1921-2021. CENTENARI CHE SUONANO MENZOGNERI

La celebrazione della data di fondazione del cosiddetto Partito Comunista Cinese probabilmente non è mai stata così importante come oggi, per il suo virtuale centenario. Infatti, dopo oltre un anno di pandemia questa celebrazione lungamente preparata dal Partito-Regime assume un significato particolare non solo per la Cina, ma per tutto il mondo, visto che essa cade nel momento in cui il grande Paese asiatico si presenta agli occhi di tutti come la potenza che esce trionfante dalla guerra pandemica, la sola grande nazione che non ha fatto registrare indici di sviluppo negativi (nel 2020 il Pil cinese è cresciuto di circa il 2,3%) e che si appresta a farne registrare di fortemente positivi già quest’anno. Spesso il Presidente Xi Jinping ha ricordato i cosiddetti due obiettivi del centenario: la costruzione di una «società moderatamente prospera» entro il 2021, centesimo anniversario della fondazione del PCC, e la creazione di «un’economia prospera e avanzata» entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Obiettivi molto ambiziosi, non c’è dubbio.

«La Cina dichiara vinta la battaglia contro la povertà assoluta. La provincia Sud-Occidentale del Guizhou ha cancellato le ultime nove contee dalla lista delle aree che versano in stato di povertà. La linea ufficiale di povertà in Cina è stata fissata nel 2010 al di sotto di un reddito annuo di 2.300 yuan (294,18 euro al cambio attuale) più bassa quindi della soglia fissata dalla Banca Mondiale di 1,90 dollari al giorno. L’obiettivo fissato nel 2015, e da raggiungere entro la fine di quest’anno, era di eliminare la povertà assoluta, ma il governo cinese deve fare ancora i conti con il forte divario di reddito tra la popolazione urbana e quella rurale e le disparità tra le varie province» (Agi). Sulla reale condizione di vita e di lavoro dei migranti cinesi, cioè del grande esercito di lavoratori che tutti gli anni si sposta dalle zone rurali del Paese per raggiungere i distretti industriali cinesi, dove sarà sfruttato a dovere dal capitale nazionale e internazionale, rimando al post La pessima condizione dei migranti cinesi.

All’inizio di questo breve post ho scritto «cosiddetto Partito Comunista Cinese» e «suo virtuale centenario»: perché?  Perché quello che oggi si chiama Partito Comunista Cinese, e che costituisce l’impalcatura politica, ideologica e burocratica dello Stato (capitalista/imperialista) cinese, non ha nulla a che fare con il Partito fondato il Iº luglio 1921 a Shanghai da alcuni esponenti del Movimento del 4 maggio (1919), tra i quali ricordo Ch’en Tu-hsiu,  professore di filologia che fu il primo segretario del PCC, caduto in disgrazia dopo i sanguinosi eventi del 1927, e Li Ta-chao, tra i fondatori nel 1918 della Società per lo studio del marxismo. Catturato da un Signore della guerra nel 1927, Li Ta-chao venne strangolato dalla polizia dopo lunghe torture.  Il Movimento del 4 maggio si caratterizzò per un acceso antimperialismo rivolto contro le potenze occidentali e contro il Giappone, il quale grazie alla Conferenza di Versailles ereditò tutti i diritti acquisiti nel corso degli anni dalla Germania, la potenza battuta dall’Intesa.

Mao Tse-tung, «un povero studente hunanese, sempre avvolto in un’unica vestaglia nera, ancora preso dai complessi di inferiorità del contadino da poco giunto nella capitale» (E. C. Pischel), partecipò al congresso di fondazione del PCC, ma non vi ebbe un ruolo rilevante. Solo alla fine degli anni Venti Mao crebbe in statura politica, per acquisire nel gennaio del 1935 quel ruolo centrale nella vita del PCC che manterrà per molto tempo, tra cadute mai rovinose e risalite sempre “prodigiose”. A quel punto si trattava però di un soggetto politico, certamente rivoluzionario, ma di natura borghese – nazionalista e antimperialista.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere della Cina, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il più grande, se non l’unico, esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al contesto storico e sociale cinese. Il PCC di Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. La politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese in Cina, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata da Lenin per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale. Tale politica era centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti avrebbero dovuto difendere come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima significativa dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute e conferme sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

L’accesa conflittualità che si manifesterà a partire dai primi anni Sessanta tra l’Unione Sovietica “revisionista” e la Cina ”maoista” si spiega non tirando in ballo dispute politico-ideologiche, ma con la natura capitalistica dei due Paesi: il primo saldamente al vertice della competizione imperialistica mondiale, insieme agli Stati Uniti, e il secondo che cercherà di svilupparsi come grande nazione sottraendosi dall’influenza economica e militare delle due Super Potenze.

Il nuovo PCC degli anni Trenta non fu, dal punto di vista sociologico, sociale, politico e ideologico, il Partito dei contadini, ossia l’espressione diretta dei loro interessi di classe, ma piuttosto un Partito borghese-nazionale che cercò nei contadini la sua fondamentale base sociale d’appoggio per centrare obiettivi di natura squisitamente borghese-nazionale: in primis, l’indipendenza nazionale e lo sviluppo del capitalismo – anche attraverso una riforma agraria più o meno radicale. Scrive Arturo Peregalli nella sua ottima Introduzione alla storia della Cina: «È quindi a giusto titolo che Mao può richiamarsi a Sun Yat-sen, dichiarandosi suo discepolo e continuatore della sua politica. Se Mao è il “vero Dio” della rivoluzione cinese, Sun Yat-sen fu il suo profeta».

Il particolare rapporto politico-sociale che strinse il PCC e i contadini spiega, non solo la completa esclusione della classe operaia del Paese dalla strategia rivoluzionaria dei “comunisti” cinesi, il cui esclusivo obiettivo era, al di là della fuffa ideologica tipica dei soggetti politici d’ispirazione stalinista, l’ascesa della Cina nel “concerto” mondiale in quanto grande nazione capitalistica; ma spiega anche l’andamento contraddittorio, e spesso conflittuale (fino alla violenza armata), di quel rapporto, dal momento che il mondo rurale cinese presentava una complessa stratificazione sociale – a cominciare dalla storica divisione tra contadini poveri e contadini ricchi.

Sulla natura borghese-nazionale della Rivoluzione cinese e del PCC, nonché sulla natura capitalistica della Cina (da Mao a Xi), tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ad alcuni miei scritti dedicati al grande Paese asiatico:  Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Sulla campagna cinese; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Sotto ogni punto di vista (sociale, politico, ideale) non solo non si scorge alcuna continuità tra il PCC del 1921 e il Partito che cento anni dopo porta lo stesso nome e dice di volerne celebrare la nascita, ma quest’ultimo rappresenta piuttosto la più radicale negazione del Partito di Ch’en Tu-hsiu e Li Ta-chao, il quale ancora fragile dal punto di vista sociale e politico, e ancora immaturo da quello dottrinario, mosse nondimeno i primi promettenti passi in un momento in cui la rivoluzione proletaria internazionale sembrava ancora possibile. Scriveva Li Ta-chao nel 1918: «Il fine dei bolscevichi è di distruggere i confini che sono ostacoli al socialismo e di distruggere il sistema di produzione in cui il profitto è monopolizzato dal capitalista. I soviet uniranno il proletariato del mondo e creeranno la libertà universale. Questa è la teoria della rivoluzione del nostro secolo!  La rivoluzione russa non è che una delle rivoluzioni del mondo. La campana ha suonato l’ora dell’umanità, l’alba della libertà è arrivata». Solo retrospettivamente è possibile comprendere come nel 1921, l’anno di nascita del Partito Comunista Cinese e del Partito Comunista d’Italia, la marea della rivoluzione mondiale si stesse rapidamente ritirando, lasciando i bolscevichi isolati nell’oceano del capitalismo mondiale e a dover fare i conti con la catastrofe sociale creata dalla guerra imperialista e dalla guerra civile. La controrivoluzione antiproletaria che porterà il nome di Stalin (ma che non ha a che fare con la cattiva personalità di chicchessia) ebbe in quel tragico isolamento i suoi fondamentali presupposti, e a farne le spese saranno anche i proletari e i comunisti degli altri Paesi, Cina e Italia compresi.

Mutatis mutandis, la celebrazione del centenario della nascita del Partito Comunista Cinese e quella del Partito Comunista Italiano hanno un comune risvolto ideologico, si celebra cioè  una grande menzogna che affonda le sue radici, appunto, nello stalinismo internazionale e nella sconfitta del movimento operaio internazionale, della quale il primo fu, al contempo, una delle principali cause e la più verace e odiosa espressione. Odiosa soprattutto perché siamo ancora qui a parlare del cosiddetto “comunismo” cinese e italiano.

Dal Partito Comunista Cinese del 1921 al Partito Capitalista Cinese del 2021: cosa marca la continuità storica tra i due soggetti politici? L’acronimo!

Scriveva ieri Le Monde: «La Cina crede già di aver vinto la partita con gli Stati Uniti, e forse sta qui il suo maggiore errore di valutazione». Vedremo chi si sbaglia. Di certo non sbaglia chi lotta, “senza se e senza ma”, contro l’Imperialismo Unitario (*).

(*) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporta con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

MA IL PCI DI GRAMSCI E TOGLIATTI NON NACQUE A LIVORNO

Il supplemento letterario del Corriere della Sera, curato oggi da Marcello Flores, ci porta a visitare, per così dire, il centenario della “mitica” scissione di Livorno, ma lo fa seguendo una strada poco battuta, per non dire altro, dalla storiografia nostrana, in larghissima parte di matrice gramsciana/togliattiana. Tra le poche eccezioni si segnala certamente la Storia del PCI di Giorgio Galli, scomparso lo scorso 27 dicembre (*).

Scrive Flores: «1921. Fra i militanti che aderirono cento anni fa alla scissione del PSI da cui nacque il PCI nella città toscana, molti furono poi vittima del terrore staliniano in URSS. I comunisti fucilati furono 23, 12 morirono di stenti nei lager, e altri 12 arrestati e deportati riuscirono a sopravvivere. Alla repressione parteciparono anche Togliatti e i dirigenti italiani che segnalarono gli elementi eretici sospetti di eresie trotzkiste e bordighiste». E, infatti, furono gli “eretici” a fondare il Partito Comunista d’Italia (non Italiano) come sezione nazionale dell’Internazionale Comunista. Com’è noto, la storia la scrivono i vincitori, e alla fine del ciclo rivoluzionario che si era aperto nel 1914 con lo scoppio della Grande Guerra Imperialista, e che ebbe nel nostro Paese un’impennata nel “biennio rosso” 1919-20, l’alloro della vittoria andò ai molti nemici degli “eretici”: fascisti, socialisti, liberaldemocratici, stalinisti…

Insomma, oggi la Repubblica Italiana celebra i vincitori (i padri, i figli e i nipoti dello stalinismo con caratteristiche italiane), non certo gli “eretici”, gli sconfitti, com’è del resto ovvio. Sulla Verità (Pravda, in russo… ) Antonello Piroso si chiede invece cosa ci sia da celebrare, e offre ai lettori una «Guida ragionata per non partecipare alle celebrazioni dei 100 anni dalla nascita del Partito comunista italiano». Un Partito, continua Piroso, che eccelleva nell’arte della menzogna: «Connivenza con lo stalinismo? Ma quando mai. Il silenzio sulla repressione in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968? Passiamo oltre. Si arrivò alla peraltro contorta ammissione berlingueriana solo nel 1981: “La capacità di rinnovamento delle società dell’Est ha esaurito la sua spinta propulsiva”». Sic! E che comicità involontaria!

Si è già capito, spero, che chi scrive non ha bisogno della «Guida ragionata» del simpatico giornalista (il quale ovviamente dà per scontata l’identità sostanziale tra comunismo e stalinismo) per assumere un’adeguata “postura” nei confronti della celebrazione Repubblicana qui brevemente richiamata.

(*) Scriveva Giorgio Galli nella sua Storia del PCI a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [l’antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso. […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia, torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane. […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (Storia del PCI, pp. 112-118, Bompiani, 1976). «Soltanto con il III Congresso di Lione del 1926, Gramsci scalzerà definitivamente Bordiga dalle posizioni di predominio, dentro il Pci, avviando quella pericolosa deriva verso l’imitazione dei modelli staliniani che minerà a fondo l’indipendenza e l’originalità del partito italiano» (Gino Longo, figlio del più celebre Luigi; cit. tratta da R. Festorazzi, Rivoluzionari. Il secolo comunista raccontato da Gino Longo, p. 20, Pietro Macchione Editore, Varese, 2016). La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora non regge un solo istante alla prova dei fatti – ha invece retto benissimo alla luce dell’ideologia togliattiana.

DIALETTICA DEL DOMINIO CAPITALISTICO. Sui concetti di classe dominante e dominio di classe

Nel concetto del capitale è insito che le condizioni oggettive
del lavoro assumano una personalità contrapposta al lavoro,
o, ciò che è lo stesso, che esse siano poste come proprietà
di una personalità estranea all’operaio (Karl Marx) [1]

 

Per comprendere come nel Capitalismo del XXI secolo si configura la struttura di classe della società e in quali forme si dà il dominio di classe, occorre a mio avviso dotarsi di uno strumento teorico (di una “concezione”) in grado di spingere il pensiero critico-radicale oltre la caotica palude della mera apparenza, la quale, come ammoniva il comunista di Treviri, spesso ci restituisce la realtà in termini capovolti. Sebbene abbia un taglio molto particolare occasionato, come detto sopra, dalla lettura di un determinato libro, questo scritto rappresenta il mio contributo a questo prezioso sforzo teorico e politico.

Qui il PDF

[1] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), II, p. 146, La Nuova Italia, 1978. Nel precedente post ho definito la «personalità» di cui parlava Marx nei termini di un soggetto sociale che impone la sua volontà a tutta la comunità.

DIALETTICA DEL DOMINIO SOCIALE. Sui concetti di classe dominante e dominio di classe

1.
Classe politica, élite, establishment, classe dirigente, oligarchia, casta tecnocratica, burocrazia, tecnoburocrazia, casta dei competenti, La Casta: la terminologia politologica e sociologica si arricchisce continuamente di termini, concetti e definizioni che sembrano fabbricati apposta per confondere le acque, soprattutto ai danni di chi frequenta per necessità (per “condizione sociale”) i piani bassi dell’edificio sociale. Il direttore del Foglio Claudio Cerasa il 2 settembre cercava “disperatamente” la nuova classe dirigente; il 7 settembre sembrava averla già trovata: «Preparati e globalizzati: medici e professionisti sono la nuova classe dirigente». Auguri!

La confusione terminologica qui richiamata ha beninteso anche una sua spessa consistenza oggettiva, ha cioè delle precise motivazioni sociali sintetizzabili, con qualche forzatura riduzionista (diciamo pure semplicistica), con il concetto di complessità. Si tratta tuttavia di una complessità che a sua volta ha una sua ben riconoscibile connotazione storica e sociale, la quale rinvia a “problematiche” (economiche, politiche, istituzionali, ideologiche) di grande rilievo che cercherò di toccare in questo scritto – senza peraltro approfondirle.

In questi tempi calamitosi molto si parla, quasi sempre in modo elogiativo, del grande ruolo che gli scienziati e gli “esperti” starebbero svolgendo a favore del “bene comune”; tuttavia non sono pochi gli intellettuali che, non condividendo l’entusiasmo di Cerasa, rimproverano i decisori politici di aver lasciato uno spazio di manovra e di discrezionalità eccessivamente largo a quella “nuova classe dirigente”, peraltro esentata dal vaglio elettorale, con ciò che ne segue in termini di “controllo democratico”. Addirittura c’è chi si spinge a parlare senza alcun timore di dittatura degli scienziati e degli esperti: che esagerazione! In questo l’accusa di “complottismo negazionista” è assicurata e immediata. Qualcuno parla addirittura di Tecnocene [1], in evidente continuità polemica con il concetto di Antropocene: due esempi su come affibbiare un nome a una cosa considerandola da una prospettiva completamente capovolta: a testa in giù, come avrebbe detto l’uomo con la barba. Si vede il dominio della tecnica o di una prassi umana genericamente (astoricamente) considerata, là dove insiste invece il dominio del Capitale, ossia dei rapporti sociali capitalistici.

Carl Schmitt criticava la «neutralizzazione passiva» della politica attraverso il suo farsi tecnica e scienza, e ne metteva in luce il momento ideologico, ossia il voler negare da parte della politica una realtà che contraddice in radice ogni discorso intorno alla possibilità di una società pacificata, libera dal conflitto e da ogni forma di antagonismo – tra le classi, tra gli Stati, tra le nazioni, tra i singoli individui. La tecnoscienza come modello “demoniaco” che la politica deve rifiutarsi di far suo: «La tecnica resasi con il passare del tempo sempre più autonoma e più importante nella produzione economica ha prodotto, grazie alle sue invenzioni, l’unificazione mondiale dei mercati, gettando il germe della futura unità politica mondiale. L’uomo moderno, assoggettato alla logica dell’utile, ha perso così ogni dimensione culturale e disinteressata e vive unicamente in vista di bisogni artificiali, quali il comfort e la ricerca di sicurezza» [2]. Come se la tecnica e la scienza non fossero due modi di essere fondamentali del Capitale, il quale diventa potenza dominante proprio grazie al loro uso sistematico nel processo produttivo. La concezione schmittiana della modernità capitalistica è viziata da quel feticismo tecnologico che non smette di fare proseliti in diversi ambiti culturali e politici. Che la «logica dell’utile», cioè del profitto, domini necessariamente e in modo sempre più stringente la società capitalistica colta nella sua totalità, ebbene questo è un concetto incomprensibile per l’intellettuale borghese (di “destra” o di “sinistra” che sia), il quale riscalda il proprio cuore con la chimerica idea di un capitalismo dal volto umano: «Si tratta di scacciare i suoi lati cattivi e tenerci quelli buoni». Dalla mia utopistica prospettiva rido di questa pessima e miserrima illusione. Ma qui rischiamo di “allargarci” troppo! Ritorniamo dunque “sul pezzo”.

Intanto va rilevato, a proposito di scienziati e competenti vari, che in tutti questi mesi di “crisi sanitaria” i virologi, gli scienziati e i tecnici coinvolti nella gestione della crisi hanno detto – e continuano a dire – tutto e il contrario di tutto, fornendo tuttavia al governo una preziosa collaborazione intesa a giustificare/legittimare agli occhi dell’impotente opinione pubblica le sue decisioni, le sue indecisioni, le sue contraddizioni. La politica ha sempre potuto invocare, nella buona come nella cattiva sorte, il “parere degli esperti”, e tutte le volte che è stato necessario i decisori politici hanno usato il registro della colpevolizzazione, sempre supportati dal “parere degli esperti”: «Per colpa di qualche irresponsabile rischiamo di mandare in fumo i sacrifici che abbiamo fatto»; «Tutto dipende da noi», ecc. A mio avviso sbaglia chi pensa che siano gli scienziati e i tecnici a dirigere il traffico. I comitati tecnico-scientifici rappresentano la continuazione della politica con altri mezzi. Cosiddetti competenti e governanti (nell’accezione più larga del termine che include anche l’opposizione parlamentare e sindacale) sono naturalmente al servizio della classe dominante.

Chi aspetta l’agognato vaccino per tirare un sospiro di sollievo, crede in perfetta buonafede che la nostra salute e la nostra stessa vita siano nelle mani della scienza; in realtà siamo tutti, scienziati compresi, nelle mani del Capitale. E a proposito di “crisi sanitaria”, occorre dire che abbiamo avuto, e abbiamo a che fare, con una crisi sociale nel senso più puntuale del concetto, perché il cosiddetto evento pandemico si inscrive per intero, tanto per la sua genesi quanto per le sue conseguenze di portata globale, nel quadro della vigente Società-Mondo. Credere che il problema sia il Virus, e non la società che l’ha trasformato in una fonte di malattia, di sofferenze e di crisi sistemica: è ciò che chiamo, con scarsa originalità di pensiero, feticismo virale.

«Sono d’accordo con l’introduzione dei robot nell’industria e nei servizi a condizione che a comandare sia l’uomo, non il robot: quante volte abbiamo sentito e letto queste “sagge parole”? Tantissime, fin troppe! In questo caso ci troviamo dinanzi a un feticismo di tipo tecnologico, il quale impedisce ai “saggi” di capire che chi comanda l’uomo è il Capitale, che si serve del mezzo di produzione chiamato robot per sfruttare nel modo sempre più economicamente razionale tutti i “fattori della produzione”, a cominciare dal «lavoro vivo».

Poco sopra ho evocato la classe dominante, locuzione assente nell’elenco terminologico che apre questo scritto, e anche di questa mancanza si dovrà dare una qualche spiegazione. Quello di classe dominante non è forse un concetto troppo vecchio, anzi antico?  Qui è solo il caso di dire che chi giudica i concetti e le parole che usiamo per esprimerli adoperando le categorie di “vecchio”e “nuovo”, spesso mostra, quantomeno agli occhi di chi scrive, di avere un approccio superficiale e formale con la realtà. Nel caso che ci riguarda, si tratta di vedere se il concetto di classe dominante è ancora in grado di dar conto dei più importanti fenomeni sociali che rigano e plasmano sempre di nuovo la società del XXI secolo. È attuale (non “vecchio” o “nuovo”) il concetto di classe dominante? E in che senso si può parlare oggi “materialisticamente” (ossia da una prospettiva storica e sociale critica, non ideologica) di classe dominante?

Scriveva Marx a proposito del «denaro come rapporto sociale»: «Questi rapporti di dipendenza materiali opposti a quelli personali (il rapporto di dipendenza materiale non è altro che l’insieme di relazioni sociali che si contrappongono autonomamente agli individui apparentemente indipendenti, ossia l’insieme delle loro relazioni di produzione reciproche diventate autonome rispetto a loro stessi) si presentano anche così: che gli individui sono ora dominati da astrazioni, mentre prima essi dipendevano l’uno dall’altro. L’astrazione non è però altro che l’espressione teoretica di quei rapporti materiali che li dominano» [3]. Il Capitale realizza il dominio dell’astratto sul concreto, della totalità sociale sul particolare. Su questo concetto, sviluppato a partire dalla teoria marxiana del valore, rinvio al mio scritto Il dominio dell’astratto. Credo che i concetti di classe dominante e di dominio di classe debbano essere fondati «sul rapporto di dipendenza materiale» di cui parlava Marx.

L’ultimo libro di Thomas Piketty Capitale e ideologia, destinato ovviamente a diventare in fretta un altro bestseller, «è una fluviale (1.232 pagine) denuncia delle crescenti e non più tollerabili disparità create dal capitalismo [sai che novità!], con alcune proposte dirompenti come “superare la proprietà privata e sostituirla con una proprietà sociale e temporanea”» [4]. Proposte davvero “dirompenti”, non c’è che dire; e già mi pare di vedere e di sentire il Moloch tremare e urlare: «Che paura!» Scherzi a parte, ha senso contrapporre la proprietà privata alla proprietà sociale? Cercherò di rispondere a questa domanda nelle pagine che seguono. Come vedremo, attraverso l’espropriazione della proprietà privata individuale/personale precapitalista e semicapitalista, a cominciare dalla proprietà centrata sui produttori diretti trasformati, con le buone e – soprattutto – con le cattive”, in lavoratori salariati, si realizza quel monopolio sociale dei mezzi di produzione e del prodotto del lavoro che sta a fondamento della moderna società capitalistica [5]. Questo monopolio, il cui fondamento sociale si rinnova sempre di nuovo, giorno dopo giorno, produzione dopo produzione, conferisce alla proprietà capitalistica una peculiare natura sociale che per l’essenziale prescinde dalla forma giuridica che questa proprietà assume nei diversi Paesi e nelle diverse congiunture storiche. Semplificando al massimo: privata o statale che sia, la proprietà capitalistica ha sempre un preciso connotato di classe. Questa tesi è valida anche alla luce del fatto che lo Stato non è una classe sebbene, in determinate circostanze, esso può surrogare le funzioni della classe dominante? Credo proprio di sì.

L’essenza del Capitale come viene fuori dalla teoria marxiana non ha a che fare con la proprietà privata personale, sebbene strutturata economicamente e giuridicamente in coerenza con una nuova configurazione storica (borghese): tale essenza va appunto individuata nel carattere di forza sociale che il Capitale ha fin dall’inizio. Vedremo in seguito in che senso possiamo parlare di proprietà privata sul fondamento della vigente società.

Quando parlo di classe dominante e di dominio di classe è dunque a questa precisa costellazione concettuale che faccio riferimento; al centro di essa pulsa come «momento egemone» il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento (dell’uomo e della natura) che oggi ha la dimensione del nostro pianeta e che in mille modi orienta la nostra esistenza, penetrandone anche la sfera psicosomatica grazie soprattutto all’ausilio della tecnoscienza. Il concetto di biopolitica, peraltro oggi usato e abusato in certi ambienti politico-intellettuali in guisa di segno di riconoscimento identitario, non è in grado di restituire per intero la radicalità della prassi del dominio.

Per Jacques Bidet, filosofo e “teorico sociale” francese, «la classe dominante comprende due poli, uno attorno alla proprietà capitalista e l’altro attorno all’organizzazione presumibilmente competente». Egli contrappone il mercato a una non meglio specificata, e a dire il vero assai confusa, organizzazione, regno, se ho capito bene, dei «competenti». «La tesi di Marx spingeva all’idea che fosse necessario abolire il mercato, cioè anche la proprietà privata dei mezzi di produzione, contemporaneamente al capitale. Questa era la strada seguita dai sovietici» [6]. Diciamo piuttosto che quella era la strada che i sovietici dicevano di voler seguire, mentre in realtà ne seguivano un’altra e opposta: quella del Capitale, e quindi la strada del mercato e della proprietà capitalistica dei mezzi di produzione.  «Mi sembra molto importante che l’organizzazione domini il mercato. E questo è, mi sembra, il caso della Cina oggi. In questo senso, il termine “capitalismo di Stato”, non più che “socialismo di mercato”, mi sembra che gli si addica. Ma io sono un sostenitore del comunismo, non del socialismo». A me risulta che più che «un sostenitore del comunismo», il Nostro sia un estimatore del “comune”, il quale «apre una prospettiva di democrazia economica partecipativa e discorsiva». Anche qui non posso che dire: auguri! D’altra parte, chi sono io per giudicare il “comunismo” degli altri?

Tuttavia mi sento di dire che contrapporre il comunismo al socialismo, anziché porli in una dialettica relazione concettuale e storica, ha senso solo se si ammette la natura socialista dei regimi del cosiddetto “socialismo reale”, cosa che personalmente ho sempre negato nel modo più assoluto. Quel che si può certamente affermare, e qui l’intellettuale francese ha ragione, è che nel caso della Cina (come negli altri casi analoghi) si debba parlare solo ed esclusivamente di capitalismo: se di “Stato” o altro, qui è secondario. Capitalismo, beninteso, in senso stretto, nell’accezione più conforme ai concetti marxiani sviluppati come critica dell’economia politica intesa a penetrare la natura sociale del Capitale.

Scrive Bidet a proposito della funzione sociale dei cosiddetti competenti: «Tra capitalisti e cosiddetti competenti c’è la doppia possibilità di convergenza e divergenza. I competenti, se sono attratti da un’alleanza con i capitalisti mentre questi ultimi predominano, possono anche, almeno per grosse frazioni, trovare più interessante allearsi con la gente comune, con la speranza di prendere l’iniziativa. Questa possibilità di alleanza dipende, per la maggior parte, dalla forza politica organizzata della gente comune. Inoltre, è in queste condizioni che da un secolo sono state impegnate le grandi rivoluzioni comuniste nel mondo. Ma, una volta emarginati i capitalisti, i competenti sono diventati una nuova classe dirigente». Detto che a me non risultano «grandi rivoluzioni comuniste nel mondo» nel XX secolo, salvo quella, poi finita malissimo, del 1917 in Russia; detto questo, ha un senso parlare dei competenti nei termini di «una nuova classe dirigente»? E poi, quanto per Bidet il concetto di classe dirigente è assimilabile a quello di classe dominante? Il dubbio nasce perché egli parla di «nuova classe dirigente» in relazione alla “emarginazione” dei capitalisti: si tratta di un confronto, di un’assimilazione funzionale o cos’altro? E cosa intende Bidet per «gente comune»? Quest’ultima domanda occorre guardarla alla luce della critica che il francese rivolge alla moltitudine di Toni Negri: «Questo discorso “moltitudinale” è venuto a sostituire il discorso classista. Il problema non è la sua risonanza teologica, è il fatto che ci libera da considerazioni analitiche, soprattutto in termini di sfruttamento, a cui ci chiama l’analisi di classe». Condivido questa critica, ed è per questo che la «gente comune» mi sembra una categoria sociologica quantomeno vaga, diciamo così.

Classe dominante e classe dominata (o subalterna) si corrispondono reciprocamente con assoluta necessità: l’una presuppone e pone sempre di nuovo l’altra, esattamente come il Capitale presuppone e pone sempre di nuovo il lavoro salariato, e viceversa. Si tratta piuttosto di capire come fondare il concetto di classe dominante andando oltre il punto di vista meramente sociologico (empirico/statistico), non per negare o sottovalutare la concreta realtà con cui facciamo tutti i giorni i conti, ma per comprenderla nella sua intima natura. A mio avviso, la ricerca sociologica empiricamente orientata mostra tutti i suoi limiti concettuali ed euristici proprio nella ricerca di presunte nuove classi dominanti, sforzo che finora non ha mai contribuito a spiegare nulla di veramente significativo circa la struttura di classe della società e la sua dinamica, mentre di fatto costringe il pensiero che vuole diventare critico a distogliere lo sguardo dall’essenziale, dai rapporti sociali di produzione.

In ogni caso, la stessa esistenza di una classe di senza riserve (di proletari, come li chiamavano Marx ed Engels) ci obbliga a parlare del dominio sociale capitalistico nei termini di un dominio di classe – in quanto esso si fonda appunto sullo sfruttamento di una classe. E dove c’è un rapporto di sfruttamento, deve esistere con assoluta necessità un rapporto di dominio che si estende a tutta la società, ben oltre i confini della sfera della produzione. Dominio di classe e dominio sociale sono due nomi diversi per una stessa Cosa.

Scrive Luciano Gallino: «Dovendo effettuare una scelta tra un elevato numero di dimensioni o indicatori di classe, io credo che la combinazione più utile sia ancora quella classica, anche se piuttosto comune, che include la ricchezza o reddito, il prestigio o valutazione sociale, e il potere o controllo. […] Tutte queste dimensioni devono esser considerate da un punto di vista societario; ciò che importa è il reddito “tipico” di ogni classe in rapporto a tutte le altre classi della società, il prestigio che i membri di una classe ricevono in media ovunque essi vadano, il potere che essi hanno all’interno dell’organizzazione sociale totale e su di essa» [7]. Nella determinazione della classe dominante ciò che invece importa è a mio avviso come si dispongono le diverse classi in relazione al rapporto sociale di produzione dominante, mentre tutto il resto («la ricchezza o reddito, il prestigio o valutazione sociale, e il potere o controllo») ne discende dialetticamente, cioè in termini di mediazione tra generale e particolare, essenza e fenomeno. Detto in altri e più brutali termini (ma brutale è la realtà!), si tratta di stabilire chi sfrutta e chi viene sfruttato, chi produce la ricchezza sociale (in termini marxiani: valore e plusvalore) e chi e perché si appropria di questa ricchezza; chi (o che cosa) domina e chi viene dominato. Tra l’altro, assimilare senz’altro ricchezza e reddito è tipico dell’economia politica volgare, per dirla sempre con l’autore del Capitale, con ciò che ne segue in termini di analisi della struttura di classe di un Paese. Marxianamente parlando, il reddito è cioè che non viene reinvestito nel processo di accumulazione ma consumato improduttivamente – dal punto di vista capitalistico.

Lo spazio d’intervento che anche nei Paesi occidentali lo Stato sta conquistando sul terreno immediatamente economico è certamente una delle più importanti fenomenologie della crisi capitalistica che la nostra società sta attraversando. Un’economia incapace di remunerare a sufficienza il capitale investito in ogni ambito di attività (produzione, distribuzione, servizi finanziari, ecc.), costringe di fatto lo Stato a intervenire nel “mondo degli affari” per puntellare investimenti bisognosi di profitti che oggi il “libero mercato” non è in grado di assicurare, e per far fronte ai problemi sociali che derivano dal fallimento generalizzato delle imprese. Gettando lo sguardo oltre l’apparenza fenomenologica, la quale restituisce al pensiero privo di profondità analitica e critica il quadro che tanto inquieta i nemici del “socialismo”, non è lo Stato che si serve del Capitale per allargare il proprio potere sulla società, ma è piuttosto il secondo che si serve del primo per “ossigenare” una congiuntura economica diventata asfittica, e per stabilizzare la struttura economico-sociale sottoposta a gravi tensioni sociali [8]. Qui per “Capitale” intendo sempre la potenza sociale dominante – e non solo “in ultima analisi” – su scala mondiale. Il rafforzamento del ruolo dello Stato anche nelle democrazie capitalistiche di stampo occidentale va sempre considerato alla luce di quanto accade e si muove nel “mondo degli affari”, il quale ormai da oltre un secolo è legato in mille modi al “mondo della politica”. Sul concetto di capitalismo di Stato ritornerò più diffusamente in seguito.

Per comprendere la portata politica, e non meramente dottrinaria, del tema qui posto a riflessione, credo sia sufficiente richiamare la circostanza per cui in tutti i più importanti Paesi del mondo la cosiddetta opinione pubblica mostra d’essere estremamente permeabile ai discorsi di demagoghi e populisti di ogni genere, intesi a individuare capri espiatori su cui scaricare rabbia, frustrazione, paure, angoscia, invidia sociale e quant’altro questa pessima società è in grado di produrre a ritmi industriali. Capire il pessimo mondo in cui viviamo è fondamentale nella ricerca delle vie che portano oltre i suoi confini, verso un mondo autenticamente umano. Più che di un viaggio, in realtà si tratta di una distruzione e di una costruzione. Come diceva qualcuno, le classi subalterne possono distruggere tutto, perché tutto possono costruire; esse possono distruggere il presente perché possono costruire il futuro. Possono, è in loro potere farlo. Evocata questa eccezionale possibilità, qui bisogna però arrestarsi, sempre per non allargare eccessivamente il campo “problematico” che proverò a indagare.

Devo lo spunto della riflessione che consegno al giudizio dei lettori alla lettura dell’ultimo libro di Raffaele A. Ventura Radical choc, dal quale mi piace citare i passi, forse ispirati dal comunista di Treviri, che seguono: «Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un’immensa accumulazione di rischi. L’anno 2020 ce lo ha ricordato nel modo più incisivo» [9]. Di qui, all’avviso di chi scrive, la necessità e l’urgenza di farla finita con rapporti sociali (non semplicemente con individui sociologicamente caratterizzati) che determinano per tutti gli esseri umani, e per i senza riserve in particolare, una condizione di permanente disumanità e pericolo. A me pare che sempre più la salvezza dell’umanità e della natura coincide con la distruzione del regime sociale capitalistico, il quale per l’una e per l’altra rappresenta un problema (anzi: il problema), non certo la soluzione: è una tra le poche certezze che ho e che mi piace coltivare e condividere con gli altri. Inutile dire che la riflessione che segue ha molto a che fare con queste mie anticapitalistiche considerazioni.

2.
La rilettura, a distanza di moltissimi anni, del libro che Bruno Rizzi [10] pubblicò a Parigi nel 1939 (La Bureacratisation du Monde), e che nel suo interessante libro Ventura cita ampiamente, ha insinuato nella mia curiosa (in tutti i sensi!) testa la paradossale quanto bizzarra domanda che segue: posta la società capitalistica, avrebbe un senso parlare di dominio di classe nel caso – del tutto ipotetico – in cui non fosse più possibile individuare una classe dominante nell’accezione sociologica del concetto? È “legittimo” parlare, sempre in linea di principio, del dominio di classe nei termini di una fitta rete di interessi [11] del tutto impersonale (ossia empiricamente “impalpabile”) e dunque totalmente sociale (o astratta in questo preciso significato)? È concettualmente concepibile un dominio di classe che non abbia come suo fondamento una classe dominante? Nelle pagine che seguono cercherò di dare un senso, più che una risposta, a queste domande. Qui faccio rilevare che l’espressione totalmente sociale usata sopra chiama in causa il totalitarismo sociale realizzato (nella prassi, non nella teoria) dai rapporti sociali capitalistici, e che sta a fondamento della dittatura del Capitale che informa la prassi sociale di tutti i Paesi, a prescindere dal loro regime politico-istituzionale. È soprattutto in opposizione a questa dittatura sociale che Marx sviluppò il concetto di «dittatura rivoluzionaria del proletariato».

Va ribadito, a scanso di equivoci, che qui non cercherò di illustrare la situazione storica attuale, né di riflettere su casi storici particolari, né, tanto meno, di azzardare previsioni di medio o lungo periodo sulla scorta delle tendenze individuate nel processo sociale; cercherò piuttosto, e assai più modestamente, di usare materiali storici, politici e teorici per rendere più chiara possibile (in primis a me stesso!) la concezione che ho maturato ormai da molto tempo sulla natura della vigente Società-Mondo. Ragionare “al limite”, focalizzando l’attenzione su una mera ipotesi (la scomparsa della classe dominante concepita come sommatoria di capitalisti individuali) può forse aiutarci a capire meglio la concreta realtà della società capitalistica del XXI secolo. D’altra parte, occorre anche dire che quell’ipotesi ha, come vedremo, un preciso fondamento storico e sociale  nel capitalismo come il mondo ha imparato a conoscerlo nell’epoca dei monopoli, del capitale finanziario e dell’imperialismo.

Molti degli studiosi che hanno analizzato il Capitalismo di Stato nelle sue diverse manifestazioni storiche, hanno commesso l’errore di identificare la classe dominante con lo Stato, di appiattire senz’altro l’una nell’altro, con ciò eliminando la tensione dialettica che è sempre esistita tra il sociale propriamente detto (l’hegeliana società civile) e il politico, e questo proprio perché essi non sono riusciti a cogliere ciò che sovrasta e, al contempo, regge la struttura sociale. Il pensiero che aspira alla “concretezza” ha bisogno di toccare con mano, per così dire, gli oggetti che indaga, salvo poi ritrovarsi a contemplare una cattiva concretezza, una concretezza  vuota di determinazioni socialmente significative perché non contiene al suo interno il momento della totalità. Si tratta di una «concretezza fantomatica» (Marx) che non è in grado di spiegare la società nel suo incessante, contraddittorio e conflittuale movimento.

Nel Capitalismo sviluppato il dominio sociale non è esercitato da un soggetto personale, o dalla somma sociologicamente caratterizzata di persone (i capitalisti), ma da un soggetto impersonale (o, marxianamente parlando, astratto) che è il prodotto delle attività economiche informate dal rapporto sociale capitalistico: si produce (un “bene” o un “servizio”, cioè una merce) in vista di un profitto. È appunto la potenza sociale di cui parla il comunista di Treviri, e che personalmente spesso caratterizzo, non so con quanta accuratezza “scientifica”, come Moloch, una mostruosa creazione interamente umana – ossia realizzata dalle attività e dalle relazioni umane.  Dalla mia prospettiva, il Capitale-Moloch nei termini qui proposti appare ben più di una metafora o di una semplice figura retorica.

Scriveva Marx: «Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essa, della quale essi non sanno né donde viene né donde va, che quindi non possono più dominare, e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini ed anzi dirige questo volere e questo agire» [12]. Nei passi del Capitale che Marx dedica al feticismo della merce troviamo gli stessi fondamentali concetti. Potere sociale e rete/intreccio di interessi sono due modi diversi di chiamare in causa la stessa Cosa: il dominio sociale capitalistico. Si tratta di mettere in dialettica questo concetto con quello di classe dominante.

Alle spalle degli individui prende dunque corpo una volontà sovraumana (meglio, disumana) che si impone su tutti e su tutto. Non a caso sempre Marx affermò che nel capitalismo il lavoro morto domina sul lavoro vivo: che mostruosa aberrazione! Il Capitale ha dunque una sua volontà, o, meglio, ciò che possiamo concettualizzare nei termini di una volontà, ancorché essa non abbia come “sede” un cervello comunemente concepito; è in grazia di questa peculiare volontà, che, è bene ribadirlo, ha un carattere puramente oggettivo (sociale), che il Capitale merita a mio avviso lo status di soggetto sociale. Scrive lo psicoanalista Alfredo Eidelsztein: «La questione è che non si riconosce l’esistenza di un soggetto se non pensando a un individuo in carne e ossa, responsabile di detti, sogni, lapsus e sintomi» [13]. Mutatis mutandis, penso che si possa dire qualcosa di analogo a proposito del soggetto di cui parlo in questo scritto.

Continua qui.

 

[1] «Questi manager detengono conoscenze tecniche e ingegneristiche, capacità di coordinamento e direzione, sanno guidare, amministrare e gestire, organizzare, sovraintendere e la distanza tra la loro preparazione tecnica e quella necessaria al lavoratore medio aumenta di giorno in giorno. Inoltre, a causa del progresso tecnologico, queste funzioni diventano sempre più specializzate, complesse, decisive» (D. De Masi, Lo Stato necessario, Rizzoli, 2020).
[2] M. salvato, L’origine della politica e il problema della tecnica nel pensiero politico di Carl Schmitt, PDF, p. 3.
[3] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 107, La Nuova Italia, 1978.
[4] Intervista di T. Piketty al Corriere della Sera, 31/8/2020. L’economista francese si lagna della censura subita dall’editore cinese del suo libro: «A mio parere questa censura illustra il nervosismo crescente del regime cinese e il suo rifiuto di un dibattito aperto sui diversi sistemi economici e politici. È un peccato; nel mio libro adotto una prospettiva critica ma costruttiva sui diversi regimi inegualitari del pianeta e sulle loro ipocrisie, in Cina ma anche negli Stati Uniti, in Europa, in India, Brasile, Medio Oriente e altri. È triste che il “socialismo dai colori cinesi” di Xi Jinping si sottragga al dialogo e alla critica». La mia critica dei diversi regimi capitalistici del pianeta (compreso ovviamente quello con caratteristiche cinesi) è invece tutt’altro che costruttiva, essa è anzi radicalmente distruttiva, irriducibilmente negativa. D’altra parte Piketty si batte per un diverso assetto (meno “inegualitario” e “più umano”: sic!) del capitalismo, e quindi la prospettiva anticapitalistica gli è completamente estranea. Ma il “socialismo dai colori cinesi” non bada a questi dettagli!
[5] L’espropriazione dei liberi produttori da parte del Capitale è, come scrisse Marx nel suggestivo Capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria), l’atto fondativo della moderna società borghese. A un polo il Capitale (mezzi di produzione, materie prime, merci, scienza, industria, commercio, finanza), al polo opposto il lavoratore, proprietario di mera capacità lavorativa. Questo rapporto sociale realizza la sostanza della proprietà capitalistica, la quale come scrisse sempre Marx è in primo luogo proprietà sul tempo di lavoro altrui. Che sia un singolo capitalista, o la classe dei capitalisti oppure un capitalista “collettivo” (ad esempio, lo Stato) a disporre di questa proprietà non fa alcuna differenza quanto all’essenza della cosa.
[6] J. Bidet, Marx, Althusser, Foucault e il presente, Bollettino culturale, 6/9/2020.
[7] L. Gallino, L’evoluzione della struttura di classe in Italia (1970), Quaderni di sociologia, 26/27 2001.
[8] Scriveva Paul Mattick nel 1934, analizzando il capitalismo di Stato come venne a configurarsi negli anni Trenta: «Il capitalismo di Stato non è una forma economica più elevata del capitalismo monopolistico, bensì soltanto una sua variante camuffata; esso ha lo scopo di compensare politicamente gli squilibri tra le forze di classe, poiché nel capitalismo monopolistico, a causa dell’assottigliamento della classe dirigente e dei suoi lacchè, è necessario un intervento più diretto dello Stato per la conservazione del dominio di classe» (P. Mattick, La crisi permanente, in AA. VV., Capitalismo e fascismo verso la guerra, La Nuova Italia, 1976).
[9] R. A. Ventura, Radical choc, p. V, Einaudi, 2020. Il Capitale di Marx si apre come segue: «La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una “immensa” raccolta di merci”» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 67, Editori Riuniti, 1980). Produzione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica e produzione di rischi e di magagne d’ogni tipo (e sottolineo d’ogni tipo) sono, a mio avviso, due facce della stessa medaglia, due inscindibili modi di essere e di apparire del Capitale.
[10] «Poggio Rusco 1901, Bussolengo 1977. Nel gennaio 1921 prende parte a Livorno ai lavori di fondazione del nascente Partito Comunista d’Italia (PCd’I), cui aderisce fin dal suo sorgere. Ben presto, però, in seguito alle scoraggianti informazioni che giungevano dall’Unione Sovietica, assume un atteggiamento sempre più critico nei confronti delle pratiche poste in essere dal Partito Comunista dell’Unione Sovietica e dal Comintern. Negli anni trenta, convinto che fosse ancora possibile reincanalare nel giusto alveo lo stato di cose scaturito dalla Rivoluzione d’Ottobre, si avvicina al movimento internazionale capeggiato da Lev Trockij. In questo compito è facilitato anche dalla sua attività di rappresentante di calzature, che gli permette di viaggiare per tutta Europa, toccando grandi capitali come Parigi e Londra» (Wikipedia).
[11] «Che cosa precisamente è la classe? Un insieme di persone? Detto male. È invece una “rete di interessi”, […] intreccio, incontro di interessi» (Amadeo Bordiga, lettera a Onorat Damen del 9 luglio 1951, in O. Damen, Bordiga fuori dal mito, p. 39, Prometeo, 2010). Ecco chi mi ha suggerito la locuzione fitta rete di interessi! Quanto al concetto sottostante non so se, o fino a che punto, esso rispecchi il pensiero di Bordiga. Rileggendo dopo molti anni i suoi scritti sul falso socialismo sovietico, credo che i “miei” concetti di dominio sociale e di classe dominante hanno molti punti di contatto con la concezione bordighiana che informa l’analisi del capitalismo di Stato, in generale, e di quello russo in particolare. Ma, ripeto, posso anche sbagliarmi. Personalmente sono arrivato alla “rete di interessi” seguendo Marx, e la stessa cosa dice di aver fatto Bordiga, il quale peraltro riteneva di essere un mero «ripetitore di Marx»; ma non volendomi nascondere né dietro l’autorità del comunista italiano né dietro quella, assai più riconosciuta, del comunista tedesco, preferisco assumermi la piena responsabilità dei concetti che esprimo. D’altra parte, a differenza di Bordiga io penso che citare un autore significhi già interpretarlo, farlo nostro, restituirlo agli altri attraverso la nostra pregnante mediazione, che lo si voglia o meno. «Propendiamo per sostenere che in Bordiga, proprio in seguito alla riflessione da lui sviluppata sulla struttura economico-sociale dell’URSS, la categoria dì “classe capitalista” tende a decadere come categoria sociologica – indicante cioè un gruppo sociale ben definito – e resta come pura categoria economica» (L. Grilli, Amadeo Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, p. 83, La Pietra, 1982).  Categoria economico-sociale, o sociale tout court, mi permetto di “correggere”. Anche qui vale ciò che ho scritto sopra.
[12] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 33, Editori Riuniti, 1972.
[13] A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 36, Paginaotto, 2020.

COMPLOTTISMI, SPILLOVER E “NUOVO PENSIERO COMUNISTA” (SIC!)

Chi c’è dietro la pandemia? In un editoriale di qualche giorno fa pubblicato dal Corriere della Sera, Paolo Mieli sferza da par suo (non si dice così?) gli italici esponenti delle teorie complottiste in materia di malattie virali, crisi sanitarie e loro inevitabili contraccolpi sul terreno politico-istituzionale – leggi alla voce controllo sociale a mezzo di panico e paura. Anche chi scrive, nel suo infinitamente piccolo, ha tenuto a confermare la propria ritrosia, diciamo così, nei confronti del complottismo, il quale non è che il “pensiero critico” dei poveri di spirito, per dirla con la critica adorniana dell’occultismo in quanto «metafisica degli stupidi».

Scrivevo su un post del 10 marzo: «No, nessun complotto, nessun progetto malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto, nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie. Ciò che qui evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e quant’altro». Nulla da aggiungere. Certo mi piacerebbe sapere, per pura curiosità intellettuale (e non da intellettuale, cosa che non sono), come Mieli leggerebbe il «processo sociale oggettivo» di cui parlo: probabilmente mi metterebbe nel sacco dei complottisti, perché anch’io, in fin dei conti, cerco di puntare i riflettori dell’analisi critica non sul virus, sulle «forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza» (David Quammen), ma sulle condizioni sociali che hanno permesso la genesi e l’espansione della pandemia ancora in corso, nonché sulle devastazioni sistemiche che essa sta producendo nella società. Certo non è imputabile al virus se, ad esempio, nel corso degli anni il sistema sanitario italiano ha subito quella pesante “razionalizzazione” dei costi che sta mostrando i suoi frutti avvelenati. Né al virus possiamo attribuire la colpa di aver spostato la produzione dei più elementari presidi igienico-sanitari in quei Paesi dove i “fattori totali della produzione” hanno un costo minore: già Adam Smith parlava della divisione mondiale del lavoro secondo la teoria dei costi di produzione comparati. In base a questa teoria, confermata sempre di nuovo dalla prassi, personalmente per un mese non sono riuscito a procurarmi una sola mascherina! Quando poi sono riuscito a trovarla in farmacia, l’ho pagata al modico prezzo di 4 euro. Ma cosa sono 4 euro in confronto alla salute, se non anche alla vita? Anche qui, comparazione dei costi e dei benefici. Siamo immersi in un relativismo esistenziale che farebbe orrore perfino a George Orwell. E qui naturalmente evoco anche lo scambio che ci viene gentilmente proposto da chi ci amministra tra tutela della cosiddetta privacy e tutela della nostra salute: un ricatto che ci viene somministrato sotto forma di libera e democratica scelta.

In un altro post ho anche affermato che dal mio punto di vista non ha alcuna importanza stabilire il luogo d’origine, il “punto zero” della diffusione dell’epidemia da Coronavirus che poi si è molto velocemente trasformata in una pandemia che ha investito l’intero pianeta, secondo i tempi e le dimensioni geosociali del capitalismo “globalizzato” del XXI secolo. «L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di esso (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso». Il virus non parla in cinese, o in inglese: esso parla tutte le lingue del mondo, ossia, in estrema e metaforica sintesi, la disumana lingua del Capitale. Ed ecco apparire sulla scena da me confusamente allestita il vero artefice della crisi sociale che sta rendendo molto più difficile soprattutto la vita di chi normalmente conduce una vita difficile, e che solo questa condizione di quarantena può indurre a leggere con una certa nostalgia: «Com’erano belli i tempi in cui potevamo passeggiare e respirare liberamente!» Magari eravamo poveri, ma liberi di scambiarci un bacio al chiaro di luna senza la paura di contagiarci a vicenda o di infrangere un comma qualsiasi dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: come erano belli quei tempi lì. E come sarà, invece, la “nuova normalità”? Per non spargere altro pessimismo tengo per me la risposta. Che poi è un modo suggestivo di rispondere, me ne rendo conto. E mi scuso.

La relativizzazione della condizione umana secondo le circostanze ha sempre sorriso al Dominio, a chi ha interesse a difendere lo status quo sociale, e di questo ha molto parlato anche Primo Levi nel suo racconto della vita degli ebrei e degli altri reietti ai tempi dei campi di concentramento e di sterminio: «I migliori fra noi, i più umanamente sensibili, furono i primi a morire». «Dopo millenni di illuminismo, il panico torna a calare su una umanità il cui dominio sulla natura, in quanto dominio sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero mai a temere dalla natura» (T. W. Adorno, Minima Moralia). Perché ciò che minaccia la nostra vita e la nostra sempre più precaria e volatile serenità non è la natura, la quale si starebbe finalmente vendicando per tutto il male che le abbiamo arrecato soprattutto negli ultimi due secoli, secondo una concezione “naturista” e “animalista” più diffusa di quanto si pensi in certi ambienti culturali; a minacciarci ogni giorno è la totalità sociale che ci tiene in pugno sempre più strettamente, e che ci trascina e ci sballotta in ogni direzione come fossimo dei manichini privi di vita e incapaci di provare dolore. Ma qui per fortuna – faccio dell’ironia – ci “soccorre” la scienza medica, con i suoi meravigliosi ritrovati chimici e psicologici. Nella cura delle anime offese e doloranti i professionisti della religione hanno a che fare con una temibilissima concorrenza.

Scrive Paolo Mieli: «David Quammen, l’autore di Spillover (Adelphi), il libro che dieci anni fa previde quel che sta accadendo adesso, definisce questo genere di teorie cospirazioniste lo “zucchero del web”: più se ne legge, più se ne vorrebbe leggere; “una droga”. Una droga anche per i filosofi». E Agamben (ma anche Diego Fusaro, che ha parlato di una «guerra batteriologica da parte degli Stati Uniti») è sistemato!

«Dimentica le teorie cospirazioniste», ammonisce giustamente Quammen in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al Fatto Quotidiano: «Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie»: è il contributo che, sempre nel mio infinitamente piccolo (le dimensioni di un virus!), cerco di dare anch’io. Come non mi stanco di ripetere, e so benissimo di essere ripetitivo (spero non fino alla noia!), qui chi organizza il complotto ai nostri danni non è né il governo, né la solita Potenza straniera (ognuno scelga quella che più gli aggrada: l’America di Trump, la Cina di Xi Jinping, la Russia di Putin), né i medici in combutta con le multinazionali dei farmaci (le quali ovviamente sfruttano al meglio la nostra sventura: è il capitalismo, bellezza! ): si tratta piuttosto dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. Il complottista non ha un volto ma ha certamente un nome: si tratta di azzeccare quello giusto.

«In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus? Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi» (D. Quammen ). Non c’è dubbio. Ma ha senso qui parlare genericamente e astrattamente di «uomo»? Non ha piuttosto senso chiarire in quale concreta dimensione storico-sociale si svolge l’attività umana? Chi distrugge «gli ecosistemi»?

Ancora l’autore di Spillover, la Bibbia del momento: «Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale. Perché non l’abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti». Si può essere degli eccellenti scrittori, e Quammen lo è di certo, ma questo di sicuro non basta a spingere il pensiero verso una prospettiva in grado di cogliere la reale dinamica dei processi sociali, e sempre Quammen ne è la dimostrazione vivente. Quando non si è in grado di capire la natura classista di questa società, con tutto quello che questa disumana realtà presuppone e pone sempre di nuovo con assoluta necessità in ogni ambito della nostra vita sociale e individuale, il pensiero intelligente, ma non cosciente (in un’accezione politicamente e dottrinalmente peculiare del concetto), deve per forza di cose naufragare nel mare delle banalità che arridono al pensiero dominante – che, come diceva il virologo sociale che spesso cito, è il pensiero della classe dominante.

Al contrario di chi scrive, Slavoj Žižek è ottimista (beato lui!): «Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni» (La Repubblica). Per capire il tipo di «nuovo pensiero comunista» che ha in testa il celebre intellettuale sloveno, è sufficiente leggere quanto segue: «La realtà è già cambiata. Vediamo governi conservatori mettere in atto misure che in altri tempi avremmo chiamato socialiste: Donald Trump ordina a industrie private cosa produrre. Boris Johnson nazionalizza temporaneamente le ferrovie. Stiamo vivendo in un modo che pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. C’è chi teme che i governi approfitteranno del virus per controllarci tutti. Ma io non credo a nuovi totalitarismi. Ho paura, semmai, che aumenti la sfiducia verso le istituzioni: perfino in Cina abbiamo assistito a proteste. Dovremmo trovare un modo per ricostruire la fiducia».  Appena lo statalista (altro che “nuovo pensiero comunista”!) sente in giro odore di statalismo, si eccita come quando Dracula annusa nell’aria l’odore del sangue! «Perfino in Cina abbiamo assistito a proteste»: come si permettono i sudditi cinesi di sfiduciare il regime che li sta proteggendo dall’epidemia? Un’altra perla ascrivibile al «nuovo pensiero comunista» [sic!]: «Gli sforzi delle singole nazioni non bastano. Solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via. Dovremo però affrontare il futuro dell’Unione europea: è stata ridicolmente passiva». Invece definire questa posizione ultrareazionaria come l’espressione di un «nuovo pensiero comunista» non sarebbe ridicolmente farsesco! In ogni caso, se questo è il «nuovo pensiero comunista» ai tempi del Coronavirus, io mi tengo felicemente quello mio, anche se vecchio e rigorosamente non comunista – certamente non nel senso di Žižek e compagni, i quali riescono a far convivere il “comunismo” con il sostegno al polo imperialista europeo chiamato Unione Europea: che inarrivabili capacità dialettiche!

È davvero commovente, diciamo così, osservare lo sforzo con cui molti di noi cercano di farsi piacere questa situazione escrementizia; sforzarsi di far buon viso a pessimo gioco: non è uno spettacolo gradevole alla vista, diciamo così. Si tratta, a mio modesto parere, di un ottimismo – più o meno “rivoluzionario” – degno di miglior causa.

Aggiunta del 10 aprile

CONTRADDIZIONI IN SENO AL POPOLO …

«Mentre il mondo si interroga sul ritorno dello Stato, della sanità pubblica e delle stesse idee socialiste; mentre il filosofo Slavoj Zizek, intervistato qualche giorno fa da Repubblica, si diceva convinto che in questa crisi stia emergendo “un nuovo senso di comunità, una sorta di nuovo pensiero comunista”, due campioni della sinistra mondiale escono di scena. In Gran Bretagna Jeremy Corbyn, ex leader del Partito laburista, sostituito dal più moderato Keir Starmer, e Bernie Sanders ha invece abbandonato l’altroieri la corsa per la nomination presidenziale lasciando il campo libero a Joe Biden, vice di Obama e ormai quasi sicuro front-runner di Donald Trump» (S. Cannavò, Il Fatto Quotidiano).

Cercasi campioni della sinistra mondiale, disperatamente! Tanto più che il socialismo è sempre più a portata di mano: non si parla forse in Italia dell’urgenza di una “Nuova IRI”? «Ma l’IRI fu una creazione del regime fascista!». Appunto!!

SOCIAL CONTAGION

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro-insurrezione (Chuang).

 

Con “colpevole” ritardo ho letto e oggi pubblico uno scritto (Social Contagion) apparso il 27 febbraio sulla rivista Chuang, una rivista indirizzata a coloro che «vogliono superare i vincoli dell’attuale mattatoio chiamato capitalismo». Trovo molto interessante questo testo, nonostante io sia per diversi e rilevanti aspetti distante dalla concezione “dottrinaria” che lo ispira, e che informa, se ho ben compreso, l’indirizzo politico di fondo della rivista di cui sopra (*). Un solo esempio: «I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato». Come sa chi conosce questo Blog, io nego la natura socialista della Cina, da Mao a Xi. Ciò che Chuang chiama socialismo, io lo chiamo capitalismo di Stato “con caratteristiche cinesi”. Ma ci sarà modo di riprendere la questione. Intanto auguro una buona lettura ai lettori e mi scuso per l’imperfetta traduzione del testo.

 

Le fornaci

Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Sembra che le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.

A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in particolare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering e il disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina, e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.

Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nonostante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist». Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insabbiamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime.

Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisamente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza? Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali riflessioni sullo stato attuale della società cinese.

Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mostrando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana. Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.

L’origine delle pestilenze

Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.

L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroalimentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola (1). Queste epidemie possono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la seconda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo. I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamentate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socioecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali (2).

Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre. Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.

Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» (3). Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi: «Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza (4).

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’aumento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.

Storia ed eziologia

Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili precapitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi, vediamo i primi casi di queste piaghe squisitamente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa.

Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus. Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applicazione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un precipizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.

Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna.

Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetsè che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa (5). E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratteristiche.

Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro delle prime iniziative riformiste liberal-progressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per denunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccupandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi. Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevoli per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo.

Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [6]. In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali.

Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra furono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applicazione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione della produzione agricola, sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia: vedi Furore, 1939, di John Steinbeck], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma.

Se, le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.

Gilded Age

Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra tutta la popolazione cinese. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali, destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al consumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age.

Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melanina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH [virus del papilloma umano]. Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.

Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista5, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.

Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie] risultano residenti permanenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.

Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statunitensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.

Non c’è più la natura selvaggia

Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?

La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epidemia. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici.

In altri casi, le catene di valore agro-ecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano. Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accumulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli ambienti, che «possono aumentare le connessioni tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus maggiori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».

Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi precapitalistici e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causalità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambientale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia, in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo, al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contemporanei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso possiamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore.

L’isolamento come esercizio dell’arte di governo

A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesantemente su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.

Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi generalizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti ). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del governo cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare.

La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini. In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di persone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la quarantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.

Incapacità

Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus12, scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.

Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.

A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni economiche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impossibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile, questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1° marzo è stata stabilita come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.

Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabilmente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.

Una guerra surreale

Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la profonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costruzione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre province – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.

In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.

 

(*) Si tratta di un blog di ricercatori cinesi all’estero. «Chuang è un collettivo di comunisti che considera la “questione della Cina” di importanza centrale per le contraddizioni del sistema economico mondiale e le potenzialità per il suo superamento. Il nostro obiettivo è formulare un corpus di teoria chiara in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. […] Speriamo di vedere la Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è iniziare con un’indagine sulla creazione della “Cina” in quanto tale. Qui, la nostra storia non inizia con una storia presumibilmente antica, né inizia con il romanticismo del progetto rivoluzionario cinese, alternativamente glorificato e demonizzato da quelli di sinistra». Chi scrive, che di “sinistra” non è mai stato, non ha né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”. Se ho ben compreso, secondo Chuang si può parlare di un «progetto comunista» praticato in Cina «durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50: «Durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50, ci riferiamo a questo processo come a un “progetto comunista”. Questo progetto è stato incredibilmente vario durante la sua esistenza ed è stato sempre definito dal suo status di movimento di massa con profonde radici nella popolazione. All’inizio, il suo fondamento teorico e la direzione strategica erano prevalentemente quelli dei comunisti anarchici. Nel tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbe guadagnato l’egemonia, ma ciò significava anche che il PCC stesso assorbiva parte dell’eterogeneità del movimento, che avrebbe assunto la forma di fazioni (e purghe) all’interno del Partito stesso. Questa egemonia non è stata imposta al progetto, tuttavia. Era il risultato di un mandato popolare conferito al PCC, che era stato parte integrante della formazione di un esercito contadino di successo e di un movimento di lavoratori sotterranei durante l’occupazione giapponese. Il PCC mantenne la sua egemonia del progetto comunista nei primi anni del dopoguerra dirigendo campagne di ridistribuzione popolare nelle campagne e ricostruendo le città. Con i fallimenti della fine degli anni ‘50 (carestia nel paese e scioperi nelle città costiere), non solo fu messo in discussione il mandato popolare del PCC, ma il progetto comunista stesso iniziò a ossificarsi. Quando la partecipazione popolare è evaporata in risposta a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si è ridotto ai suoi mezzi: il regime di sviluppo. Questo regime stesso poteva essere mantenuto solo dal sempre più ampio intervento del Partito, che li fondeva entrambi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico di fatto) e ne spezzava il legame con il progetto comunista». Qui mi limito a rinviare i lettori ai miei scritti sulla Cina: TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO); SULLA CAMPAGNA CINESE; ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE; DA MAO ZEDONG A XI JINPING. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi

(1) Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Robert G. Wallace. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
(2) R. G. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, New York, 2016. P. 52.
(3) Ibid, p. 56.
(4) Ibid, pp. 56-57.
(5) Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
(6) Vedi: JF. Brundage, GD Shanks, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections L’importanza delle infezioni batteriche secondary, The Journal of Infectious Diseases, Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719.

UMANAMENTE UOMO. IL SOGNO DI UNA COSA. Appunti sui Manoscritti economico-filosofici del 1844

Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa, di cui deve avere soltanto la coscienza per possederla realmente [1].

Dal momento che l’essenza umana è la vera essenza comune degli uomini, gli uomini creano mediante l’attuazione della loro essenza, producono l’essenza umana comune, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta di contro al singolo individuo, ma l’essenza di ogni singolo individuo. […] Ma fintanto che l’uomo non si riconosce come uomo e dunque non ha organizzato il mondo umanamente, questa essenza comune appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso [2].

 

Non tutte le perdite vengono dunque per nuocere! Di che blatero? È presto detto. Non trovando più la mia vecchia copia dei Manoscritti marxiani del 1844, e avendo visto in libreria una loro nuova edizione dalla copertina molto accattivante (il “classico” Chaplin di Tempi moderni alle prese con i mostruosi ingranaggi), mi sono visto “costretto” a comprare il libro e a rileggere per l’ennesima volta la splendida prosa del “giovane Marx”. E quando scrivo “splendida” non intendo formulare un giudizio meramente estetico, tutt’altro. Quella prosa evoca infatti nel mio debole cervello il concetto di potenza: moltissimi passi dei Manoscritti hanno infatti una densità e una profondità (radicalità) concettuali tali, che personalmente non posso ricondurre il tutto se non al concetto, appunto, di potenza; potenza espressiva e teoretica. Ma qui siamo già al merito della cosa. Ci arriviamo. Non prima però di aver dato ai lettori un’ultima – non richiesta! – giustificazione del gravoso (10 euro!) investimento “culturale” che ha prodotto le pagine che seguono.

Per farla breve, sono rimasto favorevolmente colpito anche da quanto è scritto sulla quarta di copertina del libro in questione: «Diversamente dalle traduzioni ancora oggi in commercio e risalenti ormai a settant’anni fa, questa edizione si basa sulla versione più recente e scientificamente verificata dei manoscritti marxiani (MEGA2). […] A questo aggiunge inoltre – sempre distinguendosi rispetto alle vecchie edizioni italiane – la traduzione di nuove pagine marxiane, le cosiddette Note su James Mill, che forniscono una chiara risposta alla domanda sollevata dai celebri passi di Marx sull’alienazione del lavoro: cosa significa lavorare e produrre in modo umano?». Capite bene che un appassionato di testi marxiani [3]  quale è chi scrive non poteva rimanere sordo al richiamo di quella sirena. Si dirà che tutte le scuse sono buone per gustare ancora una volta ciò che da sempre delizia il proprio palato; e si dice il vero! Ma abbandoniamo l’antipatica quanto narcisistica sfera del “personale” e veniamo al merito della questione.

Segue qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Lettera di Marx a Ruge del settembre 1843, in K. Marx, La questione ebraica, autunno 1843, p. 53, Newton, 1975.

[2] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 193, Feltrinelli, 2018.

[3] Soddisfo l’eventuale curiosità di qualche lettore. Mi sono definito «un appassionato di testi marxiani» e non «un marxista» semplicemente perché la mia interpretazione dottrinaria e politica dei testi marxiani potrebbe non avere nulla a che fare con l’autentico pensiero marxiano: vallo a sapere! A mio avviso non ha molta importanza, e certamente non la considero una questione dirimente, definirsi “marxista”, e ciò è testimoniato dal fatto che la stragrande maggioranza degli intellettuali e dei politici che amano invece esibire la loro (presunta) identità “marxista” (si tratta naturalmente di un «marxismo aggiornato ai tempi»: come no!) a mio più che sindacabile giudizio non ha nulla a che vedere con la teoria e con la prassi riconducibili in qualche modo al comunista di Treviri, e anzi ne rappresenta l’esatto opposto – spesso sotto la escrementizia forma dello statalismo contrabbandato per “socialismo”.

SAREMO NOI CHE ABBIAMO NELLA TESTA UN MALEDETTO MURO…

Sarà la musica che gira intorno, quella che
non ha futuro. Saremo noi che abbiamo nella
testa un maledetto muro (I. Fossati).

Dei rituali festeggiamenti organizzati in Germania e in tutto il «libero e democratico Occidente» per ricordare la caduta del Muro di Berlino, ciò che ho trovato di gran lunga più vomitevoli sono stati i ridicoli tentativi di difendere le ragioni del Muro, della DDR e dell’imperialismo “sovietico” da parte degli ultimi nostalgici dello stalinismo e dell’assetto politico-sociale mondiale del periodo storico chiamato Guerra fredda (1). Purtroppo questi infimi personaggi non sono pochi, soprattutto in Italia, dove non a caso per decenni operò il più forte partito stalinista d’Occidente: si chiamava Pci – da Togliatti a Occhetto, mutatis mutandis.

Per il Financial Times, il 9 novembre 1989 «è il giorno glorioso che ha reso possibile la costruzione di un’Europa libera e democratica»; per i nostalgici del “socialismo reale” quella data rappresenta invece l’inizio della fine, il progressivo scivolare del mondo nell’abisso del “liberismo selvaggio”.

Anziché demistificare la propaganda degli apologeti del “sistema occidentale”, personaggi che si autodefiniscono anticapitalisti e militanti della “causa comunista”, si sono buttati nell’escrementizia impresa di dimostrare che ai tempi del “socialismo reale” i lavoratori europei se la passavano meglio che ai nostri “ordoliberistici” tempi, e che lo stesso “socialismo” della DDR alla fine degli anni Ottanta era tutt’altro che decotto e giunto al capolinea, sebbene denunciasse alcune magagne economiche tutte ascrivibili alla criminale iniziativa espansionista messa in essere dalla perfida Germania Occidentale, non solo con il sostegno attivo degli imperialisti americani, com’è ovvio, ma anche con il tacito consenso dei «revisionisti e traditori del socialismo» tipo Gorbacev, il patetico “teorico” della Glasnost e della Perestrojka che firmò un certificato di morte per un cadavere già in avanzatissimo stato di putrefazione. Solo gli stalinisti occidentali, tristi e grigi personaggi di stampo orwelliano-kafkiano, non sentivano il vomitevole olezzo proveniente da Oltrecortina, e denunciavano con disprezzo l’ingenuo popolo dei paesi dell’Est che con tanta facilità si lasciava sedurre dalle false promesse di una società più prospera e libera che giungevano dall’Ovest capitalistico. «Non rinunciate a quel poco che vi dà la Patria socialista, ricca di nobili ideali e lanciata verso un radioso futuro, in cambio di un mondo mercificato e pieno di ingiustizie». E allora, perché non costruire un Muro ancora più alto ed esteso, ancora più “intelligente” dal punto di vista tecnologico, così da mettere al riparo le masse dell’Est traviate dal demone capitalistico? Perché non prendere esempio dai Cari Compagni Cinesi, i quali avevano annegato nel sangue le fantasie consumistiche di chi aveva osato sfidare il Millenario regime “comunista”? Altro che un Muro: per difendere il “socialismo”, ancorché “reale”, dal capitalismo tentatore e corruttore bisognava alzare una Muraglia cinese!

Per il “compagno” Gorbaciov invece ormai non c’era più nulla da fare, se non gestire al meglio la fine dell’assetto politico-istituzionale imposto con la forza delle armi dalla Russia stalinista secondo i noti accordi stipulati con gli americani già a partire dal 1943 (Conferenza di Teheran), quando le due Super-potenze iniziarono a delineare il Nuovo Ordine mondiale postbellico, diventato col tempo vecchio e pieno di crepe, incapace di sopravvivere ai mutamenti imposti al mondo dal processo sociale capitalistico. Un Ordine che diventò insostenibile soprattutto al centro dell’Europa, con la mai sopita Questione Tedesca. Non a caso i primi a non volere la Riunificazione tedesca erano, com’è noto, gli inglesi e i francesi (2), timorosi di dover fare i conti con una Germania ancora più forte di quanto già non fosse diventata la sua parte Occidentale nel volgere di pochi lustri, dopo un esito catastrofico del conflitto. Quasi tutti gli storici e gli analisti geopolitici più seri concordano oggi nell’attribuire alla Germania la metaforica medaglia d’oro nella competizione sistemica chiamata Guerra Fredda (3).

Ovviamente il penoso discorsetto degli stalinisti allora non commosse neanche un po’ i proletari dell’Est, sfruttati, umiliati e oppressi dai regimi capitalistici orientali – ovviamente definiti “socialisti” anche dai colleghi anticomunisti dichiarati (viva la sincerità!) degli stalinisti: due facce della stessa escrementizia medaglia. Polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, rumeni, tedesco-orientali: tutti volevano abbandonare la “Patria socialista” per cercar fortuna nella Germania Occidentale, al punto che il 18 marzo 1989 il Washington Post scrisse che «l’URSS, preoccupata dal caos che investe l’Europa orientale, spinge la Germania Federale a svolgere un ruolo più deciso nella regione al fine di promuovere un ordine economico e politico più stabile». Poteva la Germania Occidentale rimanere insensibile alle richieste degli amici sovietici? Giammai! Sappiamo come è andata a finire la vicenda.

Per Vladimiro Giacché, «L’unificazione tedesca è stata un elemento fondamentale del crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo e quindi del ridisegno dell’assetto geopolitico in Europa rispetto all’ordine postbellico. In un certo senso, è l’evento che chiude simbolicamente il Novecento, e comunque uno spartiacque decisivo al suo interno». Cosa c’è di sbagliato in questa ricostruzione storica? A mio avviso l’essenziale, soprattutto dal punto di vista di chi lotta contro la vigente società capitalistica mondiale in vista di una – possibile e oggi sempre più negata – Comunità Umana: i «regimi comunisti» di cui parla Giacché non solo non avevano nulla a che fare con il comunismo, o con il socialismo, né con quello “reale” né con quello immaginario; ma del comunismo e del socialismo essi rappresentavano la più completa negazione. Come scrivo ormai da troppo tempo, il cosiddetto socialismo reale fu un reale capitalismo – più o meno “di Stato”, secondo le caratteristiche storico-sociali dei vari “Paesi socialisti”. Senza contare che i Paesi dell’Est europeo diventarono “socialisti” grazie alla spartizione del Vecchio Continente tra le due grandi Potenze imperialiste uscite vincenti dal Secondo macello mondiale. Sotto questo aspetto, la divisione della Germania rappresentò il paradigma del nuovo ordine mondiale post-bellico.

Si parla tanto di Ostalgie, cioè della nostalgia per la Germania dell’Est che starebbe dilagando nei Länder Orientali, soprattutto fra gli strati sociali più poveri, i quali esprimono la loro rabbia e il loro disagio anche aderendo a ideologie neonaziste. Le masse frustrate e incoscienti armano la loro mente e il loro braccio con ciò che trovano sul mercato politico-ideologico. Evidentemente la Riunificazione non è stata un pranzo di gala, né poteva esserlo, come non lo è nessun processo sociale capitalistico, soprattutto se di vaste proporzioni. (Peraltro in Italia si parla ancora di una Questione Meridionale ancora dopo più di un secolo e mezzo dall’Unità!). Scrivevo nel lontanissimo dicembre 1989: «Sarà molto più facile che in passato per il proletariato di Est e di Ovest riconoscersi nella “casa comune” degli sfruttati e dei senza potere, riconoscersi negli stessi problemi e nelle stesse lotte. Sotto questo aspetto è legittimo aspettarsi dalle classi subalterne dei Paesi dell’Est grandi cose, perché i problemi che in essi si sono aperti non sono di facile  soluzione e le contraddizioni che li stanno investendo sono destinate ad acuirsi. […] Le economie dei Paesi dell’Est si aprono a un mercato mondiale sempre più agguerrito, ed esse non potranno rialzarsi tanto facilmente, con ciò che ne segue sul terreno della conflittualità sociale ad Est e di un suo possibile contagio ad Ovest» (A carte scoperte. La crisi dell’Est Europa come crisi del capitalismo stalinista ed esplosione delle vecchie alleanze imperialistiche). Diciamo che non c’è stato alcun contagio. Diciamo che allora peccai di ottimismo, capita.

Scriveva lo storico Viktor Suvorov: «L’obiettivo del muro: evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo normale. Il muro fu costantemente perfezionato e rinforzato. […] Ma più lavoro, ingegnosità, denaro e acciaio i comunisti mettevano per migliorare il muro, più chiaro diventava un concetto: gli esseri umani possono essere mantenuti in una società comunista solo con costruzioni impenetrabili, filo spinato, cani e sparandogli alle spalle. Il muro significava che il sistema che i comunisti avevano costruito non attraeva ma repelleva». Quel sistema non attraeva ma repelleva: su questo, come si dice, non ci piove, e solo i più incalliti stalinisti possono negarlo – e di fatti continuano a farlo! Ma siamo proprio sicuri che si trattasse di una «società comunista»?

Per Suvorov l’obiettivo del muro fu quindi quello di «evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo normale»: cosa dobbiamo intendere per «mondo normale», il capitalismo con “caratteristiche occidentali” o il capitalismo tout court? Sempre ammesso, per pura quanto assurda ipotesi, che la Germania Orientale fosse davvero governata da un regime socialista. Ora, non c’è dubbio che per la stragrande maggioranze della popolazione mondiale il capitalismo è il solo «mondo normale» possibile. Per il saggista Yuval Noah Harari, «Possiamo non amare il capitalismo, ma non possiamo vivere senza il capitalismo. Ciò che è necessario è che vi sia un controllo su di esso. Lo Stato non può non intervenire» (Sapiens. Da animali a dèi, Bompiani). Oltre il capitalismo, il Nulla.

Sostenendo i cosiddetti “regimi socialisti”, in passato anche gli stalinisti hanno collaborato con zelo alla costruzione di questo maledetto muro mentale (definirlo semplicemente ideologico mi sembra riduttivo), il quale impedisce soprattutto alle classi subalterne di immaginare un mondo libero da ogni forma di dominio, di sfruttamento, di oppressione politica e psicologica.

La musica della liberazione davvero non ha un futuro? Non saprei dire, e fortunatamente il futuro non dipende da me; ciò di cui però sono certo, anzi certissimo, è che abbattere quel «maledetto muro», almeno provarci, non è affatto un’impresa impossibile, né disprezzabile, né incapace di soddisfazioni “esistenziali”.

So benissimo che questo discorso non può che suscitare ilarità nella testa delle persone animate da realismo e da sano buonsenso; quelle persone che anziché discorrere oziosamente intorno al migliore (o semplicemente umano?) dei mondi possibili, lottano per migliorare questo (capitalistico) mondo, l’unico mondo possibile («siamo realisti!»), e di farlo con pazienza, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Salvo poi magari, nella migliore delle ipotesi, rendersi conto che la pratica del “male minore” spalanca le porte al “male peggiore”.

(1) Solo due esempi. Scrive il noto complottista Giulietto Chiesa: «Dal 1949 al 1961, ben 2,7 milioni di persone uscirono da Berlino. Solo nel 1960 – l’anno prima del Muro – se ne andarono in 200mila. Alla DDR restava solo la scelta tra arrendersi e sprangare la porta. Ma i rapporti di forza tra le due parti del Muro rimasero diseguali. Il Muro resse per 28 anni. Adesso sarebbe tempo di dire la verità sui motivi che lo fecero sorgere. Ma questa verità non può essere detta». E qual è la verità secondo il Nostro? Che dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi l’Unione Sovietica non fece che reagire alla politica imperialista degli Stati Uniti, i quali tradivano puntualmente le amichevoli aperture di Mosca. Si dirà che questa è la vecchia e rancida cacca propagandistica servita dalle mense moscovite per decenni nel corso della Guerra Fredda; e infatti è proprio così. Qualunque sia la loro ispirazione politico-ideologica (democratica, fascista, nazista, stalinista, ecc.), i difensori della società capitalistica ragionano sempre in termini di ragion di Stato (capitalistico, si capisce): «Alla DDR restava solo la scelta tra arrendersi e sprangare la porta». Cacca, appunto, e con rispetto parlando.
Ecco adesso un Twitter di Marco Rizzo, Segretario generale del Partito Comunista (sic!): «Quando c’era il muro di Berlino… c’era l’art.18; uno stipendio da un milione di lire (500 €) era un ottimo stipendio; la DDR aveva case, lavoro e welfare per tutti; Libia, Irak, Siria erano stati indipendenti; i popoli africani non erano obbligati ad una migrazione forzata…». Per non parlare di Babbo Natale e della Befana, i quali ogni anno rallegravano i bambini con doni e con dolci. Altro che la festa di Halloween importata  dagli Stati Uniti! Non c’è niente da fare: lo stalinista perde il pelo ma non il vizio.
(2) Scrive Sergio Romano: «Sapevamo che trent’anni fa, dopo il crollo del muro di Berlino, alcuni uomini di Stato europei (fra i quali Mitterrand, Thatcher e Andreotti) vedevano con qualche timore e molta diffidenza la prospettiva di una Germania riunificata. Ma un articolo di Philip Stephens apparso sul Financial Times del 25 ottobre ci ricorda che Margaret Thatcher, allora primo ministro del Regno Unito, si spinse più in là. Approfittò del viaggio di ritorno, dopo una visita a Tokyo nel settembre 1989, per una sosta a Mosca dove ebbe una conversazione a quattrocchi, nella sala di Santa Caterina del Cremlino, con Mikhail Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica e segretario generale del Partito comunista. Parlarono di Germania e la Lady di ferro, secondo le note prese da un consigliere di Gorbaciov (Anatolij Cerniaev), disse al suo interlocutore che la Gran Bretagna non desiderava la riunificazione tedesca “perché temeva mutamenti territoriali che avrebbero pregiudicato gli equilibri del secondo dopoguerra”. Per le stesse ragioni Thatcher, in quella circostanza, avrebbe garantito a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe adoperata per la dissoluzione del Patto di Varsavia (l’accordo stipulato dall’Urss con i suoi satelliti nel 1955). Contemporaneamente, secondo i ricordi di Philip Stephens, Thatcher avrebbe proposto al presidente francese François Mitterrand la conclusione di una Intesa Cordiale simile a quella che Francia e Gran Bretagna avevano concluso nell’aprile del 1904 per contenere la crescente potenza del Reich tedesco. Trent’anni dopo, le preoccupazioni della signora Thatcher mi sembrano almeno in parte giustificate» (Il Corriere della Sera). Com’è noto, Mitterrand impose a Kohl l’abbandono del Marco tedesco e l’accettazione dell’Euro nel vano tentativo di controllare e azzoppare in qualche modo la potente economia tedesca, ossia il fondamento materiale della Questione Tedesca, la quale è a tutti gli effetti e sempre di più una Questione Europea.
Evidentemente i leader europei del tempo sottovalutarono la crisi economica, sociale e politica che da tempo minava le stessa fondamenta del cosiddetto “socialismo reale”, a partire dall’Unione Sovietica, ormai incapace di reggere il confronto con il ben più forte e dinamico “modello occidentale”: alla fine degli anni Ottanta il regime sovietico appariva (ed era) moribondo, incapace di reagire a sfide di un certo rilievo, come dimostrò la stessa vicenda occorsa a Chernobyl.
(3) Per Carlo Jean l’esito della Guerra Fredda, con l’unificazione tedesca, «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (Manuale di geopolitica, p. 153, Laterza, 2003). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile, e certamente non auspicabile. Scriveva uno sconsolato Vittorio Feltri cinque anni fa: «Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea, esso riappare all’orizzonte. Quell’egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata “pacificamente” conseguita con l’arma economica» (Il Giornale). È il capitalismo nella sua fase imperialista, bellezza!

 

Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019: IN CHE SENSO È CORRETTO PARLARE DI “REVISIONISMO STORICO”?

Ho appena letto la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Si tratta della Risoluzione che equipara nazismo e – cosiddetto – comunismo e che condanna i «crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo». Il documento si presta a diverse considerazioni, ma qui intendo tirare, in modo assai stringato, solo pochi fili polemici.

Giustamente da più parti si è parlato del contenuto di quella Risoluzione come di un rozzo revisionismo storico inteso a supportare un’iniziativa dai chiari connotati politico-ideologici, sintetizzabili nel concetto di superiorità europeista – e atlantista, visti i robusti legami che (ancora) legano i Paesi europei agli Stati Uniti. L’Unione Europea come faro di civiltà, come centro di irradiamento del benessere, della libertà, della tolleranza, dell’apertura, della pace; l’Unione Europea come baluardo contro ogni forma di totalitarismo e di gretto nazionalismo (o sovranismo), fonte di vecchie e nuove forme di razzismo e di derive autoritarie. Si tratta insomma del rancido minestrone ideologico che dovrebbe nutrire le iniziative europeiste intese a fare dell’UE un forte polo imperialistico in grado di reggere il confronto con la Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Com’è noto, ormai da diversi anni questo progetto, guidato da Berlino e Parigi, registra una grave battuta d’arresto, cosa che ovviamente delizia la concorrenza.

«La memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne» (punto L della Risoluzione). Inutile dire che «la resilienza europea alle moderne minacce esterne» non mi commuove neanche un po’: personalmente combatto tanto la patria chiamata Italia quanto la patria chiamata Europa. Come diceva quello, il proletariato non ha alcuna patria da difendere e un mondo da conquistare. Dicendo questo so di espormi al severo giudizio degli antitotalitari politici di Strasburgo, ma non posso farci niente; né d’altra parte mi sono mai illuso circa la natura dello Stato di diritto.

Scrive Cosimo Francesco Fiori: «Paesi ex membri del Patto di Varsavia, o addirittura compresi nel territorio dell’ex Urss (Paesi baltici) sono oggi sedi di basi della Nato. […] La continuità Urss-Russia porta a notevoli esercizi di revisionismo, come la recente rimembranza dello sbarco in Normandia, tenutasi in Inghilterra alla presenza della Regina Elisabetta, alla quale non erano presenti autorità russe (è vero che l’Urss non partecipò allo sbarco, ma era un paese alleato) ma era invece presente la Cancelliera Merkel (la Germania partecipò allo sbarco, ma invero dalla parte di chi sparava contro gli sbarcati)». Più che di revisionismo, qui parlerei piuttosto di un uso strumentale della storia, un’operazione vecchia quanto la storia stessa, la quale solo raramente si presta a una sua lettura univoca, e ciò vale soprattutto nei periodi di rapide trasformazioni sistemiche, com’è indubbiamente quello che stiamo vivendo, non a caso definito “interessante” da storici e da analisti geopolitici. Si piega la storia dal lato che più conviene in una data situazione: un classico nella vita degli Stati! Ovviamente chi rema contro la società capitalistica deve denunciare questo “revisionismo storico”, deve metterne in luce le reali motivazioni, senza però coltivare nella testa delle persone l’idea di una storia politicamente e socialmente neutra, a cominciare dal fatto che fin qui la storia è stata scritta dalle classi dominanti.

Per un comunista antistalinista (del resto non concepisco altro comunismo che non sia radicalmente antistalinista, antimaoista, ecc.) mettere sullo stesso piano storico-sociale nazismo e stalinismo è cosa assolutamente scontata, come deve risultargli ovvio vedere nel Patto Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto 1939 l’effettivo inizio cronologico (*) del secondo macello imperialistico chiamato dai vincitori d’allora Guerra di Liberazione. Lascio dunque a quelli che personalmente definisco falsi comunisti (i quali non a caso oggi simpatizzano per la Cina, per il Venezuela, per Cuba, e qualcuno anche per la Russia di Putin, l’Iran, la Siria) l’escrementizia incombenza di difendere le ragioni storiche e politiche dello stalinismo, la cui genesi storica va a mio avviso rintracciata nella controrivoluzione politico-sociale che già negli anni Venti annientò l’eccezionale esperienza dei Soviet – con l’aggravante orwelliana di conservarne la simbologia, micidiale carta moschicida per molti intellettuali “comunisti” e “progressisti” europei.

Qui intendo solo osservare che è semplicemente ridicolo voler attribuire la responsabilità della Seconda guerra mondiale esclusivamente ai due totalitarismi europei (e a quello asiatico che reggeva il Giappone): le sue cause di fondo vanno infatti ricercate nella stessa natura del capitalismo mondiale giunto nella sua fase imperialistica. «La Prima guerra mondiale fu certamente “conseguenza immediata” dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, ma chi ritenesse tale evento causa sufficiente della guerra avrebbe bisogno di (ri)aprire i libri di storia. Analoga censura si può muovere alla risoluzione del Parlamento europeo, secondo la quale il Patto Molotov-Ribbentrop è sufficiente a spiegare il Secondo conflitto che ne è, appunto, “conseguenza immediata”. Ma non si fa menzione di ciò che lo ha preceduto: né, ad esempio, del riarmo tedesco, né dell’atteggiamento delle potenze occidentali dal Trattato di Versailles del 1919 (criticato fin da subito da Keynes) fino alla conferenza di Monaco del 1938, con la sostanziale acquiescenza all’espansionismo del Terzo Reich» (C. F. Fiori). Se la Germania, l’Italia e il Giappone erano certamente interessati a modificare l’ordine mondiale di quel tempo, questo si spiega non con la natura totalitaria dei rispettivi regimi, ma appunto con gli interessi imperialistici (di natura economica, militare, geopolitica) di quei Paesi, sempre più insofferenti nei confronti degli “equilibri mondiali” difesi da Stati Uniti, Regno Unito e Francia, legittimamente gelosi di un assetto geopolitico e geoeconomico che li favoriva.

L’Unione Sovietica si barcamenava a “destra” e a “sinistra” dello schieramento interimperialistico per conquistare tempo alla sua già spiccata voracità imperialistica non ancora adeguatamente supportata dal suo Capitalismo di Stato – altro che “Socialismo in un solo Paese”! In questa impresa il “Paese dei Soviet” (sic!) poteva d’altra parte contare su una vasta rete “diplomatica” non convenzionale costituita dai Partiti cosiddetti comunisti foraggiati, in tutti i sensi, da Mosca. Com’è noto, in quella rete si distingueva per zelo e servilismo il Partito di Togliatti, quest’ultimo giustamente considerato il migliore fra gli stalinisti, e non solo fra quelli italiani (**).

In secondo luogo, si “dimentica” che la Russia stalinista fu parte integrante e decisiva dello schieramento antinazista, beninteso una volta che il camerata Hitler ebbe la malsana idea di “tradire” il “compagno” Stalin per papparsi i grassi territori dell’Unione Sovietica, un boccone troppo grosso e duro da digerire che risulterà fatale al Terzo Reich – che si voleva Millenario . Si “dimentica” che la spartizione dell’Europa e del mondo fra le potenze vincitrici fu l’epilogo di una guerra che aveva visto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ascendere al rango di prime potenze imperialistiche mondiali, e la Gran Bretagna e la Francia discendere mestamente verso più modeste posizioni nella classifica delle Potenze, fino a perdere il loro vecchio e “glorioso” rango di Potenze Globali. Le foto che ritraggono Stalin, Roosevelt (e poi Truman) e Churchill seduti insieme al tavolo dopo un summit più o meno decisivo illustra bene lo spirito di “fraterna collaborazione” che regnava tra i briganti (per dirla con Lenin) dell’Alleanza politico-militare uscita vittoriosa dal conflitto. «Questa fetta di torta a me, e quest’altra a te. Le briciole cadute a terra lasciamole pure al cane sdentato che abbaia pietosamente».

Dal mio punto di vista, una prospettiva del tutto estranea e ostile al cosiddetto “comunismo” di matrice togliattiana, tutti i protagonisti della carneficina mondiale vanno dunque messi su un unico piano: quello del conflitto interimperialistico per la spartizione del bottino.

L’Europa “pacifista” (in realtà “pacificata”, a suon di bombardamenti terrestri, marittimi e aerei) di oggi non sarebbe spiegabile senza gli scarponi militari Made in USA e Made in URSS: solo dopo la guerra e la spartizione del mondo Washington e Mosca “scopriranno” di essere i centri mondiali di due diverse e opposte “concezioni del mondo”, di due diverse e opposte “civiltà”: da una parte il Capitalismo e la democrazia (capitalistica, appunto), dall’altra il “Socialismo” [sic!] e la “dittatura del proletariato” (o del “popolo”, cioè del Partito-Regime: vedi anche la Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping). La lunga Guerra fredda fu il modo in cui le due Super-Potenze cercarono di mantenere inalterato il quadro degli assetti imperialistici disegnato dalla Seconda guerra mondiale; la propaganda ideologica apparecchiata a Mosca e a Washington serviva a rafforzare quel quadro, tenendo viva e calda la minaccia di una guerra termonucleare che avrebbe riportato il mondo ai tempi degli uomini primitivi. Com’è noto, l’Unione Sovietica non fu in grado di reggere il confronto strategico con gli Stati Uniti, i quali peraltro sul versante della competizione economica iniziarono a soffrire l’iniziativa degli “alleati” (della Germania e del Giappone, in primis) già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.

Scrive il già citato Fiori: «D’altra parte, quel Patto è piuttosto incongruo, alla luce di quel che è successo sia prima, sia dopo: la Germania nazista si allea coll’unico Paese comunista al mondo dopo aver mandato tutti i comunisti tedeschi nei campi di concentramento, e poi tenta di cancellare il suo alleato dalle cartine geografiche. La guerra mondiale fu diverse cose assieme, e isolare un fatto storico dal suo contesto è errore talmente grossolano che si può spiegare solamente in base al valore polemico che una simile premessa assume». Certo, se si attribuisce all’Unione Sovietica di Stalin una natura comunista, o socialista (ancorché segnata da un “socialismo reale” molto lontano dal “socialismo ideale”), il famigerato Patto nazistalinista può apparire effettivamente «piuttosto incongruo», per non dire assurdo, inspiegabile senza scomodare categorie storiche, politiche e sociologiche di cui personalmente non ho contezza; se invece si attribuisce a quel Paese una natura pienamente capitalistica e imperialista, come peraltro cominciarono a fare alcuni comunisti europei già alla fine degli anni Venti, allora la cosa rientra nella normalità del processo storico-sociale e perde tutti i suoi caratteri misteriosi e “incongrui”.

«È scarsamente euristico catalogare regimi politici sulla base di conteggi e tassonomie che escludono il loro elemento più pregnante, ossia il loro contenuto concettuale. Una fondata analisi deve saper fare distinzioni, senza mescolare il tutto in una stolida e generica critica della violenza in astratto, che di fronte all’erompere della necessità della Storia ha lo stesso grado di utilità che potrebbe avere una critica della legge di gravità» (Fiori). Credo di aver chiarito, con tutti i limiti concettuali e politici che sono il primo a riconoscermi, il «contenuto concettuale» dei due regimi in questione, e di aver riempito di contenuti storici e sociali la violenza dispiegata dal nazismo e dallo stalinismo, la cui natura (capitalistica) è del tutto identica a quella che anima le iniziative dei Paesi che oggi predicano contro il totalitarismo di ieri, di oggi e di domani.

È nella natura totalitaria dei vigenti (su scala mondiale) rapporti sociali capitalistici che, a mio avviso, va ricercata la causa fondamentale della violenza sistemica (materiale, “spirituale”, morale, psicologica, in una sola parola: esistenziale) che, oggi come ieri, si manifesta in mille modi, in ogni aspetto della prassi sociale e della vita di ogni singolo individuo, e che rischia continuamente di dispiegarsi nella sua forma più “pura”. Sulla base di questi rapporti sociali tutto il male è possibile, anche quello che oggi ci appare come inconcepibile: troppo spesso questa apparenza è stata smentita.

Aggiunta del 29 settembre 2019:

La rozzezza dell’operazione non è sfuggita nemmeno a un antitotalitario ed europeista doc come Mattia Feltri, il quale ha letto la Risoluzione del Parlamento europeo come un maldestro tentativo di appiccicare all’UE un’identità che ancora essa non riesce a trovare, divisa com’è al suo interno da interessi nazionali che non riescono a trovare una “sintesi” (Lo spettro dei totalitarismi se l’Europa non riesce a definirsi, La Stampa).

(*) Come storico dello stalinismo Viktor Suvorov, ex ufficiale del controspionaggio militare sovietico il cui vero nome è Vladimir Rezun, lascia alquanto a desiderare. Concordo invece con lui quando scrive: «Curioso davvero: la Germania ha aggredito la Polonia, quindi la Germania ha iniziato e partecipato alla guerra europea e, di conseguenza, mondiale. L’Unione Sovietica ha fatto lo stesso, e nello stesso mese, però di lei non si dice che ha iniziato la guerra. E la sua partecipazione alla guerra mondiale viene calcolata soltanto a partire dal 22 giugno 1941. Perché?» (V. Suvorov, Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano 2000). Già chissà perché. Azzardo una capziosa risposta sotto forma di domanda (retorica): non sarà perché la storia è scritta dai vincitori?

(**) «La notizia del Patto Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto del1939 a Mosca si abbatté come un terribile elettroshock su tutto il corpo del comunismo mondiale. Le parole di Stalin rivolte al ministro degli Esteri nazista: «Io so quanto la nazione tedesca ami il suo Fuhrer, io bevo dunque alla sua salute», sono, per tutti i rivoluzionari professionali, i militanti di base, i simpatizzanti, un insulto e un evento difficile da capire, da accettare, da spiegare. […] Il 23 agosto l’Humanité ha pubblicato, forse ispirata dai rappresentanti del Comintern in Francia, uno strano articolo nel quale si auspica, in nome della pace mondiale, un generale embrassons nous, comprendendo la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini. Il giorno dopo, 24 agosto, il Pcf è già ben allineato mentre l’indignazione dei francesi, senza troppe distinzioni di classe o di credo politico, è al massimo. Gitton sull’Humanité e Louis Aragon su Ce Soir, sostengono la tesi quasi obbligata che il Patto è una vittoria dell’Urss, di Stalin, del pacifismo. Ma le acrobazie dialettiche servono a poco. La situazione per il Pcf diventa di ora in ora più pesante. Fortunatamente c’è a Parigi in quei giorni un ospite d’eccezione: Palmiro Togliatti. Togliatti è stato tra gli ultimi a lasciare la Spagna per raggiungere via Parigi, dopo un viaggio avventuroso nel maggio del 1939 la capitale sovietica. Inaspettatamente Togliatti, uno dei più importanti dirigenti del Comintern, viene rispedito solo tre mesi dopo, alla fine di luglio, a Parigi. Paolo Spriano nella lunga ed esauriente introduzione al IV volume delle Opere di Togliatti (Editori Riuniti) affaccia l’ipotesi del tutto credibile che egli sia stato mandato a Parigi per seguire da vicino la situazione francese in un momento delicato quale è quello del luglio 1939. […] Per i comunisti italiani che vivono in carcere o da fuorusciti la situazione non è meno drammatica. La terribile fotografia in cui si vede Stalin stringere la mano a Ribbentrop, oltretutto, coglie il Pci in un momento di profonda crisi. I rapporti con i cugini socialisti tendono a peggiorare ogni giorno di più. […] Ma a questo punto, per concludere la rievocazione delle ripercussioni del Patto Molotov-Ribbentrop sul mondo comunista, dobbiamo tornare a Parigi. Abbiamo lasciato Togliatti nel carcere della Santé. Dimitrov in prima persona e l’intero apparato del Comintern si sono mobilitati per la sua liberazione, assoldando avvocati di grido e, probabilmente, trattando sottobanco con la polizia e i servizi segreti di Parigi. Uscito dal carcere, e prima di partire per Mosca, Togliatti trascorre un mese nascosto nella casa di Umberto Massola. Ed è qui che il capo dei comunisti italiani prepara quelle Lettere di Spartaco che costituiscono il punto più alto dello stalinismo del Pci, e forse sono la vera ragione della missione di Togliatti a Parigi. In quelle lettere il Patto viene giustificato e preso a pretesto per una serie di attacchi forsennati ai socialfascisti: “Fanno oggi quello che fecero nel corso della guerra imperialistica del 1914-1918. Sono al servizio della borghesia imperialista reazionaria e guerrafondaia, sono all’avanguardia nelle campagne di menzogne, di calunnie, e di provocazioni”. Il 3 settembre del 1939 Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Comincia la drole de guerre che di lì a pochi mesi si trasformerà nella più spaventosa tragedia di questo secolo. Cinquant’anni sono trascorsi da quel fatale brindisi tra Stalin e Ribbentrop. Ma le scorie del Patto come certe piogge radioattive continuano a manifestare i loro effetti negativi» (G. Corbi, La Repubblica, 18 agosto 1989).

 

IL LAVORO (SALARIATO) UCCIDE

«Precipitati dai tetti di un capannone, incastrati tra i rulli di un macchinario, folgorati da scariche elettriche. Oppure, come nell’ultimo caso dell’azienda agricola di Arena Po, in provincia di Pavia, annegati dopo essere caduti in una vasca agricola. Sono tantissime le dinamiche di quella che i sindacati hanno iniziato a chiamare la “strage inaccettabile”. Ed è difficile dar loro torto sull’utilizzo del termine, guardando ai numeri: da gennaio a luglio del 2019, in Italia, 599 persone sono morte mentre si trovavano sul posto di lavoro. “Non è uno scherzo, sono tre vittime al giorno, senza considerare gli incidenti gravi”, commenta Rossana Dettori, responsabile nazionale della sicurezza sul lavoro per la Cgil. “La situazione è drammatica, ci vuole subito un piano nazionale per la prevenzione. Formare il lavoratore e i piccoli imprenditori è importante tanto quanto mettere in sicurezza le strutture”» (Il Fatto, 13 settembre 2019).

E se invece si trattasse di mettere «in sicurezza» gli uomini, mettendoli una volta per sempre al riparo dall’economia basata sulla vitale (per il Capitale, s’intende) ricerca del profitto?

«Ogni morte ingiusta pesa, ovvio, comunque e ovunque avvenga. Ma alcune di più. E il fatto che a detenere il primato delle morti di lavoro sia la regione che più di tutte testimonia il progresso nel nostro Paese, la Lombardia, non fa che aumentare l’incredulità. Un corto circuito che ben testimonia, purtroppo, un dato di fatto: in Italia il lavoro è ancora luogo di morte. Che sia Nord o Sud fa poca differenza. I motivi di questo inaccettabile anacronismo sono tanti, ma partono tutti da un dato comune. Esistono realtà produttive che continuano a considerare la sicurezza dei propri dipendenti, così come la formazione e la prevenzione, un costo troppo elevato. Perché l’unica cosa che conti veramente, alla fine dei giochi, è sfoderare un numero migliore dell’anno precedente nel proprio bilancio. Perché l’unico traguardo è questo» (Avvenire, 7 settembre 2019). Ecco, appunto.

Inaccettabile e anacronistica è una società che costringe gli uomini a vendere capacità lavorative di qualche tipo per vivere più o meno “dignitosamente” (in fondo, basta accontentarsi di poco!), quando si danno già da molto tempo tutte le possibilità di una Comunità semplicemente umana, ossia interamente concentrata sul benessere di ogni singolo individuo, non più considerato alla stregua di una risorsa economica, di un “capitale umano”: sic!

PS: Non è che adesso Facebook mi chiude l’account per incitamento all’odio di classe? Già mi sembra di sentire la “compagna” Laura Boldrini, sostenitrice del Nuovo Umanesimo governativo: «Bene Facebook. Un altro passo verso l’archiviazione della stagione dell’odio organizzato sui social network».

LIBRA. OVVERO LA NATURALE SMISURATEZZA DEL DENARO

Dieci anni fa Facebook contava 175 milioni di iscritti, «guadagnando altre due posizioni e scavalcando [quanto a popolazione] Pakistan e Bangladesh. “Se Facebook fosse un Paese – aveva scritto un mese fa il suo fondatore Mark Zuckerberg –, sarebbe quello con l’ottava popolazione mondiale, superando Giappone e Russia». Così scriveva Il Corriere della Sera il 9 febbraio del 2009. Con oltre 2,4 miliardi di utenti Facebook è oggi il Paese più popoloso del pianeta. Mi si obietterà che stiamo parlando pur sempre di un Paese virtuale, di un luogo che non esiste nella “concreta realtà”, di qualcosa che esiste solo in una dimensione algoritmica, tant’è vero che Facebook non è una Nazione, non ha uno Stato, non ha un esercito, non ha («e non deve avere!») una moneta sovrana. A questa legittima, sebbene un po’ ingenua e poco “dialettica” obiezione, mi permetto di rispondere con un’altra domanda: ma credete davvero che per il Capitale ha un senso porre la distinzione “ontologica” tra virtuale e reale? Perché dei rapporti sociali capitalistici, oggi dominanti su scala mondiale, qui stiamo parlando, e di nient’altro. E scrivendo rapporti sociali capitalistici non alludo solo a una dimensione “classicamente” economica, tutt’altro, tanto più che la stessa distinzione tra una sfera economica e una sfera esistenziale è sempre più evanescente, poco significativa, se non francamente inesistente. Per dirla con Massimo Troisi – e attraverso la mediazione di Marx, nella cui barba mi impiglio continuamente –, credevo fosse economia e invece era la vita. E viceversa.

Ciò che mi appare di gran lunga più significativo e degno di analisi (analisi che qui nemmeno tenterò) a proposito di Libra non è tanto l’intenzione che muove lo scabroso progetto (si tratta del vecchio e caro profitto, di cos’altro?) o la sua concreta realizzabilità nel medio o nel lungo periodo, quanto la sua “ontologia sociale”, il suo essere la perfetta espressione di tendenze economiche e sociali che rimontano molto indietro nel tempo e che sono intimamente legate al concetto stesso di capitale, oltre che, ovviamente, alla sua prassi. Dirompente non è l’idea imprenditoriale in sé, che a suo modo è anzi già vecchia (oggi le tecnologie hanno un grado di obsolescenza che tende alla velocità della luce), ma la scala, la dimensione sociale e geoeconomica che essa abbraccia: la globalizzazione capitalistica minaccia un nuovo scatto in avanti, e verso territori finora non esplorati fino in fondo. Di qui le preoccupazioni di diverso segno che hanno accompagnato il lancio mediatico di Libra.

Fare di Facebook un vero e proprio mercato, un mercato in piena regola nel quale non si scambiano più solo idee, esperienze, informazioni, dati (la materia prima del business di Zuckerberg e compagni), ma anche prodotti e servizi, i quali per venir scambiati hanno ovviamente bisogno di un medium monetario, di un mezzo di acquisto – o «metodo di pagamento», per dirla con il manager David Marcus, l’ex co-ideatore di PayPal che Zuckerberg ha scelto per difenderne le ragioni di Libra dinanzi al Congresso degli Stati Uniti. «Marcus ha fatto del suo meglio per rassicurare i politici che Facebook non ha nessuna intenzione di stampare valuta alternativa al dollaro, reale e o virtuale che sia, e tantomeno di creare una criptovaluta. Libra sarà un metodo di pagamento all’interno della rete sociale» (Il Messaggero). Transazioni sicure, istantanee e quasi gratuite; dare accesso agli oltre 1,7 miliardi di adulti che sono attualmente “unbanked”, cioè privi di conto corrente bancario: è questo il tormentone pubblicitario su cui stanno puntando gli specialisti del marketing al servizio di Facebook. Il messaggio non è privo di una qualche suggestione, per così dire, e come sempre esso è sostenuto dall’ideologia della Silicon Valley «secondo cui attraverso le piattaforme l’umanità raggiungerà un livello di libertà, di benessere e di autonomia individuale impensabile per le passate civiltà» (Il Foglio).

Ma la politica a stelle e strisce non ne vuole sapere di una “piattaforma” che nei fatti aspira a svolgere le funzioni di una banca mondiale senza esserlo formalmente (giuridicamente) e che anzi giura di non volerlo diventare né ora né mai. Forse negli Stati Uniti ricordano ciò che una volta disse il “profeta” Steve Jobs: «Il credito è indispensabile, la banca no». «Libra non ha una base legale, né una sua affidabilità» ha dichiarato Donald Trump: «Se Facebook e altre aziende vogliono farsi banca, devono seguire la trafila ben nota e comune a tutte le altre banche». Libra “è venduta” all’opinione pubblica mondiale come «una moneta stabile il cui corso è determinato da un largo paniere di divise in cui saranno denominati i fondi raccolti tra i soci» (Sbilanciamoci), e probabilmente è proprio questo uno degli aspetti che più inquieta politici e banchieri, più o meno “centrali”, perché il paniere monetario (si parla di euro, dollari, sterline e yen) richiama alla mente la funzione di una Banca Centrale. Parlare di Libra nei termini di una criptovaluta di tipo tradizionale è quantomeno riduttivo, se non sbagliato senz’altro, sia dal punto di vista tecnologico, sia da quello propriamente economico.

Ciò che intanto possiamo dire è che il progetto di cui parliamo sembra aver messo d’accordo Stati, politici, Banche Centrali e “riformatori sociali” di tutto il mondo: la cosa non deve aver seguito, quantomeno non prima che si siano chiarite le linee fondamentali dell’audace iniziativa imprenditoriale e che si siano approntate le necessarie contromisure, secondo l’aureo motto che esalta le virtù della prevenzione – la quale peraltro trova puntuali quanto dolorose smentite proprio in economia, e in particolare nella sfera delle attività finanziarie, là dove dominano l’illusione dell’alchimista di trasformare il piombo in oro e l’imperativo categorico di fare denaro per mezzo di denaro, bypassando un processo produttivo (di “beni e servizi”) che sempre più spesso dà all’investitore troppe rogne e bassi profitti. Com’è noto, la brama di profitti che domina il Capitare è smisurata, e perciò stesso mostruosa (disumana), ed è per questo che esso cerca continuamente di emanciparsi dalla cosiddetta economia reale: basti pensare che secondo calcoli recenti la massa di capitale fittizio sarebbe oggi 33 volte più grande del Pil mondiale: ma dopo i disastri finanziari del 2008 i governi di tutto il mondo non dovevano mettere sotto stretto controllo il diabolico “finanzcapitalismo”? La verità è che, per dirla con Thomas Hobbes, il Capitale «è famelico anche di fame futura, supera in rapacità lupi, orsi e serpenti, che non sono rapaci se non per fame» (1).

La Cina è il Paese che per primo ha reagito negativamente all’annuncio di Zuckerberg, e si capisce il perché: già da anni, infatti, si sperimentano e si praticano nel grande Paese asiatico attività finanziare e commerciali basate sulle criptovalute, il cui movimento è rigorosamente sorvegliato dalla Banca Centrale di Pechino. La Cina è il Paese più all’avanguardia nel campo della cosiddetta Fintech, la finanza basata sulle “tecnologie intelligenti”, le quali, com’è noto, sono molto efficienti anche nel campo della sorveglianza/controllo/repressione degli individui (2).  Il Partito-Regime cinese comprende dunque assai bene tutte le potenzialità (non solo puramente economiche) connesse all’uso di un «metodo di pagamento» del tipo di Libra all’interno di uno spazio sociale (Facebook!) gigantesco e in continua espansione. Quando l’economia indebolisce la capacità di controllo della politica, gli Stati reagiscono, e, com’è noto, il regime cinese è particolarmente sensibile a questi aspetti del processo sociale. Gli statalisti d’ogni tendenza politico-ideologica parlano con raccapriccio di Libra come la moneta perfetta dell’Anarco-Capitalismo: che paura! Al G7 di Chantilly il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire, sostenitore di «un capitalismo più giusto, responsabile e sostenibile» (che originalità!), si è fatto portavoce del primato della politica: «Nessuno può accettare che delle multinazionali con oltre un miliardo di utenti si trasformino in Stati privati. E si dotino di una moneta capace di competere con valute sovrane, destabilizzando le riserve delle banche centrali, senza obblighi di controllo sui rischi di riciclaggio o di lotta al finanziamento del terrorismo». Certo, per i politici europei, soprattutto se di orientamento “sovranista”, è difficile mandar giù la circostanza paradossale per cui mentre i Paesi dell’area euro non possono emettere moneta nazionale, ciò potrebbe essere consentito a delle imprese private: «Ma dove andremo a finire!».

Che nella società capitalistica l’autentica sovranità, il potere di vita e di morte sugli individui, è concentrata nel rapporto sociale capitalistico, a dispetto di ogni illusione e di ogni ideologia, ebbene ciò è un fatto che sfugge alla comprensione della massa dell’opinione pubblica, la quale vive con preoccupazione l’unificazione del mondo sotto quel disumano e totalitario rapporto sociale, e reagisce aggrappandosi ai simulacri di identità (nazionale, culturale, religiosa, ecc.) che ancora galleggiano come relitti sul burrascoso mare della “globalizzazione”.

Secondo Giacomo Zucco, «uno dei massimi esperti italiani di criptovalute, “al 90% si tratta di una mossa di marketing per competere contro i sistemi di pagamento attuali: offrirà cioè servizi di banking multivaluta compliant. Se, invece, punta a competere con le banche centrali si tratta di una follia che verrà fermata presto» (Quotidiano.net). Il vero problema però non è, a mio avviso, ciò che oggi hanno in testa i padroni di Facebook, ma ciò che la prassi potrebbe consegnarci domani, ossia ciò che Libra potrebbe diventare nei fatti, anche a dispetto dei suoi stessi attuali creatori. Il capitalismo è il regno delle “potenze demoniache” che sfuggono al controllo di chi le ha evocate. «È una application arrivata quasi prima del previsto della profezia di Goethe: i biglietti alati voleranno più in alto di quanto la fantasia umana per quanto si sforzi possa raggiungerli. Nel caso i biglietti alati sono le “Libre” di Facebook». Così parlò Giulio Tremonti, grande scopritore di “profezie” – peraltro mai confezionate (coniate!) dai loro supposti creatori. «Questa profezia non è stata solo sulla creazione delle banconote (“i biglietti alati”), ma in generale sul potere che può essere sprigionato da tutte le cambiali mefistofeliche. […] Libra prefigura una società tutta orientata sulla spesa: hai credito per comprare un viaggio, un auto, un bene. Ma distrugge il risparmio» (Il Sole 24 Ore). Detto altrimenti, Libra è un mero «metodo di pagamento» e non un capitale: con essa puoi acquistare beni e servizi, merci materiali e immateriali, ma non puoi acquistare i fattori della produzione (macchine, materie prime, lavoro, ecc.) per creare “ricchezza reale”. Distruggendo il risparmio, Libra si candida a distruggere appunto, sempre secondo le profezie di sventura tremontiane, la mitica economia reale, le attività basate sull’impiego (leggi sfruttamento) delle capacità lavorative, del santissimo “capitale umano”. «A proposito di demonizzazione», è sempre Tremonti che “profetizza” al cospetto di chi lo intervista, «le dice niente il Canto trentesimo dell’Inferno di Dante, di Mastro Adamo, che non solo conia moneta falsa ma falsifica il sigillo del Battista, che era il marchio della pubblica legittimità? È vero che un tempo la ricchezza era creata e gestita dai banchieri, dai Fugger e dai Medici, ma poi sono venuti gli Stati. Ora sembra che si compia un inquietante opposto cammino che non dobbiamo percorrere. Certo dobbiamo reinventare la politica». Ma lo Stato non creava la ricchezza: esso aveva una funzione essenzialmente ancillare, formale, cioè legale, perché interveniva su una prassi su cui non esercitava, per lo più, un effettivo controllo. Lo Stato imprime il suo sigillo su una moneta i cui presupposti essenziali sono radicati nella “società civile”, a cominciare dalla prassi mercantile, e con ciò stesso il Sovrano, garantendo legalmente il possesso e la circolazione della moneta, sia di quella aurea come di quella cartacea, rende un gran servizio agli “operatori economici”. «Poiché i biglietti di carta hanno corso forzoso, nessuno può impedire allo Stato di immettere a forza nella circolazione un numero arbitrario di essi e di stamparvi dei nomi monetari a piacere. […] Ma questo potere dello Stato non è che pura apparenza. Esso infatti può gettare nella circolazione tutti i biglietti di carta che vuole,con tutti i nomi monetari che vuole; ma con questo atto meccanico ha termine il suo controllo. preso nel giro della circolazione il segno di valore o carta-moneta ricade nelle sue leggi immanenti» (3).

La stessa smaterializzazione del denaro è un processo attivo da parecchi secoli, e lo stesso Marx ha avuto modo di seguirne i passaggi storici più significativi: dal denaro-lavoro di cui parlava Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni al denaro-merce, dal denaro aureo al denaro-simbolo. Dalla fiducia affidata al valore intrinseco della moneta (d’oro e d’argento) a quella che riposa sul potere sovrano di uno Stato. Il potere sociale del denaro si è radicato, espanso e centuplicato proprio mentre il suo corpo (il suo valore intrinseco) è andato perdendo consistenza, fino a sembrare una cosa (una tecnologia) economica priva di legami con la ricchezza reale di una Nazione o di un singolo uomo. La moltiplicazione delle transazioni mercantili e la crescente rapidità di esse hanno imposto al denaro, colto nelle sue diverse funzioni (equivalente generale dei valori di scambio, mezzo d’acquisto, mezzo di pagamento, capitale d’investimento, tesoro ecc.), di perdere l’antica e “triviale” consistenza valoriale per assumere una dimensione meramente simbolica, così che la sua forma potesse aderire perfettamente alla propria essenza (storico-sociale), al suo proprio concetto: il denaro come simbolo della ricchezza sociale comunque (astrattamente) considerata e misurata. «Il corpo della moneta è ormai solo un’ombra. […] La moneta proprio nella prassi si idealizza e si trasforma nella mera apparenza del suo corpo» (4). Su questo aspetto del problema rinvio a un mio studio sul denaro, Il potere in tasca: «Con il denaro posso portare in giro con me, in tasca, il potere sociale universale, la connessione sociale generale e la sostanza della società» (5).

Diventando mera “essenza spirituale”; emancipandosi da ogni sorta di sostanza materiale, il denaro ha infine ritrovato nel mondo reale la propria forma ideale, e ciò non può che radicalizzare e rafforzare come mai prima il suo potere sociale, che esso esercita sulle imprese, sugli individui, sulle nazioni, su tutto ciò che si muove «tra terra e cielo». Come suona sublimemente teologico tutto questo discorso! Si tratta di capire se esso abbia un solido fondamento reale e concettuale e non sia solo il frutto di suggestioni a cavallo tra economia e filosofia.

Tutti sanno che la stessa “nuda vita” degli individui è diventata una gigantesca occasione di profitto, un mercato a cielo aperto (forse sarebbe più corretto scrivere a vita aperta, con riferimento ai cosiddetti “social”) per chi ha capitali da investire in una qualsiasi attività. Ma solo pochissimi ritengono che questo esito sia connesso necessariamente e inevitabilmente ai rapporti sociali capitalistici, ne è appunto una “fatale” conseguenza, e non il portato di un complotto ordito dai malefici sacerdoti del Dio Denaro contro l’umanità, o, più “laicamente”, il risultato di una governance non all’altezza delle sfide che il Capitale del XXI secolo lancia sempre di nuovo alla Società-Mondo. Nel frattempo, non passano molti giorni senza che l’industria, il commercio, la finanza e qualsiasi altro “settore economico” (più o meno “reale/virtuale”) inventino una nuovo prodotto, un nuovo servizio, una nuova «funzione d’uso», un «nuovo sogno», una «nuova esperienza»: insomma qualcosa (una merce!) che possa essere venduta e comprata. Naturalmente il marketing gioca qui un ruolo ideologico e psicologico fondamentale: «Tutto ruota intorno a te! Noi ti conosciamo e quindi ti offriamo esattamente ciò di cui hai veramente bisogno: la tua felicità è la nostra missione». E non vogliamo dotare questa umanissima impresa di un adeguato «metodo di pagamento»?

La natura smisurata del Capitale è stata posta a oggetto di riflessine da Marx sicuramente a partire dal 1844, e quindi per un suo modestissimo epigono nulla appare più scontato (“banale”) delle continue e sempre più rapide trasformazioni che osserviamo nell’industria, nel commercio, nella finanza, in ogni poro della società. Ma questo, a differenza di quel che pensa Tremonti, non fa del comunista di Treviri un profeta, come egli sostiene nel suo ultimo libro (Le tre profezie), bensì un profondo conoscitore del Capitale, che egli guardava da una prospettiva radicalmente anticapitalista. «L’utopia comunista era stata fondata sullo Stato, quella globalista è andata fondandosi sul mercato. Entrambe le utopie sono fallite» (6). A me pare che a fallire sia piuttosto il pensiero del Nostro. È sufficiente questo passo per capire quanto poco l’ineffabile ex Ministro dell’Economia e delle Finanze abbia compreso Marx, sempre che lo abbia studiato davvero, e non si sia limitato a impastare luoghi comuni tratti dalla letteratura degli epigoni statalisti, e per ciò stesso falsi (più falsi della moneta di Mastro Adamo!), del Moro. Lo sanno tutti (diciamo, meglio, quasi tutti), che «l’utopia comunista» di Marx ed Engels si fondava sul superamento della divisione classista degli individui, e quindi sull’estinzione dello Stato e sul superamento della stessa politica in quanto espressione dell’antagonismo fra le classi. All’unificazione del mondo sotto il tallone di ferro dei rapporti sociali capitalistici, che sono necessariamente rapporti di dominio e di sfruttamento (le due cose si tengono strettamente), «l’utopia comunista» opponeva (e oppone) la splendida possibilità di un mondo unificato da relazioni autenticamente e semplicemente umani. All’esclamazione: «Ma di questo passo dove andremo a finire!», che da sempre sta nella bocca dei reazionari, «l’utopia comunista» opponeva (e oppone) la prospettiva di un superamento in avanti della società dominata dagli interessi economici – e quindi dal denaro, in ogni sua attuale e futura configurazione. Ma forse questi sono dettagli dottrinali del tutto privi di interesse. Forse.

(1) T. Hobbes, De Homine, p. 142, Laterza, 1970.
(2) «In Cina gli utenti di internet sono oltre un miliardo, di cui il 90% con accesso soprattutto da mobile e con una propensione all’acquisto online smisurata (media di nove acquisti online al mese, contro 5,5 degli Stati Uniti e i tre della Germania). WeChat, di proprietà della holding Tencent, è un’app per mobile che non si è limitata a copiare WhatsApp come sistema di instant messenger, ma si è arricchita di una serie sconfinata di funzioni e servizi che accompagnano la vita dei cinesi dalla mattina appena svegli fino alla sera inoltrata, cosa che l’ha resa uno strumento potentissimo. Tra le numerose funzioni vi è WeChat Pay, utilizzata sia per i piccoli acquisti, come il pagamento immediato della spesa fatta al supermercato, la ricarica del cellulare, il pagamento delle bollette o gli acquisti online, sia per spese più impegnative come l’acquisto di viaggi» (Forbes). «Per WeChat questo ha significato un’occasione d’oro per tracciare i comportamenti (di acquisto e non solo) degli utenti in modo incredibilmente preciso e ubiquo, perché gli acquisti dei cinesi non sono tracciabili soltanto on line, ma in qualsiasi esercizio, dal parrucchiere al fruttivendolo. Con WeChat in Cina, si può perfino fare elemosina ai senza tetto, che accanto ai loro pochi averi hanno ormai quasi sempre un cartello con il Qrcode per ricevere aiuti» (Il Manifesto). Com’è umano e compassionevole il Celeste Capitalismo Cinese!
(3) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 142, Newton, 1981.
(4) Ivi, p. 130.
(5) K. Marx, Lineamenti Fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 88, Einaudi, 1983. «Il denaro è proprietà “impersonale”. In esso posso portare in giro, con me, in tasca, il potere sociale universale e la connessione sociale generale, la sostanza della società. Il denaro consegna il potere sociale come oggetto nelle mani della persona privata che in quanto tale esercita questo potere. La connessione sociale […] in esso si presenta come qualcosa di completamente esteriore, che non sta in alcun rapporto individuale con il suo possessore, e quindi fa apparire anche il potere che egli esercita come qualcosa di assolutamente accidentale, esteriore a esso» (Lineamenti, II, p. 1060).
(6) G. Tremonti, Le tre profezie. Appunti per il futuro, p. 29, Solferino, 2019. A quali profezie allude Tremonti? «Quella di Marx nel Manifesto, “All’antico isolamento nazionale subentrerà una interdipendenza universale”, che è la visione della globalizzazione. Quella di Goethe nel Faust, “I biglietti alati voleranno tanto in alto che la fantasia umana per quanto si sforzi mai potrà raggiungerli”, cioè il potere non solo delle banconote ma delle «cambiali mefistofeliche” e l’incontrollabilità dell’età digitale. E quella di Leopardi nello Zibaldone, “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo”. […] Dopo circa due secoli il futuro è arrivato» (Il Corriere della Sera).

LENIN E LA PROFEZIA SMENAVIEKHISTA

Non v’è alcun dubbio che la vittoria

finale della nostra rivoluzione, se

questa rimanesse isolata, se non vi

fosse un movimento rivoluzionario

negli altri paesi, sarebbe una causa

senza speranza (Lenin).

 

Un ammonimento ci viene dalla

borghesia, che per bocca di

Ustrialov, uomo del gruppo

Smena Vekh, ha dichiarato che la

NEP non è una “tattica”, ma una

“evoluzione” del bolscevismo (Lenin).

 

Leggo proprio oggi: «I giorni che stiamo vivendo non smettono mai di sorprenderci con i loro imprevisti, i loro passi indietro o, più semplicemente, verso il nulla. Tutte le nostre peggiori previsioni circa la restaurazione del capitalismo sono divenute, nel giro di tre o quattro anni, ahimè, amara realtà. Ma noi vivevamo proprio così? A che cosa abbiamo dedicato la nostra vita? A quale causa? Sento, che tutto quello che ho vissuto, è inseparabile dal cammino tortuoso percorso dalla mia generazione, e che tuttavia ha creato una grande potenza, ha sollevato un Paese dalle rovine di due guerre terribili, lo ha difeso dall’invasione più brutale di tutta la storia del genere umano. Ma allora come è stato possibile, perché è stato distrutto così velocemente, quasi senza lotta, sbranato e ridotto a “brandelli sovrani”? Non aveva forse ragione Stalin, quando dopo la guerra metteva in guardia, parlando di “inasprimento della lotta di classe?” E resta sempre questa domanda, la più importante: chi eravamo noi? Da dove siamo spuntati fuori? E come siamo diventati costruttori di un grande Paese, noi che eravamo zeloti di un’economia pianificata a proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione, economia i cui principi, quelli che ci avevano consentito di andare avanti, anche i Paesi capitalistici più avanzati ci prendevano a prestito in segreto? Chi eravamo noi? Fanatici, “visionari”, come ci chiamò una volta Orson Wells? Ciechi di fronte alla Storia? Fedeli di un’utopia?».

A qualcuna di queste domande proverà a dare una risposta, spero di un qualche interesse per chi legge, lo scritto che segue, il quale si compone di appunti di studio su alcuni aspetti, peraltro fondamentali, della Rivoluzione d’Ottobre e del processo sociale, interno e internazionale, che scatenò la controrivoluzione stalinista. Come si vedrà, il riferimento al nome di Stalin per caratterizzare la controrivoluzione capitalistica che già alla fine degli anni Venti del secolo scorso spazzò via nel modo più radicale la natura proletaria della Rivoluzione russa (lasciando in vita quella borghese) ha un valore molto relativo, appunto perché la controrivoluzione, esattamente come la rivoluzione, è in primo luogo un processo sociale, un insieme complesso e dinamico (di fatti, di prassi, di relazioni, di interessi, ecc.) che va oltre, molto oltre, i singoli personaggi che si muovono sulla scena, anche se con ciò non intendo in alcun modo negare il peso che la personalità ha nella storia. E questo vale soprattutto per la Rivoluzione d’Ottobre, sul cui corpo, come vedremo, è profondamente impressa la metaforica mano di Lenin.

I passi che ho citato all’inizio, e che ho usato strumentalmente come introduzione, sono di Nikolaj Konstantinovič Bajbakov, «uno che dal 1963 poteva permettersi di girare con, appuntata sulla giacca, una delle massime onorificenze dell’URSS, il premio Lenin (Лeнинская прeмия) e, dal 1981, la massima onorificenza sovietica in assoluto: Eroe del lavoro socialista (Герой Социалистического Труда), al netto di tutte le altre onorificenze conferitegli nella sua lunga vita». Come non provare eterna ammirazione per cotanto Eroe del Socialismo? Tanto più che oggi Roma ha l’onore di ospitare lo Zar Vladimir Putin, l’Eroe degli italici sovranisti – che forse non dispiace nemmeno a qualche vecchio arnese dell’italico stalinismo. Insomma, a dispetto degli eventi occorsi negli ultimi novant’anni, circolano ancora nel vasto e pessimo mondo d’oggi personaggi che si dichiarano apertamente e orgogliosamente nostalgici dello stalinismo: vuoi vedere che, a mia insaputa, lo scritto che segue può “vantare” una qualche attualità!

Continua in formato PDF.