esito disastroso del lungo ciclo rivoluzionario cinese (1920-1927) non ci parla solo della tragedia del giovane ma già molto combattivo proletariato cinese, ma anche, e direi soprattutto dalla mia prospettiva “occidentale”, della tragedia del proletariato europeo di allora, che passava da una sconfitta all’altra sotto i pessimi auspici dello stalinismo: anche dall’Oriente arrivavano cattive notizie, le quali seppellivano le speranze dell’ultimo Lenin.

«Il periodo di sviluppo industriale urbano (1949-1957), associato all’era della riforma agraria nelle campagne, può quindi essere visto come la momentanea continuazione della transizione al capitalismo che era stata abbandonata e riavviata più volte nella storia recente del paese. Il Partito lo ha inteso come tale, designando questo periodo come il completamento della “rivoluzione borghese” nelle città portuali. Ciò diede al fenomeno un perfetto adattamento alla mitologia determinista dell’alto stalinismo, ma questo adattamento era semplicemente l’uso delle risorse teoriche disponibili per giustificare l’azione pragmatica mentre era in corso. La fedeltà teorica allo stalinismo fu, semmai, il risultato piuttosto che la causa delle tendenze industriali viste negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra civile». E che ci dice questo dato “sovrastrutturale” sul reale processo sociale cinese di quel periodo?

Ci parla di un adattamento dello stalinismo alle condizioni storico-sociali della Cina, e ciò confermava in pieno il nocciolo “dottrinario” di esso: la teoria delle «vie nazionali al socialismo». La «via cinese al socialismo» aderisce insomma come un guanto all’ideologia stalinista, ed è perciò corretto, sotto questo fondamentale aspetto, definire il maoismo come la traduzione in cinese dello stalinismo, come un suo adattamento alle condizioni storiche e sociali della Cina. La fusione dell’ideologia stalinista (che nulla aveva a che fare con il “marxismo occidentale”, ma ne era piuttosto la negazione) con le ideologie (laiche e religiose) prese dalla storia cinese, che ha prodotto quel “bizzarro” guazzabuglio ideologico che tanto successo ebbe presso l’intellighentia “marxista” occidentale, non contraddice, ma piuttosto conferma la tesi qui sostenuta.

Quella che Chuang caratterizza come una «momentanea continuazione della transizione al capitalismo» ha per me invece la natura di un processo che, tra alti e bassi, cadute e riprese, arretramenti e avanzamenti, non cessò di dispiegarsi, di precisarsi e di rafforzarsi. Lo ribadisco: tra mille contraddizioni, nel contesto di una realtà sociale estremamente complessa e contraddittoria, e all’interno di un quadro internazionale che di certo non rendeva più agevole la transizione della Cina alla “modernizzazione” capitalistica.

Secondo Chuang, il regime di sviluppo della Cina nel primo periodo (quello definito appunto “socialista”) non si configura come un vero e proprio modo di produzione, né come “capitalismo di Stato” né come “capitalismo burocratico”. «Il tentativo di adornare il capitalismo con aggettivi è semplicemente una cortina fumogena che oscura una scarsa comprensione delle sue dinamiche fondamentali»: concordo e sottoscrivo. «E il regime socialista dello sviluppo non era capitalista»: qui invece non concordo affatto e polemizzo. «Coloro che sostengono che il risultato finale della transizione dimostra in qualche modo l’essenza capitalista preesistente nell’era socialista, fanno una bizzarra presunzione logica che difficilmente sarebbe tollerata in nessuna disciplina al di fuori della teologia: essi confondono la fine di un processo con le sue forme precedenti, come se il germe della specie umana fosse presente agli albori della vita». Forse Chuang potrebbe averla vinta sul piano “dialettico” con chi solo oggi riconosce il carattere capitalistico della cosiddetta “fase socialista” proiettandovi sopra la realtà del presente; ma di certo fallirebbe se si confrontasse con chi già nel 1949 definì la Rivoluzione cinese come una rivoluzione nazionale-antimperialista-borghese, avente il compito storicamente progressivo di unificare il Paese (e il mercato), avviare lo sviluppo capitalistico della Cina e la complessiva “modernizzazione” del Paese. I comunisti occidentali antistalinisti, così come non hanno dovuto aspettare il crollo dell’Unione Sovietica e la caduta del famigerato Muro per dichiarare il fallimento del “socialismo reale”, allo stesso modo non hanno dovuto aspettare le “riforme” di Deng Xiaoping per parlare di transizione della Cina in direzione del capitalismo, le cui premesse essi avevano ottimamente individuato, appunto, già nel 1949.

I compagni di Chuang certamente conoscono la Sinistra Comunista europea che denunciò il progressivo e purtroppo inarrestabile venir meno della spinta propulsiva rivoluzionaria dell’Ottobre Sovietico già negli anni Venti, quelli che Lenin ebbe a definire, a mio avviso del tutto infondatamente, “estremisti infantili”; ebbene, chi scrive ha avuto la fortuna di leggere, ancora giovanissimo, gli scritti di quei comunisti, i quali con l’ascesa dello stalinismo saranno vittima, prima di una violenta campagna calunniosa, e poi di una ottusa damnatio memoriae. Non sempre, anzi assai raramente, il successo sorride a chi dice la verità – la quale è, per dirla con Lenin, rivoluzionaria. Scrivo questo per non affettare sulla natura sociale dell’URSS un’originalità di pensiero che non ho: sulla controrivoluzione stalinista impasto una farina che ho trovato nel sacco altrui – per mia fortuna! Il modo in cui impasto quella farina ricade invece ovviamente sotto la mia esclusiva responsabilità. Ma ritorniamo sul punto!

Dato il presupposto oggettivo (l’arretratezza economico-sociale della Cina del 1949) e quello soggettivo (il cosiddetto Partito Comunista Cinese, “Comunista” solo nominalmente), la fine del processo non poteva che essere la Cina come Paese capitalistico. Non si tratta né di teologia, né di teleologia, né di determinismo meccanicistico o latro: poste determinate condizioni, determinate premesse storiche e sociali, di natura interna e sovranazionale, le conseguenze sono dialetticamente necessarie.

Pensare a uno sviluppo economico-sociale lineare e deterministicamente prevedibile in ogni suo essenziale aspetto, risponde a un’idea di progresso che è del tutto estranea alla mia concezione del processo storico-sociale; si tratta di un’idea “evoluzionista” che peraltro ha trovato decisive smentite in tutti i Paesi del mondo, a cominciare da quelli considerati come la “culla” del Capitalismo. Io sostengo un’altra tesi. La mia tesi è che la complessità, la contraddittorietà, la multiformità e l’originalità che hanno caratterizzato lo sviluppo economico-sociale della Cina non hanno mai oltrepassato in avanti i limiti del Capitalismo, mentre è avvenuto qualche volta che lo oltrepassassero con un movimento all’indietro. Si è trattato di un fatto, poi variamente interpretato e ideologizzato, non di una scelta – al più, si può scomodare l’ambiguo concetto di “scelta obbligata”. Per usare un’immagine “agonica”, è come l’atleta che fa alcuni passi indietro (nella fattispecie: verso forme economiche più arretrate) per poter spiccare un più vigoroso salto in avanti (nella fattispecie: verso il moderno capitalismo). Anche la molla si carica di energia (potenziale) con un analogo movimento. Ma non vorrei impigliarmi in analogie mal congegnate!

Qui si tratta di considerare i problemi posti dall’«accumulazione originaria di capitale» a un Paese drammaticamente indigente di capitali e in cui, dopo la rottura con l’Unione Sovietica “revisionista”, l’investimento estero è praticamente inesistente. «Non solo la Cina aveva perso il suo principale partner commerciale e fonte di aiuti internazionali, ma, nel 1969, le scaramucce di confine avrebbero persino portato i due Paesi sull’orlo della guerra. Nel corso degli anni ‘60, quindi, la Cina si è trovata sempre più isolata. Con la perdita del suo principale partner commerciale, la somma delle importazioni e delle esportazioni cinesi si era ridotta a un misero 5% del PIL entro il 1970» (Sorghum and Steel). Come ho scritto altrove (La campagna cinese), a un certo punto della transizione del Paese al moderno capitalismo il Partito-Stato si trovò nella poco invidiabile situazione di dover fare della necessità una virtù, ossia di dover “mettere a valore” tutte le forme economico-sociali allora presenti nella società cinese, in primo luogo nella fondamentale area rurale. Ciò si imponeva come un’urgentissima  “scelta obbligata” per difendere e consolidare le conquiste politiche della rivoluzione nazionale-antimperialista, e per procedere in qualche modo lungo la strada dello sviluppo economico-sociale del Paese, quasi del tutto privo delle basilari infrastrutture necessarie a supportare il suo sforzo di “modernizzazione”. Occorreva quantomeno realizzare le premesse strutturali di una più o meno rapida accumulazione capitalistica. Si trattava di uno sviluppo e di una “modernizzazione” con caratteristiche capitalistiche? A mio avviso non può esserci dubbio circa la natura capitalistica di quel titanico sforzo: semplicemente non si davano allora altre possibilità, e ciò sempre al netto delle credenze ideologiche coltivate in ottima fede in Cina e altrove intorno alla concreta possibilità di un’originalissima transizione del Paese al socialismo. È dai tempi di Marx che nei Paesi capitalisticamente “ritardatari” assai facilmente si fa strada negli ambienti rivoluzionari l’idea – che il più delle volte ha avuto il volto dell’illusione, dell’utopia piccolo-borghese – di risparmiare alla società le sofferenze connesse con lo sviluppo capitalistico, e di giungere al socialismo o, addirittura, al comunismo percorrendo strade originali. Saltare la fase capitalistica dello sviluppo economico-sociale: un’idea davvero affascinante! Nei confronti di questo più che comprensibile desiderio Marx ed Engels non svilupparono mai una critica astrattamente deterministica basata sulla teoria delle “fasi di sviluppo”: poste alcune eccezionali condizioni, di natura interna e internazionale, la “fase capitalistica” dello sviluppo poteva effettivamente venir risparmiata ai Paesi capitalisticamente arretrati. Classico esempio, la Russia zarista: «In Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e assieme alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, oltre la metà del suolo si trova sotto forma di proprietà comune dei contadini. Si presenta, quindi, il problema: la comunità rurale russa, questa forma – è vero – in gran parte già dissolta dell’originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera? O dovrà attraversare, prima, lo stesso processo di dissoluzione che ha costituito lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista». Com’è noto, questa eccezionale condizione non si realizzò, è già al tempo in cui il giovane Lenin scriveva i suoi saggi dedicati allo sviluppo capitalistico in Russia (e alla critica dell’ideologia populista), «la più bella possibilità» colta da Marx nel 1882 era sostanzialmente tramontata [9]. La possibilità della via non capitalistica di sviluppo della Russia rurale era quindi da Marx e da Engels direttamente connessa allo sviluppo della rivoluzione proletaria internazionale. Mutatis mutandis, un analogo ragionamento vale anche per la Cina del 1949: il processo sociale mondiale a quella data spingeva la Cina in una sola direzione, quella dello sviluppo capitalistico, e in questa valutazione centrale è l’assenza di una prospettiva rivoluzionaria nei Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta. Ancora ai tempi di Lenin quel legame era dato per assolutamente scontato dai marxisti, e difatti la strategia rivoluzionaria leniniana (vedi il concetto di “doppia rivoluzione” o di “rivoluzione permanente”) era interamente concepita come un momento della più generale rivoluzione sociale europea. Con lo stalinismo questo legame fu spezzato, perché esso esprimeva una tendenza sociale interamente nazionale, al cui servizio venne messo anche il Comintern. È corretto parlare di «arresto della transizione al capitalismo», nel caso della Cina dei primi anni Cinquanta, nel senso che l’intera macchia economica cinese allora appariva, oltre che arretrata, bloccata, in parte distrutta, disorganizzata, disarticolata e, soprattutto, priva di carburante (di capitali).

Apro una breve parentesi. Durante il cosiddetto Comunismo di guerra nella Russia sovietica, la gran parte dei bolscevichi (Lenin compreso, che confesserà il madornale abbaglio alla fine del 1920) interpretò la catastrofe economica che si era realizzata come conseguenza della guerra imperialista e della successiva guerra civile come transizione al socialismo, e i teorici del partito si sbizzarrirono a commentare la cosa in chiave di “ortodossia marxista”. Era invece accaduto che nella Russia dei Soviet l’economia come la intendiamo modernamente si era quasi del tutto estinta: denaro fuoricorso, mercati quasi del tutto inesistenti, produzione industriale ridotta ai minimi termini, produzione agricola orientata alla pura sussistenza delle aree rurali, infrastrutture distrutte o inservibili e via di seguito. «Abbiamo mandato in soffitta la legge del valore!»: Lenin rise molto ricordando questa sciocchezza “anticapitalista” mentre abbozzava la Nuova Politica Economica. Chiudo la parentesi “storica”.

Scrive Chuang a proposito della fine degli anni Cinquanta: «Nel frattempo, non c’erano prove di alcuna transizione verso il comunismo, che è rimasto un orizzonte meramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche e atomizzate, offrendo le condizioni per una vita collettiva su piccola scala ma non riuscendo a creare la nuova società comunitaria che era stata promessa. La libertà di movimento è diminuita con il proliferare delle crisi, mentre si rendevano evidenti la formazione di due classi d’élite distinte, l’ampliamento del divario urbano-rurale e la formazione di una classe di lavoratori diseredati». Mi si permetta un’aggiunta che riprende le parole di Chuang: nel frattempo, non c’erano prove di alcuna transizione verso il socialismo (non solo verso il comunismo), che è rimasto un orizzonte meramente ideologico. «Il completamento della transizione capitalista sotto gli auspici dello Stato stesso» non fu «un rischio», come sostiene Chuang, ma piuttosto un fatto celato sotto una fraseologia che era essa stessa una caricatura del “marxismo” – si trattava infatti dello stalinismo tradotto in cinese.

«Le tendenze più salienti emerse durante gli anni del Grande Balzo in Avanti possono essere viste come un’evoluzione distintamente cinese dell’alto stalinismo. Era il periodo in cui il modello sovietico e il modello della Cina orientale erano di uguale grandezza e si scontravano. Ma questo non significa che questi esperimenti di breve durata tendessero al comunismo, come sosteneva la propaganda dell’epoca. Invece, erano ancora un’altra dimensione della natura fondamentalmente instabile del regime di sviluppo socialista – questa volta segnalando una forte tendenza verso una reinvenzione delle pratiche produttive tradizionali. Il GBA ha visto un tentativo di rilanciare le reti di produzione rurale, ora sotto gli auspici del nuovo Stato piuttosto che del mercato rurale, orientandole verso i suoi fini di sviluppo».

Non si comprende perché Chuang chiama “socialismo” quello che non riesce a definire come “capitalismo” stricto sensu. Banalmente: non tutto quello che non può essere rubricato come Capitalismo cade nella sfera del Socialismo. Non vedo alcun motivo per definire “socialista” la condizione creata da questo contingente e relativo ritorno indietro della Cina verso forme economiche precapitalistiche o semicapitalistiche. Ma Chuang la pensa in modo diverso: «Il regime di sviluppo socialista designa il crollo di qualsiasi modo di produzione. […] Il periodo non capitalista della Cina fu caratterizzato dal movimento popolare guidato dal Partito Comunista Cinese e riuscì sia a distruggere il vecchio regime che ad arrestare la transizione al capitalismo, lasciando la regione bloccata in una stasi concepita all’epoca come “socialismo”». Ma si trattò davvero di socialismo? E si può davvero parlare di un crollo di qualsiasi modo di produzione? Ma finiamo la citazione: «Il sistema socialista, a cui ci riferiamo come a un “regime di sviluppo”, non era né un modo di produzione né uno “stadio di transizione” tra capitalismo e comunismo, e nemmeno tra il modo di produzione tributario e il capitalismo. Dal momento che non era un modo di produzione, non era nemmeno una forma di “capitalismo di stato”, in cui gli imperativi capitalistici erano perseguiti sotto le spoglie dello stato, con la classe capitalista semplicemente sostituita nella forma ma non nella funzione dalla gerarchia del governo dei burocrati. Al contrario, il regime di sviluppo socialista designa il crollo di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi estrattivi (siano essi tributari, filiali o commerciali) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo guidate dallo Stato erano in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia è cresciuta perché la borghesia non poteva assolvere questo compito. Data la povertà e la posizione della Cina rispetto al lungo arco dell’espansione capitalista, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, accoppiati a resilienti configurazioni di potere locali, erano in grado di costruire con successo un sistema industriale. Ma la costruzione di un sistema industriale non è la stessa cosa del passaggio con successo a un nuovo modo di produzione».

Nel suo eccellente saggio del 1976 Introduzione alla storia della Cina, Arturo Peregalli individua addirittura ben sette «rapporti di produzione»in un arco di tempo che va dal 1949 al 1974: si va dal rapporto di produzione tipico del capitalismo (Lavoro salariato/Capitale) a rapporti che attestano la «sopravvivenza del mutuo aiuto comunitario di tipo precapitalistico». «I dirigenti cinesi hanno presentato il processo di centralizzazione nell’industria e nell’agricoltura come progressiva introduzione del socialismo. Ma se si esamina storicamente il succedersi delle forme di produzione ed i rapporti sottostanti questo elemento ideologico viene smentito categoricamente. […] I rapporti di produzione fondamentali della società cinese non sono mai usciti dai rapporti capitalistici di produzione [10].

Scrive Chuang: «Anche al culmine della sua diversità, tuttavia, questo progetto è stato infine definito da un particolare orizzonte comunista che era emerso dalla combinazione del movimento operaio europeo e dalla storia stessa della regione con le sue millenarie rivolte contadine. Oggi questo orizzonte comunista non esiste più. Non ha senso “schierarsi” su queste questioni storiche, semplicemente perché non c’è simmetria tra allora e adesso». A mio avviso l’orizzonte di cui parlano i compagni di Chuang non è mai esistito, e ciò chiama in causa, che lo si voglia o no, il giudizio sulla storia «del movimento operaio europeo» dopo l’ascesa dello stalinismo, il quale ha avuto moltissimo a che fare con il PCC e la rivoluzione cinese degli anni Venti.

È vero che «non c’è simmetria tra allora e adesso», talmente diverso è il quadro di riferimento sociale che abbiamo dinanzi a noi rispetto a quello con cui si confrontarono i comunisti (solo di nome?) del passato; ma il giudizio sulla “Russia di Stalin” e sulla “Cina di Mao” non ha perso la sua decisiva importanza perché ci dice quale idea di “comunismo” abbiamo in testa, cosa intendiamo quando parliamo di rivoluzione sociale e di emancipazione del proletariato. Come ho già chiarito, il giudizio sullo stalinismo e sul maoismo è fondamentale, almeno per chi scrive, non in chiave di polemica storiografica, o per una critica politico-ideologica svolta con il viso rivolto al passato e avente l’obiettivo di individuare quale corrente politico-ideologica attiva nel passato ha avuto ragione alla luce del presente: non si tratta affatto di questo. Personalmente non faccio nemmeno parte di nessuna corrente politica più o meno organizzata. Si tratta piuttosto di capire, e mi scuso per la ripetizione, che cosa intendiamo oggi per lotta di classe, rivoluzione sociale, socialismo, comunismo. Ad esempio, il “socialismo” e il “comunismo” di cui parla la stragrande maggioranza di quelli che si definiscono “socialisti” e “comunisti” non mi piace nemmeno un poco e mi appare come la bruttissima copia del capitalismo. Moltissimi cosiddetti “comunisti” non sono che dei miserabili tifosi del Capitalismo di Stato. Non si tratta dunque di schierarsi su «questioni storiche», ma di far comprendere il più possibile agli interlocutori il significato che attribuiamo alle parole, capire a quali concetti esse rimandano. In vista di questo sforzo tutt’altro che dottrinario e intellettualistico personalmente mi sono occupato, ad esempio, della storia del cosiddetto Partito Comunista Italiano di Togliatti, un Partito borghese al cento per cento.

«Allo stesso tempo, l’URSS era considerata un esempio emblematico, anche se profondamente imperfetto, di un sistema non capitalista che era stato in grado di sopravvivere in relativo isolamento, scongiurando sia l’invasione militare che l’embargo economico. La burocrazia e la brutalità che accompagnavano i cambiamenti interni di potere all’interno dell’URSS non erano affatto invisibili ai comunisti cinesi. […] Tuttavia, l’URSS era l’unico esempio mondano di una società moderna che era anche sostanzialmente non capitalista». Ma Chuang condivide il giudizio sull’URSS dei «comunisti cinesi» dell’epoca? La formula «sostanzialmente non capitalista» appare quantomeno ambigua e fumosa, soprattutto alla luce del capitalismo mondiale del XX secolo e della stessa storia russa. L’Unione Sovietica era, a mio modo di vedere, «sostanzialmente capitalista». L’economia russa considerata nel suo complesso si distanziava enormemente dal modello di capitalismo di Stato “puro” o integrale possibile in linea teorica. Solo il settore industriale (industria pesante) e una piccola parte dell’economia agraria (i Sovchos, le fattorie statali) possono infatti essere inclusi senza forzature nel concetto di capitalismo di Stato; per il resto siamo alla presenza di forme miste e ibride di rapporti proprietari (tutte rigorosamente capitalistiche): dalla proprietà privata, più o meno mascherata sul piano politico e giuridico, a quella cooperativistica, con tutti i gradi intermedi tra le due forme. Senza parlare della cosiddetta economia informale (o “nera”), molto diffusa soprattutto nella campagna russa come luogo di produzione – con sbocchi mercantili nelle città del Paese. Il Kolchoz non era una forma di capitalismo di Stato; era piuttosto una forma “mista” che metteva insieme la proprietà statale e quella individuale (sotto forma di un pezzo di terra e qualche capo di bestiame), il lavoro salariato e il piccolo azionariato, visto che il piccolo produttore rurale russo riceveva oltre al salario una piccola parte del profitto generato dall’impresa kolchoziana. Per questa sua peculiare condizione sociale il kolchoziano sviluppò una coscienza e una psicologia tutt’altro che inclini alla rivoluzione. Tuttavia sbaglieremmo a dipingere a tinte rosee la vita dei kolchoziani, che infatti fu sempre dura, anche a causa della scarsa produttività del sistema kolchoziano. Ma qui rischio di divagare!

«Ma questo non vuol dire che l’era socialista non avesse una dimensione globale. È stata la più grande di un’ondata mondiale di rivoluzioni socialiste»: quelle che Chuang definisce «rivoluzioni socialiste» io le definisco rivoluzioni nazionali-borghesi-antimperialiste, rivoluzioni cioè che ebbero la stessa natura storico-sociale della rivoluzione cinese. Diciamo che non si tratta di una differenza poco significativa, tutt’altro. Ecco perché non posso condividere passi di questo genere: «In Cina, la mitologia industriale del movimento operaio si sarebbe fusa con la realtà della rivoluzione rurale in modo più fluido di quanto non fosse accaduto nell’Unione Sovietica. Il prodotto era una cultura socialista in cui l’escatologia marxista si fondeva con secoli di millenarismo contadino. Questa combinazione si è dimostrata in grado di innescare una delle più grandi esplosioni di sviluppo nella storia umana». Condivido solo l’ultima frase: in Cina abbiamo assistito a «una delle più grandi esplosioni di sviluppo nella storia umana»; si tratta di capirne il significato storico e sociale.

Per la Cina degli anni Cinquanta si può parlare correttamente di «una società sostanzialmente non capitalista», soprattutto nel suo gigantesco retroterra rurale, se si precisa che in quel Paese economicamente arretrato era all’ordine del giorno la transizione al capitalismo. La lunga sospensione della transizione al capitalismo di cui parla Chuang, e che sarebbe ripresa nel 1978, dopo la definitiva sconfitta dalle corrente maoista interna al PCC, realizzò le premesse generali del decollo capitalistico del Paese e in ogni caso tale periodo non significò un suo seppur momentaneo passaggio nella dimensione socialista. «I primi anni dopo il 1949 furono anche un periodo in cui al partito fu concesso il tempo di sperimentare le proprie forme di amministrazione industriale e prepararsi per l’arresto della transizione capitalista»: se arresto vi fu, esso non segnò affatto l’inizio della transizione al socialismo, ma piuttosto un contingente ritorno a forme precapitalistiche, più o meno idealizzate – soprattutto dagli intellettuali progressisti occidentali, sempre assetati di nuove e originalissime “terze vie”. A questo proposito scriveva Simon Leys nel 1971: «I nostri filosofi d’oggi, paiono egualmente poco desiderosi d’indagare sulla verità storica del maoismo, temendo, senza dubbio, che un confronto con la realtà, si riveli d’annoso a questo mito, che li dispensa dal pensare di testa proprio» [11]. I “marxisti” occidentali che allora opposero il modello maoista (“movimentista”) a quello stalinista (“sclerotizzato”) non afferrarono la profonda radice che legava i due “modelli”, essendo il primo una derivazione modificata del secondo. Tra l’altro essi non compresero il significato sociale e geopolitico del “movimentismo” e del “volontarismo” maoista, i cui termini essenziali credo di aver toccato in queste pagine.

Da quanto sopra affermato, si comprende bene perché chi scrive non può condividere ciò che scrive Chuang a proposito del «blocco socialista»: «Anche se nel 1969 [incidente dell’isola di Zhenbao] la guerra sino-sovietica fu scongiurata, questo fu il punto in cui i legami sino-sovietici furono definitivamente recisi, concludendo il periodo di diplomazia precaria tra i due più grandi membri del blocco socialista». Chuang parla di «nazioni socialiste» anche per quel che riguarda le nazioni che caddero nell’area di influenza dell’imperialismo sovietico: il “socialismo” imposto ai Paesi dell’Est europeo dall’Armata Russa! I lettori hanno già capito: per chi scrive, non è mai esistito alcun «blocco socialista», comunque lo si voglia intendere dal punto di vista sociale, politico e geopolitico. «Nel contesto della guerra fredda, l’incidente di Zhenbao ha anche segnalato le prime ouverture della Cina verso gli Stati Uniti»: non c’è dubbio. Il movimento della Cina verso gli Stati Uniti si spiega in larga parte con la crescente conflittualità politico-militare tra i due giganti del “socialismo reale”. Sotto l’aspetto economico, la contesa interimperialistica si dipanò invece quasi interamente nel cosiddetto “mondo libero”. Almeno dagli anni settanta in poi, il «blocco democratico» fu il teatro di un’accesa contesa industriale, commerciale e finanziaria tra i Paesi che ne facevano parte, soprattutto tra Giappone, Germania e Stati Uniti. Alla fine degli anni Ottanta, ad esempio, i rapporti commerciali tra Stati Uniti e Giappone giunsero a un punto davvero critico, e contro il Made in Japan e il capitale finanziario nipponico Washington rispolverò perfino la tragedia dell’«attacco proditorio» a Peel Harbour: «Il Giappone vuole conquistare il nostro mercato, le nostre fabbriche, le nostre banche e i nostri grattacieli!». Si spiega anche con la crescente concorrenza portata dal capitale europeo e giapponese al capitale statunitense l’avvicinamento di Washington a Pechino alla fine degli anni Sessanta, che troverà una “sorprendente” accelerazione nel decennio successivo. Ma su queste aspetti Chuang ha scritto analisi molto approfondite che in larghissima parte condivido.

Ma ritorniamo, per concludere rapidamente, al «periodo socialista dello sviluppo cinese». Per quanto paradossale possa apparire a prima vista, gli «esperimenti con forme di produzione non capitaliste» furono poste al servizio dell’accumulazione capitalistica in un contesto sociale fortemente problematico, reso ancor più difficile dalla mancanza di capitale nazionale e dal “soccorso” tutt’altro che fraterno dell’imperialismo russo. La Cina si trovò di fatto isolata nella sua profonda arretratezza economico-sociale e minacciata nella sua sovranità da tutte le parti: dai sovietici e dagli statunitensi. La difesa della sovranità nazionale non è un pranzo di gala!

Lo ripeto: non nego affatto l’originalità dello sviluppo economico-sociale della Cina moderna; ciò che io sostengo è che questa originalità, del tutto comprensibile alla luce della storia di quel Paese nel suo rapporto con il mondo esterno (Occidente incluso, ovviamente) e con le sue caratteristiche fisiche, demografiche, etniche e quant’altro; questa originalità, dicevo, non ha mai toccato, e nemmeno sfiorato, la dimensione socialista, e si è data interamente dentro il solco dell’accumulazione capitalistica, anche quando essa ha assunto le sembianze di prassi economiche precapitalistiche – non postcapitalistiche.

La Cina che uscì dalla catastrofica esperienza del Grande Balzo in Avanti conobbe una drammatica condizione di stallo, dalla quale il Paese sarebbe potuto uscire solo in due modi: o schiantandosi al suolo come entità economica e nazionale sovrana (sempre nei limiti consentiti dalla natura sovranazionale del Capitale), oppure accelerando e potenziando la sua ascesa capitalistica, rendendo definitivo e stabile il proprio decollo economico-sociale. O lo schianto, o il decollo: sappiamo com’è andato a finire l’autaut che i fatti (di natura interna e internazionale, economica e sociale, nazionale e politica) hanno imposto alla Cina. Pur fallendo clamorosamente il suo principale obiettivo (accrescere l’accumulazione e la produttività agricola), il Grande Balzo in Avanti ebbe comunque il merito di mobilitare e scatenare le immense forze sociali esistenti soprattutto nel mondo rurale, mettendole al servizio dello sviluppo economico (soprattutto per quanto riguardava la realizzazione di importanti opere infrastrutturali) nei limiti imposti dalla complessa situazione venutasi a determinare.

Tutte le contorsioni, le contraddizioni, le lotte, spesso sanguinose, interne al Partito-Stato si spiegano, a mio avviso, con la natura nazionale-borghese di quel Partito e della rivoluzione che esso si sforzò di guidare (in conflitto con un altro Partito borghese, il Kuomintang), e con le eccezionali difficoltà che subito vi si pararono dinanzi. Difficoltà di vario genere (economiche, demografiche, geopolitiche, etniche: in una sola parola sociali) che ammettevano più di una soluzione, diverse possibili linee politiche (ad esempio: più o meno stataliste, più o meno filosovietiche, più o meno centraliste, più o meno federaliste, e così via); linee politiche in concorrenza, a volte anche feroce, che erano del tutto interne al regime di sviluppo capitalistico della Cina. Anche il «marxismo più meccanico e ingenuamente ottimista» di cui parla Chuang con riferimento a una corrente interna al PCC degli anni Cinquanta particolarmente incline allo stalinismo, non era che una caricatura del “marxismo” che nulla a che fare aveva con la teoria e con la prassi del comunismo. Qui nuovamente viene in luce l’importanza del giudizio storico sullo stalinismo inteso come fatto (meglio: processo) storico-sociale, al di là, come già detto, della personalità di un particolare individuo. Ho parlato di “stalinismo” e di “maoismo” (nonché della «Cina di Mao») solo per individuare rapidamente la costellazione di idee e di eventi cronologicamente determinati, e non in ossequio alla plechanoviana «funzione della personalità nella storia» – che peraltro sono lungi dal sottovalutare, soprattutto in chiave sintomatica.

Non è certo facile ricostruire in tutte le sue parti, un processo sociale di portata storica così grande ed estremamente complesso e contraddittorio, già nei suoi presupposti storici, sociali e geopolitici, come è stato indubbiamente quello cinese. Per certi versi la transizione dalla vecchia alla nuova Cina è avvenuta, quantomeno nel primo decennio successivo alla proclamazione della Repubblica Popolare nel 1949, nelle condizioni peggiori possibili sotto diversi e importanti aspetti, di natura interna e internazionale, e questo ha impresso a tale transizione un carattere particolarmente aggrovigliato, per così dire, e difficile da decifrare in ogni suo aspetto. Difficile ma tuttavia non impossibile, e difatti è possibile individuare in questo passaggio alcune fondamentali linee di sviluppo, alcune tendenze oggettive riconducibili a una chiara matrice storico-sociale: quella capitalista.

«L’apertura della Cina è stata l’inizio di un ampio processo di una sua sottomissione alla comunità materiale del capitale, processo guidato dalla crescente necessità delle economie sviluppate, che soffrivano di sovrapproduzione, di esportare prima beni e, in seguito, capitale. Questo processo rimane lo sfondo storico per la sottomissione della Cina all’interno dei circuiti globali di accumulazione». Questa riflessione è a mio avviso corretta se si tiene conto che non solo la Cina, ma tutti i Paesi del mondo sono sottomessi «alla comunità materiale del capitale», e se si coglie il cuore pulsante di questa comunità: il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento capitalistico, ossia la sottomissione del lavoro salariato al Capitale. La sottomissione della Cina «alla comunità materiale del capitale» deve intendersi, sempre all’avviso di chi scrive, il necessario epilogo di una vicenda scritta dalla storia del capitalismo mondiale, dalle cui pagine il grande Paese asiatico non poteva più rimanere fuori dopo l’espansione colonialista e imperialista dell’Occidente – e, da questo punto di vista, la storia del Giappone del XIX secolo è molto istruttiva.

Le tesi di Chuang sulla cosiddetta «era socialista», o «periodo socialista di sviluppo» in Cina, sono dunque a mio avviso in larga misura viziate da un grave errore di fondo: considerare l’Unione Sovietica “di Stalin” e la Cina rivoluzionaria “di Mao” come due Paesi che, in tempi e forme diverse, hanno avuto in qualche modo a che fare con il socialismo, ossia con il tentativo messo in essere dalle classi subalterne di quelle due grandi nazioni di fuoriuscire dal Capitalismo; un tentativo non riuscito o riuscito solo in parte e non definitivamente. Di qui, la tesi del «blocco socialista». Si tratta di capire, almeno per chi scrive, come si ripercuote questo grave errore di valutazione, di natura non semplicemente storica (tutt’altro), sulla posizione politica del Collettivo qui analizzato per un aspetto specifico. Esiste anche un’altra possibilità, e cioè che io non abbia ben compreso la posizione dei compagni di Chuang sul «periodo socialista» di sviluppo della società cinese e, in generale, sul «blocco socialista». In questo caso non mi dispiacerebbe scoprire di aver “clamorosamente” toppato.

 

[1] Dal Blog Chuang ho ripreso e pubblicato sul mio Blog Social Contagion e l’introduzione a Delivery Riders. Trapped in the System.
[2] Intervista rilasciata dal Collettivo Chuang a Global Projet, 29/2/2016.
[3] Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        
[4] Per il maoismo il blocco delle quattro classi (operai, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale “patriottica”) partecipa alla costruzione del “socialismo” e ne è il fondamento sociale. Ma il socialismo non è un processo che tende alla eliminazione delle classi? non è «la soppressione delle classi» (Lenin)? Sì, ma nel lunghissimo periodo. Lungo quanto? A piacere…
[5] Sulla Rivoluzione d’Ottobre rinvio anche ai PDF Lenin e la profezia smenaviekhista; Il Grande Azzardo.
[6] «Il carattere antimperialista della rivoluzione cinese non contraddice in alcun modo la natura borghese di questa rivoluzione, né ha impedito alla Cina di diventare a sua volta un Paese imperialista di primissimo rilievo, fino a collocarsi al vertice della piramide del Potere Mondiale, in conflittuale coabitazione con gli Stati Uniti d’America. L’antimperialismo della rivoluzione cinese registra piuttosto un “ritardo storico”, nel senso che lo sviluppo capitalistico in Cina, come in tanti altri Paesi del mondo, si è realizzato nell’epoca imperialista del capitalismo internazionale, e ha dovuto fare i conti con la politica di sfruttamento e di dominio politico-militare perseguita in primo luogo dai Paesi occidentali. Nel caso cinese, soprattutto dopo la Liberazione del 1949 è stata la tenaglia rappresentata dall’imperialismo statunitense e da quello “sovietico” a rendere particolarmente difficile, contraddittoria e generatrice di vere e proprie catastrofi sociali (carestie, violente persecuzioni etniche e politiche, ecc.) la modernizzazione capitalistica della Cina. La rivoluzione cinese aderiva perfettamente alla teoria leniniana dell’ineguale sviluppo capitalistico. «È necessario lottare con energia contro il tentativo di applicare nei paesi arretrati un’etichetta comunista ai movimenti rivoluzionari di liberazione che tali non sono effettivamente» (Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, 14 luglio 1920, Opere, XXXI, p. 164, Editori Riuniti, 1967). Anche questa preoccupazione leniniana colpisce nel segno, se pensiamo al cosiddetto “comunismo” del Partito di Mao» (La campagna cinese).
[7] Trotsky, Vujovič, Zinoviev, Cina 1927, p. 49, Iskra, 1977.
[8] Ivi, p. 224. «Nell’ottobre 1923 Michael Borodin, il comunista di lingua inglese che era già stato attivamente utilizzato negli affari del Comintern, giunse a Canton per invito di Sun Yat-sen. Sembra che fosse designato non dal governo sovietico o dal Comintern, ma dal partito comunista russo. La sua funzione fu quella di consigliere politico di Sun Yat-sen. Dopo sei anni dalla rivoluzione bolscevica, la Russia sovietica era emersa dalla penombra della confusione e dell’impotenza, e interveniva in modo decisivo nella politica di un grande paese asiatico» (E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, p. 1311, Einaudi, 1964). I frutti velenosi di quell’intervento saranno raccolti dai proletari cinesi e dagli internazionalisti di tutto il mondo nel 1927.
[9] K. Marx, F. Engels, Prefazione alla nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 663, Editori Riuniti, 1973.
[10] A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, pp. 89-101, Ceidem, 1976.
[11] S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, pp. 15-16, Edizioni Antistato, 1977.

LA CINA È CAPITALISTA? SOLO UN POCHINO…

Leggo da qualche parte: «Nell’ampia terza parte – sulla natura del sistema politico-economico cinese – gli autori affrontano, con l’ausilio delle “lenti di Marx” e dell’ampio e originale apporto di statistiche e studi economici, una questione (se non la questione) fondamentale per l’orientamento del movimento operaio e comunista su scala mondiale: alla domanda che dà il titolo al libro – la Cina è capitalista? – il lettore attento troverà dati, argomenti e ragionamenti per la comprensione del percorso del “socialismo con caratteristiche cinesi”, ben distante da quello capitalistico». Mi sono occupato del libro di Rémy Herrera e Zhiming Long in un post scritto un anno fa: Il colore del gatto cinese. Che colore ha il metaforico (“denghiano”) gatto cinese? Il colore del Capitale, è ovvio! La cosa appare ovvia, beninteso, solo a chi non ha gli occhi foderati di prosciutto ideologico, come diceva l’oculista di Treviri. C’è gente che guarda la realtà del capitalismo planetario (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’Africa, ecc.) inforcando le “lenti di Stalin” o di Mao, e pensa di analizzare quell’escrementizia realtà «con l’ausilio delle “lenti di Marx”»: ne vien fuori un guazzabuglio politico-ideologico a dir poco rivoltante, anche perché costringe l’anticapitalista a fare i salti mortali per far capire ai suoi interlocutori che il povere Marx non c’entra nulla con la Russia di Stalin e con la Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping.

In ogni caso, «del «movimento operaio e comunista su scala mondiale» di cui straparlano taluni, è meglio tenersi alla larga: potrebbe trattarsi dell’ennesima fregatura organizzata dal “fronte antimperialista” ai danni di qualche ingenuo. Il socialismo con caratteristiche cinesi: che ciclopica panzana!

Solo un pochino…

Nel suo libro Enterprise, industry and innovation in the People’s Republic of China: questioning socialism from Deng to the trade and tech war, «Alberto Gabriele introduce il concetto di “impresa non capitalistica orientata al mercato”, che si applica a tutte le aziende produttive che non possono essere considerate pienamente capitalistiche in base alla struttura dei diritti di proprietà. In Cina, queste imprese comprendono le imprese statali e le cooperative, ma anche molte altre aziende, tra cui le imprese indirettamente controllate dallo Stato e le stesse unità produttive agricole a base familiare. Il nucleo strategicamente dominante della economia cinese rimane sotto il controllo strategico dello Stato. Contrariamente a quanto ritengono molti osservatori occidentali, che vedono la Cina come ormai dominata dal capitalismo (sia pure definito, utilizzando erroneamente una categoria fumosa e comunque adatta tutt’al più a descrivere fenomeni completamente diversi, come “capitalismo di stato”), le imprese non capitalistiche orientate al mercato producono una parte maggioritaria del prodotto nazionale cinese».

Il concetto di «impresa non capitalistica orientata al mercato» contiene almeno una fondamentale contraddizione che conferisce alla sua formulazione un carattere particolarmente “bizzarro”, diciamo così. L’impresa, storicamente e socialmente parlando, è il luogo nel cui seno avviene il processo di produzione del plusvalore, fondamento economico di ogni tipo di profitto e di rendita. L’impresa o è capitalistica, e quindi orientata necessariamente al mercato (un’altra realtà fondamentale del capitalismo), o semplicemente non è. Non è certo un caso se Marx o Engels non parlarono mai, con riferimento all’auspicata futura Comunità umana, di “impresa socialista”, un vero e proprio ossimoro, una contraddizione in termini. Stesso discorso vale per il concetto di azienda.

Dal concetto di impresa si ricava, com’è noto, quello di imprenditore, il quale può avere una natura individuale oppure collettiva – vedi le Società per azioni, le cooperative, lo Stato e così via. Ciò che caratterizza la natura sociale di un’economia non è affatto il carattere giuridico della proprietà, la quale può appunto assumere nell’ambito di uno stesso Paese molteplici e più o meno contingenti configurazioni giuridiche, ma il rapporto sociale di produzione. Come si sa (?), fu soprattutto Engels a individuare nello Stato capitalista l’ideale del capitalista complessivo (o collettivo): «Né la trasformazione in società per azioni né quella in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini dello Stato borghese. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (Anti-Dühring). Su questo fondamentale aspetto della questione rimando i lettori a un mio PDF: Dialettica del dominio capitalistico.

A quanto mi risulta in Cina, come in ogni altro Paese del mondo, il lavoro (salariato) è sottomesso al Capitale – pubblico e privato, nazionale e multinazionale. La merce Made in Cina non è, marxianamente parlando, una cosa, un semplice prodotto del lavoro umano, ma soprattutto l’espressione più verace (e disumana) di un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento – dell’uomo e della natura. «In base alla struttura dei diritti di proprietà», e soprattutto in base della struttura dei rapporti sociali di produzione, tutte le aziende produttive che operano (che sfruttano lavoro vivo) in Cina possono essere considerate pienamente capitalistiche.

In estrema sintesi! L’impresa, al pari del mercato, non è una semplice forma organizzativa socialmente neutra: in quanto sede del processo di produzione di valore essa è la forma tipica della produzione capitalistica. Il superamento del capitalismo non è un problema di forme di proprietà (pubblica o privata) o di gestione (centralizzata o decentralizzata, “autoritaria” o “democratica”), ma di forme sociali di produzione, ossia di rapporti di classe: vedi il rapporto Capitale-Lavoro (salariato), il rapporto sociale fondamentale di questa epoca storica.

Ai miei occhi voler dimostrare la natura socialista (o in ogni caso “problematica”, bisognosa di una sospensione del giudizio) dell’economia cinese, o solo di una sua parte, appare come un’impresa che definire ridicola, oltre che ultrareazionaria (stiamo parlando della seconda potenza capitalista/imperialista del mondo!), è dir poco, troppo poco. Ma si approssima il Santo Natale che, benché con caratteristiche epidemiche, ispira sentimenti “buonisti” anche in chi scrive.

Ma, si dirà (anche dal fronte degli apologeti del capitalismo liberale/liberista, i quali hanno in odio il «capitalismo totalitario comunista cinese»: sic!), abbiamo pur sempre a che fare con un regime politicamente non capitalista, se proprio non vogliamo definirlo socialista o comunista per mera pignoleria dottrinaria. Sbagliatissimo! Qui la pignoleria dottrinaria non c’entra niente; abbiamo piuttosto a che fare con l’analisi sociale e storica, la quale ci dice che la “sovrastruttura” politico-istituzionale della Cina si armonizza perfettamente con la sua “struttura” economica, e questo già ai tempi di Mao Tse-tung, eroe di una straordinaria rivoluzione nazionale-borghese mitizzata come “rivoluzione socialista” secondo i ben noti usi e costumi stalinisti: basta aggiungere ai fatti e alle cose la parolina magica “socialismo”, e il gioco ideologico è fatto. Qui rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla Cina (*).

Insomma, il Partito-Regime cinese è “comunista” esattamente come chi scrive è un “marziano”. «Ma a Marte non esistono creature visibili all’occhio umano». Ma va?

In conclusione (si fa per dire)! Lungi dal «rappresentare nella sostanza il primo esempio al mondo di una nuova formazione economico-sociale» (a suo tempo si disse la stessa cosa per la Russia di Stalin), come sostiene chi «guarda da molto tempo e con simpatia allo sviluppo progressivo dell’economia cinese», la Cina del XXI secolo rappresenta una gigantesca realtà sociale la cui economia e la cui dinamica sistemica (inclusa quella geopolitica: vedi alla voce Imperialismo) si spiega solo a partire dal rapporto sociale di produzione capitalistico.

(*) Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

CINA. ADDETTI ALLE CONSEGNE INTRAPPOLATI NEL SISTEMA. COME TUTTI NOI!

Il sistema è ancora in esecuzione, il gioco continua, ma
i riders non hanno ancora alcuna conoscenza del ruolo
che giocano in questo gioco senza limiti. Stanno ancora
volando lungo la strada alla ricerca della possibilità di
una vita migliore.

Pubblico qui di seguito l’introduzione scritta dal Blog Chuang a un rapporto/inchiesta, intitolato Delivery Riders. Trapped in the System, dedicato ai lavoratori cinesi delle consegne (qui chiamati in diversi modi: riders, motociclisti, ciclisti) e pubblicato dalla rivista cinese Renwu (Popolo) l’8 settembre 2020. Il rapporto si può leggerlo nella sua interezza sempre su Chuang. Si tratta di scritti che toccano temi di interesse generale (come quelli afferenti al cosiddetto Capitalismo delle piattaforme) (1), e che in più aiutano a capire la condizione sociale della classe lavoratrice cinese al la di là della propaganda orchestrata dal Partito-Regime cosiddetto “Comunista” e ripresa anche in Italia dai sostenitori del Celeste Capitalismo/Imperialismo (2).

Mi scuso per la traduzione dall’inglese tutt’altro che impeccabile, il cui scopo d’altra parte è soprattutto quello di segnalare ai lettori l’interessante articolo in questione.

 

外卖 骑手. 困 在 系统 里

In tutto il mondo, il personale di consegna delle merci precedentemente invisibile ha raggiunto una nuova importanza nella coscienza popolare come “lavoratori in prima linea” durante la pandemia COVID-19. Poiché l’emergenza ha evidenziato sia l’importanza che i pericoli del lavoro di consegna, sulle condizioni di lavoro dei riders si sono verificati scioperi e al contempo manifestazioni pubbliche di apprezzamento. In Cina, il settore era già diventato un punto focale di disordini già diversi anni fa, poiché sia ​​il capitale che il lavoro passavano dal settore industriale in declino ai servizi in generale e alle nuove piattaforme di e-commerce poco regolamentate, in particolare. Mentre i blocchi nella prima parte di quest’anno hanno limitato l’organizzazione delle persone, negli ultimi mesi si è assistito a una rinascita delle azioni sindacali combinate con una raffica di notizie sul settore da parte dei media. I corrieri dei pacchi espressi sono stati sequestrati (precettati) in vista della festività dello shopping dell’11 novembre, il “Single’s Day”, con conseguenti proteste, rallentamenti e dimissioni di massa segnalate in più città nelle ultime settimane. E due mesi fa, una delle riviste più lette in Cina, Renwu (Popolo), ha pubblicato un’indagine di lungo respiro sugli orrori del lavoro di consegna di cibo, basata su sei mesi di ricerca. Solo su Weibo il rapporto è stato ampiamente ripubblicato e visualizzato 3,16 milioni di volte tramite il link originale, suscitando una serie di articoli correlati. Di seguito la nostra traduzione, preceduta da un sommario e un breve commento. Nelle prossime settimane pubblicheremo un testo originale che analizza ciò che queste tendenze da incubo del “capitalismo delle piattaforme” rivelano sull’economia cinese nel suo complesso e nel suo rapporto con l’economia globale.

Il rapporto, intitolato Delivery Riders. Trapped in the System, è stato scritto collettivamente da un team di giornalisti anonimi e inviato a Renwu, che lo ha pubblicato l’8 settembre 2020.

La rivista mensile Renwu è stata fondata nel 1980 sotto il People’s Daily Press ed è ora gestito dalla casa editrice statale People’s Publishing, che pubblica principalmente libri di politica. A marzo, Renwu ha condotto un’intervista con Ai Fen, uno dei primi medici a condividere informazioni sull’epidemia di COVID-19 nonostante gli avvertimenti del suo ospedale di rimanere in silenzio. L’intervista è stata cancellata nel giro di poche ore, ma è stata ampiamente condivisa attraverso una varietà di metodi creativi per aggirare la censura, incluso l’uso di emoji e l’inversione dell’ordine delle parole. Il pezzo tradotto di seguito fornisce un esame alternativo della situazione da parte di individui la cui vita è tenuta in ostaggio da forze al di fuori del loro controllo. L’articolo alterna le interviste ai lavoratori con i dati del settore, esaminando non solo l’impatto dei controlli algoritmici sui lavoratori stessi (noti come “motociclisti” perché consegnano cibo e altre merci guidando scooter elettrici), ma anche i modi in cui gli attori esterni contribuiscono a questo sistema, e che sono a loro volta da esso controllati.

Poiché si tratta di un pezzo particolarmente lungo, sarà utile prima fornire ai lettori un riepilogo dei contenuti. La sezione di apertura, “Ordine ricevuto”, racconta la crescente pressione esercitata sui riders dalla riduzione dei tempi di consegna. Poiché i processi di apprendimento automatico spingono verso tempi di consegna sempre più brevi, un risultato celebrato come un trionfo della tecnologia dai creatori dell’algoritmo, i guidatori non hanno altra scelta che violare i sistemi di controllo del traffico. Le sezioni successive “Navigazione”, “Azione sorridente e “Valutazioni a cinque stelle”, approfondiscono le minacce alla sicurezza pubblica create da questo processo e l’ulteriore spostamento di responsabilità dalle aziende ai riders.

Heavy Rain” inizia a mettere in discussione questo “trionfo della tecnologia”, rivelando che un singolo evento meteorologico è sufficiente a rovesciare l’utopia di efficienza degli algoritmi. Come molti presunti “sistemi intelligenti”, gli algoritmi delle piattaforme richiedono l’intervento umano per funzionare. È qui che si apre il sipario, con un supervisore di Ele.me che ammette che questo intervento è fatto per rendere più difficili le condizioni dei lavoratori. In definitiva, coloro che hanno il potere di cambiare il sistema hanno scelto di non fare nulla – o addirittura di esercitare quel potere per spingere ulteriormente i riders ai limiti delle loro capacità alla ricerca di un profitto ancora maggiore.

“Navigazione” mostra come l’uso di un sistema algoritmico consenta alla piattaforma di generare richieste che sarebbero irragionevoli da parte di un altro essere umano, inclusa la guida contro il flusso del traffico, il raggiungimento di tempi di consegna che sarebbero possibili solo volando e persino attraversando i muri. “Games” indaga ulteriormente gli impatti del controllo algoritmico, sostenendo che la ludicizzazione dei salari dei ciclisti dà l’impressione di una maggiore indipendenza per i lavoratori, mentre di fatto li sottopone a un sistema di controllo che plasma la loro stessa percezione della realtà.

Le sezioni “Ascensori”, “Custodi”, “Coca-Cola e “Peppa Pig” approfondiscono, rispettivamente, le relazioni dei riders con la direzione dell’edificio, i proprietari di ristoranti e i clienti. Ogni relazione rappresenta una variabile nel processo di consegna che i ciclisti, di fronte ai tempi di consegna assegnati dagli algoritmi, hanno l’onere di gestire. Spesso queste variabili richiedono l’esercizio di uno sforzo emotivo e la sottomissione di se stessi da parte dei lavoratori a un sistema dominato dai capricci del consumatore e dalla produzione di prodotti sui quali non hanno alcun controllo. In particolare, “Coca-Cola e Peppa Pig” dimostra come gli algoritmi modellano la realtà non solo per i riders, ma anche per i consumatori: un cliente osserva che mentre in precedenza era stato abbastanza felice di guardare la TV mentre aspettava il suo cibo, ora lo trova insopportabile a causa dei tempi di consegna irrealistici forniti dalla piattaforma.

Le sezioni “Scooter”, “Smiling Action”, “Five Star Ratings” e “The Final Safety Net”, esaminano i sistemi che spingono i riders ad accollarsi ulteriori rischi, assicurando che i profitti continuino ad accumularsi sulle piattaforme. In “Smiling Action”, Renwu mette in luce i tentativi delle piattaforme di respingere le critiche del pubblico riguardo agli incidenti che coinvolgono i conducenti delle consegne con controlli di sicurezza casuali (a cui Meituan ha dato il nome orwelliano di “Smiling Action”) che sottopongono ulteriormente i motociclisti a sistemi di controllo spietati e incoerenti.

Le interviste con gli agenti di polizia nella sezione “Five Star Rating” dimostrano che le risposte del governo hanno ulteriormente spostato la colpa e la responsabilità per le minacce alla sicurezza sui riders. Piuttosto che costruire infrastrutture di trasporto più adatte a un numero crescente di riders che effettuano le consegne, o emanare leggi che affrontano il problema degli algoritmi che spingono i motociclisti a violare le leggi sul traffico, le città hanno invece optato per sorvegliare e punire i singoli ciclisti. Sebbene gli ufficiali di polizia intervistati esprimano simpatia per la difficile situazione dei riders, essi continuano a far rispettare le leggi ai danni di questi ultimi. Mentre puniscono i riders per le infrazioni, questi ufficiali spesso si assumono il compito di consegnare cibo, assicurando la continuità del sistema, che rimane incontrastato. Gli ufficiali alla fine sono diventati anche essi coscritti dell’algoritmo. “The Final Safety Net”, che si occupa delle inadeguatezze e della negazione della copertura assicurativa da parte delle piattaforme, illustra ulteriormente la vulnerabilità dei riders in assenza di formali contratti di lavoro.

La sezione di chiusura, “Gioco infinito”, rivolge brevemente la sua attenzione agli stessi programmatori, suggerendo che a loro volta sono intrappolati, al servizio di un sistema più ampio, con un background educativo che li ha lasciati mal equipaggiati per accedere adeguatamente al sistema. Questa sezione allude anche a preoccupazioni più ampie sulla privacy dei dati personali che stanno guadagnando terreno nella Cina continentale, osservando che anche se i dati dei riders vengono utilizzati per perfezionare i sistemi algoritmici di controllo, la proprietà di tali dati rimane in discussione. Alla fine, conclude l’articolo, questi lavoratori sono intrappolati in un “gioco” che non capiscono completamente, con poca scelta se non quella di continuare a giocare.

Le proteste dei riders delle consegne waimai2 avevano già iniziato a intensificarsi prima dell’attuale maggiore copertura mediatica riguardo alla loro difficile situazione. Gli scioperi dei riders della consegna di cibo sono aumentati di oltre quattro volte tra il 2017 e il 2019, passando da dieci scioperi segnalati nel 2017 ad almeno 45 nel 2019 secondo il China Labour Bulletin. L’abuso di gig worker e corrieri è una questione globale e intersettoriale. Anche i riders in Brasile, Corea del Sud, Tailandia e Romania si sono uniti alle proteste per chiedere migliori condizioni di lavoro. Più di recente, sono aumentati anche gli scioperi e le proteste dei corrieri kuaidi, molti dei quali consegnano ordini dalla fiorente industria cinese dell’e-commerce, con Service Worker Notes che proprio quest’anno hanno riportato migliaia di post online riguardanti scioperi dei corrieri. Analogamente alle piattaforme di consegna di cibo, le piattaforme dei corriere hanno cercato di espandere la propria quota di mercato tagliando i prezzi di consegna, trasferendo tali tagli ai salari dei propri lavoratori mentre le entrate delle piattaforme continuano a crescere. I lavoratori di diverse importanti società di corrieri stanno protestando per gli arretrati salariali. […]

Abbiamo scelto di tradurre questo articolo non solo per la sua utile indagine sulla struttura della governance algoritmica del lavoro, ma anche perché la sua pubblicazione – e la diffusione di analoghi rapporti sui lavoratori precari – segna un significativo evento per ciò che riguarda le condizioni degli addetti alle consegne e la conoscenza delle piattaforme che li impiegano. Mentre nel nostro prossimo articolo esploreremo la storia e le dinamiche attuali del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme” in Cina, con un occhio al fatto che l’attuale riconoscimento da parte dei media dei lavoratori delle piattaforme potrebbe essere un segnalare circa la fine dell’espansione di tutte le piattaforme industriali, qui vogliamo sottolineare il terreno conflittuale che ha dato origine a queste forme di segnalazione: l’indagine di Renwu arriva mentre la lenta ripresa della Cina dopo l’epidemia di COVID-19 ha visto un ampliamento della disuguaglianza. Lo stimolo del governo si è concentrato principalmente sulle imprese e sui consumatori della classe media, piuttosto che sui lavoratori migranti che hanno visto la perdita di reddito più significativa (fino al 75% durante l’apice dei blocchi pandemici a febbraio e marzo, secondo la Stanford University’s Rural Education). Allo stesso tempo, funzionari come il Premier Li Keqiang hanno indicato il settore informale come la soluzione alla crescente disoccupazione cinese.

Infine, l’indagine di Renwu sugli impatti negativi del duopolio Meituan/Ele.me arriva mentre il governo cinese sta cercando di affermare un maggiore controllo sulle principali società tecnologiche, con le nuove linee guida antitrust rilasciate il 10 novembre che prendono di mira i giganti della tecnologia tra cui Meituan. Lo stesso giorno, un post dell’Amministrazione Cyberspace ha esortato le aziende tecnologiche cinesi a non consentire ai consumatori cinesi di diventare “prigionieri degli algoritmi”, facendo eco al framing utilizzato nell’articolo di Renwu. In definitiva, questo rapporto dimostra che la crescente dipendenza dal settore informale senza reti di sicurezza sociale rischia di provocare una diminuzione dei salari e una maggiore vulnerabilità per i lavoratori. Inoltre, indirizzando lo stimolo economico attraverso le imprese come Ele.me e Meituan, lo Stato sta favorendo l’ulteriore concentrazione di ricchezza nelle mani di poche grandi aziende. Concentrandosi su un settore che trasferisce intenzionalmente il rischio sui lavoratori, l’articolo di Renwu dimostra chiaramente le ripercussioni negative sui lavoratori di inadeguate reti di sicurezza sociale e scarsa protezione, nonché il controllo crescente e in gran parte incontrollato delle aziende tecnologiche sulla natura della realtà e dei consumi.

(1) Il cosiddetto capitalismo delle piattaforme non celebra il dominio dell’algoritmo, come suggerisce un pensiero feticisticamente orientato che tanto successo ha presso l’opinione pubblica e l’opinione scientifica (due facce della stessa medaglia): esso attesta piuttosto il dominio sempre più invasivo, capillare e globale (totale) del rapporto sociale capitalistico. Su questi temi rinvio a:

L’ALGORITMO DEL CONTROLLO SOCIALE
SORVEGLIARE E PROFITTARE
SUL POTERE SOCIALE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA

(2) Un solo esempio. La lotta interimperialistica mondiale per la spartizione dei mercati, delle materie prime e del plusvalore, e per la supremazia finanziaria, tecnologica e scientifica è presentata dagli amici della Cina come una «grandiosa lotta di classe». Come si spiega questa gigantesca quanto grottesca sciocchezza? Essa si spiega alla luce di un’altra gigantesca quanto odiosa panzana ideologica: la natura socialista, sebbene “con caratteristiche cinesi” (sic!), del regime cinese. Anche coloro che nella sinistra occidentale sostengono «l’inesorabile deriva capitalistica della Cina» muovono dal falso presupposto di un passato socialista che in Cina non c’è mai stato nemmeno ai tempi di Mao Tse-tung, il “padre” della rivoluzione nazionale-borghese nel grande Paese asiatico. Rinvio ai miei diversi scritti sulla Cina. Ne cito solo alcuni: Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

LA “DOPPIA CIRCOLAZIONE” DELLA CINA CAPITALISTA

Dal 26 al 29 ottobre si è tenuto a Pechino il 5° Plenum del 19° Comitato centrale del Partito Capitalista Cinese che aveva il compito di stabilire le linee guida del 14° Piano quinquennale (2021-2025), e quelle di una strategia di medio termine ribattezzata Visione 2035. Cerchiamo di capire di cosa si è discusso in questo Plenum che molti analisti ed esperti di “cose cinesi” hanno già definito storico, districandoci, come sempre in questi casi, tra dichiarazioni realistiche dei Cari Leader e propaganda politico-ideologica a uso interno e internazionale. Si tratta di una prima impressione “a caldo”, e quindi tutta da verificare.

Il comunicato ufficiale rilasciato il 29 ottobre sostiene che entro il 2035 il Pil pro capite della Cina dovrà raggiungere il livello delle «nazioni moderatamente sviluppate» e la sua classe media espandersi in modo significativo (oggi essa ammonta a circa 400 milioni di persone). «L’autosufficienza tecnologica, principale fronte della sfida con gli Stati Uniti, viene definita come il “supporto strategico” decisivo per lo sviluppo. Arriveranno massicci investimenti per realizzare “passi avanti maggiori” che portino la Cina “nella prima linea dei Paesi innovativi”. Il plenum ha riconosciuto che per raggiungere questi traguardi ci sarà bisogno di proseguire con le riforme, citando quella dei “diritti di proprietà”, e insistito molto su un concetto bilanciato e sostenibile di crescita. La leadership cinese vuole ridurre le disparità tra città e campagne, promuovere una nuova urbanizzazione, continuare a diminuire le emissioni (anche qui nessun numero, ma Xi ha parlato di “neutralità” entro il 2060)» (La Repubblica). Per adesso si tratta di semplici titoli, dell’enunciazione degli obiettivi che si intendono conseguire, mentre per una più concreta definizione della nuova linea politico-economica, caratterizzata da tempi certi e da numeri precisi, bisognerà attendere qualche mese. Per adesso siamo ancora alla “filosofia”, per così dire, aspettando la sua prossima “messa a terra”.

«Per la prima volta nella sua storia, il Pcc ha steso un preciso programma per creare una “grande cultura socialista” entro il 2035, tappa intermedia per arrivare a essere “una moderna nazione socialista” nel 2049. Pechino vuole promuovere il soft-power cinese, cavalcando ad esempio i successi che il regime rivendica nella lotta alla pandemia da coronavirus. La leadership del Partito è stata chiara: la vittoria contro il Covid-19 e il recupero dell’economia mostrano la superiorità del sistema politico della Cina» (AsiaNews). Se di superiorità si deve parlare, ed è tutto da vedere, almeno nel medio e lungo periodo, si tratta in ogni caso di una superiorità tutta interna al capitalismo mondiale, alla competizione interimperialistica, checché ne dicano gli anticomunisti (che non sanno nulla di comunismo, sebbene giustamente lo temono come la peste) e i tifosi del «socialismo con caratteristiche cinesi» (che di comunismo ne sanno ancora di meno), che sono poi le due facce della stessa escrementizia medaglia. Non a caso ho parlato all’inizio di Partito Capitalista Cinese, perché da Mao Tse-tung a Xi Jinping di capitalismo “con caratteristiche cinesi” si tratta, sebbene nelle diverse forme che esso ha assunto in Cina dal 1949 in poi, cioè lungo il travagliato e assai turbolento (anche in termini di conflitti politici e sociali, con relativi morti, feriti e incarcerati) processo di formazione e consolidamento della moderna nazione cinese (1).

«Le autorità non trascurano il potenziamento militare. Il piano quindicennale prevede la trasformazione delle Forze armate in una moderna macchina da guerra entro il 2027: è la prima volta che un documento del genere contiene un riferimento allo sviluppo militare. Gli analisti osservano che l’idea di Pechino è quella di avere entro tale data un esercito allo stesso livello degli Usa». A questo proposito occorre ricordare che la sessione plenaria annuale del comitato centrale del Pcc è stata preceduta da una celebrazione dei 70 anni dall’ingresso della Cina nella Guerra di Corea (ottobre 1950) davvero paradigmatica circa l’attuale postura strategica del gigante asiatico nei confronti degli Stati Uniti. Ricordando la guerra «per resistere all’aggressione americana e aiutare la Corea», il Presidente Xi Jinping ha dichiarato: «Il popolo cinese sa che bisogna usare una lingua che gli invasori possono capire, combattere la guerra con la guerra, fermare l’aggressione con la forza, guadagnare la pace con la vittoria. Gli eroici soldati cinesi hanno distrutto il mito dell’invincibilità dell’esercito americano». Naturalmente parlare del passato è servito al Presidente cinese per chiarire come oggi si configura la posizione della Cina nei confronti del suo nemico strategico principale: gli Stati Uniti d’America, appunto. E per meglio chiarire il concetto, Xi ha aggiunto: «Il popolo cinese non vuole creare problemi, ma non ha paura, le nostre gambe non tremeranno, le nostre schiene non si piegheranno». Un messaggio forte e chiaro, non c’è dubbio. Il tono particolarmente aggressivo e propagandistico del Caro Leader è tanto più significativo se si riflette sul fatto che quasi mai la celebrazione di quell’evento straordinario nella storia della Cina moderna ha toccato i livelli propagandistici e nazionalisti di quest’anno; addirittura negli anni Settanta del secolo scorso, al tempo della “distensione” tra Washington e Pechino, quella ricorrenza subì un evidente declassamento. Allora il nemico numero uno della Cina era l’Unione Sovietica. Solo dopo la sanguinosa repressione del movimento sociale del 1989 (Piazza Tienanmen) quella ricorrenza fece registrare un’impennata nazionalistica, per poi ritornare rapidamente ai toni più moderati e concilianti che abbiamo registrato nel corso della lunghissima fase di crescita economica del Paese che ha portato il Dragone ai vertici del capitalismo mondiale. Dopo molti anni di “pacifica collaborazione”, il barometro dei rapporti Cina-Usa tornano a indicare brutto tempo, e questo a prescindere dalla Presidenza Trump.

Limes

Intanto si intensifica, con alterne fortune, l’attivismo politico-militare degli Stati Uniti in un’area che la Cina considera il proprio cortile di casa: «L’ottobre appena concluso ha segnato in modo marcato l’impegno americano nell’indo-pacifico ed è stato il mese più proficuo (tra quelli recenti) per strategia e tattica statunitense, che vede l’impegno nella regione come la più logica componente geopolitica del confronto globale con la Cina. Sulla colonna delle vittorie dirette, Washington segna certamente l’accordo di cooperazione militare con Nuova Delhi. […] Nella costruzione del puzzle strategico americano nell’Indo-Pacifico manca un tassello importante: la Corea del Sud. La posizione di Seul è riassumibile nelle parole che il presidente Moon Jae-inn ha affidato a un suo consigliere: “Se gli Stati Uniti ci costringessero ad aderire a un’alleanza militare contro la Cina, sarebbe un dilemma davvero esistenziale per noi”». (Formiche, novembre 2020).

Ma ritorniamo ai risultati del Quinto Plenum, la cui discussione si è incardinata intorno a una parola chiave: shuang xunhuan (doppia circolazione). Di che si tratta?

A leggere i resoconti di molti analisti, pare che il Partito fedele al Xi Jinping-Pensiero voglia orientare il Paese in direzione di una sua chiusura autarchica (suggestione che richiama i “fasti” del maoismo), cioè verso una sorta di capitalismo in un solo Paese, a prevalenza statale, in grado di innalzare una sorta di muraglia economica e tecnologica che metta la “pacifica e armoniosa” società cinese al riparo dagli shock della globalizzazione e dall’iniziativa ostile dei cattivoni a stelle e strisce. Ma stanno davvero così le cose?

Nella sua ultima visita nel Guandong (13 ottobre, celebrazione del 40° anniversario dal lancio della Zona economica speciale di Shenzhen), Xi Jinping ha chiarito il concetto di doppia circolazione (intendendo per circolazione la produzione, la distribuzione e il consumo di “beni e servizi”): «È necessario promuovere la formazione di un nuovo modello di sviluppo in cui il grande ciclo domestico sia il corpo principale e nel quale la doppia circolazione si promuove a vicenda». Filippo Fasulo prova a chiarire meglio: «Nella visione proposta da Xi Jinping, per doppia circolazione si intende una dialettica fra la circolazione economica domestica e quella internazionale. Per visualizzare il tema si pensi che il termine cinese è lo stesso utilizzato quando si parla di “circolazione sanguigna”. In parole più semplici, viene messa in relazione l’integrazione globale – la circolazione esterna – con i consumi domestici – la circolazione interna. La dinamica da gestire, dunque, è quella fra una economia dipendente dalle esportazioni e, quindi, dalla domanda internazionale, e un ruolo più ampio accordato ai consumi interni. L’indicazione di oggi è che, nell’attuale contesto di incertezza dovuto alla pandemia e alle dispute commerciali, si debba puntare soprattutto sulla circolazione interna» (ISPI, 30/9/2020). In astratto la cosa appare abbastanza intuitiva, mentre sul piano pratico la questione si presenta oltremodo complessa e contraddittoria, a partire dal fatto che ancora oggi Cina e Stati Uniti sono molto integrati dal punto di vista commerciale, tecnologico (2) e finanziario. Il temuto o auspicato disaccoppiamento (decoupling) tra le economie dei due Paesi al vertice del capitalismo mondiale appare quantomeno “problematico”: «Secondo i leader cinesi, “protezionismo e unilateralismo” – un indiretto riferimento a Washington – sono le principali minacce esterne alla crescita economica del Paese, messa in pericolo anche dagli squilibri economici interni. Il “decoupling” (separazione) dagli Stati Uniti è visto però come “irrealistico”: nel terzo trimestre dell’anno gli scambi commerciali tra le due potenze sono cresciuti in effetti del 16%» (AsiaNews, 30/10/2020).

Anche sul piano finanziario l’integrazione tra i due Paesi ha raggiunto un livello assai rilevante, e tutto lascia prevedere che lo sarà molto di più nel prossimo futuro. Di certo il mercato finanziario cinese si sta muovendo in quel senso, come dimostra per ultimo il “caso Alibaba” (3).

«L’americanissima Bloomberg il 27 ottobre ha pubblicato un articolo in cui afferma che a settembre c’è stato un import cinese di merci americane record, 10 miliardi. Gli acquisti di beni energetici sono aumentati a settembre del 75%, con import record di petrolio. Il valore dei prodotti agricoli è aumentato del 60%, mentre l’import della soia, cuore nevralgico degli Stati agricoli americani, è aumentato del 600%. Sono aumentati enormemente anche gli acquisti di auto e cotone, ma Bloomberg fa sapere che le spedizioni, e le prenotazioni di merci americane,  a settembre, che arriveranno a ottobre o novembre, sono da record. Ricordiamo che a settembre l’import totale di merci dal mondo è aumentato del 14%, i dati delle merci americane ci dicono che gli Usa in Cina stanno enormemente sovraperfomando rispetto a rivali commerciali storici come la Germania. La strategia di Trump di reindustrializzazione degli Usa attraverso pressioni per un fair trade trova riscontro, dopo due anni burrascosi, in Cina (anche se esportano soprattutto prodotti agricoli, come un paese del terzo mondo…), che riconoscono la legittimità delle sue richieste. Forse non vedono di buon occhio un democratico, magari burattino dei guerrafondai alla Hillary Clinton, alla Casa Bianca. Preferiscono un ruvido uomo d’affari. Cosa combina all’interno del proprio paese non è affar loro, ma sono pronti a sfruttarne le debolezze. Certo, Trump strepita contro il “virus cinese” nella campagna elettorale, ma loro non ne fanno un dramma, sono solo parole. Sotto sotto si va avanti con gli accordi» (Contropiano). L’autore dell’articolo, che a quanto pare è un ammiratore, se non addirittura un fervente sostenitore, del Capitalismo/Imperialismo cinese, conclude come segue: «Perché loro possono e noi no? Perché non siamo un Paese sovrano e la classe dirigente, da decenni, è espressione di quella che altrove – in America Latina, per esempio – viene chiamata borghesia compradora. Letteralmente in vendita, subordinata oltre ogni limite, che assume le istanze delle potenze estere come espressione della sua politica (vedi Di Maio). Trump dimostra che la politica è tutt’altro, e gli affari internazionali non c’entrano niente con le sparate propagandistiche. Forse, se non crolla, dopo il 4 novembre farà una telefonata a Xi Jinping e Putin….». Vuoi vedere che i socialsovranisti di casa nostra, il cui “realismo geopolitico” ricorda molto quello della destra repubblicana statunitense, tifano, sotto sotto (ma poi non così tanto sotto), per Trump? Io lo sospettavo, diciamo così.

La “doppia circolazione” spiegata da Andrew Sheng, Distinguished Fellow all’Asia Global Institute dell’Università di Hong Kong, e da Xiao Geng, professore e direttore del Research Institute of Maritime Silk-Road dell’Università di Pechino (si tratta quindi del punto di vista cinese): «Per cominciare, la pandemia COVID-19 ha evidenziato quanto siano vulnerabili alle interruzioni le nostre catene di approvvigionamento globali “just in time”, cosa che ha alimentato le richieste di “de-globalizzazione”. Allo stesso tempo, le tensioni con gli Stati Uniti, il più grande partner commerciale della Cina, stanno aumentando. Il disaccoppiamento economico ora sembra più probabile che mai. La strategia della doppia circolazione della Cina è una risposta pragmatica alle pressioni interne ed esterne in rapida evoluzione che il Paese deve affrontare. L’obiettivo dei responsabili politici è aumentare la catena di approvvigionamento e la resilienza del mercato sfruttando l’enorme popolazione cinese di 1,4 miliardi, inclusi 400 milioni di consumatori della classe media. […] La strategia della doppia circolazione aiuterà, creando mercati nazionali più liberi e più unificati per il capitale fisico, finanziario e umano, i prodotti, i servizi, la tecnologia e le informazioni. Ma rafforzare i cicli interni di produzione e consumo non significa distruggere le reti di commercio estero, investimenti, turismo e istruzione; al contrario, la Cina è destinata a continuare ad aprire la sua economia, in particolare il suo mercato finanziario. Piuttosto, la doppia circolazione significa che gli scambi esterni saranno espansi e approfonditi in modi che completino l’economia nazionale. Se il resto del mondo vorrà cooperare in questi termini per la Cina andrà bene. In caso contrario, la Cina farà affidamento sui propri formidabili punti di forza per sostenere la propria crescita e sviluppo: un’ampia base di consumatori, capacità innovative in rapida crescita, eccetera. In poche parole, se il mondo non è pronto per la cooperazione, la Cina si adatterà alla polarizzazione» (CNA, 4/10/2020).Per Andrew Sheng e Xiao Geng il rafforzamento del mercato interno della Cina non significa dunque arrestare o sottovalutare il commercio con l’estero, ma piuttosto che gli scambi con l’estero verranno ampliati e approfonditi in modi che completino l’economia interna.

Xi Jinping da parte sua ha voluto chiarire che la doppia circolazione non ha una natura tattica di breve respiro, non è stata cioè pensata come risposta a problemi contingenti, superati i quali lo sviluppo dell’economia cinese riprenderà il cammino intrapreso nel lontano 1978, quando al III Plenum dell’XI Comitato Centrale si diede avvio alla politica di “riforma e apertura” di Deng Xiaoping; essa segna invece una vera e propria svolta strategica nella linea di sviluppo della società cinese. Detto questo, il conflitto commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti degli ultimi anni e la pandemia che ha avuto proprio nella Cina il suo luogo di origine hanno certamente accelerato processi sociali in corso già da tempo e fatto maturare decisioni politiche di cui si parla già da qualche anno. Scrive Filippo Santelli: «Non è una novità: da tempo il Partito comunista sta cercando di pilotare la transizione dell’economia cinese dal modello low cost “fabbrica del mondo” a uno basato su innovazione e consumi. La “doppia circolazione” rilancia l’obiettivo, al momento incompiuto e reso ancora più urgente dalla recessione. virale e dalla sfida innescata dagli Stati Uniti. L’ambiente esterno presenta grandi rischi, sotto la spinta di Washington, ma non solo, il mondo prova a diminuire la propria dipendenza economica dalla Cina. L’unico modo per tenere a giri elevati il motore della crescita è dare più peso alla circolazione interna (pur senza chiudere le porte al mondo, ma anzi incentivando l’afflusso di competenze e capitali di cui il Paese ha bisogno)» (La Repubblica, 29/10/2020).

La controffensiva commerciale americana – e in parte europea – e la crisi pandemica hanno dunque accelerato processi economici e scelte strategiche maturati nel corso di oltre un decennio. Le prime avvisaglie della “grande transizione” (dal primato delle esportazioni al primato dello sviluppo interno) si possono far risalire alla crisi economica internazionale del 2008/2009, quando la contrazione della domanda mondiale costrinse la Cina a praticare una politica di massicci “stimoli economici” che ha portato l’economia del Paese sul poco virtuoso sentiero dell’indebitamento e della sovrapproduzione. Nel 2015 si è iniziato a parlare in Cina di una “Nuova Normalità”, ossia di una crescita economica basata sulla produzione di qualità (vedi il progetto Made in China 2025) e sempre più orientata al mercato interno – secondo il modello della China International Import Expo, prima fiera delle importazioni che si tiene a Shanghai dal 2018. L’anno scorso, l’interscambio commerciale con l’estero equivaleva al 32% del prodotto interno lordo cinese, esattamente la metà del picco del 64% raggiunto nel 2006. «Ma per mantenere la stabilità sociale a dispetto degli inevitabili costi sociali di una simile metamorfosi, sarà necessaria una “svolta politica”, una decisa oscillazione del tradizionale pendolo che segnala il clima politico all’interno del Partito dal mercato verso lo stato. In questa nuova fase di “instabilità” e “incertezza” i 400 milioni di persone diventati classe media negli ultimi anni non sono più sufficienti ad alimentare il “sogno cinese” promosso da Xi Jinping. Nel 2019, i consumi hanno rappresentato il 55,4% del Pil (contro il 49.3% nel 2010), ancora decisamente inferiori rispetto al 70-80% tipico delle economie avanzate. E, più che in tanti altri paesi – a causa della loro spiccata tendenza al risparmio – quella post-Covid si preannuncia come una lunga fase di stagnazione dei consumi dei cinesi, particolarmente restii a spendere nel clima d’insicurezza determinato dalla pandemia e dalla guerra commerciale-tecnologica» (M. Cocco, Centro studi sulla Cina contemporanea, 21/10/2020).

Per farci un’idea, anche solo approssimativa, della struttura sociale della Cina e della sua dinamica sono sufficienti questi pochi dati: sono circa 600 milioni i lavoratori che guadagnano meno di 140 dollari al mese, mentre la popolazione rurale ammonta a 560 milioni, pari a circa il 40% della popolazione cinese, una percentuale che distanzia ancora enormemente la Cina dai Paesi capitalisticamente avanzati. D’altra parte quella popolazione costituisce la riserva di manodopera a basso costo di cui hanno estremo bisogno soprattutto le metropoli industrializzate del Paese – a partire dalla provincia del Guandong – e le multinazionali di tutto il mondo che sfruttano manodopera cinese. «Secondo i dati della Fao, fra un lavoratore urbano e uno rurale il rapporto sulla differenza di guadagno mensile è di 1 a 10. Inoltre, questo guadagno rischia di essere ancora minore dato che i contadini non hanno il permesso di vendere la propria produzione in un mercato libero, ma devono consegnarne una parte allo Stato, che la compra a prezzi “calmierati”» (AsiaNews). Nel 2006 vivevano nelle aree rurali 737 milioni di individui, ovvero il 56% della popolazione del Paese. Ogni anno, negli ultimi 14 anni, è dunque emigrato dalle campagne in direzione delle città un esercito di oltre 12 milioni di persone. L’agricoltura impiega circa 211 milioni di lavoratori, pari al 26,5% della forza lavoro totale; i lavoratori occupati nell’industria sono 225 milioni (28,27%) e quelli occupati nei servizi 359 milioni (45,17%), per un totale di 795 milioni (dati stimati per il 2019). Come già detto, la classe media cinese ammonta a 400 milioni di persone.

Se il decollo del capitalismo cinese è avvenuto sotto il segno della sua piena integrazione nel sistema capitalistico mondiale, diventandone un nodo centrale nella cosiddetta catena globale del valore (soprattutto grazie al basso costo della forza-lavoro cinese), oggi l’enfasi è posta dunque sulla “circolazione interna”, ossia sulla produzione, la distribuzione e il consumo di “beni e servizi” interni alla società cinese. Il concetto, come abbiamo visto, è tutt’altro che nuovo, dal momento che è da almeno un decennio che il regime parla della necessità di portare lo sviluppo economico anche nelle vaste regioni interne del Paese non ancora toccate dalla modernizzazione capitalistica. Si tratta di una gigantesca riserva di caccia che offre al Capitale cinese eccezionali opportunità di profitti, anche se questa stessa possibilità promette di innescare processi e contraddizioni sociali di non facile gestione politica. Ma il Partito-Stato è abituato a confrontarsi con i complessi problemi che derivano dallo sviluppo economico, e al momento i risultati danno ragione ai sostenitori di un assetto totalitario delle istituzioni cinesi – senza peraltro azzerare del tutto le opzioni aperte a una riforma, più o meno “timida”, dell’architettura statuale cinese. Per dirla con Michelangelo Cocco, autore di Una Cina “perfetta”. La Nuova era del PCC tra ideologia e controllo sociale (Carocci, 2020), il Partito Capitalista Cinese «si sta affermando come una sempre più efficiente macchina di governance del XXI secolo».

Il mondo “post globalizzazione” di cui tanto si parla negli ultimi tempi registra certamente una battuta d’arresto, o probabilmente solo un rallentamento della macchina capitalistica mondiale, ma sarebbe errato, a mio avviso, dedurne una tendenza “regressiva” generale, ossia un ritorno indietro del capitalismo verso un suo assetto di tipo autarchico. L’adeguamento dei maggiori capitalismi mondiali alla nuova fase non avviene comunque su scala nazionale ma continentale, ed è certamente tale la dimensione non solo dell’Europa centrata sull’asse francotedesco, ma anche della Cina (in realtà di tutta l’area del Pacifico asiatico) e degli Stati Uniti, Paesi che sono sufficientemente grandi e ricchi di risorse umane ed energetiche da poter fronteggiare con buone possibilità di successo la cattiva congiuntura dell’economia internazionale e prepararsi per la nuova fase espansiva della “globalizzazione”.

La produzione e i consumi interni come volano della futura crescita economica della Cina: si tratta di una strategia di ampio respiro e dalle molteplici conseguenze (di natura interna e internazionale) i cui primi effetti si vedranno, se si vedranno, nei prossimi anni e non certo nei prossimi mesi. Infatti, non è facile né senza incognite di varia natura riorientare una macchina gigantesca qual è diventata l’economia capitalistica cinese.

Per Martin Jacques, autore nel 2009 del bestseller When China Rules the World che annunciava la prossima «fine del mondo occidentale e la nascita di un nuovo ordine globale» centrato sul Celeste Imperialismo Cinese, ha di recente dichiarato che «ricorderemo il 2020 come il momento della Grande Transizione. L’anno in cui la Cina ha sostituito gli Stati Uniti come potenza leader del mondo» (Financial Times). Gideon Rachman, editorialista del Financial Times, ha obiettato a Jacques di aver fatto una previsione troppo in anticipo sui tempi che sottovaluta grandemente i fattori di debolezza che continuano a zavorrare la Cina, come le sue arretrate aree rurali interne, la sua periferia non ancora domata sotto il profilo etnico-religioso, una demografia che potrebbe sfuggire al rigido controllo di Pechino e un sistema politico-istituzionale totalitario che alla fine potrebbe non essere più in grado di controllare l’ascesa impetuosa delle classi medie. Il tempo dirà da quale parte sta la ragione – di certo non dalla parte delle classi subalterne che nutrono il Dragone, se le cose rimarranno inalterate sul terreno del conflitto sociale.

(1) Rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla Cina; ne cito solo quattro: Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.
Scriveva Paul M. Sweezy: «Nel caso della Cina, lo sviluppo del Partito comunista cinese ebbe luogo nelle grandi città costiere e si basò soprattutto sulle loro classi operaie, sul modello dei bolscevichi prerivoluzionari in Russia. Ma dopo le sconfitte del 1927 per mano del Kuomintang e dei suoi finanziatori esteri, il Pcc fu costretto a ritirarsi nelle campagne, e dopo di allora, fino alla conquista finale del potere vent’anni dopo, la composizione del movimento rivoluzionario fu per lo più rurale (contadini, senza terra, piccoli borghesi)» (P. M. Sweezy, Il Marxismo e il futuro, 1981, p. 91, Einaudi, 1981). In realtà, il mutamento nella composizione sociale del movimento rivoluzionario cinese registrò una sua ben più radicale trasformazione: infatti, da promettente soggetto rivoluzionario proletario il Partito Comunista Cinese, sottoposto alle “amorevoli” cure dello stalinismo (espressione più emblematica della controrivoluzione in Russia e nel mondo) diventò un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese. In altre parole, con il PCC di Mao non siamo dinanzi a un semplice cambiamento nella strategia politica dei comunisti, intesa ad adeguarla alla nuova situazione; ci troviamo piuttosto di fronte alla morte della natura proletaria (nell’accezione teorico-politica, e non meramente sociologica, del concetto) di quel Partito, nonostante esso conservasse il vecchio nome – secondo l’esempio sovietico.
(2) «Il dato che salta all’occhio, in questo ambito, è quello delle importazioni di circuiti integrati che, con un valore superiore ai 300 miliardi di dollari rappresenta la prima voce dell’import cinese, superiore ai poco meno di 250 miliardi di dollari di petrolio, di cui Pechino guida la domanda mondiale. Inoltre, gli investimenti in innovazione anche nel 2019 hanno superato un tasso di crescita del 10%, indirizzandosi, per l’83,4% allo sviluppo industriale e contribuendo, dunque, alla crescita qualitativa dell’industria cinese. Anche in occasione dello stimolo economico approvato a fine maggio una grande attenzione è stata rivolta alla tecnologia avanzata, promuovendo le cosiddette “nuove infrastrutture” (ferrovie ad alta velocità, 5G, Big Data, AI e colonnine per i veicoli elettrici) per un valore che nel 2020 potrebbe superare i 2.000 miliardi di Rmb» (F. Fasulo, ISPI, 30/9/2020).
(3) «Due giorni dopo l’Election Day negli Stati Uniti, in due borse cinesi inizierà contemporaneamente il più grande collocamento di una new entry – IPO, Initial Pubblic Offering – mai vista sul mercato mondiale. Si tratta di Ant Group, il “braccio finanziario” di Alibaba, fondata dal miliardario cinese Jack Ma poco meno di 20 fa. Si è recentemente ritirato dal management di Alibaba (non dal’azionariato), e possiede ora anche Alipay, la maggiore azienda di pagamento digitale della Repubblica Popolare. Insieme a WeChat, controllata da Tencent Holdings, detiene il 40% del mercato, Alipay il è leader – con il 55% – del pagamento “senza contanti” attraverso la lettura di un codice QR dal proprio Smartphone. Si possono fare acquisti che alle nostre latitudini solitamente vengono effettuati in contante strisciando il proprio cellulare su un quadrato bianco-nero stampato su un semplice pezzo di carta. Il sistema di pagamento attraverso le carte di credito è stato “saltato” dalla Cina, che è passata direttamente al digitale e ai relativi servizi, divenendone per quantità e qualità il leader mondiale. Si può pagare un taxi, un pasto, l’affitto o le bollette… Il suo bacino di utenza è attualmente di 730 milioni di persone al mese; ha creato in pratica un “ecosistema” economico per i beni di consumo affiancando il sistema bancario cinese a controllo pubblico, tendenzialmente indirizzato prevalentemente al finanziamento dell’industria statale e di progetti infrastrutturali. […] Si tratta di un avvenimento in qualche misura “epocale” perché mostra come l’epicentro della finanzia mondiale si stia spostando sempre più verso la Cina, ora in grado di attirare gli investimenti dei big di Wall Street – Citigroup, JP Morgan e Morgan Stanley saranno tra i maggiori beneficiari dell’offerta – e di mettere direttamente sul mercato, ad Hong Kong o nella Cina continentale, alcuni “fiori all’occhiello” della propria economia, mettendo al riparo giganti digitali delle dimensioni di Netease o JD.com da eventuali ritorsioni sui mercati nord-americani» (Internazionale).

Aggiunta

COSA CI DICE L’“INQUIETANTE ” VICENDA DI JACK MA? QUALCHE IPOTESI

La vicenda della mancata quotazione in Borsa (prevista per il 5 novembre contemporaneamente a Shangai e a Hong Kong) di Ant Group, uno dei più grandi operatori finanziari del mondo, si offre a mio avviso come un’eccellente occasione per una più chiara comprensione della dinamica capitalistica cinese, soprattutto nel sempre più dinamico, potente e problematico mercato finanziario, e di come essa impatti significativamente sull’assetto  sociale della Cina in generale, e su quello politico-istituzionale, in particolare. Tensioni sociali e rischi sistemici generati dal processo economico, che potrebbero dar luogo a vasti conflitti sociali, spesso costringono il Partito-Regime (il Partito Capitalista Cinese,il quale con evidenti richiami orwelliani si definisce “Comunista”) a usare il pugno di ferro per governare un Paese che sprizza capitalismo da tutti i pori, con ciò che ne segue – o ne potrebbe seguire – appunto sul piano della sua complessiva tenuta sociale. Le dimensioni contano, eccome, quando si tratta di governare un Paese come la Cina: ad esempio, un conto è la disperazione di qualche milione di piccoli risparmiatori traditi da investimenti non precisamente “oculati”, un conto affatto diverso sarebbe avere a che fare con centinaia di milioni di persone ridotte sul lastrico dal fallimento di una finanziaria, o non più in grado di onorare i loro debiti.

Occorre poi ricordare che dentro il Partito-Regime cinese si sono sempre confrontate e scontrate diverse anime (almeno due: la “Rossa” e la “Nera”, quella più statalista e quella meno statalista, quella più “sovranista” e quella più “globalista”), espressioni di interessi sociali diversi (sempre di stampo rigorosamente capitalistico) e di differenti linee politiche (in economia, in politica estera, nella gestione dei conflitti sociali). Spesso queste “anime” si sono date battaglia anche ricorrendo alla violenza fisica, e quasi sempre con il pretesto della lotta alla corruzione (che comunque in Cina esiste ed è diffusissima a tutti i livelli del regime) e della difesa del “bene comune” – nonché, dulcis in fundo, della sacra indipendenza nazionale. Probabilmente la vicenda di Ant non è estranea al contesto qui sommariamente abbozzato. In ogni caso l’offensiva capitalistica cinese continua su tutti i fronti della competizione interimperialistica, come dimostra per ultimo l’accordo di libero scambio fra la Cina e 15 Paesi dell’Asia e del Pacifico firmato il 15 novembre (*). Anche il fronte della moneta internazionale digitale è ben presidiato dal Celeste Capitalismo: vedremo tra qualche anno con quali risultati. Vincent Lorphellin e Christian Saint-Etienne, sostenitori di un polo imperialista europeo unitario, su un articolo pubblicato da Le Monde qualche settimana fa scrivevano che «la nuova posizione della Cina è una minaccia terminale alla supremazia tecnologica» europea e occidentale. Saprà reagire l’imperialismo occidentale a questa titanica “sfida gialla”? Di certo chi scrive non ha consigli da dare a tal riguardo…

Un articolo pubblicato dal Post il 13 novembre è utile a mio avviso a comprendere un aspetto importante della “problematica” messa in luce dalla vicenda qui ricordata. Ne pubblico ampi stralci.

(*) Secondo le stime iniziali il valore dell’intesa rappresenterà circa il 30% del Pil mondiale, il 50% della produzione manifatturiera mondiale e raggiungerà 2,2 miliardi di consumatori, cioè a dire quasi un terzo della popolazione mondiale. «Il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP) è stato sottoscritto ad Hanoi, in Vietnam, con diversi leader collegati in videoconferenza a causa dell’emergenza Covid-19, e di certo avrà come conseguenza una crescita dell’egemonia commerciale cinese nell’area riducendo la dipendenza di Pechino dagli Usa e dall’occidente ad esempio i prodotti tecnologici. L’India si è chiamata fuori temendo una maggiore dipendenza dalla Cina con la quale rapporti non sono ottimali, mentre all’accordo di libero scambio, che gradualmente comporterà la riduzione della tassazione sui beni importati nell’arco di un decennio ma anche investimenti, commercio elettronico, proprietà intellettuale e appalti pubblici, hanno aderito anche Australia e Nuova Zelanda; ha tuttavia fatto scalpore la partecipazione del Giappone, nonostante le contese con la Cina per alcune isole (Senkaku e Takeshima) e soprattutto per le divisioni per motivi di carattere storico. Il ministero delle Finanze cinese ha commentato che “Per la prima volta Cina e Giappone hanno raggiunto un accordo bilaterale di riduzione delle tariffe, raggiungendo una svolta storica”» (Notizie Geopolitiche). Per Nicolas Beverez (Le Figaro), «La nascita dell’Asian Free Trade Area è una grande vittoria per la Cina, che riesce con il RCEP dove gli Stati Uniti avevano fallito con il Patto Trans-Pacifico. L’accordo dimostra che il libero scambio non è moro, e che il protezionismo, a differenza di quanto spesso si sostiene, non è morto. L’Asia, che si considera la regione del futuro, ritiene che il libero scambio è il futuro non solo dal punto di vista economico, ma anche da quello geostrategico. Nel 1929 Henry Ford disse al Presidente Hoover che il protezionismo è una stupidaggine economica. Xi Jinping lo ha compreso perfettamente. È tempo che l’Europa e gli Stati Uniti riscoprano il libero scambio se intendono rispondere con successo al capitalismo totalitario cinese». Ci voleva il “compagno” Xi Jinping per rianimare i tifosi del libero scambio!

«Ant è una società di fintech, cioè un’azienda tecnologica che offre servizi finanziari per il pagamento, il credito e gli investimenti. La sua quotazione in Borsa darebbe stato il più grande debutto di sempre. […] Ma meno di 48 ore prima del debutto, la borsa di Shangai ha annunciato a sorpresa che avrebbe ritirato la quotazione di Ant. Le regolamentazioni del settore sono cambiate improvvisamente, hanno detto i funzionari di borsa, e la quotazione deve essere rimandata. Poco dopo ha fatto lo stesso anche la borsa di Hong Kong. Il ritiro della quotazione di Ant è stato un fiasco per Jack Ma, l’uomo più ricco della Cina, che ha fondato l’azienda di ecommerce Alibaba e che ha creato e controlla Ant. È stato un fiasco anche per l’economia cinese, che in Ant aveva un campione nazionale: l’ascesa dell’azienda era considerata come un segnale di forza del settore finanziario, e le sue disgrazie sono state viste all’estero come un sintomo di immaturità del mercato. La ragione per cui la quotazione è stata ritirata con così poco anticipo è ancora incerta. C’è una ragione ufficiale: appena prima della quotazione, il governo cinese ha annunciato un cambiamento molto importante delle regole per gli operatori finanziari digitali. Secondo alcuni calcoli, per rispettare i nuovi criteri Ant dovrebbe aumentare il suo capitale di 20 miliardi di dollari.

Ma le motivazioni di questo cambiamento improvviso sono difficili da comprendere, perché gran parte delle decisioni di alto livello nella politica cinese è presa in maniera riservata e non è resa pubblica. Molti media  indicano un discorso tenuto da Jack Ma il 24 ottobre a Shanghai come una delle probabili cause: durante il discorso, tenuto durante un forum al quale partecipavano le più importanti personalità politiche ed economiche del paese, Jack Ma  ha criticato con parole durissime le regolamentazioni del settore finanziario, dicendo che le autorità hanno una “mentalità da banco dei pegni” che non consente l’innovazione. Questo discorso ha fatto molto arrabbiare le autorità cinesi ed è arrivato fino al presidente Xi Jinping. Secondo il Wall Street Journal, sarebbe stato lui in persona a ordinare l’apertura delle procedure che avrebbero portato, da lì a poco, al ritiro della quotazione. Ci sono però anche ragioni più profonde, che in questi giorni sono state raccontate da analisti ed esperti del settore.

[…] Alibaba fu fondata nel 1999 da jack Ma, allora un insegnare di inglese, e non deve essere confusa come “l’Amazon cinese”. Due dei suoi prodotti più importanti sono Taobao e Tmall, due piattaforme che rispettivamente consentono la compravendita tra privati e tra aziende e consumatori. Per facilitare queste transazioni, nel 2004 Jack Ma creò Alipay, un servizio per facilitare e garantire i pagamenti sulle sue piattaforme, simile per certi aspetti a PayPal. Il successo di Alipay fu così grosso che nel 2011 Jack Ma decise di separare Alipay da Alibaba, trasformandola in un’azienda indipendente. […] Porter Erisman, ex vicedirettore di Alibaba e autore di un libro sul tema, disse che secondo Jack Ma Alipay aveva le potenzialità per diventare “la banca più grande della Cina”. In vari discorsi pubblici Jack Ma ha detto che l’obiettivo di Alipay era quello di rivoluzionare il mercato finanziario cinese. Nel 2008 disse che gli istituti finanziari non erano in grado di sostenere l’imprenditoria perché le regole erano soffocanti: “Se le banche non cambiano, cambieremo noi le banche”. Alipay, che nel frattempo è diventata Ant c’è riuscita. L’azienda ha 700 milioni di utenti e nel tempo ha creato prodotti che sono stati capaci di cambiare in maniera radicale il mercato finanziario cinese. Nel 2013 presentò Yu’e Bao, un fondo di investimento monetario con caratteristiche mai viste prima: il limite era appena di 1 yuan (cioè 0,13 euro), i rendimenti garantiti erano belli alti e si potevano ritirare i propri soldi in qualsiasi momento, senza penali. Il tutto si poteva fare comodamente, tramite app sul telefono. Nel giro di un mese i cinesi avevano già investito in Yu’e Bao 1,6 miliardi di dollari, e nel marzo del 2018 era diventato il più grande fondo di investimento del mondo, con 267 miliardi di dollari di asset. Il fondo era così grande che a un certo punto le autorità cinesi temettero che potesse costituire un rischio per la tenuta dell’intera economia (se ci fossero stati problemi con Yu’e Bao, centinaia di milioni di piccoli risparmiatori sarebbero stati rovinati), e intervennero: Ant cambiò alcune regole in Yu’e Bao a aprì la sua piattaforma ad altri, riducendo la dimesione del fondo e di conseguenza il rischio.

Episodi come questo, in cui Ant spinge al limite l’innovazione nel sistema finanziario, fino a generare possibili rischi sistemici, sono una parte consistente dell’azienda.
Secondo i documenti depositati da Ant prima della sua mancata quotazione, l’azienda opera in quattro settori principali: il credito, che genera il 39 per cento delle entrate, i pagamenti (36 per cento delle entrate), gli investimenti (16 per cento) e le assicurazioni (8 per cento). Già da qui si può capire che Ant si comporta in gran parte come una banca. Il settore di gran lunga più redditizio, quello che negli ultimi anni ha generato poco più di metà della crescita di Ant, è il credito. […] Nel settore del credito Ant ha due prodotti principali: Huabei, un sistema di carte di credito virtuali, e Jiebei, un sistema di microprestiti. Huabei fornisce credito a un tasso di interesse annuale del 15 per cento, che è appena sotto la soglia dello strozzinaggio secondo la legge cinese. I due servizi, assieme, negli ultimi 12 mesi hanno erogato credito e prestito a 500 milioni di utenti: è più di un terzo della popolazione di tutta la Cina, e la metà di tutti gli utenti di internet cinesi.

Queste cifre enormi sono giustificate dal fatto che, quando si parla di sistemi di pagamento e di finanza, la Cina è passata direttamente dal contante al digitale, senza sviluppare un sistema diffusi di carte di credito e di debito. Per i cittadini cinesi, il modo più facile per ottenere credito o piccoli prestiti è passare da servizi digitali e facilmente accessibili tramite app come Huabei e Jiebei, non dalle banche. I servizi di credito di Ant hanno avuto così tanto successo che anche le altre grandi compagnie di internet sono entrate nel mercato, e ben presto Tencent, Baidu e JD, tra le altre, hanno presentato i loro sistemi di microprestiti. […]

Una situazione del genere è già abbastanza peculiare: sarebbe come se in Occidente Amazon, Google e facebook si mettessero a offrire prestiti alle famiglie, pubblicizzandoli anche in maniera piuttosto aggressiva. La media dei prestiti concessi da Ant è di 300 dollari: sembra poco, ma bisogna ricordare che la stragrande maggioranza della popolazione cinese vive in condizioni modeste. Fuori delle grandi città della costa 300 dollari sono più o meno le entrate medie di un mese, e questo significa che molti prestiti concessi da Ant hanno un certo grado di rischio. Questo ha fatto preoccupare le istituzioni finanziarie, anche perché negli scorsi anni in Cina ci sono statti scandali pesanti che hanno coinvolto operatori finanziari rapaci o inesperti che hanno rovinato molte persone con servizi di prestiti sconsiderati. Ant inoltre aveva un’altra ragione per preoccupare il governo: da tempo le autorità sostengono che l’azienda non abbia abbastanza capitale per rendere sicuri tutti i suoi prestiti. Ant infatti non concede i prestiti dalle sue casse, ma li esternalizza in gran parte alle banche: come ha scritto il Financial Times, con 450 milioni di dollari di capitale Ant eroga 45 miliardi di dollari di prestiti.

Considerando che Jack Ma è l’imprenditore più importante di tutta la Cina, e uno dei meglio collegati (come molti suoi colleghi, è membro del Partiti comunista), è probabile che, quando ha tenuto il suo discorso durissimo davanti alle istituzioni finanziarie cinesi il 24 ottobre, già sapesse che le autorità stavano preparando nuove regole molto onerose per le compagnie fintech. Il discorso attaccava ferocemente proprio le figure e gli enti che devono regolare ilmercato finanziario, che Jack Ma definisce obsoleti, incapaci di correre rischi e con una “mentalità da banco dei pegni”, come già detto. Attaccava particolarmente le regole che impongono che chi fa credito abbia riserve di capitale molto alte, esattamente quello che Ant non ha.

[…] Secondo il Financial Times, la quotazione dell’azienda non è stata abolita del tutto, ma soltanto rimandata. Ritarderà però almeno di sei mesi, e il suo valore di mercato potrebbe essere molto ridotto, perché le nuove regole potrebbero cambiare in maniera consistente il modello di business di Ant e le sue fonti di entrata. La vicenda dell’azienda è stata vista soprattutto in Cina come un intervento necessario, anche se tardivo, da parte del governo: alcune attività di Ant costituivano un rischio per il sistema finanziario e dovevano essere regolate. D’altro canto, soprattutto in Occidente, è stata vista come la prova dell’interventismo dannoso del governo cinese sulla libertà d’impresa».