Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro-insurrezione (Chuang).
Con “colpevole” ritardo ho letto e oggi pubblico uno scritto (Social Contagion) apparso il 27 febbraio sulla rivista Chuang, una rivista indirizzata a coloro che «vogliono superare i vincoli dell’attuale mattatoio chiamato capitalismo». Trovo molto interessante questo testo, nonostante io sia per diversi e rilevanti aspetti distante dalla concezione “dottrinaria” che lo ispira, e che informa, se ho ben compreso, l’indirizzo politico di fondo della rivista di cui sopra (*). Un solo esempio: «I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato». Come sa chi conosce questo Blog, io nego la natura socialista della Cina, da Mao a Xi. Ciò che Chuang chiama socialismo, io lo chiamo capitalismo di Stato “con caratteristiche cinesi”. Ma ci sarà modo di riprendere la questione. Intanto auguro una buona lettura ai lettori e mi scuso per l’imperfetta traduzione del testo.
Le fornaci
Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.
Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Sembra che le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.
A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in particolare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering e il disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina, e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.
Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nonostante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?
Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.
Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist». Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insabbiamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime.
Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisamente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza? Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali riflessioni sullo stato attuale della società cinese.
Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mostrando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana. Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.
L’origine delle pestilenze
Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.
L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroalimentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola (1). Queste epidemie possono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la seconda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo. I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamentate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socioecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali (2).
Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre. Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.
Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» (3). Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi: «Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza (4).
Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’aumento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.
Storia ed eziologia
Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili precapitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi, vediamo i primi casi di queste piaghe squisitamente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa.
Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus. Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applicazione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un precipizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.
Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna.
Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetsè che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.
Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa (5). E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratteristiche.
Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro delle prime iniziative riformiste liberal-progressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per denunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccupandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi. Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevoli per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo.
Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [6]. In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali.
Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra furono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applicazione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione della produzione agricola, sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia: vedi Furore, 1939, di John Steinbeck], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma.
Se, le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.
Gilded Age
Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra tutta la popolazione cinese. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali, destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al consumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age.
Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melanina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH [virus del papilloma umano]. Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.
Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista5, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.
Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie] risultano residenti permanenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.
Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statunitensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.
Non c’è più la natura selvaggia
Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?
La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epidemia. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici.
In altri casi, le catene di valore agro-ecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano. Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accumulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli ambienti, che «possono aumentare le connessioni tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus maggiori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».
Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi precapitalistici e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causalità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambientale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia, in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo, al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contemporanei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso possiamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore.
L’isolamento come esercizio dell’arte di governo
A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesantemente su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.
Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi generalizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.
Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti ). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del governo cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare.
La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini. In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di persone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la quarantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.
Incapacità
Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus12, scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.
Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.
A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni economiche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impossibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile, questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1° marzo è stata stabilita come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.
Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabilmente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.
Una guerra surreale
Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la profonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costruzione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre province – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.
Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.
In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.
(*) Si tratta di un blog di ricercatori cinesi all’estero. «Chuang è un collettivo di comunisti che considera la “questione della Cina” di importanza centrale per le contraddizioni del sistema economico mondiale e le potenzialità per il suo superamento. Il nostro obiettivo è formulare un corpus di teoria chiara in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. […] Speriamo di vedere la Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è iniziare con un’indagine sulla creazione della “Cina” in quanto tale. Qui, la nostra storia non inizia con una storia presumibilmente antica, né inizia con il romanticismo del progetto rivoluzionario cinese, alternativamente glorificato e demonizzato da quelli di sinistra». Chi scrive, che di “sinistra” non è mai stato, non ha né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”. Se ho ben compreso, secondo Chuang si può parlare di un «progetto comunista» praticato in Cina «durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50: «Durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50, ci riferiamo a questo processo come a un “progetto comunista”. Questo progetto è stato incredibilmente vario durante la sua esistenza ed è stato sempre definito dal suo status di movimento di massa con profonde radici nella popolazione. All’inizio, il suo fondamento teorico e la direzione strategica erano prevalentemente quelli dei comunisti anarchici. Nel tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbe guadagnato l’egemonia, ma ciò significava anche che il PCC stesso assorbiva parte dell’eterogeneità del movimento, che avrebbe assunto la forma di fazioni (e purghe) all’interno del Partito stesso. Questa egemonia non è stata imposta al progetto, tuttavia. Era il risultato di un mandato popolare conferito al PCC, che era stato parte integrante della formazione di un esercito contadino di successo e di un movimento di lavoratori sotterranei durante l’occupazione giapponese. Il PCC mantenne la sua egemonia del progetto comunista nei primi anni del dopoguerra dirigendo campagne di ridistribuzione popolare nelle campagne e ricostruendo le città. Con i fallimenti della fine degli anni ‘50 (carestia nel paese e scioperi nelle città costiere), non solo fu messo in discussione il mandato popolare del PCC, ma il progetto comunista stesso iniziò a ossificarsi. Quando la partecipazione popolare è evaporata in risposta a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si è ridotto ai suoi mezzi: il regime di sviluppo. Questo regime stesso poteva essere mantenuto solo dal sempre più ampio intervento del Partito, che li fondeva entrambi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico di fatto) e ne spezzava il legame con il progetto comunista». Qui mi limito a rinviare i lettori ai miei scritti sulla Cina: TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO); SULLA CAMPAGNA CINESE; ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE; DA MAO ZEDONG A XI JINPING. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.
(1) Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Robert G. Wallace. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
(2) R. G. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, New York, 2016. P. 52.
(3) Ibid, p. 56.
(4) Ibid, pp. 56-57.
(5) Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
(6) Vedi: JF. Brundage, GD Shanks, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections L’importanza delle infezioni batteriche secondary, The Journal of Infectious Diseases, Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719.