IL PASSAGGIO ALL’ATTO SECONDO MANUEL DE PEDROLO

Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole.
(F. Nietzsche).

Esistono delle situazioni – tragiche situazioni –
nelle quali è impossibile agire senza attirare su
di sé una colpa (G. Lukács).

Non c’è legge, vi dico. La città ne vuole una nuova…
Tutti si sono chiusi in casa, persino la polizia.
(M. De Pedrolo).

Quella che segue non è una recensione, ma una “libera” riflessione sollecitata dalla lettura del bel romanzo di Manuel De Pedrolo Atto di violenza (Paginaotto, 2020), finito dallo scrittore catalano nel 1961 e pubblicato solo dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975), dopo anni di ostinata censura da parte del regime (1). Nonostante tutto, l’opera di Pedrolo vince il premio Prudenci Bertrana nel 1968 con un titolo differente ma molto significativo ed evocativo: Estat d’excepció. Ed è un vero e proprio stato di eccezione che si realizza nella città “immaginaria” governata con il pugno di ferro dal Giudice Domina; una lacerazione nel tessuto della normalità che si compie sotto l’egida di una parola d’ordine tanto semplice quanto socialmente “impattante”: «È molto semplice: restate tutti a casa». Qui forse trovano appiglio le parole di Slavoj Žižek tratte da un suo saggio del 2007: «Talvolta, non fare nulla è la cosa più violenta da fare. Meglio non fare nulla che impegnarsi in atti che in definitiva servono a far funzionare meglio il sistema».

L’intellettuale sloveno non alludeva all’astensione dal lavoro, come nel caso presentato da Atto di violenza, ma a quella dal voto: «L’astensione dal voto si pone come un autentico atto politico: ci obbliga a confrontarci con la vacuità delle odierne democrazie» (La violenza invisibile, Rizzoli, 2008). Personalmente sono da sempre un “astensionista strategico” e un critico radicale della democrazia capitalistica, e quindi non faccio fatica a comprendere la «vacuità delle odierne democrazie» di cui parla Žižek e la straordinaria portata politica dell’idea da egli fatta balenare – peraltro sulla scia di un romanzo di Josè Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2004), nel quale si narra appunto di una tornata elettorale che, tra astensionismo e schede nulle, evoca agli occhi dei politici (tanto di “destra” quanto di “sinistra”) lo spettro della delegittimazione del sistema democratico nel suo insieme.

Il romanzo di De Pedrolo e il saggio di Žižek mettono insomma al centro della riflessione la violenza oggettiva del Potere, sia quella visibile, legata immediatamente al potere politico e ai suoi “dispositivi” di controllo e di repressione, sia quella invisibile, della quale «è necessario tenere conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni “irrazionali” di violenza soggettiva» (La violenza invisibile). La realtà è che il corpo sociale trasuda violenza sistemica (politica, fisica, psicologica, “esistenziale”) da tutti i pori, in alto come in basso, al centro come alla sua periferia e, cosa molto difficile da accettare per il pensiero comune, con stringente necessità. È con questa verità davvero sconvolgente che ci confrontiamo tutti i giorni. Il fatto che nella routine quotidiana appariamo tutt’altro che sconvolti, è forse l’elemento più inquietante della nostra attuale tragica condizione umana – e di certo ciò che alimenta il sempre più rigoglioso commercio di psicofarmaci e il mercato delle razionalizzazioni “pur che sia”. Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene». Ma qui si divaga! Forse.

Il luogo (o location, visto il «taglio quasi cinematografico» del racconto) immaginato da Pedrolo per la sua storia ricorda molto da vicino la Spagna (soprattutto ricorda Barcellona) alle prese con il tardo franchismo, un regime desideroso, per così dire, di avviare una stagione di “riforme” sociali e politiche necessarie alla modernizzazione capitalistica del Paese e alla stessa sopravvivenza di una classe dirigente che sente di non aver più alcuna solida base sociale su cui contare né una sponda politica internazionale che le facesse da supporto e da scudo; un regime ormai declinante eppure ancora così violentemente repressivo nei confronti degli oppositori politici e sociali. “Riformismo”, certo, ma dall’alto e con giudizio. La “lunga transizione” alla democrazia in Spagna non fu certo un pranzo di gala, sebbene l’epoca franchista si concludesse in modo abbastanza ridicolo, cioè con il fallito golpe del 23 febbraio 1981. Mi fa ancora ridere il ricordo del tenente colonnello Antonio Tejero Molina che si aggira spaesato alla Camera dei deputati di Madrid mentre agita nervosamente la pistola d’ordinanza in direzione dei deputati che cercano riparo sotto i loro scranni. Il poverino, esponente fantasmatico di una Spagna che non esisteva più, non solo scambiò la Camera dei deputati per il vero centro del Potere, ma soprattutto non capì come l’Esercito spagnolo, del quale credeva di essere un’avanguardia, fosse diventato lo strumento e il supporto di una borghesia desiderosa di partecipare al grande gioco del business globale, e sicuramente di quello europeo – magari sotto le ali protettive della Germania (2).

«Caratterizzato fortemente dai temi della disobbedienza civile, dello sciopero e del conflitto, Acte de violència non solo si scontra con lo zelo censorio del regime ma non si trova in sintonia neppure con l’opposizione rappresentata dal PCE, ormai passato a sostenere la politica di riconciliazione nazionale» (Catalunyasenzarticolo). E dove c’è «riconciliazione nazionale», c’è reazione, controrivoluzione, conservazione sociale, e su questo terreno franchismo e stalinismo (con caratteristiche spagnole) si davano la mano. La stessa cosa vale per l’Italia e per il PCI, beninteso.

Nelle pagine di Atto di violenza viene insomma fuori con forza il violento tramonto di un’epoca. Scrive Paco Camara su Courmayeur noir in festival: «Franco muore il 20 Novembre 1975 (quel giorno ci fu il massimo consumo di champagne di tutta la storia della Spagna), ma non si può dimenticare che soltanto due mesi prima aveva firmato ancora cinque condanne a morte. Cinque antifranchisti morirono fucilati». L’ultimo ordine impartito dal Giudice Domina in fuga dalla città insubordinata descritta da De Pedrolo riguarda la fucilazione di un giornalista: «Un uomo come me non si può permettere debolezze! Né adesso né mai! Non voglio che la storia mi giudichi per un’azione da perdente. Fucilatelo». Non sappiamo se l’ordine è stato eseguito dagli ex collaboratori di un perdente che non vuole arrendersi alla realtà: «Non sto scappando! Ho pianificato tutto, ricomincerò come quindici anni fa, dalle montagne se necessario…». Ci penserà, suo malgrado, Batxera, l’autista incaricato di mettere in salvo l’ex uomo forte in fuga, a mettere fine alla vicenda del Giudice Domina con la sola pistolettata che De Pedrolo concede nel suo racconto a favore dei subordinati. «Ero pronto a portarla alla Casetta Verde, alla frontiera, dove avesse voluto. Non ho mai avuto l’intenzione di ucciderla. […]«Perché non ha scelto di andare via davvero? Perché? Perché questa ambizione distruttiva? La città non vuole sangue, vuole vivere…». Poi la pistola che impugna Batxera si abbassa verso il «maledetto vigliacco» che adesso implora clemenza mentre anche il cielo piange, non si sa per tristezza o per gioia; parte un colpo, poi «una seconda vampa esplode, precisa e totale, nell’oscurità della sua carne lontana, che non sentirà mai più la pioggia».

«È molto semplice: restate tutti a casa»: come suona male, malissimo, questa “parola d’ordine” in tempi di pandemia e di segregazione domiciliare imposta alla gente dal governo! Lo stesso effetto deve aver fatto ad Alberto Prunetti, il quale nella sua Postfazione al racconto di De Pedrolo scrive: «Chiudo questo prologo pensando alle strade vuote dei giorni del Covid. Non è l’idea di Atto di violenza ma sarà impossibile, sfogliandolo, che certi ricordi recenti del nostro confino domestico non vengano a galla. Leggiamo De Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa». Stando in casa oppure altrove (nelle strade, nei posti di lavoro, ovunque esercitiamo le nostre molteplici attività lavorative e ricreative) rifiutiamoci di collaborare con il Potere: «Per vedere l’effetto che fa»! In ogni caso, lo stare in casa del libro in questione si configura come un atto di insubordinazione e di liberazione, anche psicologica, non certo di confinamento obbligato (o lockdown, nella sua espressione “neutrale”, cioè ipocrita) come quello che ci tocca vivere in questi cupi giorni. «A pensarci bene, è ammirevole che, impauriti o no, tutti quanti abbiamo deciso di ribellarci al Giudice. Perché questa è ribellione»: come invidio i ribelli di De Pedrolo!

Come si può immaginare oggi una rivoluzione sociale? Credo che il libro di De Pedrolo abbia a che fare, di fatto, “oggettivamente”, attraverso i mille fili invisibili che legano le esperienze del passato a quelle del presente, con questa domanda di eccezionale portata storica, sociale e politica. Questo libro ha a che fare anche con la risposta a questa domanda così impegnativa? Questo non so dirlo, anche perché la trasformazione sociale che aveva in testa il suo autore è probabilmente molto diversa da quella che ho in testa io; nondimeno subisco il fascino dell’idea che sta al centro di questo romanzo “utopico”: l’azione di insubordinazione collettiva che disorienta il Potere e gli toglie qualsiasi fondamento sociale, qualsiasi legittimazione politica o di altro tipo. Certo, poi si tratta, appunto, di precisare la natura di questo potere, di chiarire come dovremmo “declinarlo” per averne un’adeguata comprensione; e si tratterebbe anche di chiarire in vista di che cosa intendiamo superare lo stato di cose esistente, o Potere che dir si voglia. Ma entrare nel merito di queste importanti “problematiche” ci condurrebbe, forse, troppo fuori tema, e di certo non mancherà occasione di ritornarci sopra – anche perché i miei modesti scritti non sono che una variazione su un unico tema: la vigenza del Dominio e la possibilità di metterlo definitivamente fuori dalla dimensione storica. Ho scritto Dominio, non Domina.

Leggendo il romanzo di Manuel De Pedrolo, mi è tornato subito alla mente quello che scrisse Marx in una sua lettera a L. Kugelmann datata 11 luglio 1868: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa». In fondo, di cosa parla essenzialmente il libro di De Pedrolo se non di una sospensione generale del lavoro orientata a rendere impraticabile la vita normale di una comunità, e per questa via privare il potere politico di ogni sua ragion d’essere, e così costringerlo ad abbandonare la scena? Disertare le fabbriche, disertare gli uffici, disertare le scuole, disertare i negozi e ogni altra attività che possa in qualche modo sostenere, appunto, la normalità del vivere e con essa il Potere che se ne nutre. Astenendosi dal lavoro, il “popolo” apre di fatto, “oggettivamente”, le porte all’evento eccezionale che improvvisamente svuota di contenuti sostanziali il regime, che ad un tratto scopre di essere un colosso dai piedi d’argilla. La tradizione cinese parla di «revoca del mandato popolare». Purtroppo i limiti di questa revoca stavano nel fatto che a un Imperatore “revocato” (spesso con la violenza) dal popolo seguiva un altro Imperatore, e così via lungo i secoli e sempre sotto l’attenta sorveglianza delle Potenze Celesti, perché da quando si dà storia delle civiltà tutto ciò che accade, accade sotto il Cielo – del Dominio. Chi prenderà il posto del Giudice Domina, caduto in disgrazia dopo quindici anni di incontrastato potere? Questo non lo sapremo mai!

Su quegli anni “controversi” conosciamo però il giudizio di Tara, un capitalista di “destra” alle prese con lo sciopero dei suoi operai: «Mai, sentimi bene, mai c’era stata una legislazione tanto progressista! Durante i quindici anni di cui parli abbiamo fatto un balzo in avanti che neppure i più ottimisti si azzardavano a sperare». Tara discute con il suo socio Bran, un capitalista di “sinistra”, il quale ascoltando l’adirato collega ride e scuote il capo: «No, Tara, no! Queste sono tutte chiacchiere. Per progresso sociale intendo non solamente il miglioramento delle condizioni materiali degli operai e di tutti quanti. […] L’uomo non vive di solo pane… Persino noi vogliamo qualcosa di più». Perle di saggezza progressista che però non schioderanno il collega reazionario dalle sue convinzioni, peraltro subito soddisfatte dall’arrivo della polizia nella fabbrica vuota di operai: «Tenente Orsia, delle forze di polizia. Abbiamo l’ordine di fare un rapporto su tutti i vostri operai che non si sono presentati al lavoro». Tara non si fa pregare: «”Sì. Entrate, entrate!”. Mentre l’altro poliziotto accosta la porta alle sue spalle, il tenente spiega: “L’ordine non riguarda soltanto la sua azienda, signor Flixa; sono stati presi provvedimenti per tutte le imprese con più di cinquanta Lavoratori”. Il sorriso di Tara si accentua.“Naturalmente. E, se me lo consente, le dirò che era ora”. Indica le poltrone. “Ma, prego, accomodatevi mentre cerchiamo l’elenco del personale”». Questo significa essere collaborativi!

Nella fabbrica di Tara e Bran si sono presentati «solo tre operai»: «Nel capannone non c’è anima viva. Solo decine e decine di macchine da scrivere, in diverse fasi di montaggio, giacciono allineate sui banchi degli operai, accanto a mucchi di pezzi e di arnesi invecchiati dall’uso». Tutto profitto andato a male. «Quale triste logorio morale del capitale!», avrebbe chiosato ironicamente l’ubriacone di Treviri dinanzi a una siffatta «distruzione di capitale»: «In quanto il processo di produzione si arresta e il processo lavorativo viene limitato o, in certi luoghi, completamente fermato, vi è distruzione di capitale reale. Il macchinario, che non viene usato, non è capitale. Il lavoro, che non viene sfruttato, equivale a una perdita di produzione. Le materie prime, che giacciono inutilizzate, non sono capitale. I valori d’uso (come pure le macchine di nuova costruzione), che restano o inutilizzati o incompiuti, le merci che imputridiscono nei magazzini, tutto ciò è una distruzione di capitale. [..]. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio se ne vanno al diavolo» (Il Capitale, II). Si può dunque rimproverare Tara per il suo zelo collaborativo? «È grazie al Giudice che c’è disciplina e possiamo lavorare senza la paura di disordini», osserva senza tanti fronzoli “progressisti” il nostro «funzionario personificato del capitale» (Marx). Ciò che invano cerca di fargli capire il collega “progressista” , Bran, è che l’ordine sociale, che per un capitalista è di gran lunga il genere di ordine che occorre preservare a tutti i costi, va tutelato in modo “intelligente”, “pragmatico”, adeguato alle contingenze, in altre parole tenendo conto dei cambiamenti che si verificano nella società, nella sua “struttura” come nella sua “sovrastruttura”. «Questo istinto di conservazione ci ha fatto guadagnare quindici anni», osserva Bran, ma adesso è venuto il momento di cambiare pelle, non certo natura. Non si tratta di una libera scelta, ma di un fatto che si impone alla volontà dei due capitalisti, a quello “buono” come a quello “cattivo”, con assoluta necessità, se vogliono continuare a smungere con una certa serenità la vacca del profitto. Questa assoluta necessità è vissuta da chi non vuole mutamenti sociali e politici significativi come un vero e proprio atto di violenza.

Anche lo sciopero della fame condotto fino alle estreme conseguenze, ad esempio dai detenuti per ottenere migliori condizioni di detenzione, estrema forma di lotta che esprime un’incolmabile squilibrio di forza tra lo Stato e chi ne subisce l’oppressione, è spesso condannato dai governanti come un atto di violenza: «Ma così ci ricattate, ci sparate contro il vostro stesso corpo, e venite a parlarci di pacifica disobbedienza civile!» Evidentemente il concetto di violenza si presta a diverse letture; come sempre, è una questione di punti di vista – e di interessi.

A proposito: chi ha dato l’ordine di sospendere in modo generalizzato e a oltranza il lavoro, così da paralizzare qualsiasi attività economica? A quanto pare nessuno. E com’è possibile? Qualcuno avrà pure scritto l’ordine di rimanere tutti a casa! Dove c’è un muro si legge la famosa, o famigerata, scritta. Anche i muri delle toilette non vengono risparmiati: «Mentre si sbottona la patta dei pantaloni legge la frase che qualcuno ha scritto sulle mattonelle bianche: “È molto semplice: restate a casa”, scuote il capo e, mentre orina, fruga nella tasca interna della giacca in cerca della matita che porta sempre con sé. Si riabbottona, con una mano sola. Poi, inclinato sulla tazza, aggiunge un “tutti” alla frase, cercando di imitare la grafia dello sconosciuto». Restate tutti a casa: suona meglio! Va bene, ma chi è stato il primo a pensare, a dire e a scrivere quell’idea diventata tanto popolare (virale!) in così poco tempo?

Insomma, chi c’è dietro la cosa cospirativa? O si tratta forse di un movimento spontaneo? Tara, a differenza di Bran, non lo crede possibile: «Spontaneo? Non farmi ridere! Credi davvero che qualche migliaio, qualche milione di persone possano mettersi d’accordo in questa maniera… Spontanea? Sicuramente c’è qualcuno dietro. Vedrai se non è così! Tutte le cose hanno un motivo e qui, come ovunque, ci sono interessi privati, inconfessabili, che si servono di quei disgraziati per i loro scopi». Per Tara i «disgraziati» che se ne stanno a casa ad annoiarsi e a non guadagnare sono essi stessi vittime di qualcuno che persegue «interessi privati, inconfessabili»: è la logica del potere che parla con la bocca del capitalista smaliziato. E poi, quando mai gente che si accontenta di portare a casa la pagnotta quotidiana, magari mentre esalta la propria squadra di calcio e sputa sulle altre, è stata in grado di simili azioni generalizzate, coordinate e organizzate? Anche Domina naturalmente è dello stesso parere: «I popoli sono incapaci di prendere iniziative se nessuno li dirige. La storia ce lo dimostra chiaramente». Eppure questa volta sembra che la spontaneità delle masse abbia avuto la meglio sul “momento organizzativo” e sulla stessa storia!

La natura astratta – inafferrabile, impalpabile, eppure tremendamente concreta – del dominio sociale capitalistico forse ha qualcosa a che fare con il carattere anonimo dell’insubordinazione raccontata da De Pedrolo. Forse. C’è da riflettere anche sul fatto che ai tempi in cui egli scriveva il suo libro non c’era niente che possa far ricordare i nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai cosiddetti “social”. Forse è proprio per questo che una singola “parola d’ordine” è potuta diventare, nella sua asciutta semplicità, così potente e dirompente? Non sono in grado di dire cose intelligenti su questo punto – perché, sul resto?

Il dottor Morns, dopo aver visitato una giovane donna ferita dalla polizia, «va verso il lavabo, apre il rubinetto. Ma [l’infermiera] interviene: “Attenzione, dottore. Quando i serbatoi si saranno svuotati non avremo neanche l’acqua”». Chissà come sono messi ad alcol, Amuchina e a dispositivi sanitari di vario genere: occhio ai virus! Ma che dico! Purtroppo l’attualità si infila da tutte le parti: mi scuso! La benzina è finita, quasi tutti i negozi sono chiusi perché non hanno più nulla da vendere («La maggior parte delle famiglie si è attrezzata per resistere a questo strano assedio e già da giorni ha fatto scorte, al punto che molti negozi di alimentari e affini sono ormai vuoti»); scarseggia il cibo, le scuole sono chiuse. «I miracoli non li so fare», confessa il cuoco Pots al vecchio cameriere Carbi, entrambi “crumiri” evidentemente; «Non c’è gas, non c’è energia, non abbiamo quasi più legna, manca il carbone. E il cibo? Cosa vuole che cucini se non c’è niente?». «Questo si chiama fare le cose per bene…».

D’altra parte, se tutti si astengono dal lavoro, “materiale” e “immateriale”, chi produce e commercializza i “beni e servizi” di cui una società ha quotidianamente bisogno? Nessuno, è ovvio! Chi c’è lungo le strade della città insubordinata? Nessuno. Chi c’è nelle fabbriche? Nessuno. E negli uffici? Nessuno! «Non si può nemmeno telefonare al paese accanto. Non c’è nessuno!» Si materializza insomma una condizione che potremmo chiamare, appunto, Niente e Nessuno; una contingenza straordinaria in grado di mettere il Potere (peraltro ancora tutto da decifrare quanto a natura) con le spalle al muro. Nessuno decide di non ubbidire più al Potere e con questa sola decisione ne minaccia la continuità. Ricordate la “suggestiva” vicenda di Polifemo e Odisseo? «Amici, Nessuno mi vuol uccidere per via d’inganni e non con la forza». Chi vinse dunque il possente ciclope con la sola forza dell’intelletto? «Nessuno fu». Parola di Omero. «La rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima», disse una volta Amadeo Bordiga, il “vero fondatore” del PC d’Italia (Livorno 1921); e aggiunse: «Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire». Accostare Bordiga a De Pedrolo può suonare ideologicamente “blasfemo” ed “esteticamente” dissonante, ed è esattamente per questo che al mio bizzarro orecchio la cosa suona benissimo! Nessuno deve arrivare: chissà se, alla fine, Nessuno arriverà…

Il treno non si muove, la stazione è praticamente deserta di viaggiatori indaffarati con i riti della partenza: biglietti da pagare, valigie da spostare, richieste di informazione da formulare, qualche panino da addentare frettolosamente. Niente di tutto questo. «Tutti. Macchinista, fuochista, bigliettaio… hanno abbandonato tutti il treno». E non c’è uno straccio di macchina che supplisca alla bisogna, né locande che possano ospitare anche solo per poche ore i pochi e stanchi viaggiatori presenti nella stazione. Uno di questi si lamenta: «Capisco che il personale delle ferrovie sia solidale con tutta la popolazione. Io stesso, e immagino anche voi, stavo tornando a casa prima di aver finito il mio giro per collaborare, per essere uno di più… Ma questi stronzi potevano almeno arrivare in città per non creare problemi a nessuno». Ma il disservizio è implicito nel concetto stesso di sciopero, direbbe a questo punto un sociologo. «Forse vivono qui», azzarda un «omone». Non si sa. Improvvisamente il silenzio è rotto da «violenti colpi, accompagnati da un brusio di voci concitate». Alcune persone cercano di forzare la porta del bar della stazione: «Le otto mani stringono forte la sbarra e il rappresentante comincia a contare: “Uno… due… e tre!”». Quantomeno si può bere e mangiare qualcosa alla faccia dell’ordine costituito. Non si vive di sola disobbedienza civile!

Il professor Jurt Nadia invece non approva l’azione; secondo lui quell’«atto di vandalismo» ai danni del bar non si armonizza con lo spirito della pacifica e civile insubordinazione ai danni del Giudice Domina. «Una delle donne fa: “Se le Ferrovie ci hanno abbandonati in questo posto sperduto è naturale che cerchiamo di difenderci”. L’uomo maturo la appoggia: “Ha ragione. Qui ci deve essere da mangiare e da bere. Perché dovremmo digiunare?”». Già, perché? «Ma possibile che nessuno si renda conto che, comportandoci così, ci mettiamo allo stesso livello della mentalità che stiamo combattendo?». «”Si spieghi meglio!”, esclama un’altra delle donne». A questo punto subentra nella discussione Job, l’amico di Jurt (i due si sono incontrati nella sala d’attesa della stazione casualmente): «Sappiamo tutti che, in molti quartieri, la polizia e i soldati sono intervenuti per sfondare le porte dei negozi che avevano chiuso e fare irruzione nelle case… Anche se la finalità è diversa, i procedimenti sono gli stessi. È questo che voleva dire il mio amico». Ciò che per Job e Jurt conta è salvaguardare il carattere pacifico della «resistenza passiva», ed estendere questo carattere a tutte le azioni che in qualche modo hanno a che fare con quella forma di lotta.

«Dobbiamo evitare a ogni costo che questa resistenza passiva venga stravolta da momenti di impazienza, malumori o difficoltà momentanee. Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta. Sì, avete ragione. È un episodio minimo che coinvolge appena una decina di persone in un posto fuori dal mondo. E che, lo ammetto, non ha nessuna importanza. Ma non ci siamo soltanto noi. Qui, là, ovunque, ci sono gruppetti, alcuni addirittura più piccoli del nostro, che si trovano di fronte a tentazioni molto simili. Ora, se ciascuno di quei gruppi si convince che ciò che fa non conta, perché è un atto isolato, irrilevante nell’insieme delle cose, alla fine potremmo scoprire che la società intera si è allontanata da una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa…». L’”intellettuale” della situazione alla fine riesce a convincere gli affamati e arrabbiati viaggiatori: «”Tutti abbiamo capito. Non siamo così ignoranti”…. Quello con la sciarpa rossa, accigliato come se stesse facendo un grosso sforzo di concentrazione, interviene: “Adesso quello che manca è che in ciascun gruppo ci sia una persona come voi per mettere le cose in carreggiata…”». La funzione sociale dell’intellettuale dissidente trova qui una puntuale conferma, per la grande soddisfazione di Job: «Per fortuna qui quella persona l’abbiamo». Si decide di comune accordo di richiudere la porta del bar appena sfondata: «”Forse io vi posso aiutare. Sono fabbro”. Scoppiano tutti a ridere di cuore».

A proposito di cuore, non c’è dubbio che abbiamo appena toccato, almeno credo, il cuore politico ed etico che pulsa nelle pagine di Atto di violenza. Alludo alla scottante questione circa la relazione che stringe, o dovrebbe farlo, i mezzi ai fini. Anche il problema della responsabilità individuale nel contesto di un’azione collettiva è senza dubbio evocato, eccome.

«Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi», soleva dire giustamente Friedrich Nietzsche. E non c’è dubbio che tra lo scopo che si persegue e i mezzi idonei a praticarlo deve insistere una qualche “relazione dialettica”; si tratta di precisare, magari attraverso una serie di approssimazioni, i termini teorici e politici di questa relazione. Ad esempio, in che senso e fino a che punto i mezzi devono – e possono – essere adeguati allo scopo che si vuole conseguire? Di più, e più radicalmente: è possibile una tale corrispondenza? De Pedrolo immagina un’insubordinazione generale nei termini di «un’azione solidale e passiva a braccia incrociate»; argomenta il professor Jurt: «Adottare i procedimenti propri del nemico ci equipara moralmente al nemico stesso e, di conseguenza, indebolisce le nostre posizioni. Avere ragione, essere i migliori, non è una questione di forza bruta. […] Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta». La non-violenza è «una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa». È un punto di vista che ovviamente rispetto ma che mi sembra passibile di un approfondimento critico. La stessa conclusione della storia narrata da De Pedrolo credo che spinga in quel senso. Commenta  Prunetti nella sua Postfazione: «Il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla. Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza. Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere». Sembra insomma che la ribellione non possa fare a meno di misurarsi con il problema della violenza.

Scriveva György Lukács nel 1919: «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa» (Tattica ed etica) Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, credo che questa considerazione valga anche per quello che possiamo chiamare “diritto rivoluzionario”: il diritto dei dominati alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione e il diritto generato dalla rivoluzione trionfante – si spera… In altri termini, la rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada, si può “gestire” al meglio, quanto di cattivo, anche moralmente ed eticamente parlando, cercherà di insinuarsi nel processo rivoluzionario. Ma su questa importantissima e assai divisiva “problematica” rinvio a due miei scritti: L’Angelo Nero sfida il Dominio e Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano. Concludo questa riflessione, già fin troppo lunga, dicendo che bisogna porre – anche – la relazione mezzi-fini su un terreno non ideologico, perché l’ideologia fa delle convinzioni, perfino di quelle che consideriamo giuste, una prigione che non permette al pensiero critico-radicale di trovare le risposte adeguate ai problemi che esso si trova a dover affrontare nella realtà, e non nel cielo degli astratti principi.

 

(1) Durante la Guerra civile spagnola, Manuel de Pedrolo combatté per la Repubblica tra gli anarcosindacalisti e fu maestro rurale in una zona mineraria. «Marxista eterodosso e deciso sostenitore dell’indipendenza di Catalunya, per Manuel Pedrolo la liberazione di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia. In questa prospettiva Pedrolo si esprime chiaramente in un’intervista televisiva realizzata nel 1983: “Ciò che sembra intollerabile è che partiti che in principio sostengono la libertà, la libertà per tutti, nel senso di liberare i lavoratori dal loro giogo, liberare le donne dal loro giogo (che esiste), liberare le razze e liberare anche i popoli, quando si tratta di liberare una porzione di questo concetto geografico chiamato Spagna che non si accorda con la cultura spagnola perché ne ha un’altra, che ha un’altra lingua e che perciò non ha motivo di adottare quella spagnola, allora questi stessi partiti girano la schiena e dimenticano tutto ciò che significa libertà”. Un vero e proprio invito alla riflessione, rivolto a quella parte della sinistra che ancora si mostra scettica sulla repubblica catalana e sull’indipendenza dei Països Catalans, oggi più che mai all’ordine del giorno» (Catalunyasenzarticolo). Sulla questione catalana ho scritto diversi post, ai quali rimando chi fosse interessato alla mia opinione in materia.
(2) « Dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna è sottoposta dalla comunità internazionale a misure di ritorsione politiche ed economiche a causa del suo regime autoritario. Il suo isolamento viene spezzato dagli Stati Uniti che, nel 1953, stipulano con il paese un accordo bilaterale per l’installazione di basi militari. Nella seconda metà degli anni cinquanta la Spagna viene ammessa nell’organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel 1962 avanza una richiesta di ingresso nella Comunità Economica Europea. Il timore di una contrazione delle esportazioni agricole della Spagna verso i Paesi della Comunità, a seguito della politica agricola protezionista dei sei, ha un peso importante nell’indurre il paese a questo passo. La Comunità, considerando l’adesione ai principi democratici come prerequisito indispensabile per l’ammissione di nuovi membri respinge la richiesta, ma stipula più tardi (1970) con il paese un accordo preferenziale di tipo economico. Dopo la costituzione della Junta democratica (1975), il dialogo con la Comunità viene ripreso. Nel 1986 la Spagna diventa, assieme al Portogallo, membro della Comunità Europea» (PuntoEuropa).

RADICALISMO E REPRESSIONE A HONG KONG

Nella sua rubrica dedicata alla stampa e alla blogsfera cinese che tiene su Radio Radicale, Francesco Radicioni ha ospitato Gaia Perini, sinologa e docente di lingua e letteratura cinese all’Università di Bologna. Radicioni ha invitato la Perini ad analizzare il movimento di lotta hongkonghese anche alla luce dell’entrata ufficialmente in vigore, il primo luglio scorso, della nuova Legge sulla sicurezza nazionale, la quale estendendo a Hong Kong la legislazione e la prassi di controllo e repressione sociale in vigore sul continente cinese, rappresenta un brusco e forte giro di vite nella gestione della questione hongkonghese. Quella che segue è una trascrizione sintetica dell’interessante intervista. Mi scuso se nella sintesi ho sacrificato un po’ di chiarezza.

La narrazione del regine cinese è stata naturalmente caratterizzata da una forte propaganda filocinese che ha cercato di sminuire la portata del movimento di lotta attivo ormai da molto tempo a Hong Kong, il quale peraltro ha coinvolto 2 milioni di persone su una popolazione di 7,5 milioni, il che non è poco. Non si tratta certo di una “teppa” senza né capo né coda, come sostiene il regime, ma di un largo movimento che aspirava a un riconoscimento politico. Col tempo la sua criminalizzazione ad opera di Pechino è cresciuta: i manifestanti sono qualificati come violenti, rissosi, banditi, privi di principi morali, terroristi. L’accusa di terrorismo ci dice dell’incapacità del regime cinese di avere a che fare con il dissenso e rinvia al garbuglio di dinamiche tra centro e periferia che vediamo in azione ad esempio nello Xinjiang e in Tibet, e in questo senso si connette anche alla formazione della moderna nazione cinese, con il difficile passaggio dal vecchio Impero, dalla vecchia costituzione imperiale, al moderno Stato-Nazione che da cento e più anni la Cina ha abbracciato come propria forma istituzionale e politica. Ma non si è trattato assolutamente di un passaggio naturale, e comporta ancora forti tensioni sociali, non solo, a dire il vero, tra centro e periferia, ma anche nelle parti centrali del Paese. Veniamo al movimento hongkonghese.

I media occidentali e quelli cinesi hanno appiattito il movimento su due letture opposte: o movimento filo-democratico oppure movimento filo-terrorista, una rivolta fine a se stessa. Si tratta in realtà di un movimento estremamente composito che raccoglie la rabbia di molti gruppi e strati sociali. Al suo interno si possono individuare almeno tre grandi gruppi. C’è il fronte democratico che ha come suo modello l’Occidente, che lotta per i diritti umani, e che è la componente più conosciuta dalle nostre parti. C’è poi la gioventù radicale, giovani molto radicalizzati bardati di nero per non farsi riconoscere dalle forze di polizia. Il regime di Pechino ha parlato di “terrorismo nero” per screditare e criminalizzare questo gruppo, il quale si fa vettore consapevole di una grossa tensione sociale dovuta alle crescenti diseguaglianze di una società che almeno dal 2001, cioè dall’ingresso della Cina nel WTO, è stata sballottata tra due poli: da hub privilegiato dell’ingresso e dell’uscita delle merci cinesi verso il mondo occidentale, a centro iper finanziarizzato dove la ricchezza è raramente distribuita secondo criteri di equità, e che si vede scavalcato da questo gigante che è la Cina, la quale decide al posto della popolazione di Hong Kong. Questa gioventù radicalizzata che raccoglie gran parte della rabbia sociale comprende al suo interno un vasto insieme di idee e di riferimenti culturali, che vanno dall’anarchismo sino alle spinte nazionalistiche ed eventualmente xenofobe.

Come terzo gruppo ci sono poi i nativisti e localisti, che costituiscono una frangia senz’altro xenofoba che chiama locuste (*) i cinesi del continente, rivendica un’identità hongkonghese basata sul cantonese e che rigetta qualsiasi idea di una Cina come unione comunitaria di diverse realtà etniche e culturali.

Infine, ma da non sottovalutare assolutamente, anche per i numeri, occorre considerare gli operai e gli attivisti sindacali, i sindacalisti che in realtà erano attivi da ben prima, e che hanno sempre sfruttato questa loro posizione a Hong Kong per monitorare tutto il grande spazio industriale del Guandong, con i suoi grandissimi distretti industriali, per poterne scrivere e svolgere un’attività sindacale resa possibile appunto dalle maggiori libertà che hanno goduto a Hong Kong. Insomma, Hong Kong è stata anche la torre di guardia, il punto di osservazione privilegiato per l’attivismo sindacale, anche grazie alla sua prossimità geografica con il Guandong, cosa che rende possibile un’unità d’intenti con gli attivisti della Cina continentale. Va infatti detto che nel corso del 2019 sono state fondate 25 unità sindacali, delle Unions, da attivisti hongkonghesi e continentali, e molte altre sono nate all’inizio del 2020. Certamente la nuova legge sulla sicurezza nazionale mette il bavaglio agli attivisti sindacali, con conseguenze non felici sull’attivismo in genere, però d’altra parte, e paradossalmente, questo fatto potrebbe parificare la condizione degli operai della Cina continentale con la forza lavoro che si trova a Hong Kong, facilitandone l’unione.

È quello che ad esempio sostiene il collettivo Lau Xjan [non so se ho scritto correttamente il nome], il quale è molto attivo e che possiamo collocare nella prima linea della gioventù radicale. Questo collettivo spinge molto per un’internalizzazione delle lotte e del dissenso, e addirittura ricerca un’unione e uno scambio di strategie di lotta con il Black Lives Matter e con altri gruppi statunitensi che ovviamente sono critici nei confronti delle politiche degli Stati Uniti. E quindi non si direbbe che quel collettivo sia venduto agli interessi dell’imperialismo americano…

Sul profilo Facebook della sinologa qui citata leggo quanto segue: «Lettura lunga ma merita [si tratta di un post da lei linkato il 5 luglio], anche e soprattutto perché va ben al di là del tema del nazionalismo dei cinesi residenti all’estero, sconfinando in quel campo che almeno per la sottoscritta è una grande sfida, teorica e politica, ossia: come si costruisce un discorso sulla Cina contemporanea da una prospettiva di sinistra, lontana anni luce dall’anticomunismo viscerale della stampa mainstream anglosassone ma anche, parimenti distante dalle teorie dell’eccezionalismo cinese (你们老外不懂)e soprattutto in fuga dal tabellone del risiko geopolitico, o forse gioco dell’oca, in cui se non mangi la minestra di Pechino, puoi solo saltare dalla finestra di Washington…». Come sanno i miei – ahimè pochi – lettori a mio avviso è possibile avversare nel modo più radicale il regime (non il “popolo”, o la straordinaria cultura) cinese senza scadere necessariamente nell’anticomunismo e nel fiancheggiamento (“oggettivo”) dell’imperialismo occidentale, a partire ovviamente da quello americano. Questo soprattutto perché il regime cinese non ha mai avuto niente a che fare con il comunismo, neanche ai tempi di Mao Tse-tung, eroe della Rivoluzione borghese-nazionale culminata nell’Ottobre del 1949 con la proclamazione della cosiddetta Repubblica Popolare Cinese. Non c’è dubbio (almeno per chi scrive): la minestra cucinata a Pechino dal Partito-Stato (o Partito Capitalista Cinese) va gettata senza alcuna remora nella pattumiera, là dove sguazzano i tifosi del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

(*) «È incontestabile il fatto che ai continentali sia stato affibbiato il nomignolo di “locuste”, per sottolineare il carattere predatorio e le modalità non del tutto pulite con cui costoro conducono i loro affari nella Regione a statuto speciale; tuttavia la natura stessa dell’insulto svela la sua radice economica e politica, più che etnica, suggerendo quindi come pure la più accesa intolleranza in realtà origini da circostanze storiche recenti, dai mutamenti socioeconomici avvenuti nell’ultimo ventennio, e non da fattori culturali di lungo corso. Gli abitanti di Hong Kong, infatti, appartengono prevalentemente alla stessa etnia cinese Han e solo una limitata (ancorché significativa) minoranza proviene da altri gruppi (Hakka, per esempio, o si pensi anche alla forza lavoro migrante giunta dalle Filippine e dall’Indonesia)» (G. Perini, Territorio, autodeterminazione e/o rivoluzione: dalla Pechino del 4 maggio 1919 alla Hong Kong del 2019).

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

Chi non vuole parlare di capitalismo non deve
parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine
totalitario non è altro che l’ordine precedente
senza i suoi freni. […] Oggi combattere il
fascismo richiamandosi al pensiero liberale
significa appellarsi all’istanza attraverso cui
il fascismo ha vinto (Max Horkheimer).

Ho letto l’interessante breve saggio sugli Aspetti del nuovo radicalismo di destra (Marsilio, 2020) ricavato dalla registrazione di una conferenza che Theodor W. Adorno tenne il 6 aprile del 1967 all’Unità di Vienna su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Il testo della conferenza è rimasto «pressoché sconosciuto» per oltre mezzo secolo, come ricorda lo storico Volker Veiss nella sua postfazione. Pare che il libro stia riscuotendo un notevole successo non solo in Germania ma un po’ in tutta Europa, e leggendolo i motivi di un tale consenso appaiono subito chiarissimi.
In effetti, per molti aspetti le “problematiche” affrontate da Adorno nel 1967 appaiono più attuali oggi che allora; eccone un esempio: «Nonostante la piena occupazione e nonostante tutti i segni di prosperità, lo spettro della disoccupazione tecnologica continua ad aggirarsi tanto che, nell’epoca dell’automazione, anche gli esseri umani che si trovano all’interno del processo produttivo in realtà si sentono già potenzialmente superflui o potenziali disoccupati (pp. 15-16). Bisogna tener presente che ancora nel 1967 l’eccezionale fase espansiva dell’economia iniziata nel secondo dopoguerra faceva sentire i suoi “benefici” effetti, sebbene il processo di accumulazione avesse di molto rallentato la sua “spinta propulsiva” e si avviasse alla prima seria battuta d’arresto postbellica anticipata in qualche modo dai movimenti del ’68. Allora – come oggi – la Germania era la locomotiva del capitalismo europeo.

Oggi, nell’epoca della cosiddetta Intelligenza Artificiale, lo spettro della “disoccupazione tecnologica” alita sul collo del lavoratore (“manuale” o “intellettuale” che sia) fondando economicamente una precarietà esistenziale sempre più acuta e difficile da gestire emotivamente e psicologicamente. È fortissima la tentazione di cadere nel feticismo tecnologico, ossia di accedere alla cattivissima idea di attribuire una volontà, e quindi una responsabilità di qualche tipo, alla cosa, e non alla relazione sociale di cui essa è l’espressione. Detto en passant, di questi tempi è molto diffuso il feticismo virale, ossia l’idea malsana di attribuire al coronavirus la crisi sociale internazionale che ha avuto nella pandemia solo la sua miccia d’innesco, senza contare la stessa natura squisitamente sociale della pandemia già nel suo momento genetico – a cominciare dalla distruzione capitalistica degli ecosistemi. «Un invisibile virus ha messo in ginocchio l’economia mondiale»: sciocchezze! Le contraddizioni tipiche del capitalismo e le sue leggi di movimento hanno messo in ginocchio l’economia mondiale: il nemico invisibile si chiama rapporto sociale capitalistico. Questo solo per dire che abbiamo a che fare con un clima sociale che rende possibile, oggi come allora, la diffusione di quelle idee irrazionali che sono la premessa del successo dei «cosiddetti sistemi di massa di stampo fascista», i quali hanno senza alcun dubbio una profonda relazione strutturale con i sistemi della follia» (p. 30).

La disoccupazione causata dall’introduzione nel processo produttivo (di “beni e servizi”) di tecnologie che risparmiano lavoro per molti è una triste realtà, e per molti altri è, appunto, uno spettro sempre presente e minaccioso. Oggi assai più di ieri il rischio della rapida obsolescenza tocca tutti i settori di attività, e financo il “mestiere più antico del mondo” (sì, proprio quello!) sembra poter fare a meno di personale in carne ed ossa per soddisfare le esigenze del cliente, e con una discrezione e un’igienicità che nel contesto della “nuova normalità” rappresentano requisiti senz’altro molto apprezzati dagli utenti del sesso a pagamento. La “prostituzione robotica” (o “intelligente”) sembra corrispondere puntualmente a quel concetto di distanziamento (a)sociale che coglie perfettamente un aspetto fondamentale della nostra disgraziata epoca, oggi come e più di ieri.

Anche il discorso sull’avanzata delle destre ci suona incredibilmente attuale, anche se il cuore del problema, per Adorno e certamente per chi scrive, è rappresentato soprattutto dalle cause sociali che, «oggi come allora», rendono possibile e perfino inevitabile (almeno per chi scrive) il comparire sulla scena sociale di movimenti politici apertamente nazionalisti (o “sovranisti”), razzisti, antisemiti, autoritari.
Adorno lo dichiara subito: «Nel 1959 ho tenuto una conferenza dal titolo Che cosa significa elaborazione del passato nella quale ho illustrato la tesi secondo cui il radicalismo di destra, o il potenziale di un radicalismo di questo genere, può essere spiegato con il fatto che, oggi come allora, continuano a sussistere le premesse sociali del fascismo. Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico» (pp. 13-14). Soprattutto nel caso italiano, la radicale continuità tra regime fascista e regime postfascista non ha avuto solo un carattere sociale, ma per non pochi aspetti essa ha riguardato anche il piano politico-istituzionale, come attesta, ad esempio, la sopravvivenza in epoca repubblicana del diritto penale elaborato sotto il fascismo. Anche la struttura economica, con i suoi robusti e “intimi” legami con il mondo politico-sindacale, esibisce un’evidente continuità fra i due regimi. Lo stesso passaggio di non pochi militanti del Partito Fascista nel cosiddetto Partito Comunista di Togliatti alla fine della Seconda guerra mondiale non si spiega solo con il proverbiale opportunismo italiano, con l’italico salto sul carro del vincitore, ma anche, e forse soprattutto, con la comune matrice psico-sociale di fascismo e stalinismo, che facevano presa su una personalità desiderosa di un forte e rigido inquadramento. Adorno parla di «personalità autoritaria». Detto in altri termini, stalinisti e fascisti hanno impastato lo stesso materiale umano caratterizzato da una forte propensione gregaria/autoritaria. Credo che il successo che il «nuovo radicalismo di destra» sta avendo soprattutto nei Länder Orientali della Germania, le regioni che formavano la Repubblica Democratica Tedesca (1), si spieghi, mutatis mutandis, anche con quanto appena accennato, oltre che con i problemi economico-sociali e con la delusione che hanno interessato la popolazione che vive in quei Länder. Diciamo che i due aspetti si incrociano. Radicalismo di destra e Ostalgie, la nostalgia per la Germania dell’Est, sono due fenomenologie dello stesso problema sociale (dimensione psicologica compresa), almeno per come la vedo io. Per dirla sempre con Adorno, «qui gioca un ruolo essenziale il concetto di organizzazione, […] l’elemento del rigore e del centralismo. […] Fa parte degli elementi di base dell’ideologia tedesca il fatto che non si debba agire da soli. […] Si vuole avere qualcosa alle spalle. […] Qui gioca un ruolo il fatto che proprio nella Repubblica Federale lo Stato nazionale si è realizzato con un ritardo colossale, soprattutto rispetto all’Inghilterra o alla Francia. E le persone in Germania sembrano vivere in un perenne stato di paura per la propria identità nazionale» (pp. 24-26).

Attualissima suona anche la denuncia adorniana del nazionalismo (che oggi ama appunto definirsi “sovranismo”), il quale è tanto più velenoso, quanto più le sue basi oggettive diventano sempre più inconsistenti e spettrali: nel contesto dei «due enormi blocchi [USA e URSS] i singoli Stati giocano un ruolo subordinato. Nessuno ci crede più davvero. La singola nazione è straordinariamente limitata nella sua libertà di movimento dall’integrazione nei grandi blocchi di potere. Ma non bisogna trarne la conseguenza affrettata che il nazionalismo, in quanto superato, non giochi più un ruolo chiave; viceversa, accade spesso che alcune convinzioni o ideologie assumano un aspetto demoniaco o autenticamente distruttivo proprio quando non risultano più sostanziali in base alla situazione oggettiva» (p. 17). Perdendo il proprio ancoraggio oggettivo (economico, geopolitico, culturale: in una sola parola: sociale), il nazionalismo si espande senza più limiti in guisa di bolla speculativa ideologica. Adorno parla dello «spettro di uno spettro», una superfetazione ideologica che cresce seguendo l’espandersi delle paure, delle angosce, delle frustrazioni e dei risentimenti che la situazione reale non cessa di generare sempre di nuovo, sebbene con ritmi diversi nelle diverse congiunture del ciclo economico e investendo i più disparati strati sociali.
Per quanto mi riguarda la freccia critica antinazionalista colpisce tanto il sovranismo di “destra”, quanto il sovranismo di “sinistra”, due facce della stessa escrementizia medaglia. Oggi molti sovranisti di “sinistra” sono schierati dalla parte dell’imperialismo cinese, che nel frattempo ha sostituito l’imperialismo “sovietico” nel ruolo di nemico strategico dell’imperialismo americano. I nostalgici piagnucolosi della “Russia socialista” oggi possono consolarsi con il “socialismo con caratteristiche cinesi”, il cui sistema autoritario con caratteristiche orwelliane è segretamente apprezzato anche da molti leader politici occidentali che si definiscono liberali. Quanto a controllo sociale la Cina è oggi il modello da imitare. Il sistema di controllo e repressione realizzato dal regime nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale (un carcere a cielo aperto che contiene al suo interno numerosi “campi di rieducazione e lavoro”), sarebbe piaciuto moltissimo alla «cricca nazista», in particolar modo a quei personaggi che, come Eichmann e Himmler, avevano «una prospettiva strettamente tecnologica» (p. 30).

Adorno coglie bene anche il carattere reazionario «dell’antiamericanismo» e della «paura nei confronti della Comunità economica europea» che caratterizzavano il radicalismo di destra dei suoi tempi: «È evidente come nell’ideologia un ruolo molto forte venga giocato dall’antiamericanismo, il quale era già prefigurato in epoca nazista in espressioni come nazione “plutocratica” e simili. Nella prospettiva di questo antiamericanismo si tenta di usurpare l’idea di un’Europa come “terza forza”» (p. 41). Oggi l’antiamericanismo destrorso in generale non usurpa più, in Germania e in tutto il Vecchio Continente, «l’idea di un’Europa come “terza forza”», ma anzi combina antiamericanismo e antieuropeismo e avanza un programma decisamente “sovranista”. Invece, quell’idea si fa strada a partire da un processo sociale oggettivo che potrebbe culminare nella formazione di un autentico polo imperialista europeo, e ovviamente in tutto ciò la Germania ha un ruolo centrale, e qui naturalmente si registra una grande differenza con il contesto politico e geopolitico che Adorno aveva dinanzi: «In ogni caso la Germania di oggi non è più un soggetto politico, anche solo in termini di possibilità, come invece lo era ai tempi di Weimar. C’è addirittura il rischio […] che la Germania devii dagli orientamenti della politica mondiale, dalle sue tendenze generali e venga ridotta a provincia» (p. 32). Come sappiamo, le cose sono andate diversamente e personalmente concordo con chi sostiene che la Germania sia stata la vera vincitrice della lunga Guerra Fredda. Certo, anche oggi «manca completamente la prospettiva “oggi qui, domani tutto il mondo”» (p. 43); ma non c’è dubbio che la Germania può coltivare ambizioni geopolitiche inimmaginabili mezzo secolo fa, e bisogna anche dire che quel Paese ha in parte moderato le proprie pretese politiche sia perché non ha dimenticato le dure lezioni apprese nel “Secolo breve”, e sia per beneficiare di una difesa militare quasi interamente pagata dagli Stati Uniti. Ma oggi la Germania sembra sul punto di voler e poter assumere le “responsabilità politiche” che le derivano dalla sua potenza economico-sociale. Che la Germania diventi «un soggetto politico» di grande rilevanza internazionale (soprattutto attraverso la mediazione dell’Unione Europea), oggi è più che una possibilità.

Devo d’altra parte dire che non condivido neanche un po’ le pur timide simpatie politiche che Adorno manifesta, sebbene implicitamente, per l’Europa e per gli Stati Uniti, i cui sistemi politico-sociali gli appaiono in ogni caso meno cattivi di quelli di matrice sovietica o maoista – cosa che, tra l’altro, lo porterà a polemizzare nel ’68 con una certa area del “radicalismo di sinistra”, accusata giustamente (da lui e da Horkheimer, contro l’opinione di Marcuse) di lavorare per conto delle potenze sociali che tengono incatenati al carro del dominio sociale gli individui, a cominciare da quelli appartenenti alle classi subalterne.

Per “legittima difesa” Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo, ma quale «prassi di riferimento» i due avevano allora dinanzi? Quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale. Prendendo congedo dalla prassi essi intesero mettere al riparo quella teoria dall’omologazione stalinista, e questo lo considero un grandissimo merito, fondato però su una cattiva interpretazione del «fenomeno-stalinismo», associato in qualche modo dai due filosofi francofortesi al pensiero marxiano, sebbene in una sua variante particolarmente volgare. «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (2). Nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e per altro verso il cosiddetto «Socialismo reale» non era che un capitalismo (più o meno di Stato) assai agguerrito sul piano dell’agone imperialistico, quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole – Minima Moralia. Allora non si trattava certo di sospendere la prassi rivoluzionaria, ma piuttosto di elaborarne una coerente con i suoi presupposti teorici e adeguata alla situazione oggettiva. La stessa cosa vale oggi come e più di allora.

A proposito di antiamericanismo, c’è da dire che un certo “radicalismo di sinistra” ama nascondere quella posizione politico-ideologica sotto i panni di un “antimperialismo” tanto gridato quanto mai praticato, come dimostra l’accesa simpatia per l’imperialismo cinese molto diffusa in quell’ambiente politico.

«Oggi come allora»: ho trovato particolarmente pregnante questa locuzione che, se non ho sbaglio a contare, compare quattro volte nel testo adorniano. Si nota anche un «oggi come ai tempi di Hitler» con riferimento alla tecnica propagandistica usata dal radicalismo di destra. Scrive Adorno: «Vorrei puntualizzare en passant che la questione non implica affatto che tutti gli elementi di questa ideologia siano falsi, ma che anche il vero [il disagio sociale, ad esempio] può essere messo al servizio di un’ideologia falsa. […] La tecnica più importante grazie alla quale la verità viene messa al servizio della non verità è quella di separare osservazioni in sé vere o corrette dal loro contesto, isolandole così da poter affermare: “Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra”, senza vedere invece che l’intera congiuntura degli anni dal 1933 al 1939 è stata possibile solo grazie a una frenetica economia di guerra, alla preparazione della guerra (3). E ci sono cento altri esempi. […] Vorrei ribadire peraltro che nel fascismo non vi fu mai un’ideologia in senso proprio e che resta sempre sottointeso che in esso la questione fosse quella del potere. Naturalmente, proprio questo ha conferito a tali movimenti sul piano ideologico quella flessibilità che è facile osservare. Del resto, il primato di una prassi a-concettuale è nello spirito del tempo [oggi più che allora]. Oggi come ai tempi di Hitler la loro unità sta in questo appello alla personalità autoritaria» (4) (pp. 41-44). A qualcuno sembra di dire qualcosa di particolarmente originale e geniale affermando: «Il nostro movimento non è né di destra né di sinistra» (5), una frase coniata a suo tempo dall’ex socialista Benito Mussolini, teorico del “pensiero antidogmatico” (sic!).

Ci fu un tempo in cui il termine sinistra connotava, in linea di principio, una posizione anticapitalista. Quel tempo si è chiuso con il trionfo in quello che una volta si chiamava movimento operaio internazionale del riformismo socialista e dello stalinismo, due ideologie radicalmente borghesi. Oggi l’anticapitalista non è “più a sinistra” della “sinistra ufficiale”, ma piuttosto collocato su un altro e opposto terreno di classe, e in questo peculiare senso egli è davvero né di “destra” né di “sinistra”. Quando si usano certi termini, bisogna innanzitutto intendersi sui concetti che essi sono chiamati a esprimere, e quest’opera di chiarificazione concettuale ha anche molto a che fare con la lotta al radicalismo di destra come a ogni forma di autoritarismo – che spesso assume un aspetto sinistrorso.

Se, come osservava giustamente adorno, «il comunismo è diventato solo una parola che suscita spavento», di ciò le classi dominanti occidentali devono ringraziare soprattutto i cosiddetti “comunisti”, portatori di un modello sociale che quanto a sfruttamento, oppressione, alienazione, violenza, disumanità e quant’altro regge benissimo il confronto con la prassi delle società capitalistiche “conclamate”., le quali ai miei occhi hanno almeno il pregio, per così dire, di non millantare crediti che hanno a che fare con le idee di emancipazione delle classi subalterne e, più in generale, dell’umanità.

Sempre a proposito delle premesse sociali dei movimenti fascisti, Adorno pensa «in primis alla tendenza del capitale alla concentrazione, dominante oggi come allora, della quale non si può affatto dubitare, per quanto la statistica, con tutti i suoi artifici, tenti di farla scomparire dalla faccia della terra [oggi come allora!]. Questa tendenza alla concentrazione significa, d’altro canto, oggi come allora, che resta sempre possibile il declassamento di strati sociali che dal punto di vista della loro coscienza di classe soggettiva risultano del tutto borghesi» (p. 14). Sappiamo il peso che questo declassamento ha avuto nella genesi dei movimenti autoritari in Italia e in Germania nel primo dopoguerra. Ma, oggi come ieri, il demagogo non pesca solo nel mare della media e piccola borghesia declassata dal processo sociale, ceto sociale che certamente offre al suo movimento politico la gran parte dei quadri dirigenziali: egli rivolge la sua “profetica” parola a tutti gli individui maltrattati dal Moloch capitalistico, la cui marcia diventa particolarmente distruttiva durante le crisi economiche. Ed è nel corso delle più gravi crisi economiche che nella società inizia a dilagare il «sentimento della catastrofe sociale» a cui i movimenti neofascisti cercano di dare una soddisfazione e una prospettiva politica: «Si potrebbe parlare di una distorsione della teoria marxiana del collasso, la quale avrebbe luogo in questa coscienza falsa e mutilata. […] “Com’è possibile andare avanti, se c’è una grande crisi?”, e questi movimenti si propongono appunto come una risposta a tale situazione. Essi hanno qualcosa in comune con quella specie di odierna astrologia manipolativa (6) che io considero un sintomo fortemente caratteristico e importante dal punto di vista della psicologia sociale del fatto che, in un certo senso, essi vogliono la catastrofe, che si nutrono di fantasie di tramonto del mondo, cosa che del resto – come sappiamo dai documenti – non era affatto estranea alla cricca che prima guidava il partito nazionalsocialista. […] A chi non vede nulla davanti a sé e a chi non vuole la trasformazione delle basi sociali non resta nient’altro se non ciò che afferma il Wotan di Richard Wagner: “Sai che cosa vuole Wotan? La fine”; a partire dalla sua situazione sociale vuole il tramonto, e non il tramonto del proprio gruppo, ma, se possibile, il tramonto tout court» (pp. 22-24). La situazione disperata genera sentimenti di disperazione: la domenica di Pasqua del 1932 l’editorialista della Frankfurter Zeitung pubblicava, a mo’ di augurio, le parole pronunciate nel 1809 dal maggiore Schill, l’eroe della fallita insurrezione antinapoleonica: «Meglio una fine nell’orrore che un orrore senza fine». Su questo aspetto della storia tedesca rimando il lettore a un mio post di qualche anno fa: La Germania e la sindrome di Cartagine.

Adorno invita giustamente a «essere scettici nei confronti di un’interpretazione meramente psicologica dei fenomeni sociali e politici», perché l’espandersi di una psicologia di massa orientata in senso irrazionale «ha anche un fondamento oggettivo» (7). L’organizzazione sociale capitalistica, oggi come e più di ieri, genera sempre di nuovo i presupposti materiali, culturali e psicologici di quella che Adorno e Horkheimer definirono negli anni Quaranta del secolo scorso (e sul fondamento di una ricerca sociale empirica condotta negli Stati Uniti) «personalità autoritaria», ossia la personalità dell’individuo atomizzato che non oppone alcuna resistenza critica alle imperiose esigenze della totalità sociale e che, anzi, solo all’interno di un ingranaggio che schiaccia ogni autentica libertà e ogni decisione umanamente razionale e responsabile si sente al riparo da minacce che egli non comprende e che travisa nel modo più rozzo secondo le direttive impartite alle masse dai capi. Solo nella massa l’individuo atomizzato, che nella Personalità autoritaria Adorno definisce «tipo manipolativo» (che si lascia cioè manipolare e che, a sua volta, tende a manipolare gli altri), si sente protetto e in armonia con il mondo creato dalle sue paure, dalle sue angosce, dalle sue aspirazioni. Ovviamente questa condizione psicologica ha delle cause sociali precise e riconoscibili, ed è a queste cause che bisogna arrivare seguendo le indicazioni che la “sovrastruttura psicologica” ci indica. È per questo che è importante imparare il linguaggio di questa “sovrastruttura”, capirne la complessa e spesso paradossale grammatica.

Scrive Adorno: «Fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio compito» (p. 21). Ma la democrazia storicamente sorge sul disumano fondamento della divisione classista degli individui – e nella Grecia Antica gli schiavi non erano considerati nemmeno uomini in senso proprio. Concettualmente e praticamente la democrazia è radicata nella dimensione politica, ossia nella dimensione del conflitto sociale, il cui presupposto è appunto la divisione degli individui in dominati (la massa che lavora) e dominanti (la ristretta elite che si appropria del prodotto del lavoro altrui). Non a caso il comunismo immaginato da Marx postulava il superamento della politica, almeno nell’accezione che essa ha avuto e continua ad avere nella società classista. Per questo, a mio avviso, tanto il fascismo quanto la democrazia capitalistica rappresentano due modi diversi e intercambiabili (dipende dalle circostanze, nazionali e internazionali) di amministrare la società per conto delle classi dominanti e in vista del supremo obiettivo perseguito dalla politica (al cui vertice si colloca lo Stato): la continuità del rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Questo obiettivo può anche dar luogo alla completa statalizzazione dell’economia (ciò che il volgare pensiero borghese, di “destra” e di “sinistra”, concepisce come “socialismo”) nel caso in cui una catastrofica crisi economica innescasse pericolosi movimenti sociali. Pericolosi, beninteso, dal punto di vista dello status quo sociale. Anche ai nostri giorni possiamo osservare in tutti i maggiori Paesi del mondo un interventismo statale che la dice lunga sulla gravità della crisi economica che erroneamente il pensiero mainstream attribuisce al Coronavirus. Interventismo statale e “deriva autoritaria” (8) sono, oggi come allora, due fatti intimamente correlati fra loro, e la stessa cosa si può dire per le politiche assistenzialiste di lunga durata. Come scriveva Max Horkheimer, il dominio sociale «non più conservabile con i mezzi economici, essendo la proprietà privata sopravvissuta a se stessa, è conservato con mezzi direttamente politici» (9).

La democrazia capitalistica (perché non esiste un’astratta e astorica democrazia) «è pienamente all’altezza del proprio concetto» se è in grado di assicurare la stabilità sociale, e ciò, come sappiamo, si realizza attraverso un accurato uso di carota e di bastone, di mezzi che ricercano il consenso dei cittadini e di mezzi immediatamente coercitivi e repressivi – quelli che giustificano il concetto, tutt’altro che “mostruoso” e contraddittorio, di democrazia fascista. È per questo che non condivido affatto ciò che Adorno dice a proposito del modo concreto in cui è possibile fronteggiare il pericolo nazifascista: «occorre anche tentare di trovare dei mezzi legali attraverso cui uno Stato democratico possa procedere contro di esso» (p. 39). A mio avviso per un verso lo Stato democratico è parte del problema qui in oggetto, e non della sua soluzione; e per altro verso, e sempre a mio avviso, è solo incoraggiando l’autonoma iniziativa antifascista delle classi subalterne e di quanti intendono lottare contro i movimenti autoritari di qualsiasi tendenza politica (inclusi quelli che sostengano regimi come quelli cinesi, cubani, venezuelani, ecc.) che si creano negli individui gli anticorpi idonei a proteggerli in qualche modo dalla personalità autoritaria. Giustamente Adorno dice che nella lotta al radicalismo di destra «non bisogna contrapporre menzogna a menzogna»; dal mio punto di vista contrapponendo lo Stato democratico ai movimenti di “stampo fascista” si scivola appunto nella menzogna, tanto sul piano storico (vedi la responsabilità che la liberaldemocrazia ha avuto negli anni Venti e Trenta del secolo scorso nella sconfitta del movimento operaio e nel trionfo del fascismo e del nazismo), quanto su quello politico.

Tra l’altro Adorno e Horkheimer già negli anni Trenta non mancarono di denunciare il lavoro preparatorio al trionfo del nazifascismo svolto dalla borghesia liberale: «Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (10). Adorno sostiene giustamente che la stessa grande industria che foraggiò il nazismo soprattutto in chiave controrivoluzionaria subì il processo di autonomizzazione del movimento hitleriano, una dinamica che ricorda molto il caso italiano. L’autonomizzarsi del manganello anche dagli interessi economici dominanti non era stato previsto dai politici liberali che pensavano di potersi disfare facilmente della “triviale” e violenta azione politica fascista dopo averla usata contro i lavoratori. Mussolini e Hitler passarono invece all’incasso, favoriti da una devastante crisi economico-sociale. «In tutte queste faccende – osserva Adorno – bisogna prestare molta attenzione a non pensare in modo troppo schematico e a non operare in maniera molto avventata»: un consiglio valido anche oggi. «In Germania – conclude Adorno – si è arrivati al fascismo come ultima ratio, ossia nel momento in cui la crisi economica si era ingigantita e non lasciava nessun’altra possibilità per quell’industria della Ruhr che allora risultava già in bancarotta» (p. 19). Sappiamo bene come la corsa al riarmo in vista della guerra risollevò le sorti dell’industria pesante tedesca (e dell’occupazione) prostrata dalla crisi economica e costretta ad agire, di fatto, entro i ridotti limiti fissati soprattutto dalla Francia. Anche la Germania ebbe il suo “boom” economico che preparò il boom dei cannoni e delle bombe. «Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra»…

Segno dei tempi: la copertina dell’Economist del 25 giugno ci invita a riflettere sulla «prossima catastrofe – e a come sopravvivervi». La prossima catastrofe può arrivare sotto forma di eruzioni solari, di asteroidi, di eruzioni vulcaniche, di tsunami, di cambiamento climatico, di epidemia virale (l’ennesima!), di guerra atomica, o di altro ancora, ma di certo essa ci farà visita entro un ragionevole arco di tempo, e quindi dobbiamo prepararci al peggio avvantaggiandoci degli errori commessi in passato. E se invece lavorassimo pensando al meglio, in vista del meglio, costruendo il meglio? Detto in altri termini, anziché impegnarci per la sopravvivenza in un mondo ostile, non potremmo come umanità operare per uscire fuori dalla millenaria dimensione classista che rende possibile ogni forma di catastrofe sociale? «Quasi tutti i grandi asteroidi che possono avvicinarsi alla Terra sono stati ora trovati. Nessuno è una minaccia a breve termine. Il mondo non è solo un luogo manifestamente più sicuro di quanto sembrasse. È anche un posto migliore» (The Economist). Ma ciò che minaccia in mille modi (alcuni dei quali oggi non riusciamo neanche a immaginarli) non è la natura, ma una prassi sociale il cui funzionamento per l’essenziale non riusciamo né a capire né a controllare.
Civettando con Adorno svolgo la seguente riflessione: alla luce dei problemi e delle contraddizioni che segnano la nostra epoca «forse alcuni di voi mi chiederanno cosa penso del futuro» dell’umanità. Ebbene, «credo che questa sia una domanda sbagliata perché eccessivamente contemplativa. In quel modo di pensare che sin dal principio vede queste faccende come catastrofi naturali, sulle quali è possibile fare previsioni come per le trombe d’aria o i disastri meteorologici, si cela già una forma di rassegnazione che ci mette in realtà fuori gioco come soggetti politici; vi si cela, cioè, un comportamento da cattivi spettatori di fronte alla realtà. Come queste cose proseguiranno e la responsabilità per come andranno avanti ricade, in ultima istanza, su di noi» (pp. 56-57). Siamo talmente deboli di fantasia e di immaginazione, oltre che di pensiero critico, che riusciamo a concepire senza eccessivi sforzi concettuali la fine del mondo, mentre la fine di questo capitalistico mondo non riusciamo nemmeno a farla entrare nel campo delle ipotesi.

Scrivendo «oggi come allora», personalmente ho inteso sottolineare, non credo distaccandomi troppo dalle intenzioni di Adorno, la radicale continuità del dominio sociale che rende possibile ogni genere di sofferenza e di evento catastrofico: dalle guerre mondiali alle pandemie, dallo sterminio “industriale” di «persone indegne di vivere» (in linea di principio l’ebreo non manca mai nella lista nera: «Non possiamo dire nulla a riguardo, ma tra noi ci capiamo») alle crisi economiche, dalle emigrazioni di massa alla distruzione degli ecosistemi – a cominciare dall’ecosistema a noi più prossimo, il nostro corpo.

(1) «Sembra paradossale ma le formazioni di estrema destra in Germania nascono nei Länder orientali cioè nei territori della Repubblica Democratica Tedesca che oggi rappresentano i bastioni elettorali dell’Alternative für Deutschland. Perché? Per un motivo poco noto fuori dalla Germania: la riunificazione del 1990 – concretizzatasi nell’assorbimento della DDR nella Repubblica Federale – ha avuto costi altissimi non solo per le casse statali, ma anche per i sedici milioni di tedesco-orientali. La ristrutturazione del sistema economico-produttivo ha portato ad un’impennata della disoccupazione, ad un aumento del costo della vita, all’aumento dell’immigrazione interna ed al crollo della natalità. Una crisi che fa sentire i suoi effetti ancora oggi, a trent’anni ormai dalla riunificazione. Questo ha generato in molti elettori dell’est la disponibilità a sostenere le forze che, di volta in volta, si sono presentate come di opposizione totale al duopolio Cdu/Spd. C’è, poi, un altro aspetto: molti tedesco-orientali nel 1989-’90 ambivano a “ritornare” tedeschi piuttosto che a diventare occidentali, ovvero a recuperare un’identità nazionale condivisa. Questa è una delle speranze tradite della riunificazione, messa ancora più in crisi dall’avanzare della globalizzazione: facile per una forza come AfD, che fa della riscoperta e valorizzazione dell’identità tedesca uno dei suoi elementi forza, intercettare questi consensi» (Opiniojuris).
(2) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254. Einaudi 1970.
(3) Si trattò di una tendenza generale. Scriveva Paul Mattick nell’agosto del 1937: «Riassumendo, possiamo dunque individuare come caratteristica del presente sviluppo economico la tendenza verso la monopolizzazione, la concentrazione capitalistica e l’estensione del controllo statale. […] Sempre più evidente si fa, quindi, l’inevitabilità di una soluzione violenta delle difficoltà del capitalismo odierno, che solo attraverso l’eliminazione delle nazioni più deboli a vantaggio delle potenze capitalistiche più forti può sperare di prolungare la sua esistenza» ( in AA., VV., Capitalismo e fascismo verso la guerra, pp. 78-79, La Nuova Italia, 1976). Non dimentichiamo che anche John Maynard Keynes non mancò di lodare l’interventismo economico della Germania. «Ciò che il seguente libro intende illustrare, si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, piuttosto che a condizioni di libera concorrenza e di ampie misure di laissez-faire» (J. M. Keynes, Prefazione all’edizione tedesca del 1936 della General Theory). Non a caso, come ricorda la storica dell’economia Amity Shlaes ne L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione (Feltrinelli, 2011), i politici e gli intellettuali del New Deal guardavano con estremo interesse, chi alla Russia di Stalin, chi alla Germania di Hitler. Molti guardavano con simpatia a entrambi i regimi, non disdegnando nemmeno di studiare il promettente «caso italiano».
(4) «I 5 Stelle sono un patchwork, una combinazione delle caratteristiche di diversi “storici” movimenti populisti (argentino, peruviano, venezuelano, boliviano, brasiliano) che hanno prosperato per decenni in America Latina. Come i loro parenti latinoamericani, sono sorti per combattere la “oligarchia”, i ricchi, i potenti ( le caste). Come i loro parenti, sono statalisti e giustizialisti. Le loro politiche assistenzialiste, ridistributive, a favore dei descamisados, dei poveri, consentono a chi non va molto per il sottile di definirli “di sinistra”. Il loro antiparlamentarismo li accomuna a tanti movimenti del passato (non solo latinoamericani) sia di estrema sinistra che di estrema destra» (A. Panebianco, Il Corriere della Sera).
(5) «I trucchi retorici sono sempre gli stessi. […] Il pensiero rigido, stereotipato, e la ripetizione incessante costituiscono i mezzi della pubblicità di stile hitleriano. Essi smussano i modi di reazione, rendono a suo modo ovvio quel che è piattamente banale, e mettono fuori gioco le resistenze della coscienza critica. Da tutti questi discorsi e manualetti dell’odio si può così sceverare, proprio come nel caso della propaganda del Terzo Reich, un numero assai ristretto di trucchi impiegati di continuo, standardizzati e legati tra loro in modo meccanico» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, La personalità autoritaria, in AA. VV., La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, 2005).
(6) «Erano tempi grami per tutti, tranne forse per gli indovini, i maghi, i cartomanti e simili, che videro aumentare la clientela. […] Fritz Lang condivideva con altri registi dell’epoca un debole evidente per determinati temi: il suicidio, l’inesorabilità del fato, la pazzia, la morte. […] Tra le catastrofi recentissime e i pericoli della nuova civiltà tecnologica, non rimaneva molto posto per l’ottimismo» (W. Laqueur, La Repubblica di Weimar, pp. 291-294, Rizzoli, 1979).
(7) «Molto si discorre, e non senza ragione, della tecnica del dominio delle masse. Ma bisogna guardarsi dall’idea che i demagoghi che ne usano sorgano ai margini della società, e poi quasi per caso o mercé l’impiego abusivo di strumenti tecnici ottengono un potere sugli altri uomini, per il resto pacifici e giusti. […] Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato. […] In un mondo ampiamente dominato da leggi economiche su cui gli individui umani hanno ben poco potere, l’individuo è assai più impotente di quel che sappia confessarsi» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 95, Einaudi, 2004).
(8) Ecco l’ultima denuncia della “deriva autoritaria” che mi è capitato di leggere: «Le crisi svolgono essenzialmente una funzione maieutica, la loro arte è quella della levatrice, traggono fuori da noi ciò che già in noi era in germe, maturava. Piccole o grandi sono sempre apocalissi, che significa rivelazioni: ciò che si nascondeva dietro il sipario e che ancora ci sforzavamo di ignorare, ecco ora si palesa, inaggirabile, infuggibile. Si capisce allora la formidabile idiozia dell’interrogarsi se saremo migliori, peggiori o uguali a prima. […] L’epoca in cui ogni distanza deve venire meno, in cui appare intollerabile alla nostra ansia di simultaneità ogni confine spaziale, si specchia perfettamente nello slogan osceno del “social distancing”. La pandemia e l’esigenza di contrastarla non c’entrano nulla in quanto tali. Ciò che è rivelatore sono i modi in cui esse vengono narrate e gestite. […] L’attacco al ruolo delle assemblee rappresentative funziona perché queste assemblee non funzionano, e non funzionano da decenni. O i democratici sanno riformarle o vincerà chi democratico non è. Tertium non datur» (Massimo Cacciari, L’Espresso). Questo pianto riformista quasi mi commuove. Ho detto quasi.
(9) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 42, Savelli, 1978.
(10) Ivi, p. 55.

SI – PUÒ – FARE!

La cosiddetta “Fase 2” conferma sostanzialmente lo Stato di polizia confezionato brillantemente dal Governo italiano durante la cosiddetta “Fase 1”. L’esperimento sociale in atto da circa due mesi sta dimostrando che il gregge segue alla perfezione gli ordini impartiti dal Pastore e imposti capillarmente dai suoi cani da guardia. Salvo le solite eccezioni (del resto le pecore nere non mancano mai, ma non creano troppi disturbi all’economia della Sovranità), gli italiani hanno dato prova di possedere una capacità di sopportazione e di disciplina (chiamata anche “senso di responsabilità”, “senso civico” ecc.) che ha spiazzato non pochi osservatori politici e diversi intellettuali, di “destra” e di “sinistra”.

Questi personaggi sono stati sorpresi soprattutto dalla facilità con cui è stato possibile transitare da uno stato di “normalità” a uno di “eccezione” (1), anzi di Lockdown (2). Certo, la paura del virus, l’angoscia di morte ecc. hanno lavorato in profondità, hanno quasi azzerato la già indebolita “capacità di resistenza critica” delle persone; tuttavia il Moloch si è mosso su un terreno già preparato da tempo: un terreno continuamente arato, fertilizzato, seminato e innaffiato. Che bei frutti stiamo raccogliendo! La metaforica rana di Chomsky è da un pezzo che si lascia lentamente riscaldare dal “sistema”, e adesso che l’acqua inizia a bollire… «Ahi! Che succede?» Che peccato, si stava così bene al calduccio!

No, questa crisi sociale non sta inventando nulla che non fosse già presente nella società quantomeno sotto forma di tendenza, mentre essa accelera, frena e devia processi sociali in corso da molto tempo.

L’esperimento sta dunque riuscendo, almeno fino a questo momento; come diceva il dottor Frederick Frankenstein, «Si- può- fare!» Il Moloch ne prende nota, per la prossima emergenza. Giordano Bruno Guerri parla di «scintilla del possibile che si annida nel grigiore della quarantena»; si tratta di capire la natura di questa scintilla: quale incendio ci aspetta? Sempre che si tratti di un incendio, beninteso.

Forse è utile ripetere un concetto che ho cercato di esprimere nei miei post dedicati a questa crisi sociale: qui non si tratta di capire se siamo dinanzi a un complotto fabbricato dal Moloch (cioè dal dominio sociale capitalistico) o da una qualche “Entità” non ancora meglio identificata, oppure alla pessima volontà (o all’incapacità) dei decisori politici. Si tratta piuttosto di prendere atto di un fatto, di un risultato, di un processo sociale che realizza oggettivamente un ulteriore giro di vite esistenziale ai danni degli individui, in generale, e delle classi subalterne in particolare.

(1) «Il virus sta già cambiando il nostro modo di vivere e di pensare, anzi lo ha già fatto, è sotto gli occhi di tutti, e ci cambia apparentemente in peggio. Aumenta la diffidenza, cresce la lontananza fisica tra le persone. Non sarà facile tornare indietro. La scintilla del possibile si annida nel grigiore della quarantena. La possibilità più cupa che temo di più è quella del potere, il quale appena sente l’odore del sangue ci si affeziona. Il Coronavirus è stato il battesimo del sangue per tanti aspiranti autocrati. Ma ciò che mi ha più stupito non è il fatto che ci provini, ma la facilità con cui la gente è stata privata della libertà e si è lasciata privare della libertà. Questa è stata la scoperta più brutta di questi mesi. Ma altri mostri incombono; ad esempio il braccialetto elettronico, il controllo dei dati sensibili. Se ci pensate, agli aspiranti emuli del Grande Fratello mancava solo l’ultima frontiera: il controllo fisico, quello sulla mobilità delle persone. Ci siamo arrivati. Il controllo poliziesco mi spaventa anche quando diventa una necessità. Bisogna avere consapevolezza del rischio che corriamo» (G. B. Guerri, La Verità).

(2) «Lockdown è sulla bocca di tutti e viene usato per indicare l’isolamento e la chiusura forzata per l’emergenza sanitaria. In realtà – sostiene Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca – ci sono due parole equivalenti nella nostra lingua: “Confinamento” e “segregazione”. Il significato in inglese di “lockdown”, anzi in americano perché il termine non viene da Oxford, ha infatti origine dal linguaggio carcerario: vuol dire confinamento dei detenuti nelle loro celle durante una rivolta, misura che nel Nord America è in vigore dal 1983. Per estensione, poi, la parola ha assunto anche il significato di stato di isolamento o di restrizione per motivi di sicurezza. “Seppure i provvedimenti di lockdown siano stati presi molto tardi proprio dagli americani e dagli inglesi – prosegue – in Italia abbiamo sentito il bisogno di usare un’espressione loro, forse perché suonava meno spaventosa del più crudo “segregazione”, o forse si è messo in atto il solito procedimento: attribuire a una parola straniera assolutamente ignota agli italiani un significato tecnico molto specifico, e poi far circolare questa parola al posto delle nostre, chiare e trasparenti» (La Stampa). Come diceva quello, «Le parole sono importanti».

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ANDRÀ COME DEVE ANDARE…

La preghiera quotidiana

Walter Ricciardi, «consigliere del ministro della Salute Speranza ed esperto di sanità pubblica di fama internazionale»: «Uno studio presentato il 24 aprile dal sottosegretario alla sicurezza interna Usa alla Casa Bianca mostrerebbe che il virus soffre il caldo umido. Al chiuso, con 24° e 20% di umidità può resistere su una superficie per 18 ore, con 35°e un tasso di umidità dell’ 80% la sua permanenza non supera l’ ora. Se poi si è al sole bastano 24° e lo stesso livello di umidità perché scompaia in due minuti» (La Stampa). Amen!

«Nella nostra epoca, in cui gli scrittori e gli scienziati hanno così stranamente usurpato il ruolo dei sacerdoti, l’opinione pubblica, con una compiacenza che non ha un fondamento razionale, pensa che le facoltà artistiche e scientifiche siano sacre. […]L’opinione degli specialisti esercita un potere pressoché sovrano su ciascuno di noi» (Simone Weil, La persona è sacra?).

Come si cambia, per non morire…

«Non essendo un giurista, non so se questi decreti siano incostituzionali. A occhio, mi pare di sì. Il punto però non è questo. Il punto è l’ abitudine all’ illibertà. All’ emergenza permanente. Da due mesi stiamo vivendo un esperimento sociale disumano. Non abbiamo più vita sociale, di lavoro, un contatto con il mondo esterno. Siamo chiusi dentro quelle che a volte sono capsule, perché la stragrande maggioranza della gente non vive in delle regge. Molta gente comincia a pensare: “Che fortuna che arrivino le forze dell’ ordine a beccare uno che sta prendendo il sole in spiaggia!”. “Ah, maledetti runner!”. “Ah, maledetti bambini!”.”Ah, maledetti cani!”» (P. Battista, La Verità).

Anche io ieri, sull’autobus, ho odiato un tizio, salito a bordo con tanto di mascherina d’ordinanza e di guanti igienici, che ha iniziato a tossire. L’ho fulminato con uno sguardo pieno di disprezzo, come se il poverino fosse salito sull’autobus per attaccarmi il maledetto Virus, come se ce l’avesse personalmente con me. Di certo io non uscirò migliorato da questa catastrofe umana.

Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019: IN CHE SENSO È CORRETTO PARLARE DI “REVISIONISMO STORICO”?

Ho appena letto la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Si tratta della Risoluzione che equipara nazismo e – cosiddetto – comunismo e che condanna i «crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo». Il documento si presta a diverse considerazioni, ma qui intendo tirare, in modo assai stringato, solo pochi fili polemici.

Giustamente da più parti si è parlato del contenuto di quella Risoluzione come di un rozzo revisionismo storico inteso a supportare un’iniziativa dai chiari connotati politico-ideologici, sintetizzabili nel concetto di superiorità europeista – e atlantista, visti i robusti legami che (ancora) legano i Paesi europei agli Stati Uniti. L’Unione Europea come faro di civiltà, come centro di irradiamento del benessere, della libertà, della tolleranza, dell’apertura, della pace; l’Unione Europea come baluardo contro ogni forma di totalitarismo e di gretto nazionalismo (o sovranismo), fonte di vecchie e nuove forme di razzismo e di derive autoritarie. Si tratta insomma del rancido minestrone ideologico che dovrebbe nutrire le iniziative europeiste intese a fare dell’UE un forte polo imperialistico in grado di reggere il confronto con la Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Com’è noto, ormai da diversi anni questo progetto, guidato da Berlino e Parigi, registra una grave battuta d’arresto, cosa che ovviamente delizia la concorrenza.

«La memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne» (punto L della Risoluzione). Inutile dire che «la resilienza europea alle moderne minacce esterne» non mi commuove neanche un po’: personalmente combatto tanto la patria chiamata Italia quanto la patria chiamata Europa. Come diceva quello, il proletariato non ha alcuna patria da difendere e un mondo da conquistare. Dicendo questo so di espormi al severo giudizio degli antitotalitari politici di Strasburgo, ma non posso farci niente; né d’altra parte mi sono mai illuso circa la natura dello Stato di diritto.

Scrive Cosimo Francesco Fiori: «Paesi ex membri del Patto di Varsavia, o addirittura compresi nel territorio dell’ex Urss (Paesi baltici) sono oggi sedi di basi della Nato. […] La continuità Urss-Russia porta a notevoli esercizi di revisionismo, come la recente rimembranza dello sbarco in Normandia, tenutasi in Inghilterra alla presenza della Regina Elisabetta, alla quale non erano presenti autorità russe (è vero che l’Urss non partecipò allo sbarco, ma era un paese alleato) ma era invece presente la Cancelliera Merkel (la Germania partecipò allo sbarco, ma invero dalla parte di chi sparava contro gli sbarcati)». Più che di revisionismo, qui parlerei piuttosto di un uso strumentale della storia, un’operazione vecchia quanto la storia stessa, la quale solo raramente si presta a una sua lettura univoca, e ciò vale soprattutto nei periodi di rapide trasformazioni sistemiche, com’è indubbiamente quello che stiamo vivendo, non a caso definito “interessante” da storici e da analisti geopolitici. Si piega la storia dal lato che più conviene in una data situazione: un classico nella vita degli Stati! Ovviamente chi rema contro la società capitalistica deve denunciare questo “revisionismo storico”, deve metterne in luce le reali motivazioni, senza però coltivare nella testa delle persone l’idea di una storia politicamente e socialmente neutra, a cominciare dal fatto che fin qui la storia è stata scritta dalle classi dominanti.

Per un comunista antistalinista (del resto non concepisco altro comunismo che non sia radicalmente antistalinista, antimaoista, ecc.) mettere sullo stesso piano storico-sociale nazismo e stalinismo è cosa assolutamente scontata, come deve risultargli ovvio vedere nel Patto Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto 1939 l’effettivo inizio cronologico (*) del secondo macello imperialistico chiamato dai vincitori d’allora Guerra di Liberazione. Lascio dunque a quelli che personalmente definisco falsi comunisti (i quali non a caso oggi simpatizzano per la Cina, per il Venezuela, per Cuba, e qualcuno anche per la Russia di Putin, l’Iran, la Siria) l’escrementizia incombenza di difendere le ragioni storiche e politiche dello stalinismo, la cui genesi storica va a mio avviso rintracciata nella controrivoluzione politico-sociale che già negli anni Venti annientò l’eccezionale esperienza dei Soviet – con l’aggravante orwelliana di conservarne la simbologia, micidiale carta moschicida per molti intellettuali “comunisti” e “progressisti” europei.

Qui intendo solo osservare che è semplicemente ridicolo voler attribuire la responsabilità della Seconda guerra mondiale esclusivamente ai due totalitarismi europei (e a quello asiatico che reggeva il Giappone): le sue cause di fondo vanno infatti ricercate nella stessa natura del capitalismo mondiale giunto nella sua fase imperialistica. «La Prima guerra mondiale fu certamente “conseguenza immediata” dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, ma chi ritenesse tale evento causa sufficiente della guerra avrebbe bisogno di (ri)aprire i libri di storia. Analoga censura si può muovere alla risoluzione del Parlamento europeo, secondo la quale il Patto Molotov-Ribbentrop è sufficiente a spiegare il Secondo conflitto che ne è, appunto, “conseguenza immediata”. Ma non si fa menzione di ciò che lo ha preceduto: né, ad esempio, del riarmo tedesco, né dell’atteggiamento delle potenze occidentali dal Trattato di Versailles del 1919 (criticato fin da subito da Keynes) fino alla conferenza di Monaco del 1938, con la sostanziale acquiescenza all’espansionismo del Terzo Reich» (C. F. Fiori). Se la Germania, l’Italia e il Giappone erano certamente interessati a modificare l’ordine mondiale di quel tempo, questo si spiega non con la natura totalitaria dei rispettivi regimi, ma appunto con gli interessi imperialistici (di natura economica, militare, geopolitica) di quei Paesi, sempre più insofferenti nei confronti degli “equilibri mondiali” difesi da Stati Uniti, Regno Unito e Francia, legittimamente gelosi di un assetto geopolitico e geoeconomico che li favoriva.

L’Unione Sovietica si barcamenava a “destra” e a “sinistra” dello schieramento interimperialistico per conquistare tempo alla sua già spiccata voracità imperialistica non ancora adeguatamente supportata dal suo Capitalismo di Stato – altro che “Socialismo in un solo Paese”! In questa impresa il “Paese dei Soviet” (sic!) poteva d’altra parte contare su una vasta rete “diplomatica” non convenzionale costituita dai Partiti cosiddetti comunisti foraggiati, in tutti i sensi, da Mosca. Com’è noto, in quella rete si distingueva per zelo e servilismo il Partito di Togliatti, quest’ultimo giustamente considerato il migliore fra gli stalinisti, e non solo fra quelli italiani (**).

In secondo luogo, si “dimentica” che la Russia stalinista fu parte integrante e decisiva dello schieramento antinazista, beninteso una volta che il camerata Hitler ebbe la malsana idea di “tradire” il “compagno” Stalin per papparsi i grassi territori dell’Unione Sovietica, un boccone troppo grosso e duro da digerire che risulterà fatale al Terzo Reich – che si voleva Millenario . Si “dimentica” che la spartizione dell’Europa e del mondo fra le potenze vincitrici fu l’epilogo di una guerra che aveva visto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ascendere al rango di prime potenze imperialistiche mondiali, e la Gran Bretagna e la Francia discendere mestamente verso più modeste posizioni nella classifica delle Potenze, fino a perdere il loro vecchio e “glorioso” rango di Potenze Globali. Le foto che ritraggono Stalin, Roosevelt (e poi Truman) e Churchill seduti insieme al tavolo dopo un summit più o meno decisivo illustra bene lo spirito di “fraterna collaborazione” che regnava tra i briganti (per dirla con Lenin) dell’Alleanza politico-militare uscita vittoriosa dal conflitto. «Questa fetta di torta a me, e quest’altra a te. Le briciole cadute a terra lasciamole pure al cane sdentato che abbaia pietosamente».

Dal mio punto di vista, una prospettiva del tutto estranea e ostile al cosiddetto “comunismo” di matrice togliattiana, tutti i protagonisti della carneficina mondiale vanno dunque messi su un unico piano: quello del conflitto interimperialistico per la spartizione del bottino.

L’Europa “pacifista” (in realtà “pacificata”, a suon di bombardamenti terrestri, marittimi e aerei) di oggi non sarebbe spiegabile senza gli scarponi militari Made in USA e Made in URSS: solo dopo la guerra e la spartizione del mondo Washington e Mosca “scopriranno” di essere i centri mondiali di due diverse e opposte “concezioni del mondo”, di due diverse e opposte “civiltà”: da una parte il Capitalismo e la democrazia (capitalistica, appunto), dall’altra il “Socialismo” [sic!] e la “dittatura del proletariato” (o del “popolo”, cioè del Partito-Regime: vedi anche la Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping). La lunga Guerra fredda fu il modo in cui le due Super-Potenze cercarono di mantenere inalterato il quadro degli assetti imperialistici disegnato dalla Seconda guerra mondiale; la propaganda ideologica apparecchiata a Mosca e a Washington serviva a rafforzare quel quadro, tenendo viva e calda la minaccia di una guerra termonucleare che avrebbe riportato il mondo ai tempi degli uomini primitivi. Com’è noto, l’Unione Sovietica non fu in grado di reggere il confronto strategico con gli Stati Uniti, i quali peraltro sul versante della competizione economica iniziarono a soffrire l’iniziativa degli “alleati” (della Germania e del Giappone, in primis) già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.

Scrive il già citato Fiori: «D’altra parte, quel Patto è piuttosto incongruo, alla luce di quel che è successo sia prima, sia dopo: la Germania nazista si allea coll’unico Paese comunista al mondo dopo aver mandato tutti i comunisti tedeschi nei campi di concentramento, e poi tenta di cancellare il suo alleato dalle cartine geografiche. La guerra mondiale fu diverse cose assieme, e isolare un fatto storico dal suo contesto è errore talmente grossolano che si può spiegare solamente in base al valore polemico che una simile premessa assume». Certo, se si attribuisce all’Unione Sovietica di Stalin una natura comunista, o socialista (ancorché segnata da un “socialismo reale” molto lontano dal “socialismo ideale”), il famigerato Patto nazistalinista può apparire effettivamente «piuttosto incongruo», per non dire assurdo, inspiegabile senza scomodare categorie storiche, politiche e sociologiche di cui personalmente non ho contezza; se invece si attribuisce a quel Paese una natura pienamente capitalistica e imperialista, come peraltro cominciarono a fare alcuni comunisti europei già alla fine degli anni Venti, allora la cosa rientra nella normalità del processo storico-sociale e perde tutti i suoi caratteri misteriosi e “incongrui”.

«È scarsamente euristico catalogare regimi politici sulla base di conteggi e tassonomie che escludono il loro elemento più pregnante, ossia il loro contenuto concettuale. Una fondata analisi deve saper fare distinzioni, senza mescolare il tutto in una stolida e generica critica della violenza in astratto, che di fronte all’erompere della necessità della Storia ha lo stesso grado di utilità che potrebbe avere una critica della legge di gravità» (Fiori). Credo di aver chiarito, con tutti i limiti concettuali e politici che sono il primo a riconoscermi, il «contenuto concettuale» dei due regimi in questione, e di aver riempito di contenuti storici e sociali la violenza dispiegata dal nazismo e dallo stalinismo, la cui natura (capitalistica) è del tutto identica a quella che anima le iniziative dei Paesi che oggi predicano contro il totalitarismo di ieri, di oggi e di domani.

È nella natura totalitaria dei vigenti (su scala mondiale) rapporti sociali capitalistici che, a mio avviso, va ricercata la causa fondamentale della violenza sistemica (materiale, “spirituale”, morale, psicologica, in una sola parola: esistenziale) che, oggi come ieri, si manifesta in mille modi, in ogni aspetto della prassi sociale e della vita di ogni singolo individuo, e che rischia continuamente di dispiegarsi nella sua forma più “pura”. Sulla base di questi rapporti sociali tutto il male è possibile, anche quello che oggi ci appare come inconcepibile: troppo spesso questa apparenza è stata smentita.

Aggiunta del 29 settembre 2019:

La rozzezza dell’operazione non è sfuggita nemmeno a un antitotalitario ed europeista doc come Mattia Feltri, il quale ha letto la Risoluzione del Parlamento europeo come un maldestro tentativo di appiccicare all’UE un’identità che ancora essa non riesce a trovare, divisa com’è al suo interno da interessi nazionali che non riescono a trovare una “sintesi” (Lo spettro dei totalitarismi se l’Europa non riesce a definirsi, La Stampa).

(*) Come storico dello stalinismo Viktor Suvorov, ex ufficiale del controspionaggio militare sovietico il cui vero nome è Vladimir Rezun, lascia alquanto a desiderare. Concordo invece con lui quando scrive: «Curioso davvero: la Germania ha aggredito la Polonia, quindi la Germania ha iniziato e partecipato alla guerra europea e, di conseguenza, mondiale. L’Unione Sovietica ha fatto lo stesso, e nello stesso mese, però di lei non si dice che ha iniziato la guerra. E la sua partecipazione alla guerra mondiale viene calcolata soltanto a partire dal 22 giugno 1941. Perché?» (V. Suvorov, Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano 2000). Già chissà perché. Azzardo una capziosa risposta sotto forma di domanda (retorica): non sarà perché la storia è scritta dai vincitori?

(**) «La notizia del Patto Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto del1939 a Mosca si abbatté come un terribile elettroshock su tutto il corpo del comunismo mondiale. Le parole di Stalin rivolte al ministro degli Esteri nazista: «Io so quanto la nazione tedesca ami il suo Fuhrer, io bevo dunque alla sua salute», sono, per tutti i rivoluzionari professionali, i militanti di base, i simpatizzanti, un insulto e un evento difficile da capire, da accettare, da spiegare. […] Il 23 agosto l’Humanité ha pubblicato, forse ispirata dai rappresentanti del Comintern in Francia, uno strano articolo nel quale si auspica, in nome della pace mondiale, un generale embrassons nous, comprendendo la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini. Il giorno dopo, 24 agosto, il Pcf è già ben allineato mentre l’indignazione dei francesi, senza troppe distinzioni di classe o di credo politico, è al massimo. Gitton sull’Humanité e Louis Aragon su Ce Soir, sostengono la tesi quasi obbligata che il Patto è una vittoria dell’Urss, di Stalin, del pacifismo. Ma le acrobazie dialettiche servono a poco. La situazione per il Pcf diventa di ora in ora più pesante. Fortunatamente c’è a Parigi in quei giorni un ospite d’eccezione: Palmiro Togliatti. Togliatti è stato tra gli ultimi a lasciare la Spagna per raggiungere via Parigi, dopo un viaggio avventuroso nel maggio del 1939 la capitale sovietica. Inaspettatamente Togliatti, uno dei più importanti dirigenti del Comintern, viene rispedito solo tre mesi dopo, alla fine di luglio, a Parigi. Paolo Spriano nella lunga ed esauriente introduzione al IV volume delle Opere di Togliatti (Editori Riuniti) affaccia l’ipotesi del tutto credibile che egli sia stato mandato a Parigi per seguire da vicino la situazione francese in un momento delicato quale è quello del luglio 1939. […] Per i comunisti italiani che vivono in carcere o da fuorusciti la situazione non è meno drammatica. La terribile fotografia in cui si vede Stalin stringere la mano a Ribbentrop, oltretutto, coglie il Pci in un momento di profonda crisi. I rapporti con i cugini socialisti tendono a peggiorare ogni giorno di più. […] Ma a questo punto, per concludere la rievocazione delle ripercussioni del Patto Molotov-Ribbentrop sul mondo comunista, dobbiamo tornare a Parigi. Abbiamo lasciato Togliatti nel carcere della Santé. Dimitrov in prima persona e l’intero apparato del Comintern si sono mobilitati per la sua liberazione, assoldando avvocati di grido e, probabilmente, trattando sottobanco con la polizia e i servizi segreti di Parigi. Uscito dal carcere, e prima di partire per Mosca, Togliatti trascorre un mese nascosto nella casa di Umberto Massola. Ed è qui che il capo dei comunisti italiani prepara quelle Lettere di Spartaco che costituiscono il punto più alto dello stalinismo del Pci, e forse sono la vera ragione della missione di Togliatti a Parigi. In quelle lettere il Patto viene giustificato e preso a pretesto per una serie di attacchi forsennati ai socialfascisti: “Fanno oggi quello che fecero nel corso della guerra imperialistica del 1914-1918. Sono al servizio della borghesia imperialista reazionaria e guerrafondaia, sono all’avanguardia nelle campagne di menzogne, di calunnie, e di provocazioni”. Il 3 settembre del 1939 Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Comincia la drole de guerre che di lì a pochi mesi si trasformerà nella più spaventosa tragedia di questo secolo. Cinquant’anni sono trascorsi da quel fatale brindisi tra Stalin e Ribbentrop. Ma le scorie del Patto come certe piogge radioattive continuano a manifestare i loro effetti negativi» (G. Corbi, La Repubblica, 18 agosto 1989).

 

HONG KONG E LA “RIVOLUZIONE COLORATA” (ROSSO SANGUE?) DEL GLOBAL TIME

Il Global Time, il quotidiano in lingua inglese del regime cinese, si chiedeva ieri: «Si sta verificando una rivoluzione colorata a Hong Kong?». La risposta non si fa attendere e non potrebbe essere più chiara: «Pensiamo di sì, anche se questo è in qualche modo sconcertante». Ciò che sconcerta i funzionari del Partito-Stato è che una protesta nata su questioni particolari, sebbene di notevole importanza politico-istituzionale, si sia rapidamente trasformata in «una spietata distruzione dello Stato di diritto della città», abbia cioè assunto la dimensione di un movimento sociale che contesta l’intero assetto politico-istituzionale di Hong Kong basato sulla nota formula “Un Paese, due sistemi”. Come scrivevo in un precedente post, la formula andrebbe modificata come segue: «Un Paese (ovviamente la Cina), un sistema sociale (quello capitalistico), due diversi regimi politico-istituzionali – in attesa del fatidico, e per molti cittadini di Hong Kong famigerato, 2047, anno fissato per la piena integrazione dell’isola nel sistema cinese».

In realtà non c’è nulla di sconcertante in ciò che è accaduto e sta accadendo a Hong Kong, perché molto spesso una crisi politico-sociale di limitate proporzioni si trasforma rapidamente in una scintilla che innesca un incendio di vaste proporzioni, soprattutto in presenza di un materiale esplosivo che per deflagrare aspetta solo un detonatore di qualche tipo. Lo abbiamo visto recentemente in Francia con i Gilets Jaunes. La pressione generata dalle contraddizioni sociali ha modo di venire allo scoperto tutte le volte che essa incontra un punto di debolezza o uno strappo nel tessuto sociale.  Scrive il sociologo Paolo Sorbi: «Il motore delle proteste a Hong Kong è la diseguaglianza. Milioni di ragazzi contestano i troppi divari del paradiso super liberista. L’isola è l’emblema della globalizzazione che però mostra gli stessi segni di crisi delle dinamiche internazionali. Sono soprattutto le fasce giovanili a risentire della precarietà lavorativa prodotta dalla concentrazione finanziaria e tecnologica» (Avvenire, 11/8/2019). E questi stessi giovani sanno che il regime cinese tratta col pugno di ferro ogni forma di espressione del dissenso sociale (che esso controlla servendosi dei mezzi tecnologici oggi più avanzati del pianeta: vedi riconoscimento facciale), ed è quindi comprensibile che essi si facciano delle illusioni sulla democrazia di stampo occidentale, la quale usa metodi assai più sofisticati di quelli normalmente adoperati da Pechino per arginare, imbrigliare e soffocare l’antagonismo sociale, anche se l’uso del nodoso bastone quando occorre è tutt’altro che raro nei Paesi occidentali.

Un “terrorista” in piena azione a Hong Kong. Basterà il suo “delinquenziale” travisamento contro il riconoscimento facciale?

Gli ideologi della democrazia occidentale contestano al regime cinese l’uso del concetto di Stato di Diritto: «Quello cinese non è uno Stato di diritto ma uno Stato autoritario». Nella misura in cui ritengo il concetto di Diritto strettamente e inscindibilmente legato al concetto di Dominio (di classe), ritengo del tutto infondata la contrapposizione ideologica («a testa in giù») tra Stato di Diritto e Stato autoritario. Come ho scritto altre volte, il diritto equivale a forza, di più: il diritto è forza (materiale, politica, culturale, ideologica, psicologica, in una sola parola: sistemica). Scriveva Marx: «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro Stato di diritto» (Grundrisse).

Non sarò insomma io a contestare al regime cinese, come a qualsiasi altro regime di questo capitalistico mondo (a cominciare da quello italiano, visto che la mia nazionalità batte bandiera italiana),  il Diritto di regolare con la forza i conti con il ribellismo sociale, prassi escrementizia che ovviamente mi troverà sempre all’opposizione, “senza se e senza ma”. A questo proposito devo confessare che mi fanno ridire (trattasi di eufemismo!) i discorsi di quei “comunisti” che sostengono la tesi secondo la quale solidarizzare con il movimento sociale di Hong Kong significa, «di fatto, oggettivamente» (sic!), indebolire la Cina e rafforzare gli Stati Uniti, come se il contrasto tra questi due Paesi non si dipanasse interamente sul terreno della contesa interimperialistica! Ovviamente le cose non stanno così per i sostenitori del «Socialismo con caratteristiche cinesi», degni eredi degli stalinisti che ai “bei tempi” dell’Unione Sovietica difendevano le ragioni dell’imperialismo russo contro le ragioni dell’imperialismo americano, ragioni che dal punto di vista autenticamente rivoluzionario erano disumane e ultrareazionarie in egual misura. Le classi subalterne, ovunque esse sono sfruttate e oppresse, hanno lo stesso nemico (il dominio sociale capitalistico) e possono contare solo sull’autonomia di classe: ogni tifoseria “campista” (campo occidentale o campo antioccidentale?) non è che un arruolamento dei subalterni negli eserciti che combattono quotidianamente la guerra sistemica globale/mondiale.

Il Global Times teme come la peste il regime change: «I manifestanti radicali mirano a costringere il governo centrale a rinunciare alla governance su Hong Kong, ad aderire al suffragio universale e riportare la città sotto il controllo del mondo occidentale. Lo status di centro finanziario internazionale della città, la sua industria marittima internazionale e il turismo sono la linfa vitale della sua economia, che è stata pesantemente colpita dalle rivolte. Se Hong Kong perde il suo status di centro finanziario internazionale, il declino della città è inevitabile. […] Il governo cinese non permetterà mai all’opposizione estremista e all’Occidente di trascinare Hong Kong nel campo anti-cinese, né permetterà alla città di scivolare nel caos a lungo termine o diventare una base per l’Occidente per sovvertire il sistema politico cinese». Ce n’è abbastanza da temere il bagno di sangue. Il sangue di giovani già bollati da Pechino come terroristi. «Decine tra blindati corazzati e camion per il trasporto truppe dell’Esercito sono stati piazzati in uno stadio di Shenzhen, la città cinese a ridosso di Hong Kong: lo riferisce il Daily Mail pubblicando le immagini satellitari del sito» (ANSA). Ecco, appunto!

CATALOGNA. SUL PONTE SVENTOLA LA BANDIERA BIANCA! E NON SI CANTA L’INTERNAZIONALE…

L’ex Presidente della Catalogna Carles Puigdemont per molti è un eroe della ribellione indipendentista e della libertà. In questi ultimi tempi mi è capitato spesso di citare Franco Battiato, e oggi lo faccio ancor più volentieri anche come augurio di una sua pronta guarigione dopo l’ultima dolorosa caduta: «Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso». Quando ci vuole, ci vuole!

Come ho scritto l’altro ieri, per me si tratta di battersi tanto contro l’unionismo spagnolo e l’attuale repressione giudiziaria e poliziesca scatenata da Madrid, quanto contro il secessionismo catalano, un progetto capitalistico al 100 per 100. Non si tratta di una posizione indifferentista, come sostengono coloro che sono abituati a pensare solo in termini di posizionamento (schieramento) interborghese (o stai con questa cosca capitalistica, supposta come il male minore, oppure con quella concorrente, supposta come “la peggiore”), ma di una posizione che cerca di costruire l’autonomia di classe a partire dalla disperata situazione in cui si trovano le classi subalterne di tutto il pianeta.

Ieri a Barcellona si gridava contro Madrid: «Questa non è giustizia, è dittatura! Questa non è democrazia, è fascismo!». Non sono d’accordo: questa è la giustizia borghese, questa è la democrazia borghese. Qualcuno ieri mi ha obiettato che nei miei post sulla crisi catalana non prendo in considerazione il carattere franchista (o fascista) del regime spagnolo; rispondo con una citazione: «Quando si usano le parole a casaccio finisce che si hanno idee a casaccio e si fanno proposte a casaccio. Il Governo PP-PSOE non è fascista: è un normale governo “democratico” come “democratico” è il governo di Trump, di Angela Merkel o di Paolo Gentiloni; solo gli incrollabili amici della democrazia borghese chiamano “fascisti” i governi quando manganellano i manifestanti, mettono le bombe sui treni, limitano il diritto di sciopero, partecipano ad aggressioni militari, ecc…; non hanno ancora capito che la democrazia borghese può essere violenta tanto quanto certi regimi fascisti» (Antiper). È sufficiente ricordare la repressione degli anni Settanta del secolo scorso in Italia e in Germania per capire con quanta maestria la democrazia capitalistica sappia dosare l’uso della carota e del manganello, della scheda elettorale e del carcere. Sulle superstizioni democratiche coltivate da molti sinistrorsi cosiddetti radicali, rinvio a miei diversi scritti (*).

In un precedente post avevo messo in luce il carattere leghista (soprattutto del leghismo delle origini, quello caldeggiato da Gianfranco Miglio, per intenderci) del movimento indipendentista catalano, e la sua connessione con la globalizzazione capitalistica, la quale tende a ridisegnare gli assetti politico-istituzionali dei Paesi e dei continenti seguendo le linee di forza generate dal processo capitalistico di produzione/distribuzione della ricchezza sociale. «Nella vecchia logica dello Stato moderno», scriveva Miglio, «si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia, la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale». Mi è ritornata in mente questa intelligente riflessione ieri sera, dopo aver letto l’ultima dichiarazione di Puigdemont dall’esilio (?) belga: «Il leader del Pdecat, Puigdemont, si considera in esilio anche se oggi ha detto che questo non gli impedirà di fare campagna, “visto che viviamo in una società globalizzata”» (ANSA). Ricordate il concetto di GloCal che impazzò durante l’epoca d’oro dell’ideologia globalista? Pensare globale e agire locale, si diceva. Ecco, l’ex Presidente della Generalitat, che si è detto pronto a consegnarsi «alla vera giustizia, quella belga» (prendo nota, non si sa mai…), sembra incarnare al meglio lo spirito GloCal.

L’interessante analisi di Oriol Nel·lo Colom (Limes) sembra avvalorare quanto appena detto: «Il processo d’integrazione europea – uno dei frutti più lampanti della dimensione politica della globalizzazione – è percepito come una cornice che, invece di frenare l’anelito indipendentista, ne assicura la viabilità, offrendo una struttura di protezione e di inquadramento per l’eventuale nuovo Stato. Da qui l’apparente contraddizione di un movimento sovranista che, a differenza di quelli nazionalisti xenofobi, si definisce europeista, benché il processo d’integrazione comunitaria comporti necessariamente una riduzione della sovranità degli Stati. Il movimento indipendentista catalano si inscrive dunque nella tendenza verso il rescaling della politica europea, che ha trovato terreno fertile in Scozia, nelle Fiandre e nel Paese Basco. Il fatto che, nonostante l’apparente immutabilità delle frontiere europee, sia emersa nell’ultimo quarto di secolo una nutrita schiera di nuovi Stati nel continente, molti dei quali hanno aderito all’Ue, ha anche contribuito a evidenziare l’esistenza di una finestra di opportunità per il movimento indipendentista. Da qui i continui richiami all’intermediazione europea da parte del suo corpo dirigente. Di contro, l’Unione Europea si è mostrata refrattaria a farsi coinvolgere, quantomeno pubblicamente, mentre la causa indipendentista non ha trovato sponde in alcun governo d’Europa, né in alcuna delle principali organizzazioni internazionali». La costruzione di un polo imperialista europeo in grado di competere con Stati Uniti e Cina non è esattamente un pranzo di gala e trova lungo il suo percorso ostacoli vecchi e nuovi.

«Migliaia di catalani si sono concentrati in tutto il paese davanti ai luoghi di lavoro a mezzogiorno per un minuto di silenzio all’appello delle organizzazioni della società civile indipendentista per protestare contro il “processo politico” avviato contro il Govern. Centinaia di persone si sono riunite davanti al Palazzo della Generalità a Barcellona gridando “Puigdemont è il nostro Presidente”, “Llibertat!” e cantando l’inno di Els Segadors» (La Stampa). Els Segadors, dunque!

Bon cop de falç!
Bon cop de falç, defensors de la terra!
Bon cop de falç!

Ara és hora, segadors!
Ara és hora d’estar alerta!
Per quan vingui un altre juny
esmolem ben bé les eines!

Que tremoli l’enemic
en veient la nostra ensenya:
com fem caure espigues d’or,
quan convé seguem cadenes!

Buon colpo di falce!
Buon colpo di falce, difensori della terra!
Buon colpo di falce!

È giunta l’ora mietitori!
È giunta l’ora di stare all’erta!
Per quando verrà un altro giugno
teniamo affilati gli arnesi!

Che tremi il nemico
vedendo la nostra insegna:
come facciamo cadere le spighe dorate,
quando è opportuno seghiamo le catene!

Ecco! Le catene bisogna segarle, non renderle più forti marciando a fianco del nemico di classe! E ovviamente questo vale per le classi subalterne non solo di Barcellona e di Madrid, ma di tutto il mondo. Come sottrarci alle lotte di potere intercapitalistiche (su scala locale, nazionale e internazionale)? Come costruire l’autonomia di classe e demistificare l’ideologia dominante (che trova alimento anche nell’eterno e falso dualismo tra democrazia e fascismo)? Come estirpare la pianta velenosa del nazionalismo delle piccole e delle grandi patrie? Questo è il tema che personalmente mi interroga in quanto proletario anticapitalista.

Compagni catalani e spagnoli, «teniamo affilati gli arnesi» contro il capitale, non contro una capitale (Barcellona o Madrid che sia)! Caspita, per un attimo ho creduto di essere Vladimiro… Sarà per via del noto centenario.

(*) solo alcuni titoli:

STATO DI DIRITTO E DEMOCRAZIA TRA MITO E REALTÁ

SULLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA

LA “BELLA POLITICA”, DA PERICLE A PIPERNO

LA CONSAPEVOLEZZA E IL CONSOLIDAMENTO DELLA POTENZA CAPITALISTICA CINESE

Ecco come Romano Prodi, studioso della società cinese e grande amico del Partito-Regime di Pechino, presentava ieri sulle pagine del Messaggero la prossima apertura del «19° Congresso del Partito Comunista Cinese. Un evento che deciderà in modo irrevocabile la futura politica di una Cina ormai diventata potenza globale nel campo politico, economico e militare»:

«La futura politica della Cina viene bene riassunta dalle due espressioni che più sono ripetute nelle informali discussioni precongressuali. Due espressioni che suonano come “consapevolezza e consolidamento” del ruolo della Cina nel mondo. Il paese che fino a pochi mesi fa veniva definito dai sui stessi governanti come un paese “in via di sviluppo” si prepara cioè ad un Congresso che vuole prendere apertamente atto di un grande obiettivo: giocare un ruolo di assoluta primazia nel futuro del pianeta. Prima di tutto con uno sforzo interno di trasformazione di un paese in cui ogni giorno nascono quindicimila nuove imprese, si abbandonano le produzioni a basso valore aggiunto, aumentano vertiginosamente le spese in ricerca e si sfida il primato mondiale in settori di vitale importanza nel futuro, come l’automobile elettrica e i supercomputer. Obiettivi che debbono accompagnarsi alla sostituzione di consumi agli investimenti, alla riforma del sistema bancario e alla riduzione delle inefficienze di molte imprese pubbliche. In politica estera saranno gli anni della concreta attuazione della via della Seta, che si traduce in un enorme impegno per l’espansione verso l’estero, attraverso una presenza pervasiva nell’Asia Centrale e una crescente influenza in Europa ed Africa. Un progetto di proiezione economica verso l’estero che non ha uguali. Il tutto accompagnato da un processo di modernizzazione e di rafforzamento degli apparati militari, anche se fino ad ora vi è una sola base militare all’estero (a Gibuti) di fronte alle alcune centinaia che gli Stati Uniti presidiano in tutto il mondo. Xi Jinping potrà aprire il Congresso con la consapevolezza che il progetto di spingere la Cina verso la primazia mondiale si fonda sulla condivisione di un nuovo sentimento di orgoglio nazionale».

Molti analisti di geopolitica segnalano con preoccupazione il crescente ruolo che Xi Jinping si sta ritagliando al centro del regime cinese, un ruolo paragonabile, mutatis mutandis, solo a quello avuto dal grande leader storico della Cina moderna Mao Tse-tung. Di certo c’è il fatto che la grande campagna moralizzatrice degli ultimi anni ha avuto un segno politico inequivocabile, tutto centrato sulla necessità di tagliare «alcuni nodi di potere che potevano condizionare la compattezza del comando della Cina. In conseguenza di queste decisioni politiche molti osservatori pensano che il prossimo congresso voterà in favore di un ulteriore accentramento del potere, con il passaggio da sette a cinque componenti del Comitato Centrale, che dovrebbe essere in ogni modo totalmente rinnovato. Rinnovato per fare che cosa?», si chiede Prodi. Questo in parte lo abbiamo già visto, lo vediamo oggi e lo vedremo soprattutto nel prossimo futuro.

Recensendo il libro di Simone Pieranni Cina globale (manifestolibri) Toni Negri parla della forte iniziativa imperialista cinese nei termini di un «discreto sogno imperiale». Verrebbe da dire: «discreto» solo fino a un certo punto, anche sul terreno squisitamente militare; e poi perché definire «imperiale» quel «sogno» e non invece, come pare più corretto a chi scrive, schiettamente imperialista? È sufficiente riflettere sull’espansione economico-finanziaria del capitalismo cinese, ad esempio in Africa, per capire che il concetto di imperialismo si applica a meraviglia alla Cina del XXI secolo. E senza che ciò significhi in alcun modo, come pensano i nostalgici del maoismo, una rottura radicale con l’esperienza rivoluzionaria nazionale-borghese (cosiddetta “socialista”) iniziata nel 1949. Esperienza che ha invece posto le premesse politiche e sociali dell’eccezionale decollo capitalistico della Cina moderna agli inizi degli anni Ottanta.

Alla Cina di Mao si può certamente attribuire, come fa Negri, il merito storico della «grande rinascita della nazione cinese: una rinascita costruita e gestita dal Pcc». Un merito che tuttavia non travalica di un solo millimetro i confini, appunto, della dimensione nazionale-borghese. A mio modestissimo avviso il Partito di Mao fu “comunista” solo di nome, esattamente come lo fu il partito “fratello” russo. Scriveva G. Carocci nell’Introduzione al libro di Maria Weber La Cina alla conquista del mondo (Newton, 2006): «Considerata in una prospettiva storica, la rivoluzione cinese, forse la più grande del ventesimo secolo, è stata paradossalmente il modo in cui si è affermato in Cina il capitalismo». A mio avviso non «paradossalmente», ma necessariamente, appunto perché quella rivoluzione non uscì mai dal quadro nazionale-borghese, sempre al netto della fraseologia pseudo marxista (condita in salsa cinese) usata dai suoi protagonisti, la quale certamente poteva impressionare gli intellettuali occidentali ormai stanchi della grigia propaganda filosovietica e alla ricerca di un nuovo mito “socialista”, magari più fresco ed esotico, ma che non poteva in alcun modo cambiare la natura del processo sociale avviato in Cina con la Rivoluzione del 1949. I fatti hanno la testa dura, come si diceva un tempo, e non si lasciano commuovere dalle liturgie ideologiche, siano esse di rito Russo (“ortodosso”), siano esse di rito Cinese.

Sulla rivoluzione cinese e sul maoismo rinvio a Tutto sotto il cielo – del Capitalismo e al post Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; diversi post sulla Cina sono stati pubblicati in questo Blog e per trovarli basta compulsare il suo motore di ricerca. Riprendo il filo del discorso.

La stessa «via della seta» che Negri ha cura di ricordare («un percorso marittimo e terrestre, sul quale costruire infrastrutture che permettano un più stretto collegamento fra la Cina, l’Asia centrale e meridionale e l’Europa») parla il linguaggio del Capitalismo giunto nella sua piena maturità imperialistica, se mi è consentito scopiazzare Lenin. D’altra parte Negri è più affezionato al concetto di impero che a quello di imperialismo. Su questo aspetto rinvio al post Quel che resta di Negri.

«Essa [la Cina] è l’unico grande paese industriale che subisce la crisi [del 2008] in maniera secondaria: ciò le permette oggi di esprimere una politica globale, da “grande potenza”». Sono sicuro che se Negri ci avesse intrattenuto sul “sogno” di un altro «grande paese industriale», ad esempio sul “sogno”degli Stati Uniti o del Giappone, certamente egli avrebbe aggiunto alla locuzione appena riportata la seguente precisazione: capitalistico. Per me la Cina è appunto un grande Paese industriale capitalistico, e non potrebbe essere diversamente nell’epoca in cui il rapporto sociale capitalistico domina in tutto il pianeta e influenza, in modo più o meno diretto e visibile, ogni aspetto della nostra esistenza. Dimenticanza o ambiguità da parte dell’intellettuale padovano? Ma forse egli dà per scontata la natura pienamente capitalistica della Cina mentre io, fedele al mio deprecabile settarismo, mi sforzo di individuare magagne ideologiche che non ci sono. Forse!

Scrive David Harvey: «La mia opinione è che anche se ci furono aspetti negativi, ovviamente, della storia dell’Unione Sovietica, onestamente, da quando è caduto il muro di Berlino il mondo non è certo diventato un posto migliore, in nessun modo. È peggiorato significativamente, e il motivo per cui non è peggiorato cosi prima è perché esisteva la minaccia del comunismo. Quando è sparita la minaccia del comunismo, ha lasciato un vuoto in cui ora regna il capitale, senza l’opposizione di nessuna forza, che ha portato all’accumulazione velocissima di ricchezza totalmente sbilanciata da parte di un gruppo minuscole della popolazione. E per me, l’unico antidoto possibile è ancora la Cina, nel senso che la Cina non è un paese pienamente capitalista nel senso normale del termine, e non è ancora chiaro come la Cina agirà». Chissà se Negri è d’accordo con questa ultrareazionaria posizione, tipica degli orfani e dei nostalgici del mondo perduto della Guerra Fredda.

Scriveva Negri su un saggio-intervista del 2006 (Goodbye Mr. Socialism, Feltrinelli): «Al momento della morte di Mao e dell’avvio del processo alla Banda dei Quattro, dal 1976 in poi, fino al 1989, si aprì [in Cina ] un dibattito estremamente importante, su quale modernità abbracciare. Era acquisita l’unanimità rispetto alla critica verso la Rivoluzione culturale, però restava la domanda: “Un’altra modernità è possibile?” Nel 1989, il Partito comunista cinese ha deciso che un’altra modernità non fosse possibile, che la sola modernità possibile fosse quella capitalistica, perdendo secondo me in quel momento e con quella decisione politica il treno dell’informatica e del lavoro cognitivo. […] Tien-An-Men è  questo: lo scontro tra il Pcc, che aveva scelto la via americana capitalisticamente classica, contro gli studenti e soprattutto contro il proletariato di Pechino che sostenevano gli studenti». Personalmente non capisco, per un evidente difetto di dialettica storico-economica, se Negri concepisca l’opzione “informatico-cognitiva” come una modernizzazione in ogni caso interna al modo di produzione capitalistico, come io credo, oppure se tale scelta, se presa, avrebbe portato la società cinese in direzione di un oltrepassamento del Capitalismo. In ogni caso è evidente che l’intellettuale italiano avrebbe preferito di gran lunga l’opzione “informatico-cognitiva” su quella «capitalisticamente classica» di stampo americana, e ciò probabilmente si spiega con la sua teoria proletario-cognitivista.

In effetti, la repressione del giugno ’89 va vista a mio avviso alla luce delle forti tensioni sociali, nazionali, etniche e financo generazionali generate dalla violenta accelerazione del processo di sviluppo capitalistico verificatosi in Cina appunto nei primi anni Ottanta, quando l’ambizioso programma di modernizzazione economica annunciato nel 1978 da Deng Xiaoping iniziò a essere implementato con confuciano rigore e su vasta scala. Per parafrasare la celebre battuta del Grande Timoniere, l’accumulazione/modernizzazione capitalistica, sebbene con «caratteristiche cinesi», non è mai stata, da nessuna parte, un pranzo di gala. La rivendicazione di una maggiore «agibilità politica» (sindacati liberi, stampa libera, associazionismo studentesco non irreggimentato dentro le strutture del Partito-regime, ecc.) e le stesse illusioni democratiche dei manifestanti, fomentate allora dalla perestrojka gorbacioviana e dal «sogno americano», hanno senso solo se considerate alla luce del grande rivolgimento sociale prodotto dal definitivo “decollo” del capitalismo cinese come nuova fabbrica del mondo, un fatto che ha avuto un grande impatto sull’intera struttura capitalistica mondiale, come sanno bene anche i salariati occidentali, la cui svalorizzazione (relativa e, in molti casi, assoluta) e la cui accresciuta produttività si spiegano appunto anche alla luce dei successi del Capitalismo cinese. Ricordo che nell’89 molti “comunisti” occidentali liquidarono il Movimento studentesco cinese come «entità controrivoluzionaria» solo perché esso aveva osato portare in Piazza Tienanmen un facsimile della statua della Libertà: che orrore! Meglio l’austero faccione del dittatore “rosso”.

«Al nuovo secolo cinese corrisponde forse il declino americano?», si chiede Negri nell’Introduzione citata in apertura: «Si può davvero pensare che il predominio geopolitico americano abbia lasciato spazio alla nuova potenza cinese? La discussione è aperta. […] È quindi sul terreno egemonico, che l’alternativa cinese si propone. Essa evita di presentarsi in un confronto diretto con la potenza americana ma agisce piuttosto in maniera trasversale». Ciò che Negri chiama «terreno egemonico», probabilmente anche per richiamare concetti cari alla sinistra italiana di matrice gramsciana («la parola “egemonia” è un sigillo che permette agli ortodossi di riconoscersi tra loro», avrebbe forse detto Marx), per me non è che una competizione interimperialistica sistemica; trattasi di una vera e propria guerra generalizzata: economica (industriale, commerciale, finanziaria, monetaria), scientifica, tecnologica, politica, geopolitica (strumento militare incluso), ideologica, psicologica. Per quel che ho capito, Pieranni e Negri osservano l’«incrociarsi di ostilità nazionaliste e di pretese egemoniche» solo nel campo dei competitors (Stati Uniti, Russia, India), mentre la Cina cercherebbe di implementare un progetto di globalizzazione fortemente inclusiva e pacifica: quella cinese sarebbe una “benevola” egemonia osteggiata dalla politica protezionista e muscolare (sul piano militare) di Trump. Scrive Pieranni: «La globalizzazione cinese ed il suo concetto di global governance si basa dunque su alcuni assiomi: armonia dal punto di vista diplomatico, mercati liberi ed in grado di far girare agevolmente merci e investimenti, pace tra le nazioni e un “destino comune” fatto di prosperità». Che bella globalizzazione! Insomma, Pieranni e Negri si limitano a riportare senza alcun commento ciò che da decenni ripete la propaganda politico-ideologica del regime cinese: «Pace tra le nazioni e un “destino comune” fatto di prosperità». Perfino il terribile Trump sottoscriverebbe le celesti intenzioni del regime cinese!

Nel 2008 Zhao Tingyang ha esposto con estrema chiarezza la filosofia dell’imperialismo cinese del XXI secolo con­trapponendo al mondo hobbesiano degli occidentali, fondato sugli Stati nazionali, il mondo-centro confu­ciano, fondato sull’armonia. «Se una politica è positiva ed è accettata da tutti diventerà la politica del mondo intero. È il sistema che noi chiamiamo “tutto-sotto-il-cielo”. Questa idea della politica si affermò in Cina tremila anni fa. Essa rappresentava la concezione ci­nese della politica mondiale. Nel sistema “tutto-sotto-il-cielo”, quando una società è largamente accettata dall’umanità, assurge a paradigma internazionale. In questo senso, l’attuale mondo anarchico è non-mondo. In altre parole, oggi il mondo in senso politico non esiste, mentre esiste in senso geografico […] Lo spirito del sistema Zhou era quello di massimizzare la coope­razione e minimizzare i conflitti […] Col trascorrere del tempo, l’immagine della Cina che si è andata af­fermando nel mondo è quella dell’impero cinese. Ma si tratta di un grave travisamento del nostro pensiero. Come eredità della dinastia Zhou, il sistema “tutto-sotto-il-cielo” ha sempre rappresenta­to la concezione cinese del mondo. I filosofi cinesi di varie generazioni ne hanno offerto per migliaia di anni nuove inter­pretazioni. Quel sistema influisce ancora oggi nel modo in cui i cinesi interpretano la politica. Non è possibile comprendere la politica cinese se non si comprende prima il sistema “tut­to-sotto-il-cielo”. Ogni cosa dipende dalle altre. La coesistenza è necessaria all’esistenza. Questa è l’ontologia cinese. […] Laozi disse che se si vuole capire il mondo bisogna osservare le cose dal punto di vista del mondo intero» (Limes, 11/07/2008). Ora che l’economia capitalistica ha davvero fatto del nostro pianeta un solo mondo; ora che tutti gli individui vivo­no sotto un solo cielo, cioè sotto un solo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, la Cina può seriamente aspirare a porsi al centro del mondo, rendendo concreta l’”utopia” della dinastia Zhou.

Che poi Negri guardi con un occhio di riguardo, per così dire, al regime cinese si capisce anche dalla preoccupazione che segue: «Sono talvolta spaventato dall’intensità della lotta ideologica attorno alla ridefinizione della “nazione” cinese. È fuori dubbio, e Pieranni sarà d’accordo, che ogni definizione di populismo diventerà derisoria se dovessimo confrontarla alla nascita di un eventuale nazionalismo cinese, all’emergere, non più fantasmatico, di un “dragone rosso”. Malgrado tutto – ed è opportuno doverlo ammettere – il partito comunista cinese si rivela assai efficace nel controllare ogni pericolo su questo terreno». Da notare: «talvolta» (quale tatto! quale prudenza! quale cautela!) e «eventuale nazionalismo cinese». Eventuale! Ma per fortuna «il partito comunista cinese» si mostra ancora in grado di contenere la bestia nazionalista che si agita nel sottosuolo cinese. Qualcuno avverta l’intellettualone di Padova che ormai da decenni il “dragone rosso” è venuto fuori dalla dimensione “fantasmatica” per recitare un ruolo di grandissimo rilievo sulla scena interna e internazionale. Altro che eventuale: il nazionalismo cinese è una gigantesca realtà! Cosa attestata, tra l’altro, dalla questione Hong Kong e dalle tensioni politico-militari con il Giappone per ciò che riguarda il Mar Cinese Orientale e Meridionale.

«Il libro di Pieranni ha il merito tutto teorico di identificare il nuovo terreno sul quale, oggi, la ricerca dell’ordine globale (e le alternative ad esso) non può non concentrarsi. L’ordine globale sta infatti costruendosi sull’orizzontale dei rapporti di forza piuttosto che sull’asse verticale del potere sovrano, ed è investito da flussi globali ed attraversa le frontiere, si propone di coordinare mobilità e molteplicità degli attori. Se lì si forma l’ordine mondiale, è lì dentro che dobbiamo analizzare i rapporti di sfruttamento ed organizzare la lotta di classe». In effetti «l’ordine globale» si è sempre costruito «sull’orizzontale dei rapporti di forza» economici, e alla fine la cosa diventa palese attraverso eventi (vedi il crollo dell’Unione Sovietica e l’ascesa di Paesi come la Germania e il Giappone) che lasciano sbigottiti solo chi osserva la contesa interimperialistica da una prospettiva politicista e ideologica. Presto o tardi il reale fondamento sociale dell’imperialismo viene a galla, ed è per questo che mi fa ridere quando qualcuno presenta l’imperialismo cinese dei nostri giorni nei termini di un «soft power» fondamentalmente pacifico.

In un articolo pubblicato il 14 luglio 2017 sul Manifesto Pieranni ha ricordato  Liu Xiaobo, il premio Nobel cinese per la pace del 2010 morto dopo anni di persecuzioni e di galera. «Liu Xiaobo è morto in un ospedale cinese, come successe a un unico altro Nobel, il giornalista tedesco von Ossietzky, morto nel 1938 in ospedale mentre era ancora sotto custodia dei nazisti». Lo ammetto: questo “oggettivo” accostamento tra nazionalsocialisti e socialnazionalisti mi garba molto. «In Charta 08 – prosegue Pieranni – oltre alla richiesta di democrazia, elezioni, divisioni dei poteri, rispetto per i diritti umani e federalismo repubblicano, si invitava anche a smantellare le aziende di stato, a privatizzarle. Analogamente veniva proposta la privatizzazione delle terre. E più di tutto si chiedeva una riscrittura completa della costituzione cinese. Per Pechino si trattò di un documento che aveva superato ogni limite del consentito, perché non solo criticava lo status quo, ma metteva anche in evidenza i passaggi politici possibili per mutare l’ordinamento politico cinese».

Ora mi chiedo: se domani, e sottolineo se, la società cinese venisse investita da una “Primavera” che avesse come sua piattaforma politico-economica la Charta liberale e liberista di Liu Xiaobo, come si comporterebbero, quali parti sosterrebbero Pieranni e Negri nel caso in cui il regime, che com’è noto ha al cuore «il partito comunista cinese», decidesse di reprimerla e annegarla nel sangue come accadde ventotto anni fa? È una pura curiosità, intendiamoci. Come mi comporterei io? Di certo non prenderei le parti del regime stalinista con caratteristiche cinesi; di certo non mi preoccuperei per l’integrità nazionale della Cina minacciata dal caos sociale, e di certo non tiferei per il Capitalismo di Stato con caratteristiche cinesi minacciato da un programma di liberalizzazioni economiche. Come dice Negri, anche in Cina si tratta di «organizzare la lotta di classe», senza alcun riguardo per le diverse fazioni (nazionali e internazionali) della classe dominante. Detto en passant, secondo dati ufficiali in Cina il settore privato genera il 60 % del Pil e occupa l’80 % della forza-lavoro. Grandi e numerose sacche di inefficienza e di corruzione si possono individuare soprattutto nel settore statale del Capitalismo cinese. Anche da questo punto di vista “tutto il mondo è Paese”.

E qui per oggi mi fermo, pronto a ritornare sulla questione dopo aver letto il fondamentale discorso del Premier cinese.

IL VENEZUELA E L’ODIOSA COAZIONE A RIPETERE DELLO STALINISMO

Mutatis mutandis

 

Qui per stalinismo intendo una peculiare concezione della società e della politica che prescinde dallo stesso puntuale riferimento storico alla concreta esperienza stalinista consumatasi in Russia come espressione della controrivoluzione antisovietica dispiegatasi nella seconda metà degli anni Venti del secolo scorso.

 

Marinellys Tremamunno, una giovane giornalista italo-venezuelana, ha scritto un libro intitolato Venezuela. Il crollo di una rivoluzione (Edizioni Arcoiris, 2017). In realtà in quel Paese non è crollata alcuna rivoluzione; piuttosto è andata in frantumi l’ennesima illusione “rivoluzionaria” di chi non avendo ben chiaro in testa il concetto stesso di rivoluzione, e volendo tuttavia «cambiare il mondo qui e subito», si lascia turlupinare con estrema facilità dalla propaganda “rivoluzionaria” del liberatore di turno, ossia dal demagogo/populista chiamato dal processo sociale ad esprimere gli interessi (economici e politici) della classe dominante o solo di una sua particolare cosca. D’altra parte sempre i “liberatori” si presentano dinanzi all’opinione pubblica nelle vesti dei «veri rivoluzionari», nei panni di chi la rivoluzione la vuole fare davvero, e non solo a chiacchiere – vedi chi scrive. L’ex socialista Benito Mussolini, promotore della “Rivoluzione Fascista”, una volta proclamò: «In principio è l’azione!». Il bello, ma si fa per dire, è che questi personaggi credono davvero di essere dei rivoluzionari, soprattutto perché essi hanno in testa un concetto ultramiserabile di “rivoluzione”. Chi non vuole lasciarsi usare dal demagogo di turno ha invece l’obbligo di capire la precisa natura di ciò che si agita nella società, per non nutrire false speranze, per non sostenere senza volerlo progetti ultrareazionari e, last but not least, per non lasciarci le penne difendendo una causa completamente sbagliata. Per l’autentico rivoluzionario e per chi non vuole diventare cibo per i pescecani della politica, la teoria non è un lusso, ma una stringente necessità politica, un vero e proprio “salvavita”.

Come scrive Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano, in un articolo molto interessante fin dal titolo (Quando il problema è la sinistra), «Quello che sta succedendo in Venezuela non ha nulla a che vedere con una “rivoluzione” o con il “socialismo”, né con la “difesa della democrazia”e nemmeno con la trita “riduzione della povertà”, tanto per passare in rassegna gli argomenti che si utilizzano a destra e sinistra. Si potrebbe menzionare il “petrolio”, e saremmo più vicini». Non c’è dubbio. L’interessante articolo di Zibechi, che invito a leggere, si conclude come segue: «La polarizzazione destra-sinistra è falsa, non spiega quasi nulla di quel che sta accadendo nel mondo. La cosa peggiore, tuttavia, è che la sinistra è diventata simmetrica alla destra in un punto chiave: l’ossessione per il potere». Tuttavia se non si chiarisce la natura di questo potere, l’ossessione di cui giustamente parla l’intellettuale uruguayano rimane confinata in una sfera più psicologica che politica. La polarizzazione destra-sinistra non spiega niente di essenziale, ed è sempre più una mera finzione ideologica posta al servizio della lotta politica (borghese), perché essa si dà interamente dentro il perimetro tracciato dagli interessi capitalistici: “destra” e “sinistra” sono le due facce di una stessa medaglia perché entrambe difendono, magari in modo diverso (ma non sempre e non necessariamente) lo stesso status quo sociale.

Non essendo uno sprovveduto, Maduro sapeva benissimo che il suo invito a discutere da pari a pari rivolto a Donald Trump sarebbe suonato provocatorio alle orecchie del focoso Presidente della prima potenza imperialista del pianeta, e difatti la reazione della Casa Bianca non si è fatta attendere, cosa che ha permesso al Presidente venezuelano di intascare un prezioso dividendo “antimperialista”. Le minacce americane naturalmente sono le ben venute a Caracas, perché esse creano un clima di assedio che può consentire al regime chávista di alimentare la sua retorica “antimperialista” e così recuperare consenso almeno in una parte della popolazione venezuelana che lo ha abbandonato. Quando il nemico bussa alla porta, l’onesto patriota è chiamato ad abbandonare ogni controversia nazionale per schierarsi senza se e senza ma in difesa del sacro suolo patrio.

In quanto disonesto disfattista io difendo invece questa posizione: nello scontro sistemico (economico, tecnologico, scientifico, ideologico, militare) tra i Paesi (tra gli Stati, tra le Nazioni, tra le Potenze) le classi subalterne, e chi ha in odio i vigenti rapporti sociali capitalistici, non devono stare dalla parte dei soggetti capitalistici contingentemente più deboli, ma in primo luogo devono contrastare il proprio Paese e, in secondo luogo, il sistema delle nazioni capitalistiche in quanto tale, preso per così dire in blocco, senza fare alcuna distinzione tra piccole e grandi nazioni, tra piccoli e grandi imperialismi. Esiste un solo Sistema Mondiale del Terrore, e ogni sezione locale (regionale, nazionale, continentale) dà a esso il proprio maligno contributo in termini di sfruttamento, di oppressione e quant’altro. Nello scontro tra Venezuela e Stati Uniti io mio schiero contro entrambi i Paesi e, per quel che vale, auspico (dire «mi batto» mi sembra eccessivo, velleitario e soprattutto non vero, purtroppo!) un flusso di solidarietà che coinvolga i lavoratori venezuelani e statunitensi, così che essi possano affrancarsi dall’ideologia dominante, disintossicarsi dal veleno nazionalista, patriottardo, sovranista. La classe dominante vuole dare una patria ai dominati per legarli a doppio filo al carro degli interessi nazionali, i quali esprimono i suoi specifici interessi.

La mia opposizione a un eventuale intervento militare americano in Venezuela (o in Corea del Nord) non si situa dunque, politicamente parlando, sul terreno sovranista, né intende concedere un atomo di credibilità alla borghesissima e pacchiana menzogna della pari dignità tra le nazioni. Posto il vigente regime sociale mondiale, l’ineguaglianza degli individui e delle nazioni è un portato necessario; come scrisse una volta Engels, «L’effettivo contenuto della rivendicazione proletaria dell’eguaglianza è la rivendicazione della soppressione delle classi. Ogni rivendicazione di eguaglianza che esce da questi limiti va necessariamente a finire nell’assurdo» (Antidühring). Il nazionalismo borghese è costretto a fare la voce grossa soprattutto perché nell’epoca del dominio totalitario e totale (globale e mondiale) del Capitale ogni pretesa sovranista appare per quel che è: ridicola (*). Se vuoi allentare la corda che ti tiene legato a un imperialismo, devi necessariamente accettare di “venire a compromessi” con un altro imperialismo, il quale magari all’inizio è disposto a concederti una maggiore libertà di movimento, salvo revocarla immediatamente al bisogno. E in ogni caso si tratta della “libertà” concessa dal Signore al vassallo, il quale strilla tanto più forte, assume pose sempre più virili, quanto più la realtà ne mostra tutta la pochezza e l’impotenza.

Sul terreno interno (nazionale) come su quello esterno (internazionale) il diritto è un fatto di rapporti di forza, e compito dell’autentico anticapitalista (e antimperialista) è quello di far luce intorno all’ideologia dominante, affinché i lavoratori possano scoprire il fondo di menzogna che si nasconde dietro le feticistiche parole così care soprattutto all’intellighentia progressista: diritto, uguaglianza, pari opportunità e dignità, democrazia, ecc., ecc., ecc.

Personalmente ho sempre lottato contro la NATO non per affermare l’indipendenza nazionale dell’Italia, un’illusione ultrareazionaria tipica del sinistrismo di matrice stalinista/maoista, ma per combattere l’imperialismo internazionale nelle sue concrete manifestazioni. Non solo, ma anche nel contesto di questa battaglia ho sempre privilegiato, nella mia qualità “anagrafico-sociale” di proletario italiano, la mia avversione nei confronti dell’imperialismo italiano, il quale all’ombra del padrone americano non ha mai smesso di tessere la sua tela di interessi sistemici (economici, politici, militari) nel suo tradizionale cortile di casa: Balcani, Nord Africa, Medio Oriente. L’antimperialismo di molti cosiddetti antimperialisti è stato in passato e continua a essere nel presente un antiamericanismo profondamente intriso di volgare nazionalismo. Non pochi “antimperialisti” sperano in cuor loro, e alcuni non ne fanno mistero, che in Paesi come Venezuela, Russia, Cina, Corea del Nord e Iran non dilaghi, come io invece spero ardentemente, l’antagonismo sociale perché temono un indebolimento dei regimi che oggi garantiscono l’esistenza di un fronte antiamericano e, più in generale, antioccidentale. «Avete visto cosa ha provocato la Primavera di Gorbaciov?». Non c’è dubbio: meglio la Tienanmen dei compagni cinesi! Per questo negli anni scorsi quei personaggi hanno criticato le cosiddette Primavere (in Europa orientale, in Africa, in Medio oriente, a Hong Kong), mentre la mia critica era indirizzata a mettere in luce il vero carattere storico-sociale di quelle “Primavere“, il cui contenuto rivoluzionario – considerato dal punto di vista critico-rivoluzionario e non da quello degli interessi capitalistici – era pari a zero.

Nel corso della «marcia anticapitalista» [sic!] del 14 agosto Nicolas Maduro ha annunciato l’avvio di esercitazioni militari in tutto il Paese per il 26 e il 27 agosto. «Gridiamolo assieme e che si senta fino a Washington: il popolo del Venezuela dice Trump, go home!». Il Presidentissimo ha inoltre chiesto che la Costituente Bolivariana mandi a processo tutti coloro che appoggiano l’idea di un intervento statunitense in Venezuela. Della serie: chi non è con me, è con l’imperialismo americano, d’ufficio! Gente disfattista come me oggi rischia grosso in quel Paese “rivoluzionario”. Intanto non si arresta l’epurazione degli elementi meno affidabili dai ranghi delle Forze Armate “bolivariane”, delicata quanto vitale (per il regime) operazione affidata ai servizi segreti venezuelani, i quali si avvantaggiano del prezioso supporto dei servizi cubani, la cui genesi, forse non è inutile ricordarlo, fu a suo tempo fortemente influenzata dai servizi segreti della Germania Orientale. Le “democrazie popolari” non temono confronti in fatto di controllo sociale e repressione del dissenso.

A proposito di retorica “antimperialista”, ecco cosa ha scritto Edgardo Lander, sociologo venezuelano di idee “progressiste”: «Il fatto che un governo tenga un discorso anti-imperialista e che sia visto come nemico da parte degli Usa e della destra globale, non lo converte in automatico in un governo di sinistra. Nel processo politico venezuelano attuale si sta giocando in varia maniera il futuro della sinistra non solo venezuelana e latinoamericana, ma mondiale. Il collasso del blocco socialista ha lasciato gran parte della sinistra globale senza prospettiva; l’affermazione dei cosiddetti governi progressisti in Sudamerica, specialmente il processo bolivariano, li ha convertiti in punti di riferimento e speranze. Si fa senz’altro un danno a queste speranze se si difende come “di sinistra” o “anticapitalisti” governi sempre più autoritari e repressivi, che usano strumentalmente la democrazia e che la mettono da parte quando ciò dà loro fastidio. Governi che concedono accesso alle risorse petrolifere e minerarie a multinazionali a condizioni che non si differenziano da quelle dei governi neoliberisti. È come se molti settori della sinistra mondiale non avessero imparato nulla dallo stalinismo e dall’immenso prezzo della complicità con l’autoritarismo sovietico». (Il Manifesto). Qui aggiungo solo, per la solita maniacale precisione che mi distingue, che «l’autoritarismo sovietico» fu messo al servizio del Capitalismo e dell’Imperialismo targato URSS. È meglio non essere generici quando analizziamo o semplicemente citiamo i regimi politico-istituzionali del passato e del presente.

Sulla vicenda venezuelana Roma cerca di recitare, come sempre del resto, più parti in commedia. Se ufficialmente il Governo Gentiloni ha dichiarato di non riconoscere la nuova Assemblea Costituente, allineandosi così agli Stati Uniti, all’Unione Europea e a molti governi del continente americano, l’ambasciatore italiano a Caracas Silvio Mignano ha incontrato la Presidentessa dell’aborrito organismo “bolivariano”, Delcy Rodriguez, la quale ha subito divulgato la notizia ai quattro venti per dimostrare che il regime chávista non è affatto isolato, cosa che ha creato qualche imbarazzo diplomatico nella capitale italiana. D’altra parte gli interessi italiani in quel Paese fino a qualche anno fa (diciamo fino al 2013/2014) erano ragguardevoli (Astaldi, Salini Impregilo, Enel, Pirelli, Iveco, Italferr, Alitalia, solo per citare le imprese italiane più grandi attive colà), mentre oggi solo l’Eni, presente da decenni in Venezuela, continua la sua attività senza grossi cambiamenti; in ogni caso il mercato venezuelano va in qualche modo presidiato e coltivato, in attesa di tempi migliori. Senza parlare della numerosa comunità italovenezuelana che può garantire all’Italia una non disprezzabile proiezione economica, diplomatica e culturale.  Gli interessi attuali e potenziali del Sistema-Italia in Venezuela vanno insomma difesi, anche a costo di inciampare in qualche bega politico-diplomatica costruita dall’opposizione venezuelana e italiana – la Lega ad esempio ha chiesto un «chiarimento urgente» al Governo: «Riconosciamo il golpe comunista di Maduro o sosteniamo l’opposizione democratica?». Un dilemma che investe la coscienza dei “comunisti” e dei “democratici”, mentre lascia del tutto indifferente quella di chi scrive.

Leggo da qualche parte: «Basta sapere chi c’è dietro la cosiddetta opposizione venezuelana per sapere chi va sostenuto [il regime chavista, si capisce], costi quel che costi». Bel ragionamento, non c’è che dire; soprattutto dialettico, direi. Oltre che virile: «Costi quel che costi»! Ma non capendo niente di bei ragionamenti e, soprattutto, di dialettica, non posso fare a meno di chiedermi «chi c’è dietro» tutte le parti in campo, e farlo a partire da un punto di vista ben preciso: anticapitalista, internazionalista, indipendente ed ostile nei confronti di tutte le fazioni della classe dominante, di tutti gli Stati, di tutti i partiti e le organizzazioni (sindacati collaborazionisti compresi) che a vario titolo difendono lo status quo sociale. E che scopro osservando la crisi sociale venezuelana da questa peculiare prospettiva? Che tanto il regime di Caracas quanto l’opposizione ufficiale che lo contrasta non sono che due diverse espressioni dello stesso dominio sociale (capitalistico) che sfrutta e opprime il proletariato venezuelano. Beninteso, si tratta dello stesso regime sociale vigente in tutto il mondo: dagli Stati Uniti alla Cina, dalla Germania al Giappone, dall’Italia alla Russia. Per quanto mi riguarda il gagliardo «costi quel che costi» va dunque rispedito al mittente, con aggiunta pernacchia rigorosamente critico-rivoluzionaria.

Il concetto di regime sociale (o di status quo sociale) ha una straordinaria capacità critica perché permette di andare oltre la schiuma politico-ideologica che occulta la natura di classe dei conflitti che continuamente si sviluppano nella società, non solo tra le classi «storicamente nemiche» (borghesia e proletariato), ma anche all’interno della stessa classe dominante, la quale, come insegnò a suo tempo l’alcolista di Treviri, si ricompatta solo per contrastare le rivendicazioni dei nullatenenti. Ecco perché non mi sconvolge neanche un po’ il conflitto tra chávisti e antichávisti; un conflitto per il potere giocato sulla pelle dei proletari e di una classe media ridotta ormai ai minimi termini. Di qui l’urgenza di costruire in Venezuela (e ovunque nel mondo) l’autonomia/coscienza di classe, senza la quale le classi subalterne sono “libere” solo di scegliere l’albero a cui impiccarsi: quello di “sinistra” o quello di “destra”? quello “sovranista” o quello “globalista”? quello “statalista” o quello “liberista”? quello antiamericano (e magari filocinese e filorusso) o quello filoamericano?

Ma c’è un motivo in più che mi porta a scatenare «fuoco e fiamme», per dirla con Trump, contro quel simpaticone di Maduro: l’abissale balla speculativa chiamata «Socialismo del XXI secolo», e che andrebbe invece tradotto come segue: «Stalinismo – e financo peronismo/fascismo – del XXI secolo»; certo, mutatis mutandis, come sempre del resto. Volendo affermare una posizione radicalmente anticapitalista, devo assolutamente, come mosso da un invincibile imperativo categorico, gridare in faccia ai miei “colleghi di classe” venezuelani, statunitensi, italiani ecc. che i chávisti (anche quelli di casa nostra) chiamano «Socialismo» ciò che se va bene (per gli statalisti di “destra” e di “sinistra”, si capisce) non è che un Capitalismo di Stato più o meno “integrale”. Dopotutto, è una vita che mi batto contro ogni falso socialismo: da quello sovietico a quello cinese, da quello albanese a quello cubano, da quello jugoslavo a quello Nordcoreano, da quello emiliano (ricordate il mitico “compagno” Zangheri?) a quello cambogiano. Quando cadde il Muro di Berlino io e alcuni amici particolarmente inclini all’ottimismo della rivoluzione pensammo che finalmente ci fossimo liberati una volta per sempre della gentaglia che tanta cacca aveva portato al mulino del Socialismo e tanta acqua invece al mulino della conservazione capitalistica. Ahimè, ci sbagliavamo! È dal 1989, infatti, che vetero e post stalinisti, benché ammaccati dalle macerie del Muro che tanto amavano, si muovono in tutte le direzioni nella speranza di scoprire nel vasto e capitalistico mondo «nuove e originali vie per il Socialismo». E un regime statalista che si proclama “Socialista” da qualche parte si trova sempre! Meglio se si tratta di uno statalismo basato sulla rendita petrolifera usata come formidabile strumento di consenso e di controllo sociale. E qui ritorniamo al Venezuela. Lo so, nel caso di specie non si può nemmeno parlare di statalismo; ma uso questo termine solo in chiave polemica, senza alcuna intenzione “scientifica”.

Insomma, osservato dal peculiare punto di vista che offro ai lettori, il cosiddetto chávismo non appare come la soluzione del problema qui posto (la necessità e l’urgenza dell’autonomia di classe, della coscienza di classe), non appare nemmeno come un tentativo inteso a risolverlo, né, men che meno, esso mi appare come un esempio positivo da additare ai proletari e ai lavoratori di tutto il mondo (anzi!): esso è piuttosto parte organica di quel problema, semplicemente perché il regime venezuelano è, nel suo piccolo, parte organica del sistema mondiale capitalistico.

Su un post dedicato al Venezuela, Giorgio Cremaschi se la prende con «la sinistra governativa», ma anche con una parte della «sinistra cosiddetta radicale», ossia con quei compagni che non riescono a capire che in quel Paese «si combattere il capitalismo americano nel nome del socialismo»: «settori della cosiddetta sinistra radicale e dell’antagonismo hanno inanellato ponderose analisi, il succo delle quali era la scelta di non stare né col Venezuela chavista, né con quello filoamericano e fascista. Una fuga sulla Luna in attesa della rivoluzione globale». Ammetto di abitare sulla Luna e di “lavorare”, nel mio infinitamente piccolo, per la «rivoluzione globale», e infatti le critiche di Cremaschi non mi sfiorano nemmeno, anche perché la «scelta del né col Venezuela chavista, né con quello filoamericano e fascista» è lontanissima dalla mia posizione: io mi schiero contro l’uno e contro l’altro. La neutralità la lascio a chi non sa ragionare in termini radicalmente classisti. Ma molti “socialisti” sono talmente lontani dalla concezione rivoluzionaria del conflitto sociale che non riescono nemmeno a concepire l’idea che, per dirla sempre col barbuto di Germania, «Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo», e viceversa.

«Essere contro il Venezuela di Chavez è diventata una patente di democrazia distribuita a cani e porci», dice Cremaschi. Anche qui, non mi sento minimamente chiamato in causa, perché come si evince benissimo dai miei precedenti post sul Venezuela, la mia posizione antichávista non ha niente a che fare con la rivendicazione di una «vera democrazia», anche perché per me «vera democrazia» e fascismo (e/o stalinismo) si equivalgono, sono due modi diversi di servire gli interessi della classe dominante. Finchè ha potuto usare gli introiti della rendita petrolifera per crearsi una vasta base di consenso sociale il regime chávista ha usato lo strumento democratico-parlamentare; il crollo del prezzo del compagno Petrolio ha costretto il regime a dare molto più peso all’esercito, che peraltro già controllava diversi settori strategici dell’economia del Paese (come quello dell’approvvigionamento alimentare), e a inventarsi nuove soluzioni istituzionali che se fossero state semplicemente pensate da un Renzi, da un Berlusconi o da un Grillo (molto più attendibile come esempio), certamente avrebbero scatenato la resistenza antifascista di molti sostenitori del caudillo di Caracas. «Ora e sempre resistenza contro la deriva autoritaria del governo di Caio o di Tizio»: quante volte gli italici sostenitori della rivoluzione bolivariana ci hanno massacrato i… timpani denunciando l’ennesima «svolta autoritaria» intrapresa dal “fascista” di turno? Dite che il paragone non regge? Ah già, dimenticavo: in Venezuela è in corso una marcia verso il socialismo. Che sbadato che sono! Per fortuna c’è chi prontamente mi riporta alla verità dei fatti (diciamo): «Che la rivoluzione possa difendersi o meno con la forza dalla consueta reazione violenta dell’imperialismo (in America Latina quasi sempre USA) delle destre, del capitalismo e delle forze militari, è forse la questione centrale, quella dirimente, che separa – nel giudizio, nello schierarsi – le forze rivoluzionarie da quelle controrivoluzionarie o della sinistra moderata, quelle “interne” al sistema capitalistico. È il problema dei problemi: quello del potere. Ed è bene – una volta tanto – affrontare la “questione venezuelana” dal punto di vista anche teorico, politico-teorico» (Contropiano). È appunto quello che dico io! Non bisogna essere dei Lenin per capire che senza teoria rivoluzionaria non c’è prassi rivoluzionaria. Solo che la “mia” teoria colloca l’esperienza chávista interamente dentro il potere capitalistico riguardato nella sua dimensione nazionale, regionale (continentale) e mondiale. Giusto uno stalinista può richiamare la battaglia di Lenin contro Kautsky («Del marxismo si ammette tutto, tranne i mezzi rivoluzionari di lotta») per portare acqua al mulino del regime venezuelano! Della serie: pensavo fosse un potere rivoluzionario e invece era un calesse – pieno di sostanza escrementizia, diciamo.

Intanto ieri la «cricca di Maduro» ha perfezionato la “rivoluzione istituzionale”: «Il cerchio è chiuso. Con un decreto disposto dalla presidente Delcy Rodríguez, già tumultuosa ministro degli Esteri e fedele chavista, la neonata Assemblea Costituente azzera le competenze del Parlamento venezuelano e si assume il potere di legiferare su temi di ordine pubblico, sicurezza nazionale, diritti umani, sistema socio-economico e finanze. Sarà il vero organo legislativo del Paese e diventa nei fatti una sorta di Consiglio dei ministri alle dirette dipendenze del presidente Nicolás Maduro. Il Parlamento non viene sciolto ma il suo ruolo viene sterilizzato ad un semplice foro di dibattito. Nel migliore dei casi». Dobbiamo aspettarci la nascita di un Aventino venezuelano? «Ma intanto in un video l’ex procuratore Luisa Ortega Diaz ha detto oggi che dispone di prove su casi di corruzione legati alla multinazionale brasiliana Odebrecht “che coinvolgono Nicolas Maduro e il suo entourage”. Ortega Diaz ha sostenuto che i vertici chavisti “sono molto preoccupati, perché sanno che ho tutte le informazioni, i dettagli di ogni operazione e il nome di chi si è arricchito”. L’ex procuratrice è fuggita insieme al marito, il deputato chavista German Ferrer» (D. Mastrogiacomo, La Repubblica). Pare che il regime chávista sia coinvolto anche in assai lucrosi traffici di droga. Ma lascio volentieri ai professionisti delle mani pulite queste “problematiche” che non modificano di una virgola l’essenza della questione (almeno nella “declinazione” che mi sforzo di elaborare): la natura ultrareazionaria del regime di Caracas. Tutto il resto è propaganda e lotta politica interborghese, sul piano interno come su quello internazionale.

Scrive ancora Cremaschi: «Mezzo secolo dopo la rivoluzione cubana, Chavez e Morales si sono dati come obiettivo esplicito la ripresa della marcia verso il socialismo [ecco!]. L’hanno realizzato? Certo che no. Hanno dovuto fare compromessi e anche errori? Sicuramente e anche hanno commesso ingiustizie che hanno deluso una parte di chi li sosteneva. Ma ovviamente non è per questo che sono sotto attacco, al contrario lo sono proprio perché nonostante tutto questo non hanno rinunciato all’obiettivo del socialismo. Ed è proprio questa parola, socialismo, che dà fastidio e che crea persino rancore in una certa sinistra». E qui ritorniamo alla più gigantesca balla ideologica del XX secolo, riciclata in questo scorcio di XXI secolo, e alla cacca, con rispetto parlando (per la cacca!), di cui sopra. Lo ammetto: quando personaggi del tipo qui preso di mira straparlano di “socialismo” mi assale una fastidiosissima voglia di bastonarli. Si tratta di una bastonatura critica, sia chiaro.

Antonio Moscato, che a differenza di chi scrive (notoriamente un purista e un settario) aveva guardato con molta simpatia all’esperimento chávista, oggi stigmatizza l’atteggiamento acritico dei sinistri che appoggiano «senza se e senza ma» il regime di Caracas: «Qualunque critica alla situazione attuale [del Venezuela] viene messa in conto ai “servi dell’imperialismo”. Questo ricorda da vicino le accuse a chi ascoltava le voci del dissenso (in origine anche marxista) e i dati dell’economia per capire dove stava finendo il sistema che presumeva di essere il “socialismo reale” e per giunta credeva di essere eterno. Ogni esplosione di malcontento (che naturalmente veniva soppressa facilmente per l’efficienza dei vari KGB e affini non contro il nemico di classe ma verso i critici interni) veniva attribuita all’onnipotenza della CIA». Confermo. È dal remotissimo 1980, da quando cioè ho iniziato a criticare la menzogna del «Socialismo reale» (in realtà un reale Capitalismo), che mi sento dare del «servo sciocco dell’imperialismo» (cioè degli Stati Uniti e di Israele) da non pochi sinistrorsi devoti a Stalin e a Mao. D’altra parte, se perfino un Trotsky o un Bordiga passavano per «agenti del fascismo, del nazismo e dell’imperialismo», chi sono io per lamentarmi!

Riprendo la citazione (e mi scuso per la sua lunghezza): «Quelli che si erano chiusi gli occhi di fronte ai segni inequivocabili del declino e dell’involuzione definitiva dell’URSS potevano avere una mezza attenuante, era la prima volta. Ma ora, che attenuante possono avere i difensori di un sistema che affama la popolazione e pretende di rappresentare il socialismo? […] Gli argomenti dei difensori incondizionati di Maduro sono debolissimi ma inquietanti. Se la prendono con i giornalisti superficiali che parlano alla leggera di “dittatura”, ma sorvolano sulla dimensione reale dello scontro in Venezuela. Non è su astratti problemi di architettura istituzionale che è esplosa la crisi, ma sulla fame provocata da una politica economica dissennata. A differenza di molti degli ardenti sostenitori nostrani del regime attuale, io ho seguito dall’inizio il “processo bolivariano” senza pregiudizi per l’origine militare di Chávez, anche se con qualche cautela rispetto agli entusiasmi che ritenevo eccessivi di altri compagni che stimo, ma con un appoggio indiscusso a questa e ad altre manifestazioni di quello che avevo chiamato “il risveglio dell’America Latina” (titolo di un mio libro pubblicato da Alegre nel 2007). Tuttavia non mi ero nascosto mai il carattere non socialista (ma pur sempre positivo) delle misure di nazionalizzazioni con indennizzi consistenti, col risultato che il settore privato negli anni di Chávez si era rafforzato rispetto a quello pubblico. Le scandalose cessioni di bond dell’azienda petrolifera di Stato alla Goldman Sachs dell’ultimo periodo hanno rappresentato però un salto di qualità rispetto a una politica consolidata di favori concessi per ottenere la benevolenza dei grandi petrolieri, tanto è vero che sono rimaste segrete a lungo. Ma nessuno di quelli che del Venezuela non si erano mai occupati fino a quel momento ha avuto il sospetto che l’aumento delle proteste potesse essere collegato alle privazioni inflitte alla popolazione per assicurare questi regali alla grande finanza, e per far apparire il governo un buon pagatore del debito accumulato. Privazioni che si possono quantificare: hanno ridotto i tre quarti dei salariati a sopravvivere con meno di due dollari al giorno, è cresciuta di nuovo la mortalità infantile per carenze di medicinali che non vengono più importati, dato che l’importazione di beni e servizi è scesa da 66 miliardi di dollari nel 2012 a circa un miliardo e mezzo nel 2017».

Un post di Cronache latinoamericane invita a riflettere «intorno alla figura del lavoratore venezuelano, ricattato e costretto a percorrere la via scelta dal governo per poter mantenere il proprio posto di lavoro e portare il pane a casa. Cos’è quindi la coscienza di classe, come fa a provocare processi di emancipazione quando lo statalismo e la burocrazia dettano le regole del gioco? Quali spazi per la critica ci sono dentro al socialismo venezuelano?» La mia risposta a quest’ultima domanda è: zero spazi, per mancanza di materia prima, per così dire. Come ho più volte scritto, il «socialismo venezuelano» è una pura invenzione propagandistica utile a chi vuol fregare, da “destra” o da “sinistra”, le classi subalterne. Ma il post appena citato è interessante anche perché introduce un testo di Rolando Astarita, Professore di economia dell’Università di Buenos Aires, che offre alla riflessione del lettore utili spunti critici. Astarita lancia frecce critiche soprattutto in direzione dei difensori di Maduro, i quali «sono convinti che quando si costringe un operaio di PDVSA o della metropolitana di Caracas, ad andare a votare per Maduro, si stia rafforzando la coscienza socialista della classe operaia. Inoltre alcuni pensano che in questo modo il governo venezuelano stia combattendo pericolosi lavoratori ”contro-rivoluzionari pro-imperialisti”. Per questo motivo non vedono nulla di essenzialmente criticabile in ciò che fa Maduro. Essi hanno così tanto interiorizzato i metodi burocratici che li accettano con la stessa naturalezza  con cui diciamo “oggi piove”. Non hanno imparato nulla dalle tragiche esperienze del “socialismo reale”, delle collettivizzazioni forzate, dell’unanimità conseguita sulla base di campi di concentramento e muri di Berlino. Si tratta di una sinistra alienata dal nazionalismo statalista, a cui, come sempre, piace pensare che  “l’avanguardia illuminata” detiene la ragione storica che giustifica tutto. Tutto questo con una conseguenza brutale: agli occhi di milioni di sfruttati nel mondo, il socialismo oggi si incarna in Maduro che minaccia di punire i lavoratori “riluttanti”, nel contesto di un paese devastato dalla fame e scosso da ripetute uccisioni di manifestanti oppositori». Ciò che critico della posizione di Astarita è il fatto che egli concepisce lo stalinismo non come la negazione più patente del socialismo, ma come una sua forma degenerata (burocratizzata), e in ciò forse ha un peso la lettura trotskista della «degenerazione burocratica» del potere sovietico con l’ascesa della «cricca stalinista» dopo la morte di Lenin. Ma posso sbagliarmi. Per il resto considero molto interessante il suo scritto e invito a leggerlo.

(*) Scrive Raúl Zibechi: «Al di là di quanto possano sostenere le estemporanee dichiarazioni di Donald Trump, non sono certo le precarie condizioni della democrazia né esattamente l’eredità chavista del Socialismo del XXI Secolo la maggiore preoccupazione che spinge gli Stati Uniti ad avere tanta fretta di liberarsi del governo di Nicolas Maduro. Per comprenderlo, basta dare un’occhiata al profilo della presenza strategica cinese: il Venezuela è un “socio” importante per noi, sostiene il Global Times, rivista di proprietà del Quotidiano del Popolo. Caracas riceve già quasi la metà dei rilevanti prestiti cinesi nella regione sudamericana e a Pechino sono intenzionati a mantenere una solida presenza nell’area, del tutto indipendentemente dal colore politico dei governi che si succederanno. Gli investimenti più importanti sono naturalmente quelli nel settore petrolifero e, se tutto va come deve andare, presto il mercato cinese è destinato a superare quello statunitense per l’export venezuelano. […] «“Le sommosse politiche significano rischi per gli investimenti cinesi e la Cina deve apprendere ad affrontarle. La Cina non può rinunciare alla sua presenza economica in America Latina solo per la sua instabilità politica”, afferma l’articolo del Global Times». In altri termini, se il Venezuela e gli altri Paesi dell’America Latina vogliono avvantaggiarsi dell’amichevole attenzione del Capitale cinese, essi devono tenere sotto controllo l’effervescenza sociale e politica che da sempre li caratterizza. Gli affari hanno bisogno di sicurezza e di stabilità! Riprendo la citazione: «La Cina è uno dei principali soci commerciali dei paesi della regione e ha sostituito, dal 2005 al 2016, la Banca Mondiale e la BID (Banca Interamericana di Sviluppo) come principale fonte di prestiti, con 141 miliardi di dollari rovesciati sull’America Latina e i Caraibi, secondo l’Inter-American Dialogue. Il Venezuela assorbe quasi la metà del totale dei prestiti, con 62,200 miliardi di dollari, seguito dal Brasile con 36,800 miliardi, e abbastanza più indietro l’Ecuador e l’Argentina. Gli investimenti in Venezuela ebbero un picco nel 2010 e dopo sono discesi considerevolmente, ma continuano ad occupare un posto rilevante. Il grosso è destinato ad energia, ossia a idrocarburi, ma anche alle attività minerarie e alle infrastrutture. […] Proseguendo su questa strada, la Cina finirà con il sostituire gli Stati Uniti come principale mercato del petrolio venezuelano, che è il paese che ostenta le maggiori riserve mondiali di greggio. Questa realtà, più che il “socialismo del XXI secolo”, spiega i motivi di Washington per abbattere Maduro» (Sinistrainrete).

L’ARMATA BRANCAMADURO

– Andate al fronte, compañeros? Attenti alle fucilate! – E tutti si misero a ridere. Le sentinelle esclamarono:
– Addio! Non ammazzateli tutti! Lasciatene qualcuno per noi!
(J. Reed, Messico insorto).

«Vamos a matar, compañeros! La Brigata Maduro è pronta per partire per il Venezuela a difendere il regime chavista che, in un colpo solo, ha esautorato il Parlamento controllato dall’opposizione e ha affidato al presidente Nicolás Maduro i pieni poteri militari, economici, sociali, politici e civili. La dittatura si fa legge. Persino papa Francesco si è schierato contro Maduro. La Brigata Maduro, come ci ha raccontato Fabrizio Caccia sul Corriere, è folta: Gianni Minà, Fausto Bertinotti, Nichi Vendola, Gianni Vattimo, i parlamentari del M5S Manlio Di Stefano e Ornella Bertorotta, aperti sostenitori della rivoluzione bolivariana, e soprattutto il filosofo da talk Diego Fusaro, che si è auto-attribuito la patente di “intellettuale scomodo” (un altro!), in lotta per l’emancipazione umana. “Se Marx, Gramsci e Lenin fossero vivi – questo il pensiero del marxista immaginario e immaginifico – ora sarebbero qui a difendere il comunista e patriota Maduro dall’aggressione americana che, come nel Cile del ‘73, punta ad abbattere un governo che resiste al capitalismo globalizzato”. Vamos a matar, compañeros! Su minima&moralia Raffaele Alberto Ventura ha spiegato bene come la chiacchiera fusariana consista sempre “nel montaggio semi-aleatorio di un pugno di moduli argomentativi preconfezionati, di formule declamatorie”. Se Marx avesse le ruote… Quando il gioco si fa Maduro, i duri e puri cominciano a giocare» (A. Grasso, Il Corriere della Sera, 6 agosto 2017).

I chávisti con caratteristiche italiote hanno dunque la rara capacità di trasformare persino un Aldo Grasso qualunque in un gigante del pensiero politico-sociale. Complimenti! D’altra parte, come diceva quello: tutto è relativo!

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VENEZUELA. IL PUNTO SUL “PROCESSO SOCIALE BOLIVARIANO”

SULLA CRISI SOCIALE CHE SCUOTE IL VENEZUELA

VENEZUELA. IL PUNTO SUL “PROCESSO SOCIALE BOLIVARIANO”

Ho scritto questo post ieri; esso prescinde quindi dagli ultimi sviluppi relativi alla sempre più violenta e ingarbugliata crisi sociale venezuelana.

Molti analisti di politica internazionale ritengono, forse non a torto, che l’attuale Presidente venezuelano si stia giocando il tutto per tutto: «o tutto il potere possibile o niente». La ricerca di un compromesso con le forze di opposizione “più responsabili” sarebbe esclusa in partenza. Di qui, i suoi ripetuti tentativi di eliminare, o comunque esautorare l’Assemblea Nazionale eletta nel dicembre del 2015 sulla base della Costituzione voluta da Chávez nel 1999 e considerata dai suoi successori come «la più bella del mondo» (ma non ditelo a Bersani e company!); Assemblea oggi controllata dall’opposizione. Nicolas Maduro prima (marzo 2017) ha cercato di svuotare il potere politico dell’Assemblea Nazionale ricorrendo alla tutela del Tribunale Supremo di Giustizia che gli ha concesso poteri speciali in materia economica, sociale, politica, civile, criminale e militare; poi, quando la manovra “golpista” non ha avuto successo, ha deciso di convocare un’Assemblea Nazionale Costituente (priva di partiti) per scrivere una nuova Costituzione. Questa nuova e inedita Assemblea sarebbe composta da 500 membri scelti per metà tra diversi «movimenti sociali» (collettivi organizzati, sindacati, cooperative, associazioni di categoria) e per metà tra le circoscrizioni municipali, tutti ambienti politico-sociali strettamente controllati dal chavismo. Maduro può contare inoltre sull’«appoggio incondizionato» dell’esercito, un perno fondamentale del regime chavista.

In sostanza si tratta di mettere definitivamente tutto il potere nelle mani del chavismo, ossia del regime che ha usato la rendita petrolifera come un formidabile strumento di corruzione sociale, nell’accezione squisitamente critico-radicale, e non moralistico-sociologico, del concetto. Quando un “marxista” parla di corruzione sociale, non intende alludere in primo luogo, alla maniera dei populisti e dei manettari nostrani, alle “mazzette”, alle “tangenti”, alle “bustarelle” e così via, ma a un processo sociale molto più profondo e deleterio (dal punto di vista dell’autonomia di classe) che investe soprattutto gli strati sociali più bassi della società.

Anziché cercare analogie pescando nella ricca tradizione peronista, stalinista e fascista (vedi, mutatis mutandis, la Repubblica Sociale a base corporativa di Mussolini), non pochi “comunisti” nostrani hanno tirato in ballo, a proposito di «processo sociale bolivariano», la «democrazia proletaria sovietica» del 1917: Maduro come il Lenin del XXI secolo; il tentativo di consolidare un regime ultrareazionario (semplicemente perché espressione dei rapporti sociali capitalistici vigenti e dominanti in tutti il mondo) come una «nuova e inedita» rivoluzione sociale. Ma mi faccia il piacere!, direbbe il compagno Totò. Solo dei luminari della scienza sociale potevano dar credito alla panzana (diciamo così) del «Socialismo del XXI secolo», e difatti i personaggi che militavano o che si riconoscevano ideologicamente nella vasta galassia stalinista (chiamata «Comunismo Novecentesco» dai soliti intellettualoni “marxisti”) si sono subito gettati a pesce morto (appunto!) sulla nuova e insperata frescaccia mitologica.

Scrive Achille Lollo: «Le nuove norme che caratterizzeranno i lavori della nuova Assemblea Costituente possono essere così riassunti: 1) Garantire una pace effettiva in tutto il Venezuela: 2) Perfezionare il nuovo sistema economico capace di ridurre la dipendenza dal petrolio; 3) Dare alle Missiones uso status costituzionale; 4) Rafforzare il sistema giudiziario per dinamizzare la lotta al terrorismo e al narcotraffico; 5) Scrivere nella nuova Costituzione l’affermazione del “Poder Comunal”, come un elemento determinante della democrazia partecipativa e protagonista; 6) Rafforzare la sovranità nazionale a livello della politica estera del Venezuela. In pratica, questi sei argomenti saranno le basi portanti di una nuova transizione [ecco la parola magica che tanto piace ai sinistri: transizione] dove la lotta di classe proletaria e la lotta anti-imperialista ascenderanno a una fase superiore [come no!]. È soprattutto per questo motivo che l’impero contrattacca con tutti i suoi mezzi e i suoi serventi canini. Infatti a Washington e Miami sanno benissimo che la maggioranza dei lavoratori venezuelani è stanca dei ricatti dei borghesi del MUD, è stanca dei piani eversivi dell’imperialismo, è stanca dei sabotaggi legislativi dell’opposizione. Per questo, sono in molti a riconoscere che questa nuova Assemblea Nazionale Costituente concretizzerà quello che Hugo Chávez aveva previsto: il Socialismo del Secolo XXI». Dinanzi a questo entusiasmo chavista posso solo augurarmi che i lavoratori venezuelani si stanchino presto non solo del regime attuale e dei suoi «serventi canini» internazionali, ma del regime capitalistico in quanto tale, a prescindere dalla forma politico-istituzionale che esso assume nelle diverse contingenze storiche.

Parlavo prima di corruzione sociale. Attraverso una particolare gestione della rendita petrolifera il chavismo è riuscito negli anni a crearsi una larga base di consenso sociale, base che ha come motto: «Non mordere mai la mano che ti sfama». Un motto molto noto anche in Italia, soprattutto nelle sue zone economicamente depresse.

Le prime vittime del clientelismo statalista con caratteristiche chaviste sono stati i ceti medi urbani del Paese, che infatti hanno ingrossato come non mai le file dell’opposizione politica e sociale. Tutti i limiti di una tale strategia volta alla ricerca del consenso e al controllo sociale (sempre difficile in America Latina) sono venute a galla nel momento in cui sul mercato mondiale delle materie prime il prezzo del petrolio ha iniziato a precipitare, riducendo i margini di manovra nella allocazione della spesa pubblica, problema che ha investito tutti i Paesi dipendenti dalla rendita petrolifera: dalla Russia all’Arabia Saudita. Dopo i ceti medi, è toccato dunque agli strati sociali più bassi fare i conti con la strategia politico-economica del chavismo. La decomposizione del tessuto sociale del Venezuela è sotto gli occhi di tutti (corruzione a tutti i livelli, criminalità comune e organizzata sempre più violenta e dilagante, ecc., ecc.), e dare la responsabilità della tragedia in corso al solito complotto imperialista degli americani è semplicemente ridicolo. La crisi economica, la «guerra a bassa intensità» tra il regime e l’opposizione cosiddetta democratica (due facce della stessa escrementizia medaglia), il caos sistemico e il senso di insicurezza devastano con una brutalità senza precedenti il proletariato venezuelano, il quale non sembra in grado di orientarsi sulla base dei suoi specifici interessi di classe. Ma questa è una sciagura che purtroppo non riguarda solo il proletariato di quel Paese.

Come si vede, io non attacco il regime chavista e il «processo sociale bolivariano», qualunque cosa ciò possa significare, dal punto di vista della democrazia liberale, ma da quello dell’autonomia proletaria e della lotta di classe dispiegata contro tutti i settori della classe dominante, contro tutti i partiti (di “destra” e di “sinistra”, liberisti e statalisti, peronisti e bolivariani) che ne sono l’espressione, contro tutti gli Stati e contro tutti gli imperialismi, compresi quelli regionali che usano il petrolio per estendere “pacificamente” la loro influenza politica, ideologica e militare.

Qui di seguito riporto la mia risposta a un commento di un lettore del mio precedente post sul Venezuela Indietro tutta! Sui sostenitori del regime venezuelano. Non prima però di far conoscere ai lettori il lapidario commento a un altro mio post sul Venezuela: «Articolo del cavolo, delirio degno del foglio o di libero, dileggio pieno di seghe mentali, classico intellettuale tronfio e pieno di se che non sa un cazzo e si atteggia a detentore della verità». Detto che certi giudizi sono balsamo spalmato sulla mia dolente autostima, desidero solo precisare che non sono un intellettuale, né “classico”, né moderno, né postmoderno. Sociologicamente parlando appartengo al proletario, purtroppo; marxianamente parlando, sono un proletario con “ambizioni rivoluzionarie”, proprio secondo la nota tesi marxiana: «L’emancipazione del proletariato deve essere opera dello stesso proletariato». Il che ovviamente non mi mette al riparo dal dire e dal fare sciocchezze. E tuttavia! Posso esibire al mondo pochissime verità, e tra esse vi è senz’altro la seguente: non vi è un solo atomo di “socialismo” nell’esperienza chavista, la quale si è dipanata e si dipana interamente dentro la disumana dimensione capitalistica.

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Ti ringrazio per l’immeritato complimento, che naturalmente incasso con molto piacere, tanto più se giunge da parte di un lettore che non condivide la mia impostazione politica nel caso di specie. La mia risposta al tuo commento la trovi sui miei post dedicati al Venezuela e, più in generale, alla competizione imperialistica mondiale (consiglio anche i post dedicati alla guerra in Siria), rispetto alla quale mi pongo su una posizione di radicale opposizione nei confronti di tutte le Potenze, grandi e piccole, di caratura internazionale (Stati Uniti, Cina, Russia, Unione Europea, ecc.) o regionale (a cominciare dall’Italia, Paese che, in quanto proletario italiano, considero il mio nemico principale non in quanto inserito in un’alleanza imperialistica dominata dagli Stati Uniti, ma in quanto media potenza capitalistica che ricerca il suo “spazio vitale” nel suo tradizionale “cortile di casa”, cosa che non di rado porta l’Italia a urtare contro gli interessi di Francia e Inghilterra: vedi Libia). Non ho mai condiviso la teoria del «Nemico Principale» (leggi Stati Uniti), soprattutto perché in passato (prima del crollo del famigerato Muro di Berlino) non consentiva di valutare adeguatamente la portate delle contraddizioni capitalistiche che si sviluppavano nel cuore del cosiddetto “mondo libero”: è sufficiente pensare alle guerre commerciali, finanziarie e monetarie che hanno visto come protagonisti USA, Germania e Giappone soprattutto dopo la chiusura del lungo ciclo espansivo postbellico alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Per altro verso quella teoria tendeva a sminuire, per converso, la portata delle tensioni sociali che si sviluppavano nei Paesi considerati nemici del «Nemico Principale», e ciò per non dividere e indebolire il fronte antiamericano. Ebbene, questo schema “campista” è, a mio avviso, tanto più infondato e politicamente perdente oggi, nel momento in cui la competizione interimperialistica è assai più complessa e frastagliata che ai tempi della Guerra Fredda. È sufficiente riflettere sul ruolo imperialistico della Cina per capire di che parlo. Già il solo parlare di «centro del sistema» nell’epoca del dominio globale e totale (o totalitario) del rapporto sociale capitalistico mi suona quantomeno problematico: il «centro del sistema» è ovunque. Questo senza ovviamente voler trascurare il problema circa l’ineguale sviluppo del Capitalismo nelle diverse aree del pianeta. Ritengo tuttavia che tale questione oggi debba essere approcciata in modo assai diverso da come Marx e Lenin l’aggredirono sul piano concettuale e politico a partire dal Capitalismo del loro tempo. Ma forse sto divagando!

Personalmente riconosco come amico un unico campo, peraltro tutto da costruire: quello formato dal proletariato di tutte le nazioni e da tutti gli individui che si sentono in guerra con il rapporto sociale capitalistico. Dicendo questo so di non affermare niente di originale ma di esternare un minimo sindacale di “autonomia di classe”. A mio avviso è una pura e reazionaria illusione (che non ti sto attribuendo, sia chiaro!) credere che il lavoro di costruzione proletaria e internazionalista cui facevo cenno possa in qualche modo venir facilitata dall’indebolimento di questo o quell’imperialismo, e dal rafforzamento di questo o quell’imperialismo. All’autonomia di classe, declinata su ogni aspetto della lotta di classe (da quella “economica” per il lavoro e il salario a quella antimilitarista e antimperialista) non c’è alternativa, e non possiamo illuderci di poter fare politica internazionalista “concreta” (non “parolaia”, non “dottrinaria”, non “settaria”: insomma non come la faccio io secondo miei diversi interlocutori) appoggiando “tatticamente” il nemico del nostro “Nemico principale”: la storia è piena di mosche cocchiere finite malissimo. So benissimo di non proporre soluzioni facili, ma bere l’amaro calice che ci porge la realtà può forse aiutarci a porci le giuste domande.

Per quanto riguarda il Venezuela, e senza scendere nei dettagli della tua riflessione, mi sembra che tu ponga la questione in termini esclusivamente capitalistici: cosa avrebbe potuto fare di diverso Chávez, cosa potrebbe fare di diverso Maduro? Ma non si tratta di dare consigli agli esponenti politici delle classi dominanti! Almeno per me si tratta di lottare contro ogni forma di politica economica implementata dalle classi dominanti, o anche solo da una sua fazione giunta contingentemente al potere. Io sono (cerco di esserlo) un anticapitalista, non un consulente per le buone pratiche capitalistiche. Non è appoggiando in qualche modo il regime di Maduro che possiamo lottare con efficacia i lupi di cui parli tu – anch’io ho seguito su Radio Radicale il dibattito parlamentare sul Venezuela. Anche se dici di non sostenere Maduro tu, a mio avviso, ti fai delle illusioni circa quel regime, che, a quanto credo di capire, consideri il male minore in chiave di prospettiva rivoluzionaria, «o semplicemente di classe». A mio avviso è proprio attribuendo una qualche coloritura “rivoluzionaria” e “socialista” (il «Socialismo del XXI Secolo: sic!») a quel regime e, più in generale, al chávismo, che si contribuisce ad allontanare nel tempo lo sviluppo di un’autentica coscienza di classe nel proletariato venezuelano, peraltro da sempre avvelenato dalla retorica patriottarda, come del resto tutto il proletariato dell’America Latina. È facile, per i regimi di “destra” e di “sinistra” di quella parte di mondo, far ricadere sempre e comunque la responsabilità dell’oppressione sociale, della miseria e di quant’altro agli americani! Dire questo significa forse portare acqua al mulino dell’imperialismo americano? Ma non scherziamo! Non possiamo rimandare la lotta di classe in molti Paesi del mondo al momento in cui essi raggiungeranno lo stesso grado di maturità capitalistica e la stessa forza imperialistica dei Paesi più forti del mondo.

Non ti sto attribuendo questa posizione: faccio un discorso generale per far comprendere meglio il mio punto di vista. «Ad abbattere Maduro, deve essere il proletariato venezuelano»: sottoscrivo mille volte! Ma questo non mi porta certo ad appoggiare la repressione del regime di Caracas ai danni dell’opposizione politica venezuelana “di destra”! Io non delego la lotta politica contro le diverse espressioni politico-ideologiche delle classi dominanti allo Stato, venezuelano o italiano che sia. Non è perché l’Italia appoggia l’opposizione politica anti-Maduro, questo solo fatto fa di quel regime un “oggettivo” alleato delle forze antagoniste in Italia e in Venezuela: questa posizione non mi sembra molto dialettica. L’autonomia di classe e l’antagonismo di classe vanno dispiegati a “360 gradi”, senza eccezione alcuna, senza alcun ritegno per nessuna delle fazioni filo capitalistiche in lotta per il potere, siano esse di governo o di opposizione. Altro che «stare a guardare», altro che «indifferenza»!

 

SULLA CRISI SOCIALE CHE SCUOTE IL VENEZUELA

Un moderno Paese capitalista può vivere solo esportando petrolio o altre (poche) materie prime? Diciamo, per economia di pensiero, che in quel caso più che di una vita si dovrebbe piuttosto parlare di una stentata sopravvivenza, strettamente dipendente dalle oscillazioni del ciclo economico mondiale. Il regime politico di quel Paese potrebbe mantenersi a galla a una sola condizione, ossia alla condizione che il prezzo del petrolio sul mercato mondiale sia sufficientemente e costantemente alto. In questo caso quel regime potrebbe usare una parte della pingue rendita petrolifera per crearsi una base sociale con cui puntellarsi. Infatti, anche il regime più totalitario di questo mondo sa che per svolgere bene e con continuità la propria funzione al servizio dello status quo sociale non può contare solo sul bastone, ma deve anche ricercare il consenso politico-ideologico da parte delle cosiddette masse, un’impresa che, come testimonia la storia passata e recente, è tutt’altro che impossibile. Insomma, sto parlando del Venezuela, e del suo regime “diversamente socialista” che tanto piaceva – e, a quanto pare, continua a piacere – a una parte non piccola del mondo sinistrorso di casa nostra.

L’export del Venezuela dipende per il 95% dal petrolio, che costituisce oltre la metà delle entrate pubbliche; negli ultimi due anni il bilancio pubblico del Paese è stato calibrato su un prezzo del greggio pari a 60 dollari al barile, mentre solo intorno ai 100 dollari al barile Caracas può scongiurare un definitivo deterioramento della sua già drammatica situazione debitoria. Come ricorda Alessandro Giberti (Lettra43), Chávez «ha provato a distruggere il sindacato operaio (Ctv). Ne ha inventato un altro (la Unt), e ha proposto una legislazione che proibiva la negoziazione collettiva e gli scioperi nel settore pubblico e petrolifero», confessando con ciò stesso il lato forte e, al contempo, debole del suo regime. Ieri il Presidente Maduro ha annunciato il «terzo aumento del salario minimo nel corso dell’anno in Venezuela. Un incremento del 60% per tutti i lavoratori statali e per i pensionati La decisione è stata presa per fronteggiare una crisi economica devastante e l’ondata di proteste» (TgCom24). Per implementare le sue «politiche redistributive» Chávez poteva contare sui cospicui dividenti petroliferi garantiti da un alto prezzo del petrolio, una condizione favorevole che ha voltato le spalle al suo successore. Sono i limiti del “socialismo petrolifero” – a dire il vero molto petrolifero e per niente socialista. Scherzi a parte, la “modernizzazione” della struttura economica del Paese (ma la cosa riguarda quasi tutti i Paesi latinoamericani) rimane un nodo decisivo che qualsiasi governo/regime è chiamato a sciogliere; mi rendo conto, è più facile a dirsi che a farsi, soprattutto perché l’impresa crea fortissime tensioni sociali nonché la messa in discussione di fortissimi interessi economici e politici, ponendo così le premesse per l’ennesima avventura “rivoluzionaria” guidata dall’ennesimo Salvatore della Patria – o caudillo che dir si voglia.

Con il rapido declino del prezzo del petrolio, del gas e, più in generale, delle materie prime è entrata in crisi anche l’«Alternativa Bolivariana per i Popoli della Nostra America» (ALBA), la creatura geopolitica voluta dall’ambizioso Chávez e nata a Cuba nell’aprile del 2006 (primi firmatari Venezuela, Bolivia e Cuba). La “Rivoluzione Bolivariana” ha insomma esaurito la… benzina… Pardon, volevo dire la spinta propulsiva, per riprendere una celebre formula  berlingueriana riferita – nientemeno! – alla Rivoluzione d’Ottobre.

Per fidelizzare almeno una parte dell’Esercito, il regime chávista ha militarizzato diverse attività economiche, e molti analisti ritengono che ormai Nicolás Maduro sia ostaggio delle Forze Armate, che la sua permanenza al potere, cioè, dipenda unicamente dal loro appoggio. «Con Maduro c’è l’esercito e il suo peso politico, e lo scorso 17 aprile ha fatto avere al presidente il proprio sostegno “incondizionato”». Si tratta di vedere fino a quando e a quale prezzo questo sostegno rimarrà «incondizionato». In un articolo pubblicato su Liberazione (allora organo di Rifondazione Comunista, se ricordo bene) del giugno 2007, la giornalista A. Nocioni notò come «tra i fedeli del Presidente» Chávez ci fossero  «molti ufficiali amici e pochi civili»; il Comitato Bolivariano La Madrugata di Firenze si sentì in dovere di precisare quanto segue: l’articolo fa «una lista di generali in diversi posti chiave dello Stato venezuelano, ma chi conosce la realtà delle attuali forze armate in Venezuela sa che non c’è alcuna dittatura militare. L’esercito adesso è attivo in ogni missione sociale governativa, esercito come ente sociale che si è unito al popolo in quella che si chiama unità civico-militare. Un esercito differente da quello che conosciamo in America Latina, composto da gente di ogni classe, non di casta, che segue un indirizzo umanista» (da Il Pane e le rose). Molto commovente e, soprattutto, convincente. Diciamo… Anche da questa presa di posizione in difesa del caudillo di Caracas si comprende quanto capillare sia in Venezuela la presenza dei militari.

La scorsa settimana il Presidente degli Stati Uniti ha dichiarato, buon ultimo e certamente leccandosi i metaforici baffi, che «il Venezuela è un disastro»: difficile dargli torto. «Quando nel 2006 ero venuto a seguire le elezioni vinte da Chavez contro Rosales, nelle “favelas” di Caracas la logica [del regime] reggeva ancora, grazie al boom del greggio che consentiva di finanziare l’assistenzialismo, la corruzione, e pure la sopravvivenza del castrismo a Cuba, anche se nel frattempo la struttura produttiva del Venezuela veniva lentamente smantellata. Col prezzo del petrolio crollato da oltre 100 dollari al barile a meno di 30, però, l’ illusione è finita. Oggi un ingegnere, se va bene, guadagna cento dollari al mese, e se ha figli fatica a garantire loro il pane. Ammesso che lo trovi, perché persino i generi alimentari di base vengono importati dal Messico o dai paesi vicini. Al supermercato si fanno i turni, nel senso che puoi andare a fare la spesa solo nei giorni in cui il numero finale della tua tessera sociale corrisponde con quello autorizzato a mettersi in fila. L’inflazione è al 150%, ma alcuni la stimano oltre l’800%» (P. Mastrolilli, La Stampa, 29 aprile 2017). Il piano di nazionalizzazioni voluto da Chávez (e venduto al mondo come «transizione al socialismo») ha fallito tutti i suoi obiettivi, mettendo in ginocchio la già fragile struttura industriale venezuelana. La violenza, “comune” e politica, impazza nel Paese, facendo del Venezuela uno dei luoghi più pericolosi del pianeta, probabilmente insieme al Brasile, anch’esso sprofondato in una grave crisi sistemica: economica, politica, istituzionale, sociale. Si parla di 80 persone uccise ogni giorno dalla delinquenza venezuelana: una vera e propria guerra incivile di vaste proporzioni, espressione di un degrado sociale davvero impressionante.

La Russia di Putin sta cercando di puntellare finanziariamente il regime di Caracas, ma può farlo solo entro precisi limiti, perché anche Mosca deve fronteggiare la crisi sociale derivata dal crollo del prezzo del petrolio. Su questo punto rimando al post Oro nero bollente. La Cina come al solito agisce con prudenza e discrezione, ma simile al ragno è pronta a papparsi la preda che finisce dentro la sua tela finanziaria.

Ovviamente il regime di Caracas attribuisce la catastrofica situazione del Paese all’azione antipatriottica della destra volta a implementare «il piano destabilizzante ordito dall’imperialismo statunitense, con la finalità di imporre, attraverso la forza e il ricatto, un governo al servizio della sua egemonia nel continente, smontando i processi di liberazione nazionale iniziati in America Latina agli inizi di questo secolo, sovvertendo i cambiamenti progressisti che hanno permesso ai lavoratori e lavoratrici e al popolo in generale, di stabilire diritti e conquiste sociali negati storicamente da governi che rispondevano, assolutamente, agli interessi della grande borghesia associata in condizioni di subordinazione all’imperialismo nordamericano». Ho appena citato un documento redatto da un sedicente Partito Comunista del Venezuela, il quale chiama «il Grande Polo Patriottico alla più ampia unità d’azione antimperialista». Lo spauracchio del nemico esterno che minaccia la sacra indipendenza della patria mostra ancora la sua maligna efficacia nell’opera tesa a compattare le classi subalterne a difesa dello status quo.

«I proletari non hanno patria», diceva il comunista di Treviri; e lo dico anch’io, nella mia pochezza politico-dottrinaria, s’intende. Ma un conto è dirlo… Ancora nel XXI secolo, nell’epoca del dominio totalitario e globale del Capitale sull’uomo e sulla natura la carta nazionalistico-patriottica si rivela, per le classi dominanti, vincente, ovunque. Come scrisse una volta Karl Kraus, «Il nazionalismo è un fiotto di sangue in cui ogni altro pensiero annega». A proposito di nazionalismo mi piace citare spesso anche Schopenhauer: «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale. […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze». Le classi dominanti sanno bene come solleticare il miserabile orgoglio nazionale dei «poveri diavoli», e lo fanno puntualmente tutte le volte che se ne presenti l’occasione per oliare il meccanismo del controllo sociale. Ecco perché ciò che un tempo si chiamava internazionalismo proletario rimane non un astratto principio da sbandierare per esibire una – ridicola – purezza ideologica, salvo poi contraddirlo nella prassi (magari con la scusa che “fare politica” significa scendere a compromessi con la realtà e perle “dialettiche” di simile conio), bensì un’imprescindibile investimento politico.

Si può essere contro il regime cosiddetto chávista senza per questo sostenere, neanche un po’, chi gli si oppone rimanendo sullo stesso terreno di classe? Per me la risposta è di un’ovvietà disarmante: certo che si può! Anzi, dal mio punto di vista si deve. Quando parlo di «terreno di classe», usando una vecchia espressione che tuttavia riesce ancora a toccare la sostanza della realtà sociale del XXI secolo, intendo ovviamente riferirmi alla natura capitalistico-borghese del regime venezuelano e degli oppositori politici che da anni cercano di prenderne il posto, anche correndo il rischio di pagare un prezzo assai salato in termini di sangue versato. Nell’ultimo mese si parla di 32 manifestanti antichávisti uccisi: «Nel paese continuano ad operare i “colectivos”, bande di estremisti che sostengono il regime e che attaccano i manifestanti dell’opposizione arrivando a sparare al volto» (Notizie Geopolitiche). Lo squadrismo con caratteristiche “bolivariane” non scherza! L’esercito, la polizia e la milizia paramilitare “socialista” (o “patriottica”) naturalmente non fanno mancare il loro prezioso contributo repressivo sul terreno della lotta contro il neoliberismo e l’imperialismo.

Beninteso faccio dell’ironia; vorrei che i lettori cogliessero il mio intento denigratorio nei riguardi della “Rivoluzione Bolivariana”, o “Socialismo del XXI secolo” che dir si voglia, la cui natura sociale, politica e ideologica è organica alla tradizione “populista” o “caudillista” dell’America Latina. «Cos’hanno in comune le storie politiche dei Paesi del Sud America? Qual è, se c’è, il tratto distintivo della via latino-americana all’esercizio del potere? La risposta è semplice: la presenza, più o meno costante, della figura del capo invincibile, del condottiero semi-divino, della guida di un intero popolo verso la terra promessa. E non è un caso se proprio a queste latitudini è stata coniata la parola che riunisce tutti questi concetti in uno solo: caudillismo. Gli esempi si sprecano: Hugo Chavez, Evo Morales, Daniel Ortega in Nicaragua, per molti versi anche Rafael Correa in Ecuador. E prima di loro, Juan Domingo Peron in Argentina, Alvaro Obregon, Lazaro Cardenas e Porfirio Diaz in Messico, Getulio Vargas in Brasile, Augusto Pinochet in Cile, Rafael Trujillo nella Repubblica Dominicana, Manuel Noriega a Panama, Alberto Fujimori in Perù, Fulgencio Batista e Fidel Castro a Cuba sono i primi di una lista che arriva a contare tranquillamente una cinquantina di nomi. In terra latina, deve esserci qualcosa di così particolare che, anche in tempi storici in cui è praticamente impossibile instaurare sistemi politici fondati sul più completo assolutismo, l’arrivo in questo o quel Paese di un nuovo caudillo è sempre una possibilità concreta. Hugo Chavez, il pilastro del Venezuela della rinascita bolivariana, è caudillo in tutto e per tutto, in modo addirittura caricaturale» (A. Giberti, Lettra43). Per chi scrive il fenomeno “caudillista”, che ha nella propaganda dal forte contenuto demagogico il suo tratto distintivo (caratteristica eccellente quando si tratta di controllare masse costantemente in subbuglio), va ricondotto ai suoi reali – e marxiani – termini strutturali, in senso sociale (stratificazione delle classi, composizione economica della sfera produttiva: agricoltura, industria leggera, industria pesante, ecc.), storico (ritardo capitalistico dei Paesi sudamericani) e geopolitico (l’egemonia imperialistica statunitense sull’intero Continente Americano), termini che naturalmente si trovano in intima relazione tra loro, e che qui non è il caso di indagare più a fondo.

Parlavo poco sopra di «ovvietà disarmante» circa la natura sociale (ultrareazionaria) del chávismo; la cosa appare però meno ovvia, meno scontata, agli occhi del sinistrismo mondiale che alla fine degli anni Novanta del secolo scorso individuò nel tenente colonnello Hugo Chávez il suo Nuovo Messia del «socialismo dal volto umano», dopo i rovesci patiti sul fronte del “socialismo reale”. In realtà Chávez fu l’ennesimo “uomo della provvidenza” chiamato dal processo sociale a controllare/imbrigliare/incanalare le forti tensioni sociali e politiche generate dalla crisi economica. Scrive Pedro Castro, docente all’Universidad Autónoma Metropolitana di Città del Messico e studioso di caudillismo: «Nel nostro continente destra o sinistra da questo punto di vista è sempre stata la stessa cosa. Sono le condizioni, oggettive e soggettive di un Paese, che determinano il caudillismo. In America latina la povertà economica (condizione oggettiva) ha sempre prodotto delle speranze altissime. Le masse si aspettano molto e quando riconoscono qualcuno che potrebbe risolvere loro il problema gli si concedono totalmente». Crisi sociale, povertà e assenza di coscienza di classe: sono le condizioni “oggettive” e “soggettive” che rendono possibile il successo dell’uomo della provvidenza.

Come sempre, è stato il sinistrismo italiota a vincere la medaglia d’oro nella gara apologetica del «Nuovo Socialismo» o «Socialismo del XXI secolo». Alcune perle italo-cháviste chiariranno il concetto.

«Se la scelta è tra la democrazia, imperfetta, europea e nordamericana, ormai soffocata dal peso del denaro che domina le campagne elettorali e la democrazia imperfetta di Chávez e di Castro, scelgo quest’ultima, in nome della solidarietà con i più deboli e dello sforzo, che vedo qui all’opera, di costruire una società più giusta, anche se spesso non più ricca» (G. Vattimo, La Stampa, 25 luglio 2005). Il noto filosofo qui ci regala un saggio di “socialismo” concepito come miseria generalizzata: miseria della filosofia, ci verrebbe da dire scopiazzando il noto ubriacone tedesco. Il “simpatico” Gianni Minà, chávista della prima ora, fu attratto soprattutto dal «militarismo progressista» messo in campo dal compagno Chávez, il quale offriva almeno alle masse diseredate «l’illusione di poter fare una politica sconveniente agli Stati Uniti e alle multinazionali dell’energia» (Il Manifesto, 13 maggio 2002). Alla prova dei fatti il «militarismo progressista» di marca chávista si sta dimostrando all’altezza della situazione: la sua efficacia repressiva è degna di ammirazione – da parte dei chávisti italiani (vedi Il manifesto), beninteso.

«Ho una profonda simpatia per quel laboratorio chiamato “rivoluzione bolivariana”, un’esperienza che ha fatto invecchiare la stella di Cuba, perché Chávez, questa è la profonda verità, riesce dove Fidel ha fallito» (N. Vendola, Corriere della sera, dicembre 2012). Chissà come avranno reagito i castristi fondamentalisti dinanzi alla dichiarazione del noto narratore. In un’intervista rilasciata al quotidiano argentino Página 12, l’allora leader di Sinistra, Ecologia e Libertà, si disse «invidioso dell’America Latina e delle sue rivoluzioni: quelle guidate dal presidente venezuelano Hugo Chávez, dal il presidente boliviano Evo Morales e dagli altri leader di sinistra». Sono invidie che lascio volentieri ai chávisti con caratteristiche italiote.

«Hugo Chavez è la spiegazione del perché, in tutta l’America Latina, la parola socialismo ha ancora un profondo significato, mentre in Europa lo ha perduto quasi del tutto». Quando un personaggio che trasuda stalinismo da tutti i pori come Giulietto Chiesa straparla di «socialismo», non si può che sghignazzare. Ma continuiamo la citazione (Il Fatto quotidiano, 10 marzo 2013): «Finché visse fu invincibile. Parlò incessantemente con il suo popolo in quelle incredibili maratone televisive che milioni ascoltavano perché le sentivano sincere, ma che erano anche lezioni di storia patria, scuola di formazione culturale di massa, insegnamenti di autodifesa. Gli occidentali, istupiditi dalle loro televisioni, ironizzavano. Ma Chavez aveva capito meglio di loro i segreti della comunicazione. E poiché non voleva ingannare o istupidire, con la pubblicità e l’intrattenimento yankee, semplicemente parlava. Sapeva che c’era poco da ridere». Qui concordo: dinanzi alla sirena demagogica che riesce a ipnotizzare (e a ingannare e istupidire) “le masse”, c’era e c’è poco da ridere. Ma per Chiesa esiste solo l’inganno e l’istupidimento con caratteristiche yankee: tutto il resto (da Putin ad Assad) è “antimperialismo” e resistenza al “pensiero unico” – amerikano, si capisce.

Vogliamo parlare del noto post-post marxista Toni Negri? Anche lui a suo tempo mostrò di apprezzare l’esperimento sociale chávista, e il caudillo di Caracas ricambiò la stima invitandolo a Telesur, la televisione di regime, e citandolo spesso durante i suoi comizi televisivi. «Per me è molto interessante vedere come si sviluppa questo processo rivoluzionario, che dà il potere al popolo. […] Il nemico si può sconfiggere solo con la lotta di classe. Voi lo chiamate socialismo, io lo definirei comunismo» (Panorama, 2006). Come non apprezzare il rigore dottrinario di Negri…

Per Bertinotti il chavismo era «un movimento che cerca di dare al popolo dignità e un migliore futuro», e oggi Rifondazione Comunista (sic!) fa ricadere le responsabilità della crisi sociale, del caos e della violenza che imperversano in Venezuela «all’opposizione, espressione dell’oligarchia economica del Paese, per tentare di rovesciare il legittimo governo venezuelano e di fomentare lo scontro civile in Venezuela». I rifondatori se la prendono anche con «il ruolo inaccettabile dell’informazione, che in Italia produce una sistematica disinformazione sulla situazione venezuelana, a partire dall’etichettatura di regime o dittatura». Forse la critica non mi riguarda, visto che personalmente parlo di regime e di dittatura (capitalistica) anche per ciò che riguarda la Repubblica nata dalla Resistenza. Così come si può essere contro il regime Repubblicano senza per questo essere a favore del regime Fascista, analogamente, e mutatis mutandis, si può benissimo essere contro il regime di Maduro senza per questo sostenete o simpatizzare per le ragioni dell’opposizione antichávista. Ma non spero certo di far comprendere il concetto di autonomia di classe ai simpatizzanti del regime chávista di ieri e di oggi: conosco i miei forti limiti teorici e politici!

Il limite politico e analitico più grave del vecchio terzomondismo, ereditato dal cosiddetto “Campo Antimperialista” dei nostri giorni, è stato quello di aver voluto individuare come «nemico principale» del proletariato mondiale un solo polo imperialista (quello occidentale a guida statunitense) e di aver trascurare quasi del tutto la dinamica del conflitto sociale in quei Paesi che in qualche modo cercavano di sottrarsi dall’influenza nordamericana. Quel conflitto sociale veniva in ogni caso ricondotto, per esserne di fatto sterilizzato, dentro la logica della «lotta antimperialista». Mutatis mutandis, è con gli occhi del terzomondismo che il “Campo Antimperialista” sta approcciando la crisi sociale venezuelana.

Per chi si batte per l’autonomia di classe in vista – diciamo così – della rivoluzione sociale anticapitalistica è davvero triste vedere le classi subalterne recitare il ruolo di impotente massa di manovra nelle mani di una delle fazioni (filogovernativi versus antigovernativi, “sinistra” versus “destra”, statalisti versus liberisti, democratici versus autoritari, globalismi versus sovranisti, ecc., ecc., ecc.) che si contendono il potere capitalistico. Un tragico spettacolo che abbiamo visto anche nel corso delle cosiddette Primavere Arabe. Ma non è che in Europa – Italia compresa – o negli Stati Uniti la musica sia diversa, tutt’altro.

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