LO SPETTRO DI MALTHUS. E QUELLO DI MARX

Il libro di Malthus On Population era un pamphlet
contro la Rivoluzione francese e le contemporanee
idee di riforma in Inghilterra. Era un’apologia della
miseria delle classi lavoratrici [1].

La teoria malthusiana della popolazione è il sistema
più feroce e barbaro che sia mai esistito, un sistema
della disperazione, che distrusse tutte le belle frasi
sull’amore del prossimo e sulla cittadinanza mondiale [2].

Noi, semplicemente, annulliamo la contraddizione
superandola. Si dilegua così l’opposizione fra la
sovrappopolazione qui e l’eccesso di ricchezza lì,
si dilegua il fatto prodigioso, più prodigioso di tutti
i prodigi di tutte le religioni messe insieme, che una
 nazione debba morire di fame a causa della ricchezza
e della sovrabbondanza; si dilegua la folle tesi che la
terra non abbia la capacità di nutrire gli uomini [3].

 

Lo spettro di Malthus è il titolo della personale di Marzia Migliora ospitata dal Museo MA*GA di Gallarate (Varese). «Lo Spettro di Malthus è l’ideale conclusione del ciclo di ricerca degli ultimi anni, che Marzia Migliora ha dedicato all’analisi sul rapporto tra produzione di cibo, merce e plusvalore del modello capitalista e allo sfruttamento delle risorse umane, animali e minerarie. Temi evocati fin dal titolo del progetto proposto in cui l’artista richiama la teoria enunciata da Thomas Malthus, economista e demografo inglese (1766-1834), che teorizzava, già a fine diciottesimo secolo, il problema dell’insostenibilità tra crescita demografica e produzione alimentare, indicando come conseguenze di monoculture e allevamenti industriali, possibili carestie e pandemie a livello globale. Lo spettro di Malthus chiama direttamente in causa la figura dello studioso inglese che nel 1798 pubblica Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società, precursore rispetto agli squilibri tra crescita demografica e produzione alimentare. “Le motivazioni – afferma il curatore della mostra Matteo Lucchetti – che hanno portato Marzia Migliora ad esplorare le contraddizioni insite nei modelli produttivi agricoli industrializzati, o le pratiche estrattive intensive del capitalismo neoliberale, sono ancorate alla convinzione che i paradigmi sui quali si basa l’esistenza del mondo industrializzato che conosciamo, siano alla radice delle emergenze, presenti e future, che il genere umano si sta progressivamente trovando ad affrontare”. “Con l’opera Lo Spettro di Malthus – continua Alessandro Castiglioni, conservatore del MA*GA – Marzia Migliora prosegue una ricerca pluriennale dedicata a lavoro, risorse naturali e ambiente, interrogando ciascuno di noi sulle responsabilità, individuali e collettive, relative all’uso e sfruttamento di risorse e forza lavoro”» (Arte.it). Per l’autrice qui menzionata «Lo spettro di Malthus apre una riflessione sul valore del denaro, in relazione al modello di vita proposto nella società dei consumi, alimentato dal costante desiderio di ricchezza come obiettivo per una vita felice» ( Versus, dicembre 2019).

Naturalmente non intendo dire nulla sul merito squisitamente artistico della mostra, anche perché non ne ho le “competenze specifiche” né ritengo che il mio giudizio estetico sulle opere di Marzia Migliora possa essere di un qualche interesse per chi legge queste righe. Qui intendo piuttosto svolgere una stringata riflessione sul merito concettuale che informa la mostra di cui si parla, la quale in realtà rappresenta per me un mero pretesto per dire la mia su una questione estremamente generale e, come si dice, di scottante attualità. Lungi da me insomma l’intenzione di polemizzare con l’autrice delle opere esposte nel Museo di Gallarate, e credo anzi di soddisfare le sue aspettative, visto che l’artista auspica l’apertura di una riflessione su temi e problemi che agitano la nostra scombussolata epoca.

Leggendo il titolo e la presentazione della personale di Marzia Migliora mi sono chiesto cosa spinge persone sensibili ai destini dell’uomo e del pianeta a cercare in Malthus conforto e ispirazione, e so che se dovessi trovare la risposta negli scritti del celebre curato inglese di certo fallirei l’impresa, perché tutto si può dire delle opere malthusiane, tranne che esse siano ispirate da idee di empatia e di solidarietà nei confronti degli uomini, soprattutto di quelli che vivono, ma forse sarebbe meglio scrivere sopravvivono, nei piani bassi dell’edificio sociale capitalistico. Come sia stato possibile trasformare Malthus in un campione dello spirito umanista e ambientalista per me resta un mistero. Probabilmente sulla buona opinione di cui Malthus gode soprattutto presso l’opinione progressista occidentale pesa anche il “bizzarro” giudizio che una volta John Maynard Keynes formulò sul curato inglese: «Se, al posto di Ricardo, fosse stato Malthus il padre che ha influenzato l’economia del XIX secolo! Il mondo ne sarebbe stato più ricco e accorto. [Malthus] ha radici profonde nella tradizione inglese della scienza umana […], tradizione segnata dall’amore della verità e una assai nobile lungimiranza, da un prosaico buon senso, libero da ogni sentimentalismo e ogni metafisica, da un immenso disinteresse e spirito civico» [4]. Già mi pare di sentire crasse risate provenire dall’oltretomba: si tratta dello spettro di Marx?

Certo, bisogna poi considerare la famosa – e per alcuni famigerata – teoria malthusiana della popolazione, la quale a dire il vero appariva vecchia e contraddetta dai fatti già ai tempi di Marx e di Engels, che difatti ebbero facile gioco nel randellare criticamente gli epigoni del maestro inglese, il quale a differenza degli scolari non mancava di una certa intuizione e di un certo acume, come peraltro non mancarono di riconoscere gli stessi autori del Manifesto del Partito Comunista [5]. Scriveva nel 1913 il demografo Leroy-Beaulieu: «Il pericolo al quale è esposta la civiltà moderna si trova in direzione del tutto opposta a quella in cui lo cercava Malthus. […] Le razze europee manterranno ancora a lungo una eccedenza degna di nota delle nascite rispetto ai decessi? Un secolo fa, al tempo di Malthus, tale questione non si sarebbe posta» [6]. Come altri demografi, economisti e politici del suo tempo, Leroy-Beaulieu denunciava i «pericoli economici e morali in presenza di una popolazione stazionaria e di una debole natalità», e concludeva: «Il mondo ha notevole bisogno di popolazione». Paesi come l’Italia e il Giappone oggi si trovano esattamente in questa condizione, e ormai da diversi anni si parla in Occidente di crisi demografica. Negli anni Venti del secolo scorso diversi scienziati sociali calcolarono che, al livello della tecnica e della scienza di quel periodo, la Terra avrebbe potuto occupare un numero massimo di abitanti che andava dai 6 agli 8 miliardi; allora la popolazione mondiale non superava 1,9 miliardi di anime. Oggi la popolazione mondiale si aggira intorno ai 7,4 miliardi, ed essa può disporre di un apparato tecnico-scientifico incomparabilmente più potente rispetto a quello che la società capitalistica poteva vantare un secolo fa [7].

«Secondo la Fao nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di persone. La popolazione del pianeta è di 7 miliardi di individui e 842 milioni soffrono la fame» [8]. La progressione geometrica malthusiana fa acqua da tutte le parti, oggi più che al tempo in cui il noto ubriacone tedesco ne metteva in ridicolo, penetrandolo criticamente, il reazionario fondamento concettuale. Scrive il “futurologo” Gerd Leonhard: «La tecnologia rende le cose abbondanti perché con la buona tecnologia il prezzo cala drasticamente e la tecnologia esponenziale renderà le cose esponenzialmente abbondanti. I mezzi di comunicazione, l’informazione, i viaggi, i servizi finanziari, i servizi medici, il cibo, l’acqua, l’energia. In meno di 20 anni possiamo arrivare al punto in cui avremo energia, cibo e acqua abbondanti, mentre la maggior parte del lavoro sarà svolta da macchine o software; il che significa che “lavoreremo” solamente per poche ore al giorno, godendoci lo stesso tenore di vita e di reddito. Ciò significherà che il consumo e la crescita non potranno essere più considerati i principi che definiscono l’economia – si svilupperà una sorta di post-capitalismo. Il PIL come parametro sarà completamente sparito da allora – e forse troveremo un modo per perseguire più FIL (Felicità Interna Lorda)» [9]. Il concetto di FIL, peraltro oggi di gran moda presso i progressisti, ai miei occhi appare eccitante quanto lo è il pensiero di un sasso che mi cade dritto sulla testa; tuttavia la riflessione di Leonhard coglie una tendenza storica che apre all’umanità la possibilità di emanciparsi dall’indigenza, dal duro lavoro, dalla divisione classista e sociale del lavoro [10], e di vivere un’esistenza piena, felice e libera, realizzando finalmente quel concetto di «uomo in quanto uomo» che si trova nella produzione intellettuale e artistica dei grandi umanisti che si sono succeduti in oltre duemila anni di storia. Solo il Moloch chiamato Capitale rende impossibile la realizzazione della tendenza storica che sorride all’umanità, lasciandola così nella triste, precaria e disumana condizione che sappiamo.

«Sottrarre terra destinabile alla produzione alimentare, per ottenere invece bioetanolo e biodisel è eticamente irrazionale, soprattutto se vengono utilizzati terreni dell’Africa, un continente che ha bisogno di sfamare milioni di suoi abitanti. La produzione di biocarburanti è un metodo basato ancora su logiche colonialiste ed eurocentriche, che considerano l’Africa come uno spazio di conquista e di sfruttamento. A pagarne le conseguenze sono sempre i più poveri» [11]. Com’è noto, in questa competizione è il celeste imperialismo cinese che sta avendo la meglio. Ora, ancorché umanamente irrazionale, sul fondamento della società capitalistica la trasformazione del cibo in biocarburante mentre in molte parti del pianeta la gente continua a morire di fame è un fatto logico, del tutto razionale, che si spiega benissimo con la logica e con la razionalità del noto Moloch. Piuttosto i riflettori della critica andrebbero puntati ancora una volta sui rapporti sociali che rendono non solo possibile ma assolutamente necessario (per il Capitale) la trasformazione di tutto e di tutti in altrettante occasioni di profitto. Volere imporre al Capitale una razionalità, una logica e un’etica che non possono appartenergli, mi sembra uno sforzo di gran lunga più “utopistico” di quello che propone l’autentico anticapitalista, il quale almeno ha capito quale radice andrebbe estirpata per orientare la comunità nella giusta (umana) direzione.

Scriveva Henrik Grossmann alla vigilia della grande crisi del 1929: «È caratteristico dell’economia politica borghese odierna non il timore della sovrappopolazione, bensì al contrario quello della sottopopolazione […] Il mondo è già ripartito, la riserva umana disponibile è limitata. Qui il capitalismo trova per il suo sviluppo un limite che egli deve tentare in ogni modo di spezzare. Risiede qui dunque un motivo sempre presente di conflitti e di guerre per la fonte insufficiente di plusvalore» [12]. Bisogna infatti ricordare che nel capitalismo, ancor più che nei precedenti modi di produzione, il concetto di popolazione è strettamente correlato a quello di popolazione lavoratrice, la quale costituisce appunto la base del vitale (per il Capitale, beninteso) plusvalore. Scriveva Marx: «La massa del plusvalore può essere aumentata soltanto aumentando il numero degli operai, cioè aumentando la popolazione operaia.  L’aumento della popolazione costituisce, in questo caso, il limite matematico della produzione di plusvalore ad opera del capitale complessivo sociale» [13]. Come si vede Marx parlava di «limite matematico» non in astratto, ma riferendolo a un’economia basata sull’estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, mettendolo in intima e inscindibile relazione con una peculiare società: quella capitalistica. Il capitale, osservava sempre Marx, cerca di superare sempre di nuovo quel limite (sociale, non fisico), o attraverso il prolungamento fisico della giornata lavorativa («produzione di plusvalore assoluto»), oppure accrescendo la produttività dei lavoratori a parità di giornata lavorativa o addirittura anche in presenza di una sua diminuzione («produzione di plusvalore relativo»), cosa che esso realizza grazie all’impiego di mezzi di produzione sempre più sofisticati e a un’organizzazione del lavoro sempre più razionale  – dal punto di vista degli interessi del Capitale, non certo dell’umanità genericamente considerata. Infatti, «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» [14]. Su questi importanti aspetti della “problematica” rimando al PDF Sul potere sociale della scienza e della tecnica.

La crisi mondiale degli anni Trenta cambierà drammaticamente i termini del problema demografico nei Paesi capitalisticamente più avanzati del pianeta (soprattutto in relazione alla formazione di un gigantesco «esercito industriale di riserva»), che muterà ancora una volta nel Secondo dopoguerra, quando la fame di popolazione operaia tornerà a farsi risentire soprattutto in quanto problema attinente al processo di accumulazione capitalistica. Questo semplicemente per dire quanto sia sbagliato porre il problema demografico in astratto, senza cioè considerarlo alla luce delle tendenze economico-sociali di breve, di medio e di lungo termine registrabili nei diversi Paesi del mondo e nei suoi differenti Continenti.

Negli anni Settanta del secolo scorso, quando il boom economico era ormai diventato per i Paesi occidentali solo un bellissimo ricordo e la crisi petrolifera veniva a impattare su un capitalismo già in forte debito d’ossigeno (cioè di profitto), la figura di Malthus subì un processo di trasformazione (stavo per scrivere di beatificazione!) da parte di un gruppo di scienziati sociali (economisti, ecologisti, sociologi, demografi, statistici, ecc.) intenzionati a fare dell’autore del famoso Saggio sul principio di popolazione il teorico-profeta dei limiti dello sviluppo. L’allusione al celebre rapporto del 1972 (The Limits to Growth) fatto dal Massachusetts Institute of Technology per conto del Club di Roma è del tutto ricercato. «Lo studio del MIT, finanziato dalla Fondazione Volkswagen, ha come scopo di definire chiaramente i limiti fisici e le costrizioni relativi alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta. […] Sebbene si ponga ancora l’accento sui vantaggi dell’aumento di produzione e consumo, nei paesi più prosperi sta nascendo la sensazione che la vita stia perdendo in qualità, e vengono messe in discussione le basi di tutto il sistema» [15]. Ribadisco il concetto: a mio avviso parlare in astratto di «limiti fisici», di sovrappopolazione, di «attività umane» e, soprattutto di «sistema» non ha alcun senso storico-sociale, mentre ne ha uno politico-ideologico (il quale prescinde dalle intenzioni degli stessi autori  e sponsorizzatori del famoso Rapporto) ben preciso: celare dietro una fraseologia neomalthusiana le reali cause dello sfruttamento degli uomini e del pianeta, nonché dell’inquinamento e della distruzione degli ecosistemi. Ebbene queste cause sono a mio avviso riconducibili immediatamente, senza alcuna mediazione, al dominio capitalistico sul mondo, ai rapporti sociali di produzione/distribuzione che oggi dominano tutte le società di questo pianeta. Io infatti preferisco parlare di Società-Mondo, con le sue intrinseche contraddizioni tra aree più sviluppate e meno sviluppate, più dinamiche e meno dinamiche, più popolate e meno popolate, e così via. Il concetto di globalizzazione capitalistica è ancora troppo superficiale per esprimere adeguatamente l’intera essenza della realtà che ci sta dinanzi e che mi sforzo, non so con quali risultati, di esprimere.

Insomma, quando osserviamo e valutiamo le conseguenze dello sviluppo capitalistico (e non genericamente industriale o moderno) è appunto di sistema capitalistico che dobbiamo parlare, il quale dominava anche nelle società cosiddette di socialismo reale, che difatti erano società realmente capitalistiche: sto parlando in primo luogo dell’ex Unione Sovietica e della Cina maoista, la quale, pur attraverso contraddizioni e catastrofi economico-sociali di vario tipo (registrate nella mostruosa contabilità in termini di sofferenze e di morti), ha posto le basi per il decollo del gigante asiatico all’inizio degli anni Ottanta, con i risultati eccezionali che conosciamo. Se oggi per le persone è molto più facile immaginare e credere possibile la fine del mondo, magari a causa di una micidiale pandemia, che la fine del capitalismo, ebbene ciò si deve anche, se non soprattutto, alla più grande menzogna (altro che fake news! ) mai circolata in questo pianeta: l’esistenza di un “socialismo reale”. La critica dell’industrialismo e della modernità genericamente intesi, tipica del pensiero ecologista occidentale, dovrebbe misurarsi anche con la menzogna qui denunciata, se non vuole rimanere intrappolata nel riformismo di stampo capitalista che porta tanta acqua al mulino di chi ha interesse a “svecchiare” l’economia fondata sulla ricerca del profitto.

Il club di Roma si sforzò di attualizzare le teorie demografiche malthusiane elaborate in una fase dello sviluppo capitalistico che, come ho già detto, era molto vecchia già ai tempi di Marx e di Engels. Malthus ai suoi tempi fu una cosa seria, comunque lo si voglia giudicare sul piano ideologico e scientifico; dei suoi epigoni (soprattutto quelli tardi) non si può dire la stessa cosa. Come spesso accade, alla tragedia non segue qualcosa che possa reggerne il confronto, nemmeno alla lontana.

«I limiti dello sviluppo era un rapporto contro l’inquinamento ambientale americano dell’epoca, che vedeva nella cessazione della crescita globale e dello sviluppo economico l’unica soluzione possibile per evitare la catastrofe. Queste conclusioni vennero rifiutate dal Terzo Mondo: meglio risolvere il problema dell’inquinamento e dell’iperconsumo aggredendo il sistema produttivo dei paesi sviluppati – tramite vincoli o stimoli economici – che bloccare la crescita globale condannando i paesi poveri al sottosviluppo eterno» [16]. Mutatis mutandis, è la stessa posizione che Paesi come la Cina e l’India, e l’intero Continente africano, oggi difendono contro chi sostiene che il pianeta non può tollerare uno stile di vita di tipo occidentale nei Paesi a più forte “impatto demografico”: «Un solo pianeta non basterebbe!» Cinesi, indiani e africani rispondono che adesso è arrivato il loro turno, che gli occidentali predicano bene dopo aver razzolato malissimo per molto, troppo tempo, e che dietro il loro amore per il pianeta probabilmente si nasconde una nuova forma di razzismo. Rifiutare lo sviluppo economico basato sull’uso del carbone, del petrolio e dell’energia atomica sarebbe oggi un suicidio, e comunque la “transizione ecologica” deve tenere conto delle reali condizioni sociali dei Paesi a più alta densità demografica. Questo ribattono i Paesi un tempo definiti in via di sviluppo ai Paesi “ecologicamente più sensibili” – che pregustano le enormi possibilità di profitto offerte dalla cosiddetta “transizione ecologica”. In effetti, è difficile far comprendere alle popolazioni che per la prima volta nella loro storia possono avvicinarsi al tanto agognato “stile di vita occidentale” che «un aumento del consumo non rappresenta un aumento del benessere», mentre di certo rappresenta un’aggressione all’ecosistema. Dove sta la ragione? Ovvero, e più fondatamente, di che ragione si tratta?

Chiunque abbia letto il saggio di Malthus del 1798 sa bene come esso sia informato dall’inizio alla fine da un pensiero che era fortemente reazionario già ai suoi tempi. Come scrive Guido Maggioni nella sua introduzione del saggio malthusiano pubblicato dall’Einaudi, l’obiettivo dichiarato del Saggio non è il «principio di popolazione», ma la «confutazione delle ideologie del progresso, con particolare riguardo alle teorie di Condorcet e, soprattutto, di Godwin. […] L’obiettivo di Malthus è quello di fornire una base scientifica alla difesa dell’ordine costituito: la divisione in classi, la proprietà privata, il principio dell’interesse personale. La tesi non era nuova, ma ripresa da Malthus ebbe un immenso successo nella prima metà dell’Ottocento, alimentando un ampio dibattito. Il Saggio va dunque considerato come un pamphlet contro la rivoluzione e contro l’ideologia del progresso, come un episodio della polemica conservatrice che nella cultura inglese conosceva già il grande precedente delle Reflections on the Revolution in France di Edmund Burke» [17].

Pochi passi del famoso (o famigerato?) Saggio sono sufficienti a dare l’idea di che cosa stiamo parlando. Scriveva Malthus: «Attraverso i regni animale e vegetale, la natura ha sparso dappertutto i semi della vita con mano quanto mai prodiga e generosa. […] Ma la necessità, questa imperiosa legge di natura che tutto pervade, li limita entro confini prescritti. La razza delle piante e la razza degli animali si contraggono sotto questa grande legge restrittiva. E la razza umana non può sfuggirle, per quanti sforzi faccia. […] Questa naturale diseguaglianza dei due poteri, di popolazione e di produzione da parte della terra, e quella grande legge della nostra natura che costantemente deve mantenere in equilibrio i loro effetti, costituiscono la grande difficoltà, che a me pare insormontabile, sulla via che conduce alla perfettibilità della società.  […] Non vedo alcuna via per la quale l’uomo possa sfuggire al peso di questa legge che pervade tutta la natura animata. Nessuna sognata forma di eguaglianza, nessuna legge agraria spinta al massimo grado, potrebbe rimuoverne la pressione anche per un solo secolo. Ed essa appare dunque decisiva per negare la possibile esistenza di una società nella quale tutti i suoi membri possano vivere con agio, felicità e relativo ozio e riposo, e non sentire l’ansia di procurare mezzi di sussistenza per sé e per le proprie famiglie. Di conseguenza, se le premesse sono giuste, l’argomentazione è decisiva per negare la perfettibilità della massa dell’umanità» [18]. In saggio scritto nel 1830, Malthus ribadiva il concetto: «Per quanto l’uomo si innalzi sopra tutti gli altri animali per le sue facoltà intellettive, non bisogna pensare che le leggi fisiche cui egli è soggetto debbano essere radicalmente diverse da quelle che si osservano prevalere nelle altre parti della natura animata» [19]. Qui abbiamo un esempio di volgarissimo materialismo borghese, che peraltro piacque molto a Darwin, il quale, com’è noto, ne trasse l’ispirazione per la sua «lotta per l’esistenza» [20].

Come si vede Malthus non nega la cattiva utopia della società perfetta; non polemizza con le ricette buone «per l’osteria dell’avvenire» (Marx): egli nega la stessa possibilità di un reale miglioramento nelle condizioni della comunità umana, nega non l’ingenua idea di perfezione ma la perfettibilità «della massa dell’umanità», massa destinata necessariamente a subire le conseguenze della Legge della Necessità. Per Malthus solo pochi eletti possono aspirare a un’esistenza materialmente e intellettualmente ricca e felice. Ma chi è stato il soggetto che ha istituito la maligna legge di natura che condanna gran parte degli uomini a una vita di duro lavoro e di miseria? Il «Creatore Supremo» in persona! Possibile? Secondo Malthus pare di sì. E perché lo avrebbe fatto? «Per destare l’uomo all’azione e rendere la sua mente atta a ragionare. Per fornire all’uomo tali incessanti eccitamenti all’azione e per spingerlo a secondare i benigni disegni della Provvidenza con la piena coltivazione della terra, è stato stabilito che la popolazione debba aumentare assai più rapidamente degli alimenti. […] Ritornando al principio di popolazione e considerando l’uomo quale realmente è, e cioè un essere inerte, torpido e alieno dalla fatica se non quando vi è costretto dalla necessità (ed è certo il massimo della follia considerare l’uomo come se fosse quell’essere ideale che immaginiamo nelle nostre ingenue fantasie), potremo affermare con sicurezza che il mondo non si sarebbe popolato se il potere di popolazione non fosse superiore ai mezzi di sussistenza» [21].

Rimane sempre da spiegare perché mai il «Creatore Supremo» abbia optato, nella sua infinita potenza e bontà, per «un essere inerte, torpido e alieno dalla fatica se non quando vi è costretto dalla necessità», e non si sia invece deciso per un essere attivo, intellettualmente vivace e pronto ad assumersi tutte le responsabilità che conseguono dal desiderare una vita prospera e felice, né mi sembra particolarmente convincente quanto sostenne Malthus a proposito della condizione dell’uomo come un perenne stato di prova che arreca felicità a chi supera le difficoltà poste all’umanità dal «Creatore benevolente», cosicché «La legge della popolazione corrisponde perfettamente a tali esigenze» [22]. Ma qui conviene non addentrarsi in difficili “problematiche” teologiche. Probabilmente il “giovane Engels” colse nel segno quando scrisse: «La teoria malthusiana non è che l’espressione economica del dogma religioso della contraddizione tra spirito e natura e della conseguente corruzione di entrambe» [23]. Amen!

Estendere deterministicamente e meccanicamente ciò che accade nel “regno animale” al “mondo umano”, come fece Malthus, è del tutto errato già in linea di principio, perché tale operazione concettuale non tiene in alcun conto ciò che sostanzia la fondamentale differenza tra il primo e il secondo: il “regno animale” è assoggettato dal principio alla fine alle ferree e incoercibili leggi della natura; il “mondo umano”, che ovviamente comprende la natura come una sua parte costitutiva fondamentale, è in larghissima parte opera delle attività umane e risponde essenzialmente alle leggi della società, non alle leggi della natura, le quali in questo mondo architettato e costruito dall’uomo non sono ovviamente sospese o annullate, ma anch’esse socialmente mediate.

Ecco come nei Manoscritti del 1844 Marx traccia la linea di demarcazione tra l’uomo, in quanto prodotto storico-sociale, e l’animale, in quanto mero prodotto naturale: «La libera attività cosciente è il carattere specifico dell’uomo. […] L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una determinazione in cui immediatamente l’uomo si confonda. L’attività vitale cosciente distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente alla specie. O è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un oggetto per lui, proprio perché egli è un essere appartenente alla specie. […] La fabbricazione pratica d’un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come un essere cosciente appartenente alla specie» [24].  Nel concetto marxiano di ”specie” è dunque immanente l’unità “dialettica e organica” di storia e natura. Peculiare è dunque nell’uomo il bisogno di padroneggiare con la testa e con le mani ciò che gli sta dinanzi, lo sforzo cioè di non subire passivamente il mondo ma anzi di trasformarlo a proprio vantaggio. L’uomo incontra immediatamente il mondo non solo attraverso i sensi, ma anche attraverso la coscienza, qualunque grado di maturità e complessità essa abbia conseguito nelle diverse epoche storiche. Sotto questo aspetto è corretto dire che anche i sensi e l’istinto sono, nell’uomo, socialmente mediati. Il bisogno di padroneggiare il mondo a certe condizioni può diventare una volontà di sopraffazione e di sfruttamento. Le società classiste rappresentano l’esempio più vistoso e doloroso di un tale esito disumano.

Considerato che l’uomo non può essere nemmeno concepito fuori dalla dimensione sociale e dal suo vitale rapporto con la natura, «perché l’uomo è una parte della natura» (Marx), tutta la questione “antropologica” si risolve nella domanda che segue: i rapporti sociali che informano la vita della comunità sono tali da promuovere e favorire un’esistenza umana oppure no? Come già si è capito, io penso che la società capitalistica non solo non promuove né favorisce una tale esistenza, ma la nega sempre di nuovo, necessariamente.

«Se il lettore dovesse ricordarmi il Malthus, il cui saggio Essay on Population uscì nel 1798, io gli ricorderò che questo scritto non è che plagio superficiale da scolaretto, declamato in maniera pretesca, di scritti di De Poe, Sir James Steuart, Townsend, Franklin, Wallace ecc., e non contiene nemmeno una proposizione originale. Il grande scalpore destato da quest’opuscolo fu dovuto unicamente a interessi di partito. La rivoluzione francese aveva trovato nel regno britannico degli appassionati difensori; il “principio della popolazione”, elaborato lentamente nel secolo XVIII, annunciato poi a suon di tromba contro le dottrine del Condorcet e di altri, fu salutato entusiasticamente dall’oligarchia inglese come il grande sterminatore di tutte le voglie di progresso umano» [25]. «Chi potrebbe credere, a prima vista, che i Principles of Political Economy di Malthus non siano che la traduzione malthusiana dei Nouveaux Principes de l’économie politique di Sismondi? Eppure è così. L’opera di Sismondi apparve nel 1819. Un anno più tardi ne apparve, ad opera di Malthus, la caricatura inglese. Se Malthus combatteva in Ricardo la tendenza della produzione capitalistica, la quale è rivoluzionaria contro l’antica società, da Sismondi, con infallibile istinto pretesco, attinse soltanto ciò che era reazionario contro la produzione capitalistica, contro la moderna società borghese. […] Malthus non ha interesse a celare le contraddizioni della produzione borghese; al contrario, ha tutto l’interesse a metterle in evidenza, da un lato per dimostrare che la miseria delle classi lavoratrici è necessaria, dall’altro per dimostrare ai capitalisti che, affinché essi abbiano un’adeguata domanda, è indispensabile un clero ecclesiastico e statale ben ingrassato» [26]. Qui Marx fa riferimento alla teoria malthusiana del valore, la quale postulava l’assoluta necessità di una «terza classe di consumatori improduttivi» (a cominciare dai proprietari fondiari) dediti esclusivamente a realizzare il valore contenuto nelle merci, una consistente parte delle quali rimarrebbe invenduta, sempre secondo Malthus, alla luce della necessaria miseria dei lavoratori e della virtuosa frugalità dei capitalisti. «Ma questi rentiers fondiari non bastano a creare una “domanda sufficiente”. Bisogna ricorrere a mezzi artificiali. Questi consistono di forti imposte, in una massa di sinecure statali ed ecclesiastiche, in grandi eserciti, pensionati, decime per i preti, in un considerevole debito pubblico e, di tanto in tanto, in guerre dispendiose. Questi sono i “rimedi”» [27]. Una larga base di parassitismo sociale foraggiato dalle classi produttive della società borghese: questa era la reazionaria “utopia” malthusiana – la quale affascinò non poco Keynes, ossessionato dalle pericolose fluttuazioni della domanda in grado di pagare – la sola che può vantare giusti diritti nella società capitalistica. In quella base parassitaria Malthus includeva in primo luogo tutti i ceti sociali e intellettuali che avevano prosperato nella società che la rivoluzione capitalistica stava spazzando via proprio a partire dall’Inghilterra, avanguardia di quella rivoluzione.

Contro il reazionario Malthus il rivoluzionario Marx non mobilitò il pensiero progressista della borghesia illuminata del XVIII secolo e degli inizi del secolo successivo, bensì la concezione comunista che individuava nella stessa società capitalistica le condizioni oggettive dell’emancipazione dell’umanità attraverso l’emancipazione dei senza riserve, dei proletari, di chi per vivere è costretto a fare della propria esistenza (e non solo del proprio lavoro) una merce. La «ruota della storia» non andava fatta girare all’indietro, sempre ammesso che ciò fosse stato – e sia – possibile, ossia verso la precedente fase dello sviluppo capitalistico, come teorizzava il «socialismo piccolo-borghese», o addirittura in direzione delle epoche precapitalistiche, ma in avanti, verso un futuro di autentica libertà e di generale prosperità, una prospettiva che la rivoluzione capitalistica iniziata in Europa nel XVI secolo aveva finalmente reso oggettivamente possibile: l’utopia della Comunità Umana era passata dal sogno degli umanisti alla prassi dei rivoluzionari.

Oggi uno dei massimi esponenti dell’”anticapitalismo” ultrareazionario è Papa Francesco, che difatti è, al contempo, il più autorevole punto di riferimento del sinistrismo mondiale e la personalità più disprezzata dai liberali/liberisti di casa nostra, i quali lo accusano, a giorni alterni, di essere un “comunista” (sic!) o un “populista peronista”. Secondo il direttore del Foglio Claudio Cerasa, irritato dallo spirito “antiglobal” e “antimodernista” di cui sarebbe impregnata l’ultima Enciclica Francescana, «È il capitalismo inviso al Papa che ci renderà fratelli e ci salverà dal virus»: misteri della fede capitalistica! Quanto al denunciato «anticapitalismo» dell’attuale Papa, icona del progressismo mondiale (forse in attesa del successore del “negazionista” Trump), occorre stendere un velo pietoso sulla mediocrità del pensiero liberista/liberale e bestemmiare contro il nichilismo dei nostri oscuri tempi che fa della verità una barzelletta – che peraltro non fa ridere.

Chi vede in Marx un’apologeta dell’idea ottocentesca di progresso, mostra a mio avviso di non aver letto, non dico capito, la critica marxiana dell’economia politica. È ovvio, ad esempio, che il comunista del XXI secolo non può parlare dell’uso capitalistico delle macchine negli stessi termini in cui ne parlava Marx quando scrisse Il Capitale, cioè in un’epoca in cui solo una parte del mondo era stato assoggettato dai moderni rapporti sociali capitalistici: oggi è più facile ed attuale pensare che non si tratta più solo e semplicemente di un uso capitalistico della tecnologia già esistente, ma di una tecnologia adeguata ad una comunità autenticamente umana. Il processo di umanizzazione di una comunità che si fosse emancipata dalla divisione classista degli individui non potrebbe non toccare fin nell’essenza anche la prassi tecnoscientifica. Ma il nucleo fondamentale del problema messo a tema da Marx rimane a mio avviso intatto e addirittura più attuale che mai: occorre mettere l’uomo nelle condizioni di vivere secondo il principio della completa soddisfazione dei suoi molteplici bisogni: «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!» [28]. Ovviamente per costruire le premesse di una comunità umana che sia tale non solo nominalmente, occorre superare il rapporto sociale capitalistico con ciò che esso presuppone e pone sempre di nuovo, a cominciare dal «sistema del lavoro salariato [che] è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» [29].  Quando «la Costituzione più bella del mondo» recita nel suo articolo di apertura che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (salariato), essa confessa apertamene al mondo la natura capitalistica della società italiana – natura che rende necessaria anche la formazione di un «esercito industriale di riserva» più o meno numeroso: la disoccupazione conferma, non contraddice, la «Costituzione più bella del mondo».

Il concetto marxiano di miseria crescente, trivialmente presentato dai suoi critici come legge assoluta del pauperismo, chiama in causa la relazione che insiste nella società capitalistica tra crescente produttività del lavoro umano e retribuzione dei lavoratori, la cui miseria sociale cresce necessariamente proprio in rapporto alla crescente produttività del lavoro, resa possibile dall’introduzione nel processo lavorativo della potenza tecno-scientifica. Malthus assolutizzava e naturalizzava un fenomeno (la forbice tra popolazione e cibo) che ha un fondamento reale e concettuale solo a certe condizioni storico-sociali; il capitalismo ha messo in crisi proprio questo fondamento, spostando il problema dalla mera demografia nella sua immediata relazione con la nuda natura, all’organizzazione sociale considerata nella sua totalità – e nella sua dimensione planetaria. Si muore di fame, ci si immiserisce in termini relativi (ma spesso anche assoluti: vedi oggi!), si diventa obesi oppure anoressici non a causa di una drammatica sproporzione tra il numero delle bocche da sfamare e la quantità di generi alimentari che l’uomo e la natura sono in grado di mettere a disposizione della società, ma a motivo di un’irrazionalità sistemica (“strutturale”) che si spiega in primo luogo con i rapporti sociali di produzione vigenti nel capitalismo.

Negli anni Trenta del secolo scorso gli Stati Uniti, divenuta prima potenza capitalistica del pianeta nel corso della Prima carneficina mondiale, “vantavano” un esercito di disoccupati di oltre 13 milioni, e i lavoratori percepivano un salario inferiore a quello ritenuto per legge il “minimo vitale”, fissato a un valore annuo di 2000 dollari. I prezzi agricoli precipitarono a circa la metà del loro livello del periodo bellico; per ripristinare prezzi di mercato remunerativi il governo “progressista” di allora finanziò la distruzione di interi campi di cotone, di vigneti, di aranceti. «La devastazione di dieci milioni di acri di cotone fruttò agli agricoltori compensi per oltre 100 milioni di dollari» [30]. Sotto la pressione della potente corporazione dei dirigenti agricoli, preoccupata di ricostituire i prezzi della carne macellata, il segretario all’agricoltura Henry Agard Wallace organizzò anche l’abbattimento di 6 milioni di porcellini e di duecentomila scrofe in procinto di partorire. Il grano già raccolto venne stipato nei silos in attesa di tempi (leggi: prezzi) migliori. La gente moriva letteralmente di fame non perché si era prodotto troppo poco, ma viceversa perché la macchina capitalistica aveva prodotto troppo in relazione alle leggi che ne regolano il funzionamento. Com’è noto, queste leggi hanno a che fare con l’imperativo categorico dell’investimento capitalistico: generare profitti! Nella nostra società non si produce, immediatamente ed esclusivamente, per soddisfare i bisogni umani, ma fondamentalmente per soddisfare i bisogni del Capitale, un Moloch sociale che di fatto fa dei bisogni umani un mero pretesto per ingoiare profitti: per dirla sempre marxianamente, il valore di scambio domina sul valore d’uso, il lavoro morto (macchine, materie prime, ecc.) domina su quello vivo. Nel capitalismo non si produce e consuma troppo o troppo poco in termini assoluti, o in rapporto ai bisogni umani, ma sempre e necessariamente in rapporto alle esigenze dell’accumulazione capitalistica.

«Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio» [31]. Un mostruoso paradosso che da solo basta a ridicolizzare lo spettro di Malthus, il quale non ha mai fatto paura a nessuno, salvo che ai malthusiani, i quali peraltro hanno gravemente travisato l’intenzione politico-filosofica dell’«innato plagiario» di Wotton.

A proposito dell’«epidemia sociale» evocata dallo spettro di Treviri, riflettendo su questi epidemici mesi mi viene in mente un altro passo del Manifesto: «La borghesia è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio» [32]. Marx ed Engels non hanno aspettato la distruzione umana ed ambientale che sperimentiamo oggi per dichiarare la radicale incompatibilità tra il dominio capitalistico  e l’uomo e la natura.

Concludendo! Si fa per dire. La demografia e il problema della produzione delle condizioni materiali di esistenza degli individui non vanno considerati in astratto, in relazione alla natura o a un contesto umano storicamente indeterminato e socialmente non caratterizzato; essi acquistano un reale significato concettuale e reale solo in intima relazione con una peculiare comunità umana, con una concreta dinamica sociale, con una specifica prassi sociale. In particolare, la cosiddetta «legge naturale della popolazione» non ha nulla di naturale e si spiega solo a partire dalla prassi sociale informata da peculiari rapporti sociali di produzione/distribuzione. Il primo recensore russo del Capitale così scriveva sul Viestnik Evropy del maggio 1872: «Marx nega che la legge della popolazione sia la stessa in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Afferma anzi che ogni grado di sviluppo ha una sua propria legge della popolazione». Marx dice di condividere in pieno questa considerazione e, più in generale, la «esatta e benevola» esposizione del suo metodo fatta «dall’egregio autore» [33].

Parlare in un contesto capitalistico di divario tra crescita aritmetica dei generi alimentari e crescita geometrica della popolazione non ha alcun senso: come abbiamo visto, già oggi i mezzi di produzione astrattamente considerati potrebbero sfamare, vestire, alloggiare e curare tutta la popolazione esistente su questo pianeta; è l’uso capitalistico dei mezzi di produzione e della tecnoscienza (che è anch’essa un formidabile mezzo di produzione) che crea abbondanza in un luogo e miseria in un altro luogo. Non solo, ma una comunità umana che fosse orientata esclusivamente alla soddisfazione dei molteplici bisogni umani col tempo troverebbe il giusto (umano) equilibrio demografico, oltre che ecologico – peraltro due lati della stessa medaglia.

Il problema della sovrappopolazione come la conosce l’epoca moderna (borghese) in Africa e in Asia nasce soprattutto a causa della rottura in quei continenti dei vecchi equilibri tra pressione demografica e capacità produttiva delle comunità locali, ossia quando le merci a basso costo prodotte nei Paesi capitalisticamente avanzati incominciarono a riversarsi in quelle comunità diventando accessibili anche ai più poveri. A questo punto si ruppe il legame tra demografia e produzione locale, e si ebbe una continua crescita della popolazione su una base economica rimasta inalterata o addirittura ridimensionata, proprio a causa del rapporto sociale capitalistico che dall’esterno e dall’interno indeboliva le vecchie strutture sociali. A quel punto il problema demografico in Africa e in Asia diventò un problema di sviluppo (o sottosviluppo) capitalistico, di divisione internazionale del lavoro, di sfruttamento capitalistico di alcuni Paesi da parte di altri paesi.

Chi afferma che Paesi come la Cina e l’India, per non parlare dell’intero Continente Africano, dovrebbero moderare il loro sviluppo demografico ed economico, perché le attività umane hanno già raggiunto e superato i limiti della sostenibilità ecologica del nostro Pianeta, non sa letteralmente di cosa parla, e quindi confeziona pseudo soluzioni che hanno successo solo nella convegnistica e nel dibattito politico, ormai dominato dall’ecologicamente corretto: economia green, green deal, economia circolare, sostenibilità ambientale, eccetera, eccetera, eccetera. «Ho avuto delle volte l’impressione che molti avevano voglia di incontrarmi solo per fare una foto. Però è vero, a volte le cose sembrano poco reali, sembra molto una messa in scena» [34]. Beata ingenuità!

Come ho cercato di mettere in luce in questo scritto, il problema non è la demografia della Cina, dell’India e del Continente Africano, né il loro “modello di sviluppo” astrattamente considerato: il problema è la società capitalistica mondiale, il problema è un modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale che per sopravvivere deve sfruttare e saccheggiare uomini e natura. Nel capitalismo tutto è relativo, eccetto che la legge del profitto.

 

[1] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 64, Einaudi, 1958.
[2] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, Marx-Engels Opere, III, p. 456, Editori Riuniti, 1972.
[3] Ivi, p. 476.
[4] J. M. Keynes, Essays in Biography, pp. 120-144, MacMillan and co., 1933.
[5] «In generale non bisogna dimenticare che tanto i Principles, quanto gli altri due scritti di Malthus [Definition in Political Economy del 1820 e The Measure of value stated del 1823], devono la loro origine all’invidia per il successo dell’opera ricardiana e al tentativo di riacquistare quel primato a cui Malthus era fraudolentemente assurto grazie alla sua abilità di plagiario, prima che apparisse l’opera di Ricardo. […] Il merito vero e proprio di questi tre scritti di Malthus è quello di aver posto l’accento principale sullo scambio ineguale fra capitale e lavoro salariato, mentre Ricardo non spiega come dallo scambio delle merci secondo la legge del valore – secondo il tempo di lavoro in esse contenuto – abbia origine lo scambio ineguale fra capitale e lavoro vivo. […] L’aver messo in evidenza questo punto, che in Ricardo non resta ben chiarito, […] è l’unico merito di Malthus negli scritti citati sopra. Ma questo merito è annullato dal fatto che egli confonde la valorizzazione del denaro o della merce come capitale, e quindi il loro valore nella specifica funzione di capitale, con il valore della merce in quanto tale; e perciò nello svolgimento ricade, come vedremo, nelle grossolane rappresentazioni del sistema monetario – del profitto che deriva dall’alienazione» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 14-16).
[6] Cit. tratta da H. Grossman, Il crollo del capitalismo, 1928, pp. 356-357, Jaca Book, 1971.
[7] «Dai dati analizzati dalle Nazioni Unite sappiamo da una stima che fino al 1700 il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato molto lento: la statistica aggiornata dice solo lo 0.04% annuale. Certo, i popoli passati avevano più fertilità, ma la mortalità infantile bilanciava questa tendenza: era la prima fase della transizione demografica. La popolazione attuale mondiale è soggetta ad altre dinamiche. Il tasso di crescita annuale della popolazione ha raggiunto il picco nel 1968. Da allora è rallentato, ed oggi si attesta sull’1% annuo. Il mondo sperimenta la fine di un grosso ciclo di espansione. Il grafico sul tasso di crescita della popolazione mondiale mostra anche come l’ONU valuta questo processo nel prossimo futuro. Con il continuo calo della crescita demografica la popolazione mondiale attuale cresce più lentamente, e la curva della popolazione sta diventando sempre meno ripida. Entro il 2100 il tasso di crescita sarà dello 0.1%, la popolazione starà per fermare del tutto una corsa incredibile, dopo essere decuplicata in appena 250 anni» (Futuro prossimo, agosto 2020).
[8] S. Sileoni, Istituto Bruno Leoni, 19 giugno 2015.
[9] G. Leonhard: Tecnologia vs Umanità. Lo scontro prossimo futuro, Egea, 2019.
[10] «Laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 33, Editori Riuniti, 1972). Né cacciatori, né pescatori, né pastori, né critici: semplicemente uomini. Uomini e donne, si capisce!
[11] Corsa alle terre africane, Società Missioni Africane, 2015.
[12] H. Grossman, Il crollo del capitalismo, p. 358.
[13] K. Marx, Il Capitale, I, pp. 354-346, Editori Riuniti, 1980.
[14] Ivi, p. 662.
[15] AA. VV., I limiti dello sviluppo, p. 21, EST Mondadori, 1972.
[16] F. Zuliani, I limiti dello sviluppo: un’analisi del rapporto al Club di Roma, Futurimagazine.
[17] G. Maggioni, Introduzione al Saggio sul principio di popolazione, p. XII, Einaudi, 1977.
[18] T. R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, pp. 14-15.
[19] T. R. Malthus, Esame sommario del principio di popolazione, in Saggio…, p. 195. Secondo Malthus «le «leggi fisiche» prevedono le carestie, le pestilenze, le guerre e altre sciagure naturali e sociali (le occupazioni malsane, i lavori faticosi, la scarsa alimentazione, lo scarso abbigliamento, l’infanticidio, ecc.) come «freni positivi [o preventivi] alla popolazione» (p. 225).
[20] «Quindi, siccome nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli individui della stessa specie sia tra quelli di specie differenti, oppure con le condizioni materiali di vita. e questa la dottrina di Malthus in un’energica e molteplice applicazione estesa all’intero regno animale e vegetale». Tuttavia Darwin aggiungeva subito dopo che nel regno animale, a differenza di quello umano, «non vi può essere né un incremento artificiale della quantità di alimenti, né un’astensione a scopo prudenziale dal matrimonio» (C. Darwin, L’origine della specie per selezione naturale, 1859, p. 236, Newton, 1994). Scriveva a questo proposito Marx a Engels: «Mi diverto con Darwin, al quale ho dato di nuovo un’occhiata, quando dice d’applicare la “teoria del Malthus” anche alle piante e agli animali, come se il succo del signor Malthus non consistesse proprio nel fatto che essa non viene applicata alle piante e agli animali, ma invece – con geometrica progressione – soltanto agli uomini, in contrasto con le piante e gli animali. È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, “le invenzioni” e la malthusiana “lotta per l’esistenza”. È il bellum omnium contra omnes di Hobbes, e fa ricordare Hegel nella Fenomenologia, dove raffigura la società borghese quale “regno animale dello spirito”, mentre in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese» (Lettera di Marx a Engels del 18 giugno 1862, in Marx-Engels, Opere, XLI, p. 279, Laterza, 1973).
[21] T. R. Malthus, Esame sommario del principio di popolazione, pp. 173-175.
[22] Ivi, p. 251.
[23] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, p. 476. Per il “giovane Engels” la teoria malthusiana ebbe quantomeno il merito di spazzare via tutte le illusioni progressiste e filantropiche sorte sul fondamento della società borghese, e di costringere il pensiero «a volgere l’attenzione alla forza produttiva della terra e dell’umanità e, dopo il superamento di questa disperazione economica siamo stati liberati una volta per tutte dal timore della sovrappopolazione. […] grazie a questa teoria abbiamo imparato a conoscere la massima degradazione dell’umanità e la sua dipendenza dal rapporto della concorrenza; essa ci ha mostrato come, in ultima istanza, la proprietà privata abbai fatto dell’uomo una merce, la cui produzione e il cui annientamento dipende anche ed esclusivamente dalla domanda, come il sistema della concorrenza abbia così sterminato e stermini ogni giorno milioni di uomini; tutto ciò abbiamo visto, e tutto ciò ci spinge alla soppressione di questa degradazione dell’umanità attraverso la soppressione della proprietà privata, della concorrenza e degli interessi contrapposti» (p. 477). In una sola parola: del capitalismo – tout court, sans phrase, senza alcun’altra inutile e fuorviante aggettivazione: neoliberista, selvaggio, turbo, speculativo, eccetera, eccetera, eccetera.
[24] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 78-79, Feltrinelli, 2018.
[25] K. Marx, Il Capitale, I, p. 675.
[26] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 56-61, Einaudi, 1958.
[27] Ivi, p. 54.
[28] K Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, p. 43, Savelli, 1975.
[29] Ivi, p. 49.
[30]  W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal.1932-1940, Laterza, 1976.
[31] K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, in Marx-Engels Opere, VI, pp. 491-492, Editori Riuniti, 1973. «Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti» (p. 492). Come si vede, già nel 1848 Marx ed Engels individuarono il meccanismo che sta alla base del moderno imperialismo e della cosiddetta globalizzazione: «Il bisogno di sbocchi sempre più estesi spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale»  (pp. 489-490). Si ha distruzione di capitale reale semplicemente arrestando per un periodo più o meno lungo la produzione: il valore d’uso e il valore di scambio di macchine, lavoratori, materie prime e quant’altro è indispensabile alla produzione di “beni e servizi” «se ne vanno al diavolo». In questi epidemici tempi la distruzione di capitale reale è all’ordine del giorno.
[32] Ivi, p. 497.
[33] K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del Capitale, 1873, Il capitale, I, p. 44.
[34] Greta Thunberg intervistata a Che tempo che fa, 18/10/2020.

Sul concetto di Antropocene leggi: LA CRISI ECOLOGICA NELL’EPOCA DEL CAPITALE.

IL VIRUS E LA NUDITÀ DEL DOMINIO

Non c’è niente da fare: se «l’uomo in quanto uomo» non esiste, tutto il male concepibile (e anche quello che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare) è possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

 

Una lettrice ha così commentato su Facebook il mio ultimo post dedicato al Coronavirus e al feticismo associato alla malattia che esso causa: «Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole. È anche con i virus, diventati parte di noi, che ci siamo trasformati nel corso dell’evoluzione». Non c’è dubbio.

Su quest’ultimo aspetto proprio un mese fa ho letto un libro scritto da due scienziati americani teorici del punto di vista evoluzionista nello studio delle malattie e nella profilassi medica: le malattie (cause e sintomi) come adattamento del corpo plasmato dalla selezione naturale, come adattamento evolutivo sempre esposto ai mutamenti ambientali – molto spesso causati dal puro caso. Un testo che consiglia di andarci piano con antibiotici e vaccini, senza ovviamente negarne la validità in termini assoluti: «È sbagliato non prendere l’aspirina solo perché sappiamo che la febbre può essere utile, ed è un errore non trattare sintomi spiacevoli di alcuni casi di nausea da gravidanza, allergia e ansia. […] Un approccio evolutivo suggerisce però che molti trattamenti potrebbero non essere necessari, e che dovremmo chiarire se i benefici siano superiore ai costi» (1). Il problema, continuano gli autori, è che «batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana». A questo punto potremmo esclamare abbastanza sconsolati, o semplicemente armati di “sano realismo”: È l’adattamento evolutivo, bellezza!

Ma l’uomo non solo non subisce passivamente la cieca pressione esercitata dall’ambiente esterno sul suo corpo e sulla sua comunità, ma col tempo ha imparato ad affinare strategie di sopravvivenza sempre più efficaci, finendo per trasformare la stessa natura in una sua gigantesca riserva di cibo, di strumenti e di creatività. La storia naturale è insomma intimamente intrecciata alla storia umana, e non a caso diverse nostre malattie (a cominciare dalla comune influenza) risalgono agli albori della nostra civilizzazione, quando abbiamo iniziato ad addomesticare piante e animali. Questo semplicemente per dire che ormai da migliaia di anni il nostro processo evolutivo si dà necessariamente all’interno di società (con “annessa” natura) storicamente caratterizzate, e non in un ambiente puramente naturale o comunque socialmente neutro: tutt’altro! Tanto è vero che molte malattie (morbillo, tubercolosi, vaiolo, pertosse, malaria) sono state debellate o grandemente ridimensionate nei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, mentre altre si sono diffuse in stretta connessione al nostro cosiddetto “stile di vita”. Si assiste poi proprio nei Paesi di più antica tradizione capitalistica al sempre più allarmante fenomeno della resistenza agli antibiotici, per cui batteri sensibili alla penicillina che negli anni Quaranta del secolo scorso sembravano aver imboccato la strada dell’estinzione (con la produzione industriale dei vaccini e la moderna profilassi), nel corso dei decenni hanno invece sviluppato enzimi in grado di degradare la penicillina: «Oggi, il 95 per cento dei ceppi di stafilococco mostra una certa resistenza alla penicillina» (Perché ci ammaliamo).

Per virus e batteri il nostro corpo è il loro ambiente esterno che li sfida, e non hanno altra “strategia di sopravvivenza” che non sia quella di mutare, di evolvere, di adattarsi a circostanze sempre mutevoli: è la «corsa agli armamenti» tra “creature aliene” e “ospite” cui accennavo prima. Per l’uomo l’adattamento a virus, batteri e quant’altro è sempre e necessariamente socialmente mediato. «Questa asserzione non significa negare che batteri e virus facciano ammalare il corpo biologico e siano conseguentemente causa di infezioni, ma che quando bisogna pensare al lamento, al disagio e al dolore nella clinica medica e nella psicoanalitica, è necessario considerare e valutare gli effetti del linguaggio e del discorso» (2), ossia, detto nei “miei” termini, della prassi sociale umana e delle «relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale» (3).

Mi si consenta a questo punto una brevissima digressione sotto forma di una metafora abbastanza rozza e banale. Una pistola spara un proiettile che colpisce a morte una persona: a chi o a cosa attribuire la responsabilità del triste evento? Al proiettile? alla pistola? alla mano che la impugna? Ovviamente al soggetto che ha sparato, che ha messo in moto la catena degli eventi. Qui i motivi dell’insano gesto non ci riguardano. Ecco, il Covid-19 ci è stato sparato contro da una società che distrugge foreste e ciò che rimane delle nicchie ecologiche, che fa un uso sempre più intensivo degli allevamenti, che investe nel settore sanitario secondo parametri di economicità e non di pura umanità (4), che di fatto mette al centro delle sue molteplici attività la ricerca del profitto e non la sicurezza delle persone, che fa dei lavoratori, dei disoccupati e in generale dei senza riserve, i soggetti di gran lunga più vulnerabili alle malattie e alle sciagure, e potrei continuare su questa strada lastricata di miseria sociale – “materiale” e “spirituale”.

La mia tesi è che il calcolo economico (legge del profitto e legge delle compatibilità tra “entrate” e “uscite”) che domina nella società capitalistica realizza una prassi sociale che nella sostanza è del tutto irrazionale, nonostante la scienza e la tecnica vi abbiano un ruolo a dir poco fondamentale. Oggi davvero l’umanità potrebbe avere nelle sue mani il proprio destino, eliminando le cause oggettive (che cioè prescindano da qualsivoglia intenzione e volontà umane) che generano sempre di nuovo irrazionalità (“disfunzionalità”) d’ogni genere, con ciò che ne segue in termini di crisi economiche, di disagio sociale, di precarietà esistenziale, di sofferenze fisiche e psicologiche, di crisi ecologiche, eccetera, eccetera, eccetera. Ciò che stiamo vivendo nell’ormai famigerata Epoca del Coronavirus (da d.C. a d.C.) la dice lunga sul carattere irrazionale (disumano e disumanizzante) della nostra società. Da anni si parlava della possibilità di una pandemia del tipo che stiamo sperimentando, ma il “sistema” ha ritenuto più opportuno non allocare risorse finanziarie nella prevenzione, sperando che quella possibilità non si trasformasse in una realtà, almeno a breve scadenza, e intanto continuare nella solita vita fatta di lavoro, di vendite, di acquisti, di viaggi, di affari, di investimenti, di speculazioni, eccetera. Lo spettacolo del Capitale deve continuare!

Mutuando Spinoza enuncio quanto segue: Dicesi schiavitù l’incapacità umana di dominare le cause e gli effetti della prassi sociale. Questa schiavitù non ha dunque a che fare direttamente con la sfera politico-istituzionale di un Paese, ma essa chiama in causa direttamente il suo fondamento sociale, la sua “struttura” economico-sociale. Di qui il concetto di totalitarismo sociale che secondo me è la chiave che apre alla comprensione dell’attuale crisi sociale.

La responsabilità “ultima” della pandemia ancora in corso è dunque della società capitalistica, la quale ha oggi una dimensione mondiale – e, com’è noto, scienziati particolarmente “visionari” e capitalisti dal “pensiero lungo” (almeno quanto il loro conto in banca) operano per allargarne i confini oltre l’angusto orizzonte del nostro pianeta: si vuol portare il virus capitalistico su altri mondi! Ma è possibile, e non solo auspicabile, un altro mondo? Personalmente non ho alcun dubbio su questa eccezionale possibilità, e il fatto che essa oggi sia negata dalla realtà nel modo più radicale e doloroso, e che certamente io non la vedrò mai realizzarsi, ebbene questo non cambia di un solo atomo il fondamento oggettivo (storico e sociale) di questa splendida alternativa al cattivissimo presente.

Io non chiedo di immaginare la società perfetta, la società che non conosce la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto, ecc.; si tratta piuttosto di concepire la possibilità di una comunità che sappia affrontare in termini umani (umanizzati) la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto e così via. Concepire l’inconcepibile, mettere radicalmente in discussione l’idea che per un qualche motivo l’umanità non possa affrancarsi dalla divisione classista della società e costruire una Comunità nel cui seno fratelli e sorelle collaborano alla felicità di tutti e di ciascuno. In fondo lo dice anche il Papa: Fratelli tutti! Il pensiero deve reagire al torpore della routine che lo intrappola nel cerchio stregato dell’ideologia dominante, e giungere a questa straordinaria conclusione: Si può davvero fare! Dobbiamo offrire al pensiero la possibilità di vedere finalmente nudo il Dominio, un po’ come il bambino della celebre favola di Anderson; e così capire che nella sua vigenza non c’è nulla di naturale o di sovrannaturale, di inevitabile o di assolutamente necessario, ma solo una questione di coscienza (o incoscienza: la nostra) e di rapporti di forza. Io cerco di dare il mio modestissimo contributo a questa vera e propria rivoluzione del pensiero, sperando ovviamente che essa non rimanga solo nel pensiero.

DAMMI TEMPO…
«Non riteniamo di introdurre una norma vincolante ma vogliamo dare il messaggio che se si ricevono persone non conviventi anche in casa bisogna usare la mascherina» (Premier G. Conte).
«Quando c’è una norma, questa va rispettata e gli italiani hanno dimostrato di non aver bisogno di un carabiniere o di un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo i controlli, ci saranno le segnalazioni» (Ministro R. Speranza).

L’esperienza della Pandemia sta portando altra velenosissima acqua alla tesi secondo cui oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. La rivoluzione sociale appare anche ai miei anticapitalistici occhi abissalmente lontana; ma penso anche che se per un qualche motivo essa diventasse improvvisamente possibile nella testa di molte persone, altrettanto repentinamente quello straordinario evento diventerebbe talmente vicino nella realtà, da poterne quasi avvertire l’odore, per così dire. Come ho scritto altrove, non ho la pretesa di pensare che con me debba finire la storia, e che altri dopo di me non possano conoscere la rivoluzione sociale e la Comunità umana; bisogna essere davvero arroganti, presuntuosi e soprattutto deboli di immaginazione, per cristallizzare in eterno (fortunatamente solo nel pensiero!) il pessimo presente. Intanto, così come respiro, mangio, dormo, eccetera, rinnovo sempre di nuovo la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana: più che di scelta, dovrei piuttosto parlare di fisiologia!

Fin dall’inizio della crisi sociale chiamata Pandemia ho cercato di mettere in luce il carattere oggettivo del processo sociale in corso su scala mondiale, il quale ha peraltro approfondito e accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Come sempre, la realtà non crea mai nulla a partire dal nulla, ma impasta, per così dire, materiale sociale già esistente aggiungendone dell’altro solo in parte o interamente nuovo; il problema è piuttosto quello di capire fino a che punto abbiamo il controllo della situazione e la natura (la “qualità”) della realtà che contribuiamo a creare giorno dopo giorno.

Il carattere autoritario, per non dire altro, delle misure politiche prese in questi asfissianti e alienanti mesi pandemici dal governo italiano a mio avviso si connette in primo luogo a processi che per l’essenziale sfuggono anche al controllo degli stessi decisori politici, i quali sono stati chiamati a un rapido adattamento alla situazione che si è venuta a creare di volta in volta su scala nazionale e globale. Sappiamo poi come i politici nostrani eccellano nell’arte dell’adattamento, e come essi sanno approfittare delle situazioni emergenziali per intascare lauti dividenti elettorali e cementare il loro consenso e il loro potere – due facce della stessa medaglia democratica. Tuttavia, il “complotto” ai nostri danni non è da ricercarsi nella volontà di Tizio piuttosto che di Caio, senza parlare dei soliti “poteri forti” (meglio se infiltrati da qualche “lobby ebraica”): è questa società che complotta tutti i giorni contro gli individui, contro le classi subalterne, contro la possibilità di relazioni autenticamente umane. Per questo non si tratta, per chi scrive, di cambiare governi e governanti, ma di mettere la parola fine a questa società e iniziare la storia della Comunità umana, la storia dell’«uomo in quanto uomo». Vasto Programma, non c’è dubbio, e per questo qui conviene mettere un bel punto.Ogni Paese ha cercato di gestire la “crisi sanitaria” ricercando un difficile bilanciamento tra protezione della salute del corpo sociale, per assicurare la continuità del sistema ed evitare una più grave catastrofe sociale (con relative tensioni generatrici di conflitti potenzialmente disastrosi per il vigente ordine sociale), e protezione della struttura economica, per evitare un collasso economico dagli esiti imprevedibili ma certamente destabilizzanti. Il tutto naturalmente sulla base delle strutture sociali e delle configurazioni politico-istituzionali dei diversi Paesi, nonché delle loro diverse esperienze in materia di epidemie: negli ultimi venti anni la Cina e altri Paesi asiatici si sono confrontati molto spesso con le epidemie virali. È ovvio che nei Paesi a regime politico-istituzionale totalitario il lockdown viene meglio, per così dire, è di più facile, rapida e sicura implementazione, soprattutto se sono in grado di servirsi di un’avanzata tecnologia idonea al controllo e alla repressione dei comportamenti sociali. Non per niente la Cina si è subito proposta all’attenzione dell’Europa come il modello da seguire, sebbene con adattamenti e innesti “democratici”. Il lockdown con caratteristiche europee, insomma. Quello italiano è stato particolarmente duro, tale da evocare lo spettro del “fascismo sanitario”. Certo è che sentir parlare di «dittatura sanitaria» da parte di personaggi che sostengono i regimi di Cina, Cuba, Venezuela e non so di quanti altri Paesi rigorosamente antiamericani, fa davvero sorridere, diciamo così. Sto per caso alludendo anche al noto filosofo-comico Diego Fusaro? Fate un po’ voi! (5)

Per usare un’analogia medica, visto che parliamo di virus e di “crisi sanitaria”, nel caso italiano è come se una parte assai consistente dell’economia fosse stata messa in una condizione di coma artificiale o farmacologico, in attesa che i parametri sociali, stressati dallo shock, iniziassero a rientrare nella normalità. In questa delicata operazione l’interventismo statale ha avuto una parte decisiva, e gli effetti del «ritorno in grande stile dello Stato» nella sfera economica, osteggiato dalla minoranza liberista ancora presente nel Paese e applaudito dalla sua maggioranza statalista, saranno evidente solo tra qualche tempo. Com’è noto, spesso dal coma indotto artificialmente, si passa al coma vero e proprio, e non raramente segue il decesso del paziente: l’intervento è riuscito, ma il paziente è moto – di fame o di qualche altro accidente, ma vivaddio senza un solo Coronavirus in corpo! Quel che è certo è che molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, non apriranno più, e già a giugno si parlava di “autunno caldo”, di disoccupazione dilagante, di gente pronta a pescare nel torbido. Il Ministro degli Interni da mesi non smette di lanciare segnali di allarme: «Andiamo incontro a una delicata situazione sociale. Dobbiamo prepararci». Preparaci a cosa? Come si dice, lo scopriremo solo vivendo – se il Coronavirus vuole!

Ho raccolto in questo PDF buona parte dei post dedicati alla “crisi epidemica” che ho pubblicato su questo Blog dall’inizio di questa crisi, la quale peraltro è lungi dall’essersi esaurita; il primo è del 5 gennaio, quando sembrava che il raggio d’azione del Coronavirus fosse circoscritto alla sola Cina, o ai soli Paesi asiatici, come avvenne per la Sars nel 2003/2004, e l’ultimo è del 6 ottobre, quando la temuta “seconda ondata” si è alla fine palesata anche in Italia, e con una forza che ha sorpreso molti degli stessi “esperti”. La “seconda ondata” si abbatte su un corpo sociale già provato fisicamente e psicologicamente, e per questo i soliti “esperti” ritengono che essa potrebbe essere ancora più devastante della “prima ondata”, con ciò che ne segue sul piano delle politiche “preventive” suggerite al governo. Se dipendesse dagli “esperti”, in Italia saremmo già al lockdown generalizzato. Vedremo cosa accadrà tra qualche settimana, o forse tra qualche giorno.

La scienza si pavoneggia per i suoi successi ottenuti nella ricerca del vaccino, ma a parte ogni altra considerazione (anche d’ordine geopolitico), non fa che riparare i guasti prodotti dalla società di cui essa è un potentissimo strumento di dominio e di sfruttamento – di “risorse” umane e naturali.

L’intreccio “problematico” che questi post offrono ai lettori è molto ricco, perché essi chiamano in causa, sebbene in forma estremamente semplice – spero non del tutto semplicistica – e sintetica molteplici questioni di natura politica, etica, geopolitica, economica, psicologica: sociale in senso generale. Purtroppo non ho potuto eliminare la ripetizione di temi, di concetti e di parole, e di questo mi scuso con i lettori.

«Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole»; anche noi dovremmo conquistare questa irriducibile volontà nei confronti del pessimo presente – con il futuro che certo non ci sorride, tutt’altro!

Qui il PDF

(1) R. M. Nesse, G. C., Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999. «Il corpo umano è al contempo fragile e robusto. Come tutti i prodotti dell’evoluzione organica, è un insieme di compromessi, e ognuno di questi offre un vantaggio, anche se spesso il prezzo è la predisposizione a una malattia. Le debolezze non possono essere eliminate dall’evoluzione perché è stata la stessa selezione naturale a crearle. […] In medicina niente ha senso se non alla luce dell’evoluzione» (pp. 287- 301). E la società, qui genericamente intesa, in tutto questo che ruolo ha? Ed è corretto, nel trattamento dei cosiddetti “disordini mentali” associati alle emozioni, mettere da parte Sigmund Freud (qui inteso come “padre della psicoanalisi”) e chiamare senz’altro in causa gli «algoritmi darwiniani della mente»?
(2) A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 52, Paginaotto, 2020.
(3) K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 21-22, Editori Riuniti, 1983.
(4) Secondo stime attendibili, dal 2009 al 2018 in Italia c’è stata una riduzione della spesa sanitaria di circa 26 miliardi, una diminuzione del 12%. Se consideriamo, oltre la spesa corrente, anche il calo degli investimenti pubblici nel settore sanitario, la riduzione si aggira intorno al 13%.
(5) «La Ue manda il Mes, gli USA mandano soldati, la Cina manda medici e mascherine. Solo uno dei tre è nostro amico. Gli altri due sono nemici da combattere. L’avete capito? Il potere vi fa apparire amici i nemici e nemici gli amici. E, così, nostri amici sarebbero UE e USA, che in questa crisi ci stanno ignorando, quando non apertamente ostacolando. E nostri nemici sarebbero Cina, Russia, Cuba e Venezuela, che ci stanno mandando aiuti e medici. L’alternativa continua ad essere tra socialismo e barbarie o, se preferite, tra socialismo e capitalismo» (D. Fusaro). Indovinate secondo chi scrive da quale parte dell’alternativa si colloca il simpatico intellettuale SocialSovranista? Solo in un mondo ottusamente nichilista nei confronti della verità, un personaggio ridicolo come Fusaro può cavalcare le escrementizie onde delle ospitate televisive in qualità di filosofo hegelo-marxista. Anche questo, nel suo infinitamente e comicamente piccolo, esprime la tragedia dei nostri tempi.

SALDI DI FINE SETTIMANA. Post pubblicati su Facebook

1. CARA ILARIA TI SBAGLI: SI TRATTA PROPRIO DI VIOLENZA DI STATO. QUESTO È LO STATO (DI DIRITTO)!

Il diritto alla violenza è un’odiosa prerogativa delle classi dominanti.

«Non ho mai smesso di chiedermi il perché di tanta violenza. Non riesco a cancellare dalla mia mente l’immagine del corpo di mio fratello Stefano, martoriato dai colpi e poi abbandonato dagli innumerevoli pubblici ufficiali che lo hanno visto durante il suo calvario, sei giorni dopo il violentissimo pestaggio. Una sospensione del diritto. Come accaduto nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere. Video e testimonianze raccolte dai magistrati ricostruiscono una violenza spietata, scientificamente coordinata. Durante il lockdown pensato alle carceri. Alle celle sovraffollate dove vige la sospensione dei diritti umani. Mi sono chiesta cosa potessero pensare quelle persone, perché di persone si tratta, quando ascoltavano le raccomandazioni pressanti su distanziamento sociale, cautela e mascherine. Mi sono chiesta se qualcuno avesse a cuore la sorte di quei detenuti. La loro paura e la profonda frustrazione che dovevano provare nell’ascoltare quei drammatici appelli a cui loro, per destino e pena, dovevano rimanere estranei. A Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile è accaduto qualcosa di spaventoso. Sono arrivati in trecento, da altri istituti, in tenuta anti sommossa, coperti dai caschi, anonimi. Hanno picchiato, picchiato e ancora picchiato. Calci, schiaffi, insulti e altre violenze. Non hanno risparmiato nemmeno un detenuto sulla sedia a rotelle. “Avete fatto la protesta?” dicevano. La mente corre alla “macelleria messicana” di Genova della scuola Diaz, nel luglio del 2001 durante le proteste per il G8. Erano in trecento, a Santa Maria Capua Vetere. A tutto ciò hanno assistito, in silenzio, forse impotenti, i loro colleghi di servizio in quel carcere. Mi rifiuto di pensare che si tratti soltanto di mele marce. Chi avrà la tentazione di parlare di questo mancherà di rispetto all’intelligenza di tutti noi cittadini. Sarebbe un’intollerabile ipocrisia cui preferirei le violente e strampalate difese di politici privi di scrupoli e umanità. Ma non voglio nemmeno sentire parlare di violenza di Stato. Vi prego non fatelo perché questo non è lo Stato. Non lo può essere. Questo è anti stato. Questo è crimine efferato commesso verso persone indifese. Qualcuno si affretterà a dire che, in fin dei conti, si tratta di delinquenti: lo considero inaccettabile perché, nella migliore delle ipotesi, sono uomini e donne che hanno sbagliato, che magari hanno anche commesso gravi errori. Il carcere, però, non può e non deve essere questo. Il carcere in uno stato di diritto ha una funzione sociale: il reinserimento, non l’annientamento» (Ilaria Cucchi).

Certo, il reinserimento in una società che produce violenza di ogni genere e in quantità industriale, e che annienta ogni possibilità di vita autenticamente umana. Cara Ilaria, sbagliata (disumana) è in primo luogo questa società, la società che mercifica tutto e tutti, e che fa del denaro la misura di tutte le cose. Su questo escrementizio fondamento sociale è possibile tutto il male che riusciamo a immaginare, e altro ancora che non riusciamo nemmeno a concepire col pensiero – salvo poi indignarci e farci delle illusioni sullo Stato (capitalistico) di diritto. Solidarietà ai fratelli detenuti.

2. SI SCRIVE “UOMO”, SI LEGGE CAPITALE. «Abusi, incuria e colate di cemento: la colpa è dell’uomo, non della natura» (M. Tozzi, La Stampa). Si scrive “uomo”, si legge Capitale. Mutatis mutandis, la stessa cosa vale a proposito della parola “Coronavirus” e ai disastri sociali a essa associati.

3. SCHIAVI DI STATO NELLA CINA CAPITALISTA Scrive Lorenza Formicola: «Lo stato-partito cinese ha di fatto istituzionalizzato la schiavitù, l’ha portata su scala industriale e ha offerto schiavi a compagnie straniere. Schiavi a bassissimo costo, raccolti, senza fatica né rumore, tra le minoranze religiose. L’Australian Strategic Policy Institute, in un rapporto intitolato Uiguri in vendita, ha accusato Pechino di aver costretto oltre 80.000 uiguri e altre minoranze musulmane a lavorare da schiavi per 82 noti marchi globali tra cui Apple, BMW, Gap, Huawei, Nike, Samsung, Sony e Volkswagen. La cifra stimata è prudente, quella effettiva è probabilmente molto più elevata. Nelle fabbriche, lontano da casa, vivono gli schiavi moderni: dormitori e segregazione, una formazione ideologica, cinese e comunista [leggi: capitalista con caratteristiche cinesi] organizzata al di fuori dell’orario di lavoro, sottomissione a sorveglianza costante, impossibilità a partecipare alle cerimonie religiose. Siamo nella regione autonoma che oggi i cinesi chiamano Xinjiang – “nuovo possedimento” – dove giocano esattamente il ruolo della potenza coloniale. Dal 2017, oltre un milione di persone è stato privato della libertà personale e rinchiuso in “campi di rieducazione” a causa della fede, in quello che alcuni esperti definiscono un programma sistematico di genocidio culturale guidato dal governo. “Lavare i cervelli, pulire i cuori, sostenere il diritto, rimuovere ciò che è sbagliato”, è il motto dei campi di lavoro forzato. Proprio come l’ideologia comunista [leggi: stalinista con caratteristiche cinesi] vuole e come le terribili campagne di rieducazione del pensiero di massa di Mao Tse-tung hanno fatto scuola. Detenuti con la forza e in condizioni disumane, questi nuovi schiavi hanno la quotidianità divisa in due: il giorno è per il lavoro, la notte per l’educazione patriottica. Dopo la scoperta delle 13 tonnellate di capelli umani , prelevati da internati in uno dei campi di concentramento cinesi, di alcune settimane fa – un carico illegale del valore stimato di 800.000 dollari fermato a New York – ecco che il rapporto ASPI pubblica l’ennesima prova dei campi su cui regime di Pechino continua a mentire. Il rapporto denuncia una nuova fase nella campagna di reingegnerizzazione sociale della Cina rivolta alle minoranze religiose, rivelando nuove prove circa quelle fabbriche che utilizzano il lavoro forzato uiguro nell’ambito di un programma di trasferimento del lavoro sponsorizzato dallo Stato che sta contaminando la catena dell’economia globale» (Il Giornale).

Il virus che “contamina” «la catena dell’economia globale» si chiama Capitale, la cui dimensione più naturale è quella planetaria. La schiavitù di Stato della Cina si armonizza perfettamente con la «schiavitù del lavoro salariato» (K. Marx). Tutto sotto il Cielo – del Capitale.

4. ROSSANDA E L’ALBUM DI FAMIGLIA – STALIN PADRE

Scriveva Rossana Rossanda sul Manifesto del 28 marzo 1978: «Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria». Anch’io, allora giovanissimo militante del “Movimento Studentesco”, sarei potuto finire in quell’escrementizio album di famiglia; mi vengono i brividi solo a pensarlo! Qualche giorno dopo, sulle pagine dell’Unità comparve un pietoso articolo del parlamentare “comunista” Emanuele Macaluso, che replicava: «Io non so quale album conservi Rossana Rossanda: è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti». Non c’è niente da fare: lo stalinista con caratteristiche italiane perdeva il pelo, ma non il vizio della menzogna.

BAJKAL. LA PERLA DELLA SIBERIA MINACCIATA DAL CAPITALE

Che mistero pervade una sorgente!
Tanto remota è la vita dell’acqua,
simile a una compagna ultraterrena
racchiusa in una brocca di cui

nessuno ha mai veduto il fondo,
solo il coperchio di vetro – come

se si guardasse a volontà nel volto
di un abisso! 

 

Confesso che fino all’altro ieri non avevo mai sentito parlare del lago Bajkal, e la cosa mi appare tanto più imbarazzante alla luce del correttore automatico che controlla il file che sto digitando: il suo algoritmo conosce quel nome! Io invece quell’esotico nome l’ho scoperto appunto da pochissimo, del tutto casualmente, leggendo un interessante libro scritto nel 1966 dall’americano Harrison E. Salisbury (1908-1993), allora «il più autorevole degli inviati e corrispondenti del New York Times». Provo a ridimensionare la grave pecca balbettando, con una lieve modifica, il celebre motto socratico: quantomeno so di non sapere!

Il libro si intitola L’orbita della Cina, e fu pubblicato da Bompiani nel 1967. Era il periodo in cui nel mondo non si parlavo d’altro che dell’escalation nella guerra d’aggressione americana contro il Vietnam e della crisi di potere che in Cina travagliava il Partito-Stato cosiddetto comunista, diviso tra maoisti e “revisionisti”, e che proprio allora stava uscendo dalle profondità delle “dialettica” interna per dilagare come un fiume in piena sotto la grottesca e violenta forma della “Rivoluzione Culturale Proletaria”. Nel ’66 Salisbury compie un lunghissimo periplo che da Hong Kong lo porta in Siberia, dopo aver visitato la Cambogia, la Tailandia, il Laos, la Birmania, la Mongolia esterna, il Sikkim, l’India, il Giappone. Ne venne fuori il punto di vista dell’americano liberal “obiettivo” e “amante della pace” su quanto avveniva nella vivacissima Asia degli anni Sessanta, polarizzata intorno agli interessi delle Potenze che si confrontavano (non solo diplomaticamente ed economicamente) in quel quadrante: Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e India. Quel punto di vista, che rivelava al mondo la pessima coscienza dell’imperialismo americano, probabilmente impedì a Salisbury di portare a casa l’ambitissimo premio Pulitzer per l’anno 1967, dopo che nei suoi confronti il governo degli Stati Uniti (Presidenza Johnson) e la destra repubblicana imbastirono una rozza polemica intesa a far passare il giornalista del New York Times come una vittima della propaganda pacifista orchestrata da Ho Chi Minh (1). Il Presidente americano nel ’66 aveva negato il bombardamento della popolazione civile nordvietnamita da parte dell’aviazione militare statunitense: «I nostri aerei colpiscono solo l’acciaio e il cemento armato». Salisbury si limitò a descrivere quello che aveva visto con i suoi occhi durante due settimane di permanenza in Nord Vietnam: le bombe Made in USA non colpivano solo obiettivi militari, ma anche «obiettivi di nessun rilievo bellico: alcune aree residenziali di Hanoi, quartieri di negozi e di piccole botteghe, scuole. Se le bombe non sono state lanciate di proposito, l’effetto è identico a quello di un attacco intenzionale». Il vecchio Eisenhower se ne uscì con una battuta degna della sua grandissima esperienza e del suo realismo imperialista, il quale ieri come oggi, e a differenza del cosiddetto idealismo politico avvezzo a piangere solo sugli effetti, non si sforza nemmeno di addolcire l’amara pillola: «La guerra è guerra, e civili ce ne sono dappertutto». Come dargli torto! Come sempre, per evitare antipatici fraintendimenti occorre ricordare (soprattutto ai buoni di spirito) che in primo luogo cinica è la realtà (capitalistica); a mio avviso solo alla luce di questa solare verità ha un senso criticare il cinismo di chi a quella realtà dà una voce e un corpo. Ma qui si divaga! Veniamo dunque alla mia tardiva scoperta – meglio tardi…

Salisbury lasciò la capitale della Mongolia esterna Ulan Bator nell’estate del 1966, per raggiungere Irkutsk, nella Siberia meridionale, porta d’accesso al lago Bajkal, e dove fino a qualche anno prima «c’erano agevolazioni speciali per i funzionari e i turisti cinesi», mentre adesso di cinesi se ne vedevano pochissimi, segno che «la tensione tra Mosca e Pechino si sentiva anche lì». Ma, continuava il nostro corrispondente, «a Irkutsk erano assai più preoccupati per un problema che li riguardava più da vicino: l’inquinamento del lago Bajkal. Questo lago ha circa venti milioni di anni. Era un tempo una zona vulcanica ed è ancora oggi soggetta a terremoti. È sostanzialmente un’enorme catena di montagne delle quali emergono solo le punte, che nelle loro valli racchiudono quantità impressionanti di acqua dolce. È lungo circa 650 chilometri e largo un massimo di cento. La profondità massima è di 1741 metri. L’ecologia del Bajkal è particolarissima. È il più grande ammasso d’acqua dolce che esista al mondo, ed è un’acqua di purezza incredibile, ciò che esiste in natura di più simile all’acqua distillata». Salisbury ci parla insomma di un’assoluta meraviglia della natura. Ma ecco la magagna che la minaccia: «Tutto questo è ora minacciato dall’avidità del trust sovietico della carta. Sulla sponda meridionale del lago, nelle vicinanze di una zona fittamente alberata, il trust sovietico della carta sta costruendo una delle più grandi fabbriche di polpa di legno del mondo. Si prevede di completarla nel 1966 o all’inizio del 1967, e scaricherà nel Bajkal miliardi di litri di rifiuti solforosi. “Adesso capisce perché la fabbrica di polpa di legno ci preoccupa tanto”, mi disse un giovane scienziato dell’Istituto limnologico. “Al trust della carta interessa produrre e ricavare profitti. Nessuno finora sembra voler impedire questo delitto”». Maledetto capitalismo! Capite che la mia coscienza ecologica radicalmente anticapitalista si è subito alquanto irritata e allarmata, tanto più che mi è balenato alla mente il tragico destino toccato in sorte al lago d’Aral, il grande lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, Paesi che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica, e che oggi è ridotto praticamente a uno sputo (2).

«Che fine avrà fatto il lago Bajkal?», mi sono chiesto sinceramente preoccupato. Purtroppo la mia preoccupazione era fondata: «Il lago più profondo della Terra è in crisi. La più grave crisi che abbia mai sopportato. Le cause sono, secondo un’inchiesta dell’Agence France Press, l’eccessiva antropizzazione delle sue coste, il turismo e le attività economiche che si sono create negli anni, aumentando l’inquinamento» (Rinnovabili.it). Si scrive antropizzazione ma si legge capitalismo, oggi come negli anni Sessanta, quando il trust sovietico della carta pensò bene di costruire una cartiera sulla sponda meridionale del Bajkal: è l’odiosa legge del profitto, Greta Thunberg, e tu non puoi farci niente! A proposito: quella cartiera ha chiuso i battenti nel 2013. Si è forse trattato di una tardiva eppur apprezzabile presa di coscienza ecologista da parte di capitalisti e governanti? No: si è trattato di una bancarotta.

Il lago contiene ancora circa il 20% delle riserve d’acqua dolce del pianeta, e può ancora vantare una bellezza che toglie il fiato, un fascino che giustifica ancora il suo vecchio nome (Dalai-Nor, Mare Sacro) e una biodiversità forse senza pari (il suo ecosistema ospita più di 3.600 specie vegetali e animali, e ogni anno si scoprono nuove specie endemiche); il lago Bajkal è insomma ancora la «perla della Siberia». Ma la morte delle sue rinomate spugne, rimpiazzate dalle alghe (si tratta della spirogira, un’alga considerata indicatore di contaminazione fecale), e la drastica riduzione della popolazione di omul, un salmone presente solo nel Bajkal (e la cui pesca ora è vietata, visto che la biomassa totale dell’omul si è più che dimezzata rispetto a 15 anni fa), sono solo il sintomo più evidente di una crisi ecologica che con il tempo non può che aggravarsi, e già oggi lo stesso governo russo parla di una possibile catastrofe ecologica in tempi brevi. «Le acque del Bajkal appartengono all’intero pianeta», disse qualche anno fa il virile Vladimir Putin lasciandosi «immortalare a torso nudo mentre catturava un pesce di mezzo metro» (Corriere della Sera). Il problema, caro Vladimir, è che il pianeta è saldamente nelle mani del Moloch capitalistico, il quale vede nelle acque del Bajkal, e in tutto quello che vi vive e vi prospera da millenni, non più che fresco cibo da ingurgitare per placare la sua insaziabile fame di profitti: «Nulla di personale, amici, è nella mia natura mercificare tutto e tutti». Il mostro ci invita a considerarlo come una creatura che ha a che fare con la mera oggettività delle cose, non con la cattiva volontà soggettiva, e personalmente concordo con questo approccio.

«Certo è», scrive Marina Forti, «che il turismo sta già trasformando il paesaggio umano. Kuzhir, al centro di Olhon, dove approdano i traghetti dalla terraferma (d’estate) e l’autostrada di ghiaccio (d’inverno), era fino a una decina d’anni fa uno sperduto villaggio di poche case di legno, con l’unico ufficio postale dell’isola, la scuola elementare e un paio di negozi. Strade sterrate, gelido d’inverno e polveroso d’estate. Ora il villaggio sembra in preda a una frenesia di capitalismo selvaggio» (Internazionale). No, non si tratta di «capitalismo selvaggio»; piuttosto mi sembra più corretto dire che è il capitalismo in quanto tale ad essere selvaggio. Ma questa è come sempre una mia personalissima opinione. Certo è che chi parla di «capitalismo selvaggio» il più delle volte perora l’escrementizia causa di un “capitalismo dal volto umano”, magari chiamando la stessa Cosa con un altro nome.

«Mikhail Shapov, governatore di Irkutsk, a 70 chilometri dal lago, ha chiarito che si pensa di limitare l’accesso in alcune zone più critiche, ma in altre aree sarà aumentata l’offerta turistica. “Non c’è un ordine di importanza delle minacce al lago”, spiega Mikhail Kreindlin, di Greenpeace Russia. “È un insieme di turismo incontrollato, hotel senza impianti di depurazione, inquinamento dalle città vicine, industrie senza impianti di trattamento delle acque di scarico, navigazione senza regole, disboscamento e incendi delle foreste» (Il Corriere della Sera). Il problema ha una natura “sistemica”, come piace dire agli analisti di problemi strategici.

Inutile dire che il capitale cinese è molto attivo anche dalle parti del lago Bajkal, al punto che la popolazione locale parla apertamente di «occupazione straniera», e negli ultimi anni diverse sono state le manifestazioni di protesta contro l’apertura di Hotel e di aziende controllate dagli investitori cinesi. Scrive Anna Lotti: «La presenza cinese nella regione è esplosa dopo il crollo del rublo nel 2014 e il governo russo ha allentato le restrizioni sui visti turistici. Con la crescita del turismo e degli affari, è cresciuta anche la diffidenza locale verso i cinesi considerati come delle cavallette aliene, la cui presenza depaupera solo il territorio. Negli ultimi dieci anni gli investimenti cinesi in Russia sono aumentati di quasi nove volte, raggiungendo i 13,8 miliardi di dollari. Due terzi di tale importo sono stati destinati alle risorse naturali russe, coinvolgendo i settori minerario, forestale, della pesca e agricolo. Sul terreno, però, invece di favorire relazioni amichevoli, gli investimenti cinesi hanno alimentato risentimento e tensioni, soprattutto in Siberia e nell’Estremo oriente russo. L’attività di disboscamento in espansione ha suscitato nell’opinione pubblica il timore che i cinesi stiano distruggendo le antiche foreste della Russia, il più grande fornitore cinese di legname. Centinaia di migliaia di ettari di terreni incolti che sono stati affittati a società cinesi per l’agricoltura, hanno dato luogo a campagne mediatiche “contro l’annessione di Pechino”. Gli investitori cinesi inoltre stanno comprando gli hotel sulle rive del lago Baikal. Un progetto finanziato dalla Cina per imbottigliare l’acqua del lago Baikal in Russia ha causato un contraccolpo in Siberia, dove stanno montando le proteste per quello che è considerato come un esproprio fatto dai cinesi. Gli ecologisti e le autorità locali avevano già parlato in precedenza dell’imbottigliamento dell’acqua del lago più grande del mondo come un modo “verde” per sfruttare le risorse naturali della Siberia» (www.agcnews).

L’ho già detto: per il Capitale tutta quell’acqua, tutta quella biodiversità e tutta quella abbacinante bellezza rappresentano un imperdonabile spreco se non vengono trasformate in fonti di profitti e di successo economico. Senza parlare, nel caso specifico, degli interessi di natura geopolitica che da sempre dividono la Russia dalla Cina, la quale già negli anni Sessanta del secolo scorso si era liberata dal senso di inferiorità che nutriva nei confronti dell’imperialismo russo e rivendicava ciò che riteneva le appartenesse di diritto. Scriveva Salisbury: «Lungo l’Amur mi accorsi che i cinesi venivano presi sul serio. Nessuno pensava che la Cina intendesse soltanto fare un po’ di chiasso quando diceva che dei nove iniqui trattati che l’avevano costretta a rinunciare a parte del suo territorio tre le erano stati imposti dalla Russia. Nessuno riteneva che la Cina stesse scherzando quando attaccava la posizione sovietica in Mongolia, o quando dichiarava che metà dell’Asia centrale sovietica era sua di diritto». Allora la Cina di Mao mostrava agli ex “amici fraterni” dell’Unione Sovietica i suoi denti e i suoi muscoli (militari, politici e propagandistici), non potendo contare su un’adeguata forza dell’economia; oggi l’imperialismo cinese è capitalisticamente così forte, da permettersi il lusso di mostrarsi ai russi e al mondo intero con un bonario sorriso stampato sulla faccia (vedi il “simpatico” Xi Jinping): «La nostra economia non vuole dominare nessuna nazione. È dal libero commercio che germoglia la pace e l’armonia tra i popoli». Come no!

«La presenza umana lungo il lago di Bajkal si intensifica», scrive preoccupata la già citata Marina Forti; ma qui il problema non è affatto la presenza umana! Piuttosto si dovrebbe parlare di presenza disumana. Il problema è infatti la presenza del Capitale che «si intensifica» ovunque, con gli effetti devastanti sugli uomini e sulla natura che tutti possono vedere. Capire è tutto un altro discorso.

«”Levushka, te lo chiediamo a nome della Russia: vieni a salvare il lago Bajkal”. L’appello non esce dalle pagine di Dostoevskij e Levushka, che in russo sta per Leonardino, non è uno dei fratelli Karamazov ma Leonardo DiCaprio, che compare in un accorato post su Instagram vestito da zar. L’attore americano, che aveva raccontato di avere due bisnonni di origine russa, nei giorni scorsi ha visto il suo profilo social inondato di messaggi in cirillico. Il premio Oscar è da anni un attivista ambientale. A coloro che hanno a cuore la sorte del lago Bajkal è parso il testimonial adatto per sensibilizzare sulla sorte della maggiore riserva di acqua dolce del mondo (ghiacciai esclusi)» (Corriere della Sera). Dinanzi a Leonardo DiCaprio il mio anticapitalismo parolaio non può che arrossire e nascondersi da qualche parte. Dalle parti del Bajkal però no, patisco il freddo! Ma sì, Levushka, salva il Bajkal! Per una volta nella mia vita voglio dar credito al sano (?) realismo: che tempi!

(1) «Ho Chi Minh era l’uomo delle contraddizioni e delle sorprese, talvolta programmatiche. Si è discusso a non finire se fosse prima di tutto un nazionalista o un comunista, ma la risposta è ovvia: era l’uno e l’altro. Fu nazionalista prima che comunista, ma divenne comunista perché i comunisti gli sembravano più impegnati a lottare per la libertà e l’indipendenza dell’Indocina» (H. E. Salisbury). L’ovvietà di Salisbury non mi convince per niente: a mio avviso Ho Chi Minh non fu mai un comunista, ma piuttosto un rivoluzionario nazionalista borghese (secondo una definizione storico-sociale, non sociologica) sostenuto da chi allora si proclamava ed era considerato quasi unanimemente “comunista”. Mutatis mutandis, la stessa cosa si può dire di Mao Tse-tung e della sua rivoluzione.
(2) «Nei primi anni sessanta il governo dell’Unione Sovietica decise di prelevare, tramite l’uso di canali, l’acqua dei due fiumi che sfociavano nel lago nel tentativo di irrigare il deserto per coltivare riso, meloni, cereali, ed irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti. Ciò faceva parte del piano di coltura intensiva per il cotone voluto dal regime sovietico, che aveva il fine di far diventare la Russia una delle maggiori esportatrici. La costruzione dei canali d’irrigazione cominciò in larga scala negli anni quaranta. La maggior parte di essi è stata costruita in modo sbrigativo, permettendo all’acqua di filtrare o evaporare. Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952  alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Nel 1960 una quantità d’acqua stimabile tra i 20 ed i 60 km³ veniva deviata nell’entroterra. Dal 1961 al 1970 il livello del lago scese ad una media di 20 cm all’anno, e negli anni settanta la media triplicò arrivando a 50-60 cm all’anno, mentre negli anni ottanta la media era compresa fra gli 80 e i 90 cm annui. Il tasso di utilizzo d’acqua per scopi irrigui continuò a crescere: l’acqua deviata dai fiumi duplicò tra il 1960 e il 2000, così come la produzione di cotone. […] La progressiva scomparsa del lago non sorprese i sovietici, che avevano previsto l’evento all’inizio dei lavori e ritenevano che l’Aral, una volta ridotto ad una grande palude  acquitrinosa, sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso. Già nel 1964 Aleksandr Asarin dell’istituto Hydroproject evidenziava il fatto che il lago era condannato, spiegando che “ciò fa parte dei piani quinquennali approvati dal Consiglio dei ministri e dal Politburo”. Nessun appartenente a un livello inferiore avrebbe osato contraddire questi piani, anche se così il destino del lago fu segnato. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev che, durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto. Un ingegnere sovietico ha dichiarato nel 1968: “è evidente a tutti che l’evaporazione del lago d’Aral è inevitabile”» (Wikipedia). Il capitalismo con caratteristiche “sovietiche” è stato particolarmente ostile agli uomini e alla natura, superato in questo solo dal capitalismo con caratteristiche cinesi.

 

DIALOGO CON ILARIA CAPUA

Scrive Ilaria Capua (Corriere della Sera): «Ormai si sa che le cose da fare sono tre: igiene, distanza, protezione». Il mio trittico è leggermente diverso: Coscienza, coraggio e lotta. «Per sé e per gli altri». Lotta contro questa società che nega in radice, con assoluta e cieca necessità, una vita autenticamente umana e che ci espone a ogni sorta di sofferenza, di precarietà e di pericolo. «La pandemia ha trasformato l’impossibile nel necessario». Sta forse parlando della rivoluzione sociale anticapitalista? D’altra parte è la stessa scienziata che sostiene che «Qui si tratta di arrivare alla radice del problema». Il “giovane Marx” una volta scrisse che «Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso». L’uomo colto nella sua dimensione storica e sociale, beninteso. E che ci dice quella dimensione? Ci dice, anzi ci grida, ci urla che gli attuali rapporti sociali ci inchiodano alla croce di una prassi sociale dominata dalle esigenze economiche, cosa che, tra l’altro, permette il dilagare dell’irrazionalità proprio quando la tecnoscienza promette con orgoglio di penetrare tutti i misteri della natura: dal macrocosmo al microcosmo, dalle galassie alle particelle subatomiche, dal cervello ai virus. Ma se forse dominiamo col pensiero le leggi della natura, certamente non dominiamo ciò che è essenziale per la nostra vita, a cominciare dalle attività che rendono possibile la nostra stessa nuda vita. Sì, alludo alla “sfera economica” – quella che, tra l’altro, ha attivamente operato per la genesi e la diffusione dell’attuale pandemia (*). Come possiamo dunque «ristabilire l’equilibrio con gli altri esseri viventi del pianeta da cui siamo completamente dipendenti», se non ci sbarazziamo di un’organizzazione sociale che crea continuamente contraddizioni, antagonismi, caos, disarmonie, disequilibri d’ogni tipo? È questo quel «qualcosa di più strutturale che dobbiamo cambiare» di cui parla Ilaria Capua.

«Non si tratta di mettere pezze di cartongesso o micropali nell’argilla»: è quello che dico anch’io! «Il bandolo della matassa ce l’abbiamo»: si tratta del bandolo che suggerisco io?

«I nostri figli dovranno rimettere un po’ a posto la gestione del pianeta, altrimenti con le risorse proprio non ci stiamo dentro e con l’impatto dell’uomo abbiamo fatto anche peggio. Insomma, dovranno trovare delle soluzioni per arginare i danni che abbiamo fatto noi e i nostri predecessori, per esempio agli oceani, alla qualità dell’aria e alla madre terra che ci nutre. Le informazioni ci sono». E infatti non si tratta di un problema di informazioni, ma piuttosto del loro uso politico basato su una peculiare lettura “strategica” della realtà. Ad esempio, ha senso parlare in astratto, senza alcun riferimento storico e sociale, di «risorse»? Non credo proprio. Né ha molto senso discorrere in astratto di Antropocene e «di un pianeta trasformato e depauperato delle risorse». Chiamo in causa il solito Capitalismo? Si capisce! Se non riempiamo di contenuti sociali i concetti che usiamo, anziché chiarirci le idee essi ce le offuscano, impedendoci di vedere il famoso bandolo della matassa.

«I nostri figli dovranno cercare soluzioni per la sostenibilità del pianeta. Loro avranno pure contezza che esistono tutti i libri virtuali con le informazioni che loro servono ma a oggi sono scaraventati in uno spazio non definito e inaccessibile. Noi potremmo farci carico di mettere a posto quei libri, permettendo alle nuove generazioni di leggere e comprendere quella storia di insostenibilità del pianeta che abbiamo costruito. È questo il regalo più grande che possiamo fare loro: ordinare e preparare il materiale di lavoro che sarà alla base delle soluzioni per una rinascita più rispettosa del sistema che ci ospita e dei suoi equilibri». Stiamo forse parlando del sistema capitalistico? Se è così, altro che «rinascita più rispettosa»: è facile prevedere nuove sciagure. Sono pessimista? No, sono radicale, in senso marxiano. Pessima è la Società-Mondo che ci ospita. D’altra parte, chi sono io per negare agli scienziati umanamente sensibili il desiderio di coltivare pie illusioni? Accomodatevi pure! In ogni caso, ho inteso offrire «ai nostri figli» il mio modestissimo regalo, secondo gli auspici della nostra celebre scienziata. Ognuno secondo le sue capacità!

(*) Un solo esempio: «In tutto il sudest asiatico il guano di pipistrello costituisce un’importante risorsa economica per le popolazioni locali. Per esempio, in Cambogia, ove il guano di pipistrello è considerato “oro nero”, esso viene raccolto sia direttamente nelle grotte, da appositi minatori, i quali a mani nude e senza nessuna protezione riempiono sacchi della preziosa merce, sia stendendo delle reticelle al di sotto delle rotte frequentate dai pipistrelli, per raccogliere il guano da essi rilasciato in volo (e quindi fresco), come spiegato in un’intervista apparsa sul South-East. Il guano di pipistrello è così apprezzato, che anche l’agricoltura biologica dei ricchi paesi occidentali vi ha accesso, ed è possibile comprarlo direttamente sia su Amazon sia dalla sua controparte cinese, il sito di vendite online AliBaba. Esso, quindi, non solo sostiene l’agricoltura locale – specialmente di riso – ma alimenta una economia che rimpingua le magre casse dei locali, i quali, giustamente, lo valorizzano come una risorsa pregiata per sbarcare il lunario» (E. Bucci, Il Foglio, 3/8/2020). Quando si dice economia di merda!

SOCIAL CONTAGION

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro-insurrezione (Chuang).

 

Con “colpevole” ritardo ho letto e oggi pubblico uno scritto (Social Contagion) apparso il 27 febbraio sulla rivista Chuang, una rivista indirizzata a coloro che «vogliono superare i vincoli dell’attuale mattatoio chiamato capitalismo». Trovo molto interessante questo testo, nonostante io sia per diversi e rilevanti aspetti distante dalla concezione “dottrinaria” che lo ispira, e che informa, se ho ben compreso, l’indirizzo politico di fondo della rivista di cui sopra (*). Un solo esempio: «I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato». Come sa chi conosce questo Blog, io nego la natura socialista della Cina, da Mao a Xi. Ciò che Chuang chiama socialismo, io lo chiamo capitalismo di Stato “con caratteristiche cinesi”. Ma ci sarà modo di riprendere la questione. Intanto auguro una buona lettura ai lettori e mi scuso per l’imperfetta traduzione del testo.

 

Le fornaci

Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Sembra che le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.

A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in particolare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering e il disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina, e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.

Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nonostante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist». Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insabbiamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime.

Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisamente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza? Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali riflessioni sullo stato attuale della società cinese.

Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mostrando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana. Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.

L’origine delle pestilenze

Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.

L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroalimentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola (1). Queste epidemie possono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la seconda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo. I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamentate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socioecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali (2).

Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre. Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.

Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» (3). Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi: «Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza (4).

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’aumento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.

Storia ed eziologia

Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili precapitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi, vediamo i primi casi di queste piaghe squisitamente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa.

Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus. Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applicazione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un precipizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.

Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna.

Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetsè che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa (5). E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratteristiche.

Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro delle prime iniziative riformiste liberal-progressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per denunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccupandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi. Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevoli per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo.

Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [6]. In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali.

Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra furono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applicazione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione della produzione agricola, sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia: vedi Furore, 1939, di John Steinbeck], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma.

Se, le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.

Gilded Age

Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra tutta la popolazione cinese. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali, destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al consumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age.

Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melanina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH [virus del papilloma umano]. Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.

Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista5, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.

Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie] risultano residenti permanenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.

Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statunitensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.

Non c’è più la natura selvaggia

Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?

La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epidemia. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici.

In altri casi, le catene di valore agro-ecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano. Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accumulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli ambienti, che «possono aumentare le connessioni tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus maggiori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».

Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi precapitalistici e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causalità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambientale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia, in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo, al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contemporanei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso possiamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore.

L’isolamento come esercizio dell’arte di governo

A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesantemente su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.

Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi generalizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti ). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del governo cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare.

La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini. In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di persone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la quarantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.

Incapacità

Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus12, scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.

Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.

A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni economiche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impossibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile, questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1° marzo è stata stabilita come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.

Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabilmente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.

Una guerra surreale

Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la profonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costruzione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre province – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.

In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.

 

(*) Si tratta di un blog di ricercatori cinesi all’estero. «Chuang è un collettivo di comunisti che considera la “questione della Cina” di importanza centrale per le contraddizioni del sistema economico mondiale e le potenzialità per il suo superamento. Il nostro obiettivo è formulare un corpus di teoria chiara in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. […] Speriamo di vedere la Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è iniziare con un’indagine sulla creazione della “Cina” in quanto tale. Qui, la nostra storia non inizia con una storia presumibilmente antica, né inizia con il romanticismo del progetto rivoluzionario cinese, alternativamente glorificato e demonizzato da quelli di sinistra». Chi scrive, che di “sinistra” non è mai stato, non ha né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”. Se ho ben compreso, secondo Chuang si può parlare di un «progetto comunista» praticato in Cina «durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50: «Durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50, ci riferiamo a questo processo come a un “progetto comunista”. Questo progetto è stato incredibilmente vario durante la sua esistenza ed è stato sempre definito dal suo status di movimento di massa con profonde radici nella popolazione. All’inizio, il suo fondamento teorico e la direzione strategica erano prevalentemente quelli dei comunisti anarchici. Nel tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbe guadagnato l’egemonia, ma ciò significava anche che il PCC stesso assorbiva parte dell’eterogeneità del movimento, che avrebbe assunto la forma di fazioni (e purghe) all’interno del Partito stesso. Questa egemonia non è stata imposta al progetto, tuttavia. Era il risultato di un mandato popolare conferito al PCC, che era stato parte integrante della formazione di un esercito contadino di successo e di un movimento di lavoratori sotterranei durante l’occupazione giapponese. Il PCC mantenne la sua egemonia del progetto comunista nei primi anni del dopoguerra dirigendo campagne di ridistribuzione popolare nelle campagne e ricostruendo le città. Con i fallimenti della fine degli anni ‘50 (carestia nel paese e scioperi nelle città costiere), non solo fu messo in discussione il mandato popolare del PCC, ma il progetto comunista stesso iniziò a ossificarsi. Quando la partecipazione popolare è evaporata in risposta a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si è ridotto ai suoi mezzi: il regime di sviluppo. Questo regime stesso poteva essere mantenuto solo dal sempre più ampio intervento del Partito, che li fondeva entrambi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico di fatto) e ne spezzava il legame con il progetto comunista». Qui mi limito a rinviare i lettori ai miei scritti sulla Cina: TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO); SULLA CAMPAGNA CINESE; ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE; DA MAO ZEDONG A XI JINPING. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi

(1) Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Robert G. Wallace. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
(2) R. G. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, New York, 2016. P. 52.
(3) Ibid, p. 56.
(4) Ibid, pp. 56-57.
(5) Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
(6) Vedi: JF. Brundage, GD Shanks, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections L’importanza delle infezioni batteriche secondary, The Journal of Infectious Diseases, Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719.

L’APOCALISSE AL TEMPO DI GRETA THUNBERG

Ho appena letto un interessante articolo pubblicato lo scorso 25 aprile da George Monbiot sul Guardian. Interessante a partire dal titolo: «Abbiate il coraggio di dichiarare il capitalismo morto – prima che ci porti tutti giù». In effetti, sembra che Monbiot abbia finalmente scoperto che «Il sistema economico è incompatibile con la sopravvivenza della vita sulla Terra. È tempo di disegnarne uno nuovo»: santissime parole! Se pensiamo che alcuni scienziati di fama mondiale, sulla scia del compianto Stephen Hawking, professano la colonizzazione umana di altri pianeti come estremo rimedio alla Catastrofe Finale prossima ventura («Lasciare il pianeta Terra è la nostra migliore speranza per la sopravvivenza»), bisogna riconoscere che già immaginare la possibilità di costruire un nuovo – sebbene non meglio precisato – sistema su questo azzurro pianeta costituisce un’apprezzabile conquista concettuale e politica. Non bisogna essere troppo schizzinosi con l’anticapitalismo ai tempi di Greta Thunberg. O mi sbaglio? Dite che non si tratta affatto di anticapitalismo ma di un’assai intelligente strategia intesa a mettere il Capitalismo del XXI secolo nelle condizioni di affrontare e vincere le vecchie e le nuove sfide sistemiche? Può darsi. Chi sono io per poter escludere una simile lettura del nuovo ambientalismo? A ogni modo desidero non saltare troppo precipitosamente a conclusioni definitive.

Confessa il neo-anticapitalista: «Per gran parte della mia vita da adulto ho inveito contro il “capitalismo aziendale”, il “capitalismo dei consumi” e il “capitalismo clientelare”. Mi ci è voluto molto tempo per vedere che il problema non è l’aggettivo, ma il nome». Bravo! Meglio tardi che mai. Diciamo che è il rapporto sociale dominante che quel nome esprime a costituire l’essenza della cosa, ma adesso non è il momento di cavillare intorno alla dialettica tra la cosa e il suo nome, tra la cosa e il suo concetto. Attestiamoci dunque su una postura “dialogica” e continuiamo la citazione: «Mentre alcune persone hanno rifiutato il capitalismo con gioia e rapidità, io l’ho fatto con lentezza e riluttanza. Parte del motivo era che non vedevo un’alternativa chiara: a differenza di alcuni anticapitalisti, non sono mai stato un entusiasta del comunismo di Stato». Ahi! Forse ci siamo esaltati anzitempo. Comunque personalmente intendo mantenere un approccio disponibile nei confronti di Monbiot, e desidero soprattutto comunicargli che anch’io «non sono mai stato un entusiasta del comunismo di Stato», che infatti ho iniziato a combattere fin da ragazzino, e cioè quanto il «comunismo di Stato», nelle sue diverse forme nazionali (russa, cinese, cubana, ecc.), godeva ancora di un larghissimo seguito nella sinistra occidentale. Ma qui dobbiamo occuparci del giornalista del Guardian, non della mia insignificante persona! Vediamo dunque come Monbiot articola la sua riflessione anticapitalista: «Non si può tornare indietro: l’alternativa al capitalismo non è né il feudalesimo né il comunismo di Stato. Il comunismo sovietico aveva più in comune con il capitalismo di quanto i difensori di entrambi i sistemi avrebbero voluto ammettere. Entrambi i sistemi sono (o erano) ossessionati dal generare crescita economica. Entrambi sono disposti ad infliggere stupefacenti livelli di danni nel perseguimento di questo ed altri fini. Entrambi hanno promesso un futuro in cui avremmo dovuto lavorare solo per poche ore alla settimana, ma invece chiedono un lavoro infinito e brutale. Entrambi sono disumanizzanti. Entrambi sono assolutisti, insistendo sul fatto che solo il loro è l’unico vero Dio». Peccato, al nostro amico manca il concetto fondamentale: entrambi sono (o erano) regimi sociali capitalistici. Definire «comunismo di Stato» il Capitalismo di Stato con caratteristiche staliniste (o maoiste) è un ossimoro che non sta in piedi nemmeno con l’aiuto dalla più potente delle divinità: c’è un limite a tutto! Forse…

A proposito della Cina ho scritto poco tempo fa (contro i tifosi del Celeste Imperialismo): «La struttura logica del mio pensiero è purtroppo assai elementare, direi rozza, ed essa mi porta a ragionare in questi termini: dove c’è capitale, c’è Capitalismo. Infatti, il capitale non è una cosa, non è un mero strumento al servizio dell’economia (capitalista o “socialista” che sia): esso è in primo luogo l’espressione di peculiari (sul piano storico) rapporti sociali di produzione, i quali nelle società classiste sono rapporti di dominio e di sfruttamento. La “sovrastruttura” politica, istituzionale e ideologica non può non essere adeguata alla “struttura” economico-sociale che la esprime “dialetticamente” – e necessariamente. Mi scuso per questa trivialità adialettica e antimaterialistica, ma io la penso esattamente così, anche a proposito della Cina!». L’antipatica autocitazione mi serve solo per rendere evidente a chi legge come imposto i problemi che riguardano la struttura sociale delle comunità umane. Chiudo la parentesi e ritorno a Monbiot.

«Che aspetto ha un sistema migliore? Non ho una risposta completa e non credo che nessuna persona ce l’abbia». Ovviamente nemmeno io ho «una risposta completa» da tirare fuori dalla tasca; tuttavia, avendo compreso la natura pienamente e radicalmente capitalistica della Russia stalinista e della Cina (da Mao a Xi Jinping), posso quantomeno abbozzare i tratti distintivi di «un sistema migliore»: niente rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, niente classi sociali (solo uomini e donne che collaborano insieme per godere il massimo della felicità umanamente possibile su questo pianeta), niente divisione sociale del lavoro fissata in qualche modo (tale cioè da creare una permanente divisione funzionale/professionale tra gli individui), niente Capitale, niente lavoro salariato, niente merci (solo beni d’uso della migliore qualità: il Comunismo, quello vero, è un lusso che nel XXI secolo l’umanità può permettersi!), niente Stato, da sempre strumento di controllo e di oppressione dei nullatenenti da parte dei padroni (o del Padrone unico: lo Stato!) delle condizioni materiali della produzione/distribuzione. Come si vede non scendo nei particolari dell’unico sistema che mi appare migliore di quello attuale, semplicemente perché non posso né voglio prevedere quale volto potrebbe avere una Comunità autenticamente umana. In ogni caso è il modestissimo contributo che chi scrive si sente di dare al dibattito sul «sistema migliore» possibile auspicato da Monbiot. Certo, so che quanto ho appena scritto è molto distante dallo schema fornito «dalla civiltà ecologica proposta da Jeremy Lent, uno dei più grandi pensatori della nostra epoca», o «dalla “economia delle ciambelle” di Kate Raworth», per non parlare del «pensiero ambientale di Naomi Klein, Amitav Ghosh, Angaangaq Angakkorsuaq, Raj Patel e Bill McKibben»; ma ognuno impasta la farina che piglia dal proprio sacco: questo pane posso offrire a un’umanità affamata di Speranza! A proposito: non sarebbe più costruttivo farsi Speranza, diventare Speranza? Anche perché, come diceva qualcuno, non esistono “liberatori” pronti a sacrificarsi per il bene dell’umanità, ma uomini e donne che lottano per liberarsi.

Ancora il Nostro: «La nostra scelta si riduce a questo. Fermiamo la vita per permettere al capitalismo di continuare, o fermiamo il capitalismo per permettere alla vita di continuare?». Una volta si diceva Socialismo o barbarie! La mia risposta è, come sempre del resto, scontata: superiamo il Capitalismo per permettere alla vita di dispiegarsi in una dimensione semplicemente umana, cosa che presuppone la costruzione della Comunità come delineata sopra. Per come la vedo io, non si tratta solo di «permettere alla vita di continuare», come recita il mantra degli apocalittici che si concentrano sulla catastrofe ambientale («La crescita infinita su un pianeta finito porta inesorabilmente alla catastrofe ambientale») mentre trascurano di considerare il rapporto sociale che oggi domina in modo sempre più totalitario in tutto il mondo e che sta a fondamento della catastrofe sociale (umana e ambientale) in atto.

Detto altrimenti, non si tratta di impedire una catastrofe imminente: si tratta piuttosto di farla finita con la catastrofe attuale chiamata società capitalistica, una catastrofe che ormai si protrae da moltissimo tempo e che oggi ha la dimensione del nostro pianeta, cosa che peraltro corrisponde al concetto stesso di Capitale, come aveva detto in tempi non sospetti l’anticapitalista di Treviri. Per come la vedo io, si tratta in primo luogo di chiudere definitivamente la storia delle società classiste, che ha reso e rende possibile ogni genere di catastrofe, e iniziare una nuova storia, quella appunto della Comunità che conosce solo uomini e donne in grado di padroneggiare con le loro mani e con la loro testa la propria esistenza. Come si vede, oggi mi accontento di fare la “rivoluzione” con il pensiero. In fondo è già qualcosa. Forse…

«Nel New York Times di domenica, l’economista Nobel Joseph Stiglitz ha cercato di distinguere tra il capitalismo buono, che ha definito “creazione di ricchezza”, e il capitalismo cattivo, che ha definito “furto di ricchezza” (che estrae le rendite). Capisco la sua distinzione. Ma dal punto di vista ambientale, la creazione di ricchezza è furto di ricchezza. La crescita economica, intrinsecamente legata al crescente uso di risorse materiali, significa rubare la ricchezza naturale sia dai sistemi viventi sia dalle generazioni future». Al punto di vista ambientale di Monbiot mi permetto, per concludere, di contrapporre il punto di vista storico-sociale di Marx: nelle società classiste in generale, e in quella capitalistica in particolare, la creazione di ricchezza «è furto» di tempo di lavoro, è saccheggio di capacità lavorative, ed è su questo fondamento sociale che si realizza il saccheggio e lo sfruttamento delle risorse naturali. Sulla natura del cosiddetto “capitale umano” rinvio al mio precedente post.

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LETTERA DI UN ANTICAPITALISTA A GRETA THUNBERG

Immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente.

Cara Greta,

mi chiamo Sebastiano, vivo in Italia e fin dall’inizio ho seguito con molta simpatia la tua battaglia contro i cambiamenti climatici e la distruzione dell’ecosistema del nostro pianeta. Il tuo discorso alla Conferenza sul Clima (COP 24) di Katowice mi ha molto impressionato e ha ispirato la riflessione che segue, che ti consegno non per convincerti, non ne avrei le capacità, ma per esporti un punto di vista che forse non conosci sulla scottante questione che tanto ci sta a cuore.

Carissima,

chi ti scrive è un anticapitalista al quale, esattamente come te, «non importa risultare impopolare» ma che, a differenza di te, non si batte per la «giustizia climatica e un pianeta vivibile», ma per un pianeta libero da una potenza sociale che ormai da più di due secoli domina, sfrutta e devasta la natura e gli esseri umani: il Capitale. Ho capito pochissime cose di come va il mondo, e tra queste te ne segnalo una: il Capitalismo è necessariamente incompatibile con il rispetto della natura e dell’umanità. Dico necessariamente perché la prassi economica che devasta tanto l’ambiente naturale quanto quello sociale non deriva né dalla cattiva volontà dei decisori politici posti al servizio dello status quo sociale, come si rinfacciano a turno i partiti che si alternano al governo nei Paesi di tutte le nazioni, né dalla malvagità della cosiddetta élite che detiene le leve dell’economia, quanto piuttosto dalla stessa natura del Capitalismo. Rapporti sociali fondati sul dominio e sullo sfruttamento dell’uomo e della natura in vista del vitale profitto (vitale, beninteso, per la Società-Mondo della nostra epoca) non possono non generare disastri d’ogni tipo: “naturali”, sociali, esistenziali. Se le classi subalterne del pianeta si impossessassero, per un “miracolo” di qualche tipo, di questa eccezionale idea, e provassero ad agire di conseguenza, questa società potrebbe davvero avere i giorni contati, e la tua generazione, facendosi essa stessa speranza, praticando la speranza, potrebbe inaugurare una nuova storia. Sì cara Greta, sto parlando di rivoluzione.

«Per fare ciò dobbiamo parlare chiaramente, non importa quanto questo possa risultare scomodo»: così hai detto qualche tempo fa; è ciò che sto cercando di fare io con te, sapendo d’altra parte benissimo che difficilmente tu e i tuoi coetanei potrete capirmi, visto che da molto tempo un punto di vista autenticamente anticapitalista non trova spazio nella società, è bandito da essa, anche a causa della miserabile fine che hanno fatto i regimi falsamente “socialisti” o “comunisti” in ogni parte del mondo. Avevo pressappoco la tua età, cara Greta, quando studiando la storia del movimento di emancipazione degli oppressi e degli sfruttati, ho capito che ciò che in Unione Sovietica, in Cina e altrove veniva propinato all’opinione pubblica mondiale appunto come “socialismo reale”, non era altro che un reale Capitalismo (più o meno di Stato), per altro una forma particolarmente aggressiva (anche nei confronti dell’ambiente naturale) e oppressiva di Capitalismo. Ti scrivo queste cose perché per me è stato molto importante scoprire improvvisamente che davvero “un altro mondo è possibile”, che non è affatto vero che dobbiamo accontentarci di vivere nella società capitalista, la quale si sarebbe dimostrata migliore di quella cosiddetta “socialista”. Un mondo a misura di natura e di umanità, e quindi, necessariamente, un mondo che non conosce la divisione degli individui in classi sociali, un mondo le cui attività siano tutte orientate a soddisfare i molteplici bisogni umani, bisogni anch’essi umanizzati, cioè a dire liberati dalla coazione mercificante del Capitale. A una mente giovane e aperta come la tua forse potrebbe interessare l’utopia che si esprime nelle mie parole. Cos’è l’utopia? Per me è il mondo umanizzato che ancora non c’è, ma che potrebbe esserci.

Come dici tu, «immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente». È dunque possibile immaginare la fine del Capitalismo e la continuazione del mondo? Oggi è più facile immaginare esattamente  il contrario, e non a caso i guru del global warming presentano la lotta ai mutamenti climatici come un’assoluta priorità che deve unire gli uomini e le donne di tutto il pianeta al di là di ogni loro differenza di classe, di nazionalità, di religione e così via. È come se la Terra subisse l’attacco di una potenza aliena, extraterrestre! Niente di più falso, e di più strumentale, perché intorno al global warming da anni si gioca una furibonda lotta economica, scientifica e tecnologica tra Paesi, Continenti e imprese. La potenza aliena che tutto sfrutta, mercifica e inquina si chiama Capitale, e gli Stati di tutto il mondo sono al suo servizio.

Tu scrivi: «La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso. Noi dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza e se le soluzioni sono impossibili da trovare in questo sistema significa che dobbiamo cambiarlo». La penso esattamente come te, anche se diversamente da te io definisco Capitalismo «questo sistema», il quale, a mio avviso, non va semplicemente cambiato, reso “migliore”, ecologicamente “più sostenibile”, ecc., ecc., come da decenni predicano i “progressisti” di tutto il mondo; esso va consegnato senz’altro alla storia – o preistoria – dell’umanità.  Certo, «se solo lo volessimo veramente», si capisce. È praticando l’illusoria e ingenua politica del “male minore” e dei “piccoli passi” che siamo giunti a questo punto, mentre l’umanità ha bisogno di un pensiero davvero audace, giovane, rivolto al futuro.

Cara Greta,

come hai detto a Katowice, nel 2078 festeggerai il tuo settantacinquesimo compleanno, mentre chi ti scrive avrà lasciato questo pianeta già da un pezzo. «Se avrò dei bambini probabilmente un giorno mi faranno domande su di voi. Forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Non siamo venuti qui per pregare i leader a occuparsene. Tanto ci avete ignorato in passato e continuerete a ignorarci. Voi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il vero potere appartiene al popolo». Così hai detto quel giorno parlando dinanzi ai “cari leader” mondiali. Sul “potere al popolo” per questa volta sorvolo, magari ne parliamo un’altra volta; adesso ti invito piuttosto a non aspettare il 2078 per chiederti se la mia utopia non sia per caso meno incredibile e campata in aria della “rivoluzione ecologica” che ormai da decenni imperversa, tra alti e bassi, nel dibattito pubblico internazionale, soprattutto nei Paesi occidentali. Forse tra sessant’anni potresti scoprire che un Capitalismo a “emissioni zero”, a “economia circolare”, a “chilometro zero” e quant’altro, dopotutto non è meno disumano di quello che oggi inquina, saccheggia e distrugge mari, fiumi, terre, cieli e rapporti umani. Personalmente penso che “mettere in sicurezza” il pianeta lasciandolo nelle mani del Moloch chiamato Capitale, sia un’idea vecchissima e ultrareazionaria; un’idea che certamente non merita l’interesse e l’energia di una mente giovane, ribelle e sensibile ai problemi dell’umanità.

E qui metto un punto, Cara Greta. Ti ringrazio per l’attenzione che vorrai accordarmi, e ti saluto. Ciao, e buona lotta!

SORVEGLIARE E PROFITTARE

Quando il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare.

Capitalismo cognitivo, capitalismo delle piattaforme, capitalismo digitale, capitalismo predittivo, capitalismo di sorveglianza: sono molte le definizioni che economisti e sociologi usano per dar conto del Capitalismo del XXI secolo come si presenta ai loro occhi attraverso le sue continue e sempre più rapide trasformazioni. Ora è appunto la volta del cosiddetto Capitalismo di sorveglianza, definizione che forse dobbiamo al libro di successo scritto nel 2018 da Shoshana Zuboff (The Age of Surveillance Capitalism), docente di economia aziendale di Harvard e mille altre cose ancora. Ho scritto forse perché molti attribuiscono la primazia di quella definizione all’esperto e “guru” della sicurezza Bruce Schneier, il quale ha scritto che «la sorveglianza è il modello di business di Internet»; tra poco dovrebbe uscire il suo ultimo saggio dal titolo poco rassicurante: Clicca qui per uccidere tutti quanti. Gli odiatori di tutto e di tutti, così presenti e attivi sui social, ne stanno aspettando la pubblicazione con la bava alla bocca…

Al centro del capitalismo di sorveglianza la Zuboff colloca ovviamente l’Intelligenza Artificiale, la quale permette ai “sorveglianti” (Google, Facebook, ecc.) di acquisire dati e informazioni sulle persone, il più delle volte senza che esse ne abbiano la minima contezza, e di trasformare quei dati e quelle informazioni in preziosa materia prima “algoritmica” utile a confezionare profili digitali da collocare sul mercato – incluso quello politico-ideologico. Niente di nuovo, parrebbe di capire, e io stesso ne ho parlato in diversi post (1). Per dirla con Toni Negri (e cioè malissimo), siamo passati da un’accumulazione basata sull’estrazione di plusvalore a un’accumulazione centrata sull’estrazione di dati personali. Naturalmente il passaggio è puramente immaginifico, perché l’estrazione del plusvalore dal lavoro vivo  (vampirizzato dal lavoro morto) «è una tremenda verità» anche nel XXI secolo, e senza questa vitale estrazione non sarebbe possibile nemmeno il “Capitalismo di sorveglianza”, qualunque cosa questa locuzione significhi.

Scriveva Marika Surace nel lontanissimo 2005: «L’espressione “società della sorveglianza” è stata spesso ascritta a David Lyon, sociologo canadese che ha studiato, in molte sue opere, gli effetti dei nuovi mezzi di controllo sociale, e delle loro interazioni con le più recenti tecnologie informatiche. In realtà, il primo a parlare di “società della sorveglianza”, è stato Gary T. Marx, in un articolo comparso nel 1985 sulla rivista The Futurist. Il sociologo statunitense analizza il forte cambiamento avvenuto nel passaggio dall’era moderna all’era postmoderna, in cui le nuove tecnologie assumono un ruolo principale nel nuovo assetto sociale, ed afferma senza timore che “grazie alla tecnologia informatica sta crollando una delle ultime barriere che ci separano dal controllo totale”. Gary T. Marx definisce questo fenomeno “New Surveillance”: lo scopo della sua analisi è proprio quello di marcare le differenze tra la sorveglianza sviluppatasi con la nascita degli stati moderni nel XIX secolo, quando la raccolta dati serviva allo stato per amministrare la nazione, e la sorveglianza contemporanea, quella in cui non solo lo stato, ma anche le aziende commerciali, le assicurazioni, agenzie ed organizzazioni dei più svariati settori raccolgono ed elaborano informazioni personali su chiunque, con lo scopo di controllarne e manipolarne le interazioni sociali, le preferenze, le opinioni» (2).

Questo solo per dire quanto lontano nel tempo rimonti il concetto di “Capitalismo di sorveglianza”, la cui prassi è ormai da anni sotto gli occhi di tutto, e quanto stretto sia il legame tra il controllo sociale ai fini della salvaguardia dello status quo sociale e il controllo sociale ai fini della mercificazione di tutte le attività umane. Detto altrimenti, il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare. Qui il concetto di sussunzione totalitaria della Società-Mondo (natura compresa) da parte del Capitale gira a pieno regime. Il «totalitarismo della sorveglianza» denunciato da molti analisti politici e da non pochi sociologi sparsi ai quattro angoli del mondo ha a mio avviso questo preciso significato politico-sociale.

Scrive Shoshana Zuboff: «Il capitalismo di sorveglianza tratta unilateralmente l’esperienza umana come materia prima libera per la traduzione in dati comportamentali. Sebbene alcuni di questi dati siano applicati al miglioramento del servizio, il resto viene dichiarato come un avanzo comportamentale proprietario, alimentato in processi di produzione avanzati noti come “intelligenza artificiale” e fabbricati in prodotti di previsione che anticipano ciò che farai ora, presto e dopo . Infine, questi prodotti di previsione sono scambiati in un nuovo tipo di mercato che io chiamo mercati dei futures comportamentali. I capitalisti di sorveglianza sono cresciuti immensamente ricchi da queste operazioni commerciali, poiché molte aziende sono disposte a scommettere sul nostro comportamento futuro». Qui fa capolino il concetto di “Capitalismo predittivo”, il quale si sposa benissimo con il concetto di sicurezza predittiva (repressione preventiva  dei potenziali reati o precrimine), come già segnalavo su un post del 2014: «Il giornalista Paolo Bottazzini, esperto in tecnologie intelligenti applicate al controllo sociale, è sicuro: “Minority Report è realtà. La polizia statunitense prevede i crimini”» (L’algoritmo del controllo sociale). Oggi è la Cina che sul terreno della sicurezza predittiva si colloca decisamente all’avanguardia mondiale: rinvio al post Riflessioni orwelliane. Qui mi limito a segnalare quanto si dibatte in sede di riflessione politica e sociologica circa l’impatto immediatamente politico che le tecnologie cosiddette intelligenti hanno al contrario delle tecnologie del periodo “fordista”. Si osserva in particolare che mentre la tecnologia “stupida” di una volta non metteva in crisi la democrazia parlamentare e i suoi tradizionali soggetti (partiti, sindacati, “corpi intermedi” di vario tipo), la tecnologia “intelligente” dei nostri tempi starebbe invece per ribaltare completamente il vecchio scenario, rendendo obsoleta l’architettura politico-istituzionale dell’Occidente come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. In Italia ovviamente si cita il caso della famigerata piattaforma Rousseau che, com’è noto, fa capo alla Casaleggio & Associati. In un’intervista di qualche tempo fa Davide Casaleggio teorizzava senza giri di parole il superamento della democrazia rappresentativa: «I modelli novecenteschi stanno morendo, dobbiamo immaginare nuove strade e senza dubbio la Rete è uno strumento di partecipazione straordinario. Per questo la cittadinanza digitale deve essere garantita a tutti. […] Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile» (La Verità). Il sogno di Casaleggio è vedere tutti i pesci che nuotano nel Web finire dritti dritti nella sua Rete, dove tutti sono uguali e solo pochissimi sono più uguali degli altri, come i maiali della nota Fattoria. La chiamano “democrazia diretta” – dai maiali di cui sopra. Di certo chi scrive non verserà democratiche lacrime sul «superamento della democrazia novecentesca».

«Sono trent’anni che si parla di Grande Fratello, ben prima delle nuove tecnologie. Direi che il tema risieda altrove, non nel progresso tecnologico»: qui Casaleggio dice, suo malgrado, il vero.

Scrive James Bridle: «La litania di esperienze appropriate viene ripetuta così spesso e così estesamente che siamo diventati insensibili, e così dimentichiamo che non si tratta di una visione distopica del futuro, ma del presente. Originariamente intento a organizzare tutta la conoscenza umana, Google ha finito per controllare tutti gli accessi ad esso; facciamo una ricerca e ci perquisiamo a turno. Partendo solo per connetterci, Facebook si è trovata in possesso dei nostri più profondi segreti. E nel cercare di sopravvivere commercialmente oltre i loro obiettivi iniziali, queste aziende si sono rese conto di stare seduti su un nuovo tipo di risorsa: il nostro “surplus comportamentale”, la totalità delle informazioni su ogni nostro pensiero, parola e azione, che potrebbero essere scambiate a scopo di lucro su nuovi mercati basati sulla previsione di ogni nostra esigenza o sulla sua produzione» (The Guardian). In effetti scandalizzarsi per l’uso capitalistico che della nostra vita privata fanno i colossi dell’industria “esistenziale” (Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple) è davvero ingenuo, e piuttosto l’attenzione critica andrebbe posta sull’estrema facilità con cui siamo disposti a regalare a quei colossi la materia prima che essi trasformano in prodotti commerciali. E a mio modesto avviso non vale, o comunque non vale più, il discorso secondi cui le persone che usano i social sono ignari di quel che si muove nel retroscena digitale: magari non conosciamo i dettagli tecnici della cosa, ma ormai tutti noi abbiamo capito che in cambio di un qualche servizio gratuito che riceviamo offriamo qualcosa a chi gentilmente ce lo “regala”. E quel qualcosa non può che essere la massa di dati che ogni giorno immettiamo sul Web. È ingenuo e abbastanza confortante (e perciò stesso sbagliato) pensare che si tratti solo di ignoranza da parte dell’utente, e che quindi per il pensiero “critico” si tratterebbe solo di informarlo circa l’uso capitalistico della sua cosiddetta privacy. Non è così: siamo tutti complici più o meno zelanti del “Capitalismo di sorveglianza”; sappiamo che dobbiamo pagare un prezzo (non ci vuole un Adam Smith o un Karl Marx per capire che nel Capitalismo nessun pasto è gratis), e oggi siamo disposti a pagarlo, per poi magari odiare a morte i padroni dei big data quando leggiamo notizie circa i loro stratosferici guadagni.  Sotto questo aspetto Hai Varian, capo economista di Google e tra i padri della microeconomia contemporanea, ha buon gioco nel dire che «Le persone sono ben contente di vedere la loro privacy invasa […] purché ricevano in cambio quello che desiderano […]: uno sconto su una polizza assicurativa o sanitaria, un mutuo ad un tasso più conveniente. […] Tutti sono pronti ad essere tracciati e monitorati poiché i vantaggi attesi in termini di risparmio, efficienza e sicurezza sono enormi».

In questo contesto atomizzazione degli individui, registrato dagli analisti sociali come «individualismo sfrenato», e loro massificazione («siamo diventati materia prima digitale») sono le due brutte facce di una stessa medaglia, e la cosa non può non avere precisi riscontri anche sul terreno della politica e della «psicopolitica», come il filosofo Byung Chul Han ha definito la pratica delle fake news, dei pregiudizi e delle minacce che si fanno l’un contro l’altro armati (per adesso solo di computer) gli «atomi digitali».

«La storia principale è che non si tratta tanto della natura della tecnologia digitale quanto di una nuova forma mutante di capitalismo che ha trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi. Il nome che Zuboff ha dato alla nuova variante è il “capitalismo di sorveglianza”. Funziona fornendo servizi gratuiti che miliardi di persone utilizzano allegramente, consentendo ai fornitori di tali servizi di monitorare il comportamento di tali utenti in modo sorprendente – spesso senza il loro esplicito consenso». J. Naughton, (The Guardian) Ma a ben vedere, da che esiste il moderno Capitalismo «la storia principale» non è mai stata, in primo luogo, la «natura della tecnologia», quanto soprattutto il suo uso capitalistico. Non è che il capitalismo dei nostri giorni ha finalmente trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi, una lettura piuttosto ingenua (a testa in giù, avrebbe detto Marx) dei processi sociali cui assistiamo su scala planetaria; è che il Capitale come peculiare rapporto sociale produce sempre di nuovo la tecnologia a immagine e somiglianza della sua insaziabile fame di profitto. Il Capitale promuove la ricerca scientifica per espandere continuamente il suo potere di dominio sugli uomini, sulle cose e sugli animali: l’ha sempre fatto e continuerà a farlo in modo sempre più stringente, capillare, razionale, scientifico, in una sola parola: disumano.

A proposito di animali! Dall’Internet degli uomini siamo passati all’Internet delle cose, e adesso è il momento, appunto, dell’Internet degli animali: «Le mucche sono un buon esempio di queste opportunità. Usando il sistema di monitoraggio di Estrus di Huawei per connettere una mucca a Internet, gli allevatori possono controllare meglio la salute dell’animale e il tempo di deposizione dello sperma, consentendo al tempo stesso una maggiore libertà di vagabondare senza preoccuparsi del pericolo. Utilizzando la rete NB-IoT, il dispositivo di monitoraggio della vacca può funzionare per cinque anni con una batteria 5400mAH. Ci sono ovviamente altri benefici per l’animale e l’agricoltore, e Hu ha evidenziato che ogni vacca collegata nello studio ha fruttato 420 dollari extra per l’agricoltore nella produzione di latte» (J. Davies, Telecoms). Sono davvero commosso per i «benefici» arrecati dalle nuove tecnologie intelligenti agli animali manipolati dal Capitale . Scrive Ugo Bertone: «Non meno impegnativa la scommessa di Wang Yufeng: connettere, entro il 2025, un miliardo di vacche. Un’impresa faraonica ma inquietante: dalle vacche agli uomini il passo può essere breve» (Il Foglio). Ma il passo è già stato compiuto: tutti siamo connessi in qualche modo alla rete capitalistica! Per Wang Yufeng, responsabile degli X Lab di Huawei, «Negli ultimi venti anni i progressi della tecnologia ci hanno permesso di connettere gli esseri umani. Ora ci prepariamo al passo successivo: vogliamo che sia l’intelligenza artificiale a prendere il controllo del mondo fisico. Droni e robot devono essere connessi e autonomi. La parola d’ordine è connettività per tutti» (Il foglio). Ecco, appunto.

Detto en passant, la vacca “intelligente” mi ha fatto venire in mente un passo marxiano, questo: «Il capitale preso nell’unico rapporto in cui genera plusvalore […] smunge plusvalore tramite la costrizione fatta sulla forza lavorativa, vale a dire sull’operaio salariato» (3). Smunge… Sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici la vacca “intelligente” e l’operaio salariato condividono lo stesso pessimo destino.

«Le aziende hanno deciso che siamo gratis, cioè che possono prendere la nostra esperienza gratuitamente e tradurla in dati comportamentali. Così siamo diventati la loro materia prima» (S. Zuboff). La tecnoscienza è sempre stata al servizio del Capitale, che se ne serve per rendere più produttivo il lavoro, per inventare a getto continuo nuove e più promettenti occasioni di profitto, per fare della stessa esistenza degli individui un bio-mercato, per trasformare ogni cosa in una risorsa economica: dal “capitale tecnoscientifico” al “capitale umano”, dal “capitale natura” al “capitale cultura”, e via di seguito – una via che conduce ossessivamente l’umanità in direzione del denaro, il Moloch che decide la vita di tutti i suoi sudditi. Per dirla con Jamie Davies, «La tecnologia è il burattino, ma il capitalismo di sorveglianza è il burattinaio». Non c’è dubbio: il «burattinaio» è il Capitale.

«Il capitalismo della sorveglianza ha preso l’esperienza umana e l’ha trasformata in qualcosa da comprare e vendere sul mercato» (S. Zuboff). Proprio così. Mercificare l’intero spazio esistenziale degli individui è sempre stato un imperativo categorico per il Capitale, e nel XXI secolo questo principio si mostra assai più che nel passato nella sua radicale essenza disumana. Il nostro stesso corpo (nella sua totalità e unità psicosomatica) sta diventando una sorta di touch screen a disposizione del Capitale. Ma la “colpa” non è della tecnoscienza che avrebbe reso possibile la realizzazione della cattiva ”utopia” capitalistica, ma del Capitale, il quale per un verso orienta la tecnoscienza in direzione di invenzioni che – ovviamente – sorridono ai suoi interessi, e per altro verso ha acquisito nel tempo la capacità di sfruttare ogni invenzione e ogni evento che non ne mettono in discussione l’esistenza in un’occasione, prima solo potenziale e presto o tardi fattuale, di profitto. È nella maligna (disumana) natura del Capitale muoversi in quel modo, ed è quindi ingenuo attendersi da questa società altro che una sua totale mercificazione (a iniziare dalle attività lavorative) e una sua trasformazione in una gigantesca (planetaria!) occasione di profitti per chi ha la fortuna di poter investire capitali in qualche business. Più che di Intelligenza Artificiale dovremmo piuttosto parlare di Intelligenza del Capitale.

Qui parlo di Capitale in primo luogo come rapporto sociale e come potenza sociale che, marxianamente, domina sulla vita di tutti gli individui, i quali non controllano razionalmente le fonti vitali della loro esistenza, ma ne sono piuttosto controllati. Chi paventa il «potere autonomo delle macchine» non si accorge che quell’autonomia fa capo al Moloch capitalistico, il quale si serve appunto delle “macchine intelligenti” per rafforzare, espandere e approfondire sempre di nuovo il suo dominio sugli uomini, sulla natura e sulle cose.

Per Sebastiano Bagnara, docente di Human Factors all’Università di San Marino ed esperto di interazione uomo-macchina, i principi fondamentali della «roboetica, l’etica dei robot» (la quale segna i confini entro cui utilizzare i robot senza perderne il controllo), «erano già impliciti nei principi della robotica di Asimov, il grande romanziere di fantascienza che ne scrisse negli anni Cinquanta: i robot potevano esistere solo al servizio delle persone. Ma sarà sempre così?» (Offida.it). Fin dove è possibile, si chiede sempre Bagnara, spingere l’autonomia delle macchine intelligenti senza correre il rischio, appunto di perderne il controllo e ricevere un danno, anziché un vantaggio, dal loro impiego “a 360 gradi” (dalla produzione di beni e servizi alla produzione di salute, benessere e cultura)? Risposta: «Quello che possiamo fare non è tanto resistere al sistema e uscire dai social media, ma recuperare la dimensione riflessiva del pensiero, non accettare acriticamente ciò che accade e coltivare il dibattito su come vogliamo usare questi software e per quali scopi. Perché esercitare il pensiero aiuta a proiettare anche nuove realtà possibili». La risposta non eccelle per originalità e in linea di principio appare perfino condivisibile, almeno a chi scrive. Ma già l’acritica accettazione del concetto di roboetica la dice lunga su quanto sia oltremodo difficile praticare un pensiero autenticamente critico sull’uso sociale della tecnologia, e su quanto il feticismo tecnologico, che cammina sempre insieme al pensiero reificato, sia profondamente radicato nella nostra testa.

Il linguaggio reificato e feticizzato del XXI secolo trova forse nei discorsi intorno alla cosiddetta “Intelligenza Artificiale” la sua massima espressione. Le macchine non pensano, le macchine calcolano, computano in base a istruzioni (software) e a meccanismi tecnici (hardware) progettati, disegnati, impostati e costruiti dall’uomo per conseguire determinati obiettivi. Si può parlare di “intelligenza” e di “pensiero” artificiali solo al prezzo di stressare oltremodo il linguaggio e di sostituire alla cosa reale (un calcolo più o meno complesso e un movimento elettromeccanico che lo rende possibile e fruibile) un’espressione analogica («la macchina sta pensando») che dice la verità, appunto, solo intorno all’alto tasso di feticismo e di reificazione raggiunto dal pensiero in questo periodo storico.

Come dicevo sopra, tutto il chiacchierare intorno all’Intelligenza Artificiale che rischierebbe di dominare l’umanità cela, e al contempo rivela, il reale dominio delle potenze sociali capitalistiche sull’uomo, il quale non solo non controlla quelle potenze, ma le subisce in un grado sempre più forte e stringente. Il fantascientifico dominio del robot “intelligente” rinvia direttamente al realissimo dominio totalitario del Capitale sugli uomini e sulle cose. Il feticismo si deposita sul linguaggio. Il linguaggio degli algoritmi è al servizio della dura grammatica e della ferrea logica del rapporto sociale capitalistico: altro che “Algocrazia”!

(1) Siamo uomini o “profili”?; Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

(2) Dalla sorveglianza moderna alla New Surveillance: il ruolo delle tecnologie informatiche nei nuovi metodi di controllo sociale.

(3) K. Marx, Il Capitale, III, pp. 1470-1772, Newton, 2005.

DISASTRO CAPITALE

L’età capitalista è più carica di superstizioni di
tutte quelle che L’hanno preceduta. La storia
rivoluzionaria non la definirà età del razionale,
ma età della magagna. Di tutti gli idoli che ha
conosciuto l’uomo, sarà quello del progresso
moderno della tecnica che cadrà dagli altari col
più tremendo fragore (A. Bordiga).

Secondo Jena (La Stampa, 15 agosto) «Alla fine delle inchieste e dei processi si scoprirà che l’unico colpevole è il ponte». Una battuta fin troppo scontata che personalmente non trovo particolarmente arguta né ironica. Il vero dramma sociale che ci tocca vivere è che, «catastrofe evitabile e annunciata»  dopo «catastrofe evitabile e annunciata» (della serie: cornuti e mazziati, il danno e la presa in giro), non viene mai fuori il vero colpevole dei disastri: un sistema sociale orientato ossessivamente al profitto e che subordina al calcolo delle compatibilità economiche ogni attività pubblica e privata.

Non bisogna necessariamente aver letto l’ingegner Amadeo Bordiga per sapere che «è l’affarismo che detta legge alla “scienza” e alla  “tecnica”, pur nascondendosi alle loro spalle e spingendo in primo piano il tecnico, l’esperto, lo specialista» (*); soprattutto quando si tratta di dare in pasto un capro espiatorio all’opinione pubblica colpita dall’immancabile «catastrofe evitabile e annunciata».

Per il capitale è più profittevole la manutenzione di un ponte, di una strada, di una scuola, di una diga, di un palazzo, oppure la costruzione di un nuovo ponte, di una nuova strada, di una nuova scuola e così via? Bisogna vedere! Bisogna calcolare! E il governo in carica, su quali risorse finanziarie può contare per investire nella manutenzione di ponti, strade, scuole ecc.?  Bisogna vedere! Bisogna calcolare! Bisogna stabilire delle priorità! La coperta è sempre corta, per definizione. Soprattutto in Italia, dove i lavori pubblici hanno sempre avuto una chiara connotazione politico-clientelare, con ciò che ne è derivato in termini di efficienza e di produttività sistemica. Il calcolo elettorale sta al centro degli interessi della politica, e insieme al calcolo economico collabora all’irrazionalità generale che spesso provoca i disastri «evitabili e annunciati».

Posti i vigenti rapporti sociali, il calcolo umano è fuori discussione, è una splendida possibilità che attende ancora di trasformarsi in atto, di porsi al cuore di tutte le attività e decisioni umane. Nella bocca dei politici e degli intellettuali che desiderano un Capitalismo a misura d’uomo (sic!), il calcolo umano non è che una squallida menzogna puntualmente svelata dalla realtà dei fatti in ogni ambito di attività.

Leggo da qualche parte: «Anche in questo caso non assuefarsi alla catastrofe, in questo Paese è un imperativo etico che diviene immediatamente un programma politico». Ma non si tratta tanto di «non assuefarsi alla catastrofe», quanto piuttosto di comprenderne l’autentica natura sociale: se non chiamiamo la catastrofe con il suo vero nome (capitalismo tout court), l’«imperativo etico» e l’indignazione possono fondare solo programmi politici idonei a conservare lo status quo sociale, magari “da sinistra” e in guisa statalista. Sai che avanzamento di civiltà!

Forse la profezia della Jena verrà smentita; forse cadranno teste, verrà versato del metaforico sangue, verranno comminate salatissime multe e magari inflitte pene carcerarie (per la gioia dei populisti e dei manettari). Forse. Ma ciò che davvero conta, almeno a mio avviso, è che il Moloch sociale che minaccia permanentemente di divorarci, e che magari decide di ingoiarci con tutte le scarpe dopo  una bella giornata trascorsa al mare, mentre facciamo ritorno a casa (scongiuri autorizzati!); oppure alla fine di un duro turno di lavoro (come sopra), o quando meno ce lo aspettiamo, a tradimento; quel Moloch, dicevo, non verrà nemmeno sfiorato dalle iniziative della politica e dal  potente braccio della Legge, la quale com’è noto non guarda in faccia nessuno. E Nessuno è infatti il nome del Mostro sociale qui evocato. Chi è dunque il colpevole dell’ennesimo disastro «evitabile e annunciato»?

(*) A. Bordiga, Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale, p. 6, Iskra, 1978.

APPESI ALLE OPPOSTE “EVIDENZE SCIENTIFICHE”. Una questione di metodo a proposito di global warming.

Come orientarsi nel guazzabuglio delle opposte “evidenze scientifiche” che si confrontano sul cosiddetto global warming? Personalmente non sostengo un atteggiamento scettico sulla scottante questione, ma un atteggiamento critico orientato politicamente. Perché al di là di tutte le opposte “evidenze scientifiche” che ci vengono propinate da tutte le parti una cosa è sicura, almeno per chi scrive: la posta in gioco non è la salvezza del pianeta ma la salvezza del Capitalismo. Si può anche obiettare che le due cose non si escludono a vicenda e che anzi esse combaciano perfettamente, posta la dimensione planetaria assunta dall’economia capitalistica; l’obiezione, tutt’altro che infondata, ci aiuta quantomeno a comprendere i reali (storici e sociali) termini della “problematica”, liberandola da quella discussione metafisica nella quale è sequestrata.

Il catastrofismo apocalittico sul global warming, ad esempio, ci suggerisce, più o meno esplicitamente, di abbandonare le “vecchie” categorie che fanno capo a una concezione classista della società, la quale appare insignificante se guardata dalla prospettiva della salvezza del pianeta, senza la cui sopravvivenza non sarebbe possibile alcun tipo di futuro per la nostra specie e per ogni altra specie animale e vegetale. Ancor prima di essere capitalisti, lavoratori, disoccupati e quant’altro siamo anzitutto esseri umani, e in quanto tali abbiamo delle responsabilità nei confronti del nostro pianeta; lo dice anche la Bibbia: «Dio il Signore prese dunque l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perché lo lavorasse e lo custodisse» (Genesi). Il 2 giugno il Presidente Mattarella ha detto che dobbiamo considerare il pianeta che ci ospita come la nostra vera Patria, provocando, a quanto pare, in Laura Boldrini un’estasi mistica senza precedenti. Non so perché ma tutti questi discorsi politically correct di stampo francescano sulla Terra non mi convincono affatto, anche perché il giardino dell’Eden non conobbe mai la maligna divisione classista degli uomini. Si scherza, Francesco, si scherza!

Essendo un anticapitalista radicale non solo non avrei alcun interesse a mettere in questione le tesi di chi pone in diretto rapporto, ossia in una stringente relazione di causa-effetto, le attività industriali (con la conseguente produzione/emissione di CO2 e di altri “gas serra”) con i cambiamenti climatici, ma avrei all’opposto tutti i titoli, diciamo così, per cavalcarle selvaggiamente, quelle tesi, al fine di dimostrare l’inevitabile insostenibilità ambientale, oltre che umana, della vigente società capitalistica, la quale nel XXI secolo ha appunto la dimensione dell’intero pianeta. Il fatto che l’economia basata sul profitto sia oltremodo deleteria per l’uomo e per la natura è una delle pochissime e durature verità che la mia indigente testa è stata in grado di assimilare fin da piccolo. E di questo devo ringraziare soprattutto l’alcolizzato di Treviri, la cui dottrina ha fatto da argine ai liquami ideologici che cercavano di penetrare da tutte le parti nella mia peraltro debole faglia intellettiva.

D’altra parte, come la stragrande maggioranza degli individui che formano la cosiddetta opinione pubblica mondiale anch’io non posso vantare un background di conoscenze scientifiche tale da consentirmi un autonomo potere discrezionale da esercitare nei confronti delle tesi che si confrontano nel dibattito internazionale sui cambiamenti climatici: essi sono dovuti alle “attività antropiche” o a cause naturali? Di più: ma è proprio vero che siamo dinanzi a significativi, cioè scientificamente apprezzabili, cambiamenti climatici? Quello che ho capito districandomi nella complessa “problematica” è che basta aggiungere o omettere una serie di dati considerati graditi/sgraditi per dimostrare la bontà di una tesi (il global warming è reale ed è provocato dalle attività umane ecologicamente insostenibili) e di quella opposta (ancora oggi i mutamenti climatici sono dovuti essenzialmente a cause naturali, a cominciare dall’azione del Sole sul pianeta). Ci si chiede da che parte stare obbligandoci a un atto di fede! E io da che parte mi schiero? Mi viene in mente una vecchia pubblicità: «Fa caldo, fa freddo, fa tiepido». Oggi qualcuno sulla stampa ha scritto che il riscaldamento è globale ma il freddo (soprattutto quello sociale, alleato dei “populisti” alla Trump *) è locale: insomma la confusione, nella testa di molti (a cominciare dalla mia!), è tanta.

Come ho detto, non sono in grado di elaborare sul global warming, come su altre questioni che richiedono una certa competenza scientifica, una mia autonoma posizione che possa definirsi, non dico scientifica, ma quantomeno seria, che non sia cioè solo il frutto del mio narcisistico bisogno di apparire un tuttologo agli occhi del mondo, che peraltro giustamente non si cura di me. Certo, la tentazione “tuttologa” c’è, ed è forte (si nutre anche della mia forte ostilità nei confronti della concezione specialistica dei problemi: solo i medici possono parlare di questo, solo i fisici possono parlare di quello, ecc.), ma cerco di resisterle.

Mi capita spesso di dare ragione all’una o all’altra tesi a confronto in materia di mutamenti climatici in ordine di lettura, di ascolto o di visione: mi convince la tesi “positivista” di chi dimostra oltre ogni ragionevole dubbio la relazione tra emissioni di “gas serra” e riscaldamento del pianeta, e poi, solo dopo pochi minuti, mi lascio convincere dal “negazionista” che dimostra, sempre oltre ogni ragionevole dubbio e sciorinando la consueta messe di inoppugnabili “evidenze scientifiche”, che in realtà non esiste alcuna prova circa quella demoniaca correlazione. La cosa naturalmente vale a parti invertite. Com’è possibile? Chi ha dunque ragione? Qualcuno cerca forse di vendermi del cibo avariato spacciandolo per ottima e freschissima pasta alla Norma? Di sicuro le tesi a confronto non possono essere entrambe vere. Purtroppo, e come ho già confessato, non ho le giuste competenze per dare ragione a una tesi e torto all’altra, e così mi vedo costretto a costruire ponti politico-concettuali, non scientifici (quantomeno nell’accezione comune del concetto di scienza), da gettare in direzione della verità.

So ad esempio che il rispetto ambientale cui debbono attenersi le «attività antropiche» (secondo lo standard internazionale Anti-pollution) sono già da tempo entrate a pieno titolo nelle aggressive strategie concorrenziali delle grandi imprese multinazionali tecnologicamente più avanzate del pianeta: infatti, attraverso le politiche aziendali “rispettose” della sicurezza sul lavoro e dell’ambiente il grande Capitale mette fuori mercato la media e la piccola impresa, ma anche la stessa grande impresa che non riesce a tenere il passo con quelle aggressive e costose politiche “eticamente corrette”. Standard qualitativi e competizione/concentrazione capitalistica sono due facce della stessa medaglia. Lo “scandalo” Volkswagen scoppiato negli Stati Uniti nel 2015 si spiega anche con quanto appena detto. Sul terreno della competizione capitalistica globale anche le benemerite Organizzazioni Non Governative dedite alla salvezza del pianeta stanno dando un notevole contributo.

Vogliamo poi parlare del colossale giro d’affari che c’è dietro al movimento d’opinione mondiale che promuove il superamento delle tecnologie che consumano combustibili fossili? Tifo forse per il carbone, il petrolio e il gas naturale? Ma è proprio l’atteggiamento di tifoseria che contesto! Un atteggiamento a cui ci costringono i padroni del mondo, abbiano o meno essi un’anima “verde” o “nera”, che finanzino lobby del petrolio e del carbone piuttosto che quelle delle pale eoliche e dei pannelli fotovoltaici, ecc. Green o black, per me il Capitalismo ho sempre lo stesso colore, un colore che non mi è mai piaciuto e che, se possibile, mi piace sempre meno, soprattutto nella sua variante “ambientalista”, specchietto per allodole e per mosche cocchiere.

Leggo da qualche parte: «Bisogna decidersi a seguire i messaggi che ci vengono dalla scienza: nessuno ormai è in grado di contestare seriamente che il clima stia cambiando e che la componente antropica sia molto importante, in tale mutamento, benché anche in questo campo qualche “negazionista” ogni tanto si trovi». Perché criminalizzare come «negazionista», con evidente e odiosa allusione a chi nega lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti, chi sostiene tesi contrarie al mainstream sul riscaldamento globale? «È indubbiamente difficile, quest’inverno, convincere la gente che la neve e il freddo degli ultimi giorni non sono che un’altra faccia dello stesso problema, e che tutti i veri scienziati concordano che la temperatura globale si sta alzando». E gli scienziati che sostengono la tesi contraria non sono «veri scienziati»? Posso sbagliarmi, ma nella tifoseria che sostiene il global warming c’è un di più di faziosità fanatica rispetto alla tifoseria opposta, forse perché il ciclopico compito di salvare (nientemeno!) la vita sul nostro pianeta può generare in qualche testa un eccesso di euforia ideologica. Ovviamente do per scontato che il solito zelota ambientalista mi metta fra i “negazionisti” – purtroppo non registrato sul libro paga della demoniaca lobby dei petrolieri.

Una volta Georges Sorel disse che le masse, per produrre eventi socialmente apprezzabili, non hanno bisogno di storia – né di scienza, potremmo aggiungere – ma di miti; ho come l’impressione che anche una certa concezione scientifica, messa al servizio della propaganda politica, possa annoverarsi fra i moderni miti.

A proposito di “negazionisti”! Secondo Antonio Zichichi, celebre fisico e divulgatore scientifico, nonché professore emerito del dipartimento di fisica superiore dell’Università di Bologna, «Occorre distinguere nettamente tra cambio climatico e inquinamento. L’inquinamento esiste, è dannoso, e chiama in causa l’operato dell’uomo. Ma attribuire alla responsabilità umana il surriscaldamento globale è un’enormità senza alcun fondamento: puro inquinamento culturale. L’azione dell’uomo incide sul clima per non più del dieci per cento. Al novanta per cento, il cambiamento climatico è governato da fenomeni naturali dei quali, ad oggi, gli scienziati, come dicevo, non conoscono e non possono conoscere le possibili evoluzioni future. Ma io sono ottimista» (Il Mattino). Beato lui! Scherzi a parte, tutto questo discorrere di climate change rischia di mettere in ombra ciò che è certo, ossia il terribile inquinamento del pianeta ad opera dell’economia basata sullo sfruttamento sempre più intensivo e scientifico di uomini e natura. E infatti, l’aspetto più comico, per così dire, del minacciato ritiro unilaterale degli Stati Uniti dall’intesa sul contenimento delle emissioni (firmata da 195 paesi a Parigi nel dicembre di 2 anni fa) è che la Cina, il cui Turbocapitalismo ha distrutto nel volgere di pochi decenni fiumi, laghi, mari, cieli, boschi, animali e uomini (**), oggi venga annoverata, insieme all’Unione Europea, fra i Paesi-leader del “movimento ambientalista mondiale”! Il premier cinese Li Keqiang ha dichiarato: «Le relazioni tra la Cina e l’Unione Europea devono rimanere stabili e consolidarsi per rispondere all’instabilità di questo mondo. Ciò richiede uno sforzo instancabile da parte nostra». Come si fa a non commuoversi davanti a una siffatta prova di abnegazione nella difesa delle sorti del nostro amato Pianeta?

È appena il caso di ricordare che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso la Cina e l’India accusavano, a ragione dal loro capitalistico punto di vista, i Paesi economicamente e socialmente più avanzati di voler usare le politiche ambientali come una clava per azzoppare le loro ambizioni nazionali. Essi parlavano di «imperialismo ecologico» dell’Occidente – e, in parte, del Giappone. Oggi sono soprattutto i Paesi africani che rivolgono quell’accusa al cosiddetto Primo mondo: «il petrolio e il carbone forse creeranno problemi al pianeta fra un secolo, ma da noi la gente muore di fame oggi, e tutti i giorni». In effetti, come diceva quello, nei tempi lunghi siamo tutti defunti.

Che la vera posta in gioco sul global warming sia di natura economica (industriale, commerciale, tecnologica, scientifica) e geopolitica si evince bene dalla citazione che segue (ma potrei citare altri mille analisti economici e politici): «Premessa personale, per quello che vale. Metterò deliberatamente da parte le mie convinzioni, poiché sono un “ambientalista scettico”, per usare l’arcinota definizione che di sé diede nel 2001 in un famoso libro Bjørn Lomborg, secondo il quale moltissime delle assunzioni sul contributo umano agli andamenti climatici sono forzate e scientificamente non comprovate. Ma se la partita è politica, si può considerare il ritiro americano anche da un altro punto di vista. Cioè come una grande occasione per l’Europa, se seguendo l’impulso di Macron su questi temi decidesse essa di diventare il grande interlocutore di Cina e India. Nessuno può oggi prevedere come reagirebbero i due giganti asiatici al ritiro americano, visti i piani e costi enormi di contenimento delle emissioni e di decarbonificazione in teoria loro richiesti, ma che comunque moduleranno unilateralmente. Se Trump agisce per le vie brevi, facendo bocciare COP21 dal Senato che non l’ha mai ratificato, allora per l’Europa sarebbe necessario uno scatto di reni immediato. Sarebbe però un’ottima cosa: perché trascinerebbe con sé grandi accordi di cooperazione tecnologica e commerciale, energetica e anche di sicurezza comune. È un’idea non troppo utile negli effetti complessivi e molto onerosa se adottata unilateralmente. Ma è al contempo invece una piattaforma interessante, se l’Europa assumesse la decisione di rilanciarla a Cina e India per un grande negoziato comune, basato su strumenti di cooperazione e sostegno, per fare della sostenibilità ambientale in quei giganti mondiali una grande sfida comune tra Europa e Asia. Sarebbe la maniera più intelligente per rispondere a un’America che non crede affatto all’esistenza di un’Europa capace di farsi protagonista internazionale. Ma sarebbe una scommessa interessante dal punto di vista geopolitico, se non vogliamo rassegnarci al ruolo di vasi di coccio tra vasi di ferro» (Oscar Giannino). Anche un «ambientalista scettico» («È un’idea non troppo utile negli effetti complessivi»), un sostenitore senza se e senza ma del liberoscambismo più ortodosso, può dunque tranquillamente sostenere la “rivoluzione ambientale” propugnata da Al Gore e dalla sua benemerita (faccio della facile ironia) compagnia di giro assai politically correct sui temi della sostenibilità ambientale, della pace e la fame nel mondo e su altre magagne oggetto della filantropia progressista. Tra l’altro, la riflessione di Giannino si ricollega alla questione dell’Unione Europea come polo imperialista autonomo di cui scrivevo in un post precedente.

Il vincolo ambientale è un potente fattore di ristrutturazione tecnologica che non può non causare vincenti e perdenti in ogni strato della società: in alto, tra i capitalisti, e in basso, tra i lavoratori. Ed è esattamente ai perdenti della globalizzazione e della “rivoluzione ambientalista” che Trump si rivolge per costruire la sua base sociale-elettorale da mettere al servizio degli interessi di almeno una parte della classe dominante americana.

In una pausa del XIX Forum economico di Pietroburgo, il virile Putin ha fatto dell’ironia (anche lui!) sugli strali che sono piovuti addosso all’amico (?) Trump dopo le sue dichiarazioni sugli accordi “climatici” di Parigi: «Siamo grati al presidente Trump [perché adesso si possono addossare a lui tutte le colpe]. Pare che oggi a Mosca abbia nevicato, qui [a San Pietroburgo] piove, ora si può dare la colpa di tutto a lui, all’imperialismo americano». La battuta putiana coglie bene un aspetto della questione che ormai da vent’anni è oggetto di Conferenze internazionali, dibattiti scientifici, diatribe politiche, battaglie culturali, giganteschi finanziamenti: la fortissima carica ideologica che contraddistingue il movimento ecologista più organizzato e militante. Alcuni analisti attribuiscono questo fatto a quei “comunisti” che dopo la caduta del Muro di Berlino, presi dal più cupo sconforto ideologico, riversarono il loro viscerale “anticapitalismo” appunto sul movimento ecologista.

Le attività industriali causano il global warming? Benissimo! Cioè malissimo: urge la rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale! Le   attività industriali solo in minima parte sono responsabili del global warming? E chi se ne frega! In ogni caso urge la rivoluzione sociale anticapitalistica mondiale, semplicemente perché il Capitalismo è insostenibile da tutti i punti di vista, a cominciare da quello squisitamente umano. Senza contare l’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei mari e dei cieli che nessuno nega, così come nessuno nega la deforestazione e la desertificazione di intere aree del mondo dovute allo sfruttamento capitalistico delle risorse umane e naturali. In ogni caso, come scrive Giannino «la partita è politica», e in quanto tale ognuno è titolato a dire la sua sul global warming come su qualsiasi altra questione che tocca la nostra vita.

 

(*) «Non esageriamo con questa storia della reductio ad Hitlerum di Trump. Anche Hitler era un cialtrone, ma purtroppo per noi e per sei milioni di ebrei d’Europa era un cialtrone ben organizzato, e si appoggiava su cose vere come l’umiliazione tedesca dopo la guerra e in conseguenza dei gravami imposti alla Germania, aveva alle spalle l’invenzione del fascismo italiano, l’inflazione alla venezuelana della Repubblica di Weimar, il mito della razza e il mito del Reich. Trump cazzeggia su Pittsburgh» (Il Foglio). Si tratta del primo gesto di distensione dell’Elefantino nei confronti del fin qui disprezzato Trump?
(**) Rimando a un mio post del 2013 Sui villaggi del cancro in Cina, ossia la sostenibilità con “caratteristiche cinesi”.

Leggi anche:

Salvare il pianeta! Ma da quale catastrofe esattamente?; Aspettando il giorno del giudizio; Capitalismo e termodinamica. L’entropia (forse) ci salverà; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

SUL POTERE SOCIALE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA (III)

c30bfcf102b3ec973f9c6f2ff67a51c5Alcune riflessioni intorno alla natura storico-sociale della scienza e della tecnologia, sul concetto di uso capitalistico delle macchine, sul “neoluddismo” e sulla possibilità di una scienza e di una tecnica pienamente – o semplicemente – umane.

1.
Capitalismo selvaggio, capitalismo neoliberista, turbocapitalismo, finanzcapitalismo, capitalismo cognitivo, capitalismo delle piattaforme: queste e molte altre definizioni mostrano, a mio avviso, quanto sia difficile per certi critici dell’economia politica dei nostri tempi comprendere il carattere dinamico e rivoluzionario (nell’accezione rigorosamente marxiana del concetto esposta dal comunista tedesco soprattutto ne L’ideologia tedesca e nel Manifesto del partito comunista) la mostruosa Cosa capitalistica.

Con l’ascesa al potere del “populista” Trump nella prima potenza capitalistica del pianeta, nei think tank più quotati del pianeta e sui media basati ovunque nel mondo si favoleggia di un – impossibile – «ritorno indietro» sul terreno della competizione economica, come se la tanto discussa (ma evidentemente poco compresa), osannata o deprecata “globalizzazione” fosse stata non più di una moda. Com’è noto, le mode vanno e vengono: ieri si era politicamente trendy indossando la globalizzazione mentre oggi si porta meglio il protezionismo e il sovranismo economico. In realtà siamo dinanzi a una nuova stagione interna al processo di globalizzazione (che va considerato in primo luogo come espansione della “logica del profitto” in ogni ambito della società-mondo, ossia come dominio globale o totale del Capitale), e la politica è chiamata a farsi carico di implementare le strategie più adeguate alla nuova situazione, sia per servire al meglio il Capitale (“nazionale” e “internazionale”), sia per gestire nel modo più efficace possibile le vecchie e le nuove contraddizioni sociali.

Molti economisti, anche (o forse sarebbe più corretto scrivere soprattutto) di orientamento “marxista”, hanno la pretese di poter catturare in un metaforico scatto fotografico singoli momenti e “stati d’animo” della Cosa capitalistica, quando appare ormai oltremodo evidente come non sia sufficiente nemmeno la tecnica cinematografica più moderna a cogliere l’essenza della sua natura. A tal proposito, la suggestione che andrebbe a mio avviso “cavalcata” è quella che ci suggerisce il concetto freudiano di analisi del profondo: cerchiamo di gettare lo sguardo, se così posso esprimermi, nelle profondità abissali della Cosa; certo, muovendo da ciò che si agita alla sua superficie, ma ben sapendo che essa è plasmata sempre di nuovo da forze “telluriche” che non riusciamo ad apprezzare immediatamente. Il rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento (senza l’uno non esisterebbe l’altro, e viceversa) costituisce in sé la più grande, e di gran lunga, di quelle forze, e ciò ci riporta alla funzione e alla natura della tecnoscienza, la quale, come ho avuto di dire nelle precedenti “puntate”, rappresenta lo strumento più potente che ha a disposizione il Capitale.

«Ho fotografato le persone dalle montagne per mostrare quanto siamo piccoli e insignificanti nei confronti della natura. La scala della natura ci rimpicciolisce»: così ha dichiarato qualche giorno fa il fotografo polacco Jakub Polomski, «specializzato in fotografie di paesaggi e viaggi». È però sulla scala della società che dobbiamo misurare la nostra statura esistenziale come esseri pienamente – o semplicemente – umani. È dalle profondità della società, non certo dalle vette delle montagne, che dobbiamo guardare e considerare il “piccolo uomo” che popola il pianeta. «Ho guardato le persone dal punto di vista della possibilità, e sono rimasto inorridito»: così scriverebbe, forse, un immaginario esploratore del futuro (1).

Come illustro nel post Marx e la sharing economy, gli economisti di orientamento liberista più intelligenti non fanno fatica a cogliere nel pensiero “economico” marxiano ciò che lo rende perfettamente adeguato nella lettura dei rivoluzionari cambiamenti che stanno sconvolgendo la struttura tecnologico-organizzativa del capitalismo dei nostri giorni. Un solo esempio: «Il caro vecchio Marx, verrebbe proprio da dire, insieme all’altro caro vecchio Friedrich Engels, ha scritto e previsto nel Manifesto del partito comunista proprio quello che sta accadendo oggi, e forse, lo dico senza alcuna polemica, andrebbe riletto soprattutto da chi ha fatto nascere il partito della sinistra italiana, perché nel Manifesto del partito comunista si legge che “Il continuo sconvolgimento della produzione comporta la dissoluzione di tutti i rapporti stabili e irrigiditi con il loro seguito. Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione e con le comunicazioni rese infinitamente più agevoli, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni anche le più barbare, costringe tutte le nazioni ad adottare il suo sistema di produzione se non vogliono andare in rovina, in una parola”, scrivono ancora Marx ed Engels, “la borghesia si crea un mondo a propria immagine e somiglianza e lo impone a tutti”» (2).

Altre volte ho sostenuto che, a mio avviso, Marx non fu mai un progressista, ossia un apologeta del Progresso. Chi (ambientalisti, teorici della decrescita più o meno “felice”, ecc.) ha voluto vedere nella sua teoria critica della società capitalistica un vizio d’origine di matrice progressista (e “sviluppista”) non ha tenuto conto né del grado di sviluppo, ancora relativamente arretrato del capitalismo (che occorre sempre considerare sulla scala mondiale) del suo tempo, cosa che, ad esempio, ha fatto sì che i progressisti russi della seconda metà del XIX secolo recepissero Il Capitale marxiano alla stregua di una «Bibbia del Capitalismo» (3); né del significato profondo, che a mio avviso è più valido nel XXI secolo che nel XIX, della critica marxiana del feticismo tecnologico (la cosa tecnologica che assume la parvenza di un rapporto sociale) e del socialismo «piccolo-borghese»,  che Marx giudicava ultrareazionario perché gli appariva con la testa rivolta all’indietro. Ma è sufficiente leggere le sue opere in modo “intellettualmente onesto”, e con quel senso storico che non deve mai mancare a chi intende comprendere il nocciolo essenziale di una tesi scientifica e politica, per rendersi conto di come in esse non vi sia traccia di un’acritica e apologetica esaltazione del Progresso, e come anzi vi sia la puntuale denuncia del “risvolto dialettico” di quello stesso Progresso. Un “risvolto” che, ad esempio, ci parla di lavoratori costretti a piegarsi ai ritmi implacabili delle macchine: il lavoratore non è più che una semplice appendice “umana” della macchina che egli usa (4). Né poteva essere diversamente per il comunista che dedicò tutta la sua vita a dimostrare e a denunciare il carattere necessariamente disumano del capitalismo.

E questa riflessione “a discolpa” vale anche, e direi soprattutto, sul versante del colonialismo, che Marx non appoggiò mai sul piano politico quale strumento “oggettivo” di progresso per quelle aree del mondo non ancora assoggettate ai nuovi rapporti sociali capitalistici. Anche sul terreno dell’espansione coloniale del capitalismo Marx si mosse al solito modo: denuncia e condanna più feroce dello sfruttamento capitalistico (5) e irrisione nei confronti di chi idealizzava le società precapitalistiche, come se al loro interno non vi fossero ingiustizie, sfruttamento, miseria, violenza, dominio di classe. Pensiamo al caso della società indiana del XIX secolo (6). Marx comprese che la Cosa capitalistica, una volta comparsa in un punto importante del pianeta (l’Europa, qui genericamente intesa), non avrebbe potuto più essere arrestata a causa della sua potenza espansiva e rivoluzionaria (sempre nella solita accezione critica), e che dunque bisognava, per un verso organizzare la difesa delle classi subalterne (sviluppo del sindacalismo, eccetera), e per altro verso pensare e organizzare la nuova rivoluzione sociale, quella anticapitalistica, nel Primo mondo come nell’Ultimo. Com’è noto, per il comunista Tedesco i due momenti (difesa e attacco) erano parti di una sola strategia rivoluzionaria – le lotte “economiche” come «palestra di comunismo». Non si trattò dunque per Marx né di fatalismo, né di determinismo, e nemmeno di un vizio teleologico, ma appunto di una comprensione profonda del nuovo modo di produrre e appropriarsi la ricchezza sociale. Non è intelligente attribuire al medico la causa della malattia che egli ha scoperto nel paziente.

Dinanzi al doloroso «spettacolo della disgregazione di un mondo antico», Marx affermò l’idea che l’umanità di tutto il mondo dovesse superare la dimensione classista del pianeta andando avanti, in direzione di rapporti sociali pienamente – o semplicemente – umani, lasciandosi una volta per sempre alle spalle ogni forma di dominio e di sfruttamento. I teorici della difesa delle cosiddette identità (nazionali, culturali, linguistiche, religiose, ecc.) sorvolano su un punto che a me pare dirimente: il fondamento classista su cui quelle identità si sono sviluppate. Personalmente sono pronto a sacrificare qualsiasi “identità” sull’altare dell’emancipazione del mondo da ogni forma di divisione classista (o “professionale”) degli individui.

Mentre disprezzava gli esponenti del «socialismo piccolo-borghese», appunto perché essi idealizzavano o forme decisamente precapitalistiche di produzione, oppure forme superate di capitalismo, e che di fatto vagheggiavano impossibili ritorni indietro, Marx teneva invece in grande considerazione quegli esponenti della scienza economica borghese che senza infingimenti né inutili – e spesso falsi – moralismi dimostravano, ad esempio, la necessità dell’uso delle macchine e della razionalità scientifica nel processo produttivo. Per questa ragione nelle pagine del Capitale dedicate alla «produzione del plusvalore relativo» trova posto l’apologia del sistema di fabbrica contenuta nell’opera del medico scozzese Andrew Ure, La filosofia delle manifatture (1835). Anche questo è stato letto da molti critici superficiali (e volgari!) dell’anticapitalista Tedesco come prova del suo «vizio Progressista». Il fatto è che il cinismo della realtà si esprime meglio nei sostenitori dichiarati e soddisfatti di questa realtà, che nell’insulso piagnisteo e nelle chimere riformiste dei passatisti e dei moralizzatori d’ogni tipo e colore politico-ideologico.

Non scrivo queste cose per amore di ricostruzione storica, né per difendere Marx da accuse che ritengo infondate, sia perché, come ho scritto altre volte, il barbuto si difende benissimo da solo attraverso le sue opere, sia, soprattutto, perche sarei un pessimo avvocato per qualsiasi causa, compresa la mia. Ho cercato piuttosto di esporre, nel modo che mi è più congeniale, il mio punto di vista sulla dialettica del Progresso, la quale, credo, ha molto a che fare con il tema posto in questo scritto. Ciò che ho sostenuto e che sosterrò dovrà dunque essere attribuito esclusivamente al mio modesto cervello, le cui insufficienze, d’altra parte, difficilmente potrebbero essere nascoste dietro la barba dei giganti del pensiero rivoluzionario: magari fosse possibile una simile astuta magia!

2.
Scriveva Simone Weil: «Tutti i problemi della tecnica e dell’economia debbono essere formulati in funzione di una concezione generale circa le migliori condizioni possibili del lavoro. Una tale concezione è la prima norma; tutta la società dev’essere anzitutto costituita in modo che il lavoro non tenda a degradare coloro che lo compiono. Non basta evitare le loro sofferenze, bisognerebbe volere la loro gioia» (7). Sottoscrivo. Volere la gioia di chi lavora significa, per come la vedo io, volere l’umanizzazione del lavoro, con ciò che questo presuppone e pone sul piano della storia e della prassi sociale.

Anche grazie al pessimo esempio offerto dalla Russia stalinista degli anni Trenta, Paese a Capitalismo di Stato che praticava e santificava lo sfruttamento intensivo dei lavoratori (vedi lo stacanovismo) in vista di una sua industrializzazione a tappe forzate/accelerate e di una sua rapida ascesa imperialista, l’intellettuale francese spezzò lo stretto e profondo legame che stringe insieme le forme tecno-scientifiche della produzione e il rapporto sociale capitalistico. Come altri intellettuali umanamente sensibili del suo tempo, anche profondamente influenzati dagli scritti di Marx (poi in qualche modo da essi coinvolto nel disastro “comunista”), la Weil elaborò un concetto di Civiltà industriale (o sistema autoritario delle macchine e dell’organizzazione del lavoro) che prescindeva dalla – supposta – divisione del mondo in Paesi capitalisti e Paesi socialisti. «Una fabbrica è esattamente fatta per produrre. Gli uomini son là per aiutare le macchine a far nascere ogni giorno il più gran numero possibile di prodotti ben fatti e a buon mercato. Ma d’altra parte, quegli uomini sono uomini; hanno bisogni, aspirazioni da soddisfare che non coincidono necessariamente con le necessità della produzione e anzi, in realtà, quasi sempre non vi coincidono affatto. È questa una contraddizione che il mutamento di regime non eliminerebbe. Ma noi non possiamo ammettere che la vita degli uomini sia sacrificata alla fabbricazione dei prodotti. Se domani i padroni saranno cacciati, se si collettivizzassero [qui l’allusione all’Unione Sovietica è abbastanza esplicita] le fabbriche, ciò non muterà in nulla questo problema fondamentale»; «Che il direttore di Rosières [si tratta di officine meccaniche] sia agli ordini di un amministratore delegato o agli ordini di un “trust di Stato” sedicente [brava!] socialista, la sola differenza consisterà in questo: che nel primo caso la fabbrica, la polizia, l’esercito, la prigione, ecc. saranno in mani diverse, e, nel secondo caso, nelle medesime mani. L’ineguaglianza nei rapporti di forza non sarebbe quindi diminuita, bensì accentuata» (8). Nella precedente “puntata” ho criticato il concetto di società industriale inteso ad accomunare il conclamato capitalismo occidentale con il falso socialismo (più o meno “reale”) di Paesi come la Russia, la Cina, la Jugoslavia e così via.

Com’è noto, negli anni Quaranta del secolo scorso anche Martin Heidegger pose sullo stesso piano americanismo, bolscevismo e, da ultimo, lo stesso nazismo, concepiti come manifestazioni dell’epoca della tecnica. In realtà la comunanza tra quei diversi regimi politici andava ricercata non sul terreno tecnoscientifico, ma su quello inerente alla natura sociale (capitalistica e imperialistica) di quei tre regimi. Il concetto fondamentale non era – e non è – l’epoca della tecnica, ma l’epoca del Capitale, trionfante ovunque nel mondo. Personalmente credo che questo grave errore di prospettiva storica, spiegabile con la paradossale vicenda russa (una controrivoluzione che si afferma come rivoluzione capitalistica guidata da un partito che si proclamava comunista: ce n’era abbastanza da confondere le idee agli stessi protagonisti della vicenda!), abbia giocato brutti scherzi all’elaborazione filosofica di molti intellettuali sensibili al rapporto uomo-tecnoscienza. «Il bolscevismo è solo una variante dell’americanismo», scrisse nel 1942 Heidegger; in effetti, considerati dal loro fondamento “strutturale”, entrambi i regimi possono essere definiti come varianti nazionali del Capitalismo mondiale colto nelle sue diverse fasi di sviluppo e di radicamento geoeconomico. Chi conserva ancora qualche briciolo di simpatia per la Russia di Stalin giustamente non può non rabbrividire dinanzi alla mia tesi: ragione di più per difenderla, almeno per chi scrive.

Scrivono Gianni Vattimo e Massimo Zucchetti: «Bertholt Brecht sentì la necessità di modificare una delle scene finali del suo dramma “Vita di Galileo”. In un primo tempo, l’autore aveva messo in rilievo il fatto che la Scienza si presentava come un formidabile strumento di progresso, capace di distruggere le superstizioni, con l’aiuto delle quali i potenti tengono incatenati gli schiavi. Dopo Hiroshima e Nagasaki, Brecht ritenne doveroso precisare che non è la scienza in sé ad essere fattore di progresso, bensì l’uso sociale che viene fatto di essa. Gli scienziati, dunque, devono farsi carico di una precisa responsabilità etica circa l’uso delle proprie scoperte, pena il loro drammatico allontanamento dalla società umana, e la loro trasformazione in una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo, pur di “poter fare ricerca”» (9). A mio avviso non ha nemmeno senso parlare di scienza e di scienziati se non in intima connessione con una peculiare prassi sociale colta nella sua compatta totalità. Non si deve dunque parlare tanto di uso sociale della scienza, ma piuttosto di natura sociale della scienza, per poi arrivare all’analisi del suo uso; si tratta insomma di analizzare criticamente il modo in cui ciò che chiamiamo prassi scientifica si esplica nelle diverse epoche storiche. È la natura sociale della scienza che getta luce sul suo uso (si tratta quindi sempre di un uso socialmente orientato), e comprendere ciò ci evita, tra l’altro, di perdere tempo in ingenui quanto inutili suggerimenti eticamente corretti (del tipo: non tutto quello che è materialmente fattibile dev’essere fatto, monito oggi rivolto soprattutto alla scienza che sviluppa le biotecnologie) elargiti alla comunità scientifica. Non esiste insomma una scienza astrattamente intesa, una scienza buona per tutte le epoche storiche e per tutte le società. C’è stata una scienza “antica” (si pensi all’Egitto, alla Grecia e a Roma), una scienza medioevale, una scienza “occidentale”, una scienza “orientale”; oggi c’è una scienza capitalistica (ossia promossa dal Capitale, fatta a sua immagine e somiglianza) e forse non ci sarà mai una scienza umana, cioè a dire una scienza promossa da una Comunità Umana, da interessi, bisogni e sogni concepiti umanamente.

Come ricordano Vattimo e Zucchetti, una volta Heidegger ebbe a dire che «La scienza non pensa»; io trovo particolarmente azzeccato questo giudizio, ma in un modo che sicuramente il filosofo tedesco non avrebbe condiviso. In effetti, la scienza contemporanea non ha il compito di pensare, ossia di porsi problemi generali che afferiscono alla società considerata globalmente, e questa incombenza solo formalmente – e sul piano della mistificazione ideologica – spetta alla sfera della soggettività politica, la quale chiama in causa in primo luogo lo Stato, a cui spetta il compito di controllare quanto accade nella «società civile» allo scopo di favorire ciò che rafforza lo status quo e reprimere invece ciò che in qualche modo lo indebolisce o lo minaccia. Di fatto questo pensare sociale si realizza attraverso l’azione di una serie quasi illimitata di attori (“privati” e “pubblici”, informali e istituzionali, nazionali e internazionali) che inseguono lo stesso obiettivo: il successo dell’investimento in un’impresa di qualche tipo: industriale, commerciale, finanziaria, scientifica, tecnologica, militare. Insomma, il “pensare socialmente” si realizza post festum, alle spalle di tutti i protagonisti della prassi sociale, soggettività politica compresa, ossia come prodotto finale di attività che in ogni caso devono fare i conti con l’entità, per così dire, che in ultima istanza rende possibile ogni genere di iniziativa: il Capitale, appunto. Detto in altri termini, «la scienza non pensa» semplicemente perché a pensare… ci pensa il Capitale!  Oppure si può anche dire che la scienza odierna pensa con la testa – o con la mediazione degli interessi – del Capitale, e sotto questo aspetto il concetto di Intelligenza Artificiale rinvia a una realtà sociale che i feticisti della tecnoscienza nemmeno immaginano. “Intelligente” non è la tecnologia, ma il Capitale, questa «potenza ostile ed estranea al di sopra degli uomini» (Marx). Mi rendo perfettamente conto di aver disegnato un vero e proprio circolo vizioso concettuale, ma ancorché concettuale il circolo vizioso è, a mio avviso, soprattutto sociale; esso non sta tanto nella testa di chi scrive ma nella prassi sociale di cui tutti siamo attori.

Scriveva Heidegger: «A fronte di […] concezioni per le quali la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo ha nelle sue mani, sta il punto di vista secondo cui la tecnica, nell’essenza, è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare». Ma noi non abbiamo a che fare con una generica umanità (né con una generica tecnica); non ci confrontiamo con un insuperabile limite antropologico, perché solo sotto determinate condizioni storico-sociali 1) la creazione sfugge al controllo del creatore e 2) il pensiero razionale si trasforma in una tecnica di dominio e di sfruttamento – della natura e dell’uomo. Ci confrontiamo insomma con limiti e contraddizioni storico-sociali che sono suscettibili di superamento. L’uomo non domina la tecnica (ma ne è anzi dominato) perché non domina, per l’essenziale, il processo di produzione della sua esistenza “materiale” e “spirituale”, e sarà così fino a quando a dominare la sua esistenza saranno gli interessi economici – la ricerca del profitto, in primis. In questo senso sono completamente infondate le due tesi presentate da Heidegger.

«Tutto funziona; e questo è appunto l’inquietante, che tutto funziona e che questo funzionare spinge sempre verso un ulteriore funzionare e la tecnica strappa sempre più l’uomo alla terra. Non so se Lei si è spaventato», dichiarava Heidegger al suo intervistatore nel 1968, «in ogni caso io lo sono stato appena ho visto le fotografie della terra scattate dalla luna. Lo sradicamento dell’uomo dalla terra è già effettuato, non c’è bisogno della bomba atomica. Tutto ciò che resta non è altro che una situazione puramente tecnica». Qui il filosofo di Meßkirch esprime con grande efficacia il senso di impotenza e di rimpicciolimento degli individui (vedi le foto del citato Jakub Polomski), il dolore per la perdita di ciò che di umano residua nella loro vita; ma lo fa muovendo da una posizione che deve pagare un prezzo salato alla concezione feticistica della tecnologia. «Quanto alla filosofia», conclude Heidegger, «essa non potrà produrre nessuna immediata modificazione dello stato attuale del mondo. E questo non vale solo per la filosofia, ma per tutto ciò che è mera impresa umana. Ormai solo un dio ci può salvare» (10). E allora siamo messi proprio male!

Scherzi a parte, a mio modesto avviso solo l’umanizzazione dell’intera esistenza degli individui può salvarci, cosa che postula come assoluta necessità il trionfo della rivoluzione sociale su scala mondiale. Non vedo alternative, per quanto mi sforzi. Sarà un limite della mia intelligenza, ma è così. Qualcuno potrebbe obiettarmi che se fosse vero quel che sostengo, considerata l’odierna impotenza delle classi sociali che avrebbero l’interesse a promuovere una rivoluzione anticapitalistica appare più realistica la battuta di Heidegger. Non sono il più titolato a replicare a questa obiezione, né vorrei deprimere ulteriormente il morale di chi auspica un pronto risveglio della lotta di classe rivoluzionaria. Penso però che un pensiero autenticamente critico-rivoluzionario non solo non possa sorvolare o sottovalutare quella condizione di impotenza, ma debba anzi metterla al centro della propria riflessione per indagarne a fondo cause e manifestazioni, non per masochismo ma per amor di verità. D’altra parte solo la verità, oggi così dolorosa e penosa da accettare, può dirci qualcosa di veramente fecondo anche sul terreno della prassi, e personalmente è in questi termini che “declino” la celebre tesi leniniana: «La verità è rivoluzionaria».

Pensare responsabilmente ed eticamente per me significa pensare la fuoriuscita dell’umanità dalla società che conosce la divisione classista degli individui e, necessariamente, i rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Porsi seriamente il problema di un uso umano della tecnoscienza (o, più esattamente, dell’umanizzazione della tecnologia e della scienza) significa porre immediatamente il problema del superamento rivoluzionario – non conosco altre forme di suo oltrepassamento – del capitalismo. In molti scritti ho sostenuto che la dialettica tra dominio e liberazione, tra realtà e possibilità, tra presente e futuro è radicata non solo nella testa di chi crede appunto possibile, oltre che auspicabile, una generale emancipazione degli individui dalla dimensione storica del dominio classista, ma anche nel lungo processo sociale che ci sta alle spalle e in quello che genera sempre di nuovo il presente. D’altra parte, cercando di evitare equivoci per così dire teleologici, ho sempre posto l’accento sul carattere possibilistico, per così dire, e non deterministico, del futuro auspicato dai militanti del punto di vista umano. La possibilità è radicata nell’attualità: come bisogna interpretare questa affermazione? In questo senso: la situazione materiale (economica, tecnologica, scientifica) lascia capire, e non solo immaginare o fantasticare, come sia possibile già oggi un assetto sociale mondiale in grado di mettere tutti gli individui (miliardi di persone) nelle condizioni di non patire più la fame, il freddo, le malattie, le guerre; e di lavorare tutti pochissimo e con un affaticamento fisico, intellettuale e psicologico “umanamente accettabile”.

La contraddizione tra obesità e anoressia, da una parte del pianeta, e la morte per fame e per sete, dall’altra (che minaccia ogni giorno quelli che nascono nella “parte sbagliata” del mondo); tra estrema ricchezza ed estrema povertà, tra i pochissimi che detengono la ricchezza sociale mondiale e i tantissimi che per sopravvivere devono sgobbare molto, in una fabbrica o in un ufficio, in un campo di rose da esportazione in Africa o in un call center basato a Napoli o a Colombo; tra risorse umane, finanziarie, scientifiche e tecnologiche investite, ad esempio, nell’esplorazione dello “spazio profondo” (alla ricerca dell’Energia Oscura e della Forza Oscura) e un sempre più magro welfare state: ebbene tutte queste contraddizioni, e altre ancora, lasciano capire, o quantomeno intuire, quanto enorme sia il potenziale di benessere, qui inteso non solo in termini “materiali”, di cui potrebbero avvantaggiarsi tutti gli individui e in tutto il pianeta. La tecnoscienza, che in astratto potrebbe essere definita come il mezzo migliore per rendere più produttivo (di beni), meno faticoso e più breve il lavoro degli uomini, e quindi per renderli più soddisfatti e felici, oggi ci appare come la causa prima della disoccupazione, della sottoccupazione, della precarietà esistenziale, di molte angosce, della trasformazione – compiuta alle spalle degli “utenti” – del tempo libero dedicato al Web in lavoro gratuito per i padroni delle piattaforme digitali. «Da ciò il paradosso economico che il mezzo più potente per l’accorciamento del tempo di lavoro si trasforma nel mezzo per trasformare tutto il tempo della vita dell’operaio e della sua famiglia in tempo lavorativo disponibile per la valorizzazione del capitale» (11). Il potere sociale della tecnoscienza mette in essere contraddizioni sempre più evidenti, tali da entrare anche nella riflessione della “gente comune”, almeno in quella parte umanamente più sensibile di essa.  Ma come sappiamo tutto questo non genera spontaneamente una critica rivoluzionaria del presente da parte degli individui che subiscono la pessima e altamente contraddittoria situazione del mondo, e difatti è ancora l’ideologia delle classi dominanti, anche sottoforma di critica degli “eccessi” della tecnoscienza e degli appetiti capitalistici (qui eccellono i simpatizzanti di Papa Francesco), che fa presa sulla gente.

3.
Ritorno, per concludere rapidamente, alla domanda che ho posto al lettore nella precedente “puntata”: a quale scienza e a quale tecnica alludo quando parlo di un loro uso umano? Per dirla con il noto “filosofo della Magna Grecia”, mi si consenta un ragionamento.

Per quanto mi riguarda, non si tratta di decidere adesso ciò che dell’attuale tecnoscienza potrebbe o dovrebbe essere conservato (il suo “lato buono”) e ciò che invece andrebbe senz’altro scartato (il suo “lato cattivo”): ad esempio, la tecnologia aereonautica andrebbe salvata o rottamata per sempre? in parte o solo per certi aspetti? E quella aerospaziale? e quella navale? e quella chirurgica e farmacologica? e quella atomica? e quella robotica? E che ne facciamo di Internet e di tutte le applicazioni tecniche basate sulla cosiddetta Intelligenza Artificiale? Ognuno può naturalmente sommare o sottrarre tecnologie che a suo avviso andrebbero salvate o superate per sempre nella prospettiva di una vita pienamente – o semplicemente – umana. Ma avrebbe senso litigare adesso su questi aspetti del problema? A mio avviso no. Oltretutto, se ci mettiamo su questo scivoloso terrenocorriamo il rischio – e forse più che un rischio – di fare della cattiva utopia, ossia di proiettare sul futuro la nostra pessima condizione umana. Oggi si tratta piuttosto di acclimatarsi con l’idea che il superamento della società capitalistica necessariamente genererà una nuova ricerca tecnologica e una nuova scienza, che l’una e l’altra non potranno che essere adeguate alla nuova condizione sociale di «un’umanità al suo livello più alto», per dirla con Arthur Schopenhauer – il quale pensava che «L’umanità al suo livello più alto non ha bisogno di uno Stato»: concordo!

È impossibile anche solo immaginare quali curiosità scientifiche, quali fantasie, quali sogni, quali utopie, quali bisogni ecc. coltiveranno gli uomini che vivranno nella (ipotizzata nonché auspicata/possibile) Comunità Umana; non c’è d’altra parte dubbio, almeno per chi scrive, sul fatto che la tecnoscienza oggi concorra grandemente alla riproduzione e al continuo rafforzamento dei rapporti sociali che ci inchiodano alla pessima condizione che ovunque nel mondo subiamo come subalterni (un tempo si diceva come proletari, come lavoratori salariati) e come individui. Il lettore mi consenta questa bella e suggestiva immagine (la quale non vuole e non può essere profetica, purtroppo):  dopo la Rivoluzione sociale, gli uomini si metteranno in cammino verso la Terra Promessa chiamata Umanità. Ha senso oggi mettersi a discutere sui tempi e sui modi di questo meraviglioso – e pur possibile – viaggio? Lo ribadisco: a mio avviso no, mentre ha molto senso riflettere sulla sua possibilità (di qui l’insistenza sul carattere storico-sociale della prassi tecnoscientifica e delle magagne che oggi affliggono l’umanità) e sul suo significato generale: archiviare la storia delle società classiste, inaugurare la storia dell’uomo in quanto uomo.

Se consideriamo il capitalismo vigente negli anni in cui Marx elaborava la sua rivoluzionaria critica dell’economia politica e metteva in chiaro il meccanismo che rendeva possibile la creazione del plusvalore attraverso il semplice uso – o sfruttamento – della capacità lavorativa nel processo produttivo, comprendiamo bene perché per la teoria critica della società fosse allora “naturale” concentrare la propria attenzione intorno all’uso capitalistico delle macchine. Come sappiamo questo concetto fu elaborato da Marx soprattutto in polemica con quei socialisti «piccolo-borghesi e reazionari» che non riuscivano a cogliere la natura del processo che introduceva nelle fabbriche le macchine e la razionalità tecnoscientifica a profitto, è proprio il caso di dirlo, del Capitale e a danno della forza-lavoro. Scriveva Marx: «Soltanto dopo l’introduzione delle macchine l’operaio combatte proprio il mezzo di lavoro stesso, ossia il modo materiale di esistenza del capitale. Si rivolta contro questa forma determinata del mezzo di produzione come fondamento materiale del modo capitalistico di produzione. […] Ancora agli inizi del secolo XVIII in Inghilterra le segatrici meccaniche mosse dall’acqua vinsero solo a fatica la resistenza popolare appoggiata dal parlamento. […] La distruzione in massa dei macchinari nei distretti manifatturieri inglesi durante i primi quindici anni del secolo XIX dovuta in particolare allo sfruttamento del telaio a vapore offrì, sotto il nome di movimento dei Luddisti, il pretesto per violenze ultrareazionarie. […] Ci voglion tempo ed esperienza affinché l’operaio apprenda a distinguere le macchine dal loro uso capitalistico, e quindi a trasferire i suoi attacchi dal mezzo materiale di produzione stesso alla forma sociale di sfruttamento di esso» (12). Perché Marx parla di «violenze ultrareazionarie» a proposito del movimento luddista? Per i due motivi, che stanno tra loro in strettissima relazione, di cui già abbiamo parlato a proposito dei critici inadeguati e inconseguenti del nuovo modo di produzione: in primo luogo quel movimento si limitava ad attaccare il «mezzo materiale di produzione», mentre, prescindendo da ogni altra considerazione (è realistico opporsi a una tecnologia senza mettere in questione la necessità sociale che l’ha resa possibile?), ciò che bisognava attaccare era – ed è – la «forma sociale di sfruttamento» peculiare dell’epoca capitalistica; in secondo luogo, i “teorici” luddisti predicavano un superamento all’indietro del moderno capitalismo, in direzione di forme capitalistiche già superate, nelle quali predominava la manifattura di stampo artigianale o semi-artigianale (l’operatore controlla la macchina, ancella della mano “intelligente” del primo), mentre per Marx si trattava piuttosto di andare oltre il capitalismo con una corsa rivoluzionaria in avanti (13).

Il concetto di uso capitalistico della tecnologia, considerato dalla prospettiva della società capitalistica del XXI secolo, può forse prestare il fianco a qualche obiezione, del tipo: esso sembra concedere molto a un’interpretazione “neutrale” della tecnologia (e della scienza), pensata come mero strumento di lavoro o di comunicazione posta a disposizione di qualsivoglia formazione storico-sociale. D’altra parte non pochi “marxisti” hanno accreditato quella cattiva interpretazione. Comunque sia, credo che ai nostri tempi l’anticapitalista debba in primo luogo mostrare la tecnologia (e il suo correlato presupposto scientifico) come forma del Dominio e come sua ideologia – natura che le deriva dalle promesse di emancipazione e di felicità che essa lancia continuamente all’uomo, senza poterle mantenere proprio perché oggi è al servizio di interessi disumani.

Più volte, e mi scuso per la “ridondanza critica”, ho sostenuto che non esistono tecnologie buone per tutte le società: alcune presuppongono e servono rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, altre potrebbero presupporre e servire rapporti sociali umanamente orientati. Un assetto umano della società avrebbe bisogno di tutte le tecnologie generate negli ultimi due secoli dal capitalismo? Io credo di no. Penso che molte tecnologie siano concepibili solo sulla base del crescente bisogno del Capitale di espandere la sua capacità di sfruttare gli individui e la natura ai fini del profitto. Ad esempio, organizzare, finanziare e realizzare complesse missioni spaziali, oltre a rispondere a precisi interessi economici e militari di respiro contingente e strategico, ci mette nelle condizioni di conoscere meglio le meraviglie dell’Universo, di svelarne i più reconditi segreti e recessi, incrementando così la nostra conoscenza scientifica – ma anche il nostro potere sulla natura e sugli uomini. «È nella natura dell’uomo tendere a una sempre migliore conoscenza scientifica del mondo che lo circonda»: non c’è dubbio! Tuttavia, se non approfondita criticamente questa elementare verità si rovescia subito in ideologia.

Il bisogno umano di conoscenza può, a mio avviso, orientarsi tanto verso fini umani quanto verso fini disumani, e ancora una volta ciò che decide della cosa è il rapporto sociale che sta a fondamento di una peculiare prassi sociale. Lo spirito di conoscenza oggi ha assunto, per l’essenziale, per ciò che concerne gli aspetti decisivi della nostra esistenza, l’aspetto e la natura del Capitale, e quindi esso ha di molto superato, e non da qualche decennio (è sufficiente leggere la migliore letteratura filosofica del XIX secolo, Nietzsche e Dostoevskij compresi, per rendersene conto), una dimensione compatibile con i tempi, i ritmi e le priorità dettate da un solo grande e umanissimo principio: vivere felici.

Si può, e, sia chiaro, qui lancio delle “provocazioni intellettuali” solo per chiarire meglio il mio punto di vista, non certo per suggerire implicazioni “pratiche” ai posteri; si può, dicevo, vivere felici senza conoscere nel dettaglio la complessa dinamica dell’Universo? Conoscere, quasi in presa diretta (attraverso costosissimi esperimenti scientifici che coinvolgono diversi mega laboratori sparsi ai quattro angoli del pianeta), i primi istanti del Big Bang ci rende forse più umani e più felici? Io credo proprio di no. Penso che molte cose assai più “modeste” dal punto di vista strettamente tecnoscientifico possano rendere più comoda, felice e degna di essere vissuta la nostra vita. Ritengo d’altra parte che il “ricasco” tecnoscientifico dell’esplorazione dello spazio profondo rende oltremodo felice, per così dire, il Capitale, che ha imparato a mettere a frutto anche la ricerca scientifica che prima facie sembra del tutto estranea alla logica dell’investimento capitalisticamente finalizzato. Nel costosissimo – e non solo in termini finanziari – sforzo teso a penetrare sempre più in profondità nei segreti del macrocosmo e del microcosmo io non riesco a scorgere solo il bisogno umanissimo di conoscere il mondo che lo circonda; ci vedo, oggi, soprattutto il bisogno capitalistico di potenziare la tecnoscienza ai fini della ricerca di un dominio e di uno sfruttamento sempre più invasivo, capillare, puntuale e razionale di uomini e natura (14). La razionalità tecnoscientifica di oggi non è altro che la razionalità del vigente Dominio, cosa che anche molti cultori “marxisti” e “post-marxisti” del general intellect non hanno capito. L’intelligenza collettiva (o collaborativa, come preferiscono chiamarla alcuni) oggi non può non recare sulla fronte il marchio del Capitale. Sotto questo aspetto, la Rete è al contempo perfetta metafora e perfetta prassi del dominio sociale nell’epoca della sottomissione totale degli individui al Capitale.

(A scanso di equivoci “luddisti” ammetto di essere un appassionato fruitore di documentari che riguardano l’esplorazione dello spazio profondo e, in generale, i “segreti della natura”. Anche il genere fantascientifico mi intriga molto).

Mi si obietterà: ma la scienza ha, o dovrebbe/potrebbe avere, il compito “istituzionale” di rendere più umani e felici gli individui? In una Comunità pienamente – o semplicemente – umana anche la scienza dovrà necessariamente portare la sua acqua al mulino di quel compito, semplicemente perché essa non ha mai giocato una partita autonoma, un gioco che non fosse parte organica e fondamentale della più generale prassi sociale umana.

Scriveva Carl Schmitt nel Dialogo sul nuovo spazio (1958), saggio dedicato alla corsa all’occupazione della stratosfera e degli spazi cosmici che vide confrontarsi USA e URSS durante la “guerra fredda”: «Colui il quale riuscirà ad imprigionare la tecnica scatenata, a domarla e immetterla in un ordinamento concreto, avrà dato una risposta all’appello del presente più di colui che cerchi con i mezzi di una tecnica scatenata di atterrare sulla luna o su marte. Il soggiogamento della tecnica scatenata, questo sarebbe ad esempio l’atto di un nuovo Ercole» (15). Atto assolutamente chimerico, ancorché erculeo, nel seno della società capitalistica, la quale, come ho più volte sostenuto, ha nella tecnoscienza un formidabile strumento di dominio e di sfruttamento. Scatenata non è, in primo luogo, la tecnica, ma l’economia fondata sulla scientifica e quasi (?) maniacale ricerca del massimo profitto. È sul pianeta Uomo che Ercole dovrà infine atterrare se vorrà padroneggiare con le mani e con la testa l’intera prassi sociale, la sua intera esistenza.

È il momento di concludere questa riflessione, già fin troppo estesa. Io penso che l’attuale tecnologia possa dare un contributo formidabile alla liberazione dell’umanità nelle prime fasi del processo di trasformazione rivoluzionaria del mondo, e che poi essa andrà gradualmente rimodellata o, quando necessario, superata man mano che i bisogni più impellenti dell’umanità (ad esempio quelli connessi alla sopravvivenza fisica di oltre un miliardo di esseri umani) saranno adeguatamente soddisfatti. Di certo adesso non mi metterò a cavillare sulla “tempistica” di questa fase transitoria, i cui tempi e le cui modalità non possono essere previsti in anticipo sulla prassi – peraltro qui semplicemente ipotizzata. A questo punto della riflessione siamo ancora sostanzialmente fermi al concetto di uso sociale (in questo caso anticapitalistico) della tecnoscienza. E proprio qui, proprio sul più bello,  occorre arrestarsi, perché sarebbe oltremodo ridicolo voler mettere le brache al futuro nel tentativo di immaginare come l’umanità si regolerà con la tecnica e con la scienza quando ogni residuo del suo millenario passato classista sarà stato eliminato. L’ingresso degli individui nella dimensione pienamente umana del loro vivere in comune non può rimanere senza conseguenze anche sulla concezione e sulla prassi della scienza e della tecnologia: solo questo mi sento di poter affermare con una certa sicurezza.

A questo secondo livello della riflessione, che, ripeto, è bene non approfondire per evidenti limiti oggettivi (è poi salutare tenersi alla larga dalle marxiane taverne del futuro), viene dunque avanti soprattutto il concetto di sostanza storico-sociale della tecnologia e della scienza.

(1) Magari dopo aver letto quanto segue: «Uno dei passatempi più strani dell’élite della Silicon Valley ha a che fare con l’ossessione a prepararsi per la fine del mondo. Chi aderisce viene chiamato generalmente “prepper”. I miliardari del tech sono particolarmente attratti da questa idea. Secondo Reid Hoffman, co-fondatore di “LinkedIn”, il movimento è alimentato dalla paura che l’intelligenza artificiale un giorno sostituisca così tanti lavori da portare gli uomini a ribellarsi contro la tecnologia. […] L’apocalisse non contraddice la tecnologia, che anzi implica la capacità di immaginare futuri diversi, utopia e distopia, oscillando fra ottimismo e terrore. […] Anche se gli eventi sono remoti, la gente del tech prevede matematicamente i rischi e intanto si organizza. Metà di loro hanno fatto una assicurazione in caso di Apocalisse. Molti manager della finanza stanno comprando fattorie e terreni in posti che considerano sicuri, tipo la Nuova Zelanda.  […] Nei pressi di Wichita, Kansas, c’è poi il “Survival Condo Project”, ex deposito di missili convertito in complesso di appartamenti lussuosi per gente in attesa dello scontro finale. È pattugliato da guardie armate, ideato e gestito da Larry Hall, anche lui mago del computer. Delle 12 unità, ognuna del costo di tre milioni di dollari, non ne è rimasta neppure una invenduta. Gli appartamenti sono superaccessoriati, il condominio ha anche la piscina e una zona ospedaliera, con sala odontoiatrica e chirurgica. È tutto pronto per la vita sottoterra» (A. Glaser, Recode, 23 gennaio 2017).  «Hanno fatto una assicurazione in caso di Apocalisse»: nemmeno l’apocalisse ci libererà dunque dal capitalismo?
(2) K. Marx, F. Engels, Manifesto del partito comunista, pp. 489-490, Opere Marx ed Engels, VI, Editori Riuniti, 1973. Dedico i passi che seguono ai sovranisti del XXI secolo: «Con gran dispiacere dei reazionari, la borghesia ha tolto all’industria la base nazionale. […] Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegati tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale» (pp. 490-491). Si tratta della Nazione del Capitale, i cui confini oggi abbracciano davvero l’intero pianeta, e dove le singole nazioni, poste al servizio del capitale nazionale e internazionale (distinzione peraltro sempre più labile ed evanescente, nonostante Trump…), non sono che nodi della fitta rete del dominio capitalistico, e dove i singoli Stati non sono che cani da guardia posti a difesa dei rapporti sociali che rendono possibile la divisione dei “soggetti sociali” in sfruttati e sfruttatori, salariati e capitalisti, padroni della Rete e… prosumers.
(3) «Certo soltanto così si può arrivare all’assurdità, possibile solo in Russia, di annoverare tra i marxisti persone che non hanno la minima nozione della lotta di classe, dell’inevitabile antagonismo proprio della società capitalistica e dello sviluppo di questo antagonismo, […] e che presentano apertamente progetti borghesi» (Lenin, Che cosa sono gli amici del popolo, 1894, Opere, I, p. 334, Editori Riuniti, 1970).
(4) In realtà per Marx è la macchina che usa il lavoratore per conto del Capitale: «Nella manifattura e nell’artigianato l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica è l’operaio che serve la macchina. […] Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 467, Editori Riuniti, 1980).
(5) «La profonda ipocrisia e l’intrinseca barbarie della civiltà borghese ci stanno davanti senza veli quando dalla madre patria, dove assumono forme rispettabili, volgiamo gli occhi alle colonie, dove essa vanno nude. […] Gli effetti devastatori dell’industria inglese, se vengono considerati in rapporto all’India, un paese vasto quanto l’Europa, sono palpabili e sconcertanti. Ma non dobbiamo dimenticare che essi sono soltanto i risultati organici dell’intero sistema di produzione come è costituito oggi»; (K. Marx, I risultati futuri della dominazione britannica in India, New-York Daily Tribune, 8 agosto 1853, in India, pp. 73-74, Editori Riuniti, 1993).
(6) «Ora, per quanto possa ferire i sentimenti umani il vedere quella miriade di industriose comunità patriarcali […] gettate in un mare di dolori, e i loro singoli membri privati contemporaneamente della loro antica forma di civiltà e dei loro mezzi ereditari di sussistenza, non dobbiamo dimenticare che quelle idilliche comunità di villaggio, per quanto inoffensive possano sembrare, sono sempre state il solido fondamento del dispotismo orientale, hanno confinato l’intelletto umano nell’ambito più ristretto possibile, facendone il docile strumento della superstizione, rendendolo schiavo di norme tradizionali, privandolo di qualsiasi grandezza e di energie storiche. Non dobbiamo dimenticare il barbaro egoismo che, concentrato su un misero pezzo di terra, ha assistito tranquillamente alla rovina di imperi, al perpetuarsi di crudeltà inaudite, al massacro delle popolazioni di grandi città, senza rivolgere ad esse maggiore attenzione che agli eventi naturali. … non dobbiamo dimenticare che queste piccole comunità erano inquinate dalle divisioni di casta e dalla schiavitù, che esse rendevano l’uomo schiavo delle circostanze esterne anziché elevarlo a dominare le circostanze» (K. Marx, La dominazione britannica in India, New-York Daily Tribune, 10 giugno 1853, in India, p. 21).
(7) S. Weil, La condizione operaia, pp., 293-294, SE, 1994.
(8) Ibidem, p. 233 e p. p. 159 .
(9) G. Vattimo, M. Zucchetti, Heidegger e la bomba atomica: ovvero la scienza deve pensare, da Per un seminario suSe la scienza non pensa”, Politecnico di Torino, Maggio – Giugno 2016).
(10) M. Heidegger, Ormai solo un dio può salvarci, 1968, a cura di A. Marini, Guanda, 1987.
(11) K. Marx, Il Capitale, I, pp. 451-452, Editori Riuniti, 1980.
(12) Ibidem, pp. 472-473.
(13) «Il socialismo piccolo-borghese anatomizzò molto acutamente le contraddizioni esistenti nei moderni rapporti di produzione. Esso mise a nudo gli eufemismi ipocriti degli economisti. Esso dimostrò in modo incontestabile gli effetti deleteri dell’introduzione delle macchine e della divisione del lavoro, la concentrazione dei capitali e della proprietà fondiaria, la sovrapproduzione, le crisi, la rovina inevitabile dei piccoli borghesi e dei piccoli contadini, la miseria del proletariato, l’anarchia della produzione, le stridenti sproporzioni nella distribuzione della ricchezza, la guerra industriale di sterminio fra le nazioni, il dissolversi degli antichi costumi, degli antichi rapporti di famiglia, delle antiche nazionalità. Quanto al suo contenuto positivo, però, questo socialismo, o vuole ristabilire i vecchi mezzi di produzione e di scambio e con essi i vecchi rapporti di proprietà e la vecchia società, oppure vuole per forza imprigionare di nuovo i moderni mezzi di produzione e di scambio nel quadro dei vecchi rapporti di proprietà ch’essi hanno spezzato e che non potevano non spezzare. In ambo i casi esso è a un tempo reazionario e utopistico. […] Nella sua evoluzione ulteriore questa scuola finisce in un vile piagnisteo e nella farsa» (K. Marx, Il Manifesto del partito comunista, Opere, VI, pp. 509-510, Editori Riuniti, 1973). E cosa dovremmo dire noi, critici del capitalismo del XXI secolo, dell’«evoluzione ulteriore» di quella scuola? Meglio tacere, per buon gusto e cristiana pietà!
(14) Nemmeno a farlo appostai, ieri mi sono imbattuto in quel che segue: «Altro che Donald Trump: la vera rivoluzione dell’economia globale potrebbe venire dalla Nasa, se riuscisse nel progetto di mettere le mani su un asteroide scoperto da un astronomo italiano, che custodisce ricchezze imparagonabili a quelle della Terra. Lo scopo della missione naturalmente non è quello di depredare il corpo celeste, ma piuttosto studiarlo, però i suoi tesori stanno comunque affascinando gli scienziati.  […] Gli scienziati stimano in circa 10.000 quadrilioni di dollari. Un numero astronomico, appunto, soprattutto se paragonato all’intera economia del nostro pianeta, che vale quasi 74 trilioni di dollari. In altre parole, se l’agenzia spaziale riuscisse a sfruttare le sue risorse, farebbe saltare il sistema economico globale. […] La stessa Lindy Elkins-Tanton, studiosa leader della spedizione, non è riuscita a resistere alla tentazione di fantasticare sulle ricchezze dell’asteroide: “Se riuscissimo ad acchiappare un grosso pezzo di metallo e riportarlo sulla Terra, poi cosa faremmo? Potremmo sederci sopra, nasconderlo e controllare le sue risorse globali, come si fa ad esempio con i diamanti, allo scopo di proteggere il nostro mercato? E se invece decidessimo di portare Psyche sul nostro pianeta, risolvendo per sempre il problema delle risorse metalliche per l’intera umanità?”. Al momento la Nasa non ha la capacità di afferrare un asteroide così e trascinarlo a casa. Lo scopo del Discovery Program è invece quello di restare attiva e condurre ricerche interessanti a basso costo. Tutto diventerebbe possibile, però, se riuscissimo a trovare il modo di sfruttare i 10.000 quadrilioni nascosti su Psyche» (P. Mastrolilli, La Stampa). Nel capitalismo tutto si traduce nei termini della fattibilità economica. Certo che «10.000 quadrilioni di dollari» rappresentano un gruzzolo niente male: anche i più poveri se ne avvantaggerebbero! Come si fa a non sostenere le magnifiche sorti e progressive del Capitale?
(15) C. Schmitt, Dialogo sul nuovo spazio, in Terra e mare, p. 108, Giuffrè, 1986.