GIOCHI DI POTERE SULLA NOSTRA PELLE

Sorde implacabili sirene
davano il triste annuncio,
mentre il tramonto inondava
i viali deserti di oscuri presagi.
Giochi di potere sulla nostra pelle,
su quegli uomini armati di romantici ideali.
Qualunque sia il compenso
non restituirà mai il giusto.
Carmen Consoli, Eco di Sirene.

«Da anni in Italia la questione vaccinale è diventata terreno di uno scontro ideologico e non scientifico»: così scriveva qualche giorno fa Franco Bechis in un interessante articolo pubblicato dal Tempo, e la cui lettura consiglio a chi vuol farsi un’idea sulle cosiddette “reazioni avverse”, o, meglio, su come esse vengono valutate e gestite nei diversi Paesi europei, e in particolate in Italia e in Gran Bretagna, presi da Bechis come esempi di due opposti modelli sociali. Da buon “liberista” Bechis preferisce di gran lunga il modello britannico, perché «le informazioni veritiere e la assoluta trasparenza pagano sempre: i cittadini nel Regno Unito non si sentono trattati come avviene qui come un popolo di ignoranti e scemi a cui non si può dire nulla, e hanno più fiducia nelle autorità. In Italia invece non c’è un solo dato sulle reazioni avverse messo a disposizione della opinione pubblica, e probabilmente nemmeno delle autorità visto che nessuno li raccoglie». C’è chi preferisce il modello (capitalistico) cinese, chi preferisce quello statunitense, oppure tedesco, cubano, russo, francese ecc.: ce n’è per tutti gusti. E d’altra parte, chi sono io per giudicare i gusti degli altri? I tempi consigliano umiltà. E tanto servilismo: più che di “immunità di gregge” si dovrebbe infatti parlare di immunità del gregge.

Era inevitabile insomma che anche sulla profilassi vaccinale contro il Covid-19 si creassero in Italia (ma anche in altri Paesi europei, a dire il vero) due opposti partiti che ostentano una certezza e un piglio combattivo degni di miglior causa: «È meglio vaccinarsi, e chi non la pensa così è uno stupido!»/«È meglio non vaccinarsi, e chi non la pensa così è uno stupido!». Dove sta la ragione? E, ancora, di che ragione si tratta?

I “negazionisti” (sulla pericolosità del Coronavirus, sulla necessità della profilassi vaccinale e su molto altro) e i loro nemici, gli “antinegazionisti”, sono essenzialmente due opposte ma complementari tifoserie, due facce della stessa medaglia: è questa l’idea che ho maturato sulla faccenda che ci assilla ormai da un anno. Entrambe le “fazioni” mostrano, a mio avviso, una totale incomprensione circa la natura di questa società dominata dai rapporti sociali capitalistici, e in questo senso esse non sono che due modi diversi di manifestarsi del “disagio sociale”, dell’irrazionalità che imperversa dappertutto, dell’angoscia individuale e collettiva, dell’impotenza, del risentimento sociale e così via, elencando quanto di pessimo riusciamo a concepire – e a praticare, chi più, chi meno.

È la guerra di tutti contro tutti, ha scritto qualcuno; è la guerra che il Capitale muove a tutti gli individui, a cominciare ovviamente da chi per vivere è costretto a vendere sul mercato del lavoro capacità fisiche e intellettuali. In questa guerra permanente, che oppone i ricchi ai poveri, gli occupati ai disoccupati, i dipendenti pubblici a quelli “privati”, le donne agli uomini, i vecchi ai giovani, i bianchi ai neri, i meridionali ai settentrionali, ecc., il solo vincente è, inutile dirlo, il Capitale, il Moloch che ci centrifuga e che ci getta nella pattumiera quando non siamo in grado né di produrre “beni e servizi” né di spendere per acquistarli.

Quello che sta accadendo in questi giorni a proposito della rognosissima questione vaccinale dimostra plasticamente tutta l’irrazionalità, l’illibertà e la disumanità di questa società, la quale, contro ogni evidenza, non perde occasione per proclamarsi la più razionale, libera e umana organizzazione sociale mai apparsa sulla scena storica. Le vittime (103.000) che oggi lo Stato Italiano commemora a Bergamo, e quelle che si contano in tutto il mondo (2,6 milioni), vanno messe per intero sul conto di questa Società-Mondo, la quale ha creato fin nei dettagli la pandemia che continua a tormentarci.

Scrive Žižek polemizzando con Agamben e i negacomplottisti di “destra” e di “sinistra”: «Sia la destra alternativa sia la sinistra fasulla rifiutano di accettare appieno la realtà dell’epidemia, ed entrambe la mitigano in un esercizio di riduzionismo socio-costruttivista, ovvero, denunciandola in nome del suo significato sociale» (1). Per quanto mi riguarda, ricondurre l’epidemia al suo «significato sociale» non significa affatto depotenziarne in qualche modo la carica maligna, tutt’altro!  Significa piuttosto riconoscere che il virus che mette a repentaglio la nostra salute e la nostra stessa vita ci è stato sparato contro, per così dire, non dalla natura, che così si vendicherebbe del tanto male che le arrechiamo con le nostre attività (capitalistiche), o da qualche “potere forte” più o meno occulto per  ottenere un vantaggio di qualche tipo (e qui basta lasciar correre liberamente la nostra più fervida fantasia), ma appunto dalla vigente società, dal suo  “oggettivo” modo di essere, dai suoi “oggettivi” meccanismi interni. Altro che mitigare la realtà dell’epidemia attraverso il riconoscimento della sua natura essenzialmente sociale!

«Evitare di stringere la mano e isolarsi quando è necessario è la forma che oggi assume la solidarietà»; e la miseria sociale, mi permetto di aggiungere per dispiacere chi vuole vedere sempre il lato pieno del bicchiere.  «Monitorare e punire? Sì, grazie!»: e qui viene fuori tutta la “radicalità di pensiero” di Žižek – e questo anche a proposito di «sinistra fasulla», oltre che autoritaria. La verità è che questa società prima ci dà mazzate (metaforiche e reali) sulla testa, e poi, bontà sua, ci offre i rimedi (farmacologici, psicologici, ideologici e quant’altro) per lenire il dolore e curare le ferite, così che i suoi sudditi possano intonare le lodi al Progresso sociale e scientifico. È la perfida quanto efficacissima dialettica del dominio capitalistico che ci tiene sempre più fortemente inchiodati alla croce di questa disumana dimensione esistenziale.

Quanto al «nuovo comunismo che ci può liberare» proposto dall’intellettuale sloveno, ebbene esso suscita in me la stessa simpatia che mi suscita il capitalismo – comunque declinato: privato, di Stato, benecomunista, liberista, protezionista, dal “volto umano”, dal “volto disumano” e così via.

Il concetto di totalitarismo dei rapporti sociali capitalistici spiega “a cascata” (e “dialetticamente”) tutti i concetti correlati alla prassi del dominio politico e del controllo sociale. Criticare «lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (Agamben), senza mettere in questione la società capitalistica in quanto tale, al di là degli assetti politico-istituzionale contingenti che ci governano, e anzi perorare la causa di un «ritorno alla Costituzione» (capitalistica), significa non aver afferrato concettualmente la radicalità del Male che ci espone, impotenti, a ogni genere di offesa, con ciò che ne segue anche in termini di stato d’angoscia permanete. È questa complessa, contraddittoria e conflittuale realtà che “complotta” contro l’umanità in generale, e contro le classi subalterne in particolare. Sulla natura essenzialmente sociale – tanto nella sua genesi quanto nelle sue conseguenze – di questa pandemia rimando al PDF Il Virus e la nudità del Dominio.

L’eco tagliente di sirene sulle ferite aperte.
Aspettavamo impotenti gli attacchi nemici,
e forse per l’ultima volta.
Giochi di potere sulla nostra pelle.

La massa degli individui non controlla nulla che sia decisivo ai fini della vita individuale e collettiva: siamo completamente in balìa degli eventi, appesi a decisioni di natura economica, politica e geopolitica che riguardano la nostra vita e su cui tuttavia non esercitiamo alcuna influenza: sulle questioni veramente importanti non c’è dato di toccare palla, per usare una metafora calcistica. Rischiare di ammalarsi e magari crepare per non aver fatto il vaccino, oppure accettare il rischio di ammalarsi e lasciarci le penne arrendendosi alla profilattica inoculazione? Che bella scelta ci si para dinanzi! Pare che la statistica parli a favore della vaccinazione: in Gran Bretagna il rischio di morire a causa di “reazioni avverse” è stimato intorno allo 0,00236% dei vaccinati. «Chi il mattino esce per andare a fare la sua dose in un centro di vaccinazione sa già che quella fiala può essere letale più o meno per uno solo ogni 50 mila vaccinati: il rischio c’è, ma non sembra altissimo». Giriamo dunque la Ruota della Fortuna (che per molti ha le sembianze di una incombente roulette russa ), e speriamo di non appartenere allo 0,002% della popolazione “meno fortunata”, diciamo così. Che se ne abbia o meno la consapevolezza, tutti i giorni, ovunque ci troviamo (anche a casa!), ci confrontiamo con questo tipo di realtà.

Accade però che, date certe circostanze, il panico che in situazioni “normali” colpisce solo pochi individui può trasformarsi in un fenomeno di massa: è un po’ quello che sta accadendo in questi giorni a proposito delle supposte “reazioni avverse” causate dalla vaccinazione. Hai voglia di spiegare alla gente che il rischio correlato alla vaccinazione è assolutamente accettabile. Come diceva Sigmund Freud, «le argomentazioni logiche non possono niente contro gli interessi affettivi, ed è per questo che, nel mondo degli interessi, la lotta a base di ragionamenti è tanto sterile» (2). Di qui, le fortune politiche di populisti e demagoghi d’ogni risma e colore, e il pietoso insuccesso di chi porta argomenti razionali a difesa dello status quo sociale – perché alla fine di questo si tratta, per gli uni e per gli altri. L’ottusità dell’illuminista che pretende di rassicurare la gente impaurita sfornando cifre a supporto della ragione scientifica e del “bene comune”, può rivelarsi non meno implacabile e violenta della propaganda politica dei populisti e dei demagoghi. Le strade che portano l’umanità all’infelicità sono lastricate di eccellenti propositi – architettati da chi intende “fare del bene” senza avere la minima idea di ciò che è il Male.

Un consiglio politicamente/eticamente scorretto: se volete continuare a usare i farmaci sfornati dalla famigerata Big Pharma, non leggete la rubrica degli effetti collaterali riportata dai bugiardini. Abbiate fede nella scienza medica e continuate a far girare la Ruota! Qualche giorno fa l’ho fatto anch’io, usando un collirio con proprietà antibiotiche: per mia fortuna male non mi ha fatto, ed è già una buona notizia – ultimamente le mie pretese si sono alquanto ridimensionate, e anche questo è forse un segno dei pessimi tempi. Quale alternativa ha dinanzi chi non vuole beccarsi il maledettissimo virus e non vuole essere messo ai margini della società quando l’obbligo vaccinale si affermerà di fatto (e forse poi anche di Diritto)? Questa società ci mette continuamente di fronte a scelte che tali in effetti non sono, e che difatti spesso chiamiamo “scelte obbligate”: sei “libero” di non lavorare, certo, ma se non lavori non mangi; sei libero di rifiutare la forma-merce e di consumare solo valori d’uso, ma se lo fai… Ma lo puoi fare nella società che ha nella forma-merce e nella forma-denaro i suoi “paradigmi” più caratteristici?

Non c’è dubbio: dobbiamo continuamente accettare dei “compromessi” tra quello che vorremmo essere e fare, e ciò che la società ci impone di essere e di fare.  E, infatti, non si tratta di “compromessi”, ma di costrizioni, di obblighi. La libertà di scelta ci è preclusa in radice: in questa società essa è una menzogna, un concetto puramente ideologico. Come venire fuori da questo circolo vizioso esistenziale che tormenta le persone umanamente più sensibili?

Scrivevo su un post di qualche settimana fa: «Detto en passant, dal vaccino russo a quello americano; dal vaccino cubano a quello cinese e così via, sulla nostra pelle si sta giocando una schifosissima partita geopolitica». In realtà si tratta di una partita sistemica, giocata a tutto campo, che coinvolge ogni aspetto della nostra vita. Ci si indigna per il fatto che le multinazionali che producono il vaccino anti Covid-19 pensino solo al profitto e per il peso che esse hanno sulle scelte dei governi: come spesso accade, anche in questo caso l’indignazione esprime una grave incomprensione circa la natura e la dinamica della società che non a caso definiamo capitalistica. È sempre doloroso toccare con mano la stringente verità di certi concetti.

Scrive Stefano Valentini: «Garantire la salvezza ai più, assicurando alle case farmaceutiche produttrici i profitti della corsa al vaccino contro il Covid-19. È la “Mission impossible” della politica Ue di fronte a una catastrofe sanitaria che ha già seminato oltre 2 milioni e mezzo di vittime. I dirigenti europei sanno che la priorità è proteggere la vita, quella dei potenziali infetti e di coloro che perdono i mezzi di sussistenza a causa del blocco delle attività commerciali per contenere i contagi. Ma, contemporaneamente, non osano [ah, pavidi decisori politici!] sacrificare le logiche del profitto su cui si fonda il nostro modello di sviluppo [si chiama capitalismo, semplicemente]. Da una parte, promuovono l’immunizzazione di massa; dall’altra corrono il rischio che l’industria la rallenti, lasciando la produzione nelle sue mani, anziché democratizzarla» (VoxEurop). È il capitalismo, signor europeista, e tu non puoi farci niente di niente! Sulla democratizzazione della produzione capitalistica conviene poi stendere un velo pietosissimo. Il problema, per chi scrive, è che anche le classi subalterne ragionano allo stesso modo, lasciandosi così ingannare da chi intende “fare del bene”.

Insomma, per come la vedo io il vero problema su cui dovremmo riflettere con serietà, con radicalità di pensiero (e poi magari anche di azione) e senza illusioni di alcun genere non ruota intorno all’amletica domanda: Vaccinarsi o non vaccinarsi?, ma su come venir fuori, e con una certa urgenza, da una società che ci espone continuamente a ogni sorta di rischio, di pericolo, di incertezza. Che le cose in futuro andranno peggio è nell’ordine capitalistico delle cose, e già la semplice continuità di questa società rappresenta ai miei occhi il peggio che ci possa capitare. Personalmente faccio molta fatica a invidiare (in senso buono) i giovani, peraltro spesso accusati da una parte della stessa “opinione pubblica” di essere degli untori (che miserabile sciocchezza!); mentre soffro (lo giuro!) vedendo i bambini e i loro genitori costretti a sospettare di tutto e di tutti, a non poter permettersi nemmeno “il lusso” di una spensierata passeggiata. «Dilaga il disagio psichico tra grandi e piccini. Non sono mai stati venduti tanti psicofarmaci come nell’ultimo anno»: ma va?

«La pandemia ha determinato il crollo del ceto medio, dal 40 per cento pre Covid al 27% di oggi. E la tensione sociale cova, a livelli estremamente pericolosi. Lo rivela il Rapporto Ipsos-Flair. Lo smottamento del ceto medio, passato da quasi il 40% del pre-pandemia al 27% di oggi; la crescita della tensione sociale, che cova sotto la cenere ma che intanto è salita al 73% e potrebbe esplodere da un momento all’altro. La paura (28%) e l’attesa (33%) sono i due sentimenti dominanti del momento, seguiti da altre due pulsioni negative come delusione (24%) e tristezza (22%); la rabbia ribolle nel 13% delle persone, mentre serenità, dinamismo e passione animano, ciascuna, il 5% dell’opinione pubblica» (Formiche.net). Ho sempre invidiato la precisazione statistica della moderna sociologia. Scherzo. E soprattutto mi si dica qualcosa che ancora non so! «La pandemia ha determinato il crollo del ceto medio»: ma va? E vogliamo parlare del crollo del ceto basso?

Giochi di potere sulla nostra pelle,
sulle infanzie sciupate,
violentate irrimediabilmente.
Chi pagherà per questo,
chi ne porterà il segno?
Saranno in pochi a riscattarsi dalla povertà,
a rallegrarsi della gloria per quanto infinita.

«In effetti, rendere la vita sopportabile è il primo dovere dell’essere vivente. […] Si vis vitam, para mortem: se vuoi la vita, impara ad accettare la morte» (3): così scriveva nel 1915 Freud, il quale invitava l’umanità ad abbandonare l’illusione di poter vivere in un mondo fatto di pace («dato che le guerre sono pressappoco inevitabili») e di gioia e ad accettare invece di vivere, più realisticamente e al meglio delle sue possibilità e capacità, in una società decisamente e inevitabilmente “imperfetta”. L’imperfezione del resto è una qualità umanissima! Freud scriveva quei passi in piena guerra mondiale, riflettendo appunto «sulla guerra e sulla morte». Per come la vedo io, «il primo dovere dell’essere vivente» è quello di rendere umana, non semplicemente «sopportabile» (un concetto del resto estremamente “elastico” ed ambiguo), la propria vita, cosa che umanizzerebbe anche il suo rapporto con le malattie e con la morte. Non si tratta di volere un’umanità perfetta, una vita a “rischio zero” e simili infantili sciocchezze che i cosiddetti realisti mettono nella bocca degli “utopisti” per screditarne le idee e per giustificare la propria pochezza esistenziale; si tratta, più semplicemente (si fa per dire!) e radicalmente, di volere un’umanità, ossia una vita autenticamente umana. Ma eccoci ancora qui a far girare la Ruota della Fortuna: auguri!

«Lì dove cresce il pericolo, cresce anche ciò che salva», recita un verso di  Friedrich Hölderlin ; ma per vedere ciò che salva dobbiamo conquistare nuovi occhi.

Saremo pronti a celebrare la vittoria,
e brinderemo lietamente sulle nostre rovine.
Sconfitti e vincenti, ricostruiremo.
Sconfitti e vincenti, sconfitti e vincenti,
ricostruiremo. Sconfitti e vincenti».

(1) S. Žižek, Virus. Catastrofe e solidarietà, p. 43, Ponte delle grazie, 2020.
(2) S. Freud, Considerazioni attuali sulla guerra e sulla morte, in Psicoanalisi della società moderna, p. 59, newton1991. «Negli ultimi giorni, sui social ma non solo, è facile imbattersi in posizioni estreme: accanto ai soliti anatemi no-vax, è comparsa una nuova forma di irragionevolezza, quella di chi si dichiara così esasperato dalla situazione e così ciecamente fiducioso “nella scienza” da supplicare che gli venga iniettata qualsiasi cosa, russa cinese cubana non importa, approvata dagli enti regolatori o meno. Non voglio mettere i due estremismi sullo stesso piano (sebbene si tratti di posizioni dal simile stampo fideistico). Ma è doveroso chiedersi se il fanatismo vaccinale sia davvero la strategia più conveniente per tutti in questo momento. […] Si tende a liquidare i no-vax come ignoranti, oscurantisti, antiscientifici, ma la trasversalità culturale del pensiero no-vax nega questa stigmatizzazione. Che i soggetti interessati ne siano consapevoli o meno, le radici dell’avversione ai vaccini hanno più legami con una visione politica che con una cognitiva. Rifiutare i vaccini, benché mascherata da argomentazioni pseudoscientifiche, è spesso una manifestazione di rifiuto del sistema, rifiuto di un certo tipo di ordine costituito vissuto come schiacciante e illegittimo. Il corpo viene interpretato come l’ultimo baluardo che quel sistema non avrà la possibilità di violare, su cui non eserciterà alcuna forma di controllo. Su convinzioni a priori di questa natura non è facile incidere, forse è impossibile, se non con gli obblighi stringenti ed esercitando, quindi, una porzione di quella stessa violenza di cui il sistema viene accusato»  (P. Giordano, Il Corriere della Sera, 17/12/2021). Su questa interessante riflessione cercherò di ritornare un’altra volta.
(3) S. Freud, Considerazioni, p. 71.

Questo post è stato scritto ieri.

MAKE AMERICA BREAKING BAD

«Io dubito che sarei qui se non fosse per i social media, sarò onesto» (D. Trump, 22 ottobre 2017).
«Il rischio di consentire al presidente di continuare a usare il nostro servizio in questo momento è semplicemente troppo grande. Per questo estendiamo il blocco che abbiamo deciso sui suoi account Facebook e Instagram a tempo indeterminato e per almeno le prossime due settimane, fino a quando una pacifica transizione di potere sarà completata» (Mark Zuckerberg). Lei non sa chi sono io! Io sono il Presidente degli Stati Uniti, nientedimeno! «Shut up!»
La Comunità che ci apparecchiano i capitalisti del Web è sempre più intransigente circa ciò che può essere definita comunicazione politicamente corretta. E allora un maligno sospetto mi viene, pensando ai miei post pubblicati su Facebook e rilanciati su Twitter…

Ho appena finito di leggere un articolo molto interessante che Raffaele Alberto Ventura scrisse nel 2016 per dar conto del “fenomeno-Trump” con un approccio inteso ad andare oltre le comode interpretazioni che su di esso allora circolavano nel cosiddetto mainstream politico e giornalistico, diviso in tifosi e avversari del “populismo”. I concetti chiave che informano l’artico sono sostanzialmente due, intimamente legati tra loro: declassamento sociale e povertà relativa. «La minaccia del declassamento ti spinge a fare cose davvero pericolose».

Che titolo possiamo dare al grottesco spettacolo andato in scena lo scorso 6 gennaio a Washington? Tentato colpo di Stato? Rivolta? Rivoluzione («Siamo rivoluzionari», ha proclamato un barbuto assalitore di Capitol Hill, noto “suprematista” bianco)? Populismo? Fascismo? Isteria e idiozia di massa? Teppismo? Volgare carnevalata? Colpo di coda finale? Trumpismo (magari a riassumere tutti gli altri)? Ognuno può scegliere il titolo che più gli aggrada, tanto più che oggigiorno parole e concetti si guardano in cagnesco evitando di frequentarsi – e più spesso di quanto si creda, anche alle nostre spalle, ai nostri danni. Certo è, che ripensando ai fatti americani
dell’Epifania a me vengono in testa due concetti: crisi del sistema sociale americano e miseria sociale/esistenziale; si tratta, come si vede, di due concetti che si danno la mano, che rinviano a una stessa cosa. Ma di questo scriverò, forse, un’altra volta.

Nel suo editoriale di oggi Stefano Feltri ha colto, a mio avviso, un aspetto fondamentale della vicenda americana di questi giorni, sebbene egli la osservi da una prospettiva che mi è completamente estranea e ostile. Scrive Feltri: «Zuckerberg ha dimostrato di poter imbavagliare un presidente degli Stati Uniti in carica, forse nella speranza di ottenere favori da quello entrante, forse per il bene della democrazia, o per un’esibizione muscolare di forza. Poco importa: anche il peggiore dei presidenti, quale è senza dubbio Trump, ha alle spalle milioni di elettori. Zuckerberg risponde soltanto a sé stesso, visto che è amministratore delegato di Facebook ma anche primo azionista. Mentre Zuckerberg cerca facili applausi contro Trump, cambia in modo unilaterale le regole della privacy di WhatsApp, mettendo i dati del servizio di messaggistica a disposizione di Facebook. Esattamente quello che aveva promesso di non fare quando, nel 2016, aveva chiesto l’autorizzazione alla fusione. Zuckerberg è un pericolo per la democrazia assai maggiore di Jack Angeli, lo sciamano con le corna che ha assaltato il Congresso, e anche del suo mandante, cioè Trump» (Domani). Ma a sua volta, cosa incarna (di cosa è «rappresentante personificato», avrebbe detto lo sciamano di Treviri) Zuckerberg? Del Capitale, si capisce! Del Capitale nelle sue diverse forme, a partire da quelle che afferiscono alla vasta costellazione tecnoscientifica che permette al democratico e progressista padrone di Facebook di intascare grassi e facili profitti.

Dinanzi alla potenza del Capitale, il Presidente degli Stati Uniti, probabilmente l’uomo più potente esistente oggi sulla faccia della Terra, o quantomeno ritenuto tale, ha fatto la miserrima figura di un utente internettiano qualunque. La valigetta con i codici dei missili nucleari evocata da Nancy Pelosi evidentemente non ha impaurito nessuno, e la Borsa di New York ha festeggiato da par suo l’uscita di scena della vecchia Amministrazione mentre la «feccia trumpiana» assaltava il Campidoglio, il tempio della democrazia (capitalistica/imperialista) venerato da tutti i sinceri democratici del pianeta. E di fatti, a Pechino, a Mosca, a Teheran e a Istanbul si sprecavano le «maligne battute» sulla fragile e caotica democrazia americana che non riesce a difendere nemmeno i suoi più prestigiosi santuari: «Si venga a lezione da noi, anziché pretendere di darci lezioni di efficienza istituzionale e di democrazia!» Hong Kong insegna, appunto.

Lucio Caracciolo suggerisce cautela ai nemici, più o meno dichiarati, dell’Impero Americano: «Non si può escludere che per ricompattare la nazione e rinsaldare il primato nel mondo alcuni poteri americani siano pronti a scatenare una guerra, possibilmente breve e vittoriosa, che punisca almeno uno fra i tre supernemici [Cina, Russia, Iran]. Di sicuro l’imprevedibilità degli Stati Uniti destabilizza il sistema delle cosiddette relazioni internazionali, già in entropia. […] Fra qualche anno, forse, scopriremo negli attuali soci [Germania e Francia, in primis] in via di emancipazione dal controllo americano una lancinante nostalgia per i tempi in cui dovevano tacere, ubbidire e godersi la vita sotto l’ombrello a stelle e strisce» (La Stampa). Federico Rampini esprime concetti simili: «Nella nuova guerra fredda Usa-Cina, gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa» (La Repubblica).

Insomma, anche con la nuova Amministrazione i tempi non cessano di essere “interessanti”, e lo stesso Sleepy Joe sembra già un po’ più arzillo. Diciamo.

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TEMPI IMPREVEDIBILI E INTERESSANTI. La competizione interimperialistica ai tempi di Trump

“CONTRO LA BARBARIE DELL’OBBLIGO VACCINALE”

Come un gregge addestrato, gli uomini restano
seduti tranquilli e in infinita pazienza (E. Canetti).

L’infinita pazienza è il cibo dei perdenti.

Oggi Giuliano Ferrara si schiera apertamente «Contro la barbarie dell’obbligo vaccinale». «Trattare le masse come fossero pecore destinate all’immunità di gregge è oltranzismo positivista che rischia di esasperare menti già di per sé confuse. Invece serve pazienza per persuadere le minoranze riottose. Ma come si permettono? L’obbligo politico, comunitario, è una cosa seria. Non c’è bisogno di essere libertari radicali per sapere che la sola idea di un obbligo vaccinale è barbarica. Fa parte di quelle cupe idiozie da cui siamo circondati» (Il Foglio). Con le «minoranze riottose» bisogna usare la carota della persuasione, non il bastone dell’obbligo, dice il giornalista di peso e di spessore. Contro l’«oltranzismo positivista» Ferrara si trova, a mio modesto avviso, dalla parte della ragione – soprattutto di quella “borghese”. Infatti, perché apparecchiare adesso una dura crociata vaccinica, che peraltro odora tanto di guerra ideologica, quando l’obbligo quasi certamente si affermerà col tempo nei fatti, oggettivamente, almeno se la gente vorrà lavorare, studiare, viaggiare, andare al cinema, entrare in un Ospedale e quant’altro. Più che di immunità di gregge, immunità del gregge.

In ogni caso il gregge è pregato di non creare problemi e di attenersi scrupolosamente alle istruzioni che riceverà dai governanti, assistiti come sempre dai preziosi consigli del Comitato Tecnicoscientifico. Il tutto ovviamente in vista del bene comune, il quale deve sempre prevalere sul bene individuale. Non c’è dubbio: in pace come in guerra, viviamo nel migliore dei mondi possibili! Forse…

Sulla questione rimando a un mio post del 14 giugno 2020:
OBBLIGO VACCINALE E ALTRO ANCORA
Leggi anche: Il Virus e la nudità del Dominio

IL PASSAGGIO ALL’ATTO SECONDO MANUEL DE PEDROLO

Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole.
(F. Nietzsche).

Esistono delle situazioni – tragiche situazioni –
nelle quali è impossibile agire senza attirare su
di sé una colpa (G. Lukács).

Non c’è legge, vi dico. La città ne vuole una nuova…
Tutti si sono chiusi in casa, persino la polizia.
(M. De Pedrolo).

Quella che segue non è una recensione, ma una “libera” riflessione sollecitata dalla lettura del bel romanzo di Manuel De Pedrolo Atto di violenza (Paginaotto, 2020), finito dallo scrittore catalano nel 1961 e pubblicato solo dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975), dopo anni di ostinata censura da parte del regime (1). Nonostante tutto, l’opera di Pedrolo vince il premio Prudenci Bertrana nel 1968 con un titolo differente ma molto significativo ed evocativo: Estat d’excepció. Ed è un vero e proprio stato di eccezione che si realizza nella città “immaginaria” governata con il pugno di ferro dal Giudice Domina; una lacerazione nel tessuto della normalità che si compie sotto l’egida di una parola d’ordine tanto semplice quanto socialmente “impattante”: «È molto semplice: restate tutti a casa». Qui forse trovano appiglio le parole di Slavoj Žižek tratte da un suo saggio del 2007: «Talvolta, non fare nulla è la cosa più violenta da fare. Meglio non fare nulla che impegnarsi in atti che in definitiva servono a far funzionare meglio il sistema».

L’intellettuale sloveno non alludeva all’astensione dal lavoro, come nel caso presentato da Atto di violenza, ma a quella dal voto: «L’astensione dal voto si pone come un autentico atto politico: ci obbliga a confrontarci con la vacuità delle odierne democrazie» (La violenza invisibile, Rizzoli, 2008). Personalmente sono da sempre un “astensionista strategico” e un critico radicale della democrazia capitalistica, e quindi non faccio fatica a comprendere la «vacuità delle odierne democrazie» di cui parla Žižek e la straordinaria portata politica dell’idea da egli fatta balenare – peraltro sulla scia di un romanzo di Josè Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2004), nel quale si narra appunto di una tornata elettorale che, tra astensionismo e schede nulle, evoca agli occhi dei politici (tanto di “destra” quanto di “sinistra”) lo spettro della delegittimazione del sistema democratico nel suo insieme.

Il romanzo di De Pedrolo e il saggio di Žižek mettono insomma al centro della riflessione la violenza oggettiva del Potere, sia quella visibile, legata immediatamente al potere politico e ai suoi “dispositivi” di controllo e di repressione, sia quella invisibile, della quale «è necessario tenere conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni “irrazionali” di violenza soggettiva» (La violenza invisibile). La realtà è che il corpo sociale trasuda violenza sistemica (politica, fisica, psicologica, “esistenziale”) da tutti i pori, in alto come in basso, al centro come alla sua periferia e, cosa molto difficile da accettare per il pensiero comune, con stringente necessità. È con questa verità davvero sconvolgente che ci confrontiamo tutti i giorni. Il fatto che nella routine quotidiana appariamo tutt’altro che sconvolti, è forse l’elemento più inquietante della nostra attuale tragica condizione umana – e di certo ciò che alimenta il sempre più rigoglioso commercio di psicofarmaci e il mercato delle razionalizzazioni “pur che sia”. Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene». Ma qui si divaga! Forse.

Il luogo (o location, visto il «taglio quasi cinematografico» del racconto) immaginato da Pedrolo per la sua storia ricorda molto da vicino la Spagna (soprattutto ricorda Barcellona) alle prese con il tardo franchismo, un regime desideroso, per così dire, di avviare una stagione di “riforme” sociali e politiche necessarie alla modernizzazione capitalistica del Paese e alla stessa sopravvivenza di una classe dirigente che sente di non aver più alcuna solida base sociale su cui contare né una sponda politica internazionale che le facesse da supporto e da scudo; un regime ormai declinante eppure ancora così violentemente repressivo nei confronti degli oppositori politici e sociali. “Riformismo”, certo, ma dall’alto e con giudizio. La “lunga transizione” alla democrazia in Spagna non fu certo un pranzo di gala, sebbene l’epoca franchista si concludesse in modo abbastanza ridicolo, cioè con il fallito golpe del 23 febbraio 1981. Mi fa ancora ridere il ricordo del tenente colonnello Antonio Tejero Molina che si aggira spaesato alla Camera dei deputati di Madrid mentre agita nervosamente la pistola d’ordinanza in direzione dei deputati che cercano riparo sotto i loro scranni. Il poverino, esponente fantasmatico di una Spagna che non esisteva più, non solo scambiò la Camera dei deputati per il vero centro del Potere, ma soprattutto non capì come l’Esercito spagnolo, del quale credeva di essere un’avanguardia, fosse diventato lo strumento e il supporto di una borghesia desiderosa di partecipare al grande gioco del business globale, e sicuramente di quello europeo – magari sotto le ali protettive della Germania (2).

«Caratterizzato fortemente dai temi della disobbedienza civile, dello sciopero e del conflitto, Acte de violència non solo si scontra con lo zelo censorio del regime ma non si trova in sintonia neppure con l’opposizione rappresentata dal PCE, ormai passato a sostenere la politica di riconciliazione nazionale» (Catalunyasenzarticolo). E dove c’è «riconciliazione nazionale», c’è reazione, controrivoluzione, conservazione sociale, e su questo terreno franchismo e stalinismo (con caratteristiche spagnole) si davano la mano. La stessa cosa vale per l’Italia e per il PCI, beninteso.

Nelle pagine di Atto di violenza viene insomma fuori con forza il violento tramonto di un’epoca. Scrive Paco Camara su Courmayeur noir in festival: «Franco muore il 20 Novembre 1975 (quel giorno ci fu il massimo consumo di champagne di tutta la storia della Spagna), ma non si può dimenticare che soltanto due mesi prima aveva firmato ancora cinque condanne a morte. Cinque antifranchisti morirono fucilati». L’ultimo ordine impartito dal Giudice Domina in fuga dalla città insubordinata descritta da De Pedrolo riguarda la fucilazione di un giornalista: «Un uomo come me non si può permettere debolezze! Né adesso né mai! Non voglio che la storia mi giudichi per un’azione da perdente. Fucilatelo». Non sappiamo se l’ordine è stato eseguito dagli ex collaboratori di un perdente che non vuole arrendersi alla realtà: «Non sto scappando! Ho pianificato tutto, ricomincerò come quindici anni fa, dalle montagne se necessario…». Ci penserà, suo malgrado, Batxera, l’autista incaricato di mettere in salvo l’ex uomo forte in fuga, a mettere fine alla vicenda del Giudice Domina con la sola pistolettata che De Pedrolo concede nel suo racconto a favore dei subordinati. «Ero pronto a portarla alla Casetta Verde, alla frontiera, dove avesse voluto. Non ho mai avuto l’intenzione di ucciderla. […]«Perché non ha scelto di andare via davvero? Perché? Perché questa ambizione distruttiva? La città non vuole sangue, vuole vivere…». Poi la pistola che impugna Batxera si abbassa verso il «maledetto vigliacco» che adesso implora clemenza mentre anche il cielo piange, non si sa per tristezza o per gioia; parte un colpo, poi «una seconda vampa esplode, precisa e totale, nell’oscurità della sua carne lontana, che non sentirà mai più la pioggia».

«È molto semplice: restate tutti a casa»: come suona male, malissimo, questa “parola d’ordine” in tempi di pandemia e di segregazione domiciliare imposta alla gente dal governo! Lo stesso effetto deve aver fatto ad Alberto Prunetti, il quale nella sua Postfazione al racconto di De Pedrolo scrive: «Chiudo questo prologo pensando alle strade vuote dei giorni del Covid. Non è l’idea di Atto di violenza ma sarà impossibile, sfogliandolo, che certi ricordi recenti del nostro confino domestico non vengano a galla. Leggiamo De Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa». Stando in casa oppure altrove (nelle strade, nei posti di lavoro, ovunque esercitiamo le nostre molteplici attività lavorative e ricreative) rifiutiamoci di collaborare con il Potere: «Per vedere l’effetto che fa»! In ogni caso, lo stare in casa del libro in questione si configura come un atto di insubordinazione e di liberazione, anche psicologica, non certo di confinamento obbligato (o lockdown, nella sua espressione “neutrale”, cioè ipocrita) come quello che ci tocca vivere in questi cupi giorni. «A pensarci bene, è ammirevole che, impauriti o no, tutti quanti abbiamo deciso di ribellarci al Giudice. Perché questa è ribellione»: come invidio i ribelli di De Pedrolo!

Come si può immaginare oggi una rivoluzione sociale? Credo che il libro di De Pedrolo abbia a che fare, di fatto, “oggettivamente”, attraverso i mille fili invisibili che legano le esperienze del passato a quelle del presente, con questa domanda di eccezionale portata storica, sociale e politica. Questo libro ha a che fare anche con la risposta a questa domanda così impegnativa? Questo non so dirlo, anche perché la trasformazione sociale che aveva in testa il suo autore è probabilmente molto diversa da quella che ho in testa io; nondimeno subisco il fascino dell’idea che sta al centro di questo romanzo “utopico”: l’azione di insubordinazione collettiva che disorienta il Potere e gli toglie qualsiasi fondamento sociale, qualsiasi legittimazione politica o di altro tipo. Certo, poi si tratta, appunto, di precisare la natura di questo potere, di chiarire come dovremmo “declinarlo” per averne un’adeguata comprensione; e si tratterebbe anche di chiarire in vista di che cosa intendiamo superare lo stato di cose esistente, o Potere che dir si voglia. Ma entrare nel merito di queste importanti “problematiche” ci condurrebbe, forse, troppo fuori tema, e di certo non mancherà occasione di ritornarci sopra – anche perché i miei modesti scritti non sono che una variazione su un unico tema: la vigenza del Dominio e la possibilità di metterlo definitivamente fuori dalla dimensione storica. Ho scritto Dominio, non Domina.

Leggendo il romanzo di Manuel De Pedrolo, mi è tornato subito alla mente quello che scrisse Marx in una sua lettera a L. Kugelmann datata 11 luglio 1868: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa». In fondo, di cosa parla essenzialmente il libro di De Pedrolo se non di una sospensione generale del lavoro orientata a rendere impraticabile la vita normale di una comunità, e per questa via privare il potere politico di ogni sua ragion d’essere, e così costringerlo ad abbandonare la scena? Disertare le fabbriche, disertare gli uffici, disertare le scuole, disertare i negozi e ogni altra attività che possa in qualche modo sostenere, appunto, la normalità del vivere e con essa il Potere che se ne nutre. Astenendosi dal lavoro, il “popolo” apre di fatto, “oggettivamente”, le porte all’evento eccezionale che improvvisamente svuota di contenuti sostanziali il regime, che ad un tratto scopre di essere un colosso dai piedi d’argilla. La tradizione cinese parla di «revoca del mandato popolare». Purtroppo i limiti di questa revoca stavano nel fatto che a un Imperatore “revocato” (spesso con la violenza) dal popolo seguiva un altro Imperatore, e così via lungo i secoli e sempre sotto l’attenta sorveglianza delle Potenze Celesti, perché da quando si dà storia delle civiltà tutto ciò che accade, accade sotto il Cielo – del Dominio. Chi prenderà il posto del Giudice Domina, caduto in disgrazia dopo quindici anni di incontrastato potere? Questo non lo sapremo mai!

Su quegli anni “controversi” conosciamo però il giudizio di Tara, un capitalista di “destra” alle prese con lo sciopero dei suoi operai: «Mai, sentimi bene, mai c’era stata una legislazione tanto progressista! Durante i quindici anni di cui parli abbiamo fatto un balzo in avanti che neppure i più ottimisti si azzardavano a sperare». Tara discute con il suo socio Bran, un capitalista di “sinistra”, il quale ascoltando l’adirato collega ride e scuote il capo: «No, Tara, no! Queste sono tutte chiacchiere. Per progresso sociale intendo non solamente il miglioramento delle condizioni materiali degli operai e di tutti quanti. […] L’uomo non vive di solo pane… Persino noi vogliamo qualcosa di più». Perle di saggezza progressista che però non schioderanno il collega reazionario dalle sue convinzioni, peraltro subito soddisfatte dall’arrivo della polizia nella fabbrica vuota di operai: «Tenente Orsia, delle forze di polizia. Abbiamo l’ordine di fare un rapporto su tutti i vostri operai che non si sono presentati al lavoro». Tara non si fa pregare: «”Sì. Entrate, entrate!”. Mentre l’altro poliziotto accosta la porta alle sue spalle, il tenente spiega: “L’ordine non riguarda soltanto la sua azienda, signor Flixa; sono stati presi provvedimenti per tutte le imprese con più di cinquanta Lavoratori”. Il sorriso di Tara si accentua.“Naturalmente. E, se me lo consente, le dirò che era ora”. Indica le poltrone. “Ma, prego, accomodatevi mentre cerchiamo l’elenco del personale”». Questo significa essere collaborativi!

Nella fabbrica di Tara e Bran si sono presentati «solo tre operai»: «Nel capannone non c’è anima viva. Solo decine e decine di macchine da scrivere, in diverse fasi di montaggio, giacciono allineate sui banchi degli operai, accanto a mucchi di pezzi e di arnesi invecchiati dall’uso». Tutto profitto andato a male. «Quale triste logorio morale del capitale!», avrebbe chiosato ironicamente l’ubriacone di Treviri dinanzi a una siffatta «distruzione di capitale»: «In quanto il processo di produzione si arresta e il processo lavorativo viene limitato o, in certi luoghi, completamente fermato, vi è distruzione di capitale reale. Il macchinario, che non viene usato, non è capitale. Il lavoro, che non viene sfruttato, equivale a una perdita di produzione. Le materie prime, che giacciono inutilizzate, non sono capitale. I valori d’uso (come pure le macchine di nuova costruzione), che restano o inutilizzati o incompiuti, le merci che imputridiscono nei magazzini, tutto ciò è una distruzione di capitale. [..]. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio se ne vanno al diavolo» (Il Capitale, II). Si può dunque rimproverare Tara per il suo zelo collaborativo? «È grazie al Giudice che c’è disciplina e possiamo lavorare senza la paura di disordini», osserva senza tanti fronzoli “progressisti” il nostro «funzionario personificato del capitale» (Marx). Ciò che invano cerca di fargli capire il collega “progressista” , Bran, è che l’ordine sociale, che per un capitalista è di gran lunga il genere di ordine che occorre preservare a tutti i costi, va tutelato in modo “intelligente”, “pragmatico”, adeguato alle contingenze, in altre parole tenendo conto dei cambiamenti che si verificano nella società, nella sua “struttura” come nella sua “sovrastruttura”. «Questo istinto di conservazione ci ha fatto guadagnare quindici anni», osserva Bran, ma adesso è venuto il momento di cambiare pelle, non certo natura. Non si tratta di una libera scelta, ma di un fatto che si impone alla volontà dei due capitalisti, a quello “buono” come a quello “cattivo”, con assoluta necessità, se vogliono continuare a smungere con una certa serenità la vacca del profitto. Questa assoluta necessità è vissuta da chi non vuole mutamenti sociali e politici significativi come un vero e proprio atto di violenza.

Anche lo sciopero della fame condotto fino alle estreme conseguenze, ad esempio dai detenuti per ottenere migliori condizioni di detenzione, estrema forma di lotta che esprime un’incolmabile squilibrio di forza tra lo Stato e chi ne subisce l’oppressione, è spesso condannato dai governanti come un atto di violenza: «Ma così ci ricattate, ci sparate contro il vostro stesso corpo, e venite a parlarci di pacifica disobbedienza civile!» Evidentemente il concetto di violenza si presta a diverse letture; come sempre, è una questione di punti di vista – e di interessi.

A proposito: chi ha dato l’ordine di sospendere in modo generalizzato e a oltranza il lavoro, così da paralizzare qualsiasi attività economica? A quanto pare nessuno. E com’è possibile? Qualcuno avrà pure scritto l’ordine di rimanere tutti a casa! Dove c’è un muro si legge la famosa, o famigerata, scritta. Anche i muri delle toilette non vengono risparmiati: «Mentre si sbottona la patta dei pantaloni legge la frase che qualcuno ha scritto sulle mattonelle bianche: “È molto semplice: restate a casa”, scuote il capo e, mentre orina, fruga nella tasca interna della giacca in cerca della matita che porta sempre con sé. Si riabbottona, con una mano sola. Poi, inclinato sulla tazza, aggiunge un “tutti” alla frase, cercando di imitare la grafia dello sconosciuto». Restate tutti a casa: suona meglio! Va bene, ma chi è stato il primo a pensare, a dire e a scrivere quell’idea diventata tanto popolare (virale!) in così poco tempo?

Insomma, chi c’è dietro la cosa cospirativa? O si tratta forse di un movimento spontaneo? Tara, a differenza di Bran, non lo crede possibile: «Spontaneo? Non farmi ridere! Credi davvero che qualche migliaio, qualche milione di persone possano mettersi d’accordo in questa maniera… Spontanea? Sicuramente c’è qualcuno dietro. Vedrai se non è così! Tutte le cose hanno un motivo e qui, come ovunque, ci sono interessi privati, inconfessabili, che si servono di quei disgraziati per i loro scopi». Per Tara i «disgraziati» che se ne stanno a casa ad annoiarsi e a non guadagnare sono essi stessi vittime di qualcuno che persegue «interessi privati, inconfessabili»: è la logica del potere che parla con la bocca del capitalista smaliziato. E poi, quando mai gente che si accontenta di portare a casa la pagnotta quotidiana, magari mentre esalta la propria squadra di calcio e sputa sulle altre, è stata in grado di simili azioni generalizzate, coordinate e organizzate? Anche Domina naturalmente è dello stesso parere: «I popoli sono incapaci di prendere iniziative se nessuno li dirige. La storia ce lo dimostra chiaramente». Eppure questa volta sembra che la spontaneità delle masse abbia avuto la meglio sul “momento organizzativo” e sulla stessa storia!

La natura astratta – inafferrabile, impalpabile, eppure tremendamente concreta – del dominio sociale capitalistico forse ha qualcosa a che fare con il carattere anonimo dell’insubordinazione raccontata da De Pedrolo. Forse. C’è da riflettere anche sul fatto che ai tempi in cui egli scriveva il suo libro non c’era niente che possa far ricordare i nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai cosiddetti “social”. Forse è proprio per questo che una singola “parola d’ordine” è potuta diventare, nella sua asciutta semplicità, così potente e dirompente? Non sono in grado di dire cose intelligenti su questo punto – perché, sul resto?

Il dottor Morns, dopo aver visitato una giovane donna ferita dalla polizia, «va verso il lavabo, apre il rubinetto. Ma [l’infermiera] interviene: “Attenzione, dottore. Quando i serbatoi si saranno svuotati non avremo neanche l’acqua”». Chissà come sono messi ad alcol, Amuchina e a dispositivi sanitari di vario genere: occhio ai virus! Ma che dico! Purtroppo l’attualità si infila da tutte le parti: mi scuso! La benzina è finita, quasi tutti i negozi sono chiusi perché non hanno più nulla da vendere («La maggior parte delle famiglie si è attrezzata per resistere a questo strano assedio e già da giorni ha fatto scorte, al punto che molti negozi di alimentari e affini sono ormai vuoti»); scarseggia il cibo, le scuole sono chiuse. «I miracoli non li so fare», confessa il cuoco Pots al vecchio cameriere Carbi, entrambi “crumiri” evidentemente; «Non c’è gas, non c’è energia, non abbiamo quasi più legna, manca il carbone. E il cibo? Cosa vuole che cucini se non c’è niente?». «Questo si chiama fare le cose per bene…».

D’altra parte, se tutti si astengono dal lavoro, “materiale” e “immateriale”, chi produce e commercializza i “beni e servizi” di cui una società ha quotidianamente bisogno? Nessuno, è ovvio! Chi c’è lungo le strade della città insubordinata? Nessuno. Chi c’è nelle fabbriche? Nessuno. E negli uffici? Nessuno! «Non si può nemmeno telefonare al paese accanto. Non c’è nessuno!» Si materializza insomma una condizione che potremmo chiamare, appunto, Niente e Nessuno; una contingenza straordinaria in grado di mettere il Potere (peraltro ancora tutto da decifrare quanto a natura) con le spalle al muro. Nessuno decide di non ubbidire più al Potere e con questa sola decisione ne minaccia la continuità. Ricordate la “suggestiva” vicenda di Polifemo e Odisseo? «Amici, Nessuno mi vuol uccidere per via d’inganni e non con la forza». Chi vinse dunque il possente ciclope con la sola forza dell’intelletto? «Nessuno fu». Parola di Omero. «La rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima», disse una volta Amadeo Bordiga, il “vero fondatore” del PC d’Italia (Livorno 1921); e aggiunse: «Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire». Accostare Bordiga a De Pedrolo può suonare ideologicamente “blasfemo” ed “esteticamente” dissonante, ed è esattamente per questo che al mio bizzarro orecchio la cosa suona benissimo! Nessuno deve arrivare: chissà se, alla fine, Nessuno arriverà…

Il treno non si muove, la stazione è praticamente deserta di viaggiatori indaffarati con i riti della partenza: biglietti da pagare, valigie da spostare, richieste di informazione da formulare, qualche panino da addentare frettolosamente. Niente di tutto questo. «Tutti. Macchinista, fuochista, bigliettaio… hanno abbandonato tutti il treno». E non c’è uno straccio di macchina che supplisca alla bisogna, né locande che possano ospitare anche solo per poche ore i pochi e stanchi viaggiatori presenti nella stazione. Uno di questi si lamenta: «Capisco che il personale delle ferrovie sia solidale con tutta la popolazione. Io stesso, e immagino anche voi, stavo tornando a casa prima di aver finito il mio giro per collaborare, per essere uno di più… Ma questi stronzi potevano almeno arrivare in città per non creare problemi a nessuno». Ma il disservizio è implicito nel concetto stesso di sciopero, direbbe a questo punto un sociologo. «Forse vivono qui», azzarda un «omone». Non si sa. Improvvisamente il silenzio è rotto da «violenti colpi, accompagnati da un brusio di voci concitate». Alcune persone cercano di forzare la porta del bar della stazione: «Le otto mani stringono forte la sbarra e il rappresentante comincia a contare: “Uno… due… e tre!”». Quantomeno si può bere e mangiare qualcosa alla faccia dell’ordine costituito. Non si vive di sola disobbedienza civile!

Il professor Jurt Nadia invece non approva l’azione; secondo lui quell’«atto di vandalismo» ai danni del bar non si armonizza con lo spirito della pacifica e civile insubordinazione ai danni del Giudice Domina. «Una delle donne fa: “Se le Ferrovie ci hanno abbandonati in questo posto sperduto è naturale che cerchiamo di difenderci”. L’uomo maturo la appoggia: “Ha ragione. Qui ci deve essere da mangiare e da bere. Perché dovremmo digiunare?”». Già, perché? «Ma possibile che nessuno si renda conto che, comportandoci così, ci mettiamo allo stesso livello della mentalità che stiamo combattendo?». «”Si spieghi meglio!”, esclama un’altra delle donne». A questo punto subentra nella discussione Job, l’amico di Jurt (i due si sono incontrati nella sala d’attesa della stazione casualmente): «Sappiamo tutti che, in molti quartieri, la polizia e i soldati sono intervenuti per sfondare le porte dei negozi che avevano chiuso e fare irruzione nelle case… Anche se la finalità è diversa, i procedimenti sono gli stessi. È questo che voleva dire il mio amico». Ciò che per Job e Jurt conta è salvaguardare il carattere pacifico della «resistenza passiva», ed estendere questo carattere a tutte le azioni che in qualche modo hanno a che fare con quella forma di lotta.

«Dobbiamo evitare a ogni costo che questa resistenza passiva venga stravolta da momenti di impazienza, malumori o difficoltà momentanee. Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta. Sì, avete ragione. È un episodio minimo che coinvolge appena una decina di persone in un posto fuori dal mondo. E che, lo ammetto, non ha nessuna importanza. Ma non ci siamo soltanto noi. Qui, là, ovunque, ci sono gruppetti, alcuni addirittura più piccoli del nostro, che si trovano di fronte a tentazioni molto simili. Ora, se ciascuno di quei gruppi si convince che ciò che fa non conta, perché è un atto isolato, irrilevante nell’insieme delle cose, alla fine potremmo scoprire che la società intera si è allontanata da una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa…». L’”intellettuale” della situazione alla fine riesce a convincere gli affamati e arrabbiati viaggiatori: «”Tutti abbiamo capito. Non siamo così ignoranti”…. Quello con la sciarpa rossa, accigliato come se stesse facendo un grosso sforzo di concentrazione, interviene: “Adesso quello che manca è che in ciascun gruppo ci sia una persona come voi per mettere le cose in carreggiata…”». La funzione sociale dell’intellettuale dissidente trova qui una puntuale conferma, per la grande soddisfazione di Job: «Per fortuna qui quella persona l’abbiamo». Si decide di comune accordo di richiudere la porta del bar appena sfondata: «”Forse io vi posso aiutare. Sono fabbro”. Scoppiano tutti a ridere di cuore».

A proposito di cuore, non c’è dubbio che abbiamo appena toccato, almeno credo, il cuore politico ed etico che pulsa nelle pagine di Atto di violenza. Alludo alla scottante questione circa la relazione che stringe, o dovrebbe farlo, i mezzi ai fini. Anche il problema della responsabilità individuale nel contesto di un’azione collettiva è senza dubbio evocato, eccome.

«Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi», soleva dire giustamente Friedrich Nietzsche. E non c’è dubbio che tra lo scopo che si persegue e i mezzi idonei a praticarlo deve insistere una qualche “relazione dialettica”; si tratta di precisare, magari attraverso una serie di approssimazioni, i termini teorici e politici di questa relazione. Ad esempio, in che senso e fino a che punto i mezzi devono – e possono – essere adeguati allo scopo che si vuole conseguire? Di più, e più radicalmente: è possibile una tale corrispondenza? De Pedrolo immagina un’insubordinazione generale nei termini di «un’azione solidale e passiva a braccia incrociate»; argomenta il professor Jurt: «Adottare i procedimenti propri del nemico ci equipara moralmente al nemico stesso e, di conseguenza, indebolisce le nostre posizioni. Avere ragione, essere i migliori, non è una questione di forza bruta. […] Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta». La non-violenza è «una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa». È un punto di vista che ovviamente rispetto ma che mi sembra passibile di un approfondimento critico. La stessa conclusione della storia narrata da De Pedrolo credo che spinga in quel senso. Commenta  Prunetti nella sua Postfazione: «Il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla. Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza. Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere». Sembra insomma che la ribellione non possa fare a meno di misurarsi con il problema della violenza.

Scriveva György Lukács nel 1919: «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa» (Tattica ed etica) Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, credo che questa considerazione valga anche per quello che possiamo chiamare “diritto rivoluzionario”: il diritto dei dominati alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione e il diritto generato dalla rivoluzione trionfante – si spera… In altri termini, la rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada, si può “gestire” al meglio, quanto di cattivo, anche moralmente ed eticamente parlando, cercherà di insinuarsi nel processo rivoluzionario. Ma su questa importantissima e assai divisiva “problematica” rinvio a due miei scritti: L’Angelo Nero sfida il Dominio e Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano. Concludo questa riflessione, già fin troppo lunga, dicendo che bisogna porre – anche – la relazione mezzi-fini su un terreno non ideologico, perché l’ideologia fa delle convinzioni, perfino di quelle che consideriamo giuste, una prigione che non permette al pensiero critico-radicale di trovare le risposte adeguate ai problemi che esso si trova a dover affrontare nella realtà, e non nel cielo degli astratti principi.

 

(1) Durante la Guerra civile spagnola, Manuel de Pedrolo combatté per la Repubblica tra gli anarcosindacalisti e fu maestro rurale in una zona mineraria. «Marxista eterodosso e deciso sostenitore dell’indipendenza di Catalunya, per Manuel Pedrolo la liberazione di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia. In questa prospettiva Pedrolo si esprime chiaramente in un’intervista televisiva realizzata nel 1983: “Ciò che sembra intollerabile è che partiti che in principio sostengono la libertà, la libertà per tutti, nel senso di liberare i lavoratori dal loro giogo, liberare le donne dal loro giogo (che esiste), liberare le razze e liberare anche i popoli, quando si tratta di liberare una porzione di questo concetto geografico chiamato Spagna che non si accorda con la cultura spagnola perché ne ha un’altra, che ha un’altra lingua e che perciò non ha motivo di adottare quella spagnola, allora questi stessi partiti girano la schiena e dimenticano tutto ciò che significa libertà”. Un vero e proprio invito alla riflessione, rivolto a quella parte della sinistra che ancora si mostra scettica sulla repubblica catalana e sull’indipendenza dei Països Catalans, oggi più che mai all’ordine del giorno» (Catalunyasenzarticolo). Sulla questione catalana ho scritto diversi post, ai quali rimando chi fosse interessato alla mia opinione in materia.
(2) « Dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna è sottoposta dalla comunità internazionale a misure di ritorsione politiche ed economiche a causa del suo regime autoritario. Il suo isolamento viene spezzato dagli Stati Uniti che, nel 1953, stipulano con il paese un accordo bilaterale per l’installazione di basi militari. Nella seconda metà degli anni cinquanta la Spagna viene ammessa nell’organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel 1962 avanza una richiesta di ingresso nella Comunità Economica Europea. Il timore di una contrazione delle esportazioni agricole della Spagna verso i Paesi della Comunità, a seguito della politica agricola protezionista dei sei, ha un peso importante nell’indurre il paese a questo passo. La Comunità, considerando l’adesione ai principi democratici come prerequisito indispensabile per l’ammissione di nuovi membri respinge la richiesta, ma stipula più tardi (1970) con il paese un accordo preferenziale di tipo economico. Dopo la costituzione della Junta democratica (1975), il dialogo con la Comunità viene ripreso. Nel 1986 la Spagna diventa, assieme al Portogallo, membro della Comunità Europea» (PuntoEuropa).

LA SOCIETÀ COME IDEOLOGIA E COME PATOLOGIA

Oggi che l’utopia di Bacone – comandare alla natura
nella prassi – si è realizzata su scala tellurica, diventa
palese l’essenza della costrizione che egli imputava
alla natura non dominata. Era il dominio stesso. […]
Di fronte a questa possibilità l’illuminismo al servizio
del presente si trasforma nell’inganno totale delle masse.
M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo.

Scrive Antonello Sciacchitano (da Il soggetto collettivo, Facebook):
«Ideologia come patologia sociale. Il negazionista non solo nega di appartenere a una comunità ma nega la comunità stessa. Chi rifiuta la vaccinazione indebolisce non tanto sé stesso ma il soggetto collettivo. Il vaiolo è stato estirpato dal vaccino di Jenner (1798). Tetano, difterite, morbillo e polio sono morbi tenuti sotto controllo, purtroppo non estirpati, dai rispettivi vaccini. Non vaccinarsi significa promuovere gli agenti morbosi collettivi in nome della libertà individuale che verrebbe coartata da chi ha il potere di proporre le vaccinazioni. La vera patologia sociale non è il virus, è l’ideologia».

Personalmente trovo sommamente ideologica questa posizione di Sciacchitano, perché essa a mio avviso non coglie la radice sociale del problema sollevato e si concentra piuttosto su un fenomeno (il cosiddetto “negazionismo”) che si spiega benissimo con il carattere irrazionale della presente società. La società capitalistica è radicalmente irrazionale in questo preciso significato: il risultato del processo sociale globalmente considerato si dà alle spalle degli individui, “a loro insaputa”, per usare il gergo giornalistico, post festum, per dirla “filosoficamente”; e il più delle volte il bel risultato collettivo si erge minacciosamente sopra la nostra testa come una «potenza estranea e ostile» (Marx). È questa potenza sociale che «coarta» la nostra «libertà individuale» e che conferisce un preciso status storico e sociale al «soggetto collettivo».

La scienza dei nostri capitalistici tempi collabora con zelo al mantenimento e al rafforzamento di questa pessima (disumana, illiberale) condizione, e ciò ovviamente senza che la comunità degli scienziati ne abbia la minima consapevolezza: lo fa, ma non lo sa. In ottima buonafede lo scienziato giura sul carattere socialmente e politicamente “neutro” della prassi scientifica, e vede solo il lato pieno del bicchiere (il vaccino che ci salverà!), mentre l’altro lato (la società che ha creato il problema cui cerca di far fronte) egli non lo vede, ovvero non gli appare di sua pertinenza professionale. «Maledetto specialismo!», avrebbe detto l’aristocratico Nietzsche.

È insomma la stessa prassi sociale capitalistica che ci si dà in guisa di ideologia, appunto perché il mondo che viene fuori dalla molteplice e multiforme attività collettiva appare capovolto, rovesciato: il prodotto domina il produttore, la Cosa sussume sotto la sua irriducibile oggettività il soggetto, che pure la produce; il lavoro morto piega alla sua cadaverica esistenza il lavoro vivo. Parlare di «comunità» in astratto, prescindendo da ciò che ne costituisce l’essenza (il rapporto sociale di produzione della vita “materiale” e “spirituale” degli uomini), significa impedirsi l’accesso a una critica davvero radicale della realtà.

«La vera patologia» è dunque, e sempre a mio modestissimo avviso, questa società, il cui impalpabile (“astratto”) rapporto sociale di dominio e di sfruttamento (degli uomini e della natura) ne rappresenta l’autentico fondamento (il vero dato “strutturale”); è questa società che ci espone sempre di nuovo a sofferenze e a rischi d’ogni genere, e che, nella fattispecie, ha trasformato un virus in una devastante crisi sociale – non semplicemente sanitaria, e questo già nel suo momento genetico: vedi distruzione degli ecosistemi, commercio del guano di pipistrello (come possibile causa immediata dell’epidemia tra le tante altre cause candidate a questa funzione), abitudini alimentari ritenute più o meno “stravaganti” (come sempre dipende dalla “geolocalizzazione” dell’occhio che osserva), globalizzazione dei traffici, “economizzazione” della spesa sanitaria, e quant’altro ha moltissimo a che fare con l’economia, in particolare, e con la prassi sociale in generale, e pochissimo con la “nuda natura”.

È questa società che ci dichiara guerra giorno dopo giorno, che “complotta” in mille modi contro la nostra salute, la nostra serenità, la nostra libertà, la nostra umanità. Niente «oscure trame repressive», niente «affari loschi»: è il processo sociale capitalistico, bellezza! Che sulla sofferenza e la paura di milioni di persone fioriscano profitti da capogiro (certamente, alludo anche al vaccino e ai tanti dispositivi sanitari che possono proteggerci dalla malattia), occorre darlo per scontato, se non si vuol fare, appunto, dell’ideologia. Mi rendo conto: quello che configuro è un “complotto” che di certo non può suscitare alcun fascino presso il complottista, il quale è alla continua e smaniosa ricerca di facili capri espiatori su cui poter scaricare, “qui e subito”, il proprio disagio sociale/esistenziale.

Ho il sospetto, un sospetto che non tocca minimamente Sciacchitano (i cui scritti “psicoanalitici” peraltro apprezzo da diverso tempo), che molte persone provano gusto a sparare contro la Croce Rossa che trasporta a sirene spiegate “complottisti” e “negazionisti” d’ogni sorta (figli legittimi di questa società irrazionale, esattamente come chi scrive, e forse anche come chi legge), perché tali persone pensano che questo intelligente passatempo le faccia apparire come sommamente razionali, informati sui fatti (compreso sul circolo vizioso dentro cui si crogiolano e si avvitano i negacomplottisti), “acculturati” e, soprattutto, “responsabili e maturi” nei confronti della comunità: «Il singolo non può mettere a repentaglio la salute del corpo sociale!»

Personalmente non provo alcun piacere nello sport del tiro al (facilissimo) bersaglio: il mio obiettivo polemico principale non è il “negazionista”, né il “complottista”, verso i quali peraltro nutro da sempre una fortissima antipatia personale, pur considerandoli un buon oggetto di studio nell’ambito della ricerca sociale: vedi alla voce psicologia di massa. Ma come si fa a non capire che fenomeni come il “complottismo” e il “negazionismo” hanno a che fare con il completo fallimento di questa società? E qui parlo di fallimento mettendomi dal punto di vista di chi coltiva illusioni di qualche tipo su questa pessima società.

Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene».

Rinvio al PDF (Il Virus e la nudità del Dominio) che raccoglie i miei post dedicati alla rognosissima (per non dire altro) “problematica virale”.

L’INGRANAGGIO DEL DOMINIO

L’occultamento dell’opposizione tra il concetto di
uomo e la realtà capitalistica uccide il pensiero di
ogni verità (Max Horkheimer).

Nel suo ultimo libro (L’ingranaggio del potere, Liberilibri, 2020) Lorenzo Castellani, professore di Storia delle istituzioni politiche alla Luiss, imbastisce l’ennesima riflessione sulla crisi della democrazia liberale, surclassata ormai da molto tempo dal cosiddetto potere tecnocratico – variamente inteso e descritto. Scrive Castellani (cito da un estratto del suo libro pubblicato da La Verità): «I regimi politici che chiamiamo democrazie liberali si sono progressivamente trasformati in un sistema sempre più complesso, e questa trasformazione ha visto aumentare lo spazio della tecnocrazia, fondata sul principio di competenza, a danno della politica rappresentativa, fondata sul principio democratico». Principio tecnocratico versus principio democratico? L’«aristocrazia di puro potere» alla fine ha avuto ragione della democrazia rappresentativa? «In realtà, l’elemento tecnocratico si è abilmente nascosto dietro l’espansione della partecipazione politica e dei diritti individuali e sociali. La promessa democratica di auto-determinazione e auto-realizzazione degli individui ha prevalso, nella costruzione del dibattito pubblico, rispetto al bisogno di gerarchia che informa la reale architettura del potere».

Ma quella promessa ha, e ha avuto in passato e può avere in futuro, un reale fondamento sociale? E se sì, qual è questo fondamento? E qual è il fondamento sociale del «bisogno di gerarchia che informa la reale architettura del potere»? Questo bisogno, del tutto oggettivo, non ha forse a che fare con la divisione sociale del lavoro in epoca capitalistica? E cosa presuppone questa peculiare (sul piano storico-sociale) divisione del lavoro? Tutte queste domande convergono a mio avviso in un unico punto focale: la realtà della società capitalistica colta nella sua più intima essenza, la quale è costituita dal peculiare rapporto sociale di produzione/scambio che domina l’intera esistenza degli individui in ogni parte del pianeta.

«In altre parole, la permanenza e l’evoluzione del principio aristocratico nei nostri sistemi politici è uno degli arcana imperii con cui è necessario fare i conti. Infatti, tutti i cittadini avvertono l’esistenza della verticalità gerarchica e vedono le promesse mancate dei regimi democratici, ma solo pochi pensatori intendono riconoscere e discutere apertamente questo arcano. Probabilmente perché farlo significherebbe aprire delle irrimediabili faglie di delegittimazione nei nostri regimi politici». L’arcano di cui parla Castellani non è affatto un arcano: si tratta infatti della struttura classista della nostra società, la quale presuppone e pone sempre di nuovo, attraverso il lavoro e le molteplici attività e relazioni umane, un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento – dell’uomo sull’uomo e, per suo mezzo, sulla natura. Il dibattito sui rischi che la nostra libertà e identità correrebbe a causa della sempre più capillare e invasiva applicazione della cosiddetta Intelligenza Artificiale, dibattito che in larga parte trasuda un’incredibile dose di feticismo tecnologico (la macchina e l’algoritmo come i “nuovi padroni” delle nostre esistenze), rinvia al sempre più capillare e invasivo dominio dal Capitale, il quale è in primo luogo, e marxianamente parlando, un rapporto sociale. Ed è precisamente questo rapporto sociale, questa immateriale (impalpabile, astratta) ma sommamente concreta realtà che informa la prassi degli individui e delle istituzioni, il cui grado di autonomia esistenziale è grandemente sopravvalutato dalla scienza sociale.

Alla luce di questa tutt’altro che misteriosa realtà il piagnisteo sulla crisi della democrazia liberale ci appare per quello che è sempre stato (almeno dagli inizi del XX secolo in poi, già in epoca liberale e prefascista): un’apologia di fatto del dominio sociale, uno sforzo teso a celare dietro “belle frasi” democratiche e liberali la realtà del totalitarismo sociale creato dalla multiforme prassi degli individui e delle classi. L’avvento delle masse (ossia dell’«uomo medio» di cui parlava Ortega y Gasset, che Castellani cita nel suo libro) e dei regimi politicamente totalitari è stato possibile solo sul fondamento di quel ben più radicale e duraturo totalitarismo sociale, premessa di ogni sciagura sociale: dalle crisi economiche devastanti alle guerre imperialiste (due nel corso del “secolo breve”), dallo sterminio industriale scientificamente organizzato di milioni di uomini e di donne, di vecchi e di bambini, alle catastrofi cosiddette naturali – come le epidemie, tanto per toccare di sfuggita l’attualità. Nella sua ingenua apologia del liberalismo, considerato come la «suprema generosità», Gasset non comprese che fu proprio l’epoca liberale della società borghese a realizzare i presupposti per il suo superamento, perché «un principio così bello, il più nobile che abbia risuonato nel mondo» (1) si era posto a baluardo del dominio di classe, premessa di ogni futuro sviluppo della “moderna società di massa”. In questo preciso – e radicale – senso liberalismo e fascismo non stanno in reciproca antitesi, ma sul terreno storico e sociale essi si stringono in uno stretto rapporto dialettico (2). Non dimentichiamo che quando si trattò di prevenire o contrastare la rivoluzione sociale nel Primo dopoguerra («Fare come nella Russia dei Soviet!»: uno slogan davvero terrorizzante alle orecchie delle classi dominanti dell’epoca), la classe dirigente liberale non ebbe alcuna remora nel dare fiducia alle squadracce che poi si sarebbero autonomizzate, anche ai danni del personale politico di “antica concezione” (ah, maledetta eterogenesi dei fini!), come movimento fascista, senza peraltro smettere di usare la carota democratica per imbrigliare, sfiancare e demoralizzare il movimento operaio. Il manganello agì in perfetta sinergia con la scheda elettorale. In ogni caso, «Il fascismo non è nato per caso», e le condizioni sociali che lo hanno reso possibile sono tutt’altro che superate, ed è per questo che «Oggi combattere il fascismo [ed ogni forma di statalismo e autoritarismo] richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (3).

Come mi capita di scrivere spesso nei miei modesti post, oggi l’autentica libertà – e quindi umanità – è preclusa in radice agli individui di tutti gli strati sociali, perché lungi dal dominare con le mani e con la testa il processo sociale che crea le loro condizioni materiali di esistenza, ne sono piuttosto dominati. Ovviamente le diverse classi sociali vivono in modo assai diverso la dimensione illiberale e disumana di questa epoca storica: un conto è far parte della classe dominante, un conto affatto diverso è abitare i piani bassi dell’edificio sociale. Tuttavia, quella pessima dimensione accomuna tutti gli individui, ed è per questo che l’emancipazione delle classi subalterne postula necessariamente l’emancipazione dell’intera umanità, e non è certo un caso se questa straordinaria possibilità non di rado conquista il cuore e la mente dei figli della borghesia.

Parlare di «auto-determinazione e auto-realizzazione degli individui» nel seno di una società che nega in radice ogni autentica libertà e autodeterminazione degli individui significa fare dell’ideologia, un’ideologia che certamente non aiuta il pensiero che aspira a conquistare una prospettiva critica dalla quale osservare il mondo, e che anzi collabora con le potenze sociali oggettive a farlo rimanere dentro il cerchio stregato dell’opinione dominante.

Scriveva Ortega y Gasset alla fine degli anni Venti del secolo scorso: «Chi esercita oggi il potere sociale? Chi impone la struttura del proprio spirito all’epoca? Senza dubbio la borghesia. Chi, in seno a questa borghesia, è considerato come il gruppo superiore, come l’aristocrazia del presente? Senza dubbio il tecnico: ingegnere, medico, finanziere, professore ecc. chi, dentro a questo ambiente tecnico, lo rappresenta con maggiore altezza e purezza? Indubbiamente l’uomo di scienza. […] Ebbene, dunque: risulta che l’attuale uomo di scienza è il prototipo dell’uomo-massa» (4). Il limite di una tale concezione del potere sociale, che a quanto ho compreso è assunta come griglia concettuale di riferimento dal nostro scienziato sociale, è che essa si concentra troppo sulle figure professionali che di volta in volta svolgono una funzione per conto della conservazione sociale, e la relazione di dominio e di sfruttamento che informa l’intero organismo sociale e che, in ultima analisi, spiega l’esistenza di quelle figure nel contesto dei continui mutamenti che intervengono in ogni punto di quell’organismo. Non dimentichiamo che la società capitalistica ha nel continuo cambiamento “strutturale” e “sovrastrutturale” delle sue molteplici sfere il suo più importante principio di conservazione.

A proposito della gestione dell’attuale crisi pandemica (crisi sociale tout court), mi sento di affermare che sbaglia grossolanamente chi pensa che siano gli scienziati e i tecnici a dirigere il traffico, per così dire. I comitati tecnico-scientifici che supportano le decisioni governative in materia di politica sanitaria (e non solo di quella) rappresentano la continuazione della politica con altri mezzi.

Scrive Castellani: «Stato, Capitalismo e Scienza si sviluppano in parallelo sia perché necessari l’uno all’altro – lo Stato per creare le condizioni istituzionali del Capitalismo, il Capitalismo per garantire lo sviluppo economico con cui lo Stato riesce a finanziarsi, la Scienza per prevedere le misure necessarie da applicare – sia perché caratterizzati dalla stessa logica organizzativa, quella della parcellizzazione delle funzioni per garantire un’efficienza sempre crescente». Io parlerei piuttosto di un “intreccio dialettico” estremamente organico tra «Stato, Capitalismo e Scienza» che ha nel processo di accumulazione capitalistica il suo decisivo «momento egemone» (Marx), e non a caso l’evocato ubriacone di Treviri individuò nell’uso ordinario e sempre più diffuso della scienza nel processo produttivo allargato (produzione e distribuzione di “beni e servizi”) l’autentico inizio del capitalismo moderno, quello caratterizzato dalla «sottomissione reale del lavoro al capitale» – superando la fase della sottomissione «semplicemente formale» (5).

A mio avviso solo avendo ben chiaro questo quadro reale e concettuale l’analisi critica della cosiddetta tecnocrazia è in grado di restituirci la reale – non mitologica/ideologica – dimensione del fenomeno tecnocratico, coglierne la sua funzione sociale attraverso i mutamenti che gli sono imposti dalla dinamica sociale. Si tratta insomma, e sintetizzando al massimo, di capacità tecniche e scientifiche poste al servizio del dominio sociale capitalistico globalmente considerato. Questo ovviamente a prescindere dalla coscienza che tecnici e scienziati hanno della loro funzione nella società. Anche la critica dello «specialismo» («Lo specialista “conosce” assai bene il suo minimo angolo d’universo; ma ignora radicalmente tutto il resto» (6), che, come scrive Castellani, «connetteva la crescita della democrazia direttamente con quella della tecnocrazia», e che Gasset probabilmente riprese da Nietzsche (7), coglie solo la superficie del problema, la fenomenologia – o la schiuma – di un processo sociale assai più vasto e profondo.

Spesso la dettagliata e certamente assai interessante descrizione dei foucaultiani «dispositivi del potere», finisce paradossalmente (?) per condurre il pensiero che si lascia affascinare dalla complessa articolazione dell’ingranaggio del dominio su una pista che non gli permette di afferrare il maligno bandolo della matassa, di toccare cioè la radice del Male, per civettare abbastanza indegnamente con la terminologia teologica. Per una più diffusa trattazione della fondamentale “problematica” rimando i lettori a un mio recente scritto: Dialettica del dominio capitalistico.

Il pensiero politologico di Castellani aderisce, mi pare di capire, alla concezione pattizia dello Stato che presenta il Leviatano come una potenza super partes, un potere neutro (o in ogni caso neutralizzato e “civilizzato”) chiamato a mediare tra i diversi interessi che dividono, e spesso dilaniano la società civile. Per come la vedo io, lo Stato, in ogni sua possibile configurazione politico-istituzionale (democratico, autoritario, totalitario, ecc.) e nella sua complessa articolazione centrale e periferica (verticale e orizzontale); lo Stato, dicevo, appare ai miei occhi come il più formidabile strumento di dominio di classe, ed è da questo peculiare punto di vista che ne osservo l’evoluzione determinata dai mutamenti sociali complessivamente considerati, e sempre posti in intima relazione con il processo sociale mondiale. «Per questo motivo i diversi Stati dei diversi Paesi civili, malgrado la loro variopinta differenza di forma, hanno in comune che stanno tutti sul terreno della moderna società borghese, che è più o meno evoluta in senso capitalistico» (8). Peraltro, e come è noto, la democrazia ha avuto un’evidente e profonda radice di classe già ai suoi albori, nella Grecia classica: figuriamoci ai tempi del dominio globale (totale e totalitario) del Capitale, nella società capitalista/imperialista del XXI secolo!

Scrive Bernard-Henri Lévy commentando il suo ultimo saggio (Il virus che rende folli): «In sostanza, sotto vari punti di vista, questo è davvero un virus che ci ha reso folli o forse ha solo svelato la follia del tempo presente e che ci ha consegnati a un mondo molto meno libero di quello da cui proveniamo. Allora, prima si esce da questo incubo, che solo in parte è addebitale al virus, meglio è». A mio modesto avviso il tempo presente è in perfetta continuità con il folle mondo «da cui proveniamo», che poi è lo stesso mondo che oggi “pratichiamo”, e la cui profonda irrazionalità sistemica ha a che fare con la stessa natura del processo materiale che rende possibile la nostra esistenza. L’incubo si chiama Capitalismo (in ogni sua possibile configurazione economica e istituzionale), e prima lo capiamo e meglio è.

(1) O. y Gasset, La ribellione delle masse, p. 83, Tea, 1988.
(2) «La nemesi immanente di Hitler è questa: che egli, il boia della società liberale, era troppo “liberale” per capire come altrove, sotto il velo del liberismo, si costruisse l’irresistibile supremazia del potenziale industriale. Hitler, che scrutò come nessun altro borghese quel che c’è di falso nel liberalismo, non comprese fino in fondo la potenza che gli sta dietro, cioè la tendenza sociale di cui egli stesso non era che il tamburino […] La stoltezza di Hitler è stata un’astuzia della ragione» (T. W. Adorno, Minima moralia, p. 118, Einaudi, 1994).
(3) M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 55, Savelli, 1978.
(4) O. y Gasset, La ribellione delle masse, p. 108.
(5) «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976). A un certo punto dello sviluppo capitalistico, la tecnoscienza diventa lo strumento di dominio e di sfruttamento di gran lunga più potente nelle mani del Capitale. Sulla natura e sulla funzione sociale della tecnoscienza in epoca capitalistica rimando ad alcuni miei scritti: Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Io non ho paura – del robot; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(6) Ivi, p. 110.
(7) «Di fronte a un mondo delle “idee moderne”, che vorrebbe confinare ognuno nel suo angolo e nella sua “specialità”, un filosofo, se mai oggi potessero esservi dei filosofi, sarebbe costretto a porre la grandezza dell’uomo, il concetto di “grandezza”, proprio nella sua estensione e molteplicità, nella sua interezza in molte cose. […] Poter essere tanto molteplice quanto intero, tanto vasto quanto colmo» (F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, p. 142, Newton Compton, 1988). Questa definizione nietzschiana di uomo in quanto uomo, dell’uomo concepito «al suo più altro livello» (Arthur Schopenhauer) e nella sua più adeguata concettualizzazione, probabilmente non sarebbe dispiaciuta a Karl Marx, secondo il quale «L’uomo si appropria del suo essere onnilaterale in una maniera onnilaterale, e quindi come uomo totale» 113 218. Se vuoi l’uomo onnilaterale, e non l’attuale uomo a una dimensione, devi volere la Comunità umana (umanizzata r umanizzante), perché «Nessuna emancipazione è possibile senza l’emancipazione della società» (W. Adorno, Minima moralia, p. 205).
(8) K. Marx, Critica del programma di Gotha, p. 52, Savelli, 1975.

CONTAMINAZIONI…

Quello che oggi vediamo saltare in diretta televisiva è solo l’anello più debole della catena sociale, e annuncia quello che potrebbe verificarsi tra qualche giorno o tra qualche settimana se la crisi sociale in corso dovesse acuirsi ulteriormente in termini economici, sanitari, psicologici, “esistenziali”, in una sola parola: sociali. In questi giorni si stanno facendo sentire i soggetti economici e sociali che vivono perlopiù di ristorazione, di servizi alla persona, di traffici più o meno legali (dal punto di vista dello Stato e dei governanti, s’intende), di lavori più o meno “neri” e “abusivi” (gli esperti parlano eufemisticamente di “economia informale”); ma si tratta solo dell’avanguardia della disperazione, della punta di un gigantesco iceberg che galleggia su un mare di preoccupazioni, di frustrazioni e  di bisogni insoddisfatti che forse preannuncia l’arrivo di una tempesta sociale d’altri tempi. Che poi sono esattamente i nostri tempi. Certo, forse; niente è certo in questi cupi tempi, salvo la vigenza di un dominio sociale che getta con cieca e ottusa determinazione gli individui nel tritacarne delle compatibilità economiche, con quel che necessariamente ne segue in ogni aspetto della nostra vita quotidiana.

In ogni caso, quello che è successo e sta succedendo in molte città italiane è già più che sufficiente per allarmare la classe dirigente di questo Paese – sindacati “responsabili” inclusi. «È stato un attacco eversivo», ha dichiarato ad esempio il democratico ed ex Ministro degli Interni Marco Minniti: «Quando dei gruppi organizzati assaltano proditoriamente le forze di polizia è già in sé drammatico. Se poi questo avviene in una fase di emergenza estrema c’è una sola parola per descrivere l’accaduto: eversione» (La Repubblica). Minniti forse non è un esempio probante, visto che il “simpatico” personaggio vede atti “eversivi” anche nei bambini che per gioco si rincorrono dentro un parco; non c’è dubbio però che le sue parole danno voce alle preoccupazioni che serpeggiano nella classe dirigente. Al suo compare di partito Graziano Delrio preoccupa invece, e più intelligentemente, «la rabbia degli uomini miti», cioè la massa dei cittadini non abituati a scendere in piazza ma che adesso potrebbero farlo loro malgrado perché spinti da una condizione sociale (non solo economica) non più sostenibile. In molti bravi cittadini cova anche una certa delusione: «Ma come, non eravamo il modello che tutto il mondo ci invidiava? Da mesi non si parla d’altro che di “seconda ondata”, e adesso che l’ondata è arrivata non abbiamo nemmeno i salvagenti per tenerci a galla? Che cosa ha fatto il governo in tutti questi mesi mentre parlava di “seconda ondata”?». Roberto Saviano dà voce alla frustrazione dei bravi cittadini (e quindi non sto parlando di me): «A Conte, il primo ministro che ha avuto forse più potere negli ultimi decenni, tutto quel che sta accadendo ha finito per dare una sorta di “intoccabilità”: tutti ci raccogliamo attorno al capo. Un capo che non ci sta proteggendo» (La Stampa). Al gregge manca dunque un buon pastore?

A proposito di gregge, Andrea Macciò ha scritto qualche giorno fa un interessante articolo sul «virus del vittimismo»: «Sentirsi vittime bisognose di protezione, eternamente infantilizzate, senza diventare mai adulti responsabili delle proprie scelte, porta a lasciarsi governare dalla paura e con la paura. La paura resta un metodo efficacissimo di governo. La paura di morire o essere intubati. Nulla è più irrazionale e prepolitico della paura di morire» (BlogLeoni). Non c’è dubbio. Ma, come si legge su alcuni cartelli portati nelle piazze italiane in questi giorni, non si muore solo di Coronavirus ma anche di estrema indigenza e di mancanza di prospettive. Massimo Cacciari, dall’alto della sua prospettiva filosofica, conferma: «Non esiste solo il coronavirus. Esistono decine di altre cause di morte, compresa la fame. Dunque, o ci sono gli aiuti o mi pare inevitabile che la rabbia esploda» (Libero Quotidiano). E se lo dice lui…

Come sempre accade in casi simili, i politici e i media nazionali denunciano i mestatori che approfittano del disagio sociale, «che è reale e che va rispettato e ascoltato» (bontà loro!), per destabilizzare l’ordine sociale e compromettere la coesione nazionale. «Camorristi, mafiosi e professionisti della ribellione, di destra e di sinistra, stanno cercando di cavalcare l’onda della paura e della disperazione per perseguire i loro criminali obiettivi». Camorristi, mafiosi, “ribelli” di varia tendenza politico-ideologica e “professionisti del caos” sono messi dunque nello stesso sacco criminale, tutti ugualmente additati all’opinione pubblica come il male da cui guardarsi. In ogni caso, «l’onda della paura e della disperazione» esiste, è un fatto oggettivo che si presta a diverse interpretazioni e a differenti (anche opposti, si spera) atteggiamenti politici.

La natura composita della stratificazione sociale di questa “opposizione dal basso” ai provvedimenti governativi, come la sua completa estraneità a una posizione radicalmente antagonista, credo non debbano consigliare l’anticapitalista “senza se e senza ma” a sottovalutarne quantomeno la natura sintomatica, cosa che certamente non fa la classe dirigente, per ovvi motivi. E non bisogna certo essere un Roberto Saviano (sempre lui!) per capire che nella prima manifestazione napoletana «c’era la disperazione del Sud che sta scoppiando», e che «è ovvio che nelle confuse manifestazioni di rabbia popolare finisca per entrare di tutto». Ma adesso il “virus della protesta” minaccia anche il Nord del Paese (vedi Milano e Torino), dove è più facile che si realizzi una saldatura tra la classe operaia “tradizionale” e la massa dei lavoratori precari impiegati perlopiù nei servizi. Tu chiamale se vuoi, contaminazioni…

Come ben sappiamo, molte cosiddette “partita iva” non sono che lavoratori sotto mentite spoglie dal punto di vista fiscale. C’è anche da dire che molti lavoratori “in nero” che prima arrotondavano il loro bilancio con il Reddito di Cittadinanza, a ottobre non percepiranno il sussidio (perché di questo si tratta: altro che “politiche attive del lavoro”!) e non sanno se la loro richiesta di rinnovarlo sarà accettata dall’INPS.

Per adesso i titolari delle attività economiche messe in ginocchio dagli ultimi provvedimenti governativi scendono in strada insieme ai loro dipendenti, molti dei quali peraltro lavorano “in nero”, ma non è detto che la situazione non possa cambiare, che questa solidarietà “interclassista” non possa spezzarsi o evolvere in qualche cosa d’altro, sempre posto che il movimento di lotta non abbia una vita effimera.

Il Presidente della Repubblica ci ricorda continuamente che «il nemico di tutti è il virus», e che quindi contro questo nemico tutti dobbiamo stringerci a coorte: ma tutti chi? In ogni caso io mi chiamo fuori dall’unità nazionale, come proletario, come anticapitalista e come individuo che subisce l’irrazionalità di una società che pure vanta il controllo teorico e pratico dell’atomo e la capacità di guardare negli occhi, per così dire, il Big Bang. Eppure questa stessa società trova, ad esempio, più conveniente investire in sofisticatissimi sistemi d’arma piuttosto che in forniture mediche, e così mentre gli Stati e le imprese finanziano guerre attuali e potenziali, gli ospedali non sono attrezzati per gestire una crisi sanitaria che solo a certe condizioni (le abbiamo sperimentate e continuiamo purtroppo a farlo) poteva diventare una catastrofe sociale. Ma sulla vera identità del nostro nemico rinvio ai miei precedenti post dedicati alla crisi sociale chiamata Pandemia.

IL VIRUS E LA NUDITÀ DEL DOMINIO

Non c’è niente da fare: se «l’uomo in quanto uomo» non esiste, tutto il male concepibile (e anche quello che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare) è possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

 

Una lettrice ha così commentato su Facebook il mio ultimo post dedicato al Coronavirus e al feticismo associato alla malattia che esso causa: «Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole. È anche con i virus, diventati parte di noi, che ci siamo trasformati nel corso dell’evoluzione». Non c’è dubbio.

Su quest’ultimo aspetto proprio un mese fa ho letto un libro scritto da due scienziati americani teorici del punto di vista evoluzionista nello studio delle malattie e nella profilassi medica: le malattie (cause e sintomi) come adattamento del corpo plasmato dalla selezione naturale, come adattamento evolutivo sempre esposto ai mutamenti ambientali – molto spesso causati dal puro caso. Un testo che consiglia di andarci piano con antibiotici e vaccini, senza ovviamente negarne la validità in termini assoluti: «È sbagliato non prendere l’aspirina solo perché sappiamo che la febbre può essere utile, ed è un errore non trattare sintomi spiacevoli di alcuni casi di nausea da gravidanza, allergia e ansia. […] Un approccio evolutivo suggerisce però che molti trattamenti potrebbero non essere necessari, e che dovremmo chiarire se i benefici siano superiore ai costi» (1). Il problema, continuano gli autori, è che «batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana». A questo punto potremmo esclamare abbastanza sconsolati, o semplicemente armati di “sano realismo”: È l’adattamento evolutivo, bellezza!

Ma l’uomo non solo non subisce passivamente la cieca pressione esercitata dall’ambiente esterno sul suo corpo e sulla sua comunità, ma col tempo ha imparato ad affinare strategie di sopravvivenza sempre più efficaci, finendo per trasformare la stessa natura in una sua gigantesca riserva di cibo, di strumenti e di creatività. La storia naturale è insomma intimamente intrecciata alla storia umana, e non a caso diverse nostre malattie (a cominciare dalla comune influenza) risalgono agli albori della nostra civilizzazione, quando abbiamo iniziato ad addomesticare piante e animali. Questo semplicemente per dire che ormai da migliaia di anni il nostro processo evolutivo si dà necessariamente all’interno di società (con “annessa” natura) storicamente caratterizzate, e non in un ambiente puramente naturale o comunque socialmente neutro: tutt’altro! Tanto è vero che molte malattie (morbillo, tubercolosi, vaiolo, pertosse, malaria) sono state debellate o grandemente ridimensionate nei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, mentre altre si sono diffuse in stretta connessione al nostro cosiddetto “stile di vita”. Si assiste poi proprio nei Paesi di più antica tradizione capitalistica al sempre più allarmante fenomeno della resistenza agli antibiotici, per cui batteri sensibili alla penicillina che negli anni Quaranta del secolo scorso sembravano aver imboccato la strada dell’estinzione (con la produzione industriale dei vaccini e la moderna profilassi), nel corso dei decenni hanno invece sviluppato enzimi in grado di degradare la penicillina: «Oggi, il 95 per cento dei ceppi di stafilococco mostra una certa resistenza alla penicillina» (Perché ci ammaliamo).

Per virus e batteri il nostro corpo è il loro ambiente esterno che li sfida, e non hanno altra “strategia di sopravvivenza” che non sia quella di mutare, di evolvere, di adattarsi a circostanze sempre mutevoli: è la «corsa agli armamenti» tra “creature aliene” e “ospite” cui accennavo prima. Per l’uomo l’adattamento a virus, batteri e quant’altro è sempre e necessariamente socialmente mediato. «Questa asserzione non significa negare che batteri e virus facciano ammalare il corpo biologico e siano conseguentemente causa di infezioni, ma che quando bisogna pensare al lamento, al disagio e al dolore nella clinica medica e nella psicoanalitica, è necessario considerare e valutare gli effetti del linguaggio e del discorso» (2), ossia, detto nei “miei” termini, della prassi sociale umana e delle «relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale» (3).

Mi si consenta a questo punto una brevissima digressione sotto forma di una metafora abbastanza rozza e banale. Una pistola spara un proiettile che colpisce a morte una persona: a chi o a cosa attribuire la responsabilità del triste evento? Al proiettile? alla pistola? alla mano che la impugna? Ovviamente al soggetto che ha sparato, che ha messo in moto la catena degli eventi. Qui i motivi dell’insano gesto non ci riguardano. Ecco, il Covid-19 ci è stato sparato contro da una società che distrugge foreste e ciò che rimane delle nicchie ecologiche, che fa un uso sempre più intensivo degli allevamenti, che investe nel settore sanitario secondo parametri di economicità e non di pura umanità (4), che di fatto mette al centro delle sue molteplici attività la ricerca del profitto e non la sicurezza delle persone, che fa dei lavoratori, dei disoccupati e in generale dei senza riserve, i soggetti di gran lunga più vulnerabili alle malattie e alle sciagure, e potrei continuare su questa strada lastricata di miseria sociale – “materiale” e “spirituale”.

La mia tesi è che il calcolo economico (legge del profitto e legge delle compatibilità tra “entrate” e “uscite”) che domina nella società capitalistica realizza una prassi sociale che nella sostanza è del tutto irrazionale, nonostante la scienza e la tecnica vi abbiano un ruolo a dir poco fondamentale. Oggi davvero l’umanità potrebbe avere nelle sue mani il proprio destino, eliminando le cause oggettive (che cioè prescindano da qualsivoglia intenzione e volontà umane) che generano sempre di nuovo irrazionalità (“disfunzionalità”) d’ogni genere, con ciò che ne segue in termini di crisi economiche, di disagio sociale, di precarietà esistenziale, di sofferenze fisiche e psicologiche, di crisi ecologiche, eccetera, eccetera, eccetera. Ciò che stiamo vivendo nell’ormai famigerata Epoca del Coronavirus (da d.C. a d.C.) la dice lunga sul carattere irrazionale (disumano e disumanizzante) della nostra società. Da anni si parlava della possibilità di una pandemia del tipo che stiamo sperimentando, ma il “sistema” ha ritenuto più opportuno non allocare risorse finanziarie nella prevenzione, sperando che quella possibilità non si trasformasse in una realtà, almeno a breve scadenza, e intanto continuare nella solita vita fatta di lavoro, di vendite, di acquisti, di viaggi, di affari, di investimenti, di speculazioni, eccetera. Lo spettacolo del Capitale deve continuare!

Mutuando Spinoza enuncio quanto segue: Dicesi schiavitù l’incapacità umana di dominare le cause e gli effetti della prassi sociale. Questa schiavitù non ha dunque a che fare direttamente con la sfera politico-istituzionale di un Paese, ma essa chiama in causa direttamente il suo fondamento sociale, la sua “struttura” economico-sociale. Di qui il concetto di totalitarismo sociale che secondo me è la chiave che apre alla comprensione dell’attuale crisi sociale.

La responsabilità “ultima” della pandemia ancora in corso è dunque della società capitalistica, la quale ha oggi una dimensione mondiale – e, com’è noto, scienziati particolarmente “visionari” e capitalisti dal “pensiero lungo” (almeno quanto il loro conto in banca) operano per allargarne i confini oltre l’angusto orizzonte del nostro pianeta: si vuol portare il virus capitalistico su altri mondi! Ma è possibile, e non solo auspicabile, un altro mondo? Personalmente non ho alcun dubbio su questa eccezionale possibilità, e il fatto che essa oggi sia negata dalla realtà nel modo più radicale e doloroso, e che certamente io non la vedrò mai realizzarsi, ebbene questo non cambia di un solo atomo il fondamento oggettivo (storico e sociale) di questa splendida alternativa al cattivissimo presente.

Io non chiedo di immaginare la società perfetta, la società che non conosce la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto, ecc.; si tratta piuttosto di concepire la possibilità di una comunità che sappia affrontare in termini umani (umanizzati) la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto e così via. Concepire l’inconcepibile, mettere radicalmente in discussione l’idea che per un qualche motivo l’umanità non possa affrancarsi dalla divisione classista della società e costruire una Comunità nel cui seno fratelli e sorelle collaborano alla felicità di tutti e di ciascuno. In fondo lo dice anche il Papa: Fratelli tutti! Il pensiero deve reagire al torpore della routine che lo intrappola nel cerchio stregato dell’ideologia dominante, e giungere a questa straordinaria conclusione: Si può davvero fare! Dobbiamo offrire al pensiero la possibilità di vedere finalmente nudo il Dominio, un po’ come il bambino della celebre favola di Anderson; e così capire che nella sua vigenza non c’è nulla di naturale o di sovrannaturale, di inevitabile o di assolutamente necessario, ma solo una questione di coscienza (o incoscienza: la nostra) e di rapporti di forza. Io cerco di dare il mio modestissimo contributo a questa vera e propria rivoluzione del pensiero, sperando ovviamente che essa non rimanga solo nel pensiero.

DAMMI TEMPO…
«Non riteniamo di introdurre una norma vincolante ma vogliamo dare il messaggio che se si ricevono persone non conviventi anche in casa bisogna usare la mascherina» (Premier G. Conte).
«Quando c’è una norma, questa va rispettata e gli italiani hanno dimostrato di non aver bisogno di un carabiniere o di un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo i controlli, ci saranno le segnalazioni» (Ministro R. Speranza).

L’esperienza della Pandemia sta portando altra velenosissima acqua alla tesi secondo cui oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. La rivoluzione sociale appare anche ai miei anticapitalistici occhi abissalmente lontana; ma penso anche che se per un qualche motivo essa diventasse improvvisamente possibile nella testa di molte persone, altrettanto repentinamente quello straordinario evento diventerebbe talmente vicino nella realtà, da poterne quasi avvertire l’odore, per così dire. Come ho scritto altrove, non ho la pretesa di pensare che con me debba finire la storia, e che altri dopo di me non possano conoscere la rivoluzione sociale e la Comunità umana; bisogna essere davvero arroganti, presuntuosi e soprattutto deboli di immaginazione, per cristallizzare in eterno (fortunatamente solo nel pensiero!) il pessimo presente. Intanto, così come respiro, mangio, dormo, eccetera, rinnovo sempre di nuovo la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana: più che di scelta, dovrei piuttosto parlare di fisiologia!

Fin dall’inizio della crisi sociale chiamata Pandemia ho cercato di mettere in luce il carattere oggettivo del processo sociale in corso su scala mondiale, il quale ha peraltro approfondito e accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Come sempre, la realtà non crea mai nulla a partire dal nulla, ma impasta, per così dire, materiale sociale già esistente aggiungendone dell’altro solo in parte o interamente nuovo; il problema è piuttosto quello di capire fino a che punto abbiamo il controllo della situazione e la natura (la “qualità”) della realtà che contribuiamo a creare giorno dopo giorno.

Il carattere autoritario, per non dire altro, delle misure politiche prese in questi asfissianti e alienanti mesi pandemici dal governo italiano a mio avviso si connette in primo luogo a processi che per l’essenziale sfuggono anche al controllo degli stessi decisori politici, i quali sono stati chiamati a un rapido adattamento alla situazione che si è venuta a creare di volta in volta su scala nazionale e globale. Sappiamo poi come i politici nostrani eccellano nell’arte dell’adattamento, e come essi sanno approfittare delle situazioni emergenziali per intascare lauti dividenti elettorali e cementare il loro consenso e il loro potere – due facce della stessa medaglia democratica. Tuttavia, il “complotto” ai nostri danni non è da ricercarsi nella volontà di Tizio piuttosto che di Caio, senza parlare dei soliti “poteri forti” (meglio se infiltrati da qualche “lobby ebraica”): è questa società che complotta tutti i giorni contro gli individui, contro le classi subalterne, contro la possibilità di relazioni autenticamente umane. Per questo non si tratta, per chi scrive, di cambiare governi e governanti, ma di mettere la parola fine a questa società e iniziare la storia della Comunità umana, la storia dell’«uomo in quanto uomo». Vasto Programma, non c’è dubbio, e per questo qui conviene mettere un bel punto.Ogni Paese ha cercato di gestire la “crisi sanitaria” ricercando un difficile bilanciamento tra protezione della salute del corpo sociale, per assicurare la continuità del sistema ed evitare una più grave catastrofe sociale (con relative tensioni generatrici di conflitti potenzialmente disastrosi per il vigente ordine sociale), e protezione della struttura economica, per evitare un collasso economico dagli esiti imprevedibili ma certamente destabilizzanti. Il tutto naturalmente sulla base delle strutture sociali e delle configurazioni politico-istituzionali dei diversi Paesi, nonché delle loro diverse esperienze in materia di epidemie: negli ultimi venti anni la Cina e altri Paesi asiatici si sono confrontati molto spesso con le epidemie virali. È ovvio che nei Paesi a regime politico-istituzionale totalitario il lockdown viene meglio, per così dire, è di più facile, rapida e sicura implementazione, soprattutto se sono in grado di servirsi di un’avanzata tecnologia idonea al controllo e alla repressione dei comportamenti sociali. Non per niente la Cina si è subito proposta all’attenzione dell’Europa come il modello da seguire, sebbene con adattamenti e innesti “democratici”. Il lockdown con caratteristiche europee, insomma. Quello italiano è stato particolarmente duro, tale da evocare lo spettro del “fascismo sanitario”. Certo è che sentir parlare di «dittatura sanitaria» da parte di personaggi che sostengono i regimi di Cina, Cuba, Venezuela e non so di quanti altri Paesi rigorosamente antiamericani, fa davvero sorridere, diciamo così. Sto per caso alludendo anche al noto filosofo-comico Diego Fusaro? Fate un po’ voi! (5)

Per usare un’analogia medica, visto che parliamo di virus e di “crisi sanitaria”, nel caso italiano è come se una parte assai consistente dell’economia fosse stata messa in una condizione di coma artificiale o farmacologico, in attesa che i parametri sociali, stressati dallo shock, iniziassero a rientrare nella normalità. In questa delicata operazione l’interventismo statale ha avuto una parte decisiva, e gli effetti del «ritorno in grande stile dello Stato» nella sfera economica, osteggiato dalla minoranza liberista ancora presente nel Paese e applaudito dalla sua maggioranza statalista, saranno evidente solo tra qualche tempo. Com’è noto, spesso dal coma indotto artificialmente, si passa al coma vero e proprio, e non raramente segue il decesso del paziente: l’intervento è riuscito, ma il paziente è moto – di fame o di qualche altro accidente, ma vivaddio senza un solo Coronavirus in corpo! Quel che è certo è che molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, non apriranno più, e già a giugno si parlava di “autunno caldo”, di disoccupazione dilagante, di gente pronta a pescare nel torbido. Il Ministro degli Interni da mesi non smette di lanciare segnali di allarme: «Andiamo incontro a una delicata situazione sociale. Dobbiamo prepararci». Preparaci a cosa? Come si dice, lo scopriremo solo vivendo – se il Coronavirus vuole!

Ho raccolto in questo PDF buona parte dei post dedicati alla “crisi epidemica” che ho pubblicato su questo Blog dall’inizio di questa crisi, la quale peraltro è lungi dall’essersi esaurita; il primo è del 5 gennaio, quando sembrava che il raggio d’azione del Coronavirus fosse circoscritto alla sola Cina, o ai soli Paesi asiatici, come avvenne per la Sars nel 2003/2004, e l’ultimo è del 6 ottobre, quando la temuta “seconda ondata” si è alla fine palesata anche in Italia, e con una forza che ha sorpreso molti degli stessi “esperti”. La “seconda ondata” si abbatte su un corpo sociale già provato fisicamente e psicologicamente, e per questo i soliti “esperti” ritengono che essa potrebbe essere ancora più devastante della “prima ondata”, con ciò che ne segue sul piano delle politiche “preventive” suggerite al governo. Se dipendesse dagli “esperti”, in Italia saremmo già al lockdown generalizzato. Vedremo cosa accadrà tra qualche settimana, o forse tra qualche giorno.

La scienza si pavoneggia per i suoi successi ottenuti nella ricerca del vaccino, ma a parte ogni altra considerazione (anche d’ordine geopolitico), non fa che riparare i guasti prodotti dalla società di cui essa è un potentissimo strumento di dominio e di sfruttamento – di “risorse” umane e naturali.

L’intreccio “problematico” che questi post offrono ai lettori è molto ricco, perché essi chiamano in causa, sebbene in forma estremamente semplice – spero non del tutto semplicistica – e sintetica molteplici questioni di natura politica, etica, geopolitica, economica, psicologica: sociale in senso generale. Purtroppo non ho potuto eliminare la ripetizione di temi, di concetti e di parole, e di questo mi scuso con i lettori.

«Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole»; anche noi dovremmo conquistare questa irriducibile volontà nei confronti del pessimo presente – con il futuro che certo non ci sorride, tutt’altro!

Qui il PDF

(1) R. M. Nesse, G. C., Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999. «Il corpo umano è al contempo fragile e robusto. Come tutti i prodotti dell’evoluzione organica, è un insieme di compromessi, e ognuno di questi offre un vantaggio, anche se spesso il prezzo è la predisposizione a una malattia. Le debolezze non possono essere eliminate dall’evoluzione perché è stata la stessa selezione naturale a crearle. […] In medicina niente ha senso se non alla luce dell’evoluzione» (pp. 287- 301). E la società, qui genericamente intesa, in tutto questo che ruolo ha? Ed è corretto, nel trattamento dei cosiddetti “disordini mentali” associati alle emozioni, mettere da parte Sigmund Freud (qui inteso come “padre della psicoanalisi”) e chiamare senz’altro in causa gli «algoritmi darwiniani della mente»?
(2) A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 52, Paginaotto, 2020.
(3) K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 21-22, Editori Riuniti, 1983.
(4) Secondo stime attendibili, dal 2009 al 2018 in Italia c’è stata una riduzione della spesa sanitaria di circa 26 miliardi, una diminuzione del 12%. Se consideriamo, oltre la spesa corrente, anche il calo degli investimenti pubblici nel settore sanitario, la riduzione si aggira intorno al 13%.
(5) «La Ue manda il Mes, gli USA mandano soldati, la Cina manda medici e mascherine. Solo uno dei tre è nostro amico. Gli altri due sono nemici da combattere. L’avete capito? Il potere vi fa apparire amici i nemici e nemici gli amici. E, così, nostri amici sarebbero UE e USA, che in questa crisi ci stanno ignorando, quando non apertamente ostacolando. E nostri nemici sarebbero Cina, Russia, Cuba e Venezuela, che ci stanno mandando aiuti e medici. L’alternativa continua ad essere tra socialismo e barbarie o, se preferite, tra socialismo e capitalismo» (D. Fusaro). Indovinate secondo chi scrive da quale parte dell’alternativa si colloca il simpatico intellettuale SocialSovranista? Solo in un mondo ottusamente nichilista nei confronti della verità, un personaggio ridicolo come Fusaro può cavalcare le escrementizie onde delle ospitate televisive in qualità di filosofo hegelo-marxista. Anche questo, nel suo infinitamente e comicamente piccolo, esprime la tragedia dei nostri tempi.

SALDI DI FINE SETTIMANA. Post pubblicati su Facebook

1. CARA ILARIA TI SBAGLI: SI TRATTA PROPRIO DI VIOLENZA DI STATO. QUESTO È LO STATO (DI DIRITTO)!

Il diritto alla violenza è un’odiosa prerogativa delle classi dominanti.

«Non ho mai smesso di chiedermi il perché di tanta violenza. Non riesco a cancellare dalla mia mente l’immagine del corpo di mio fratello Stefano, martoriato dai colpi e poi abbandonato dagli innumerevoli pubblici ufficiali che lo hanno visto durante il suo calvario, sei giorni dopo il violentissimo pestaggio. Una sospensione del diritto. Come accaduto nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere. Video e testimonianze raccolte dai magistrati ricostruiscono una violenza spietata, scientificamente coordinata. Durante il lockdown pensato alle carceri. Alle celle sovraffollate dove vige la sospensione dei diritti umani. Mi sono chiesta cosa potessero pensare quelle persone, perché di persone si tratta, quando ascoltavano le raccomandazioni pressanti su distanziamento sociale, cautela e mascherine. Mi sono chiesta se qualcuno avesse a cuore la sorte di quei detenuti. La loro paura e la profonda frustrazione che dovevano provare nell’ascoltare quei drammatici appelli a cui loro, per destino e pena, dovevano rimanere estranei. A Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile è accaduto qualcosa di spaventoso. Sono arrivati in trecento, da altri istituti, in tenuta anti sommossa, coperti dai caschi, anonimi. Hanno picchiato, picchiato e ancora picchiato. Calci, schiaffi, insulti e altre violenze. Non hanno risparmiato nemmeno un detenuto sulla sedia a rotelle. “Avete fatto la protesta?” dicevano. La mente corre alla “macelleria messicana” di Genova della scuola Diaz, nel luglio del 2001 durante le proteste per il G8. Erano in trecento, a Santa Maria Capua Vetere. A tutto ciò hanno assistito, in silenzio, forse impotenti, i loro colleghi di servizio in quel carcere. Mi rifiuto di pensare che si tratti soltanto di mele marce. Chi avrà la tentazione di parlare di questo mancherà di rispetto all’intelligenza di tutti noi cittadini. Sarebbe un’intollerabile ipocrisia cui preferirei le violente e strampalate difese di politici privi di scrupoli e umanità. Ma non voglio nemmeno sentire parlare di violenza di Stato. Vi prego non fatelo perché questo non è lo Stato. Non lo può essere. Questo è anti stato. Questo è crimine efferato commesso verso persone indifese. Qualcuno si affretterà a dire che, in fin dei conti, si tratta di delinquenti: lo considero inaccettabile perché, nella migliore delle ipotesi, sono uomini e donne che hanno sbagliato, che magari hanno anche commesso gravi errori. Il carcere, però, non può e non deve essere questo. Il carcere in uno stato di diritto ha una funzione sociale: il reinserimento, non l’annientamento» (Ilaria Cucchi).

Certo, il reinserimento in una società che produce violenza di ogni genere e in quantità industriale, e che annienta ogni possibilità di vita autenticamente umana. Cara Ilaria, sbagliata (disumana) è in primo luogo questa società, la società che mercifica tutto e tutti, e che fa del denaro la misura di tutte le cose. Su questo escrementizio fondamento sociale è possibile tutto il male che riusciamo a immaginare, e altro ancora che non riusciamo nemmeno a concepire col pensiero – salvo poi indignarci e farci delle illusioni sullo Stato (capitalistico) di diritto. Solidarietà ai fratelli detenuti.

2. SI SCRIVE “UOMO”, SI LEGGE CAPITALE. «Abusi, incuria e colate di cemento: la colpa è dell’uomo, non della natura» (M. Tozzi, La Stampa). Si scrive “uomo”, si legge Capitale. Mutatis mutandis, la stessa cosa vale a proposito della parola “Coronavirus” e ai disastri sociali a essa associati.

3. SCHIAVI DI STATO NELLA CINA CAPITALISTA Scrive Lorenza Formicola: «Lo stato-partito cinese ha di fatto istituzionalizzato la schiavitù, l’ha portata su scala industriale e ha offerto schiavi a compagnie straniere. Schiavi a bassissimo costo, raccolti, senza fatica né rumore, tra le minoranze religiose. L’Australian Strategic Policy Institute, in un rapporto intitolato Uiguri in vendita, ha accusato Pechino di aver costretto oltre 80.000 uiguri e altre minoranze musulmane a lavorare da schiavi per 82 noti marchi globali tra cui Apple, BMW, Gap, Huawei, Nike, Samsung, Sony e Volkswagen. La cifra stimata è prudente, quella effettiva è probabilmente molto più elevata. Nelle fabbriche, lontano da casa, vivono gli schiavi moderni: dormitori e segregazione, una formazione ideologica, cinese e comunista [leggi: capitalista con caratteristiche cinesi] organizzata al di fuori dell’orario di lavoro, sottomissione a sorveglianza costante, impossibilità a partecipare alle cerimonie religiose. Siamo nella regione autonoma che oggi i cinesi chiamano Xinjiang – “nuovo possedimento” – dove giocano esattamente il ruolo della potenza coloniale. Dal 2017, oltre un milione di persone è stato privato della libertà personale e rinchiuso in “campi di rieducazione” a causa della fede, in quello che alcuni esperti definiscono un programma sistematico di genocidio culturale guidato dal governo. “Lavare i cervelli, pulire i cuori, sostenere il diritto, rimuovere ciò che è sbagliato”, è il motto dei campi di lavoro forzato. Proprio come l’ideologia comunista [leggi: stalinista con caratteristiche cinesi] vuole e come le terribili campagne di rieducazione del pensiero di massa di Mao Tse-tung hanno fatto scuola. Detenuti con la forza e in condizioni disumane, questi nuovi schiavi hanno la quotidianità divisa in due: il giorno è per il lavoro, la notte per l’educazione patriottica. Dopo la scoperta delle 13 tonnellate di capelli umani , prelevati da internati in uno dei campi di concentramento cinesi, di alcune settimane fa – un carico illegale del valore stimato di 800.000 dollari fermato a New York – ecco che il rapporto ASPI pubblica l’ennesima prova dei campi su cui regime di Pechino continua a mentire. Il rapporto denuncia una nuova fase nella campagna di reingegnerizzazione sociale della Cina rivolta alle minoranze religiose, rivelando nuove prove circa quelle fabbriche che utilizzano il lavoro forzato uiguro nell’ambito di un programma di trasferimento del lavoro sponsorizzato dallo Stato che sta contaminando la catena dell’economia globale» (Il Giornale).

Il virus che “contamina” «la catena dell’economia globale» si chiama Capitale, la cui dimensione più naturale è quella planetaria. La schiavitù di Stato della Cina si armonizza perfettamente con la «schiavitù del lavoro salariato» (K. Marx). Tutto sotto il Cielo – del Capitale.

4. ROSSANDA E L’ALBUM DI FAMIGLIA – STALIN PADRE

Scriveva Rossana Rossanda sul Manifesto del 28 marzo 1978: «Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria». Anch’io, allora giovanissimo militante del “Movimento Studentesco”, sarei potuto finire in quell’escrementizio album di famiglia; mi vengono i brividi solo a pensarlo! Qualche giorno dopo, sulle pagine dell’Unità comparve un pietoso articolo del parlamentare “comunista” Emanuele Macaluso, che replicava: «Io non so quale album conservi Rossana Rossanda: è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti». Non c’è niente da fare: lo stalinista con caratteristiche italiane perdeva il pelo, ma non il vizio della menzogna.

DIALETTICA DELLA PAURA

Qui, lo vedi, bisogna correre a tutta velocità
per restare sempre nello stesso punto (L. Carroll).

 

Che cos’è la paura? si chiede Giorgio Agamben, e il noto filosofo prova a rispondere attingendo dalla sua notevolissima conoscenza del materiale concettuale prodotto dalla filosofia e dalla psicoanalisi. Certamente egli (come del resto Martin Heidegger a cui si richiama) mutua da Sigmund Freud il concetto di angoscia come una paura priva di oggetto, una paura che perdendo il contatto con qualcosa di concreto (un animale, un evento, una relazione), e come tale potenzialmente gestibile sul piano razionale ed emotivo, si autoalimenta e si espande in modo da comprendere come proprio impalpabile oggetto l’intero mondo: per il soggetto paranoico ogni cosa può trasformarsi in una potenziale minaccia, in una fonte di pericolo.

A dire il vero, Freud distingue tra un’«angoscia “reale”» e un’«angoscia “nevrotica”», e in un primo momento egli sembra intendere con la prima definizione qualcosa che si approssima molto al concetto di paura, anche se lascia intendere che le cose non stanno proprio così. In ogni caso le cose “stanno” fra esse in un modo che legittima una certa perplessità circa la loro esatta distinzione e interpretazione. E ciò accade sempre quando ci troviamo dinanzi a un processo “dialettico” che non si lascia descrivere in termini deterministici. Scrive Freud: «Di essa [dell’angoscia “nevrotica”] affermeremo che è la reazione alla percezione di un pericolo esterno, cioè di un danno atteso, previsto; che è collegata al riflesso della “fuga”, e che può essere considerata un’espressione di autoconservazione. […] Evito di addentrarmi più a fondo nel quesito se il nostro uso linguistico intenda designare con “angoscia”, “paura”, “spavento” la stessa cosa o cose chiaramente differenti. Penso solo che “angoscia” si riferisce allo stato e prescinde dall’oggetto, mentre “paura” richiama l’attenzione proprio sull’oggetto» (1). L’angoscia è uno stato soggettivo, una condizione emotivamente rilevante che ci mette in allerta, in attesa di qualcosa che può colpirci (in senso proprio e in senso figurato), mentre la paura per oggettivarsi ha bisogno, appunto, di un oggetto: a quel punto lo stato d’angoscia si trasforma in paura e attiva i meccanismi somatici e psicologici dell’autodifesa. Per il “padre della psicoanalisi” «l’angoscia è un segnale che annuncia una situazione di pericolo» che per non scivolare nella nevrosi non deve perdere mai il suo legame con la paura e con lo spavento, i quali in qualche modo la tengono ancorata a una situazione reale, oggettiva, e quindi alla portata della nostra razionalità.

Capita spesso che la paura non sia correlata all’angoscia, ad esempio quando l’oggetto (la cosa, l’evento) minaccia di colpirci o ci colpisce all’improvviso, trovandoci impreparati: in questo caso è la paura che “si fa” spavento, il quale «sembra mettere in risalto l’effetto di un pericolo che non viene accolto in uno stato di preparazione all’angoscia. Cosicché si potrebbe dire che l’uomo si protegge dallo spavento con l’angoscia» (Freud). Per non correre il rischio dello spavento, si vive in una condizione di angoscia permanente: una strategia di sopravvivenza abbastanza dolorosa e molto onerosa dal punto di vista dell’economia psichica – e/o libidica, per dirla sempre con Freud. «L’uomo s’illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto. Ciò determina il corso della demitizzazione. […] L’illuminismo è l’angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica, che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell’angoscia» (2). Il problema è che l’essenza del processo sociale che rende possibile la nostra stessa nuda vita è fuori dal nostro controllo, fuori dalla nostra razionalità, fuori dalle nostre umane capacità.

La paura era un fattore così centrale nella strategia di sopravvivenza delle società tribali dell’Australia e della Nuova Guinea studiate da Jared Diamond, da indurre il celebre studioso americano a coniare il concetto, da lui stesso considerato ossimòrico, di paranoia costruttiva (3). Ciò che all’occhio dell’osservatore occidentale poteva apparire un comportamento paranoico, dettato da un’eccessiva quanto infondata paura nei confronti della foresta, che pure offriva a quelle società quanto serviva per vivere, in realtà era un atteggiamento orientato dal principio di massima precauzione che nelle reali condizioni dei «popoli della foresta» mostrava di essere del tutto fondato, razionale e, soprattutto, efficace. C’è da chiedersi quanto quell’aureo principio possa conciliarsi con la moderna società capitalistica.

In un film un attore osserva che «la paura è nostra amica», e lo scienziato di scuola evoluzionista non può che concordare con questa saggia tesi: «Il dolore e la paura sono utili, e le persone che non li provano sono fortemente svantaggiate. Come abbiamo già detto, i pochi individui che non percepiscono il dolore muoiono quasi tutti prima dei trent’anni. Se qualcuno nascesse senza la capacità di provare paura, lo troveremmo spesso e volentieri al pronto soccorso, se non all’obitorio. Abbiamo bisogno del dolore e della paura; sono difese che ci mettono in guardia dal pericolo. Il dolore è un segnale: indica che i tessuti stanno per essere danneggiati. La paura ci avverte che la situazione potrebbe essere pericolosa, che potrebbe provocare un certo tipo di perdita o di danno e che è opportuno fuggire» (4). Qui il campo d’azione del dolore e della paura è ben definito: si tratta del corpo umano esposto alle molteplici insidie del mondo esterno. Il dolore e la paura sono per così dire posti al servizio della nostra sopravvivenza fisica, attraverso un complesso processo di adattamento evolutivo che ha molto a che fare anche con l’esperienza accumulata nel tempo dagli uomini e che coinvolge, direttamente o attraverso un qualche tipo di mediazione, ogni singola cellula del nostro corpo.

«La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo». Cos’è la modernità? Se non definiamo la natura storica e sociale della modernità di cui parliamo, ci sfugge anche il significato della «cosalità senza scampo», locuzione che suona bene come gergo filosofico orientato in senso esistenzialista, ma che non ci permette di afferrare la sostanza del problema, della cosa. Molti intellettuali oggi rimangono impigliati nel concetto generico di modernità, così come un tempo, chiamato della “Guerra Fredda”, altrettanti intellettuali rimanevano aggrovigliati nel concetto, sommamente generico, di società industriale, per mezzo del quale essi cercavano di dar conto dell’esistenza di una struttura economico-sociale che sembrava essere molto simile nei due mondi che allora si fronteggiavano: quello capitalista, capeggiato dagli Stati Uniti, e quello “socialista”, dominato dall’Unione Sovietica. In realtà si trattava di un solo mondo: quello capitalista/imperialista, perché ciò che ancora oggi viene chiamato “socialismo reale” altro non fu che un reale capitalismo – di Stato, sussidiato da una importante “economia informale”, cioè “privata”. Definire nei giusti termini storici e sociali la modernità rende possibile l’individuazione di una via di fuga in avanti da essa, perché le vie che portano all’indietro, sempre posto che ciò sia oggettivamente possibile (oltre che augurabile!), ci condurrebbero sempre ai presupposti della modernità capitalistica, cioè alle condizioni che l’hanno resa possibile. È della modernità capitalistica, dunque, che stiamo parlando.

Allo stesso modo dobbiamo parlare, sempre all’avviso di chi scrive, non di una generica, astratta e astorica Civiltà, ma della Civiltà capitalistica, la Civiltà promossa dal rapporto sociale capitalistico, la quale ha oggi le dimensioni dell’intero pianeta. Anche quando parliamo di «crisi della democrazia», di «svolta autoritaria», di «deriva securitaria» degli Stati occidentali, per farlo correttamente dobbiamo innanzitutto porci dalla prospettiva critica che ci rivela la natura di classe della democrazia (capitalistica), a cominciare da quella italiana, che difatti la Costituzione confessa trattarsi di una democrazia fondata sul lavoro – salariato, cioè venduto, comprato, sfruttato. Criticare «lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (Agamben), senza mettere in questione la società capitalistica in quanto tale, al di là degli assetti politico-istituzionale contingenti che ci governano, e anzi perorare la causa di un «ritorno alla Costituzione» (capitalistica), significa non aver afferrato concettualmente la radicalità del Male che ci espone, impotenti, a ogni genere di offesa, con ciò che ne segue anche in termini di stato d’angoscia permanete.

È insomma in questa concreta dimensione storico-sociale che dobbiamo “calare” il discorso sulla paura, sull’angoscia, sul dolore e quant’altro. La “cosalità” capitalistica è senza scampo fino a quando le classi subalterne, e tutti gli individui ostili alla società disumana, non decidono di trafiggere il cuore della Cosa e di costruire una Comunità autenticamente umana. In quel genere di Comunità non ci sarà più spazio per la paura? Non scherziamo! Diciamo piuttosto che ci sarà una paura conforme alla natura di quell’organizzazione sociale, e della quale non possiamo parlare senza correre il rischio di proiettarvi la nostra cattiva condizione sociale. Umanizzare la paura, anche la paura della morte (5) e delle malattie: a mio avviso ciò rientra “organicamente” nel progetto di emancipazione sociale degli individui. Il processo di umanizzazione della vita degli individui non lascia niente fuori dal suo virtuosissimo (almeno all’avviso di chi scrive) trattamento: dal lavoro all’amore, dalla scienza alla sessualità, dalla salute alla creatività artistica, e così via.

Non c’è dubbio: sto facendo dell’utopia, sto cioè parlando di una straordinaria possibilità oggi negata nel modo più radicale dalla prassi sociale; sto parlando di una Comunità che ancora non c’è – e che forse non ci sarà mai, oppure sì: chi può dirlo? Personalmente non sono così presuntuoso, e così povero di immaginazione, di fantasia, da negare ciò che il futuro potrebbe riservare agli uomini quando io non ci sarò più. Lo scopriranno solo i viventi! Il mio anticapitalismo non si fonda sull’idea – o illusione – che io possa sperimentare, non dico il comunismo immaginato da Karl Marx, ma anche “solo” il suo necessario presupposto: la rivoluzione sociale anticapitalistica. Questo anticapitalismo si basa in primo luogo sul mio incoercibile odio nei confronti di rapporti sociali che rendono la vita degli uomini indegna di venir considerata umana. Questo dato “autobiografico” è offerto a chi legge per meglio comprendere la “concezione del mondo” che informa il mio ragionamento.

A proposito di civiltà, ecco cosa scrive Bernard-Henri Levy, l’intellettuale francese devoto all’europeismo “senza se e senza ma” che confessa di essere «stato raggelato dall’epidemia di paura» scatenata dalla pandemia: «Cito il padre dell’anatomia patologica Rudolf Virchow, che disse: “Un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”. Dal punto di vista sociale, ciò di cui mi occupo, abbiamo rischiato molto. Un mondo in cui non ci stringiamo più la mano, in cui non seppelliamo più i morti, in cui diffidiamo l’uno dell’altro, va verso una regressione della civiltà» (6). Nel mio infinitamente piccolo, anch’io ho cercato di mettere bene in luce il carattere essenzialmente sociale della pandemia e della crisi sanitaria che ne è scaturita; da sempre le epidemie hanno avuto un forte contenuto sociale nella loro genesi, nella loro diffusione e nelle loro molteplici conseguenze; oggi questo loro carattere sociale è di gran lunga quello più importante tra le sue diverse “componenti” (quelle che chiamano in causa la natura, la biologia, ecc.), e costituisce il filo nero che a mio avviso bisogna tirare per capire con che cosa abbiamo a che fare quando parliamo di crisi sanitaria, di paura, di lockdown, di stato d’eccezione, di quarantena e quant’altro. Non ho aderito alle tesi “negazioniste” circa la gravità della cosiddetta crisi sanitaria, tutt’altro, ma ne ho piuttosto rimarcato, appunto, la natura squisitamente sociale (in questo senso parlo di “cosiddetta” crisi sanitaria), attribuendone per intero la responsabilità alla società fondata sulla ricerca del profitto e informata da una razionalizzazione dei problemi sociali declinata in chiave ossessivamente economicista: di qui, tra l’altro, la decennale “ristrutturazione” dei sistemi sanitari nazionali e la delocalizzazione delle fabbriche che producono presidi sanitari nei Paesi che sfruttano forza lavoro a basso e bassissimo prezzo. Oggi anche la produzione di mascherine pare rientrare nel settore rubricato “di interesse strategico nazionale”.

Apro una piccolissima ma importante parentesi: oggi “scopriamo” che una buona parte delle mascherine che la Cina ha venduto a mezzo mondo, con tanto schiamazzo propagandistico, sono state prodotte nei campi di concentramento (chiamati eufemisticamente dal regime “campi di rieducazione e lavoro”) situati nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale che è un vero e proprio carcere a cielo aperto controllato dallo Stato grazie all’ausilio delle più moderne e “intelligenti” tecnologie. Questo sempre a proposito di civiltà capitalistica, sebbene con caratteristiche cinesi. Chiudo la parentesi – soprattutto in faccia ai miserabili tifosi italiani del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Nei miei scritti degli ultimi mesi ho anche affermato l’idea che il processo sociale in atto su scala planetaria in questo sciaguratissimo 2020 ha accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Pandemia come occasione, non come scusa, non come arbitrario pretesto per un ulteriore giro di vite autoritario e repressivo. Ma occasioni di questo genere la vigente società ne produce continuamente, a prescindere dalla stessa volontà di chi ci amministra.

Relativizzo o sottovaluto la «regressione della civiltà»? No, la storicizzo e la valuto dal punto di vista anticapitalista. Se vogliamo discutere seriamente di «regressione della civiltà», per capirne la natura, la dinamica e la fenomenologia, dobbiamo insomma preliminarmente chiarire di che civiltà stiamo parlando: per quanto mi riguarda si tratta della civiltà capitalistica fondata su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento; della civiltà che ha dato corpo a un mondo che per l’essenziale non controlliamo e che anzi ci controlla in guisa di una potenza cieca, ostile, disumana, nonostante siamo noi stessi a renderla possibile, giorno dopo giorno, con le nostre molteplici attività e assistiti da una strumentazione tecnologica sempre più potente e sofisticata. Non è Il virus che rende folli, per citare il titolo dell’ultimo saggio dell’intellettuale francese, ma questa folle – irrazionale, disumana, mostruosa – società. Naturalmente per capire esattamente cosa intendo dire bisogna prima abbandonare l’idea che la civiltà occidentale abbia creato il migliore dei mondi possibili, o semplicemente il solo mondo realisticamente praticabile e sempre perfettibile: uno sforzo che certo sarebbe ingenuo chiedere a un signore che tifa, del tutto legittimamente, per la coppia Merkel-Macron.

«Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha»: così canta Vasco Rossi. E un senso a un’esistenza umana che appare francamente insensata e immersa in una dimensione di assoluta irrazionalità vuole trovarlo anche Gianluca Veneziani: «Non c’era una logica oggettiva per cui si veniva contagiati o meno, si contraeva il virus in modo più o meno grave, si sopravviveva o si crepava. Il discrimine tra la salute e la malattia, il contagio e l’immunità, tra la vita e la morte spesso non era dettato dall’efficacia delle cure, dalla tempestività dell’intervento medico, dall’imprudenza o dall’avvedutezza personale, ma da un unico aspetto: la Fortuna. Dipendeva da una botta di culo il fatto di ritrovarsi tra i sommersi o i salvati» (7). Tuttavia abbiamo visto come la Sfiga si sia accanita soprattutto tra le classi più povere del pianeta; ma non intendo fare del facile “populismo”! Riprendo il filo del ragionamento di Veneziani, il quale tocca “problematiche” etico-filosofiche meritevoli di una qualche attenzione (non faccio dell’ironia!): «Le cronache recenti ci hanno raccontato episodi che hanno fatto incrinare ulteriormente la nostra convinzione in un piano razionale della realtà. […] In questi casi fatichi a individuare i pilastri ai quali si affida chi crede nell’esistenza di un ordine logico. Non vedi la Libertà, l’arbitrio umano di scegliere e indirizzare la propria sorte; non vedi un Destino, una volontà divina che piega le cose in una direzione, possibilmente a fin di bene; né vedi la forza della Necessità, il meccanismo deterministico in base al quale le cose non fanno che obbedire a regole certe. No, appare solo l’imperversare del Caso, il dominio dell’Imponderabile, se non addirittura dell’Assurdo. E vedi soprattutto una profonda mancanza di senso. A noi esseri in cerca continuamente di risposte viene naturale chiedersi: Perché loro? Perché così? Chi ha voluto ciò?» Già, chi l’ha voluto? C’è forse qualcuno o qualcosa che malignamente complotta ai nostri danni? Ecco che ci arriva in soccorso la scienza, ed è sempre Veneziani che ce ne dà contezza: «Un recente e interessante libro, I dadi giocano a Dio? del matematico Ian Stewart, dimostra che l’incertezza è la fibra stessa della realtà, non una falla in un sistema per il resto ordinato e razionale. Stewart ci ricorda che “l’universo è intrinsecamente imprevedibile” e che “l’incertezza non è solo un segno di ignoranza umana; è ciò di cui è fatto il mondo”». Ma di che mondo stiamo parlando? Dell’universo, della natura come appare nel macrocosmo e nel microcosmo («dominio per eccellenza dell’Irrazionale: vedi gli approdi della meccanica quantistica»): dalle galassie agli atomi, dagli ammassi di galassie alle particelle subatomiche: ovunque regna l’incertezza e la probabilità. Ora, mi chiedo, ha un qualche senso leggere la realtà umana, la realtà sociale, ciò che ci accade in ogni ambito delle nostre attività e delle nostre relazioni, alla luce delle leggi e degli schemi concettuali con cui la scienza cerca di spiegare la realtà dell’universo? L’Irrazionale che dominerebbe nel microcosmo ha un qualche legame, anche solo mediato, con l’Irrazionale che domina nel cosmo umano? Qui la scienza è chiamata a giustificare un’irrazionalità e un’incertezza che si spiegano solo prendendo in considerazione la natura storico-sociale delle nostre attività e delle nostre relazioni.

Se «l’uomo si è ritrovato sospeso sull’orlo del Nulla», ciò non è dipeso dalla scienza che ha messo in crisi ogni certezza, a partire da quella relativa all’esistenza di Dio («la morte di Dio»), come sostiene Veneziani, ma perché per un verso ogni idea circa l’inevitabilità delle magnifiche sorti e progressive della società borghese ha fatto bancarotta; e per altro verso perché il Nulla umano tende a impadronirsi dell’intero spazio esistenziale degli individui, ridotti quasi a nulla dalla totalità sociale come si dà nel moderno capitalismo. È il rapporto sociale capitalistico che gioca a Dio!

A proposito di Dio, e di ciò che incute terrore: sono state finalmente pubblicate le Linee guida per il ministero dell’esorcismo: se ne sentiva davvero la mancanza! Occorreva una sistemazione dottrinaria (stavo per scrivere scientifica!) nel caotico mondo dell’esorcismo fai da te. «Il libro “Linee guida per il ministero dell’esorcismo”, pubblicato inizialmente in forma riservata per i membri dell’Associazione Internazionale Esorcisti, è ora disponibile in un volume pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova. Il testo, curato dall’Associazione Internazionale Esorcisti, fornisce anzitutto ai sacerdoti esorcisti gli elementi fondamentali per esercitare il loro servizio. Come ha rilevato il cardinale Bassetti, presidente della CEI, “esistono nel mondo delle periferie esistenziali dove è sempre inverno, dove l’aria è impregnata di paura. Il boss di queste periferie è il maligno che, come ricorda papa Francesco, non è un mito, una rappresentazione, ma un essere personale che ci tormenta e riguardo al quale Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno di essere liberati “perché il suo potere non ci domini”» (8). Egregio cardinale, Santissimo padre, avrei una domanda da porvi umilmente: il demonio sarà pure il boss delle «periferie esistenziali» di cui parlate, ma chi ne è l’artefice, chi le ha create? Anche l’anticapitalista, esattamente come il maligno che vi fa tanta paura, pesca e nuota in quelle «periferie esistenziali», si aggira in esse con fare guardingo per annunciare ai diseredati che un mondo autenticamente umano è possibile, basta costruirlo demolendo dalle fondamenta il pessimo mondo capitalistico; ma della loro esistenza egli non ha certo colpa.

Ma ritorniamo a Giorgio Agamben. Sulla scorta dell’Heidegger di Essere e tempo, dove si trova «una trattazione esemplare della paura come tonalità emotiva», Agamben giunge a questa “esistenzialistica” conclusione: «Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti. L’unica possibilità di recidere la “cosa” dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria – il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo – può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La “cosa” che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani – come quest’albero, questo torrente, quest’uomo – aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo – e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano – detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà». Si capisce che «la “cosa” che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo», evocata dal filosofo altro non è che il Coronavirus, un essere vivente estremamente elementare che segue con cieca determinazione un solo incoercibile principio: sopravvivere e moltiplicarsi. La vita vuole vivere, diceva un filosofo incline alla tautologia.

Come noi, anche il virus è in fondo «gettato nel mondo»; anch’esso condivide il nostro destino di esseri per e nel mondo, non è insomma una cosa aliena ma una realtà di questo mondo con la quale dobbiamo imparare a convivere, avendone timore, si capisce, ma senza tuttavia cadere in uno stato d’angoscia permanente che ci renderebbe impotenti e, soprattutto, facili prede del potere politico che è ben felice di assumersi l’incarico di difenderci da ciò che minaccia la nostra sicurezza. Detto in altri termini, dobbiamo impedire che la cosa concreta (il virus, ad esempio) diventi un’astratta cosalità che ci sovrasta come una mostruosa quanto impalpabile potenza impossibile da governare, anche emotivamente, se non delegando appunto al potere politico (oltre che alla medicina e alla farmacopea) questo ingrato ma essenziale compito. Ora, a mio avviso Agamben situa il suo discorso sulla paura proprio in quell’astratta dimensione esistenziale di cui prima ho parlato, e questo tra l’altro lo porta a fare l’apologia delle «regole che garantivano la [nostra] libertà»: ma una “libertà” interamente confinata nella dimensione del dominio di classe e impotente dinanzi ai grandi processi sociali che configurano sempre di nuovo e fin nei minimi dettagli la nostra esistenza può ancora venir chiamata “libertà”? Io non credo proprio, salvo non si abbia nella testa un ben misero concetto di “libertà” – e di civiltà, di progresso, di umanità, e così via. Non si dà vera libertà, né vera umanità, nella società dominata in modo sempre più totalitario dagli interessi (economici, geopolitici, politici, ecc.) che nulla hanno a che fare con la felicità degli individui e che anzi la negano sempre di nuovo. Chi ragiona di libertà e di democrazia (9) non dovrebbe sottovalutare il carattere totalitario del processo sociale capitalistico colto nella sua globalità.

Bisogna certo avere paura, molta paura; ma paura di questa società, di questo capitalistico mondo che alle vecchie potenziali catastrofi ne aggiunge di nuove, esponendoci come individui impotenti non solo alla malattia, alla sofferenza e alla morte prematura, ma anche a ciò che il Leviatano, bontà sua, organizza per “proteggerci”, ossia, detto con più verità, per difendere la continuità del dominio sociale capitalistico – e non di un generico “Sistema”, per usare il poco immaginifico linguaggio dei complottisti. È di questa maligna dialettica («Ti difendo dalle offese e dalle minacce generate dalla società che io difendo») che dobbiamo avere paura. Per quel che posso, do il mio contributo affinché questa paura possa trovare sul suo cammino l’idea che questo mondo non è il solo mondo possibile.  Scrive Donatella Di Cesare: «Il coronavirus è un virus sovrano che aggira i muri patriottici, le boriose frontiere dei sovranisti. E rivela in tutta la sua terribile crudezza la logica immunitaria che esclude i più deboli. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così sfrontata. Il virus ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l’impossibilità di salvarsi, se non con l’aiuto reciproco, costringendo a pensare un nuovo modo di coabitare» (10). Ecco, appunto!

 

(1) S. Freud, L’angoscia, in Introduzione alla psicoanalisi, pp. 355-356, Boringhieri, 1985.
(2) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 23, Einaudi, 2000.
(3) J. Diamond, Il mondo fino a ieri, Einaudi, 2013.
(4) R. M. Nesse, G. C. Williams, Perché ci ammaliamo, p. 85, Einaudi, 1994.
(5) «Il problema centrale [di Lev Tolstoj] si rivolgeva in misura crescente alla questione se la morte fosse un fenomeno dotato di senso oppure no. E la sua risposta è che per l’uomo civilizzato non lo è. E non lo è perché la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita nel “progresso”, nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è sempre ancora un progresso ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita” poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì “stanco della vita”, ma non sazio della vita. Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua «progressività» priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque, nei suoi ultimi romanzi, quest’idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj» (M. Weber, La scienza come professione, 1917,  in La scienza come professione, La politica come professione, p. 27, Einaudi, 2004).
(6) Intervista al Venerdì di Repubblica.
(7) Libero Quotidiano.
(8) La Stampa.
(9) «La democrazia consente (se non altro tramite una fictio) di realizzare l’aspirazione a che nessuno possa essere sottoposto a leggi che non abbia concorso ad approvare, e dunque a subire vincoli che non abbia volontaria­mente accettato» (D. De Lungo, Liberalismo, democrazia, pandemia, IBL). La democrazia (capitalistica) come «fictio»: non c’è dubbio!
(10) D. Di Cesare,Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, 2020. Sovrano, in senso forte e direi senz’altro totalitario, è il Capitale, sempre inteso in primo luogo come peculiare rapporto sociale di produzione.

SUL TSO “PANDEMICO”

«È apparsa negli scorsi giorni la possibilità di utilizzare il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) per chi è restio ad accettare le cure anche se contagiato. Ne ha parlato il governatore veneto Luca Zaia, esasperato dall’aumento dell’indice di contagio in regione e dalla vicenda dell’imprenditore vicentino che si è ammalato ma ha rifiutato il ricovero, ma anche il governo che con il ministro della Salute Roberto Speranza avrebbe chiesto agli esperti giuridici del governo di studiare la possibilità di imporlo a chi ha sintomi da Covid ma sta in giro. L’obiettivo del governo è studiare un’eventuale norma più stringente per applicarlo ed estenderlo dalla psichiatria alla gestione dei casi di chi rifiuta le cure anche se contagiato dal Coronavirus. Pochi però hanno consapevolezza di cosa sia un TSO, come venga esercitato già oggi e quali conseguenze comporti per chi lo subisce. Questo strumento invasivo solitamente sconvolge le vite delle persone e può anche ucciderle» (Affaritaliani).

Franco Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra e della società. Analogamente possiamo dire che il TSO “pandemico” serve a preservare, più che la salute del corpo sociale, in primo luogo la stabilità dell’ordine sociale, stressata continuamente dalle contraddizioni che sempre di nuovo produce questa società altamente contraddittoria e irrazionale – nonostante il gigantesco apparato tecnoscientifico che essa esibisce e che è posto soprattutto al servizio delle pratiche di dominio, di sfruttamento e di controllo sociale. Non bisogna poi sottovalutare l’esigenza di tutelare la stabilità politica dei funzionari che ci governano dal centro e dalla periferia. Ben si comprende, ad esempio, l’ansia elettoralistica di Luca Zaia, il cui riconosciuto e molto apprezzato successo nella “guerra al coronavirus” rischia di non trasformarsi in un prossimo successo elettorale per colpa di qualche “irresponsabile”.

Ieri il “pazzo”, oggi il “disagiato mentale”, domani forse l’”untore” e l’”irresponsabile”, dopodomani non si sa chi: i casi a cui applicare un bel TSO appaiono potenzialmente numerosissimi. Intendo forse evocare la sindrome della “brutta china” (fatto un passo in una direzione, il passo successivo è inevitabile)? No, mi limito a registrare un processo sociale in atto, a riflettere su una tendenza generale attiva peraltro da moltissimo tempo e che spesso subisce quelle improvvise accelerazioni che ci permettono – o, detto più realisticamente, ci permetterebbero – di averne contezza. Per quanto mi riguarda è questa società la “brutta china” che percorriamo ogni giorno, senza sapere, per l’essenziale, dove essa ci porterà: del domani non c’è certezza, diceva quello. Devo pure confessare che l’idea del TSO “pandemico” mi è balenata in testa all’inizio della “crisi sanitaria”, e certamente non in virtù di una capacità previsionale che purtroppo non possiedo; a pensare il male spesso ci si azzecca:  «Il 2 maggio scorso un rapper calabrese, Dario Musso, ne ha subito uno dopo essere andato in giro in auto gridando con un megafono che non esiste nessuna pandemia. Il ragazzo non aveva patologie psichiatriche né è stato visitato da un medico prima del trattamento forzoso» (Affaritaliani). Il 9 maggio c’è stato un identico caso in provincia di Agrigento ai danni di un uomo di circa 30 anni: «Lo hanno sedato perché esponeva le sue ragioni in modo pacifico», ha dichiarato il suo avvocato. Si reprime dunque un’opinione con mezzi “sanitari”? «Ma si tratta di un’opinione folle, non suffragata da nessuna evidenza scientifica! Un’opinione folle e pericolosa per la comunità». Ah, ecco. Adesso mi sento meno turbato, ma solo un pochino… Anche perché non sono io a decidere circa la pericolosità dei comportamenti sociali, a cominciare dai miei! «E infatti c’è chi decide per te, per tutti noi». Appunto!

Personalmente non posso fare a meno, per una sorta di riflesso condizionato, di associare il Trattamento Sanitario Obbligatorio al fascismo, al nazismo, allo stalinismo (anche con caratteristiche cinesi), cioè alla forma totalitaria dello Stato capitalistico. Questa operazione mentale in realtà mi aiuta a mettere nella giusta prospettiva l’intima natura dello Stato cosiddetto democratico, che infatti non contrappongo ideologicamente a quello che siamo soliti definire senz’altro totalitario. Detto en passant, il minacciato ricorso al TSO rivela l’intimo legame che storicamente esiste tra trattamento psichiatrico e repressione della “devianza sociale”, tra manicomio (nelle sue diverse “declinazioni” fenomenologiche) e carcere. Contenzione e repressione non fanno solo rima: sono due lati di una stessa medaglia. Nella prassi del dominio tutto si tiene, a spese degli individui.

Non ha alcuna importanza, a mio avviso, se l’odiosa e minacciosa idea del TSO “pandemico” sarà lasciata cadere (magari anche con allegata “precisazione” del politico che l’aveva impugnata come una clava: «Sono stato frainteso!»): ciò che conta è che essa sia stata avanzata e che non abbia incontrato praticamente nessuna opposizione da parte della gente, tutt’altro. Almeno è questo che risulta a me. Staremo a vedere!

Ho espresso la mia contrarietà di principio a ogni forma di obbligo (incluso quello vaccinale) e di proibizione (incluso quello afferente all’uso delle cosiddette “sostanze droganti”) in questo post: OBBLIGO VACCINALE E ALTRO ANCORA.

 

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

Chi non vuole parlare di capitalismo non deve
parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine
totalitario non è altro che l’ordine precedente
senza i suoi freni. […] Oggi combattere il
fascismo richiamandosi al pensiero liberale
significa appellarsi all’istanza attraverso cui
il fascismo ha vinto (Max Horkheimer).

Ho letto l’interessante breve saggio sugli Aspetti del nuovo radicalismo di destra (Marsilio, 2020) ricavato dalla registrazione di una conferenza che Theodor W. Adorno tenne il 6 aprile del 1967 all’Unità di Vienna su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Il testo della conferenza è rimasto «pressoché sconosciuto» per oltre mezzo secolo, come ricorda lo storico Volker Veiss nella sua postfazione. Pare che il libro stia riscuotendo un notevole successo non solo in Germania ma un po’ in tutta Europa, e leggendolo i motivi di un tale consenso appaiono subito chiarissimi.
In effetti, per molti aspetti le “problematiche” affrontate da Adorno nel 1967 appaiono più attuali oggi che allora; eccone un esempio: «Nonostante la piena occupazione e nonostante tutti i segni di prosperità, lo spettro della disoccupazione tecnologica continua ad aggirarsi tanto che, nell’epoca dell’automazione, anche gli esseri umani che si trovano all’interno del processo produttivo in realtà si sentono già potenzialmente superflui o potenziali disoccupati (pp. 15-16). Bisogna tener presente che ancora nel 1967 l’eccezionale fase espansiva dell’economia iniziata nel secondo dopoguerra faceva sentire i suoi “benefici” effetti, sebbene il processo di accumulazione avesse di molto rallentato la sua “spinta propulsiva” e si avviasse alla prima seria battuta d’arresto postbellica anticipata in qualche modo dai movimenti del ’68. Allora – come oggi – la Germania era la locomotiva del capitalismo europeo.

Oggi, nell’epoca della cosiddetta Intelligenza Artificiale, lo spettro della “disoccupazione tecnologica” alita sul collo del lavoratore (“manuale” o “intellettuale” che sia) fondando economicamente una precarietà esistenziale sempre più acuta e difficile da gestire emotivamente e psicologicamente. È fortissima la tentazione di cadere nel feticismo tecnologico, ossia di accedere alla cattivissima idea di attribuire una volontà, e quindi una responsabilità di qualche tipo, alla cosa, e non alla relazione sociale di cui essa è l’espressione. Detto en passant, di questi tempi è molto diffuso il feticismo virale, ossia l’idea malsana di attribuire al coronavirus la crisi sociale internazionale che ha avuto nella pandemia solo la sua miccia d’innesco, senza contare la stessa natura squisitamente sociale della pandemia già nel suo momento genetico – a cominciare dalla distruzione capitalistica degli ecosistemi. «Un invisibile virus ha messo in ginocchio l’economia mondiale»: sciocchezze! Le contraddizioni tipiche del capitalismo e le sue leggi di movimento hanno messo in ginocchio l’economia mondiale: il nemico invisibile si chiama rapporto sociale capitalistico. Questo solo per dire che abbiamo a che fare con un clima sociale che rende possibile, oggi come allora, la diffusione di quelle idee irrazionali che sono la premessa del successo dei «cosiddetti sistemi di massa di stampo fascista», i quali hanno senza alcun dubbio una profonda relazione strutturale con i sistemi della follia» (p. 30).

La disoccupazione causata dall’introduzione nel processo produttivo (di “beni e servizi”) di tecnologie che risparmiano lavoro per molti è una triste realtà, e per molti altri è, appunto, uno spettro sempre presente e minaccioso. Oggi assai più di ieri il rischio della rapida obsolescenza tocca tutti i settori di attività, e financo il “mestiere più antico del mondo” (sì, proprio quello!) sembra poter fare a meno di personale in carne ed ossa per soddisfare le esigenze del cliente, e con una discrezione e un’igienicità che nel contesto della “nuova normalità” rappresentano requisiti senz’altro molto apprezzati dagli utenti del sesso a pagamento. La “prostituzione robotica” (o “intelligente”) sembra corrispondere puntualmente a quel concetto di distanziamento (a)sociale che coglie perfettamente un aspetto fondamentale della nostra disgraziata epoca, oggi come e più di ieri.

Anche il discorso sull’avanzata delle destre ci suona incredibilmente attuale, anche se il cuore del problema, per Adorno e certamente per chi scrive, è rappresentato soprattutto dalle cause sociali che, «oggi come allora», rendono possibile e perfino inevitabile (almeno per chi scrive) il comparire sulla scena sociale di movimenti politici apertamente nazionalisti (o “sovranisti”), razzisti, antisemiti, autoritari.
Adorno lo dichiara subito: «Nel 1959 ho tenuto una conferenza dal titolo Che cosa significa elaborazione del passato nella quale ho illustrato la tesi secondo cui il radicalismo di destra, o il potenziale di un radicalismo di questo genere, può essere spiegato con il fatto che, oggi come allora, continuano a sussistere le premesse sociali del fascismo. Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico» (pp. 13-14). Soprattutto nel caso italiano, la radicale continuità tra regime fascista e regime postfascista non ha avuto solo un carattere sociale, ma per non pochi aspetti essa ha riguardato anche il piano politico-istituzionale, come attesta, ad esempio, la sopravvivenza in epoca repubblicana del diritto penale elaborato sotto il fascismo. Anche la struttura economica, con i suoi robusti e “intimi” legami con il mondo politico-sindacale, esibisce un’evidente continuità fra i due regimi. Lo stesso passaggio di non pochi militanti del Partito Fascista nel cosiddetto Partito Comunista di Togliatti alla fine della Seconda guerra mondiale non si spiega solo con il proverbiale opportunismo italiano, con l’italico salto sul carro del vincitore, ma anche, e forse soprattutto, con la comune matrice psico-sociale di fascismo e stalinismo, che facevano presa su una personalità desiderosa di un forte e rigido inquadramento. Adorno parla di «personalità autoritaria». Detto in altri termini, stalinisti e fascisti hanno impastato lo stesso materiale umano caratterizzato da una forte propensione gregaria/autoritaria. Credo che il successo che il «nuovo radicalismo di destra» sta avendo soprattutto nei Länder Orientali della Germania, le regioni che formavano la Repubblica Democratica Tedesca (1), si spieghi, mutatis mutandis, anche con quanto appena accennato, oltre che con i problemi economico-sociali e con la delusione che hanno interessato la popolazione che vive in quei Länder. Diciamo che i due aspetti si incrociano. Radicalismo di destra e Ostalgie, la nostalgia per la Germania dell’Est, sono due fenomenologie dello stesso problema sociale (dimensione psicologica compresa), almeno per come la vedo io. Per dirla sempre con Adorno, «qui gioca un ruolo essenziale il concetto di organizzazione, […] l’elemento del rigore e del centralismo. […] Fa parte degli elementi di base dell’ideologia tedesca il fatto che non si debba agire da soli. […] Si vuole avere qualcosa alle spalle. […] Qui gioca un ruolo il fatto che proprio nella Repubblica Federale lo Stato nazionale si è realizzato con un ritardo colossale, soprattutto rispetto all’Inghilterra o alla Francia. E le persone in Germania sembrano vivere in un perenne stato di paura per la propria identità nazionale» (pp. 24-26).

Attualissima suona anche la denuncia adorniana del nazionalismo (che oggi ama appunto definirsi “sovranismo”), il quale è tanto più velenoso, quanto più le sue basi oggettive diventano sempre più inconsistenti e spettrali: nel contesto dei «due enormi blocchi [USA e URSS] i singoli Stati giocano un ruolo subordinato. Nessuno ci crede più davvero. La singola nazione è straordinariamente limitata nella sua libertà di movimento dall’integrazione nei grandi blocchi di potere. Ma non bisogna trarne la conseguenza affrettata che il nazionalismo, in quanto superato, non giochi più un ruolo chiave; viceversa, accade spesso che alcune convinzioni o ideologie assumano un aspetto demoniaco o autenticamente distruttivo proprio quando non risultano più sostanziali in base alla situazione oggettiva» (p. 17). Perdendo il proprio ancoraggio oggettivo (economico, geopolitico, culturale: in una sola parola: sociale), il nazionalismo si espande senza più limiti in guisa di bolla speculativa ideologica. Adorno parla dello «spettro di uno spettro», una superfetazione ideologica che cresce seguendo l’espandersi delle paure, delle angosce, delle frustrazioni e dei risentimenti che la situazione reale non cessa di generare sempre di nuovo, sebbene con ritmi diversi nelle diverse congiunture del ciclo economico e investendo i più disparati strati sociali.
Per quanto mi riguarda la freccia critica antinazionalista colpisce tanto il sovranismo di “destra”, quanto il sovranismo di “sinistra”, due facce della stessa escrementizia medaglia. Oggi molti sovranisti di “sinistra” sono schierati dalla parte dell’imperialismo cinese, che nel frattempo ha sostituito l’imperialismo “sovietico” nel ruolo di nemico strategico dell’imperialismo americano. I nostalgici piagnucolosi della “Russia socialista” oggi possono consolarsi con il “socialismo con caratteristiche cinesi”, il cui sistema autoritario con caratteristiche orwelliane è segretamente apprezzato anche da molti leader politici occidentali che si definiscono liberali. Quanto a controllo sociale la Cina è oggi il modello da imitare. Il sistema di controllo e repressione realizzato dal regime nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale (un carcere a cielo aperto che contiene al suo interno numerosi “campi di rieducazione e lavoro”), sarebbe piaciuto moltissimo alla «cricca nazista», in particolar modo a quei personaggi che, come Eichmann e Himmler, avevano «una prospettiva strettamente tecnologica» (p. 30).

Adorno coglie bene anche il carattere reazionario «dell’antiamericanismo» e della «paura nei confronti della Comunità economica europea» che caratterizzavano il radicalismo di destra dei suoi tempi: «È evidente come nell’ideologia un ruolo molto forte venga giocato dall’antiamericanismo, il quale era già prefigurato in epoca nazista in espressioni come nazione “plutocratica” e simili. Nella prospettiva di questo antiamericanismo si tenta di usurpare l’idea di un’Europa come “terza forza”» (p. 41). Oggi l’antiamericanismo destrorso in generale non usurpa più, in Germania e in tutto il Vecchio Continente, «l’idea di un’Europa come “terza forza”», ma anzi combina antiamericanismo e antieuropeismo e avanza un programma decisamente “sovranista”. Invece, quell’idea si fa strada a partire da un processo sociale oggettivo che potrebbe culminare nella formazione di un autentico polo imperialista europeo, e ovviamente in tutto ciò la Germania ha un ruolo centrale, e qui naturalmente si registra una grande differenza con il contesto politico e geopolitico che Adorno aveva dinanzi: «In ogni caso la Germania di oggi non è più un soggetto politico, anche solo in termini di possibilità, come invece lo era ai tempi di Weimar. C’è addirittura il rischio […] che la Germania devii dagli orientamenti della politica mondiale, dalle sue tendenze generali e venga ridotta a provincia» (p. 32). Come sappiamo, le cose sono andate diversamente e personalmente concordo con chi sostiene che la Germania sia stata la vera vincitrice della lunga Guerra Fredda. Certo, anche oggi «manca completamente la prospettiva “oggi qui, domani tutto il mondo”» (p. 43); ma non c’è dubbio che la Germania può coltivare ambizioni geopolitiche inimmaginabili mezzo secolo fa, e bisogna anche dire che quel Paese ha in parte moderato le proprie pretese politiche sia perché non ha dimenticato le dure lezioni apprese nel “Secolo breve”, e sia per beneficiare di una difesa militare quasi interamente pagata dagli Stati Uniti. Ma oggi la Germania sembra sul punto di voler e poter assumere le “responsabilità politiche” che le derivano dalla sua potenza economico-sociale. Che la Germania diventi «un soggetto politico» di grande rilevanza internazionale (soprattutto attraverso la mediazione dell’Unione Europea), oggi è più che una possibilità.

Devo d’altra parte dire che non condivido neanche un po’ le pur timide simpatie politiche che Adorno manifesta, sebbene implicitamente, per l’Europa e per gli Stati Uniti, i cui sistemi politico-sociali gli appaiono in ogni caso meno cattivi di quelli di matrice sovietica o maoista – cosa che, tra l’altro, lo porterà a polemizzare nel ’68 con una certa area del “radicalismo di sinistra”, accusata giustamente (da lui e da Horkheimer, contro l’opinione di Marcuse) di lavorare per conto delle potenze sociali che tengono incatenati al carro del dominio sociale gli individui, a cominciare da quelli appartenenti alle classi subalterne.

Per “legittima difesa” Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo, ma quale «prassi di riferimento» i due avevano allora dinanzi? Quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale. Prendendo congedo dalla prassi essi intesero mettere al riparo quella teoria dall’omologazione stalinista, e questo lo considero un grandissimo merito, fondato però su una cattiva interpretazione del «fenomeno-stalinismo», associato in qualche modo dai due filosofi francofortesi al pensiero marxiano, sebbene in una sua variante particolarmente volgare. «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (2). Nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e per altro verso il cosiddetto «Socialismo reale» non era che un capitalismo (più o meno di Stato) assai agguerrito sul piano dell’agone imperialistico, quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole – Minima Moralia. Allora non si trattava certo di sospendere la prassi rivoluzionaria, ma piuttosto di elaborarne una coerente con i suoi presupposti teorici e adeguata alla situazione oggettiva. La stessa cosa vale oggi come e più di allora.

A proposito di antiamericanismo, c’è da dire che un certo “radicalismo di sinistra” ama nascondere quella posizione politico-ideologica sotto i panni di un “antimperialismo” tanto gridato quanto mai praticato, come dimostra l’accesa simpatia per l’imperialismo cinese molto diffusa in quell’ambiente politico.

«Oggi come allora»: ho trovato particolarmente pregnante questa locuzione che, se non ho sbaglio a contare, compare quattro volte nel testo adorniano. Si nota anche un «oggi come ai tempi di Hitler» con riferimento alla tecnica propagandistica usata dal radicalismo di destra. Scrive Adorno: «Vorrei puntualizzare en passant che la questione non implica affatto che tutti gli elementi di questa ideologia siano falsi, ma che anche il vero [il disagio sociale, ad esempio] può essere messo al servizio di un’ideologia falsa. […] La tecnica più importante grazie alla quale la verità viene messa al servizio della non verità è quella di separare osservazioni in sé vere o corrette dal loro contesto, isolandole così da poter affermare: “Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra”, senza vedere invece che l’intera congiuntura degli anni dal 1933 al 1939 è stata possibile solo grazie a una frenetica economia di guerra, alla preparazione della guerra (3). E ci sono cento altri esempi. […] Vorrei ribadire peraltro che nel fascismo non vi fu mai un’ideologia in senso proprio e che resta sempre sottointeso che in esso la questione fosse quella del potere. Naturalmente, proprio questo ha conferito a tali movimenti sul piano ideologico quella flessibilità che è facile osservare. Del resto, il primato di una prassi a-concettuale è nello spirito del tempo [oggi più che allora]. Oggi come ai tempi di Hitler la loro unità sta in questo appello alla personalità autoritaria» (4) (pp. 41-44). A qualcuno sembra di dire qualcosa di particolarmente originale e geniale affermando: «Il nostro movimento non è né di destra né di sinistra» (5), una frase coniata a suo tempo dall’ex socialista Benito Mussolini, teorico del “pensiero antidogmatico” (sic!).

Ci fu un tempo in cui il termine sinistra connotava, in linea di principio, una posizione anticapitalista. Quel tempo si è chiuso con il trionfo in quello che una volta si chiamava movimento operaio internazionale del riformismo socialista e dello stalinismo, due ideologie radicalmente borghesi. Oggi l’anticapitalista non è “più a sinistra” della “sinistra ufficiale”, ma piuttosto collocato su un altro e opposto terreno di classe, e in questo peculiare senso egli è davvero né di “destra” né di “sinistra”. Quando si usano certi termini, bisogna innanzitutto intendersi sui concetti che essi sono chiamati a esprimere, e quest’opera di chiarificazione concettuale ha anche molto a che fare con la lotta al radicalismo di destra come a ogni forma di autoritarismo – che spesso assume un aspetto sinistrorso.

Se, come osservava giustamente adorno, «il comunismo è diventato solo una parola che suscita spavento», di ciò le classi dominanti occidentali devono ringraziare soprattutto i cosiddetti “comunisti”, portatori di un modello sociale che quanto a sfruttamento, oppressione, alienazione, violenza, disumanità e quant’altro regge benissimo il confronto con la prassi delle società capitalistiche “conclamate”., le quali ai miei occhi hanno almeno il pregio, per così dire, di non millantare crediti che hanno a che fare con le idee di emancipazione delle classi subalterne e, più in generale, dell’umanità.

Sempre a proposito delle premesse sociali dei movimenti fascisti, Adorno pensa «in primis alla tendenza del capitale alla concentrazione, dominante oggi come allora, della quale non si può affatto dubitare, per quanto la statistica, con tutti i suoi artifici, tenti di farla scomparire dalla faccia della terra [oggi come allora!]. Questa tendenza alla concentrazione significa, d’altro canto, oggi come allora, che resta sempre possibile il declassamento di strati sociali che dal punto di vista della loro coscienza di classe soggettiva risultano del tutto borghesi» (p. 14). Sappiamo il peso che questo declassamento ha avuto nella genesi dei movimenti autoritari in Italia e in Germania nel primo dopoguerra. Ma, oggi come ieri, il demagogo non pesca solo nel mare della media e piccola borghesia declassata dal processo sociale, ceto sociale che certamente offre al suo movimento politico la gran parte dei quadri dirigenziali: egli rivolge la sua “profetica” parola a tutti gli individui maltrattati dal Moloch capitalistico, la cui marcia diventa particolarmente distruttiva durante le crisi economiche. Ed è nel corso delle più gravi crisi economiche che nella società inizia a dilagare il «sentimento della catastrofe sociale» a cui i movimenti neofascisti cercano di dare una soddisfazione e una prospettiva politica: «Si potrebbe parlare di una distorsione della teoria marxiana del collasso, la quale avrebbe luogo in questa coscienza falsa e mutilata. […] “Com’è possibile andare avanti, se c’è una grande crisi?”, e questi movimenti si propongono appunto come una risposta a tale situazione. Essi hanno qualcosa in comune con quella specie di odierna astrologia manipolativa (6) che io considero un sintomo fortemente caratteristico e importante dal punto di vista della psicologia sociale del fatto che, in un certo senso, essi vogliono la catastrofe, che si nutrono di fantasie di tramonto del mondo, cosa che del resto – come sappiamo dai documenti – non era affatto estranea alla cricca che prima guidava il partito nazionalsocialista. […] A chi non vede nulla davanti a sé e a chi non vuole la trasformazione delle basi sociali non resta nient’altro se non ciò che afferma il Wotan di Richard Wagner: “Sai che cosa vuole Wotan? La fine”; a partire dalla sua situazione sociale vuole il tramonto, e non il tramonto del proprio gruppo, ma, se possibile, il tramonto tout court» (pp. 22-24). La situazione disperata genera sentimenti di disperazione: la domenica di Pasqua del 1932 l’editorialista della Frankfurter Zeitung pubblicava, a mo’ di augurio, le parole pronunciate nel 1809 dal maggiore Schill, l’eroe della fallita insurrezione antinapoleonica: «Meglio una fine nell’orrore che un orrore senza fine». Su questo aspetto della storia tedesca rimando il lettore a un mio post di qualche anno fa: La Germania e la sindrome di Cartagine.

Adorno invita giustamente a «essere scettici nei confronti di un’interpretazione meramente psicologica dei fenomeni sociali e politici», perché l’espandersi di una psicologia di massa orientata in senso irrazionale «ha anche un fondamento oggettivo» (7). L’organizzazione sociale capitalistica, oggi come e più di ieri, genera sempre di nuovo i presupposti materiali, culturali e psicologici di quella che Adorno e Horkheimer definirono negli anni Quaranta del secolo scorso (e sul fondamento di una ricerca sociale empirica condotta negli Stati Uniti) «personalità autoritaria», ossia la personalità dell’individuo atomizzato che non oppone alcuna resistenza critica alle imperiose esigenze della totalità sociale e che, anzi, solo all’interno di un ingranaggio che schiaccia ogni autentica libertà e ogni decisione umanamente razionale e responsabile si sente al riparo da minacce che egli non comprende e che travisa nel modo più rozzo secondo le direttive impartite alle masse dai capi. Solo nella massa l’individuo atomizzato, che nella Personalità autoritaria Adorno definisce «tipo manipolativo» (che si lascia cioè manipolare e che, a sua volta, tende a manipolare gli altri), si sente protetto e in armonia con il mondo creato dalle sue paure, dalle sue angosce, dalle sue aspirazioni. Ovviamente questa condizione psicologica ha delle cause sociali precise e riconoscibili, ed è a queste cause che bisogna arrivare seguendo le indicazioni che la “sovrastruttura psicologica” ci indica. È per questo che è importante imparare il linguaggio di questa “sovrastruttura”, capirne la complessa e spesso paradossale grammatica.

Scrive Adorno: «Fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio compito» (p. 21). Ma la democrazia storicamente sorge sul disumano fondamento della divisione classista degli individui – e nella Grecia Antica gli schiavi non erano considerati nemmeno uomini in senso proprio. Concettualmente e praticamente la democrazia è radicata nella dimensione politica, ossia nella dimensione del conflitto sociale, il cui presupposto è appunto la divisione degli individui in dominati (la massa che lavora) e dominanti (la ristretta elite che si appropria del prodotto del lavoro altrui). Non a caso il comunismo immaginato da Marx postulava il superamento della politica, almeno nell’accezione che essa ha avuto e continua ad avere nella società classista. Per questo, a mio avviso, tanto il fascismo quanto la democrazia capitalistica rappresentano due modi diversi e intercambiabili (dipende dalle circostanze, nazionali e internazionali) di amministrare la società per conto delle classi dominanti e in vista del supremo obiettivo perseguito dalla politica (al cui vertice si colloca lo Stato): la continuità del rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Questo obiettivo può anche dar luogo alla completa statalizzazione dell’economia (ciò che il volgare pensiero borghese, di “destra” e di “sinistra”, concepisce come “socialismo”) nel caso in cui una catastrofica crisi economica innescasse pericolosi movimenti sociali. Pericolosi, beninteso, dal punto di vista dello status quo sociale. Anche ai nostri giorni possiamo osservare in tutti i maggiori Paesi del mondo un interventismo statale che la dice lunga sulla gravità della crisi economica che erroneamente il pensiero mainstream attribuisce al Coronavirus. Interventismo statale e “deriva autoritaria” (8) sono, oggi come allora, due fatti intimamente correlati fra loro, e la stessa cosa si può dire per le politiche assistenzialiste di lunga durata. Come scriveva Max Horkheimer, il dominio sociale «non più conservabile con i mezzi economici, essendo la proprietà privata sopravvissuta a se stessa, è conservato con mezzi direttamente politici» (9).

La democrazia capitalistica (perché non esiste un’astratta e astorica democrazia) «è pienamente all’altezza del proprio concetto» se è in grado di assicurare la stabilità sociale, e ciò, come sappiamo, si realizza attraverso un accurato uso di carota e di bastone, di mezzi che ricercano il consenso dei cittadini e di mezzi immediatamente coercitivi e repressivi – quelli che giustificano il concetto, tutt’altro che “mostruoso” e contraddittorio, di democrazia fascista. È per questo che non condivido affatto ciò che Adorno dice a proposito del modo concreto in cui è possibile fronteggiare il pericolo nazifascista: «occorre anche tentare di trovare dei mezzi legali attraverso cui uno Stato democratico possa procedere contro di esso» (p. 39). A mio avviso per un verso lo Stato democratico è parte del problema qui in oggetto, e non della sua soluzione; e per altro verso, e sempre a mio avviso, è solo incoraggiando l’autonoma iniziativa antifascista delle classi subalterne e di quanti intendono lottare contro i movimenti autoritari di qualsiasi tendenza politica (inclusi quelli che sostengano regimi come quelli cinesi, cubani, venezuelani, ecc.) che si creano negli individui gli anticorpi idonei a proteggerli in qualche modo dalla personalità autoritaria. Giustamente Adorno dice che nella lotta al radicalismo di destra «non bisogna contrapporre menzogna a menzogna»; dal mio punto di vista contrapponendo lo Stato democratico ai movimenti di “stampo fascista” si scivola appunto nella menzogna, tanto sul piano storico (vedi la responsabilità che la liberaldemocrazia ha avuto negli anni Venti e Trenta del secolo scorso nella sconfitta del movimento operaio e nel trionfo del fascismo e del nazismo), quanto su quello politico.

Tra l’altro Adorno e Horkheimer già negli anni Trenta non mancarono di denunciare il lavoro preparatorio al trionfo del nazifascismo svolto dalla borghesia liberale: «Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (10). Adorno sostiene giustamente che la stessa grande industria che foraggiò il nazismo soprattutto in chiave controrivoluzionaria subì il processo di autonomizzazione del movimento hitleriano, una dinamica che ricorda molto il caso italiano. L’autonomizzarsi del manganello anche dagli interessi economici dominanti non era stato previsto dai politici liberali che pensavano di potersi disfare facilmente della “triviale” e violenta azione politica fascista dopo averla usata contro i lavoratori. Mussolini e Hitler passarono invece all’incasso, favoriti da una devastante crisi economico-sociale. «In tutte queste faccende – osserva Adorno – bisogna prestare molta attenzione a non pensare in modo troppo schematico e a non operare in maniera molto avventata»: un consiglio valido anche oggi. «In Germania – conclude Adorno – si è arrivati al fascismo come ultima ratio, ossia nel momento in cui la crisi economica si era ingigantita e non lasciava nessun’altra possibilità per quell’industria della Ruhr che allora risultava già in bancarotta» (p. 19). Sappiamo bene come la corsa al riarmo in vista della guerra risollevò le sorti dell’industria pesante tedesca (e dell’occupazione) prostrata dalla crisi economica e costretta ad agire, di fatto, entro i ridotti limiti fissati soprattutto dalla Francia. Anche la Germania ebbe il suo “boom” economico che preparò il boom dei cannoni e delle bombe. «Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra»…

Segno dei tempi: la copertina dell’Economist del 25 giugno ci invita a riflettere sulla «prossima catastrofe – e a come sopravvivervi». La prossima catastrofe può arrivare sotto forma di eruzioni solari, di asteroidi, di eruzioni vulcaniche, di tsunami, di cambiamento climatico, di epidemia virale (l’ennesima!), di guerra atomica, o di altro ancora, ma di certo essa ci farà visita entro un ragionevole arco di tempo, e quindi dobbiamo prepararci al peggio avvantaggiandoci degli errori commessi in passato. E se invece lavorassimo pensando al meglio, in vista del meglio, costruendo il meglio? Detto in altri termini, anziché impegnarci per la sopravvivenza in un mondo ostile, non potremmo come umanità operare per uscire fuori dalla millenaria dimensione classista che rende possibile ogni forma di catastrofe sociale? «Quasi tutti i grandi asteroidi che possono avvicinarsi alla Terra sono stati ora trovati. Nessuno è una minaccia a breve termine. Il mondo non è solo un luogo manifestamente più sicuro di quanto sembrasse. È anche un posto migliore» (The Economist). Ma ciò che minaccia in mille modi (alcuni dei quali oggi non riusciamo neanche a immaginarli) non è la natura, ma una prassi sociale il cui funzionamento per l’essenziale non riusciamo né a capire né a controllare.
Civettando con Adorno svolgo la seguente riflessione: alla luce dei problemi e delle contraddizioni che segnano la nostra epoca «forse alcuni di voi mi chiederanno cosa penso del futuro» dell’umanità. Ebbene, «credo che questa sia una domanda sbagliata perché eccessivamente contemplativa. In quel modo di pensare che sin dal principio vede queste faccende come catastrofi naturali, sulle quali è possibile fare previsioni come per le trombe d’aria o i disastri meteorologici, si cela già una forma di rassegnazione che ci mette in realtà fuori gioco come soggetti politici; vi si cela, cioè, un comportamento da cattivi spettatori di fronte alla realtà. Come queste cose proseguiranno e la responsabilità per come andranno avanti ricade, in ultima istanza, su di noi» (pp. 56-57). Siamo talmente deboli di fantasia e di immaginazione, oltre che di pensiero critico, che riusciamo a concepire senza eccessivi sforzi concettuali la fine del mondo, mentre la fine di questo capitalistico mondo non riusciamo nemmeno a farla entrare nel campo delle ipotesi.

Scrivendo «oggi come allora», personalmente ho inteso sottolineare, non credo distaccandomi troppo dalle intenzioni di Adorno, la radicale continuità del dominio sociale che rende possibile ogni genere di sofferenza e di evento catastrofico: dalle guerre mondiali alle pandemie, dallo sterminio “industriale” di «persone indegne di vivere» (in linea di principio l’ebreo non manca mai nella lista nera: «Non possiamo dire nulla a riguardo, ma tra noi ci capiamo») alle crisi economiche, dalle emigrazioni di massa alla distruzione degli ecosistemi – a cominciare dall’ecosistema a noi più prossimo, il nostro corpo.

(1) «Sembra paradossale ma le formazioni di estrema destra in Germania nascono nei Länder orientali cioè nei territori della Repubblica Democratica Tedesca che oggi rappresentano i bastioni elettorali dell’Alternative für Deutschland. Perché? Per un motivo poco noto fuori dalla Germania: la riunificazione del 1990 – concretizzatasi nell’assorbimento della DDR nella Repubblica Federale – ha avuto costi altissimi non solo per le casse statali, ma anche per i sedici milioni di tedesco-orientali. La ristrutturazione del sistema economico-produttivo ha portato ad un’impennata della disoccupazione, ad un aumento del costo della vita, all’aumento dell’immigrazione interna ed al crollo della natalità. Una crisi che fa sentire i suoi effetti ancora oggi, a trent’anni ormai dalla riunificazione. Questo ha generato in molti elettori dell’est la disponibilità a sostenere le forze che, di volta in volta, si sono presentate come di opposizione totale al duopolio Cdu/Spd. C’è, poi, un altro aspetto: molti tedesco-orientali nel 1989-’90 ambivano a “ritornare” tedeschi piuttosto che a diventare occidentali, ovvero a recuperare un’identità nazionale condivisa. Questa è una delle speranze tradite della riunificazione, messa ancora più in crisi dall’avanzare della globalizzazione: facile per una forza come AfD, che fa della riscoperta e valorizzazione dell’identità tedesca uno dei suoi elementi forza, intercettare questi consensi» (Opiniojuris).
(2) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254. Einaudi 1970.
(3) Si trattò di una tendenza generale. Scriveva Paul Mattick nell’agosto del 1937: «Riassumendo, possiamo dunque individuare come caratteristica del presente sviluppo economico la tendenza verso la monopolizzazione, la concentrazione capitalistica e l’estensione del controllo statale. […] Sempre più evidente si fa, quindi, l’inevitabilità di una soluzione violenta delle difficoltà del capitalismo odierno, che solo attraverso l’eliminazione delle nazioni più deboli a vantaggio delle potenze capitalistiche più forti può sperare di prolungare la sua esistenza» ( in AA., VV., Capitalismo e fascismo verso la guerra, pp. 78-79, La Nuova Italia, 1976). Non dimentichiamo che anche John Maynard Keynes non mancò di lodare l’interventismo economico della Germania. «Ciò che il seguente libro intende illustrare, si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, piuttosto che a condizioni di libera concorrenza e di ampie misure di laissez-faire» (J. M. Keynes, Prefazione all’edizione tedesca del 1936 della General Theory). Non a caso, come ricorda la storica dell’economia Amity Shlaes ne L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione (Feltrinelli, 2011), i politici e gli intellettuali del New Deal guardavano con estremo interesse, chi alla Russia di Stalin, chi alla Germania di Hitler. Molti guardavano con simpatia a entrambi i regimi, non disdegnando nemmeno di studiare il promettente «caso italiano».
(4) «I 5 Stelle sono un patchwork, una combinazione delle caratteristiche di diversi “storici” movimenti populisti (argentino, peruviano, venezuelano, boliviano, brasiliano) che hanno prosperato per decenni in America Latina. Come i loro parenti latinoamericani, sono sorti per combattere la “oligarchia”, i ricchi, i potenti ( le caste). Come i loro parenti, sono statalisti e giustizialisti. Le loro politiche assistenzialiste, ridistributive, a favore dei descamisados, dei poveri, consentono a chi non va molto per il sottile di definirli “di sinistra”. Il loro antiparlamentarismo li accomuna a tanti movimenti del passato (non solo latinoamericani) sia di estrema sinistra che di estrema destra» (A. Panebianco, Il Corriere della Sera).
(5) «I trucchi retorici sono sempre gli stessi. […] Il pensiero rigido, stereotipato, e la ripetizione incessante costituiscono i mezzi della pubblicità di stile hitleriano. Essi smussano i modi di reazione, rendono a suo modo ovvio quel che è piattamente banale, e mettono fuori gioco le resistenze della coscienza critica. Da tutti questi discorsi e manualetti dell’odio si può così sceverare, proprio come nel caso della propaganda del Terzo Reich, un numero assai ristretto di trucchi impiegati di continuo, standardizzati e legati tra loro in modo meccanico» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, La personalità autoritaria, in AA. VV., La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, 2005).
(6) «Erano tempi grami per tutti, tranne forse per gli indovini, i maghi, i cartomanti e simili, che videro aumentare la clientela. […] Fritz Lang condivideva con altri registi dell’epoca un debole evidente per determinati temi: il suicidio, l’inesorabilità del fato, la pazzia, la morte. […] Tra le catastrofi recentissime e i pericoli della nuova civiltà tecnologica, non rimaneva molto posto per l’ottimismo» (W. Laqueur, La Repubblica di Weimar, pp. 291-294, Rizzoli, 1979).
(7) «Molto si discorre, e non senza ragione, della tecnica del dominio delle masse. Ma bisogna guardarsi dall’idea che i demagoghi che ne usano sorgano ai margini della società, e poi quasi per caso o mercé l’impiego abusivo di strumenti tecnici ottengono un potere sugli altri uomini, per il resto pacifici e giusti. […] Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato. […] In un mondo ampiamente dominato da leggi economiche su cui gli individui umani hanno ben poco potere, l’individuo è assai più impotente di quel che sappia confessarsi» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 95, Einaudi, 2004).
(8) Ecco l’ultima denuncia della “deriva autoritaria” che mi è capitato di leggere: «Le crisi svolgono essenzialmente una funzione maieutica, la loro arte è quella della levatrice, traggono fuori da noi ciò che già in noi era in germe, maturava. Piccole o grandi sono sempre apocalissi, che significa rivelazioni: ciò che si nascondeva dietro il sipario e che ancora ci sforzavamo di ignorare, ecco ora si palesa, inaggirabile, infuggibile. Si capisce allora la formidabile idiozia dell’interrogarsi se saremo migliori, peggiori o uguali a prima. […] L’epoca in cui ogni distanza deve venire meno, in cui appare intollerabile alla nostra ansia di simultaneità ogni confine spaziale, si specchia perfettamente nello slogan osceno del “social distancing”. La pandemia e l’esigenza di contrastarla non c’entrano nulla in quanto tali. Ciò che è rivelatore sono i modi in cui esse vengono narrate e gestite. […] L’attacco al ruolo delle assemblee rappresentative funziona perché queste assemblee non funzionano, e non funzionano da decenni. O i democratici sanno riformarle o vincerà chi democratico non è. Tertium non datur» (Massimo Cacciari, L’Espresso). Questo pianto riformista quasi mi commuove. Ho detto quasi.
(9) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 42, Savelli, 1978.
(10) Ivi, p. 55.