IL MONDO “CAPOVOLTO” DEL WORLD ECONOMIC FORUM

È sufficiente leggere gli interventi dei protagonisti del World Economic Forum di quest’anno, per capire chi oggi sta vincendo la partita della competizione capitalistica/imperialistica mondiale. Sto forse alludendo alla Cina? Soprattutto al grande Paese asiatico, com’è ovvio di questi tempi; ma è tutta la regione dell’Asia-Pacifico che si conferma sempre più come l’area capitalisticamente più strutturata, forte e dinamica del mondo. Certo, anche quella più “resiliente” ai cigni neri (incluse le pandemie), tanto per civettare anch’io con il lessico modaiolo.

Mentre i leader occidentali ostentano pessimismo e perplessità sul futuro dell’attuale modello di Capitalismo (ovviamente non sul Capitalismo in quanto tale, come peculiare modo di produzione fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento storicamente determinati: questa è roba vecchia!), accusato di generare contraddizioni, conflitti (anche generazionali), disuguaglianze mai viste prime, ingiustizie sociali d’ogni tipo, degrado ambientale e quant’altro; mentre accade questo «solo Xi Jinping, il presidente cinese, resta ancorato alla globalizzazione di prima della pandemia, come se nulla fosse accaduto, forte dei successi economici che i brandelli del multilateralismo, ancora rimasti sul terreno dopo il tornado Trump, ancora gli concedono. Nessuna riflessione o aggiustamento da parte del leader cinese» (Businnessinsider.com). Qualche commentatore particolarmente spiritoso (e arguto) ha scritto che più che a Davos (ancorché virtuale, causa Coronavirus), per certi versi sembra di trovarsi al Forum sociale di Porto Alegre, tra i nemici dell’onnipotenza del potere del denaro e degli eccessi dell’ultra-liberalismo della scuola dei Chicago Boys. Perfino il Presidente francese Macron non ha voluto fare mancare la sua personale critica: «Il modello capitalista non può più funzionare»; ma ha subito aggiunto che in ogni caso «il capitalismo e l’economia di mercato non si possono certo liquidare in fretta»: e che premura c’è? Per Macron bisogna insomma emendare il «lato oscuro» del Capitalismo, non fare di esso una caricatura per buttare, come si dice, il bambino insieme all’acqua sporca. Personalmente non vedo che acqua sporchissima e un Moloch che si nutre della vita degli individui. Occorre, ha concluso il Presidente francese, «mettere al centro del problema la risposta alle problematiche del modello capitalista»: chissà che voleva dire.

Come sempre la Cancelliera Tedesca ha cercato di rassicurare sia Washington («Dobbiamo lavorare insieme ma con trasparenza»: vedi le responsabilità cinesi sulla genesi della pandemia) che Pechino («Chiudersi non serve, il multilateralismo è centrale. Non si deve guardare solo indietro, ma anche avanti»). Il senso di questo guardare avanti è probabilmente anche contenuto nell’accordo Cina-UE del 30 dicembre scorso. Ancora la Cancelliera (rivolta alla Cina): «Quando iniziano le interferenze? e quando finiscono se si sostengono valori fondamentali? Il presidente della Cina si è impegnato a rispettare la dichiarazione delle Nazioni Unite (sui diritti dell’uomo, ndr). Bisogna discutere questa questione, non importa da quale sistema sociale proveniamo» (Il Sole 24 Ore). Tranquilla, Angela: «proveniamo» dallo stesso sistema sociale, quello capitalistico – ovviamente.

Dopo aver esternato la sua – solita – apologia della globalizzazione capitalistica (che oggi vede appunto vincente la Cina), Xi Jinping ha voluto lanciare alla concorrenza (soprattutto agli Stati Uniti) un messaggio forte e chiaro: «Chi crea clan o inizia una nuova guerra fredda, chi rifiuta, minaccia o intimidisce gli altri, chi imporre l’allontanamento tra i popoli, o interrompe le catene di appalti con le sanzioni, al fine di indurre l’isolamento, sta solo spingendo il mondo alla divisione e persino allo scontro». La nuova Amministrazione statunitense è avvertita. Il punto più caldo della competizione capitalistica globale oggi si trova nell’area dell’Est-Pacifico, e non è un caso se le strategie militari della Cina e degli Stati Uniti sono sempre più focalizzate su quell’area.

Aveva detto Xi Jinping al Forum di Davos del 2017: «La Cina ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare»: la concorrenza, soprattutto quella che oggi boccheggia, se n’è accorta, eccome!

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Accade nella Cina capitalista. Il lavoro forzato non macchia, arricchisce; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

SULL’ACCORDO CINA-UE DEL 30 DICEMBRE 2020

Qui di seguito cercherò di dare una mia prima valutazione sul significato del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) firmato il 30 dicembre scorso dalla Cina e dall’Unione Europea, e lo farò come sempre riportando le considerazioni di analisti e politici che mi sono sembrate più interessanti – non necessariamente più condivisibili, soprattutto sul piano dell’interpretazione politica di fondo, com’è ovvio.

Sul terreno propriamente economico, il Comprehensive Agreement on Investment appare come un netto successo per l’UE (e, sembra quasi inutile precisarlo, soprattutto per la Germania), la quale strappa a Pechino una serie di importanti concessioni, come l’accesso agli investitori europei di diversi settori dell’industria, dei servizi e della finanza cinesi, compresi alcuni di quelli considerati strategicamente “delicati”, come le telecomunicazioni. Scrive Alessia Amighini: «Le aziende europee avranno ora un migliore accesso ai settori manifatturiero, ingegneristico, bancario, contabile, immobiliare, delle telecomunicazioni e della consulenza. I negoziatori della Commissione sono riusciti a inserire una clausola secondo la quale i loro investimenti non devono essere “trattati in modo meno favorevole” rispetto ai concorrenti nazionali. I funzionari dell’UE hanno anche convenuto che la Cina deve essere più trasparente riguardo ai sussidi statali. In cambio di un migliore accesso al mercato europeo ancor più grande di quello che ha oggi, Pechino sarà obbligata a pubblicare ogni anno una lista di sussidi forniti ai settori designati» (ISPI). Inutile dire che su quest’obbligo molti analisti nutrono forti dubbi. «Sul lavoro forzato, una questione che aveva minacciato i negoziati, l’UE ha dichiarato: “La Cina si è impegnata ad attuare efficacemente le convenzioni dell’ILO che ha ratificato, e ad adoperarsi per la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’ILO, comprese sul lavoro forzato“» (South China Morning Post, Hong Kong). Anche su questo “impegno” è lecito nutrire qualche dubbio, diciamo così. Infatti, è dal 2001, anno di ingresso della Cina nel WTO, che Pechino fa “melina” sui suoi impegni riguardanti il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, oggi parlamentare europeo, ha dichiarato: «Le storie che escono dallo Xinjiang sono puro orrore. In queste circostanze, qualsiasi firma cinese sui diritti umani non vale la carta su cui è scritta». Sull’orrore che caratterizza la situazione nello Xinjiang, siamo d’accordo (esclusi ovviamente i miserabili sostenitori del capitalismo con caratteristiche cinesi, soprattutto quelli che si definiscono “comunisti”); sui «cosiddetti diritti umani» (Marx) usati dagli Stati come arma di lotta sistemica (economica, ideologica, geopolitica), personalmente stendo un velo pietosissimo, e il richiamo ai “diritti” mi serve solo per ribadire, per quel che vale, la mia radicale ostilità all’Imperialismo Unitario (ma non unico, tutt’altro!) colto nella sua compatta e disumana totalità (1).

L’accordo del 30 dicembre per un verso si limita a prendere atto di un fatto: oggi l’interscambio commerciale tra l’Unione Europea e la Cina è più intenso di quello che stringe gli europei agli Stati Uniti: secondo l’Eurostat il sorpasso della Cina sugli Usa come principale partner commerciale dell’UE si è consumato a luglio 2020; nei primi dieci mesi del 2020 il volume degli scambi tra UE e Cina si è assestato a 477 miliardi di euro (582,8 miliardi di dollari USA), il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. «Al contrario, il commercio di merci con gli Stati Uniti nel periodo gennaio-ottobre è sceso a 460,7 miliardi di euro, in calo dell’11,2% su base annua. A ottobre, l’Unione Europea ha esportato beni per 178,9 miliardi di euro, in calo del 10,3% su base annua, e ha importato 150,8 miliardi di euro, con una diminuzione del 14,3% rispetto al mese di ottobre del 2019» (Il Sole 24 Ore). Il trend di crescita nell’interscambio commerciale UE-Cina ha subito una netta accelerazione nel 2009, nel momento in cui gli Stati Uniti facevano ancora fatica a trovare un sentiero di crescita dopo la nota crisi.

Par altro verso il CAI pone le premesse per una serie di sviluppi a medio/lungo termine che superano di molto la semplice dimensione economica, andando a investire direttamente i rapporti e gli equilibri geopolitici tra le grandi potenze capitalistiche del mondo. Ed è proprio su questo terreno, tutt’altro che limpido e di facile lettura, che si è focalizzato l’interesse di politici e di analisti geopolitici.

Francia e Germania sembrano aver rilanciato insieme il tradizionale asse strategico Parigi-Berlino che detta l’agenda agli altri Paesi dell’Unione, ma la realtà è che ancora una volta è Berlino che guida le danze, mentre Parigi deve fare buon viso a cattivo gioco per rimanere sulla scia della potenza europea egemone, tanto più che adesso non può più giocare di sponda come prima con la riottosa Gran Bretagna. Controllare la potenza sistemica tedesca per la Francia diventa più difficile che nel passato, e per mascherare la propria debolezza nei confronti della Cancelliera tedesca Macron ha fatto di tutto per strappare a Berlino e a Bruxelles la sua presenza alla videoconferenza del 30 dicembre, cosa che ha fatto irritare soprattutto l’Italia, sempre più fragile e isolata nel contesto europeo e internazionale. Il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto, notoriamente molto legato a Washington, ha espresso le “perplessità” con cui il governo italiano ha seguito le fasi conclusive dell’accordo: «Devo esprimere la mia più grande sorpresa per il formato. Era ovvio che ci fossero Von der Leyen e Michel e per le istituzioni Ue e Merkel come presidente di turno. Ma avere Macron, la scelta di un solo Paese sugli altri 26, non credo si giustifichi. È un formato irrituale che segna anche una sconfitta per noi italiani. E ci dice che quello sciagurato accordo sulla Via della Seta che il precedente governo ha concluso nel 2019 è stato un fallimento completo. Non solo non ci ha aiutato nel rapporto commerciale e ci ha fatto pagare un prezzo politico: non ci ha dato neanche la credibilità per essere leader in questa negoziazione. Fu una mossa sbagliata, che non vincolava i cinesi a nessun obbligo commerciale, ma dava loro un enorme dividendo politico. Tutto questo rivela la nostra debolezza» (Il Corriere della Sera). Una debolezza che l’Italia di oggi esibisce anche nel suo storico cortile di casa, e basta pensare a cosa accade in Libia per averne un immediato riscontro. Per il “nostro” Paese non sarà facile conservare (o riconquistare?) lo status di media potenza regionale.

L’italica irritazione nei confronti della Germania si esprime senza infingimenti “europeisti” soprattutto a “destra”; scrive ad esempio Gianni Micalessin «L’obbiettivo politico ed economico della Cancelliera è emerso in tutta la sua spregiudicata evidenza il 30 dicembre quando, nel penultimo giorno di Presidenza tedesca dell’Unione, è arrivato l’annuncio dell’intesa con Pechino sul trattato per gli investimenti. Il trattato, messo a punto dopo sette anni di negoziati, dovrebbe in teoria garantire ad Europa e Cina un terreno comune per i reciproci affari. In verità rappresenta un meschino e stupido apparentamento con una potenza comunista pronta a farsi beffe dei diritti umani e a venderci merci prodotte grazie al lavoro a costo zero di centinaia di migliaia di musulmani uiguri deportati nei lager e utilizzati alla stregua di schiavi. Dietro l’intesa sugli investimenti ci sono i calcoli di una Cancelliera convinta che il futuro dell’economia tedesca sia strettamente e inevitabilmente legato a Pechino. Dal suo punto di vista non ha torto. L’Europa piegata, ancor prima che dal Covid, dal surplus commerciale teutonico ben difficilmente potrà assorbire ulteriori crescite produttive di Berlino. E ben difficilmente accetterà di farlo un’America decisa, fin dai tempi di Obama, a contrastare la rapacità di una Germania sorda ad ogni richiesta di riequilibrio commerciale». (G. Micalessin, Il Giornale).

Per Carlo Pelanda, docente di Geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi ed esperto di Studi strategici, «al momento, l’accordo è una finzione che evita una restrizione all’export tedesco in Cina da cui dipende una parte rilevante del Pil della Germania (e dell’Italia che fornisce componenti all’industria tedesca). Ma anche una finzione utile a negoziare con gli Stati Uniti. In sintesi, il problema dell’Ue è non riuscire ancora a formulare una strategia di collocamento dell’Ue stessa entro il conflitto tra Cina e America. Merkel lo ha risolto provvisoriamente con una tattica di finzione e rinvio, nonché cerchiobottismo, facendo comunicare al proxy Valdis Dombrovskis che l’accordo con la Cina non impedisce un trattato euroamericano. Ma evidentemente la formulazione di una strategia di collocamento internazionale stabile dell’Ue non è più rinviabile» (La Verità). Non dimentichiamo che appena un anno fa Bruxelles ha definito la Cina «rivale sistemico», offrendo agli Stati Uniti la sponda europea nel suo sforzo di contenimento della Cina.

Interessante questa riflessione “analogica” di carattere storico sempre di Pelanda: «Un fatto curioso mostra la difficoltà di Berlino. Merkel ha usato la tattica cinese, codificata da Sun Tsu (L’arte della guerra) nel 500 avanti Cristo, di usare l’estensione del tempo e la finzione per risolvere un problema contingente, mentre Xi ha adottato lo schema (1831) del prussiano Carl von Clausewitz con enfasi sulla massima rapidità – compressione del tempo, blitz – per raggiungere un obiettivo». Come si spiega, secondo Pelanda, la tattica adottata dal Presidente cinese? «Anche Xi è in difficoltà. Deve contrastare l’isolamento della Cina e, soprattutto, un accordo economico forte euroamericano che creerebbe il nucleo imbattibile di un impero e mercato delle democrazie molto più grande e potente del suo. Ha usato una megacarota, ma anche un megabastone: il ricatto di restringere l’export tedesco se l’accordo non fosse stato firmato entro fine 2020 perché voleva chiuderlo prima che Joe Biden entrasse nei pieni poteri (il 20 gennaio). I collaboratori di Biden, infatti, agli inizi di dicembre hanno dato forti segnali di irritazione nei confronti dell’Ue». E difatti il Financial Times riportava pochi giorni prima dell’accordo una dichiarazione rilasciata da un membro dello “staff di transizione” statunitense, secondo cui «l’amministrazione Biden-Harris ha intenzione di consultarsi con la UE in un approccio coordinato sulle pratiche economiche corrette e altre importanti sfide». La Merkel ha voluto bruciare i tempi e mettere la nuova Amministrazione americana di fronte a un fatto compiuto, un fatto che in ogni caso non preclude nulla e che si segnale piuttosto per la sua molteplicità di interessi e di significati, non necessariamente univoci e coerenti tra loro, tutt’altro.

Per Pelanda, che giudica il CAI «un accordo che apparentemente offre un grande successo al Partito comunista cinese e al suo regime autoritario, aggressivo, repressivo, schiavista e bugiardo», la giusta strategia per l’UE deve necessariamente parlare il linguaggio della forza, il solo che capiscono i “comunisti”: «Stringere con l’America un accordo economico fortissimo, ravvivando quello militare».

Anche per Federico Rampini l’accordo di dicembre segna un punto a favore della Cina: «Nell’applicazione concreta Xi potrà continuare a privilegiare il suo “capitalismo politico”, i campioni nazionali dell’industria di Stato, e a discriminare contro gli imprenditori europei. Le promesse più vaghe sono quelle che riguardano ambiente, diritti umani, trattamento dei lavoratori. Biden può ancora sperare di far deragliare questo accordo nella fase di ratifica all’Europarlamento, dove le obiezioni americane troveranno consensi. Ma non si fa illusioni. Il presidente eletto ha troppa esperienza di politica estera per non capire il segnale che arriva da Bruxelles. L’Ue lo accoglierà a braccia aperte, felice di chiudere il capitolo Trump. Ma un conto saranno le buone maniere, altro è la sostanza» (La Repubblica). E la sostanza è fatta, oggi come ieri e come sempre in regime capitalistico, dagli interessi sistemici e dai rapporti di forza, nient’altro che da questo. Tutto il resto è fumisteria propagandistica venduta ai politici e agli intellettuali di serie B, nonché, soprattutto, all’opinione pubblica interna e internazionale.

«Nella nuova guerra fredda Usa-Cina», continua Rampini, «gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa». Sulla sostanziale continuità della politica estera americana attraverso l’alternarsi delle Amministrazioni presidenziali non è possibile nutrire alcun serio dubbio, anche se sarebbe sbagliato, a mio avviso, pensare al sistema sociale capitalistico americano nei termini di un blocco unico privo di contraddizioni interne, con quel che ne segue anche sul terreno della “dialettica politica” nazionale (2). Mutatis mutandis, e non è davvero poco, analogo discorso vale anche per il sistema sociale capitalistico cinese.

La Commissione europea ha cercato, prima e dopo l’accordo con la Cina, di rassicurare gli “alleati” americani circa l’impegno dell’UE nella comune politica di contenimento del “nemico strategico”: «L’accordo non influirà sull’impegno del blocco per la cooperazione transatlantica, che sarà essenziale per affrontare una serie di sfide create dalla Cina». Ma non saranno certo le dichiarazioni diplomatiche che potranno convincere Washington, e probabilmente non passerà molto tempo per assistere alla contromossa americana. Comunque l’accordo non entrerà in vigore immediatamente, ma dovrà attendere il superamento di non pochi e complessi passaggi politici e tecnici, e questo darà agli europei (soprattutto ai tedeschi) il tempo di aggiustare la loro linea di condotta nei confronti della Cina e degli Stati Uniti. La ratifica da parte del Parlamento Europeo è infatti prevista per il 2022/2023.

Danilo Taino teme una pericolosa “deriva bipolarista”: «Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali, o tra blocchi (la sola Ue ne ha firmati 72). Così, il commercio non è più un veicolo per la collaborazione tra Paesi ma diventa sempre più spesso strumento di alleanze, di divisioni e in certi casi viene “militarizzato” a scopi geopolitici. Se affrontato in una dimensione bilaterale, il rapporto con Pechino è destinato a favorire la divisione del mondo in rapporti preferenziali, nel tempo fondamento di conflitti. Solo in una dimensione multilaterale la relazione con la Cina può avere un carattere proficuo. L’accordo Ue-Cina non va in questa direzione» (Il Corriere della Sera). Che il commercio internazionale sia «un veicolo per la collaborazione tra Paesi» può crederlo solo un bambino o un ingenuo “idealista” di stampo liberale-liberista.

A proposito di ideologia liberale-liberista, vale la pena riportare il pensiero del Caro e Celeste Leader: «Il presidente cinese ha sottolineato che l’accordo avrà una grande forza trainante per la ripresa economica post-pandemica, promuovendo la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti globali, intensificando la fiducia della comunità internazionale verso la globalizzazione economica e il libero commercio e dando importanti contributi cinesi ed europei alla costruzione di un’economia mondiale più aperta» (Formiche.net). Non sono commoventi queste parole? Per il resto, qui è solo il caso di ricordare che la politica della porta (leggi mercato mondiale) aperta è storicamente la politica seguita dalle potenze in ascesa che sanno di poter rivaleggiare con successo con le potenze concorrenti più o meno declinanti. Non dimentichiamo che la firma del Comprehensive Agreement on Investment segue quella che ha suggellato un altro importante accordo commerciale, il Regional Comprehensive Economic Partnership, sottoscritto tra i paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In ogni caso, ancora nel 2021 non bisogna dare come definitivo il declino assoluto della potenza statunitense, la quale possiede tutti i mezzi (compreso ovviamente quello militare) per frenare quantomeno la tendenza a essa sfavorevole.

La crisi pandemica ha proiettato la Cina ancora più in alto nella gerarchia imperialista del pianeta, essendo stato il suo sistema sociale, capitalistico al 100 per 100 (3), quello che è riuscito a subire meno danni rispetto agli altri Paesi concorrenti (Stati Uniti, in primis) e ad avvantaggiarsi di più delle altrui disgrazie. Come in ogni guerra, c’è chi vince e c’è chi perde – e poi ci sono quelli che, pur perdenti, recitano la parte dei vincenti: ogni riferimento alla Francia e all’Inghilterra del 1945 è puramente voluto.

Scrive il “marxista” David Harvey: «L’altro lato che è importante da un punto di vista anticapitalista, è che la Cina è ancora impegnata nella sua posizione marxista. È ancora governata da un partito comunista, e se molti diranno che il Partito Comunista è in realtà un partito di classe capitalista, è comunque un partito nominalmente comunista in cui i pensieri di Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, e ora Xi Jinping, sono considerati come centrali per le loro ambizioni. L’ultimo congresso del partito ha dichiarato che prevede di diventare un’economia pienamente socialista entro il 2050» (L’importanza della Cina nell’economia mondiale, Antiper). Se è per questo, io dichiaro di diventare bellissimo e intelligentissimo entro il 2030, salvo incidenti di percorso sempre possibili nelle ambiziose “fasi di transizione”. Beninteso, si tratta di una mera previsione… «Il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (K. Marx). Certi “marxisti” amano attenersi feticisticamente alla «natura del tutto esteriore» delle cose: contenti loro!

Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, Xi Jinping: che bell’ammucchiata! «Io non sono un marxista!», disse una volta il comunista di Treviri: che saggezza! che lungimiranza!

A proposito: che fine ha fatto Jack Ma?

(1) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporto con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.
(2) L’imperialismo americano tra realtà e “narrazione”; Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”.
(3) Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

 

 

 

 

 

 

 

LA CINA È CAPITALISTA? SOLO UN POCHINO…

Leggo da qualche parte: «Nell’ampia terza parte – sulla natura del sistema politico-economico cinese – gli autori affrontano, con l’ausilio delle “lenti di Marx” e dell’ampio e originale apporto di statistiche e studi economici, una questione (se non la questione) fondamentale per l’orientamento del movimento operaio e comunista su scala mondiale: alla domanda che dà il titolo al libro – la Cina è capitalista? – il lettore attento troverà dati, argomenti e ragionamenti per la comprensione del percorso del “socialismo con caratteristiche cinesi”, ben distante da quello capitalistico». Mi sono occupato del libro di Rémy Herrera e Zhiming Long in un post scritto un anno fa: Il colore del gatto cinese. Che colore ha il metaforico (“denghiano”) gatto cinese? Il colore del Capitale, è ovvio! La cosa appare ovvia, beninteso, solo a chi non ha gli occhi foderati di prosciutto ideologico, come diceva l’oculista di Treviri. C’è gente che guarda la realtà del capitalismo planetario (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’Africa, ecc.) inforcando le “lenti di Stalin” o di Mao, e pensa di analizzare quell’escrementizia realtà «con l’ausilio delle “lenti di Marx”»: ne vien fuori un guazzabuglio politico-ideologico a dir poco rivoltante, anche perché costringe l’anticapitalista a fare i salti mortali per far capire ai suoi interlocutori che il povere Marx non c’entra nulla con la Russia di Stalin e con la Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping.

In ogni caso, «del «movimento operaio e comunista su scala mondiale» di cui straparlano taluni, è meglio tenersi alla larga: potrebbe trattarsi dell’ennesima fregatura organizzata dal “fronte antimperialista” ai danni di qualche ingenuo. Il socialismo con caratteristiche cinesi: che ciclopica panzana!

Solo un pochino…

Nel suo libro Enterprise, industry and innovation in the People’s Republic of China: questioning socialism from Deng to the trade and tech war, «Alberto Gabriele introduce il concetto di “impresa non capitalistica orientata al mercato”, che si applica a tutte le aziende produttive che non possono essere considerate pienamente capitalistiche in base alla struttura dei diritti di proprietà. In Cina, queste imprese comprendono le imprese statali e le cooperative, ma anche molte altre aziende, tra cui le imprese indirettamente controllate dallo Stato e le stesse unità produttive agricole a base familiare. Il nucleo strategicamente dominante della economia cinese rimane sotto il controllo strategico dello Stato. Contrariamente a quanto ritengono molti osservatori occidentali, che vedono la Cina come ormai dominata dal capitalismo (sia pure definito, utilizzando erroneamente una categoria fumosa e comunque adatta tutt’al più a descrivere fenomeni completamente diversi, come “capitalismo di stato”), le imprese non capitalistiche orientate al mercato producono una parte maggioritaria del prodotto nazionale cinese».

Il concetto di «impresa non capitalistica orientata al mercato» contiene almeno una fondamentale contraddizione che conferisce alla sua formulazione un carattere particolarmente “bizzarro”, diciamo così. L’impresa, storicamente e socialmente parlando, è il luogo nel cui seno avviene il processo di produzione del plusvalore, fondamento economico di ogni tipo di profitto e di rendita. L’impresa o è capitalistica, e quindi orientata necessariamente al mercato (un’altra realtà fondamentale del capitalismo), o semplicemente non è. Non è certo un caso se Marx o Engels non parlarono mai, con riferimento all’auspicata futura Comunità umana, di “impresa socialista”, un vero e proprio ossimoro, una contraddizione in termini. Stesso discorso vale per il concetto di azienda.

Dal concetto di impresa si ricava, com’è noto, quello di imprenditore, il quale può avere una natura individuale oppure collettiva – vedi le Società per azioni, le cooperative, lo Stato e così via. Ciò che caratterizza la natura sociale di un’economia non è affatto il carattere giuridico della proprietà, la quale può appunto assumere nell’ambito di uno stesso Paese molteplici e più o meno contingenti configurazioni giuridiche, ma il rapporto sociale di produzione. Come si sa (?), fu soprattutto Engels a individuare nello Stato capitalista l’ideale del capitalista complessivo (o collettivo): «Né la trasformazione in società per azioni né quella in proprietà dello Stato sopprime l’appropriazione capitalistica delle forze produttive. […] Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini dello Stato borghese. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (Anti-Dühring). Su questo fondamentale aspetto della questione rimando i lettori a un mio PDF: Dialettica del dominio capitalistico.

A quanto mi risulta in Cina, come in ogni altro Paese del mondo, il lavoro (salariato) è sottomesso al Capitale – pubblico e privato, nazionale e multinazionale. La merce Made in Cina non è, marxianamente parlando, una cosa, un semplice prodotto del lavoro umano, ma soprattutto l’espressione più verace (e disumana) di un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento – dell’uomo e della natura. «In base alla struttura dei diritti di proprietà», e soprattutto in base della struttura dei rapporti sociali di produzione, tutte le aziende produttive che operano (che sfruttano lavoro vivo) in Cina possono essere considerate pienamente capitalistiche.

In estrema sintesi! L’impresa, al pari del mercato, non è una semplice forma organizzativa socialmente neutra: in quanto sede del processo di produzione di valore essa è la forma tipica della produzione capitalistica. Il superamento del capitalismo non è un problema di forme di proprietà (pubblica o privata) o di gestione (centralizzata o decentralizzata, “autoritaria” o “democratica”), ma di forme sociali di produzione, ossia di rapporti di classe: vedi il rapporto Capitale-Lavoro (salariato), il rapporto sociale fondamentale di questa epoca storica.

Ai miei occhi voler dimostrare la natura socialista (o in ogni caso “problematica”, bisognosa di una sospensione del giudizio) dell’economia cinese, o solo di una sua parte, appare come un’impresa che definire ridicola, oltre che ultrareazionaria (stiamo parlando della seconda potenza capitalista/imperialista del mondo!), è dir poco, troppo poco. Ma si approssima il Santo Natale che, benché con caratteristiche epidemiche, ispira sentimenti “buonisti” anche in chi scrive.

Ma, si dirà (anche dal fronte degli apologeti del capitalismo liberale/liberista, i quali hanno in odio il «capitalismo totalitario comunista cinese»: sic!), abbiamo pur sempre a che fare con un regime politicamente non capitalista, se proprio non vogliamo definirlo socialista o comunista per mera pignoleria dottrinaria. Sbagliatissimo! Qui la pignoleria dottrinaria non c’entra niente; abbiamo piuttosto a che fare con l’analisi sociale e storica, la quale ci dice che la “sovrastruttura” politico-istituzionale della Cina si armonizza perfettamente con la sua “struttura” economica, e questo già ai tempi di Mao Tse-tung, eroe di una straordinaria rivoluzione nazionale-borghese mitizzata come “rivoluzione socialista” secondo i ben noti usi e costumi stalinisti: basta aggiungere ai fatti e alle cose la parolina magica “socialismo”, e il gioco ideologico è fatto. Qui rimando i lettori ai miei diversi scritti sulla Cina (*).

Insomma, il Partito-Regime cinese è “comunista” esattamente come chi scrive è un “marziano”. «Ma a Marte non esistono creature visibili all’occhio umano». Ma va?

In conclusione (si fa per dire)! Lungi dal «rappresentare nella sostanza il primo esempio al mondo di una nuova formazione economico-sociale» (a suo tempo si disse la stessa cosa per la Russia di Stalin), come sostiene chi «guarda da molto tempo e con simpatia allo sviluppo progressivo dell’economia cinese», la Cina del XXI secolo rappresenta una gigantesca realtà sociale la cui economia e la cui dinamica sistemica (inclusa quella geopolitica: vedi alla voce Imperialismo) si spiega solo a partire dal rapporto sociale di produzione capitalistico.

(*) Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

CINA. ADDETTI ALLE CONSEGNE INTRAPPOLATI NEL SISTEMA. COME TUTTI NOI!

Il sistema è ancora in esecuzione, il gioco continua, ma
i riders non hanno ancora alcuna conoscenza del ruolo
che giocano in questo gioco senza limiti. Stanno ancora
volando lungo la strada alla ricerca della possibilità di
una vita migliore.

Pubblico qui di seguito l’introduzione scritta dal Blog Chuang a un rapporto/inchiesta, intitolato Delivery Riders. Trapped in the System, dedicato ai lavoratori cinesi delle consegne (qui chiamati in diversi modi: riders, motociclisti, ciclisti) e pubblicato dalla rivista cinese Renwu (Popolo) l’8 settembre 2020. Il rapporto si può leggerlo nella sua interezza sempre su Chuang. Si tratta di scritti che toccano temi di interesse generale (come quelli afferenti al cosiddetto Capitalismo delle piattaforme) (1), e che in più aiutano a capire la condizione sociale della classe lavoratrice cinese al la di là della propaganda orchestrata dal Partito-Regime cosiddetto “Comunista” e ripresa anche in Italia dai sostenitori del Celeste Capitalismo/Imperialismo (2).

Mi scuso per la traduzione dall’inglese tutt’altro che impeccabile, il cui scopo d’altra parte è soprattutto quello di segnalare ai lettori l’interessante articolo in questione.

 

外卖 骑手. 困 在 系统 里

In tutto il mondo, il personale di consegna delle merci precedentemente invisibile ha raggiunto una nuova importanza nella coscienza popolare come “lavoratori in prima linea” durante la pandemia COVID-19. Poiché l’emergenza ha evidenziato sia l’importanza che i pericoli del lavoro di consegna, sulle condizioni di lavoro dei riders si sono verificati scioperi e al contempo manifestazioni pubbliche di apprezzamento. In Cina, il settore era già diventato un punto focale di disordini già diversi anni fa, poiché sia ​​il capitale che il lavoro passavano dal settore industriale in declino ai servizi in generale e alle nuove piattaforme di e-commerce poco regolamentate, in particolare. Mentre i blocchi nella prima parte di quest’anno hanno limitato l’organizzazione delle persone, negli ultimi mesi si è assistito a una rinascita delle azioni sindacali combinate con una raffica di notizie sul settore da parte dei media. I corrieri dei pacchi espressi sono stati sequestrati (precettati) in vista della festività dello shopping dell’11 novembre, il “Single’s Day”, con conseguenti proteste, rallentamenti e dimissioni di massa segnalate in più città nelle ultime settimane. E due mesi fa, una delle riviste più lette in Cina, Renwu (Popolo), ha pubblicato un’indagine di lungo respiro sugli orrori del lavoro di consegna di cibo, basata su sei mesi di ricerca. Solo su Weibo il rapporto è stato ampiamente ripubblicato e visualizzato 3,16 milioni di volte tramite il link originale, suscitando una serie di articoli correlati. Di seguito la nostra traduzione, preceduta da un sommario e un breve commento. Nelle prossime settimane pubblicheremo un testo originale che analizza ciò che queste tendenze da incubo del “capitalismo delle piattaforme” rivelano sull’economia cinese nel suo complesso e nel suo rapporto con l’economia globale.

Il rapporto, intitolato Delivery Riders. Trapped in the System, è stato scritto collettivamente da un team di giornalisti anonimi e inviato a Renwu, che lo ha pubblicato l’8 settembre 2020.

La rivista mensile Renwu è stata fondata nel 1980 sotto il People’s Daily Press ed è ora gestito dalla casa editrice statale People’s Publishing, che pubblica principalmente libri di politica. A marzo, Renwu ha condotto un’intervista con Ai Fen, uno dei primi medici a condividere informazioni sull’epidemia di COVID-19 nonostante gli avvertimenti del suo ospedale di rimanere in silenzio. L’intervista è stata cancellata nel giro di poche ore, ma è stata ampiamente condivisa attraverso una varietà di metodi creativi per aggirare la censura, incluso l’uso di emoji e l’inversione dell’ordine delle parole. Il pezzo tradotto di seguito fornisce un esame alternativo della situazione da parte di individui la cui vita è tenuta in ostaggio da forze al di fuori del loro controllo. L’articolo alterna le interviste ai lavoratori con i dati del settore, esaminando non solo l’impatto dei controlli algoritmici sui lavoratori stessi (noti come “motociclisti” perché consegnano cibo e altre merci guidando scooter elettrici), ma anche i modi in cui gli attori esterni contribuiscono a questo sistema, e che sono a loro volta da esso controllati.

Poiché si tratta di un pezzo particolarmente lungo, sarà utile prima fornire ai lettori un riepilogo dei contenuti. La sezione di apertura, “Ordine ricevuto”, racconta la crescente pressione esercitata sui riders dalla riduzione dei tempi di consegna. Poiché i processi di apprendimento automatico spingono verso tempi di consegna sempre più brevi, un risultato celebrato come un trionfo della tecnologia dai creatori dell’algoritmo, i guidatori non hanno altra scelta che violare i sistemi di controllo del traffico. Le sezioni successive “Navigazione”, “Azione sorridente e “Valutazioni a cinque stelle”, approfondiscono le minacce alla sicurezza pubblica create da questo processo e l’ulteriore spostamento di responsabilità dalle aziende ai riders.

Heavy Rain” inizia a mettere in discussione questo “trionfo della tecnologia”, rivelando che un singolo evento meteorologico è sufficiente a rovesciare l’utopia di efficienza degli algoritmi. Come molti presunti “sistemi intelligenti”, gli algoritmi delle piattaforme richiedono l’intervento umano per funzionare. È qui che si apre il sipario, con un supervisore di Ele.me che ammette che questo intervento è fatto per rendere più difficili le condizioni dei lavoratori. In definitiva, coloro che hanno il potere di cambiare il sistema hanno scelto di non fare nulla – o addirittura di esercitare quel potere per spingere ulteriormente i riders ai limiti delle loro capacità alla ricerca di un profitto ancora maggiore.

“Navigazione” mostra come l’uso di un sistema algoritmico consenta alla piattaforma di generare richieste che sarebbero irragionevoli da parte di un altro essere umano, inclusa la guida contro il flusso del traffico, il raggiungimento di tempi di consegna che sarebbero possibili solo volando e persino attraversando i muri. “Games” indaga ulteriormente gli impatti del controllo algoritmico, sostenendo che la ludicizzazione dei salari dei ciclisti dà l’impressione di una maggiore indipendenza per i lavoratori, mentre di fatto li sottopone a un sistema di controllo che plasma la loro stessa percezione della realtà.

Le sezioni “Ascensori”, “Custodi”, “Coca-Cola e “Peppa Pig” approfondiscono, rispettivamente, le relazioni dei riders con la direzione dell’edificio, i proprietari di ristoranti e i clienti. Ogni relazione rappresenta una variabile nel processo di consegna che i ciclisti, di fronte ai tempi di consegna assegnati dagli algoritmi, hanno l’onere di gestire. Spesso queste variabili richiedono l’esercizio di uno sforzo emotivo e la sottomissione di se stessi da parte dei lavoratori a un sistema dominato dai capricci del consumatore e dalla produzione di prodotti sui quali non hanno alcun controllo. In particolare, “Coca-Cola e Peppa Pig” dimostra come gli algoritmi modellano la realtà non solo per i riders, ma anche per i consumatori: un cliente osserva che mentre in precedenza era stato abbastanza felice di guardare la TV mentre aspettava il suo cibo, ora lo trova insopportabile a causa dei tempi di consegna irrealistici forniti dalla piattaforma.

Le sezioni “Scooter”, “Smiling Action”, “Five Star Ratings” e “The Final Safety Net”, esaminano i sistemi che spingono i riders ad accollarsi ulteriori rischi, assicurando che i profitti continuino ad accumularsi sulle piattaforme. In “Smiling Action”, Renwu mette in luce i tentativi delle piattaforme di respingere le critiche del pubblico riguardo agli incidenti che coinvolgono i conducenti delle consegne con controlli di sicurezza casuali (a cui Meituan ha dato il nome orwelliano di “Smiling Action”) che sottopongono ulteriormente i motociclisti a sistemi di controllo spietati e incoerenti.

Le interviste con gli agenti di polizia nella sezione “Five Star Rating” dimostrano che le risposte del governo hanno ulteriormente spostato la colpa e la responsabilità per le minacce alla sicurezza sui riders. Piuttosto che costruire infrastrutture di trasporto più adatte a un numero crescente di riders che effettuano le consegne, o emanare leggi che affrontano il problema degli algoritmi che spingono i motociclisti a violare le leggi sul traffico, le città hanno invece optato per sorvegliare e punire i singoli ciclisti. Sebbene gli ufficiali di polizia intervistati esprimano simpatia per la difficile situazione dei riders, essi continuano a far rispettare le leggi ai danni di questi ultimi. Mentre puniscono i riders per le infrazioni, questi ufficiali spesso si assumono il compito di consegnare cibo, assicurando la continuità del sistema, che rimane incontrastato. Gli ufficiali alla fine sono diventati anche essi coscritti dell’algoritmo. “The Final Safety Net”, che si occupa delle inadeguatezze e della negazione della copertura assicurativa da parte delle piattaforme, illustra ulteriormente la vulnerabilità dei riders in assenza di formali contratti di lavoro.

La sezione di chiusura, “Gioco infinito”, rivolge brevemente la sua attenzione agli stessi programmatori, suggerendo che a loro volta sono intrappolati, al servizio di un sistema più ampio, con un background educativo che li ha lasciati mal equipaggiati per accedere adeguatamente al sistema. Questa sezione allude anche a preoccupazioni più ampie sulla privacy dei dati personali che stanno guadagnando terreno nella Cina continentale, osservando che anche se i dati dei riders vengono utilizzati per perfezionare i sistemi algoritmici di controllo, la proprietà di tali dati rimane in discussione. Alla fine, conclude l’articolo, questi lavoratori sono intrappolati in un “gioco” che non capiscono completamente, con poca scelta se non quella di continuare a giocare.

Le proteste dei riders delle consegne waimai2 avevano già iniziato a intensificarsi prima dell’attuale maggiore copertura mediatica riguardo alla loro difficile situazione. Gli scioperi dei riders della consegna di cibo sono aumentati di oltre quattro volte tra il 2017 e il 2019, passando da dieci scioperi segnalati nel 2017 ad almeno 45 nel 2019 secondo il China Labour Bulletin. L’abuso di gig worker e corrieri è una questione globale e intersettoriale. Anche i riders in Brasile, Corea del Sud, Tailandia e Romania si sono uniti alle proteste per chiedere migliori condizioni di lavoro. Più di recente, sono aumentati anche gli scioperi e le proteste dei corrieri kuaidi, molti dei quali consegnano ordini dalla fiorente industria cinese dell’e-commerce, con Service Worker Notes che proprio quest’anno hanno riportato migliaia di post online riguardanti scioperi dei corrieri. Analogamente alle piattaforme di consegna di cibo, le piattaforme dei corriere hanno cercato di espandere la propria quota di mercato tagliando i prezzi di consegna, trasferendo tali tagli ai salari dei propri lavoratori mentre le entrate delle piattaforme continuano a crescere. I lavoratori di diverse importanti società di corrieri stanno protestando per gli arretrati salariali. […]

Abbiamo scelto di tradurre questo articolo non solo per la sua utile indagine sulla struttura della governance algoritmica del lavoro, ma anche perché la sua pubblicazione – e la diffusione di analoghi rapporti sui lavoratori precari – segna un significativo evento per ciò che riguarda le condizioni degli addetti alle consegne e la conoscenza delle piattaforme che li impiegano. Mentre nel nostro prossimo articolo esploreremo la storia e le dinamiche attuali del cosiddetto “capitalismo delle piattaforme” in Cina, con un occhio al fatto che l’attuale riconoscimento da parte dei media dei lavoratori delle piattaforme potrebbe essere un segnalare circa la fine dell’espansione di tutte le piattaforme industriali, qui vogliamo sottolineare il terreno conflittuale che ha dato origine a queste forme di segnalazione: l’indagine di Renwu arriva mentre la lenta ripresa della Cina dopo l’epidemia di COVID-19 ha visto un ampliamento della disuguaglianza. Lo stimolo del governo si è concentrato principalmente sulle imprese e sui consumatori della classe media, piuttosto che sui lavoratori migranti che hanno visto la perdita di reddito più significativa (fino al 75% durante l’apice dei blocchi pandemici a febbraio e marzo, secondo la Stanford University’s Rural Education). Allo stesso tempo, funzionari come il Premier Li Keqiang hanno indicato il settore informale come la soluzione alla crescente disoccupazione cinese.

Infine, l’indagine di Renwu sugli impatti negativi del duopolio Meituan/Ele.me arriva mentre il governo cinese sta cercando di affermare un maggiore controllo sulle principali società tecnologiche, con le nuove linee guida antitrust rilasciate il 10 novembre che prendono di mira i giganti della tecnologia tra cui Meituan. Lo stesso giorno, un post dell’Amministrazione Cyberspace ha esortato le aziende tecnologiche cinesi a non consentire ai consumatori cinesi di diventare “prigionieri degli algoritmi”, facendo eco al framing utilizzato nell’articolo di Renwu. In definitiva, questo rapporto dimostra che la crescente dipendenza dal settore informale senza reti di sicurezza sociale rischia di provocare una diminuzione dei salari e una maggiore vulnerabilità per i lavoratori. Inoltre, indirizzando lo stimolo economico attraverso le imprese come Ele.me e Meituan, lo Stato sta favorendo l’ulteriore concentrazione di ricchezza nelle mani di poche grandi aziende. Concentrandosi su un settore che trasferisce intenzionalmente il rischio sui lavoratori, l’articolo di Renwu dimostra chiaramente le ripercussioni negative sui lavoratori di inadeguate reti di sicurezza sociale e scarsa protezione, nonché il controllo crescente e in gran parte incontrollato delle aziende tecnologiche sulla natura della realtà e dei consumi.

(1) Il cosiddetto capitalismo delle piattaforme non celebra il dominio dell’algoritmo, come suggerisce un pensiero feticisticamente orientato che tanto successo ha presso l’opinione pubblica e l’opinione scientifica (due facce della stessa medaglia): esso attesta piuttosto il dominio sempre più invasivo, capillare e globale (totale) del rapporto sociale capitalistico. Su questi temi rinvio a:

L’ALGORITMO DEL CONTROLLO SOCIALE
SORVEGLIARE E PROFITTARE
SUL POTERE SOCIALE DELLA SCIENZA E DELLA TECNOLOGIA

(2) Un solo esempio. La lotta interimperialistica mondiale per la spartizione dei mercati, delle materie prime e del plusvalore, e per la supremazia finanziaria, tecnologica e scientifica è presentata dagli amici della Cina come una «grandiosa lotta di classe». Come si spiega questa gigantesca quanto grottesca sciocchezza? Essa si spiega alla luce di un’altra gigantesca quanto odiosa panzana ideologica: la natura socialista, sebbene “con caratteristiche cinesi” (sic!), del regime cinese. Anche coloro che nella sinistra occidentale sostengono «l’inesorabile deriva capitalistica della Cina» muovono dal falso presupposto di un passato socialista che in Cina non c’è mai stato nemmeno ai tempi di Mao Tse-tung, il “padre” della rivoluzione nazionale-borghese nel grande Paese asiatico. Rinvio ai miei diversi scritti sulla Cina. Ne cito solo alcuni: Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

LO SPETTRO DI MALTHUS. E QUELLO DI MARX

Il libro di Malthus On Population era un pamphlet
contro la Rivoluzione francese e le contemporanee
idee di riforma in Inghilterra. Era un’apologia della
miseria delle classi lavoratrici [1].

La teoria malthusiana della popolazione è il sistema
più feroce e barbaro che sia mai esistito, un sistema
della disperazione, che distrusse tutte le belle frasi
sull’amore del prossimo e sulla cittadinanza mondiale [2].

Noi, semplicemente, annulliamo la contraddizione
superandola. Si dilegua così l’opposizione fra la
sovrappopolazione qui e l’eccesso di ricchezza lì,
si dilegua il fatto prodigioso, più prodigioso di tutti
i prodigi di tutte le religioni messe insieme, che una
 nazione debba morire di fame a causa della ricchezza
e della sovrabbondanza; si dilegua la folle tesi che la
terra non abbia la capacità di nutrire gli uomini [3].

 

Lo spettro di Malthus è il titolo della personale di Marzia Migliora ospitata dal Museo MA*GA di Gallarate (Varese). «Lo Spettro di Malthus è l’ideale conclusione del ciclo di ricerca degli ultimi anni, che Marzia Migliora ha dedicato all’analisi sul rapporto tra produzione di cibo, merce e plusvalore del modello capitalista e allo sfruttamento delle risorse umane, animali e minerarie. Temi evocati fin dal titolo del progetto proposto in cui l’artista richiama la teoria enunciata da Thomas Malthus, economista e demografo inglese (1766-1834), che teorizzava, già a fine diciottesimo secolo, il problema dell’insostenibilità tra crescita demografica e produzione alimentare, indicando come conseguenze di monoculture e allevamenti industriali, possibili carestie e pandemie a livello globale. Lo spettro di Malthus chiama direttamente in causa la figura dello studioso inglese che nel 1798 pubblica Saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti sullo sviluppo futuro della società, precursore rispetto agli squilibri tra crescita demografica e produzione alimentare. “Le motivazioni – afferma il curatore della mostra Matteo Lucchetti – che hanno portato Marzia Migliora ad esplorare le contraddizioni insite nei modelli produttivi agricoli industrializzati, o le pratiche estrattive intensive del capitalismo neoliberale, sono ancorate alla convinzione che i paradigmi sui quali si basa l’esistenza del mondo industrializzato che conosciamo, siano alla radice delle emergenze, presenti e future, che il genere umano si sta progressivamente trovando ad affrontare”. “Con l’opera Lo Spettro di Malthus – continua Alessandro Castiglioni, conservatore del MA*GA – Marzia Migliora prosegue una ricerca pluriennale dedicata a lavoro, risorse naturali e ambiente, interrogando ciascuno di noi sulle responsabilità, individuali e collettive, relative all’uso e sfruttamento di risorse e forza lavoro”» (Arte.it). Per l’autrice qui menzionata «Lo spettro di Malthus apre una riflessione sul valore del denaro, in relazione al modello di vita proposto nella società dei consumi, alimentato dal costante desiderio di ricchezza come obiettivo per una vita felice» ( Versus, dicembre 2019).

Naturalmente non intendo dire nulla sul merito squisitamente artistico della mostra, anche perché non ne ho le “competenze specifiche” né ritengo che il mio giudizio estetico sulle opere di Marzia Migliora possa essere di un qualche interesse per chi legge queste righe. Qui intendo piuttosto svolgere una stringata riflessione sul merito concettuale che informa la mostra di cui si parla, la quale in realtà rappresenta per me un mero pretesto per dire la mia su una questione estremamente generale e, come si dice, di scottante attualità. Lungi da me insomma l’intenzione di polemizzare con l’autrice delle opere esposte nel Museo di Gallarate, e credo anzi di soddisfare le sue aspettative, visto che l’artista auspica l’apertura di una riflessione su temi e problemi che agitano la nostra scombussolata epoca.

Leggendo il titolo e la presentazione della personale di Marzia Migliora mi sono chiesto cosa spinge persone sensibili ai destini dell’uomo e del pianeta a cercare in Malthus conforto e ispirazione, e so che se dovessi trovare la risposta negli scritti del celebre curato inglese di certo fallirei l’impresa, perché tutto si può dire delle opere malthusiane, tranne che esse siano ispirate da idee di empatia e di solidarietà nei confronti degli uomini, soprattutto di quelli che vivono, ma forse sarebbe meglio scrivere sopravvivono, nei piani bassi dell’edificio sociale capitalistico. Come sia stato possibile trasformare Malthus in un campione dello spirito umanista e ambientalista per me resta un mistero. Probabilmente sulla buona opinione di cui Malthus gode soprattutto presso l’opinione progressista occidentale pesa anche il “bizzarro” giudizio che una volta John Maynard Keynes formulò sul curato inglese: «Se, al posto di Ricardo, fosse stato Malthus il padre che ha influenzato l’economia del XIX secolo! Il mondo ne sarebbe stato più ricco e accorto. [Malthus] ha radici profonde nella tradizione inglese della scienza umana […], tradizione segnata dall’amore della verità e una assai nobile lungimiranza, da un prosaico buon senso, libero da ogni sentimentalismo e ogni metafisica, da un immenso disinteresse e spirito civico» [4]. Già mi pare di sentire crasse risate provenire dall’oltretomba: si tratta dello spettro di Marx?

Certo, bisogna poi considerare la famosa – e per alcuni famigerata – teoria malthusiana della popolazione, la quale a dire il vero appariva vecchia e contraddetta dai fatti già ai tempi di Marx e di Engels, che difatti ebbero facile gioco nel randellare criticamente gli epigoni del maestro inglese, il quale a differenza degli scolari non mancava di una certa intuizione e di un certo acume, come peraltro non mancarono di riconoscere gli stessi autori del Manifesto del Partito Comunista [5]. Scriveva nel 1913 il demografo Leroy-Beaulieu: «Il pericolo al quale è esposta la civiltà moderna si trova in direzione del tutto opposta a quella in cui lo cercava Malthus. […] Le razze europee manterranno ancora a lungo una eccedenza degna di nota delle nascite rispetto ai decessi? Un secolo fa, al tempo di Malthus, tale questione non si sarebbe posta» [6]. Come altri demografi, economisti e politici del suo tempo, Leroy-Beaulieu denunciava i «pericoli economici e morali in presenza di una popolazione stazionaria e di una debole natalità», e concludeva: «Il mondo ha notevole bisogno di popolazione». Paesi come l’Italia e il Giappone oggi si trovano esattamente in questa condizione, e ormai da diversi anni si parla in Occidente di crisi demografica. Negli anni Venti del secolo scorso diversi scienziati sociali calcolarono che, al livello della tecnica e della scienza di quel periodo, la Terra avrebbe potuto occupare un numero massimo di abitanti che andava dai 6 agli 8 miliardi; allora la popolazione mondiale non superava 1,9 miliardi di anime. Oggi la popolazione mondiale si aggira intorno ai 7,4 miliardi, ed essa può disporre di un apparato tecnico-scientifico incomparabilmente più potente rispetto a quello che la società capitalistica poteva vantare un secolo fa [7].

«Secondo la Fao nel mondo si produce cibo per 12 miliardi di persone. La popolazione del pianeta è di 7 miliardi di individui e 842 milioni soffrono la fame» [8]. La progressione geometrica malthusiana fa acqua da tutte le parti, oggi più che al tempo in cui il noto ubriacone tedesco ne metteva in ridicolo, penetrandolo criticamente, il reazionario fondamento concettuale. Scrive il “futurologo” Gerd Leonhard: «La tecnologia rende le cose abbondanti perché con la buona tecnologia il prezzo cala drasticamente e la tecnologia esponenziale renderà le cose esponenzialmente abbondanti. I mezzi di comunicazione, l’informazione, i viaggi, i servizi finanziari, i servizi medici, il cibo, l’acqua, l’energia. In meno di 20 anni possiamo arrivare al punto in cui avremo energia, cibo e acqua abbondanti, mentre la maggior parte del lavoro sarà svolta da macchine o software; il che significa che “lavoreremo” solamente per poche ore al giorno, godendoci lo stesso tenore di vita e di reddito. Ciò significherà che il consumo e la crescita non potranno essere più considerati i principi che definiscono l’economia – si svilupperà una sorta di post-capitalismo. Il PIL come parametro sarà completamente sparito da allora – e forse troveremo un modo per perseguire più FIL (Felicità Interna Lorda)» [9]. Il concetto di FIL, peraltro oggi di gran moda presso i progressisti, ai miei occhi appare eccitante quanto lo è il pensiero di un sasso che mi cade dritto sulla testa; tuttavia la riflessione di Leonhard coglie una tendenza storica che apre all’umanità la possibilità di emanciparsi dall’indigenza, dal duro lavoro, dalla divisione classista e sociale del lavoro [10], e di vivere un’esistenza piena, felice e libera, realizzando finalmente quel concetto di «uomo in quanto uomo» che si trova nella produzione intellettuale e artistica dei grandi umanisti che si sono succeduti in oltre duemila anni di storia. Solo il Moloch chiamato Capitale rende impossibile la realizzazione della tendenza storica che sorride all’umanità, lasciandola così nella triste, precaria e disumana condizione che sappiamo.

«Sottrarre terra destinabile alla produzione alimentare, per ottenere invece bioetanolo e biodisel è eticamente irrazionale, soprattutto se vengono utilizzati terreni dell’Africa, un continente che ha bisogno di sfamare milioni di suoi abitanti. La produzione di biocarburanti è un metodo basato ancora su logiche colonialiste ed eurocentriche, che considerano l’Africa come uno spazio di conquista e di sfruttamento. A pagarne le conseguenze sono sempre i più poveri» [11]. Com’è noto, in questa competizione è il celeste imperialismo cinese che sta avendo la meglio. Ora, ancorché umanamente irrazionale, sul fondamento della società capitalistica la trasformazione del cibo in biocarburante mentre in molte parti del pianeta la gente continua a morire di fame è un fatto logico, del tutto razionale, che si spiega benissimo con la logica e con la razionalità del noto Moloch. Piuttosto i riflettori della critica andrebbero puntati ancora una volta sui rapporti sociali che rendono non solo possibile ma assolutamente necessario (per il Capitale) la trasformazione di tutto e di tutti in altrettante occasioni di profitto. Volere imporre al Capitale una razionalità, una logica e un’etica che non possono appartenergli, mi sembra uno sforzo di gran lunga più “utopistico” di quello che propone l’autentico anticapitalista, il quale almeno ha capito quale radice andrebbe estirpata per orientare la comunità nella giusta (umana) direzione.

Scriveva Henrik Grossmann alla vigilia della grande crisi del 1929: «È caratteristico dell’economia politica borghese odierna non il timore della sovrappopolazione, bensì al contrario quello della sottopopolazione […] Il mondo è già ripartito, la riserva umana disponibile è limitata. Qui il capitalismo trova per il suo sviluppo un limite che egli deve tentare in ogni modo di spezzare. Risiede qui dunque un motivo sempre presente di conflitti e di guerre per la fonte insufficiente di plusvalore» [12]. Bisogna infatti ricordare che nel capitalismo, ancor più che nei precedenti modi di produzione, il concetto di popolazione è strettamente correlato a quello di popolazione lavoratrice, la quale costituisce appunto la base del vitale (per il Capitale, beninteso) plusvalore. Scriveva Marx: «La massa del plusvalore può essere aumentata soltanto aumentando il numero degli operai, cioè aumentando la popolazione operaia.  L’aumento della popolazione costituisce, in questo caso, il limite matematico della produzione di plusvalore ad opera del capitale complessivo sociale» [13]. Come si vede Marx parlava di «limite matematico» non in astratto, ma riferendolo a un’economia basata sull’estrazione di plusvalore dal lavoro vivo, mettendolo in intima e inscindibile relazione con una peculiare società: quella capitalistica. Il capitale, osservava sempre Marx, cerca di superare sempre di nuovo quel limite (sociale, non fisico), o attraverso il prolungamento fisico della giornata lavorativa («produzione di plusvalore assoluto»), oppure accrescendo la produttività dei lavoratori a parità di giornata lavorativa o addirittura anche in presenza di una sua diminuzione («produzione di plusvalore relativo»), cosa che esso realizza grazie all’impiego di mezzi di produzione sempre più sofisticati e a un’organizzazione del lavoro sempre più razionale  – dal punto di vista degli interessi del Capitale, non certo dell’umanità genericamente considerata. Infatti, «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» [14]. Su questi importanti aspetti della “problematica” rimando al PDF Sul potere sociale della scienza e della tecnica.

La crisi mondiale degli anni Trenta cambierà drammaticamente i termini del problema demografico nei Paesi capitalisticamente più avanzati del pianeta (soprattutto in relazione alla formazione di un gigantesco «esercito industriale di riserva»), che muterà ancora una volta nel Secondo dopoguerra, quando la fame di popolazione operaia tornerà a farsi risentire soprattutto in quanto problema attinente al processo di accumulazione capitalistica. Questo semplicemente per dire quanto sia sbagliato porre il problema demografico in astratto, senza cioè considerarlo alla luce delle tendenze economico-sociali di breve, di medio e di lungo termine registrabili nei diversi Paesi del mondo e nei suoi differenti Continenti.

Negli anni Settanta del secolo scorso, quando il boom economico era ormai diventato per i Paesi occidentali solo un bellissimo ricordo e la crisi petrolifera veniva a impattare su un capitalismo già in forte debito d’ossigeno (cioè di profitto), la figura di Malthus subì un processo di trasformazione (stavo per scrivere di beatificazione!) da parte di un gruppo di scienziati sociali (economisti, ecologisti, sociologi, demografi, statistici, ecc.) intenzionati a fare dell’autore del famoso Saggio sul principio di popolazione il teorico-profeta dei limiti dello sviluppo. L’allusione al celebre rapporto del 1972 (The Limits to Growth) fatto dal Massachusetts Institute of Technology per conto del Club di Roma è del tutto ricercato. «Lo studio del MIT, finanziato dalla Fondazione Volkswagen, ha come scopo di definire chiaramente i limiti fisici e le costrizioni relativi alla moltiplicazione del genere umano e alla sua attività materiale sul nostro pianeta. […] Sebbene si ponga ancora l’accento sui vantaggi dell’aumento di produzione e consumo, nei paesi più prosperi sta nascendo la sensazione che la vita stia perdendo in qualità, e vengono messe in discussione le basi di tutto il sistema» [15]. Ribadisco il concetto: a mio avviso parlare in astratto di «limiti fisici», di sovrappopolazione, di «attività umane» e, soprattutto di «sistema» non ha alcun senso storico-sociale, mentre ne ha uno politico-ideologico (il quale prescinde dalle intenzioni degli stessi autori  e sponsorizzatori del famoso Rapporto) ben preciso: celare dietro una fraseologia neomalthusiana le reali cause dello sfruttamento degli uomini e del pianeta, nonché dell’inquinamento e della distruzione degli ecosistemi. Ebbene queste cause sono a mio avviso riconducibili immediatamente, senza alcuna mediazione, al dominio capitalistico sul mondo, ai rapporti sociali di produzione/distribuzione che oggi dominano tutte le società di questo pianeta. Io infatti preferisco parlare di Società-Mondo, con le sue intrinseche contraddizioni tra aree più sviluppate e meno sviluppate, più dinamiche e meno dinamiche, più popolate e meno popolate, e così via. Il concetto di globalizzazione capitalistica è ancora troppo superficiale per esprimere adeguatamente l’intera essenza della realtà che ci sta dinanzi e che mi sforzo, non so con quali risultati, di esprimere.

Insomma, quando osserviamo e valutiamo le conseguenze dello sviluppo capitalistico (e non genericamente industriale o moderno) è appunto di sistema capitalistico che dobbiamo parlare, il quale dominava anche nelle società cosiddette di socialismo reale, che difatti erano società realmente capitalistiche: sto parlando in primo luogo dell’ex Unione Sovietica e della Cina maoista, la quale, pur attraverso contraddizioni e catastrofi economico-sociali di vario tipo (registrate nella mostruosa contabilità in termini di sofferenze e di morti), ha posto le basi per il decollo del gigante asiatico all’inizio degli anni Ottanta, con i risultati eccezionali che conosciamo. Se oggi per le persone è molto più facile immaginare e credere possibile la fine del mondo, magari a causa di una micidiale pandemia, che la fine del capitalismo, ebbene ciò si deve anche, se non soprattutto, alla più grande menzogna (altro che fake news! ) mai circolata in questo pianeta: l’esistenza di un “socialismo reale”. La critica dell’industrialismo e della modernità genericamente intesi, tipica del pensiero ecologista occidentale, dovrebbe misurarsi anche con la menzogna qui denunciata, se non vuole rimanere intrappolata nel riformismo di stampo capitalista che porta tanta acqua al mulino di chi ha interesse a “svecchiare” l’economia fondata sulla ricerca del profitto.

Il club di Roma si sforzò di attualizzare le teorie demografiche malthusiane elaborate in una fase dello sviluppo capitalistico che, come ho già detto, era molto vecchia già ai tempi di Marx e di Engels. Malthus ai suoi tempi fu una cosa seria, comunque lo si voglia giudicare sul piano ideologico e scientifico; dei suoi epigoni (soprattutto quelli tardi) non si può dire la stessa cosa. Come spesso accade, alla tragedia non segue qualcosa che possa reggerne il confronto, nemmeno alla lontana.

«I limiti dello sviluppo era un rapporto contro l’inquinamento ambientale americano dell’epoca, che vedeva nella cessazione della crescita globale e dello sviluppo economico l’unica soluzione possibile per evitare la catastrofe. Queste conclusioni vennero rifiutate dal Terzo Mondo: meglio risolvere il problema dell’inquinamento e dell’iperconsumo aggredendo il sistema produttivo dei paesi sviluppati – tramite vincoli o stimoli economici – che bloccare la crescita globale condannando i paesi poveri al sottosviluppo eterno» [16]. Mutatis mutandis, è la stessa posizione che Paesi come la Cina e l’India, e l’intero Continente africano, oggi difendono contro chi sostiene che il pianeta non può tollerare uno stile di vita di tipo occidentale nei Paesi a più forte “impatto demografico”: «Un solo pianeta non basterebbe!» Cinesi, indiani e africani rispondono che adesso è arrivato il loro turno, che gli occidentali predicano bene dopo aver razzolato malissimo per molto, troppo tempo, e che dietro il loro amore per il pianeta probabilmente si nasconde una nuova forma di razzismo. Rifiutare lo sviluppo economico basato sull’uso del carbone, del petrolio e dell’energia atomica sarebbe oggi un suicidio, e comunque la “transizione ecologica” deve tenere conto delle reali condizioni sociali dei Paesi a più alta densità demografica. Questo ribattono i Paesi un tempo definiti in via di sviluppo ai Paesi “ecologicamente più sensibili” – che pregustano le enormi possibilità di profitto offerte dalla cosiddetta “transizione ecologica”. In effetti, è difficile far comprendere alle popolazioni che per la prima volta nella loro storia possono avvicinarsi al tanto agognato “stile di vita occidentale” che «un aumento del consumo non rappresenta un aumento del benessere», mentre di certo rappresenta un’aggressione all’ecosistema. Dove sta la ragione? Ovvero, e più fondatamente, di che ragione si tratta?

Chiunque abbia letto il saggio di Malthus del 1798 sa bene come esso sia informato dall’inizio alla fine da un pensiero che era fortemente reazionario già ai suoi tempi. Come scrive Guido Maggioni nella sua introduzione del saggio malthusiano pubblicato dall’Einaudi, l’obiettivo dichiarato del Saggio non è il «principio di popolazione», ma la «confutazione delle ideologie del progresso, con particolare riguardo alle teorie di Condorcet e, soprattutto, di Godwin. […] L’obiettivo di Malthus è quello di fornire una base scientifica alla difesa dell’ordine costituito: la divisione in classi, la proprietà privata, il principio dell’interesse personale. La tesi non era nuova, ma ripresa da Malthus ebbe un immenso successo nella prima metà dell’Ottocento, alimentando un ampio dibattito. Il Saggio va dunque considerato come un pamphlet contro la rivoluzione e contro l’ideologia del progresso, come un episodio della polemica conservatrice che nella cultura inglese conosceva già il grande precedente delle Reflections on the Revolution in France di Edmund Burke» [17].

Pochi passi del famoso (o famigerato?) Saggio sono sufficienti a dare l’idea di che cosa stiamo parlando. Scriveva Malthus: «Attraverso i regni animale e vegetale, la natura ha sparso dappertutto i semi della vita con mano quanto mai prodiga e generosa. […] Ma la necessità, questa imperiosa legge di natura che tutto pervade, li limita entro confini prescritti. La razza delle piante e la razza degli animali si contraggono sotto questa grande legge restrittiva. E la razza umana non può sfuggirle, per quanti sforzi faccia. […] Questa naturale diseguaglianza dei due poteri, di popolazione e di produzione da parte della terra, e quella grande legge della nostra natura che costantemente deve mantenere in equilibrio i loro effetti, costituiscono la grande difficoltà, che a me pare insormontabile, sulla via che conduce alla perfettibilità della società.  […] Non vedo alcuna via per la quale l’uomo possa sfuggire al peso di questa legge che pervade tutta la natura animata. Nessuna sognata forma di eguaglianza, nessuna legge agraria spinta al massimo grado, potrebbe rimuoverne la pressione anche per un solo secolo. Ed essa appare dunque decisiva per negare la possibile esistenza di una società nella quale tutti i suoi membri possano vivere con agio, felicità e relativo ozio e riposo, e non sentire l’ansia di procurare mezzi di sussistenza per sé e per le proprie famiglie. Di conseguenza, se le premesse sono giuste, l’argomentazione è decisiva per negare la perfettibilità della massa dell’umanità» [18]. In saggio scritto nel 1830, Malthus ribadiva il concetto: «Per quanto l’uomo si innalzi sopra tutti gli altri animali per le sue facoltà intellettive, non bisogna pensare che le leggi fisiche cui egli è soggetto debbano essere radicalmente diverse da quelle che si osservano prevalere nelle altre parti della natura animata» [19]. Qui abbiamo un esempio di volgarissimo materialismo borghese, che peraltro piacque molto a Darwin, il quale, com’è noto, ne trasse l’ispirazione per la sua «lotta per l’esistenza» [20].

Come si vede Malthus non nega la cattiva utopia della società perfetta; non polemizza con le ricette buone «per l’osteria dell’avvenire» (Marx): egli nega la stessa possibilità di un reale miglioramento nelle condizioni della comunità umana, nega non l’ingenua idea di perfezione ma la perfettibilità «della massa dell’umanità», massa destinata necessariamente a subire le conseguenze della Legge della Necessità. Per Malthus solo pochi eletti possono aspirare a un’esistenza materialmente e intellettualmente ricca e felice. Ma chi è stato il soggetto che ha istituito la maligna legge di natura che condanna gran parte degli uomini a una vita di duro lavoro e di miseria? Il «Creatore Supremo» in persona! Possibile? Secondo Malthus pare di sì. E perché lo avrebbe fatto? «Per destare l’uomo all’azione e rendere la sua mente atta a ragionare. Per fornire all’uomo tali incessanti eccitamenti all’azione e per spingerlo a secondare i benigni disegni della Provvidenza con la piena coltivazione della terra, è stato stabilito che la popolazione debba aumentare assai più rapidamente degli alimenti. […] Ritornando al principio di popolazione e considerando l’uomo quale realmente è, e cioè un essere inerte, torpido e alieno dalla fatica se non quando vi è costretto dalla necessità (ed è certo il massimo della follia considerare l’uomo come se fosse quell’essere ideale che immaginiamo nelle nostre ingenue fantasie), potremo affermare con sicurezza che il mondo non si sarebbe popolato se il potere di popolazione non fosse superiore ai mezzi di sussistenza» [21].

Rimane sempre da spiegare perché mai il «Creatore Supremo» abbia optato, nella sua infinita potenza e bontà, per «un essere inerte, torpido e alieno dalla fatica se non quando vi è costretto dalla necessità», e non si sia invece deciso per un essere attivo, intellettualmente vivace e pronto ad assumersi tutte le responsabilità che conseguono dal desiderare una vita prospera e felice, né mi sembra particolarmente convincente quanto sostenne Malthus a proposito della condizione dell’uomo come un perenne stato di prova che arreca felicità a chi supera le difficoltà poste all’umanità dal «Creatore benevolente», cosicché «La legge della popolazione corrisponde perfettamente a tali esigenze» [22]. Ma qui conviene non addentrarsi in difficili “problematiche” teologiche. Probabilmente il “giovane Engels” colse nel segno quando scrisse: «La teoria malthusiana non è che l’espressione economica del dogma religioso della contraddizione tra spirito e natura e della conseguente corruzione di entrambe» [23]. Amen!

Estendere deterministicamente e meccanicamente ciò che accade nel “regno animale” al “mondo umano”, come fece Malthus, è del tutto errato già in linea di principio, perché tale operazione concettuale non tiene in alcun conto ciò che sostanzia la fondamentale differenza tra il primo e il secondo: il “regno animale” è assoggettato dal principio alla fine alle ferree e incoercibili leggi della natura; il “mondo umano”, che ovviamente comprende la natura come una sua parte costitutiva fondamentale, è in larghissima parte opera delle attività umane e risponde essenzialmente alle leggi della società, non alle leggi della natura, le quali in questo mondo architettato e costruito dall’uomo non sono ovviamente sospese o annullate, ma anch’esse socialmente mediate.

Ecco come nei Manoscritti del 1844 Marx traccia la linea di demarcazione tra l’uomo, in quanto prodotto storico-sociale, e l’animale, in quanto mero prodotto naturale: «La libera attività cosciente è il carattere specifico dell’uomo. […] L’animale è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa. L’uomo fa della sua attività vitale l’oggetto della sua volontà e della sua coscienza. Ha un’attività vitale cosciente. Non c’è una determinazione in cui immediatamente l’uomo si confonda. L’attività vitale cosciente distingue l’uomo immediatamente dall’attività vitale animale. Proprio soltanto per questo egli è un essere appartenente alla specie. O è un essere cosciente, cioè la sua propria vita è un oggetto per lui, proprio perché egli è un essere appartenente alla specie. […] La fabbricazione pratica d’un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come un essere cosciente appartenente alla specie» [24].  Nel concetto marxiano di ”specie” è dunque immanente l’unità “dialettica e organica” di storia e natura. Peculiare è dunque nell’uomo il bisogno di padroneggiare con la testa e con le mani ciò che gli sta dinanzi, lo sforzo cioè di non subire passivamente il mondo ma anzi di trasformarlo a proprio vantaggio. L’uomo incontra immediatamente il mondo non solo attraverso i sensi, ma anche attraverso la coscienza, qualunque grado di maturità e complessità essa abbia conseguito nelle diverse epoche storiche. Sotto questo aspetto è corretto dire che anche i sensi e l’istinto sono, nell’uomo, socialmente mediati. Il bisogno di padroneggiare il mondo a certe condizioni può diventare una volontà di sopraffazione e di sfruttamento. Le società classiste rappresentano l’esempio più vistoso e doloroso di un tale esito disumano.

Considerato che l’uomo non può essere nemmeno concepito fuori dalla dimensione sociale e dal suo vitale rapporto con la natura, «perché l’uomo è una parte della natura» (Marx), tutta la questione “antropologica” si risolve nella domanda che segue: i rapporti sociali che informano la vita della comunità sono tali da promuovere e favorire un’esistenza umana oppure no? Come già si è capito, io penso che la società capitalistica non solo non promuove né favorisce una tale esistenza, ma la nega sempre di nuovo, necessariamente.

«Se il lettore dovesse ricordarmi il Malthus, il cui saggio Essay on Population uscì nel 1798, io gli ricorderò che questo scritto non è che plagio superficiale da scolaretto, declamato in maniera pretesca, di scritti di De Poe, Sir James Steuart, Townsend, Franklin, Wallace ecc., e non contiene nemmeno una proposizione originale. Il grande scalpore destato da quest’opuscolo fu dovuto unicamente a interessi di partito. La rivoluzione francese aveva trovato nel regno britannico degli appassionati difensori; il “principio della popolazione”, elaborato lentamente nel secolo XVIII, annunciato poi a suon di tromba contro le dottrine del Condorcet e di altri, fu salutato entusiasticamente dall’oligarchia inglese come il grande sterminatore di tutte le voglie di progresso umano» [25]. «Chi potrebbe credere, a prima vista, che i Principles of Political Economy di Malthus non siano che la traduzione malthusiana dei Nouveaux Principes de l’économie politique di Sismondi? Eppure è così. L’opera di Sismondi apparve nel 1819. Un anno più tardi ne apparve, ad opera di Malthus, la caricatura inglese. Se Malthus combatteva in Ricardo la tendenza della produzione capitalistica, la quale è rivoluzionaria contro l’antica società, da Sismondi, con infallibile istinto pretesco, attinse soltanto ciò che era reazionario contro la produzione capitalistica, contro la moderna società borghese. […] Malthus non ha interesse a celare le contraddizioni della produzione borghese; al contrario, ha tutto l’interesse a metterle in evidenza, da un lato per dimostrare che la miseria delle classi lavoratrici è necessaria, dall’altro per dimostrare ai capitalisti che, affinché essi abbiano un’adeguata domanda, è indispensabile un clero ecclesiastico e statale ben ingrassato» [26]. Qui Marx fa riferimento alla teoria malthusiana del valore, la quale postulava l’assoluta necessità di una «terza classe di consumatori improduttivi» (a cominciare dai proprietari fondiari) dediti esclusivamente a realizzare il valore contenuto nelle merci, una consistente parte delle quali rimarrebbe invenduta, sempre secondo Malthus, alla luce della necessaria miseria dei lavoratori e della virtuosa frugalità dei capitalisti. «Ma questi rentiers fondiari non bastano a creare una “domanda sufficiente”. Bisogna ricorrere a mezzi artificiali. Questi consistono di forti imposte, in una massa di sinecure statali ed ecclesiastiche, in grandi eserciti, pensionati, decime per i preti, in un considerevole debito pubblico e, di tanto in tanto, in guerre dispendiose. Questi sono i “rimedi”» [27]. Una larga base di parassitismo sociale foraggiato dalle classi produttive della società borghese: questa era la reazionaria “utopia” malthusiana – la quale affascinò non poco Keynes, ossessionato dalle pericolose fluttuazioni della domanda in grado di pagare – la sola che può vantare giusti diritti nella società capitalistica. In quella base parassitaria Malthus includeva in primo luogo tutti i ceti sociali e intellettuali che avevano prosperato nella società che la rivoluzione capitalistica stava spazzando via proprio a partire dall’Inghilterra, avanguardia di quella rivoluzione.

Contro il reazionario Malthus il rivoluzionario Marx non mobilitò il pensiero progressista della borghesia illuminata del XVIII secolo e degli inizi del secolo successivo, bensì la concezione comunista che individuava nella stessa società capitalistica le condizioni oggettive dell’emancipazione dell’umanità attraverso l’emancipazione dei senza riserve, dei proletari, di chi per vivere è costretto a fare della propria esistenza (e non solo del proprio lavoro) una merce. La «ruota della storia» non andava fatta girare all’indietro, sempre ammesso che ciò fosse stato – e sia – possibile, ossia verso la precedente fase dello sviluppo capitalistico, come teorizzava il «socialismo piccolo-borghese», o addirittura in direzione delle epoche precapitalistiche, ma in avanti, verso un futuro di autentica libertà e di generale prosperità, una prospettiva che la rivoluzione capitalistica iniziata in Europa nel XVI secolo aveva finalmente reso oggettivamente possibile: l’utopia della Comunità Umana era passata dal sogno degli umanisti alla prassi dei rivoluzionari.

Oggi uno dei massimi esponenti dell’”anticapitalismo” ultrareazionario è Papa Francesco, che difatti è, al contempo, il più autorevole punto di riferimento del sinistrismo mondiale e la personalità più disprezzata dai liberali/liberisti di casa nostra, i quali lo accusano, a giorni alterni, di essere un “comunista” (sic!) o un “populista peronista”. Secondo il direttore del Foglio Claudio Cerasa, irritato dallo spirito “antiglobal” e “antimodernista” di cui sarebbe impregnata l’ultima Enciclica Francescana, «È il capitalismo inviso al Papa che ci renderà fratelli e ci salverà dal virus»: misteri della fede capitalistica! Quanto al denunciato «anticapitalismo» dell’attuale Papa, icona del progressismo mondiale (forse in attesa del successore del “negazionista” Trump), occorre stendere un velo pietoso sulla mediocrità del pensiero liberista/liberale e bestemmiare contro il nichilismo dei nostri oscuri tempi che fa della verità una barzelletta – che peraltro non fa ridere.

Chi vede in Marx un’apologeta dell’idea ottocentesca di progresso, mostra a mio avviso di non aver letto, non dico capito, la critica marxiana dell’economia politica. È ovvio, ad esempio, che il comunista del XXI secolo non può parlare dell’uso capitalistico delle macchine negli stessi termini in cui ne parlava Marx quando scrisse Il Capitale, cioè in un’epoca in cui solo una parte del mondo era stato assoggettato dai moderni rapporti sociali capitalistici: oggi è più facile ed attuale pensare che non si tratta più solo e semplicemente di un uso capitalistico della tecnologia già esistente, ma di una tecnologia adeguata ad una comunità autenticamente umana. Il processo di umanizzazione di una comunità che si fosse emancipata dalla divisione classista degli individui non potrebbe non toccare fin nell’essenza anche la prassi tecnoscientifica. Ma il nucleo fondamentale del problema messo a tema da Marx rimane a mio avviso intatto e addirittura più attuale che mai: occorre mettere l’uomo nelle condizioni di vivere secondo il principio della completa soddisfazione dei suoi molteplici bisogni: «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni!» [28]. Ovviamente per costruire le premesse di una comunità umana che sia tale non solo nominalmente, occorre superare il rapporto sociale capitalistico con ciò che esso presuppone e pone sempre di nuovo, a cominciare dal «sistema del lavoro salariato [che] è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» [29].  Quando «la Costituzione più bella del mondo» recita nel suo articolo di apertura che «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro» (salariato), essa confessa apertamene al mondo la natura capitalistica della società italiana – natura che rende necessaria anche la formazione di un «esercito industriale di riserva» più o meno numeroso: la disoccupazione conferma, non contraddice, la «Costituzione più bella del mondo».

Il concetto marxiano di miseria crescente, trivialmente presentato dai suoi critici come legge assoluta del pauperismo, chiama in causa la relazione che insiste nella società capitalistica tra crescente produttività del lavoro umano e retribuzione dei lavoratori, la cui miseria sociale cresce necessariamente proprio in rapporto alla crescente produttività del lavoro, resa possibile dall’introduzione nel processo lavorativo della potenza tecno-scientifica. Malthus assolutizzava e naturalizzava un fenomeno (la forbice tra popolazione e cibo) che ha un fondamento reale e concettuale solo a certe condizioni storico-sociali; il capitalismo ha messo in crisi proprio questo fondamento, spostando il problema dalla mera demografia nella sua immediata relazione con la nuda natura, all’organizzazione sociale considerata nella sua totalità – e nella sua dimensione planetaria. Si muore di fame, ci si immiserisce in termini relativi (ma spesso anche assoluti: vedi oggi!), si diventa obesi oppure anoressici non a causa di una drammatica sproporzione tra il numero delle bocche da sfamare e la quantità di generi alimentari che l’uomo e la natura sono in grado di mettere a disposizione della società, ma a motivo di un’irrazionalità sistemica (“strutturale”) che si spiega in primo luogo con i rapporti sociali di produzione vigenti nel capitalismo.

Negli anni Trenta del secolo scorso gli Stati Uniti, divenuta prima potenza capitalistica del pianeta nel corso della Prima carneficina mondiale, “vantavano” un esercito di disoccupati di oltre 13 milioni, e i lavoratori percepivano un salario inferiore a quello ritenuto per legge il “minimo vitale”, fissato a un valore annuo di 2000 dollari. I prezzi agricoli precipitarono a circa la metà del loro livello del periodo bellico; per ripristinare prezzi di mercato remunerativi il governo “progressista” di allora finanziò la distruzione di interi campi di cotone, di vigneti, di aranceti. «La devastazione di dieci milioni di acri di cotone fruttò agli agricoltori compensi per oltre 100 milioni di dollari» [30]. Sotto la pressione della potente corporazione dei dirigenti agricoli, preoccupata di ricostituire i prezzi della carne macellata, il segretario all’agricoltura Henry Agard Wallace organizzò anche l’abbattimento di 6 milioni di porcellini e di duecentomila scrofe in procinto di partorire. Il grano già raccolto venne stipato nei silos in attesa di tempi (leggi: prezzi) migliori. La gente moriva letteralmente di fame non perché si era prodotto troppo poco, ma viceversa perché la macchina capitalistica aveva prodotto troppo in relazione alle leggi che ne regolano il funzionamento. Com’è noto, queste leggi hanno a che fare con l’imperativo categorico dell’investimento capitalistico: generare profitti! Nella nostra società non si produce, immediatamente ed esclusivamente, per soddisfare i bisogni umani, ma fondamentalmente per soddisfare i bisogni del Capitale, un Moloch sociale che di fatto fa dei bisogni umani un mero pretesto per ingoiare profitti: per dirla sempre marxianamente, il valore di scambio domina sul valore d’uso, il lavoro morto (macchine, materie prime, ecc.) domina su quello vivo. Nel capitalismo non si produce e consuma troppo o troppo poco in termini assoluti, o in rapporto ai bisogni umani, ma sempre e necessariamente in rapporto alle esigenze dell’accumulazione capitalistica.

«Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l’epidemia della sovrapproduzione. La società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio» [31]. Un mostruoso paradosso che da solo basta a ridicolizzare lo spettro di Malthus, il quale non ha mai fatto paura a nessuno, salvo che ai malthusiani, i quali peraltro hanno gravemente travisato l’intenzione politico-filosofica dell’«innato plagiario» di Wotton.

A proposito dell’«epidemia sociale» evocata dallo spettro di Treviri, riflettendo su questi epidemici mesi mi viene in mente un altro passo del Manifesto: «La borghesia è incapace di assicurare al suo schiavo l’esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio» [32]. Marx ed Engels non hanno aspettato la distruzione umana ed ambientale che sperimentiamo oggi per dichiarare la radicale incompatibilità tra il dominio capitalistico  e l’uomo e la natura.

Concludendo! Si fa per dire. La demografia e il problema della produzione delle condizioni materiali di esistenza degli individui non vanno considerati in astratto, in relazione alla natura o a un contesto umano storicamente indeterminato e socialmente non caratterizzato; essi acquistano un reale significato concettuale e reale solo in intima relazione con una peculiare comunità umana, con una concreta dinamica sociale, con una specifica prassi sociale. In particolare, la cosiddetta «legge naturale della popolazione» non ha nulla di naturale e si spiega solo a partire dalla prassi sociale informata da peculiari rapporti sociali di produzione/distribuzione. Il primo recensore russo del Capitale così scriveva sul Viestnik Evropy del maggio 1872: «Marx nega che la legge della popolazione sia la stessa in tutti i tempi e in tutti i luoghi. Afferma anzi che ogni grado di sviluppo ha una sua propria legge della popolazione». Marx dice di condividere in pieno questa considerazione e, più in generale, la «esatta e benevola» esposizione del suo metodo fatta «dall’egregio autore» [33].

Parlare in un contesto capitalistico di divario tra crescita aritmetica dei generi alimentari e crescita geometrica della popolazione non ha alcun senso: come abbiamo visto, già oggi i mezzi di produzione astrattamente considerati potrebbero sfamare, vestire, alloggiare e curare tutta la popolazione esistente su questo pianeta; è l’uso capitalistico dei mezzi di produzione e della tecnoscienza (che è anch’essa un formidabile mezzo di produzione) che crea abbondanza in un luogo e miseria in un altro luogo. Non solo, ma una comunità umana che fosse orientata esclusivamente alla soddisfazione dei molteplici bisogni umani col tempo troverebbe il giusto (umano) equilibrio demografico, oltre che ecologico – peraltro due lati della stessa medaglia.

Il problema della sovrappopolazione come la conosce l’epoca moderna (borghese) in Africa e in Asia nasce soprattutto a causa della rottura in quei continenti dei vecchi equilibri tra pressione demografica e capacità produttiva delle comunità locali, ossia quando le merci a basso costo prodotte nei Paesi capitalisticamente avanzati incominciarono a riversarsi in quelle comunità diventando accessibili anche ai più poveri. A questo punto si ruppe il legame tra demografia e produzione locale, e si ebbe una continua crescita della popolazione su una base economica rimasta inalterata o addirittura ridimensionata, proprio a causa del rapporto sociale capitalistico che dall’esterno e dall’interno indeboliva le vecchie strutture sociali. A quel punto il problema demografico in Africa e in Asia diventò un problema di sviluppo (o sottosviluppo) capitalistico, di divisione internazionale del lavoro, di sfruttamento capitalistico di alcuni Paesi da parte di altri paesi.

Chi afferma che Paesi come la Cina e l’India, per non parlare dell’intero Continente Africano, dovrebbero moderare il loro sviluppo demografico ed economico, perché le attività umane hanno già raggiunto e superato i limiti della sostenibilità ecologica del nostro Pianeta, non sa letteralmente di cosa parla, e quindi confeziona pseudo soluzioni che hanno successo solo nella convegnistica e nel dibattito politico, ormai dominato dall’ecologicamente corretto: economia green, green deal, economia circolare, sostenibilità ambientale, eccetera, eccetera, eccetera. «Ho avuto delle volte l’impressione che molti avevano voglia di incontrarmi solo per fare una foto. Però è vero, a volte le cose sembrano poco reali, sembra molto una messa in scena» [34]. Beata ingenuità!

Come ho cercato di mettere in luce in questo scritto, il problema non è la demografia della Cina, dell’India e del Continente Africano, né il loro “modello di sviluppo” astrattamente considerato: il problema è la società capitalistica mondiale, il problema è un modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale che per sopravvivere deve sfruttare e saccheggiare uomini e natura. Nel capitalismo tutto è relativo, eccetto che la legge del profitto.

 

[1] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 64, Einaudi, 1958.
[2] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, Marx-Engels Opere, III, p. 456, Editori Riuniti, 1972.
[3] Ivi, p. 476.
[4] J. M. Keynes, Essays in Biography, pp. 120-144, MacMillan and co., 1933.
[5] «In generale non bisogna dimenticare che tanto i Principles, quanto gli altri due scritti di Malthus [Definition in Political Economy del 1820 e The Measure of value stated del 1823], devono la loro origine all’invidia per il successo dell’opera ricardiana e al tentativo di riacquistare quel primato a cui Malthus era fraudolentemente assurto grazie alla sua abilità di plagiario, prima che apparisse l’opera di Ricardo. […] Il merito vero e proprio di questi tre scritti di Malthus è quello di aver posto l’accento principale sullo scambio ineguale fra capitale e lavoro salariato, mentre Ricardo non spiega come dallo scambio delle merci secondo la legge del valore – secondo il tempo di lavoro in esse contenuto – abbia origine lo scambio ineguale fra capitale e lavoro vivo. […] L’aver messo in evidenza questo punto, che in Ricardo non resta ben chiarito, […] è l’unico merito di Malthus negli scritti citati sopra. Ma questo merito è annullato dal fatto che egli confonde la valorizzazione del denaro o della merce come capitale, e quindi il loro valore nella specifica funzione di capitale, con il valore della merce in quanto tale; e perciò nello svolgimento ricade, come vedremo, nelle grossolane rappresentazioni del sistema monetario – del profitto che deriva dall’alienazione» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 14-16).
[6] Cit. tratta da H. Grossman, Il crollo del capitalismo, 1928, pp. 356-357, Jaca Book, 1971.
[7] «Dai dati analizzati dalle Nazioni Unite sappiamo da una stima che fino al 1700 il tasso di crescita della popolazione mondiale è stato molto lento: la statistica aggiornata dice solo lo 0.04% annuale. Certo, i popoli passati avevano più fertilità, ma la mortalità infantile bilanciava questa tendenza: era la prima fase della transizione demografica. La popolazione attuale mondiale è soggetta ad altre dinamiche. Il tasso di crescita annuale della popolazione ha raggiunto il picco nel 1968. Da allora è rallentato, ed oggi si attesta sull’1% annuo. Il mondo sperimenta la fine di un grosso ciclo di espansione. Il grafico sul tasso di crescita della popolazione mondiale mostra anche come l’ONU valuta questo processo nel prossimo futuro. Con il continuo calo della crescita demografica la popolazione mondiale attuale cresce più lentamente, e la curva della popolazione sta diventando sempre meno ripida. Entro il 2100 il tasso di crescita sarà dello 0.1%, la popolazione starà per fermare del tutto una corsa incredibile, dopo essere decuplicata in appena 250 anni» (Futuro prossimo, agosto 2020).
[8] S. Sileoni, Istituto Bruno Leoni, 19 giugno 2015.
[9] G. Leonhard: Tecnologia vs Umanità. Lo scontro prossimo futuro, Egea, 2019.
[10] «Laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 33, Editori Riuniti, 1972). Né cacciatori, né pescatori, né pastori, né critici: semplicemente uomini. Uomini e donne, si capisce!
[11] Corsa alle terre africane, Società Missioni Africane, 2015.
[12] H. Grossman, Il crollo del capitalismo, p. 358.
[13] K. Marx, Il Capitale, I, pp. 354-346, Editori Riuniti, 1980.
[14] Ivi, p. 662.
[15] AA. VV., I limiti dello sviluppo, p. 21, EST Mondadori, 1972.
[16] F. Zuliani, I limiti dello sviluppo: un’analisi del rapporto al Club di Roma, Futurimagazine.
[17] G. Maggioni, Introduzione al Saggio sul principio di popolazione, p. XII, Einaudi, 1977.
[18] T. R. Malthus, Saggio sul principio di popolazione, pp. 14-15.
[19] T. R. Malthus, Esame sommario del principio di popolazione, in Saggio…, p. 195. Secondo Malthus «le «leggi fisiche» prevedono le carestie, le pestilenze, le guerre e altre sciagure naturali e sociali (le occupazioni malsane, i lavori faticosi, la scarsa alimentazione, lo scarso abbigliamento, l’infanticidio, ecc.) come «freni positivi [o preventivi] alla popolazione» (p. 225).
[20] «Quindi, siccome nascono più individui di quanti ne possano sopravvivere, in ogni caso vi deve essere una lotta per l’esistenza, sia tra gli individui della stessa specie sia tra quelli di specie differenti, oppure con le condizioni materiali di vita. e questa la dottrina di Malthus in un’energica e molteplice applicazione estesa all’intero regno animale e vegetale». Tuttavia Darwin aggiungeva subito dopo che nel regno animale, a differenza di quello umano, «non vi può essere né un incremento artificiale della quantità di alimenti, né un’astensione a scopo prudenziale dal matrimonio» (C. Darwin, L’origine della specie per selezione naturale, 1859, p. 236, Newton, 1994). Scriveva a questo proposito Marx a Engels: «Mi diverto con Darwin, al quale ho dato di nuovo un’occhiata, quando dice d’applicare la “teoria del Malthus” anche alle piante e agli animali, come se il succo del signor Malthus non consistesse proprio nel fatto che essa non viene applicata alle piante e agli animali, ma invece – con geometrica progressione – soltanto agli uomini, in contrasto con le piante e gli animali. È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, “le invenzioni” e la malthusiana “lotta per l’esistenza”. È il bellum omnium contra omnes di Hobbes, e fa ricordare Hegel nella Fenomenologia, dove raffigura la società borghese quale “regno animale dello spirito”, mentre in Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese» (Lettera di Marx a Engels del 18 giugno 1862, in Marx-Engels, Opere, XLI, p. 279, Laterza, 1973).
[21] T. R. Malthus, Esame sommario del principio di popolazione, pp. 173-175.
[22] Ivi, p. 251.
[23] F. Engels, Lineamenti di una critica dell’economia politica, p. 476. Per il “giovane Engels” la teoria malthusiana ebbe quantomeno il merito di spazzare via tutte le illusioni progressiste e filantropiche sorte sul fondamento della società borghese, e di costringere il pensiero «a volgere l’attenzione alla forza produttiva della terra e dell’umanità e, dopo il superamento di questa disperazione economica siamo stati liberati una volta per tutte dal timore della sovrappopolazione. […] grazie a questa teoria abbiamo imparato a conoscere la massima degradazione dell’umanità e la sua dipendenza dal rapporto della concorrenza; essa ci ha mostrato come, in ultima istanza, la proprietà privata abbai fatto dell’uomo una merce, la cui produzione e il cui annientamento dipende anche ed esclusivamente dalla domanda, come il sistema della concorrenza abbia così sterminato e stermini ogni giorno milioni di uomini; tutto ciò abbiamo visto, e tutto ciò ci spinge alla soppressione di questa degradazione dell’umanità attraverso la soppressione della proprietà privata, della concorrenza e degli interessi contrapposti» (p. 477). In una sola parola: del capitalismo – tout court, sans phrase, senza alcun’altra inutile e fuorviante aggettivazione: neoliberista, selvaggio, turbo, speculativo, eccetera, eccetera, eccetera.
[24] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, pp. 78-79, Feltrinelli, 2018.
[25] K. Marx, Il Capitale, I, p. 675.
[26] K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 56-61, Einaudi, 1958.
[27] Ivi, p. 54.
[28] K Marx, Critica del programma di Gotha, 1875, p. 43, Savelli, 1975.
[29] Ivi, p. 49.
[30]  W. E. Leuchtenburg, Roosevelt e il New Deal.1932-1940, Laterza, 1976.
[31] K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, in Marx-Engels Opere, VI, pp. 491-492, Editori Riuniti, 1973. «Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti» (p. 492). Come si vede, già nel 1848 Marx ed Engels individuarono il meccanismo che sta alla base del moderno imperialismo e della cosiddetta globalizzazione: «Il bisogno di sbocchi sempre più estesi spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all’industria la base nazionale»  (pp. 489-490). Si ha distruzione di capitale reale semplicemente arrestando per un periodo più o meno lungo la produzione: il valore d’uso e il valore di scambio di macchine, lavoratori, materie prime e quant’altro è indispensabile alla produzione di “beni e servizi” «se ne vanno al diavolo». In questi epidemici tempi la distruzione di capitale reale è all’ordine del giorno.
[32] Ivi, p. 497.
[33] K. Marx, Poscritto alla seconda edizione del Capitale, 1873, Il capitale, I, p. 44.
[34] Greta Thunberg intervistata a Che tempo che fa, 18/10/2020.

Sul concetto di Antropocene leggi: LA CRISI ECOLOGICA NELL’EPOCA DEL CAPITALE.

IL VIRUS E LA NUDITÀ DEL DOMINIO

Non c’è niente da fare: se «l’uomo in quanto uomo» non esiste, tutto il male concepibile (e anche quello che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare) è possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

 

Una lettrice ha così commentato su Facebook il mio ultimo post dedicato al Coronavirus e al feticismo associato alla malattia che esso causa: «Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole. È anche con i virus, diventati parte di noi, che ci siamo trasformati nel corso dell’evoluzione». Non c’è dubbio.

Su quest’ultimo aspetto proprio un mese fa ho letto un libro scritto da due scienziati americani teorici del punto di vista evoluzionista nello studio delle malattie e nella profilassi medica: le malattie (cause e sintomi) come adattamento del corpo plasmato dalla selezione naturale, come adattamento evolutivo sempre esposto ai mutamenti ambientali – molto spesso causati dal puro caso. Un testo che consiglia di andarci piano con antibiotici e vaccini, senza ovviamente negarne la validità in termini assoluti: «È sbagliato non prendere l’aspirina solo perché sappiamo che la febbre può essere utile, ed è un errore non trattare sintomi spiacevoli di alcuni casi di nausea da gravidanza, allergia e ansia. […] Un approccio evolutivo suggerisce però che molti trattamenti potrebbero non essere necessari, e che dovremmo chiarire se i benefici siano superiore ai costi» (1). Il problema, continuano gli autori, è che «batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana». A questo punto potremmo esclamare abbastanza sconsolati, o semplicemente armati di “sano realismo”: È l’adattamento evolutivo, bellezza!

Ma l’uomo non solo non subisce passivamente la cieca pressione esercitata dall’ambiente esterno sul suo corpo e sulla sua comunità, ma col tempo ha imparato ad affinare strategie di sopravvivenza sempre più efficaci, finendo per trasformare la stessa natura in una sua gigantesca riserva di cibo, di strumenti e di creatività. La storia naturale è insomma intimamente intrecciata alla storia umana, e non a caso diverse nostre malattie (a cominciare dalla comune influenza) risalgono agli albori della nostra civilizzazione, quando abbiamo iniziato ad addomesticare piante e animali. Questo semplicemente per dire che ormai da migliaia di anni il nostro processo evolutivo si dà necessariamente all’interno di società (con “annessa” natura) storicamente caratterizzate, e non in un ambiente puramente naturale o comunque socialmente neutro: tutt’altro! Tanto è vero che molte malattie (morbillo, tubercolosi, vaiolo, pertosse, malaria) sono state debellate o grandemente ridimensionate nei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, mentre altre si sono diffuse in stretta connessione al nostro cosiddetto “stile di vita”. Si assiste poi proprio nei Paesi di più antica tradizione capitalistica al sempre più allarmante fenomeno della resistenza agli antibiotici, per cui batteri sensibili alla penicillina che negli anni Quaranta del secolo scorso sembravano aver imboccato la strada dell’estinzione (con la produzione industriale dei vaccini e la moderna profilassi), nel corso dei decenni hanno invece sviluppato enzimi in grado di degradare la penicillina: «Oggi, il 95 per cento dei ceppi di stafilococco mostra una certa resistenza alla penicillina» (Perché ci ammaliamo).

Per virus e batteri il nostro corpo è il loro ambiente esterno che li sfida, e non hanno altra “strategia di sopravvivenza” che non sia quella di mutare, di evolvere, di adattarsi a circostanze sempre mutevoli: è la «corsa agli armamenti» tra “creature aliene” e “ospite” cui accennavo prima. Per l’uomo l’adattamento a virus, batteri e quant’altro è sempre e necessariamente socialmente mediato. «Questa asserzione non significa negare che batteri e virus facciano ammalare il corpo biologico e siano conseguentemente causa di infezioni, ma che quando bisogna pensare al lamento, al disagio e al dolore nella clinica medica e nella psicoanalitica, è necessario considerare e valutare gli effetti del linguaggio e del discorso» (2), ossia, detto nei “miei” termini, della prassi sociale umana e delle «relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale» (3).

Mi si consenta a questo punto una brevissima digressione sotto forma di una metafora abbastanza rozza e banale. Una pistola spara un proiettile che colpisce a morte una persona: a chi o a cosa attribuire la responsabilità del triste evento? Al proiettile? alla pistola? alla mano che la impugna? Ovviamente al soggetto che ha sparato, che ha messo in moto la catena degli eventi. Qui i motivi dell’insano gesto non ci riguardano. Ecco, il Covid-19 ci è stato sparato contro da una società che distrugge foreste e ciò che rimane delle nicchie ecologiche, che fa un uso sempre più intensivo degli allevamenti, che investe nel settore sanitario secondo parametri di economicità e non di pura umanità (4), che di fatto mette al centro delle sue molteplici attività la ricerca del profitto e non la sicurezza delle persone, che fa dei lavoratori, dei disoccupati e in generale dei senza riserve, i soggetti di gran lunga più vulnerabili alle malattie e alle sciagure, e potrei continuare su questa strada lastricata di miseria sociale – “materiale” e “spirituale”.

La mia tesi è che il calcolo economico (legge del profitto e legge delle compatibilità tra “entrate” e “uscite”) che domina nella società capitalistica realizza una prassi sociale che nella sostanza è del tutto irrazionale, nonostante la scienza e la tecnica vi abbiano un ruolo a dir poco fondamentale. Oggi davvero l’umanità potrebbe avere nelle sue mani il proprio destino, eliminando le cause oggettive (che cioè prescindano da qualsivoglia intenzione e volontà umane) che generano sempre di nuovo irrazionalità (“disfunzionalità”) d’ogni genere, con ciò che ne segue in termini di crisi economiche, di disagio sociale, di precarietà esistenziale, di sofferenze fisiche e psicologiche, di crisi ecologiche, eccetera, eccetera, eccetera. Ciò che stiamo vivendo nell’ormai famigerata Epoca del Coronavirus (da d.C. a d.C.) la dice lunga sul carattere irrazionale (disumano e disumanizzante) della nostra società. Da anni si parlava della possibilità di una pandemia del tipo che stiamo sperimentando, ma il “sistema” ha ritenuto più opportuno non allocare risorse finanziarie nella prevenzione, sperando che quella possibilità non si trasformasse in una realtà, almeno a breve scadenza, e intanto continuare nella solita vita fatta di lavoro, di vendite, di acquisti, di viaggi, di affari, di investimenti, di speculazioni, eccetera. Lo spettacolo del Capitale deve continuare!

Mutuando Spinoza enuncio quanto segue: Dicesi schiavitù l’incapacità umana di dominare le cause e gli effetti della prassi sociale. Questa schiavitù non ha dunque a che fare direttamente con la sfera politico-istituzionale di un Paese, ma essa chiama in causa direttamente il suo fondamento sociale, la sua “struttura” economico-sociale. Di qui il concetto di totalitarismo sociale che secondo me è la chiave che apre alla comprensione dell’attuale crisi sociale.

La responsabilità “ultima” della pandemia ancora in corso è dunque della società capitalistica, la quale ha oggi una dimensione mondiale – e, com’è noto, scienziati particolarmente “visionari” e capitalisti dal “pensiero lungo” (almeno quanto il loro conto in banca) operano per allargarne i confini oltre l’angusto orizzonte del nostro pianeta: si vuol portare il virus capitalistico su altri mondi! Ma è possibile, e non solo auspicabile, un altro mondo? Personalmente non ho alcun dubbio su questa eccezionale possibilità, e il fatto che essa oggi sia negata dalla realtà nel modo più radicale e doloroso, e che certamente io non la vedrò mai realizzarsi, ebbene questo non cambia di un solo atomo il fondamento oggettivo (storico e sociale) di questa splendida alternativa al cattivissimo presente.

Io non chiedo di immaginare la società perfetta, la società che non conosce la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto, ecc.; si tratta piuttosto di concepire la possibilità di una comunità che sappia affrontare in termini umani (umanizzati) la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto e così via. Concepire l’inconcepibile, mettere radicalmente in discussione l’idea che per un qualche motivo l’umanità non possa affrancarsi dalla divisione classista della società e costruire una Comunità nel cui seno fratelli e sorelle collaborano alla felicità di tutti e di ciascuno. In fondo lo dice anche il Papa: Fratelli tutti! Il pensiero deve reagire al torpore della routine che lo intrappola nel cerchio stregato dell’ideologia dominante, e giungere a questa straordinaria conclusione: Si può davvero fare! Dobbiamo offrire al pensiero la possibilità di vedere finalmente nudo il Dominio, un po’ come il bambino della celebre favola di Anderson; e così capire che nella sua vigenza non c’è nulla di naturale o di sovrannaturale, di inevitabile o di assolutamente necessario, ma solo una questione di coscienza (o incoscienza: la nostra) e di rapporti di forza. Io cerco di dare il mio modestissimo contributo a questa vera e propria rivoluzione del pensiero, sperando ovviamente che essa non rimanga solo nel pensiero.

DAMMI TEMPO…
«Non riteniamo di introdurre una norma vincolante ma vogliamo dare il messaggio che se si ricevono persone non conviventi anche in casa bisogna usare la mascherina» (Premier G. Conte).
«Quando c’è una norma, questa va rispettata e gli italiani hanno dimostrato di non aver bisogno di un carabiniere o di un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo i controlli, ci saranno le segnalazioni» (Ministro R. Speranza).

L’esperienza della Pandemia sta portando altra velenosissima acqua alla tesi secondo cui oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. La rivoluzione sociale appare anche ai miei anticapitalistici occhi abissalmente lontana; ma penso anche che se per un qualche motivo essa diventasse improvvisamente possibile nella testa di molte persone, altrettanto repentinamente quello straordinario evento diventerebbe talmente vicino nella realtà, da poterne quasi avvertire l’odore, per così dire. Come ho scritto altrove, non ho la pretesa di pensare che con me debba finire la storia, e che altri dopo di me non possano conoscere la rivoluzione sociale e la Comunità umana; bisogna essere davvero arroganti, presuntuosi e soprattutto deboli di immaginazione, per cristallizzare in eterno (fortunatamente solo nel pensiero!) il pessimo presente. Intanto, così come respiro, mangio, dormo, eccetera, rinnovo sempre di nuovo la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana: più che di scelta, dovrei piuttosto parlare di fisiologia!

Fin dall’inizio della crisi sociale chiamata Pandemia ho cercato di mettere in luce il carattere oggettivo del processo sociale in corso su scala mondiale, il quale ha peraltro approfondito e accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Come sempre, la realtà non crea mai nulla a partire dal nulla, ma impasta, per così dire, materiale sociale già esistente aggiungendone dell’altro solo in parte o interamente nuovo; il problema è piuttosto quello di capire fino a che punto abbiamo il controllo della situazione e la natura (la “qualità”) della realtà che contribuiamo a creare giorno dopo giorno.

Il carattere autoritario, per non dire altro, delle misure politiche prese in questi asfissianti e alienanti mesi pandemici dal governo italiano a mio avviso si connette in primo luogo a processi che per l’essenziale sfuggono anche al controllo degli stessi decisori politici, i quali sono stati chiamati a un rapido adattamento alla situazione che si è venuta a creare di volta in volta su scala nazionale e globale. Sappiamo poi come i politici nostrani eccellano nell’arte dell’adattamento, e come essi sanno approfittare delle situazioni emergenziali per intascare lauti dividenti elettorali e cementare il loro consenso e il loro potere – due facce della stessa medaglia democratica. Tuttavia, il “complotto” ai nostri danni non è da ricercarsi nella volontà di Tizio piuttosto che di Caio, senza parlare dei soliti “poteri forti” (meglio se infiltrati da qualche “lobby ebraica”): è questa società che complotta tutti i giorni contro gli individui, contro le classi subalterne, contro la possibilità di relazioni autenticamente umane. Per questo non si tratta, per chi scrive, di cambiare governi e governanti, ma di mettere la parola fine a questa società e iniziare la storia della Comunità umana, la storia dell’«uomo in quanto uomo». Vasto Programma, non c’è dubbio, e per questo qui conviene mettere un bel punto.Ogni Paese ha cercato di gestire la “crisi sanitaria” ricercando un difficile bilanciamento tra protezione della salute del corpo sociale, per assicurare la continuità del sistema ed evitare una più grave catastrofe sociale (con relative tensioni generatrici di conflitti potenzialmente disastrosi per il vigente ordine sociale), e protezione della struttura economica, per evitare un collasso economico dagli esiti imprevedibili ma certamente destabilizzanti. Il tutto naturalmente sulla base delle strutture sociali e delle configurazioni politico-istituzionali dei diversi Paesi, nonché delle loro diverse esperienze in materia di epidemie: negli ultimi venti anni la Cina e altri Paesi asiatici si sono confrontati molto spesso con le epidemie virali. È ovvio che nei Paesi a regime politico-istituzionale totalitario il lockdown viene meglio, per così dire, è di più facile, rapida e sicura implementazione, soprattutto se sono in grado di servirsi di un’avanzata tecnologia idonea al controllo e alla repressione dei comportamenti sociali. Non per niente la Cina si è subito proposta all’attenzione dell’Europa come il modello da seguire, sebbene con adattamenti e innesti “democratici”. Il lockdown con caratteristiche europee, insomma. Quello italiano è stato particolarmente duro, tale da evocare lo spettro del “fascismo sanitario”. Certo è che sentir parlare di «dittatura sanitaria» da parte di personaggi che sostengono i regimi di Cina, Cuba, Venezuela e non so di quanti altri Paesi rigorosamente antiamericani, fa davvero sorridere, diciamo così. Sto per caso alludendo anche al noto filosofo-comico Diego Fusaro? Fate un po’ voi! (5)

Per usare un’analogia medica, visto che parliamo di virus e di “crisi sanitaria”, nel caso italiano è come se una parte assai consistente dell’economia fosse stata messa in una condizione di coma artificiale o farmacologico, in attesa che i parametri sociali, stressati dallo shock, iniziassero a rientrare nella normalità. In questa delicata operazione l’interventismo statale ha avuto una parte decisiva, e gli effetti del «ritorno in grande stile dello Stato» nella sfera economica, osteggiato dalla minoranza liberista ancora presente nel Paese e applaudito dalla sua maggioranza statalista, saranno evidente solo tra qualche tempo. Com’è noto, spesso dal coma indotto artificialmente, si passa al coma vero e proprio, e non raramente segue il decesso del paziente: l’intervento è riuscito, ma il paziente è moto – di fame o di qualche altro accidente, ma vivaddio senza un solo Coronavirus in corpo! Quel che è certo è che molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, non apriranno più, e già a giugno si parlava di “autunno caldo”, di disoccupazione dilagante, di gente pronta a pescare nel torbido. Il Ministro degli Interni da mesi non smette di lanciare segnali di allarme: «Andiamo incontro a una delicata situazione sociale. Dobbiamo prepararci». Preparaci a cosa? Come si dice, lo scopriremo solo vivendo – se il Coronavirus vuole!

Ho raccolto in questo PDF buona parte dei post dedicati alla “crisi epidemica” che ho pubblicato su questo Blog dall’inizio di questa crisi, la quale peraltro è lungi dall’essersi esaurita; il primo è del 5 gennaio, quando sembrava che il raggio d’azione del Coronavirus fosse circoscritto alla sola Cina, o ai soli Paesi asiatici, come avvenne per la Sars nel 2003/2004, e l’ultimo è del 6 ottobre, quando la temuta “seconda ondata” si è alla fine palesata anche in Italia, e con una forza che ha sorpreso molti degli stessi “esperti”. La “seconda ondata” si abbatte su un corpo sociale già provato fisicamente e psicologicamente, e per questo i soliti “esperti” ritengono che essa potrebbe essere ancora più devastante della “prima ondata”, con ciò che ne segue sul piano delle politiche “preventive” suggerite al governo. Se dipendesse dagli “esperti”, in Italia saremmo già al lockdown generalizzato. Vedremo cosa accadrà tra qualche settimana, o forse tra qualche giorno.

La scienza si pavoneggia per i suoi successi ottenuti nella ricerca del vaccino, ma a parte ogni altra considerazione (anche d’ordine geopolitico), non fa che riparare i guasti prodotti dalla società di cui essa è un potentissimo strumento di dominio e di sfruttamento – di “risorse” umane e naturali.

L’intreccio “problematico” che questi post offrono ai lettori è molto ricco, perché essi chiamano in causa, sebbene in forma estremamente semplice – spero non del tutto semplicistica – e sintetica molteplici questioni di natura politica, etica, geopolitica, economica, psicologica: sociale in senso generale. Purtroppo non ho potuto eliminare la ripetizione di temi, di concetti e di parole, e di questo mi scuso con i lettori.

«Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole»; anche noi dovremmo conquistare questa irriducibile volontà nei confronti del pessimo presente – con il futuro che certo non ci sorride, tutt’altro!

Qui il PDF

(1) R. M. Nesse, G. C., Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999. «Il corpo umano è al contempo fragile e robusto. Come tutti i prodotti dell’evoluzione organica, è un insieme di compromessi, e ognuno di questi offre un vantaggio, anche se spesso il prezzo è la predisposizione a una malattia. Le debolezze non possono essere eliminate dall’evoluzione perché è stata la stessa selezione naturale a crearle. […] In medicina niente ha senso se non alla luce dell’evoluzione» (pp. 287- 301). E la società, qui genericamente intesa, in tutto questo che ruolo ha? Ed è corretto, nel trattamento dei cosiddetti “disordini mentali” associati alle emozioni, mettere da parte Sigmund Freud (qui inteso come “padre della psicoanalisi”) e chiamare senz’altro in causa gli «algoritmi darwiniani della mente»?
(2) A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 52, Paginaotto, 2020.
(3) K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 21-22, Editori Riuniti, 1983.
(4) Secondo stime attendibili, dal 2009 al 2018 in Italia c’è stata una riduzione della spesa sanitaria di circa 26 miliardi, una diminuzione del 12%. Se consideriamo, oltre la spesa corrente, anche il calo degli investimenti pubblici nel settore sanitario, la riduzione si aggira intorno al 13%.
(5) «La Ue manda il Mes, gli USA mandano soldati, la Cina manda medici e mascherine. Solo uno dei tre è nostro amico. Gli altri due sono nemici da combattere. L’avete capito? Il potere vi fa apparire amici i nemici e nemici gli amici. E, così, nostri amici sarebbero UE e USA, che in questa crisi ci stanno ignorando, quando non apertamente ostacolando. E nostri nemici sarebbero Cina, Russia, Cuba e Venezuela, che ci stanno mandando aiuti e medici. L’alternativa continua ad essere tra socialismo e barbarie o, se preferite, tra socialismo e capitalismo» (D. Fusaro). Indovinate secondo chi scrive da quale parte dell’alternativa si colloca il simpatico intellettuale SocialSovranista? Solo in un mondo ottusamente nichilista nei confronti della verità, un personaggio ridicolo come Fusaro può cavalcare le escrementizie onde delle ospitate televisive in qualità di filosofo hegelo-marxista. Anche questo, nel suo infinitamente e comicamente piccolo, esprime la tragedia dei nostri tempi.

PAGINE SIDERURGICHE

«Stalingrado. Come l’acciaio resiste la città», cantavano gli Stormy Six molti anni fa. Parafrasando i versi di quella (brutta) canzone, scrivo pensando a Taranto: La città è stretta in una morsa d’acciaio. La metafora “metallurgica” allude ovviamente al Moloch capitalistico, nella sua componente “pubblica” come in quella “privata”. Scrivevo nell’agosto del 2012: «Per non sprofondare nel sempre più stucchevole e nauseante dibattito tra partigiani del diritto al lavoro (“senza però trascurare le ragioni della salute e dell’ambiente”) e i sostenitori del diritto alla salute (“senza però trascurare le ragioni dei lavoratori”), mi attengo a queste tre fondamentali, quanto elementari, acquisizioni: 1. la “logica del profitto” sussume sotto il suo sempre più cogente imperativo categorico qualsivoglia considerazione (politica, etica, religiosa) e qualsiasi diritto; 2. la salute e la sicurezza rappresentano per il capitale meri costi, e 3. a decidere del futuro industriale di Taranto (e dell’Italia) non sarà un tribunale della Repubblica ma il mercato». Alla fine del 2019 siamo ancora a questo punto, con un di più di contraddizioni e di superfetazioni politico-ideologiche (un escrementizio mix di “populismo”, “sovranismo”, sparate demagogiche d’ogni genere) che rendono la situazione odierna ancora più avvelenata (è proprio il caso di dirlo!) che nel recente passato.

Per parlare seriamente della crisi dell’ex Ilva di Taranto bisogna intanto collocarla nel quadro della più generale crisi che sta attraversando l’industria dell’acciaio in tutto il mondo: «Il mercato siderurgico è ciclico e spesso anticipatore degli andamenti congiunturali di molti settori industriali, essendo l’acciaio una materia prima necessaria a molti e diversi ambiti produttivi, come l’automotive, l’elettrodomestico, le costruzioni, i mezzi agricoli e movimento terra, la cantieristica navale, il packaging. Dopo avere archiviato un biennio di forte espansione, il settore ha conosciuto a partire dall’anno scorso una stagione di ridimensionamento, oggi allineata alle difficoltà di gran parte del manifatturiero, automotive su tutti. Tutti i principali produttori europei sono in crisi. Nelle ultime trimestrali i gruppi quotati hanno segnalato perdite o profitti in calo e i titoli delle società da inizio anno perdono dal 10 al 20 per cento titoli delle società da inizio anno perdono dal 10 al 20 per cento. Molti hanno deciso di tagliare la produzione. A questa dinamica si salda un dato strutturale relativo al mercato mondiale dell’acciaio, vale a dire la sovracapacità. C’è troppa capacità produttiva rispetto alla domanda, troppi impianti che producono acciaio. E in questo settore i costi fissi sono elevati. Si produce a ciclo continuo. Questo significa che non è possibile fermare e riavviare un’acciaieria a piacimento senza dovere sopportare inefficienze e costi aggiuntivi. L’Europa non è il centro del mondo, a maggiore ragione nel mercato dell’acciaio. La produzione siderurgica globale l’anno scorso è cresciuta del 4,6%. Ma a crescere sono stati Cina (+6,6%), India (+4,9%), Stati Uniti (+6,2%), mentre la Germania ha perso il due per cento. La Cina, poi, produce oggi 928 milioni di tonnellate di acciaio, la metà degli 1,808 miliardi di produzione globale. L’Italia è storicamente un importante produttore di acciaio. A oggi è ancora il secondo a livello europeo (dopo la Germania), ma è uscito dalla classifica dei primi dieci, sorpassata dall’Iran. L’Italia ha prodotto, nel 2018, 24,5 milioni di tonnellate, in aumento dell’1,7 per cento sul 2017. Quest’anno, nei primi nove mesi dell’anno, la produzione nazionale è stata di 17,621 milioni di tonnellate, il 3,9% in meno rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Nel 2015, prima dell’ultimo ciclo espansivo, la soglia a settembre era pure peggiore, a 16,752 milioni di tonnellate. All’interno di questi volumi bisogna però distinguere tra due tipi di prodotto: i «lunghi», destinati all’edilizia (e per i prodotti di maggiore qualità, automotive e meccanica) e i «piani», prodotti legati all’industria manifatturiera pesante, come la filiera automobilistica, l’elettrodomestico, la cantieristica, i lavori pubblici. I piani sono la specialità dell’Ilva e di un unico altro operatore in Italia (il gruppo Arvedi). Il venir meno di una fonte di approvvigionamento interna di questo tipo non può non impattare su gran parte delle filiere produttive italiane, con ripercussioni sul livello delle scorte, dei prezzi. Per questo motivo la vicenda dell’ex Ilva è un problema di politica industriale che investe tutta Italia» (1).

E investe come un treno impazzito i lavoratori, che poi sono i soli della cui condizione mi interessa: la politica industriale italiana mi riguarda come anticapitalista, e quindi comme radicale oppositore del Capitale (nazionale e internazionale, pubblico e privato) e dello Stato che lo supporta in tutti i modi, com’è del resto naturale in questa società.

Per il professor Giulio Sapelli «Siamo al punto più basso della nostra storia industriale. Per l’Italia lo stop dell’Ilva è un grande problema per il futuro. Nei prossimi anni occorrerà ricostruire la Mesopotamia e l’Italia avrà bisogno di un campione. L’Europa per uscire dalla deflazione secolare ha l’occasione della Siria e della sua ricostruzione. E l’Ilva potrebbe essere uno dei veicoli, visto che sarebbe l’unica grande acciaieria del Mediterraneo, con una potenza di fuoco molto alta. Dobbiamo guardare al domani, questo è il fatto. Oggi c’è un partito ideologico anti-industriale in Italia, nato già ai tempi di Alfonso Pecoraro Scanio ministro dell’Ambiente, che aveva una visione magica dell’industria e che oggi sopravvive e che equipara il fare industria al fare del male. Mi preme sottolineare una cosa. In queste settimane drammatiche i sindacati si sono comportati in maniera molto responsabile e questo è lodevole. Cgil, Cisl e Uil hanno mostrato più responsabilità dei nostri ministri» (2). Non so dire se in questo Paese operi da tempo «un partito ideologico anti-industriale», magari folgorato sulla via della “decrescita felice”; di certo Sapelli ha ragione da vendere nell’individuare nei tre sindacati di regime la spina dorsale del partito della responsabilità e del Pil, un ruolo che essi hanno svolto con zelo tanto nella “Prima”, quanto nella “Seconda” Repubblica, e che riconfermano oggi, quando sembra apparire all’orizzonte una “Terza” Repubblica, dai connotati ancora incerti ma che certamente non sarà meno ostile delle precedenti nei confronti degli interessi delle classi subalterne. Anche ai tempi della ristrutturazione e poi della chiusura degli impianti siderurgici di Bagnoli la compagine sindacale ebbe modo di farsi apprezzare quanto a collaborazionismo e a responsabilità nazionale, a cominciare dal mantenimento della “pace sociale”.

Credendo di fare una cosa utile per chi volesse approfondire la “problematica” siderurgica come si è venuta a configurare nel nostro Paese (significato storico dell’industria siderurgica italiana, i suoi legami con lo Stato e con la politica in generale, la sua specificità economica, ecc.), ho raccolto in questo PDF alcune pagine tratte da libri, giornali e studi che hanno come loro oggetto, appunto, l’industria che produce acciaio come materia prima per altre industrie manifatturiere e prodotti in acciaio pronti all’uso.

Scriveva Richard A. Webster ne L’imperialismo industriale italiano: «L’industria siderurgica fu dunque salvata dall’intervento dello Stato, di concerto con gli interessi di alcuni gruppi privati, ma con metodi che inchiodarono l’Ilva ad una lunga e precaria convalescenza. D’altro canto anche lo Stato sembrava destinato a sperperare inutilmente altro denaro in questo inutile tentativo di riconversione, non appena si fosse verificata una nuova crisi generale nell’attività industriale». Si sta forse parlando di oggi? Nient’affatto: «L’operazione di salvataggio del 1911, rivelando gli stretti e molteplici legami fra l’industria siderurgica e lo Stato, suscitò l’indignazione non solo dei riformatori sociali e dei radicali, ma anche di rispettabili economisti conservatori. Le proteste per il prezzo enorme che il paese stava pagando ai “baroni” del ferro e dell’acciaio furono pertanto unanimi. Il contribuente italiano fu costretto, infatti, ad addossarsi l’onere più grande» (3). Profitti privati e pubbliche perdite, come non di rado accade nella patria di Pantalone. Vedi, come ultimi e “paradigmatici” esempi, l’ex Ilva e l’Alitalia: si parla, a proposito di quest’ultimo caso, di 9 miliardi di euro gettati dallo Stato nel pozzo senza fondo dell’assistenzialismo. «E io pago!», avrebbe detto il grande Totò interpretando il ruolo del povero e tartassato «contribuente italiano». Perché una cosa dev’essere chiara: «lo Stato siamo noi» è una locuzione che è vera solo nel senso che siamo noi a sostenere le spese del Moloch. Nessun pasto è gratuito, e i servizi ancora garantiti dallo Stato siamo noi a pagarli (vedi alla voce drenaggio o pompaggio fiscale): altro che Stato assistenziale! Piuttosto Stato assistito dal «contribuente italiano».

Proprio in riferimento a quei due disgraziati casi, ieri il Ministro dello sviluppo economico Patuanelli ha evocato lo spettro di una «nuova Iri», ha parlato della necessità di un «ritorno all’Iri», magari coinvolgendo Cassa Depositi e Prestiti (4): «Per carità! Abbiamo semmai bisogno di un comitato di salvezza nazionale, con tutti i partiti dentro, piuttosto che chiamare Cassa depositi e prestiti che, non dimentichiamolo, gestisce il nostro risparmio postale, ed esporla a questo rischio» (G. Sapelli). Comitato di salvezza nazionale: siamo già a questo? In ogni caso, sia chiaro: io mi chiamo fuori e soprattutto contro!

La storia dell’industria siderurgica italiana è la storia del militarismo e dell’imperialismo del nostro Paese. In effetti, la stessa cosa si può dire per gli altri Paesi occidentali, considerata la stessa natura della cosiddetta economia pesante (un ramo produttivo ad alta intensità di capitali che spesso coincide con l’industria degli armamenti stricto sensu); ma la relazione tra la nascita e lo sviluppo dell’industria siderurgica e l’iniziativa economico-politica dello Stato ha avuto in Italia una peculiarità davvero degna del massimo interesse, per i suoi risvolti sociali di ampio e durevole impatto. In un certo senso l’industria siderurgica è il comparto industriale che forse più degli altri mostra la continuità sistemica del capitalismo italiano attraverso i suoi diversi regimi politico-istituzionali: dall’epoca liberale a quella fascista, e da questa all’attuale regime Repubblicano.

La crisi che da molto tempo corrode le stesse fondamenta dell’Ilva e dell’Alitalia, due ex “campioni nazionali” del capitalismo italiano, rappresenta solo l’ultima manifestazione dei limiti e delle contraddizioni del modello capitalistico di questo Paese. Com’è noto, questo modello è centrato su una strettissima relazione “sinergica” tra le maggiori imprese industriali nazionali e i più grandi istituti creditizi del Paese, da una parte, e, dall’altra, lo Stato – in senso stretto e allargato alla politica (partitocrazia); centrale e periferico-regionale.

Checché ne dicano gli ideologi del liberismo, il capitalismo non sarebbe mai nato se lo Stato non avesse investito capitali e diretto investimenti di capitali. Stato investitore diretto, e Stato direttore di investimenti privati, secondo la nota direttiva formulata da Alcide De Gasperi negli anni Cinquanta. Marx a suo tempo parlò di accumulazione primitiva o originaria del capitalismo (fine XV inizio XVI secolo), e mise in luce il decisivo ruolo che vi giocò appunto lo Stato, il quale pose la sua forza al servizio del processo sociale che si concluse con la nascita del moderno rapporto sociale capitalistico: «quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale» (5). Da una parte la massa dolente dei senza riserve, costretti a vendersi sul mercato del lavoro per poter sopravvivere; dall’altra i capitalisti, i proprietari delle «condizioni oggettive del lavoro» (macchine, materie prime, ecc.) e, quindi, del prodotto del lavoro.

Naturalmente nei diversi Paesi lo Stato ha avuto un diverso peso e ha esercitato differenti funzioni nella sfera economica. In Francia, ad esempio, lo Stato ha giocato nella genesi capitalistica un ruolo maggiore che in Olanda e in Inghilterra. E ancora maggiore è stato il ruolo che lo Stato ha avuto nello sviluppo economico dei Paesi capitalisticamente “ritardatari”: Germania, Italia, Giappone, Russia, Cina. Al polo opposto troviamo invece gli Stati Uniti, dove l’intervento dello Stato nella promozione del capitalismo è stato relativamente secondario, quantomeno agli inizi del suo sviluppo, nella sua genesi. Come sappiamo, l’avvento dell’epoca imperialista e l’esplodere delle grandi crisi economiche (due facce della stessa medaglia) ha completamente modificato questo quadro. Tanto per dire, solo con il massiccio intervento dello Stato, che Trump si è guardato bene dal contrastare (anzi!), l’economia americana ha superato il momento più duro della crisi economica del 2008, facendo registrare nel 2014 un non disprezzabile 5,2 per cento di crescita. Oggi il suo ritmo di crescita si aggira intorno al 2,5 per cento, e il Presidente promette nuovi investimenti pubblici nei “settori strategici” (industria militare, comparto aero-spaziale, infrastrutture tradizionali e “intelligenti”, ecc.) e un nuovo “Shock fiscale” a beneficio della classe media (flat tax al 15 per cento): le elezioni presidenziali incombono! (6)

Tutto questo semplicemente per dire che non ha mai avuto alcun fondamento contrapporre lo Stato al processo capitalistico di accumulazione, secondo gli opposti ideologismi proposti dal liberismo e dall’antiliberismo. Il problema è piuttosto capire la natura dell’intervento statale in economia, sondarne la qualità e analizzarne la dinamica nelle diverse condizioni sociali attraversate nel tempo da un Paese. Ciò che conta non è la spesa pubblica in quanto tale, “in sé”, ma la sua natura, la sua qualità: essa genera sviluppo economico o mero assistenzialismo? sostiene la crescita di un Sistema-Paese o la sua stagnazione? promuove nella “società civile” atteggiamenti orientati alla laboriosità e all’iniziativa o, all’opposto, all’assistenzialismo e al rivendicazionismo parassitario?

Scriveva Francesco Farina: «Il settore pubblico è apparso appoggiare la politica di ristrutturazione capitalistica dell’industria privata, prendendo parte attiva nel corso degli anni ’60 ai processi di concentrazione produttiva e finanziaria, fino a giungere a controllare circa il 50% dell’apparato industriale italiano. […] Ma il ruolo svolto dalle imprese a partecipazione statale merita un maggior approfondimento, se è vero che – relativamente allo sviluppo industriale verificatosi nel Mezzogiorno – la più rapida dinamica registrata dal tasso di crescita degli investimenti nel Sud rispetto alle regioni centro-settentrionali tra il 1968 e il 1972, è stata dovuta essenzialmente agli insediamenti produttivi realizzati dall’industria pubblica. Come si è detto, uno degli aspetti più rilevanti della profonda trasformazione subita dal tessuto industriale del Mezzogiorno è costituito dal subentrare dei settori “pesanti” della moderna industria manifatturiera alla crisi che ha investito la piccola industria leggera tradizionale. Ciò è dimostrato sia dal carattere ancora più “selettivo” (a vantaggio dei grossi progetti d’investimento) degli incentivi creditizi concessi nelle regioni meridionali in confronto alle altre voci del credito agevolato, sia dallo spostamento dei finanziamenti verso i rami produttivi ad alta intensità di capitali. Le erogazioni di mutui di favore presentano un accentuato andamento “a forbice” tra il 1961 e il 1971: le iniziative al di sopra dei 6 miliardi passano infatti dal 19,9% al 67,3%. E dalla disaggregazione per settori dei mutui concessi si osserva come la quota destinata ai settori “pesanti” dei rami chimico (che comprende, oltre all’industria chimica in senso stretto, la petrolchimica e le raffinerie), e metallurgico, sia andata costantemente crescendo ai danni degli altri settori, cioè delle piccole imprese meridionali appartenenti ai rami alimentare, tessile, della carta e dei materiali da costruzione. Se si escludono allora i pochi insediamenti privati nell’industria “pesante” (come la Sir in Sardegna), si può dire che l’inserimento definitivo dell’area arretrata meridionale nel meccanismo di sviluppo nazionale è stato “guidato” dalle imprese a partecipazione statale delle produzioni maggiormente capital intensive. Sarebbe tuttavia erroneo voler contrapporre un’accumulazione “pubblica” ad un’accumulazione “privata”, sulla base della considerazione che la quota di investimenti industriali pubblici è salita dal 1961 al 1972 dal 19% al 49%, soprattutto in seguito alla forte dinamica del quadriennio 1969-1972 in cui le imprese a partecipazione statale hanno portato la dinamica degli investimenti industriali nel Sud a tassi di crescita superiori a quelli del Centro-Nord. Questo non solo perché le imprese a partecipazione statale operano secondo gli stessi criteri di profittabilità e adottano la stessa organizzazione del lavoro delle industrie private, quanto specialmente per il fatto che la funzione specifica loro assegnata dal potere politico – predisponendo, tra l’altro, più ampie e favorevoli condizioni di finanziamento – è consistita nel seguire e nell’appoggiare la strategia di sviluppo prescelta dal capitale privato. Si deve invece ritenere che nella politica di integrazione del Mezzogiorno nel processo di sviluppo nazionale l’intervento pubblico abbia puntato ad utilizzare le regioni meridionali come area “alternativa” di accumulazione, dove le aspettative di profitto potevano risultare più elevate per l’assenza della congestione industriale, e soprattutto per la più ridotta rigidità della forza-lavoro, derivante dall’inferiore livello di occupazione delle classi più “efficienti” e da una minore sindacalizzazione. Se l’integrazione del Sud è dunque avvenuta prevalentemente ad opera delle Partecipazioni statali, senza peraltro che il Mezzogiorno venisse in alcun modo a costituire un’area caratterizzata da migliori condizioni di profittabilità, è perché non poteva non avvenire che in maniera omogenea alla tendenza labour saving manifestata dallo sviluppo italiano, dove gli insediamenti produttivi dell’industria “pesante” ad alto rapporto capitale-lavoro non sono altro che un aspetto del ristagno delle fasi di sviluppo “estensivo” che hanno caratterizzato l’accumulazione dell’ultimo decennio. […] Com’è noto, nonostante il più alto ritmo di investimento del Mezzogiorno nel periodo 1969-72, l’incremento di occupazione è stato maggiore nelle regioni centro-settentrionali. Gli investimenti dell’industria pubblica, essendo avvenuti in settori di base (determinando, quindi, uno scarso assorbimento di manodopera, pochi investimenti indotti, e un alto flusso di importazioni dal Nord) hanno generato effetti moltiplicativi inferiori alle aspettative. […] L’espansione della spesa pubblica, cui si deve gran parte del rapido aumento della quota del settore pubblico sul reddito nazionale, dovrebbe essere oggetto di una considerazione più ampia. A causa della destinazione di gran parte del bilancio pubblico alla spesa corrente, la pura erogazione di redditi ha finito col sopravanzare di molto gli investimenti della Pubblica Amministrazione e delle imprese a partecipazione statale. E gli effetti destabilizzanti che ne sono derivati vanno ben oltre squilibri quali il conflitto fra finanziamento pubblico e privato e l’eccessivo indebitamento dello Stato. Infatti, il crescente flusso di redditi creati dalla Pubblica Amministrazione – che si configura come un drenaggio di risorse fuori dal meccanismo di accumulazione per la produzione di servizi – se nel breve periodo sostiene la domanda, nel lungo non trova corrispettivo (dal lato dell’offerta) in un ampliamento della capacità produttiva del sistema» (7).

Qui mi fermo. Auguro ai lettori una buona lettura e mi scuso con loro se nell’opera di “estrazione” e di ricomposizione delle pagine qui pubblicate ho commesso degli errori che ne hanno in qualche modo pregiudicata la comprensione. Non mi pare, ma scusarsi in anticipo per eventuali errori e sviste è sempre la migliore cosa da fare – e poi non costa nulla!

 

(1) M. Meneghello, Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2019.
(2) Intervista rilasciata Formiche.net, novembre 2019.
(3) R. A. Webster, L’imperialismo industriale italiano. Studio sul prefascismo, 1908-1915, p. 143, Einaudi, 1974.
(4) Ripercorrere la storia della Cassa è rappresentativo della storia della finanza e dell’economia pubblica d’Italia. La Cassa ha attraversato tutti i regimi politici istituzionali di Italia: la costituzione del Regno Unito di Italia del 1861; il periodo monarchico; il periodo fascista; il periodo repubblicano; risentendo nei vari periodi di maggiore o minore autonomia rispetto allo Stato centrale. È sempre sopravvissuta. La sua attività non è mai stata chiusa. Essa ha sempre giocato un ruolo di protagonista: ha finanziato la partecipazione italiana alle due guerre mondiali; ha finanziato le ricostruzioni post belliche; ha conferito il capitale degli enti pubblici, partecipando indirettamente al boom economico italiano successivo alla seconda Guerra Mondiale; ha partecipato alla nascita di iniziative sociali innovative come le prime gestioni di previdenza sociale per i lavoratori dipendenti; al sorgere di forme di intervento pubblico nella gestione delle residenze dei lavoratori ( ex GESCAL); ha sostenuto sempre le ricostruzioni post terremoti, alluvioni e altri disastri naturali. Essa è sempre stata presente, attiva e sostenitrice della finanza e dell’economia pubblica italiana nel bene e nel male ( nelle fortune e nelle disgrazie).
(5) K. Marx, Il Capitale, I, pp. 783-784, Einaudi, 1980.
(6) «La stretta commerciale causata dalla guerra dei dazi sta facendo calare le importazioni Usa ma non l’export che, invece, cresce (+3,7% nel primo trimestre 2019) e non sembra pesare sul Pil, cresciuto del 3,2%: gli economisti si aspettavano un 2% e i più pessimisti temevano addirittura una recessione, visti i segnali di allarme del mercato obbligazionario. In ripresa anche la produttività e l’occupazione, col tasso di disoccupazione ulteriormente calato dal 3,8 al 3,6%: è il livello più basso dal 1969. Dopo anni di stagnazione, in ripresa (modesta) anche i salari (+3,2%). Più ancora dell’andamento futuro dell’economia a politiche invariate, comunque, oggi vanno osservate le ulteriori, drastiche mosse che Trump sta mettendo in cantiere. Soprattutto il piano di infrastrutture da 2000 miliardi di dollari da lui presentato come un progetto bipartisan. I democratici non possono osteggiarlo, visto che chiedono da anni investimenti pubblici per rinnovare strade, ponti, ferrovie, reti digitali 5G e la protezione dell’ambiente. La sinistra spera che questa sorta di ricetta “statalista” di Trump, da finanziare anche con un aumento delle tasse sulla benzina e altro, provochi una rivolta in casa repubblicana. Certo che se Trump riuscisse ad adottare le politiche keynesiane che la sinistra non è riuscita a portare avanti, la svolta sarebbe storica: il capovolgimento della rivoluzione reaganiana col ritorno all’interventismo conservatore degli anni di Eisenhower (che creò la grande rete autostradale) e di Nixon (propose perfino il salario minimo universale, mai ratificato dal Congresso). Ma è tutto da vedere: su tasse e investimenti ambientalisti i repubblicani alzeranno barricate. E Trump in economia è un pragmatico» (M. Gaggi, Il Corriere della Sera, 5 maggio 2019).
(7) F. Farina, L’accumulazione in Italia, 1959-1972, pp. 170-180, De Donato, 1976.

DEMAGOGIA (E MITOLOGIA) FISCALE

Il borghese insegue l’ideale chimerico della distribuzione uniforme delle imposte con zelo tanto maggiore, quanto più tale distribuzione gli sfugge in pratica dalle mani. I rapporti di distribuzione che poggiano direttamente sulla produzione borghese, i rapporti fra salario e profitto, profitto e interesse, rendita fondiaria e profitto, possono essere modificati dalle imposte al massimo in punti secondari, inessenziali, ma non possono mai essere minacciati nel loro fondamento. Tutte le indagini e i dibattiti sull’imposta presuppongono la stabilità eterna di questi rapporti borghesi. […] La diminuzione, la più equa distribuzione ecc. della imposta, è la banale riforma borghese (Marx-Engels).

La criminalizzazione dell’evasione fiscale ultimamente sta toccando punte che rasentano il parossismo, e spesso la demagogia più triviale e menzognera. Quanto a populismo giudiziario, come sempre i manettari cinquestellati e il direttore del Fatto Quotidiano sbaragliano la concorrenza: «In galera! In galera!» Mi piacerebbe avere di che evadere solo per fare un dispetto a questi pessimi ed escrementizi personaggi. Purtroppo il contante non mi assiste. A proposito di contante! Qualche giorno fa ho ascoltato la simpaticissima Laura Boldrini fare in televisione l’apologia del denaro elettronico versus il denaro contante, il nuovo sterco del Demonio: «Perché lo Stato deve sapere chi spende e come spende! Chi non ha nulla da nascondere non deve temere la tracciabilità fiscale». Parlare di «Stato di polizia fiscale», come fa la “destra”, è ancora poco, è fin troppo riduttivo. Peraltro, alla “destra” piace solo lo Stato di polizia contro immigrati e “irregolari” d’ogni specie. L’elettore può insomma scegliere quale Stato di polizia (di “sinistra” o di “destra”?) meglio soddisfa le sue idee e le sue aspirazioni.

Ma insomma, il contante è di “destra” o di “sinistra”? E la moneta elettronica? Chi desidera una risposta potrebbe magari organizzare una bella seduta spiritica e girare la fondamentale domanda allo spettro del grande Gaber. Intanto segnalo che l’ultimo feticcio progressista sembra essere l’elemosina elettronica: e così anche la pia coscienza è sistemata e messa al passo con le esigenze del moderno capitalismo!

Sulla natura politica dell’evasione fiscale l’ex ministro Vincenzo Visco ha le idee chiarissime: «Evadere le tasse è chiaramente di destra». È probabile che il cittadino onesto di “destra” non condivida questo sommario giudizio che attesta l’arrogante superiorità morale dei sinistresi, i quali si sono sempre distinti per zelo statalista e moralista. Lo chiamano “amore per il bene comune”, confermando quanto ebbe a dire una volta l’evasore fiscale di Treviri: l’ideologia dominante è l’ideologia della classe dominante. Parlare di “bene comune” nel seno della vigente società è bestemmiare contro la verità e la stessa possibilità dell’emancipazione generale degli individui attraverso il superamento degli attuali disumani rapporti sociali. È dura lottare contro l’ideologia benecomunista che ci invita a essere cittadini onesti e rispettosi («anche della natura!»), ma si tratta del minimo sindacale per un pensiero che non vuole arrendersi all’odiosa quanto menzognera “filosofia” del male minore. Ma non perdiamo il filo!

Il refrain è lo stesso dagli anni Settanta del secolo scorso: Pagare tutti le tasse per pagare tutti meno tasse.  Quando ero bambino, il mantra antievasione era soprattutto sulle labbra di “comunisti” e sindacalisti, i quali lo usavano anche per giustificare la loro escrementizia politica di collaborazione con i «padroni onesti, quelli che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo». I bassi salari degli operai venivano spiegati anche tirando in ballo gli evasori fiscali, i quali contribuivano a far rimanere alta la pressione fiscale sul “padronato onesto” che poi si rifletteva sulle buste paga, sempre più leggere perché vittime dell’iniquo drenaggio fiscale. Stessa cosa per quanto riguarda le pensioni. Di qui, per “comunisti” e sindacalisti, la necessità di un’alleanza tra i «ceti produttivi onesti» del Paese per battere la Democrazia Cristiana, il partito, dicevano i moralizzatori del tempo, al servizio del clientelismo, degli evasori fiscali e del malaffare, mafia compresa. Com’è noto, il Pci in Parlamento sostenne tutte le leggi governative che prevedevano l’allargamento della spesa pubblica improduttiva, perché i voti facevano e fanno gola a tutti i partiti, a cominciare da quelli cosiddetti di massa – o interclassisti che dir si voglia. Ciò che distingueva il Pci dalla DC era un sovrappiù di odiosa e del tutto infondata propaganda moralistico-demagogica intesa a presentare il partito che fu di Togliatti e di Berlinguer come il partito degli onesti e dei lavoratori. Ma non dico altro per non commuovere i nostalgici della cosiddetta Prima Repubblica, i cui riti “barocchi” peraltro sono ritornati in auge proprio in questi giorni.

L’ex Premier Mario Monti una volte disse che «l’evasore mette le mani nelle tasche degli Italiani onesti, aumentando il loro carico fiscale». Qualche anno più tardi Matteo Renzi sostenne che il suo governo aveva al primo punto «la lotta all’evasione: se paghiamo tutti, paghiamo meno». Al di là di ogni considerazione politica che chi scrive potrebbe fare sulla questione qui considerata, c’è del vero in quella convinzione? È vero che aumentando il gettito fiscale automaticamente lo Stato si pone nelle condizioni di ridurre il carico fiscale? Nemmeno per idea! In ogni caso sarà sempre il governo in carica a decidere dove allocare le maggiori entrate fiscali: ridurre la pressione fiscale per famiglie e imprese o aumentare le spese militari? Investire in spesa pubblica produttiva o allargare la spesa pubblica clientelare?

La famosa “evidenza scientifica” ci dice, ad esempio, che in presenza di un forte recupero di evasione fiscale, che dura ormai da molti anni (il trend è in crescita almeno dal 2006), la pressione fiscale non solo non è diminuita, ma è cresciuta, così come si è espansa la spesa pubblica finanziata in debito. Scriveva Luciano Capone qualche anno fa: «C’è una convinzione diffusa nella classe dirigente italiana, quella che l’elevata pressione fiscale dipenda dall’evasione fiscale. Il corollario di questo assunto è che l’unico modo per abbassare le tasse sia ridurre l’evasione: pagare tutti per pagare meno. […] L’idea di fondo è che i contribuenti onesti sono costretti a sobbarcarsi anche la quota di quelli che fanno i portoghesi; se questi ultimi pagassero la loro parte, gli altri pagherebbero meno. È una visione che ha una logica, ma purtroppo è falsa. Diciamo “purtroppo” perché se fosse vera in questi anni avremmo assistito a una riduzione della pressione fiscale reale, o per essere più precisi a una riduzione delle aliquote con una pressione fiscale costante ma più equamente distribuita. Invece è successo il contrario: l’evasione è diminuita, mentre la spesa pubblica e la pressione fiscale sono aumentate. Quando si discute di questi temi è necessario farlo con i numeri alla mano. […] Mentre si indicava pubblicamente il perfido evasore come origine di ogni male, il recupero dell’evasione fiscale andava a riempire il bidone bucato della spesa pubblica, aumentata di 6 punti di pil dal 2000 al 2013, da 9.600 euro a 13 mila euro pro capite. Pagare tutti per pagare di più, questo è quello che è successo. La realtà indica una cosa abbastanza intuitiva, che le tasse dipendono dalle spese e non dall’evasione: se la spesa è fuori controllo, la lotta all’evasione finirà per aumentarla. Se i governi avessero messo lo stesso impegno nella spending review, la lotta all’evasione sarebbe stata più efficace e l’economia ne avrebbe giovato, anche perché la repressione fiscale non fa altro che alimentare l’evasione» (Il Foglio). Già, la mitica – e famigerata – spending review che dovrebbe snellire, razionalizzare e moralizzare il settore della Pubblica Amministrazione, la quale secondo Luca Ricolfi è «forse il più tipico luogo del lavoro improduttivo, almeno nell’ottica classica»; il problema, sempre secondo Ricolfi, è che le persone interessate al mantenimento dello status quo «votano» (1).

Qualche dato. Secondo l’Istat la pressione fiscale dei primi tre mesi dell’anno in corso risulta essere del 38%, in aumento dello 0,3% rispetto allo stesso periodo del 2018. In realtà «la pressione fiscale effettiva sull’economia regolare è invece intorno al 60% del Pil, la più alta del mondo sviluppato» (Luca Ricolfi); nel calcolo bisogna infatti tenere presente la cosiddetta economia sommersa, la quale ingrassa il Pil senza dare alcun contributo in termini fiscali. La cosiddetta «economia non osservabile» (economia sommersa ed economia illegale) “fattura” non meno di 211 miliardi di euro. L’evasione fiscale ammonta a circa 109 miliardi di euro l’anno. Proprio ieri l’Istat ha comunicato quanto segue: «A fine 2018 il debito pubblico era pari a 2.380 miliardi di euro, pari al 134,8% del Pil. Rispetto al 2017 il rapporto tra il debito delle Amministrazioni pubbliche e il Pil è aumentato di 0,7 punti percentuali». Secondo la “mitica” Cgia di Mestre gli sprechi, in termini di inefficienza e di burocrazia, della Pubblica Amministrazione si possono quantificare in 200 miliardi di euro all’anno. Sempre secondo la Cgia, in 20 anni, tra il 1997 e il 2017, le entrate tributarie nel nostro Paese sono aumentate di 198,5 miliardi di euro, salendo a 502,6 miliardi. In termini percentuali, si è registrato un boom di oltre il 65%, che al netto della stessa inflazione nel periodo si traduce in un aumento reale del 22,5%. Secondo calcoli dell’OCSE, il gettito fiscale tra il 1980 e il 2017 è cresciuto del 670%, pari a una media annua del 5,3%. Nello stesso periodo, la spesa pubblica è aumentata del 5% all’anno, praticamente poco meno e sempre più del Pil nominale, cresciuto solo del 4% all’anno.

«Colpiremo con mano pesante solo i grandi evasori fiscali, che vogliamo sbattere in galera, non l’evasione per necessità»: così strilla la propaganda della “componente populista” del governo. Ma chi sono questi «grandi evasori»? Davvero la loro pratica evasiva e/o elusiva è decisiva nella formazione del gettito fiscale che lo Stato non riesce a incassare? Ad esempio, lo sanno tutti che le micro, piccole e medie imprese rappresentano «l’ossatura dell’economia italiana» (2). Lo sanno tutti che è solo evadendo, in toto o in parte, le tasse che una massa di lavoratori “autonomi” e di piccoli addetti al commercio riescono a portare a casa uno straccio di introito. E allora? Forse bisognerebbe prendere sul serio la massima di Totò: È la somma che fa il totale! Probabilmente non ha torto chi sostiene che la grande evasione fiscale è fatta dalla piccola evasione praticata dal “popolo delle partite Iva”.

Ciò che si può dire senza allontanarsi troppo dalla verità è che alla luce dell’attuale sistema fiscale, dell’attuale struttura della spesa pubblica, dell’attuale struttura capitalistica italiana e del vigente sistema politico-istituzionale, fare pagare le tasse a tutti per pagare tutti meno tasse è una tesi semplicemente falsa, oltre che demagogica in sommo grado. Poste le attuali condizioni “sistemiche”, quella tesi si risolve in una tassazione per tutti al più alto livello possibile, secondo il ben noto principio del tassa e spendi. Jean Baptiste Colbert, Ministro delle Finanze del Re Sole, diceva che «l’arte del tassare consiste nello strappare ad un’anatra il massimo numero di penne con il minimo di sibili». Aumentando il numero di anatre probabilmente si incrementa soltanto la quantità di penne da strappare, e il chiasso demagogico sulle tasse evase e sull’impellente e non più derogabile  necessità di mettere le  “manette agli evasori” (sai la novità: è uno slogan vecchio almeno di venti anni!) servirà a silenziare le anatre finite nella rete del Leviatano.

In ogni caso, a pagare davvero il giro di vite fiscale che si annuncia saranno come sempre gli strati sociali più poveri, sia in termini di rincari delle merci e dei servizi di cui essi hanno bisogno, sia in termini di opportunità di lavoro, del lavoro che c’è (o non c’è): in nero, in bianco, in giallo. Molti sono i colori del lavoro salariato, condanna per chi per vivere è costretto a vendere sul mercato capacità fisiche e intellettuali. Mutatis mutandis, analogo discorso può farsi sui provvedimenti intesi ad avviare la cosiddetta “transizione ecologica” e a educare i cittadini a uno stile di vita più sano e più sobrio: sic! Purtroppo i lavoratori facilmente cadono nella trappola demagogica di chi fa leva sul loro disagio sociale per reclutarli nella campagna contro l’evasione fiscale: «Non dovete farvi trattare da fessi, voi che le tasse non potete evaderle!» È difficile trasformare in coscienza di classe il disagio e l’invidia sociale.

Arthur Laffer, l’economista che ispirò Ronald Reagan, sosteneva che la bestia statale va affamata, in modo da consentire ai governi di praticare una politica fiscale orientata a una generale riduzione delle tasse: pagare meno per pagare tutti. Per Paolo Bracolini, «I soldi recuperati dal fisco alimentano solo lo stomaco smisurato dello Stato e della partitocrazia» (3). Per chi scrive il Leviatano non va affamato; esso andrebbe piuttosto archiviato, per così dire, semplicemente. «Dietro l’abolizione della tassazione si nasconde l’abolizione dello Stato. L’abolizione dello Stato ha significato, per i comunisti, solo come conseguenza necessaria dell’abolizione delle classi, con la quale scompare automaticamente la necessità della potenza organizzata di una classe sulle altre» (4).«Vasto e impegnativo programma», lo ammetto; ma non ho la minima intenzione di suggerire al Moloch alcun tipo di riforma fiscale, soprattutto se “rivoluzionaria”.

 

(1) «Più acquisti, più stipendi pubblici, più pensioni, più sussidi, più rendite finanziarie, (titoli di Stato): in breve, più parassitismo. Questo meccanismo ha permesso agli italiani di vivere per vent’anni [1972-1992] al di sopra dei propri mezzi. La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. Ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. I ceti produttivi del Nord non sono nemmeno riusciti a strappare un federalismo degno di questo nome» (Intervista rilasciata da L. Ricolfi a Linkiesta del 15 settembre 2011).
(2) «Le loro attività si concentrano nei settori dei servizi, dell’edilizia , e se Ferrari, Gucci e Versace rappresentano il savoir-faire e la raffinatezza italiana per il grande pubblico, spesso anonime Pmi sono alla base del loro successo e soprattutto sono un punto di riferimento per le famiglie italiane. Le piccole e medie imprese, qui definite come imprese attive con un giro d’affari inferiore a 50 milioni di euro, impiegano l’82% dei lavoratori in Italia (ben oltre la media Ue) e rappresentano il 92% delle imprese attive (dai calcoli sono escluse imprese dormienti con fatturato a zero nell’ultimo anno). Sono numeri che fanno delle PMI un tratto saliente dell’economia italiana e riflettono tradizioni e imprenditorialità diffuse nei territori. Secondo le ultime stime di Prometeia, nel 2017 si contavano circa 5,3 milioni di PMI che davano occupazione a oltre 15 milioni di persone e generavano un fatturato complessivo di 2.000 miliardi di euro. Inoltre, vale la pena di notare come le Pmi abbiano un ruolo fondamentale nell’economia di alcuni territori. Per le regioni meridionali ad esempio le Pmi rappresentano l’83% della produzione, rispetto a un contributo medio nazionale del 57%. Anche il peso in termini di occupazione supera ampiamente quello medio italiano arrivando al 95%. L’impatto economico delle Pmi non può peraltro essere valutato considerando semplicemente il loro coinvolgimento diretto, ma va letto in chiave di filiera. Anche le Pmi italiane fanno ormai parte di catene del valore complesse e globali, contribuendo alla formazione dei loro vantaggi competitivi attraverso soluzioni flessibili e diversificate. Infine, non va dimenticato che il contributo delle Pmi si estende oltre l’aspetto economico e occupa un posto di rilievo nella vita culturale e sociale italiana» (Il Sole 24 Ore).
(3) P. Bracolini, La Repubblica dei mandarini, Marsilio, 2014.
(4) Marx-Engels, recensione a Le socialisme et l’impost di Emile de Girardin pubblicata sulla Neue Rheinische Zeitung Politisch-ökonomische Revue, Aprile 1850.

IL LAVORO (SALARIATO) UCCIDE

«Precipitati dai tetti di un capannone, incastrati tra i rulli di un macchinario, folgorati da scariche elettriche. Oppure, come nell’ultimo caso dell’azienda agricola di Arena Po, in provincia di Pavia, annegati dopo essere caduti in una vasca agricola. Sono tantissime le dinamiche di quella che i sindacati hanno iniziato a chiamare la “strage inaccettabile”. Ed è difficile dar loro torto sull’utilizzo del termine, guardando ai numeri: da gennaio a luglio del 2019, in Italia, 599 persone sono morte mentre si trovavano sul posto di lavoro. “Non è uno scherzo, sono tre vittime al giorno, senza considerare gli incidenti gravi”, commenta Rossana Dettori, responsabile nazionale della sicurezza sul lavoro per la Cgil. “La situazione è drammatica, ci vuole subito un piano nazionale per la prevenzione. Formare il lavoratore e i piccoli imprenditori è importante tanto quanto mettere in sicurezza le strutture”» (Il Fatto, 13 settembre 2019).

E se invece si trattasse di mettere «in sicurezza» gli uomini, mettendoli una volta per sempre al riparo dall’economia basata sulla vitale (per il Capitale, s’intende) ricerca del profitto?

«Ogni morte ingiusta pesa, ovvio, comunque e ovunque avvenga. Ma alcune di più. E il fatto che a detenere il primato delle morti di lavoro sia la regione che più di tutte testimonia il progresso nel nostro Paese, la Lombardia, non fa che aumentare l’incredulità. Un corto circuito che ben testimonia, purtroppo, un dato di fatto: in Italia il lavoro è ancora luogo di morte. Che sia Nord o Sud fa poca differenza. I motivi di questo inaccettabile anacronismo sono tanti, ma partono tutti da un dato comune. Esistono realtà produttive che continuano a considerare la sicurezza dei propri dipendenti, così come la formazione e la prevenzione, un costo troppo elevato. Perché l’unica cosa che conti veramente, alla fine dei giochi, è sfoderare un numero migliore dell’anno precedente nel proprio bilancio. Perché l’unico traguardo è questo» (Avvenire, 7 settembre 2019). Ecco, appunto.

Inaccettabile e anacronistica è una società che costringe gli uomini a vendere capacità lavorative di qualche tipo per vivere più o meno “dignitosamente” (in fondo, basta accontentarsi di poco!), quando si danno già da molto tempo tutte le possibilità di una Comunità semplicemente umana, ossia interamente concentrata sul benessere di ogni singolo individuo, non più considerato alla stregua di una risorsa economica, di un “capitale umano”: sic!

PS: Non è che adesso Facebook mi chiude l’account per incitamento all’odio di classe? Già mi sembra di sentire la “compagna” Laura Boldrini, sostenitrice del Nuovo Umanesimo governativo: «Bene Facebook. Un altro passo verso l’archiviazione della stagione dell’odio organizzato sui social network».

LIBRA. OVVERO LA NATURALE SMISURATEZZA DEL DENARO

Dieci anni fa Facebook contava 175 milioni di iscritti, «guadagnando altre due posizioni e scavalcando [quanto a popolazione] Pakistan e Bangladesh. “Se Facebook fosse un Paese – aveva scritto un mese fa il suo fondatore Mark Zuckerberg –, sarebbe quello con l’ottava popolazione mondiale, superando Giappone e Russia». Così scriveva Il Corriere della Sera il 9 febbraio del 2009. Con oltre 2,4 miliardi di utenti Facebook è oggi il Paese più popoloso del pianeta. Mi si obietterà che stiamo parlando pur sempre di un Paese virtuale, di un luogo che non esiste nella “concreta realtà”, di qualcosa che esiste solo in una dimensione algoritmica, tant’è vero che Facebook non è una Nazione, non ha uno Stato, non ha un esercito, non ha («e non deve avere!») una moneta sovrana. A questa legittima, sebbene un po’ ingenua e poco “dialettica” obiezione, mi permetto di rispondere con un’altra domanda: ma credete davvero che per il Capitale ha un senso porre la distinzione “ontologica” tra virtuale e reale? Perché dei rapporti sociali capitalistici, oggi dominanti su scala mondiale, qui stiamo parlando, e di nient’altro. E scrivendo rapporti sociali capitalistici non alludo solo a una dimensione “classicamente” economica, tutt’altro, tanto più che la stessa distinzione tra una sfera economica e una sfera esistenziale è sempre più evanescente, poco significativa, se non francamente inesistente. Per dirla con Massimo Troisi – e attraverso la mediazione di Marx, nella cui barba mi impiglio continuamente –, credevo fosse economia e invece era la vita. E viceversa.

Ciò che mi appare di gran lunga più significativo e degno di analisi (analisi che qui nemmeno tenterò) a proposito di Libra non è tanto l’intenzione che muove lo scabroso progetto (si tratta del vecchio e caro profitto, di cos’altro?) o la sua concreta realizzabilità nel medio o nel lungo periodo, quanto la sua “ontologia sociale”, il suo essere la perfetta espressione di tendenze economiche e sociali che rimontano molto indietro nel tempo e che sono intimamente legate al concetto stesso di capitale, oltre che, ovviamente, alla sua prassi. Dirompente non è l’idea imprenditoriale in sé, che a suo modo è anzi già vecchia (oggi le tecnologie hanno un grado di obsolescenza che tende alla velocità della luce), ma la scala, la dimensione sociale e geoeconomica che essa abbraccia: la globalizzazione capitalistica minaccia un nuovo scatto in avanti, e verso territori finora non esplorati fino in fondo. Di qui le preoccupazioni di diverso segno che hanno accompagnato il lancio mediatico di Libra.

Fare di Facebook un vero e proprio mercato, un mercato in piena regola nel quale non si scambiano più solo idee, esperienze, informazioni, dati (la materia prima del business di Zuckerberg e compagni), ma anche prodotti e servizi, i quali per venir scambiati hanno ovviamente bisogno di un medium monetario, di un mezzo di acquisto – o «metodo di pagamento», per dirla con il manager David Marcus, l’ex co-ideatore di PayPal che Zuckerberg ha scelto per difenderne le ragioni di Libra dinanzi al Congresso degli Stati Uniti. «Marcus ha fatto del suo meglio per rassicurare i politici che Facebook non ha nessuna intenzione di stampare valuta alternativa al dollaro, reale e o virtuale che sia, e tantomeno di creare una criptovaluta. Libra sarà un metodo di pagamento all’interno della rete sociale» (Il Messaggero). Transazioni sicure, istantanee e quasi gratuite; dare accesso agli oltre 1,7 miliardi di adulti che sono attualmente “unbanked”, cioè privi di conto corrente bancario: è questo il tormentone pubblicitario su cui stanno puntando gli specialisti del marketing al servizio di Facebook. Il messaggio non è privo di una qualche suggestione, per così dire, e come sempre esso è sostenuto dall’ideologia della Silicon Valley «secondo cui attraverso le piattaforme l’umanità raggiungerà un livello di libertà, di benessere e di autonomia individuale impensabile per le passate civiltà» (Il Foglio).

Ma la politica a stelle e strisce non ne vuole sapere di una “piattaforma” che nei fatti aspira a svolgere le funzioni di una banca mondiale senza esserlo formalmente (giuridicamente) e che anzi giura di non volerlo diventare né ora né mai. Forse negli Stati Uniti ricordano ciò che una volta disse il “profeta” Steve Jobs: «Il credito è indispensabile, la banca no». «Libra non ha una base legale, né una sua affidabilità» ha dichiarato Donald Trump: «Se Facebook e altre aziende vogliono farsi banca, devono seguire la trafila ben nota e comune a tutte le altre banche». Libra “è venduta” all’opinione pubblica mondiale come «una moneta stabile il cui corso è determinato da un largo paniere di divise in cui saranno denominati i fondi raccolti tra i soci» (Sbilanciamoci), e probabilmente è proprio questo uno degli aspetti che più inquieta politici e banchieri, più o meno “centrali”, perché il paniere monetario (si parla di euro, dollari, sterline e yen) richiama alla mente la funzione di una Banca Centrale. Parlare di Libra nei termini di una criptovaluta di tipo tradizionale è quantomeno riduttivo, se non sbagliato senz’altro, sia dal punto di vista tecnologico, sia da quello propriamente economico.

Ciò che intanto possiamo dire è che il progetto di cui parliamo sembra aver messo d’accordo Stati, politici, Banche Centrali e “riformatori sociali” di tutto il mondo: la cosa non deve aver seguito, quantomeno non prima che si siano chiarite le linee fondamentali dell’audace iniziativa imprenditoriale e che si siano approntate le necessarie contromisure, secondo l’aureo motto che esalta le virtù della prevenzione – la quale peraltro trova puntuali quanto dolorose smentite proprio in economia, e in particolare nella sfera delle attività finanziarie, là dove dominano l’illusione dell’alchimista di trasformare il piombo in oro e l’imperativo categorico di fare denaro per mezzo di denaro, bypassando un processo produttivo (di “beni e servizi”) che sempre più spesso dà all’investitore troppe rogne e bassi profitti. Com’è noto, la brama di profitti che domina il Capitare è smisurata, e perciò stesso mostruosa (disumana), ed è per questo che esso cerca continuamente di emanciparsi dalla cosiddetta economia reale: basti pensare che secondo calcoli recenti la massa di capitale fittizio sarebbe oggi 33 volte più grande del Pil mondiale: ma dopo i disastri finanziari del 2008 i governi di tutto il mondo non dovevano mettere sotto stretto controllo il diabolico “finanzcapitalismo”? La verità è che, per dirla con Thomas Hobbes, il Capitale «è famelico anche di fame futura, supera in rapacità lupi, orsi e serpenti, che non sono rapaci se non per fame» (1).

La Cina è il Paese che per primo ha reagito negativamente all’annuncio di Zuckerberg, e si capisce il perché: già da anni, infatti, si sperimentano e si praticano nel grande Paese asiatico attività finanziare e commerciali basate sulle criptovalute, il cui movimento è rigorosamente sorvegliato dalla Banca Centrale di Pechino. La Cina è il Paese più all’avanguardia nel campo della cosiddetta Fintech, la finanza basata sulle “tecnologie intelligenti”, le quali, com’è noto, sono molto efficienti anche nel campo della sorveglianza/controllo/repressione degli individui (2).  Il Partito-Regime cinese comprende dunque assai bene tutte le potenzialità (non solo puramente economiche) connesse all’uso di un «metodo di pagamento» del tipo di Libra all’interno di uno spazio sociale (Facebook!) gigantesco e in continua espansione. Quando l’economia indebolisce la capacità di controllo della politica, gli Stati reagiscono, e, com’è noto, il regime cinese è particolarmente sensibile a questi aspetti del processo sociale. Gli statalisti d’ogni tendenza politico-ideologica parlano con raccapriccio di Libra come la moneta perfetta dell’Anarco-Capitalismo: che paura! Al G7 di Chantilly il ministro delle Finanze francese Bruno Le Maire, sostenitore di «un capitalismo più giusto, responsabile e sostenibile» (che originalità!), si è fatto portavoce del primato della politica: «Nessuno può accettare che delle multinazionali con oltre un miliardo di utenti si trasformino in Stati privati. E si dotino di una moneta capace di competere con valute sovrane, destabilizzando le riserve delle banche centrali, senza obblighi di controllo sui rischi di riciclaggio o di lotta al finanziamento del terrorismo». Certo, per i politici europei, soprattutto se di orientamento “sovranista”, è difficile mandar giù la circostanza paradossale per cui mentre i Paesi dell’area euro non possono emettere moneta nazionale, ciò potrebbe essere consentito a delle imprese private: «Ma dove andremo a finire!».

Che nella società capitalistica l’autentica sovranità, il potere di vita e di morte sugli individui, è concentrata nel rapporto sociale capitalistico, a dispetto di ogni illusione e di ogni ideologia, ebbene ciò è un fatto che sfugge alla comprensione della massa dell’opinione pubblica, la quale vive con preoccupazione l’unificazione del mondo sotto quel disumano e totalitario rapporto sociale, e reagisce aggrappandosi ai simulacri di identità (nazionale, culturale, religiosa, ecc.) che ancora galleggiano come relitti sul burrascoso mare della “globalizzazione”.

Secondo Giacomo Zucco, «uno dei massimi esperti italiani di criptovalute, “al 90% si tratta di una mossa di marketing per competere contro i sistemi di pagamento attuali: offrirà cioè servizi di banking multivaluta compliant. Se, invece, punta a competere con le banche centrali si tratta di una follia che verrà fermata presto» (Quotidiano.net). Il vero problema però non è, a mio avviso, ciò che oggi hanno in testa i padroni di Facebook, ma ciò che la prassi potrebbe consegnarci domani, ossia ciò che Libra potrebbe diventare nei fatti, anche a dispetto dei suoi stessi attuali creatori. Il capitalismo è il regno delle “potenze demoniache” che sfuggono al controllo di chi le ha evocate. «È una application arrivata quasi prima del previsto della profezia di Goethe: i biglietti alati voleranno più in alto di quanto la fantasia umana per quanto si sforzi possa raggiungerli. Nel caso i biglietti alati sono le “Libre” di Facebook». Così parlò Giulio Tremonti, grande scopritore di “profezie” – peraltro mai confezionate (coniate!) dai loro supposti creatori. «Questa profezia non è stata solo sulla creazione delle banconote (“i biglietti alati”), ma in generale sul potere che può essere sprigionato da tutte le cambiali mefistofeliche. […] Libra prefigura una società tutta orientata sulla spesa: hai credito per comprare un viaggio, un auto, un bene. Ma distrugge il risparmio» (Il Sole 24 Ore). Detto altrimenti, Libra è un mero «metodo di pagamento» e non un capitale: con essa puoi acquistare beni e servizi, merci materiali e immateriali, ma non puoi acquistare i fattori della produzione (macchine, materie prime, lavoro, ecc.) per creare “ricchezza reale”. Distruggendo il risparmio, Libra si candida a distruggere appunto, sempre secondo le profezie di sventura tremontiane, la mitica economia reale, le attività basate sull’impiego (leggi sfruttamento) delle capacità lavorative, del santissimo “capitale umano”. «A proposito di demonizzazione», è sempre Tremonti che “profetizza” al cospetto di chi lo intervista, «le dice niente il Canto trentesimo dell’Inferno di Dante, di Mastro Adamo, che non solo conia moneta falsa ma falsifica il sigillo del Battista, che era il marchio della pubblica legittimità? È vero che un tempo la ricchezza era creata e gestita dai banchieri, dai Fugger e dai Medici, ma poi sono venuti gli Stati. Ora sembra che si compia un inquietante opposto cammino che non dobbiamo percorrere. Certo dobbiamo reinventare la politica». Ma lo Stato non creava la ricchezza: esso aveva una funzione essenzialmente ancillare, formale, cioè legale, perché interveniva su una prassi su cui non esercitava, per lo più, un effettivo controllo. Lo Stato imprime il suo sigillo su una moneta i cui presupposti essenziali sono radicati nella “società civile”, a cominciare dalla prassi mercantile, e con ciò stesso il Sovrano, garantendo legalmente il possesso e la circolazione della moneta, sia di quella aurea come di quella cartacea, rende un gran servizio agli “operatori economici”. «Poiché i biglietti di carta hanno corso forzoso, nessuno può impedire allo Stato di immettere a forza nella circolazione un numero arbitrario di essi e di stamparvi dei nomi monetari a piacere. […] Ma questo potere dello Stato non è che pura apparenza. Esso infatti può gettare nella circolazione tutti i biglietti di carta che vuole,con tutti i nomi monetari che vuole; ma con questo atto meccanico ha termine il suo controllo. preso nel giro della circolazione il segno di valore o carta-moneta ricade nelle sue leggi immanenti» (3).

La stessa smaterializzazione del denaro è un processo attivo da parecchi secoli, e lo stesso Marx ha avuto modo di seguirne i passaggi storici più significativi: dal denaro-lavoro di cui parlava Adam Smith nella Ricchezza delle nazioni al denaro-merce, dal denaro aureo al denaro-simbolo. Dalla fiducia affidata al valore intrinseco della moneta (d’oro e d’argento) a quella che riposa sul potere sovrano di uno Stato. Il potere sociale del denaro si è radicato, espanso e centuplicato proprio mentre il suo corpo (il suo valore intrinseco) è andato perdendo consistenza, fino a sembrare una cosa (una tecnologia) economica priva di legami con la ricchezza reale di una Nazione o di un singolo uomo. La moltiplicazione delle transazioni mercantili e la crescente rapidità di esse hanno imposto al denaro, colto nelle sue diverse funzioni (equivalente generale dei valori di scambio, mezzo d’acquisto, mezzo di pagamento, capitale d’investimento, tesoro ecc.), di perdere l’antica e “triviale” consistenza valoriale per assumere una dimensione meramente simbolica, così che la sua forma potesse aderire perfettamente alla propria essenza (storico-sociale), al suo proprio concetto: il denaro come simbolo della ricchezza sociale comunque (astrattamente) considerata e misurata. «Il corpo della moneta è ormai solo un’ombra. […] La moneta proprio nella prassi si idealizza e si trasforma nella mera apparenza del suo corpo» (4). Su questo aspetto del problema rinvio a un mio studio sul denaro, Il potere in tasca: «Con il denaro posso portare in giro con me, in tasca, il potere sociale universale, la connessione sociale generale e la sostanza della società» (5).

Diventando mera “essenza spirituale”; emancipandosi da ogni sorta di sostanza materiale, il denaro ha infine ritrovato nel mondo reale la propria forma ideale, e ciò non può che radicalizzare e rafforzare come mai prima il suo potere sociale, che esso esercita sulle imprese, sugli individui, sulle nazioni, su tutto ciò che si muove «tra terra e cielo». Come suona sublimemente teologico tutto questo discorso! Si tratta di capire se esso abbia un solido fondamento reale e concettuale e non sia solo il frutto di suggestioni a cavallo tra economia e filosofia.

Tutti sanno che la stessa “nuda vita” degli individui è diventata una gigantesca occasione di profitto, un mercato a cielo aperto (forse sarebbe più corretto scrivere a vita aperta, con riferimento ai cosiddetti “social”) per chi ha capitali da investire in una qualsiasi attività. Ma solo pochissimi ritengono che questo esito sia connesso necessariamente e inevitabilmente ai rapporti sociali capitalistici, ne è appunto una “fatale” conseguenza, e non il portato di un complotto ordito dai malefici sacerdoti del Dio Denaro contro l’umanità, o, più “laicamente”, il risultato di una governance non all’altezza delle sfide che il Capitale del XXI secolo lancia sempre di nuovo alla Società-Mondo. Nel frattempo, non passano molti giorni senza che l’industria, il commercio, la finanza e qualsiasi altro “settore economico” (più o meno “reale/virtuale”) inventino una nuovo prodotto, un nuovo servizio, una nuova «funzione d’uso», un «nuovo sogno», una «nuova esperienza»: insomma qualcosa (una merce!) che possa essere venduta e comprata. Naturalmente il marketing gioca qui un ruolo ideologico e psicologico fondamentale: «Tutto ruota intorno a te! Noi ti conosciamo e quindi ti offriamo esattamente ciò di cui hai veramente bisogno: la tua felicità è la nostra missione». E non vogliamo dotare questa umanissima impresa di un adeguato «metodo di pagamento»?

La natura smisurata del Capitale è stata posta a oggetto di riflessine da Marx sicuramente a partire dal 1844, e quindi per un suo modestissimo epigono nulla appare più scontato (“banale”) delle continue e sempre più rapide trasformazioni che osserviamo nell’industria, nel commercio, nella finanza, in ogni poro della società. Ma questo, a differenza di quel che pensa Tremonti, non fa del comunista di Treviri un profeta, come egli sostiene nel suo ultimo libro (Le tre profezie), bensì un profondo conoscitore del Capitale, che egli guardava da una prospettiva radicalmente anticapitalista. «L’utopia comunista era stata fondata sullo Stato, quella globalista è andata fondandosi sul mercato. Entrambe le utopie sono fallite» (6). A me pare che a fallire sia piuttosto il pensiero del Nostro. È sufficiente questo passo per capire quanto poco l’ineffabile ex Ministro dell’Economia e delle Finanze abbia compreso Marx, sempre che lo abbia studiato davvero, e non si sia limitato a impastare luoghi comuni tratti dalla letteratura degli epigoni statalisti, e per ciò stesso falsi (più falsi della moneta di Mastro Adamo!), del Moro. Lo sanno tutti (diciamo, meglio, quasi tutti), che «l’utopia comunista» di Marx ed Engels si fondava sul superamento della divisione classista degli individui, e quindi sull’estinzione dello Stato e sul superamento della stessa politica in quanto espressione dell’antagonismo fra le classi. All’unificazione del mondo sotto il tallone di ferro dei rapporti sociali capitalistici, che sono necessariamente rapporti di dominio e di sfruttamento (le due cose si tengono strettamente), «l’utopia comunista» opponeva (e oppone) la splendida possibilità di un mondo unificato da relazioni autenticamente e semplicemente umani. All’esclamazione: «Ma di questo passo dove andremo a finire!», che da sempre sta nella bocca dei reazionari, «l’utopia comunista» opponeva (e oppone) la prospettiva di un superamento in avanti della società dominata dagli interessi economici – e quindi dal denaro, in ogni sua attuale e futura configurazione. Ma forse questi sono dettagli dottrinali del tutto privi di interesse. Forse.

(1) T. Hobbes, De Homine, p. 142, Laterza, 1970.
(2) «In Cina gli utenti di internet sono oltre un miliardo, di cui il 90% con accesso soprattutto da mobile e con una propensione all’acquisto online smisurata (media di nove acquisti online al mese, contro 5,5 degli Stati Uniti e i tre della Germania). WeChat, di proprietà della holding Tencent, è un’app per mobile che non si è limitata a copiare WhatsApp come sistema di instant messenger, ma si è arricchita di una serie sconfinata di funzioni e servizi che accompagnano la vita dei cinesi dalla mattina appena svegli fino alla sera inoltrata, cosa che l’ha resa uno strumento potentissimo. Tra le numerose funzioni vi è WeChat Pay, utilizzata sia per i piccoli acquisti, come il pagamento immediato della spesa fatta al supermercato, la ricarica del cellulare, il pagamento delle bollette o gli acquisti online, sia per spese più impegnative come l’acquisto di viaggi» (Forbes). «Per WeChat questo ha significato un’occasione d’oro per tracciare i comportamenti (di acquisto e non solo) degli utenti in modo incredibilmente preciso e ubiquo, perché gli acquisti dei cinesi non sono tracciabili soltanto on line, ma in qualsiasi esercizio, dal parrucchiere al fruttivendolo. Con WeChat in Cina, si può perfino fare elemosina ai senza tetto, che accanto ai loro pochi averi hanno ormai quasi sempre un cartello con il Qrcode per ricevere aiuti» (Il Manifesto). Com’è umano e compassionevole il Celeste Capitalismo Cinese!
(3) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 142, Newton, 1981.
(4) Ivi, p. 130.
(5) K. Marx, Lineamenti Fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 88, Einaudi, 1983. «Il denaro è proprietà “impersonale”. In esso posso portare in giro, con me, in tasca, il potere sociale universale e la connessione sociale generale, la sostanza della società. Il denaro consegna il potere sociale come oggetto nelle mani della persona privata che in quanto tale esercita questo potere. La connessione sociale […] in esso si presenta come qualcosa di completamente esteriore, che non sta in alcun rapporto individuale con il suo possessore, e quindi fa apparire anche il potere che egli esercita come qualcosa di assolutamente accidentale, esteriore a esso» (Lineamenti, II, p. 1060).
(6) G. Tremonti, Le tre profezie. Appunti per il futuro, p. 29, Solferino, 2019. A quali profezie allude Tremonti? «Quella di Marx nel Manifesto, “All’antico isolamento nazionale subentrerà una interdipendenza universale”, che è la visione della globalizzazione. Quella di Goethe nel Faust, “I biglietti alati voleranno tanto in alto che la fantasia umana per quanto si sforzi mai potrà raggiungerli”, cioè il potere non solo delle banconote ma delle «cambiali mefistofeliche” e l’incontrollabilità dell’età digitale. E quella di Leopardi nello Zibaldone, “Quando tutto il mondo fu cittadino Romano, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò né Roma né il mondo”. […] Dopo circa due secoli il futuro è arrivato» (Il Corriere della Sera).

SE QUESTO CAPITALE È UMANO

Se, quindi, applico il nome di Capitale nella
convinzione che “semper aliquid haeret”,
ho dimostrato che l’esistenza del capitale è
un’eterna legge di natura della produzione
umana, e allo stesso modo potrei dimostrare
che Greci e Romani facevano la comunione
perché bevevano vino e mangiavano pane.
Karl Marx

La forza-lavoro di un uomo consiste
unicamente nella sua personalità vivente.
Karl Marx

Con questo scritto mi propongo di offrire un contributo alla critica dell’odioso concetto di “capitale umano”. Si tratta di un contributo particolare, occasionale, direi, perché nasce dal mio ennesimo studio della teoria del valore-lavoro. In effetti, non ho fatto che mettere insieme con un certo criterio, spero non del tutto… scriteriato, i miei appunti di studio per colpire criticamente il concetto e la miserabile “filosofia” del capitale umano. Purtroppo non ho avuto modo di rivederne la stesura e quindi mi scuso con i lettori per gli errori formali e sostanziali, nonché per le ripetizioni che certamente troveranno.

1.
Il “capitale umano” è oggi definito e misurato generalmente in due modi, secondo due diverse accezioni: come costo di produzione (formazione scolastica e professionale, spese sanitarie, ecc.) di ogni singola capacità lavorativa e come sua capacità di creare reddito nel corso della vita. La prima definizione/misurazione ci invita a riflettere sulle spese che una società deve affrontare per dotarsi di un “capitale umano” che sia in grado di contribuire alla formazione della ricchezza sociale e al benessere generale della “collettività”; la seconda orienta l’attenzione sul reale potenziale economico (sulla capacità di generare reddito) di ogni singola e particolare forza lavoro. Ovviamente i due punti di vista si intergrano perfettamente tra loro e insieme realizzano le facce di una stessa – e a mio avviso assai escrementizia – medaglia.

«Il Dipartimento of Economic Affaire delle Nazioni Unite (United Nations, 1953) definì investment in human capital l’investimento compiuto per accrescere la produttività della forza lavoro: la produzione futura di una paese può essere sviluppata non solo attraverso l’accrescimento degli stock fisici di capitale, ma anche attraverso investimenti in educazione, formazione professionale, politiche di immigrazione, acquisizione di conoscenza, miglioramento della salute dei lavoratori e degli altri fattori intangibili che accrescono la produttività del fattore lavoro (miglioramento degli standard sociali e familiari, sviluppo di politiche per l’immigrazione) (1). Qui siamo alla definizione del capitale umano secondo la prima accezione, ossia come costo di produzione della risorsa lavoro. Veniamo adesso alla seconda accezione.

Per stabilire orientativamente la misura del “capitale umano” individuale, il Progetto Human Capital dell’Ocse applica il calcolo del lifetime labour, il quale tiene conto dei seguenti parametri: salario netto orario di un individuo con un una certa istruzione di base, la sua età (e la sua “prospettiva di vita”), la sua «quota di tempo libero», il tempo che egli dedica alla «produzione familiare». Basandosi su un simile approccio, in uno studio di qualche anno fa dedicato al «valore monetario attribuibile allo stock del capitale umano», l’Istat stimò in 342mila euro il valore monetario annuo del «capitale umano di ciascun italiano» in età lavorativa (15-64 anni). Complessivamente «Il valore dello stock totale di capitale umano è di circa 13.475 miliardi di euro, cioè un valore quasi 2,5 volte superiore al capitale fisico netto del nostro Paese e oltre otto volte superiore al Pil» (2). A questo punto sorge abbastanza spontanea la domanda: come impatta concretamente sull’economia italiana questo enorme «valore dello stock totale di capitale umano»? A occhio, come si dice, c’è qualcosa che non quadra in tutto questo ragionamento sullo «stock del capitale umano». In ogni caso abbiamo visto che secondo la “scienza economica” il capitale umano ha un costo non indifferente e può, d’altra parte, rivelarsi come una fondamentale risorsa economica, e non solo economica, considerato che una continua “accumulazione” di capitale umano migliora l’ambiente sociale considerato nel suo insieme. Infatti, «È diffusa la convinzione che l’accumulazione di capitale umano sia oggi fondamentale per sostenere la crescita economica e per rafforzare la coesione sociale» (3).

L’investimento aziendale e sociale in capitale umano si configura insomma come un investimento altamente redditizio, e ciò si accorda perfettamente con la “logica” capitalistica della massima profittabilità.

2.
La “filosofia” che informa il discorso sul capitale umano mira a instillare in chi vive del proprio lavoro la convinzione che egli è un imprenditore di se stesso, un portatore di capacità professionali di cui deve aver cura con la stessa scrupolosa dedizione con cui un imprenditore si prende cura della sua azienda. Secondo questa “filosofia”, dal punto di vista concettuale non ci sarebbe alcuna differenza fondamentale tra chi detiene e investe il capitale umano, e chi ha il monopolio del capitale fisico delle imprese: sempre di un capitale da investire e da mettere a valore si tratterebbe. Il capitale umano non è una risorsa immutabile che il lavoratore può investire sempre allo stesso modo, e ciò vale soprattutto oggi, nell’epoca della rapidissima obsolescenza di prodotti, tecnologie, professioni e “abiti mentali”. Com’è noto, il concetto di “posto fisso” ha i secondi contati, e analogo discorso si può fare con quello di professione fissa. In effetti, oggi non è solo la struttura tecnico-organizzativa di un’impresa a dover fare i conti con un’obsolescenza sempre più rapida e precoce delle tecnologie, ma lo stesso destino capita in sorte al “capitale umano”, il cui «logorio morale» è tra le cause più importanti della debolezza politico-sociale dei lavoratori dei nostri tempi.

Lo “stock di capitale umano” va insomma rinnovato, accumulato e riprodotto sempre di nuovo, esattamente come lo stock di capitale che l’imprenditore investe nei fattori della produzione. Responsabilizzare il lavoratore intorno al “capitale umano” che egli incarna significa dunque farlo sentire partecipe tanto dei successi quanto degli insuccessi dell’impresa che oggi lo ha assunto e che domani potrebbe licenziarlo, magari proprio perché egli non è riuscito a valorizzare adeguatamente le sue capacità professionali o perché ha trascurato di aggiornarle. Lo Stato e le imprese investono sempre più risorse finanziarie nei programmi di formazione continua e permanente dei lavoratori, e la società si aspetta da essi la serietà che si deve alle attività costose e rivolte al “bene comune”.

Scrive l’economista Franco Debenedetti sul Corriere della Sera: «Tre anni dopo, il datore di lavoro avrà conoscenza più approfondita del suo “avventizio”, non necessariamente maggiore visibilità sulle future condizioni economiche della sua azienda, che gli potrebbero consentire l’assunzione a tempo indeterminato. Anche l’”avventizio” sa che alla fine del periodo di prova ci sarà uno scalino, che verrà presa una decisione sul suo futuro, dentro o fuori; per lui il periodo di prova sarà un periodo di incertezza, vivrà nel dubbio se investire il proprio capitale umano. Se questa non è precarietà, che cosa lo è?». Insomma il «datore di lavoro» e il suo «avventizio» vivrebbero la stessa condizione di precarietà, che si manifesta soprattutto come incertezza nell’investimento dei rispettivi capitali.

Sentenziava il Premio Nobel per l’Economia Gary Becker qualche anno fa: «Il successo e la crescita saranno in quei Paesi che sapranno investire nei propri cittadini. Perché il capitale umano è sempre più importante; perché non basta possedere petrolio e materie prime per prosperare; perché le persone e non le risorse o le macchine determinano già, ma lo faranno sempre di più, la nostra ricchezza. Questa è la mia visione dell’umanità: le persone sono importanti. […] Il XXI secolo segnerà la rivoluzione del capitale umano e la conoscenza sarà – è già – il fondamento di ogni aspetto della vita umana». Quanta umanità, signor Becker! Anche troppa, visto che stiamo parlando di Capitalismo, sempre che nel frattempo la «rivoluzione del capitale umano» non abbia mutato a mia insaputa il regime sociale mondiale. A occhio, sembra proprio di no. Ebbene, di pochissime cose sono certissimo, e fra queste spicca soprattutto quella che segue: la società capitalistica è intrinsecamente e necessariamente disumana, ed è per questo che la locuzione capitale umano mi appare come un odioso ossimoro che cela una condizione sociale/esistenziale degli individui che grida vendetta al cospetto della splendida possibilità di emancipazione che essi non riescono a vedere, sebbene essa abbia oggi le dimensioni di un intero mondo. È la tragedia dei nostri tempi.

A questo punto mi sembra quasi superfluo aggiungere che la “filosofia” del capitale umano trasuda menzogna e disumanità da tutti i pori.

3.
Ognuno investe il capitale di cui dispone: chi ha denaro investe denaro in una qualsiasi attività o affare per ricavarne un legittimo profitto, e chi è meno fortunato e possiede solo capacità lavorative di qualche tipo, investe questo particolare capitale per ricavarne un salario, uno stipendio, un reddito: che cosa c’è di sbagliato in questo più che realistico ragionamento?  Provo a rispondere con questa osservazione che ovviamente ricavo direttamente da Marx: il lavoratore non investe il proprio “capitale umano”, ma lo aliena (lo vende, lo scambia) contro denaro. Detto altrimenti, il lavoratore vende merce, non investe capitale – più o meno “umano”. Di più: è lo stesso lavoratore, e non solo il suo lavoro, ad assumere nella nostra società la forma (la natura) di merce. E questo lo avevano già capito gli economisti “classici” che dalla fine del XVII secolo in poi iniziarono a interrogarsi sulla natura della ricchezza sociale in regime capitalistico, un regime che nel frattempo ha assunto una connotazione economico-sociale che fa impallidire, quanto a dominio capitalistico, la società che conobbe la prima rivoluzione industriale. Dalla sottomissione formale del lavoro al Capitale siamo passati a quella reale di cui parlò Marx, e da questa ha poi preso corpo, come una mostruosa e gigantesca creatura, la sottomissione totale e totalitaria del lavoro e della natura al Capitale, la cui odierna dimensione mondiale fa sì che la sua realtà corrisponda esattamente, e marxianamente, al proprio concetto.

Ai tempi di William Petty (4), di François Quesnay, di Adam Smith e David Ricardo il grano era il bene di consumo di gran lunga più importante nella dieta delle classi subalterne («alimento della gente comune»), e quindi nel paniere dei cosiddetti beni-salario esso occupava un posto specialissimo: di qui l’interesse degli economisti “classici”, espressione teorica dei ceti borghesi in rapida ascesa, per il prezzo del grano, bene appunto di larghissimo consumo da essi assunto a rappresentare l’insieme dei prodotti agricoli. Un prezzo realisticamente basso del grano naturalmente realizzava le condizioni per disporre di una manodopera a buon prezzo. La creatura che mangia grano: questa definizione forse si attaglia bene all’idea che quegli economisti avevano del lavoratore. Scriveva Adam Smith: «La ricompensa reale del lavoro è la quantità di cose necessarie e comode della vita che essa può procurare al lavoratore.  Se i salari sono alti, troveremo che gli operai sono più attivi, diligenti e svegli di quando i salari sono bassi» (5).

In realtà furono i fisiocratici francesi, teorici della produzione agricola come unica fonte del «produit net» (o sovrappiù, insomma del profitto), a porsi il problema di come realizzare un «bon prix» per il grano; essi giunsero alla conclusione che bisognava liberalizzare il commercio del grano, aprendo il mercato nazionale all’importazione del grano, quantomeno tutte le volte che una cattiva annata nella produzione di quella merce ne alzava eccessivamente il prezzo, facendo con ciò stesso salire anche quello del lavoro, ossia il salario. Più che di una teoria del valore-lavoro, qui abbiamo a che fare con una teoria del grano-valore. In realtà la scuola fisiocratica (Mirabeau, Quesnay) non elaborò mai una teoria del valore, e questo semplicemente perché, considerando la ricchezza sociale sotto il suo aspetto puramente fisico, ossia come ammasso di prodotti del lavoro, essa non riuscì a trovare una misura omogenea del valore in grado di rendere commensurabili fra loro le diverse merci. I fisiocratici non si interessarono dunque della formazione genetica dei prezzi, della loro origine, ma si limitarono piuttosto a prendere empiricamente atto della loro esistenza sul mercato. Per loro il valore di una merce si identificava senz’altro con il loro prezzo di mercato, il quale costituiva il punto di partenza della loro riflessione sulla distribuzione del prodotto annuo del lavoro. Ciò premesso, non c’era spazio per una spiegazione teoricamente fondate circa la formazione del prodotto netto, ossia di quella parte del prodotto annuo che toccava ai proprietari terrieri e, attraverso la loro mediazione, ai fittavoli.

Oltre a liberalizzare il commercio estero del grano (bene di consumo ritenuto strategico anche ai fini della sicurezza nazionale: nutrire l’esercito in caso di guerra), i fisiocratici si schierarono contro la creazione dei monopoli nell’attività manifatturiera, attività che essi consideravano peraltro «sterile» ai fini della creazione del «prodotto netto», e quindi un mero costo di produzione che gravava sulla classe produttiva, ossia sui proprietari terrieri, sugli affittuari (conduttori capitalistici) e sui salariati agricoli.

4.
«Per la nostra azienda il capitale umano rappresenta la risorsa più preziosa da mettere a valore, e quindi investiamo molto nella formazione continua del nostro personale»: quante volte abbiamo letto o ascoltato questa commovente confessione? Certamente moltissime volte, perché l’apologia del cosiddetto capitale umano, esibita anche, se non soprattutto, dall’establishment  politico e culturale della società, è uno dei più importanti tratti distintivi della nostra epoca, la quale mentre mostra una crescente preoccupazione per ciò che riguarda l’«accumulazione del capitale umano», realizza  una svalutazione sempre più accelerata della nostra esistenza in quanto esseri – semplicemente e puramente – umani. Le due cose stanno insieme benissimo e, come abbiamo detto, in una necessaria relazione. Da una parte, dunque, l’apologia del capitale umano, dall’altra la negazione dell’umano – e la svalorizzazione del lavoro causata dalla “globalizzazione capitalistica” che mette in diretta concorrenza i nullatenenti di tutto il mondo.

In questo scritto la poco gratificante definizione di nullatenente è usata in un’accezione niente affatto moralistica ma schiettamente “scientifica”: il nullatenente è chi non avendo la proprietà dei mezzi di produzione, non possiede nemmeno la proprietà delle merci che gli occorrono per vivere. Ritornerò su questo fondamentale concetto.

«Considerando che la capacità di una società di produrre i beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni dipende dalla quantità, qualità e combinazione delle risorse a propria disposizione, il capitale umano viene sempre più frequentemente incluso tra le risorse economiche, insieme all’ambiente e al capitale fisico, soprattutto nelle analisi sulla sostenibilità dello sviluppo» (6).

Già parlare degli uomini in termini di risorse economicamente rilevanti, la dice lunga sulla natura di questa società, la cui logica ruota ossessivamente intorno all’imperativo categorico della massima profittabilità: di un’iniziativa, di un investimento, di un impegno, di un evento: di qualsiasi cosa, e quel concetto “gira” a meraviglia, a pieno regime, ben oltre il puro ambito economico, nel cui seno peraltro esso trova il suo più autentico e paradigmatico significato. Iniziamo ad avvicinarci al focus della questione osservando, sempre sulla scorta di Marx, che la società di cui qui si parla, cioè la società capitalistica, non produce generici «beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni», ma merci prodotte esclusivamente per ricavare dalla loro vendita un profitto, e infatti la sola domanda di un bene che nella nostra società ha un significato economico (ha razionalità) è quella in grado di pagare: senza denaro i bisogni umani rimangono incapaci di soddisfazione. La forma-merce è il prodotto più caratteristico del Capitalismo, e il suo valore – o funzione – d’uso ha una sua rilevanza economica solo perché nel corpo della merce è contenuto un valore che attende di venir realizzato, ossia monetizzato attraverso lo scambio. Non i bisogni degli individui, ma la ricerca del profitto è il cuore pulsante della nostra società, tant’è vero che le crisi economiche sorgono non perché quei bisogni non sono stati soddisfatti, ma perché non sono state soddisfatte le condizioni che rendono profittevole la produzione di «beni e servizi». Come scriveva uno che se ne intendeva (sempre quello), «il processo lavorativo non è che mezzo al fine del processo di valorizzazione». Tutto ruota intorno al profitto, non ai bisogni del consumatore, come la scienza del marketing è così abile a far credere a un’opinione pubblica sempre più bisognosa di illusioni a buon mercato e di rassicurazioni d’ogni tipo.

5.
Il dizionario economico della Treccani dà la seguente definizione di capitale umano: «Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente, le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e a qualificarla, influenzandone i risultati».

Fin qui si tratta di una definizione abbastanza generica del concetto in questione, mentre molto più interessante, ai fini della nostra intenzione critica, appare quest’altra caratterizzazione, sempre presa dallo stesso testo: «Capitale umano come patrimonio dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione) degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà, di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece oggetto di scambio sul mercato». Messe le cose e i concetti nei loro giusti termini, fino a che punto nei passi appena citati troviamo una descrizione sufficientemente adeguata del rapporto sociale capitalistico? Soprattutto invito a riflettere su questo passo: «Il c. u. può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita».

6.
Tutto questo discorso mi conduce, chissà poi perché, a ciò che Marx definì, polemizzando con l’«economia volgare» del suo tempo (cosa dovremmo dire noi, piccoli e modestissimi epigoni del XXI secolo?!), formula trinitaria, la quale «abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale» (7). Di che si tratta?

Intanto occorre precisare che, in generale, quando parla di «processo di produzione sociale» Marx non intende riferirsi esclusivamente alla produzione immediata delle merci, ma anche alla loro circolazione sul mercato, alla realizzazione (monetizzazione) del loro valore mediante lo scambio, alla trasformazione della massa di denaro ottenuta attraverso le vendite in capitale investito in un nuovo ciclo produttivo e nei più disparati redditi idonei a soddisfare i bisogni delle diverse classi sociali. Tutto questo complesso processo, che si dà in una precisa dimensione spazio-temporale, non crea e realizza solo valori, ma soprattutto afferma e genera sempre di nuovo il rapporto sociale capitalistico: all’inizio e alla fine del processo troviamo sempre da un lato i detentori dei presupposti materiali della produzione/circolazione, che a questo titolo hanno diritto alla proprietà dell’intero prodotto del lavoro; e dall’altro i detentori di mere capacità lavorative, i quali si appropriano di una parte di quel prodotto attraverso la mediazione del salario. Detto in altri termini, da un lato troviamo i funzionari del Capitale, e dall’altra chi per vivere deve alienare giorno dopo giorno le proprie capacità lavorative. Per l’anticapitalista di Treviri la sfera economica è fondamentalmente il luogo nel quale si manifestano e si generano le condizioni oggettive della sottomissione del lavoro salariato al Capitale.

La «trinità economica» cui accennavo sopra occulta questa realtà, la cui rappresentazione sotto i suoi falsi presupposti assume una forma che è «a prima vista molto mistica».

Consideriamola, allora, e seppur rapidamente, questa benedetta formula trinitaria. Per semplificare al massimo le cose credo di poter scrivere queste elementari inferenze: Capitale → profitto (con incorporato interesse); Lavoro → salario; Terra → rendita fondiaria. Il Capitale “secerne” naturalmente il profitto, cioè il reddito dei capitalisti; il Lavoro “secerne” altrettanto naturalmente il salario, ossia il reddito dei lavoratori e, dulcis in fundo, la Terra dà come suo frutto più prezioso la rendita fondiaria, che costituisce il reddito dei proprietari terrieri. Naturalmente le cose non stanno affatto così, e la critica a questo modo di presentare il processo economico-sociale trova preziose pezze d’appoggio nella riflessione dello stesso Adam Smith, che pure, come vedremo,  in quella formula rimase gravemente impigliato.

In primo luogo, osserva Marx, la terra e il lavoro, storicamente considerati, non sempre “secernono” una rendita fondiaria e un salario, e gli stessi mezzi di produzione non sempre sono stati una fonte di profitto. Anzi, solo sotto peculiari condizioni storico-sociali la terra, il lavoro e il capitale possono venir considerati, con qualche rozza (e, come vedremo, fallace) approssimazione, tre fonti di reddito. Come ricorda Adam Smith, «Nella situazione originaria che precede sia l’appropriazione della terra sia l’accumulazione dei fondi [del capitale], tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo» (8). Se ne ricava che «nella situazione originaria» la comunità umana non ha nemmeno i concetti di profitto, salario e rendita fondiaria, pur conoscendo ovviamente gli strumenti di lavoro, il lavoro e la terra, nonché le “materie prime” da trasformare in beni di consumo in grazia, appunto, del lavoro, «ricambio organico fra uomo e natura» (Marx). È degno di rilievo, sia detto en passant, che il grande economista inglese facesse risalire la nascita del Diritto, inteso nella sua più vasta accezione, all’instaurazione della proprietà, regime economico-sociale che in origine si afferma appunto con l’appropriazione violenta della terra da parte di alcuni a spese degli interessi degli altri, degli espropriati, i quali per vivere si videro costretti a lavorare sotto un padrone. «Il governo civile, in quanto viene instaurato per la sicurezza della proprietà, viene in realtà instaurato per la difesa dei ricchi contro i poveri, cioè di coloro che hanno qualche proprietà contro coloro che non ne hanno alcuna» (9). Anche qui, da una parte i proprietari, dall’altra i nullatenenti. La grande visione storica dei processi economici consentì al moralista (nell’accezione etico-filosofica dell’aggettivo) Smith di afferrare la natura storica e sociale del «governo civile», la cui autentica funzione come cane da guardia dello status quo sociale è celata dalla classe dominante dietro l’ideologia pattizia (contrattualistica). Monopolio della forza (della violenza) e monopolio dei mezzi di produzione/circolazione sono le due facce della medaglia chiamata Dominio.

7.
Compra-vendita della forza-lavoro e suo consumo produttivo; processo lavorativo e processo di valorizzazione; lavoro concreto e lavoro astratto; lavoro oggettivato e lavoro vivo: tutte queste coppie concettuali esprimono, secondo Marx, il reale processo di produzione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, un processo costituito dall’inscindibile unità di produzione e circolazione. Anche la migliore scuola dell’economia politica (Smith e Ricardo, in primis) non fu in grado di cogliere queste fondamentali coppie concettuali, e questo soprattutto perché gli economisti, di ieri e di oggi, vedono solo l’aspetto immediatamente materiale (cosale) della ricchezza sociale e dei fattori che la generano, mentre ciò che davvero conta nella comprensione del meccanismo economico, cioè a dire il rapporto sociale che sta a suo fondamento, è da essi del tutto trascurato, anzi molto spesso negato, e si comprende bene perché. Scrive Marx: «Questa follia, che scambia un certo rapporto sociale di produzione che si presenta sotto forma di oggetti, di cose, per proprietà materiali, naturali di queste stesse cose […] è un metodo molto comodo per dimostrare l’eternità del modo di produzione capitalistico, o per mostrare il capitale come un elemento naturale immutabile della produzione umana » (10). In questo peculiare senso si potrebbe parlare di “capitale umano” in un’accezione ancora più vasta – e apologetica.

Per un verso è del tutto corretto assimilare la compra-vendita che ha come attori il capitalista («come capitale personificato») e il lavoratore («come pura personificazione della capacità lavorativa») a ogni altro atto di scambio che si verifica sul mercato; per altro verso questa assimilazione è del tutto falsa, o quantomeno estremamente superficiale e colpevolmente unilaterale, se si considera la natura particolarissima, si potrebbe dire eccezionale, dell’oggetto di scambio che occupa la scena del mercato del lavoro: la capacità lavorativa, la forza-lavoro. Infatti, si tratta della sola merce esistente in “natura” dal cui consumo l’acquirente si aspetta di ricavarne un plus di valore, un’eccedenza di valore rispetto a quello espresso dal denaro da egli corrisposto per comprarla e accostarla ai mezzi di produzione e alle materie prime da trasformare che già si trovano nel cosiddetto luogo di lavoro, il quale è a tutti gli effetti un luogo di sfruttamento, sia che il salario pagato ai lavoratori è “alto”, sia nel caso contrario. Il concetto stesso di lavoro salariato presuppone e pone sempre di nuovo chi sfrutta e chi viene sfruttato, e il livello salariale misura solo il grado di questo sfruttamento.

«Per dimostrare che il rapporto tra capitalista e operaio non è altro che un rapporto tra possessori di merci che si scambiano vicendevolmente denaro e merce con vantaggio reciproco e mediante un libero contratto, basta isolare il primo processo e pervenire al suo carattere formale. Questo semplice trucco non è stregoneria, ma rappresenta l’intero patrimonio di sapienza dell’economia volgare» (11).

8.
Il lavoro mette al centro la persona: in un certo, particolarissimo, senso questa tesi, che molto piace agli “uomini di buona volontà” di “destra”, di “centro” e di “sinistra”, coglie la verità del processo di produzione della ricchezza sociale.

Dicevamo che dal consumo del lavoro vivo sgorga il plusvalore: non si tratta di una stregoneria o di un arbitrio, ma è la conseguenza di un peculiare rapporto sociale che fa del lavoratore un nullatenente, un «non proprietario», per dirla con Marx; siamo al cospetto di una maledetta condizione sociale (esistenziale, direbbe il filosofo), la quale fa sì che «le condizioni del suo lavoro» gli si ergono dinanzi «come proprietà non sua». La merce alienata dal lavoratore in cambio di un salario non è un oggetto estraneo alla sua persona, ma è la sua stessa persona, la sua stessa soggettività. Premessa della compra-vendita della forza-lavoro è un rapporto sociale che avendo trasformato un essere umano in un nullatenente, lo costringe a vendersi per un tot di ore al giorno a chi è disposto a metterlo nelle condizioni di guadagnarsi da vivere: «sul mercato del lavoro il denaro gli si contrappone continuamente come forma monetaria del capitale» (12). Ecco perché «non è l’operaio che acquista mezzi di sussistenza», ma sono piuttosto questi ultimi che acquistano l’operaio, e possono farlo appunto perché essi non sono che la materializzazione del capitale monetario con cui il capitalista acquista e si porta a casa il lavoro vivo, la capacità lavorativa, insomma un essere umano nella sua peculiare determinazione di lavoratore salariato. «Questa appropriazione è mediata dallo scambio che si svolge sul mercato tra capitale variabile [salario] e capacità lavorativa, ma viene portata a compimento soltanto nel processo produttivo reale» (13). Consolido, per così dire, il concetto marxiano citando l’amico del cuore  Friedrich Engels: «Ciò che gli economisti avevano considerato come costo di produzione del “lavoro”, erano i costi di produzione non del lavoro, ma dello stesso operaio vivente. E ciò che questo operaio vendeva al capitalista non era il suo lavoro [ma] la sua forza-lavoro. Questa forza-lavoro è però unita insieme con la sua persona e inseparabile da essa. I suoi costi di produzione coincidono dunque con i costi di produzione dell’operaio» (14).

In altri termini, lo sguardo che si fissa sulla sfera della circolazione vede solo scambisti interessati ad avere, di volta in volta, chi merce (forza-lavoro), chi denaro (salario), mentre il processo produttivo visto nella sua inscindibile totalità ci mostra l’esistenza non di generici scambisti, ma di classi sociali aventi opposti interessi: classi sociali che sfruttano e classi sociali che vengono sfruttate. «È il capitale, dunque, che impiega l’operaio, non l’operaio il capitale e soltanto le cose che impiegano l’operaio, e perciò possiedono un’esistenza autonoma, una coscienza propria ed una propria volontà nel capitalista, sono capitale» (15). Ha dunque un senso, che non sia meramente ideologico, parlare di “capitale umano”?

Intanto fissiamo per l’ennesima volta e portiamo a casa un fondamentale, quanto maligno, concetto: «Ciò che l’operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista. […] Se fosse permesso all’uomo di vendere la sua forza-lavoro per un tempo illimitato, la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita» (16). Dai tempi di Marx la potenza disumana del Capitale ha enormemente ampliato la dimensione mercantile (mercificata) dell’esistenza umana, e non solo di quella del lavoratore; mi riferisco naturalmente all’ambiente economico-sociale reso possibile dalle tecnologie cosiddette intelligenti, le quali trasformano in preziose “merci virtuali” ogni nostro respiro emesso sul Web. Anche qui, il pensiero superficiale (reificato) si concentra feticisticamente sulla natura pervasiva e invasiva della cosiddetta Intelligenza Artificiale, mentre gli sfugge la natura sociale del problema: “intelligente” non è la cosa tecnologica ma il Capitale che la genera per forzare sempre di nuovo i limiti della profittabilità, per fare di qualsiasi attività umana, anche di quella che non sembra avere nulla a che fare con la prassi economica, in un’occasione di profitto. Molte persone professionalmente assai qualificate sono stipendiate dal Capitale per trovare nuove possibilità di mercificazione dello “spazio umano”, che infatti diventa sempre più disumano.

Scriveva Marx in un appunto del 1849 (praticamente nella preistoria!): «L’attività umana = merce. L’estrinsecazione della vita umana – l’attività vitale si presenta come semplice strumento; l’esistenza separata da questa attività come fine» (17). Ebbene, quelle parole che 170 anni fa potevano suonare esagerate all’orecchio della stragrande maggioranza della gente, aderiscono perfettamente al Capitalismo del XXI secolo, al punto da suonare al nostro capitalistico orecchio perfino banali: «Ma lo sanno tutti che ciò che davvero conta nella vita è il denaro, sai che novità!».

Lo stesso anno Marx scriveva: «La crescente concorrenza tra gli operai va perdendo il suo carattere locale. […] Il salario dipende sempre più dal mercato mondiale» (18). Già ai tempi dell’Ideologia tedesca (1845) il comunista di Treviri aveva capito che la dimensione geosociale adeguata al concetto di Capitale è il mondo intero. Non si tratta – solo – di genialità; si tratta soprattutto di una profonda comprensione del rapporto sociale capitalistico. «Notiamo marginalmente che, una volta afferrato il significato del rapporto tra capitale e lavoro, tutti i tentativi di compromesso appaiono in tutta la loro ridicolaggine» (19). Qui la lancia critica marxiana era puntata contro i riformatori sociali del passato – del presente e del futuro. Ma chiudiamo la breve parentesi “profetica” e riprendiamo il filo del discorso – sempre che questo discorso ne abbia uno!

9.
«L’apparenza ingannevole delle cose» che il mercato genera continuamente fa sì che chi osserva l’atto di compra-vendita tra lavoratore e capitalista è indotto a credere che tutto il lavoro erogato dal lavoratore verrà pagato, mentre le cose, come già siamo in grado di intuire, non stanno affatto così, e anzi in regime capitalistico non possono stare così, necessariamente. Ciò che infatti il capitalista paga con il salario è solo una parte della giornata lavorativa, un x di ore che corrisponde al valore oggettivato nei beni-salario di cui il lavoratore necessita per vivere e per rigenerarsi come tale; è la parte della giornata lavorativa che Marx chiama necessaria, ossia indispensabile alla vita del lavoratore. Alla fine di questa parte della giornata lavorativa inizia la parte che non riceve alcun pagamento da parte del capitalista, e che per questo Marx chiama superflua dal punto di vista del lavoratore. Ebbene, è proprio questa parte eccedente che crea il plusvalore, e infatti storicamente il Capitale cerca sempre di accorciare la parte necessaria della giornata lavorativa e di allungare quella superflua, a volte lo fa in modo assoluto, cioè allungando senz’altro la giornata lavorativa, altre volte lo fa in termini relativi, attraverso l’impiego di tecnologie e l’implementazione di forme organizzative che accrescono la produttività di ogni singolo lavoratore a parità di giornata lavorativa, o addirittura con una più corta giornata di lavoro, e ne svalorizzano il valore rendendo più a buon mercato i mezzi di sussistenza di cui egli ha bisogno.

Scrive Marx: «La parte pagata e la parte non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherato dall’intervento del contratto e dalla paga che ha luogo alla fine della settimana»(20), o del mese. Ovviamente nessuno sa quando (a che ora) finisce la parte pagata e quando (a che ora) inizia la parte non pagata della giornata lavorativa, e anzi né il lavoratore né il capitalista hanno la benché minima coscienza di questa “strana” distinzione temporale (anche se spesso entrambi si comportano come se intuissero qualcosa): il primo crede di ricevere un salario più o meno “giusto”, e il secondo crede giusto aggiungere un “onesto” profitto alle spese da lui sostenute per produrre un bene idoneo a soddisfare un bisogno dei consumatori.

In realtà accade che «una quantità minore di lavoro oggettivato [nei mezzi di sussistenza] viene scambiato contro una quantità maggiore di lavoro vivo, poiché ciò che il capitalista riceve realmente in cambio del salario è lavoro vivo» (21).

Lo scambio Capitale-Lavoro che si dà sul mercato del lavoro appare uno scambio come tutti gli altri perché anche nel caso della compra-vendita di capacità lavorative si scambiano equivalenti. Infatti, il salario che il lavoratore riceve dal capitalista equivale al valore di scambio oggettivato nelle merci che il primo consuma per rinnovare sempre di nuovo la propria capacità di lavoro. Detto più correttamente, il salario rappresenta la forma monetaria del valore di scambio oggettivato nei mezzi di sussistenza che il salariato consuma per vivere e riprodursi in quanto salariato. Il capitalista intasca un profitto non perché paga al suo lavoratore un salario inferiore al saggio medio salariale fissato magari da un Contratto Nazionale del Lavoro, ma semplicemente perché ne usa la capacità lavorativa, come d’altra parte appare ovvio che debba fare: nessuno compra una merce per poi gettarla! Pagandolo al disotto di quel saggio medio il capitalista può certamente sperare di intascare un profitto extra, che si aggiunge a quello “normale” (medio-sociale), ma questo non muta di un solo atomo la qualità del rapporto di scambio Capitale-Lavoro. Come già sappiamo, il concetto di sfruttamento è immanente al concetto stesso di lavoro salariato, e prescinde completamento dalla quantità di salario corrisposta al lavoratore, ed è per questo che gli adoratori del “mitico” Articolo 1 della Costituzione Italiana si rendono artefici di un’odiosa apologia di questo regime sociale fondato sulla sottomissione totale dei nullatenenti al Capitale. «Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» (22). Detto altrimenti, soppressione del rapporto sociale capitalistico, superamento rivoluzionario della Società-Mondo fondata su quel disumano rapporto sociale.

Scriveva Adam Smith: «I salari correnti del lavoro dipendono ovunque dal contratto che comunemente si conclude tra queste due parti i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ricevere il più possibile, i padroni dare il meno possibile. I primi sono propensi a coalizzarsi per elevare il salario, i secondi per diminuirlo. Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale dovrà prevalere nella contesa, costringendo l’altra ad accettare le sue condizioni» (23). Secondo Smith «in una situazione normale» chi incassa profitti ha sempre la meglio su «coloro che vivono di salari». In ogni caso possiamo apprezzare la concezione smithiana della compra-vendita di capacità lavorative come una contesa «tra queste due parti i cui interessi non sono affatto gli stessi», e ciò tanto più in un’epoca –  la nostra – in cui il pensiero dominante non fa che venderci la menzogna del «siamo tutti nella stessa barca, e se la barca affonda crepiamo tutti». Non è affatto vero: se la barca capitalistica affonda l’umanità può benissimo costruire una nuova e più splendida barca. Volere è potere! Ma l’umanità non vuole: che peccato!

10.
Come abbiamo accennato, uno dei maggiori acquisti concettuali che la teoria del valore-lavoro fa con Ricardo è quello di aver sempre considerato la quantità di lavoro, misurata in termini di tempo dispiegato produttivamente dal lavoratore, e non il valore del lavoro incorporato nei beni-salario, come ciò che rende commensurabili e scambiabili fra loro le merci «a seconda che contengano più o meno di questa sostanza» (Marx). Tuttavia egli non approfondì oltre il significato di questa fondamentale acquisizione, perché il suo pur geniale pensiero scientifico rimase impigliato nella concezione che intende la merce solo nella sua realtà fisica (si tratta del materialismo volgare/borghese tanto disprezzato dal materialista storico-sociale di Treviri), e ciò ebbe come necessaria conseguenza la sua incomprensione circa «la connessione esistente fra questo lavoro e il denaro, né la necessità che il lavoro si rappresenti come denaro. […] Donde la sua falsa teoria del denaro» (24). Questo fondamentale limite concettuale è peraltro riscontrabile negli economisti e nei riformatori sociali attivi ai tempi di Marx (vedi Proudhon), i quali pensavano di poter abolire il “demoniaco” denaro senza minimamente toccare la forma merce, ossia la fonte “naturale” del denaro in regime capitalistico. Si può eliminare l’effetto senza eliminarne la causa? Ovviamente no, quantomeno in una dimensione non quantistica della realtà… Per dirla marxianamente, la merce trasuda denaro da tutti i pori.

Marx mostrò nella Miseria della filosofia (1847) e più compiutamente nella Critica dell’economia politica (1859) come attraverso complesse ma verificabili mediazioni reali e concettuali fosse possibile giungere alla definizione del denaro come la più compiuta espressione del lavoro astratto, o lavoro medio sociale che dir si voglia. Non è un caso che egli rimproverò a Ricardo (e ai suoi epigoni più o meno dichiarati e degni di cotanto maestro) un grave “deficit dialettico”, «perché salta termini medi necessari e tenta di mostrare in maniera immediata la concordanza delle categorie economiche» (25). Nella comprensione del processo capitalistico di produzione della ricchezza sociale le mediazioni, reali e concettuali, sono tutto: la loro presa d’atto da parte del pensiero fa la differenza tra una comprensione davvero profonda (radicale) del meccanismo sociale capitalistico e una sua conoscenza solo superficiale, e quindi suscettibile di smottamenti ideologici e di “volgarità”. Il più delle volte i critici di Marx saltano a errate conclusioni circa la sua teoria del valore proprio perché prescindono dal considerare i «termini medi necessari», la «grande quantità di termini medi», e preferiscono seguire la strada assai più comoda, quella «di mostrare in maniera immediata la concordanza delle categorie economiche».

Scrive Marx: «Ho già dimostrato che in tutti gli economisti fino ad oggi l’analisi della merce sulla base del “lavoro” è ambigua e incompleta. Non basta ridurre la merce a “lavoro”; bisogna ridurla a lavoro nella duplice forma in cui, da un lato, si presenta come lavoro concreto nel valore d’uso delle merci e, dall’altro, è calcolato come lavoro socialmente necessario nel valore di scambio» (26). Non concependo questa fondamentale distinzione, gli economisti di cui parla Marx non compresero che il processo lavorativo è essenzialmente un processo di valorizzazione che mentre conserva (e “rianima”) il valore passato, aggiunge al prodotto del lavoro un nuovo valore che va a costituire la base del profitto. «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merci, è essenzialmente produzione di plusvalore» (27).

Come lavoro concreto, più o meno qualificato, si tratta di un lavoro che realizza un valore (bene) d’uso anch’esso concreto, particolare: un computer, una lavatrice, un’automobile, un tavolo, insomma: «quel particolare articolo»; come lavoro astrattamente sociale, si tratta di un lavoro la cui sola qualità è la seguente: creare un valore di scambio. Come già detto, a causa del loro rozzo materialismo economico, i teorici del valore del periodo “classico” concepivano il lavoro come somma delle merci idonee a far vivere il lavoratore, somma che si manifestava come prezzo del lavoro, come salario. Nella riflessione economica la natura vivente di questo lavoro non era presa in considerazione.

Il corretto punto di partenza da cui muove la teoria del valore-lavoro non è il valore del lavoro che si esprime nel prezzo del lavoro e quindi nel salario, ma la quantità di lavoro, misurata come tempo di lavoro “erogato”, oggettivata nella merce. Infatti, è il tempo di lavoro che realizza il valore della merce, mentre il valore del lavoro deve a sua volta venir spiegato e misurato sempre in termini di quantità di lavoro oggettivata nelle merci che entrano nel consumo del lavoratore. Parlare di valore del lavoro, anziché del tempo di lavoro, porta a un circolo vizioso che cerca di spiegare il risultato (il valore delle merci) non con la sua premessa logica e reale (il tempo di lavoro), ma con il risultato: insomma, ci si avvita in una tautologia. «Il valore del lavoro non determina il valore delle merci, ma il valore delle merci che entrano nel consumo degli operai determina il valore del salario» (28). Solo partendo dal tempo di lavoro incorporato nella merce è possibile giungere alla genesi del profitto secondo la triade dello sfruttamento capitalistico pluslavoro-plusprodotto-plusvalore.

11.
Ritorno alla formula trinitaria citando Smith: «Come il prezzo o valore di scambio di ogni merce particolare si risolve nell’una o nell’altra o in tutte e tre queste parti, così quello di tutte le merci che compongono tutto il prodotto annuale di un paese preso complessivamente deve risolversi nelle stesse tre parti, ed essere spartito fra i vari abitanti del paese, o come salari del loro lavoro o come profitti dei loro fondi o come rendita della loro terra. […] Salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio»   (29). È da notare che nel calcolo del valore di scambio della merce Smith non prende in alcuna considerazione il valore oggettivato nei mezzi di produzione: macchine, materie prime, ecc; per lui tutto il prodotto sociale annuo si risolve nei tre canonici redditi: salario, profitto, rendita fondiaria. Egli ammette l’esistenza del «capitale costante» per ogni singolo atto produttivo, ma non ne tiene conto quando passa a considerare il processo produttivo nella sua dimensione sociale. Solo questa incredibile omissione gli permetteva di far quadrare i conti partendo da certe errate premesse. Fu David Ricardo (1817) a portare sulla scena della teoria del valore-lavoro ciò che Marx chiamerà appunto capitale costante: «Non è soltanto il lavoro direttamente impiegato nella produzione di una merce che ne determina il valore, ma anche il lavoro impiegato nella produzione degli strumenti, degli utensili e degli edifici che sostengono questo lavoro» (30). Qui si fa strada la fondamentale distinzione, poi elaborata compiutamente da Marx, tra lavoro vivo (attuale) e lavoro morto (passato). Giustamente Ricardo obiettò a Smith che non solo lo sviluppo economico non richiedeva affatto un superamento della “vecchia” teoria del valore-lavoro, che secondo Smith valeva in uno «stadio piuttosto rozzo della società» (che egli comunque non riusciva a concepire se non come società mercantile di tipo semplice) (31), ma che anzi solo la misura del valore secondo il tempo di lavoro riusciva a spiegare compiutamente e senza contraddizioni il valore contenuto nel prodotto annuo sociale, come la sua razionale distribuzione tra le varie classi che in qualche modo avevano concorso a realizzarlo. Il grande merito teorico di Ricardo fu appunto quello di aver generalizzato la teoria del valore-lavoro.

Dalla feconda teoria del valore-lavoro, che ebbe in William Petty (1679) il suo geniale precursore, Smith passa dunque alla mistica formula trinitaria. Quella smithiana diventa una teoria del valore-lavoro “a valle”, per così dire, centrata cioè non sulla quantità di lavoro oggettivato (contenuto, cristallizzato) nelle merci, ma sulla quantità di lavoro che il valore di queste merci possono comandare (labour commanded), mettere in movimento. «È necessario osservare che il valore reale di tutte le diverse parti componenti del prezzo è misurato dalla quantità di lavoro che ognuna di esse può comprare o comandare. Il lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro [pagato con il salario], ma anche di quella che si risolve in rendita e di quella che si risolve in profitto» (32). Ma si tratta del lavoro oggettivato nella merce (lavoro “intrinseco”), oppure del lavoro comandato (lavoro “estrinseco”) dal valore di essa? Smith rimase malamente aggrovigliato in una concezione della ricchezza sociale concepita sostanzialmente come un gigantesco ammasso di cose prodotte dal lavoro, anch’esso considerato essenzialmente come somma di beni-salario, che non gli consentì di sciogliere l’ambiguità circa il significato del lavoro come misura del valore: si tratta del lavoro “a monte” (produzione del valore nella fabbrica) oppure “a valle” (acquisto di forza-lavoro sul mercato)? A volte sembra vera la prima modalità («concezione esoterica»), a volte la seconda («concezione essoterica»).

In ogni caso a Smith il valore del lavoro contenuto in una merce appariva sempre minore del valore del lavoro che essa poteva comandare (acquistare), anche se, come abbiamo visto, egli non riuscì a trarre la corretta conclusione da questa fondamentale osservazione. Non poteva. Come abbiamo visto, gli mancava il concetto di lavoro vivo, e difatti concepiva il lavoro alla stregua di una qualsiasi merce, il cui valore di scambio era formato dai mezzi di sussistenza che tenevano in vita il suo proprietario, il lavoratore. Ma acquistata la merce-lavoratore pagata al suo giusto prezzo di mercato, il capitalista la porta nella sua impresa per consumarla, ed è in questo consumo che la forza-lavoro rivela le sue straordinarie proprietà.

Smith concepiva il profitto come un costo, come un’aggiunta esterna rispetto al processo produttivo, e non come il derivato di un plus di valore che viene ad aggiungersi al valore cristallizzato nei fattori della produzione e che per il capitalista rappresenta effettivamente un costo di produzione. «Non ho fatto che aggiungere il profitto medio ai costi che ho sostenuto. Infatti, se avessi investito il mio capitale in un altro impiego, avrei realizzato il profitto medio»: è così che ragiona l’ingenuo capitalista smithiano. «Smith rappresenta le cose esattamente come appaiono al capitalista, e come il capitalista le immagina lascandosi, nella prassi, guidare da esse» (33).

Quindi per Smith i costi appartengono alla sfera della produzione («concezione esoterica»), mentre il profitto ha a che fare solo con la sfera della circolazione («concezione essoterica»), nel cui seno si forma l’agognato profitto medio. Appare evidente che questa concezione occulta la natura sociale del profitto (e quindi della rendita che ne deriva), il quale come già sappiamo ha come suo fondamento il plusvalore, e quindi lo sfruttamento del lavoratore. Nemmeno Ricardo «distingue il plusvalore dal profitto, e in genere, al pari degli atri economisti, procede in maniera rozza e inintelligente con le determinazioni formali» (34). Beninteso, Marx ci tenne sempre a sottolineare come il geniale economista inglese giganteggiasse al cospetto della «massa di cretini venuti post Ricardum».

Paradossalmente, Smith, che restrinse la legge del valore-lavoro a una fase precapitalistica della società (pur dotandola delle “eterne” categorie dell’economia capitalistica: merce, mercato, denaro, ecc.), riuscì nondimeno a cogliere la natura eccezionale del lavoro (vedi la distinzione fatta sopra tra lavoro oggettivato nei beni-salario e lavoro comandato); Ricardo, che invece quella legge estese e generalizzò al moderno Capitalismo, non fu tuttavia in grado di spiegare l’eccedenza di valore-lavoro individuata da Smith e che egli non metteva in discussione, a partire dalla legge del valore secondo il tempo di lavoro contenuto nelle merci. «Ricardo non ha affatto risolto il problema, il quale costituisce la ragione intima della contraddizione smithiana. Valore del lavoro e quantità del lavoro restano espressioni “equivalenti” finchè si tratta di lavoro oggettivato. Cessano di esserlo, appena vengono scambiati lavoro oggettivato [nei mezzi di sussistenza] e lavoro vivo. […] In che cosa la merce lavoro si differenzia dalle altre merci? L’una è lavoro vivo, le altre sono lavoro oggettivato» (35). Sia Smith sia Ricardo non furono in grado di afferrare questa distinzione che sta alla base del Capitalismo.

12.
La “filiera” delle mediazioni reali e concettuali è lunga, ma alla fine sempre al rapporto sociale capitalistico arriviamo: il Capitale sfrutta il lavoro per ricavarne un profitto. Quando maneggiamo denaro, “reale” o “virtuale” che sia, crediamo di avere a che fare solo con una cosa, con la cosa più straordinaria e ambita dal “genere umano”, ma in realtà abbiamo tra le mani un intero mondo intessuto di relazioni umane: si tratta del famigerato feticismo della merce di cui parlava Marx. Scriveva Engels nell’Introduzione del 1859 a Per la critica dell’economia politica: «L’economia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; questi rapporti sono però sempre legati a delle cose e appaiono come delle cose. Marx è il primo che ha scoperto il valore di questa connessine, […] e in questo modo ha reso i problemi più difficili così chiari e così semplici, che ormai perfino gli economisti borghesi possono capirli» (36). Forse l’amico eccedeva in ottimismo…

Il profitto (che comprende l’interesse di chi dà a prestito denaro e la rendita del proprietario terriero) non sgorga naturalmente, o magicamente avrebbe detto Marx, dal capitale investito in qualche attività produttiva di “beni e servizi”, ma prende corpo dall’uso del lavoratore nel processo produttivo, il quale è in primo luogo – in regime capitalistico, s’intende – processo produttivo di valore e plusvalore, ossia di un valore che corrisponde esattamente ai valori dei “fattori produttivi” (mezzi di lavoro, lavoratori, materie prime, ecc.: si tratta del costo di produzione) e un extravalore che il capitalista incassa a titolo gratuito. Non è dunque nello scambio capitale-lavoro che nasce il profitto, ma nell’uso che il capitalista fa della merce-lavoratore che egli ha comprato pagandola con un salario contrattato sul mercato del lavoro. La merce-lavoratore è la sola merce che crea un plus di valore, cioè un’eccedenza di valore rispetto al prezzo d’acquisto, nello stesso momento in cui viene usata. La forza-lavoro conserva il vecchio valore incorporato nei “fattori produttivi” e ne crea, allo stesso tempo, uno nuovo di zecca che fa la fortuna del capitalista. Solo il valore d’uso della bio-merce chiamata lavoratore ha questo straordinario (per il capitalista) e maledetto (indovinate per chi) potere, che gli deriva non dalle sue intrinseche qualità naturali ma da peculiari rapporti sociali. È questa disumana realtà che cela la formula trinitari: «la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico-sociale è completa: il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure ne semplice cose» (37).

Non solo i tre redditi canonici dell’economia classica non derivano da tre fonti autonome, ma possono essere spiegati solo a partire dal processo lavorativo immediato, il quale dal punto di vista del capitale è fondamentalmente un processo di valorizzazione. Ecco, mutatis mutandis credo che un analogo ragionamento si possa applicare ai concetti di “capitale umano” e “capitale fisico”. Intanto abbiamo appreso da Marx che solo nel processo di valorizzazione la bio-merce chiamata lavoratore si trasforma in capitale: ditemi dunque se a questo capitale si possa applicare impunemente l’etichetta e il concetto di umano! Concepire e presentare il lavoro (salariato) come una qualsiasi fonte di reddito significa occultarne l’autentico significato storico-sociale, mistificare la sostanza capitalistica della sua esistenza, una sostanza che, occorre ripeterlo, trasuda disumanità da tutti i pori.

In estrema sintesi, mi sento di poter dire che l’odiosa fuffa ideologica intorno al “capitale umano” non è che un maldestro tentativo di celare la realtà dei nullatenenti che per vivere sono costretti a vendersi sul mercato. Infatti, «si capisce da sé che l’operaio che viene privato dei mezzi di produzione viene privato dei mezzi di sussistenza» (38), e viceversa. Chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione/circolazione detiene il monopolio dell’intero prodotto del lavoro, una parte del quale va a costituire il cosiddetto fondo-salario; la natura giuridica di questa proprietà (statale, privata, “mista”, cooperativistica) non ha alcuna importanza ai fini della definizione di un’economia che si dà come sottomissione totale del lavoro da parte del Capitale.

(1) P. Lovaglio, G. Vittadini Il concetto di capitale umano e la sua stima, p. 121, PDF.
(2) Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia, p. 31, Istat, 2014, PDF.
(3) Fondamenti e sviluppi delle teorie del capitale umano, p. 3, Università degli studi Bergamo, 2011, PDF.
(4) «Il primo ad affrontare il problema della misurazione quantitativa del capitale umano fu William Petty, nel 1676. Per Petty nel calcolo della ricchezza nazionale di un Paese si doveva includere la capacità lavorativa degli uomini, intesa come attitudine a creare ricchezza. Petty adottò un un’impostazione prospettica: il reddito da lavoro di una persona rappresenta la rendita perpetua del capitale umano rapportata ad un determinato tasso di interesse» (Ivi, p. 5). Per Marx Sir William Petty fu «uno dei più geniali e originali indagatori dell’economia, è il fondatore dell’economia politica moderna. Nel suo Treatise on Taxes and Contributions del 1662 si trovano numerosi passi che sviluppano l’origine e la valutazione del plusvalore. […] In questo scritto egli determina in realtà il valore delle merci dalla quantità proporzionale di lavoro in esse contenuto» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, I, p. 15, Einaudi, 1954).
(5) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, p. 119, Newton, 1995.
(6) Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia, p. 8, Istat.
(7) K. Marx, Il Capitale, III, p. 927, Editori Riuniti, 1980.
(8) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 99.
(9) Ivi, p. 589.
(10) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito, p. 28, Newton, 1976.
(11) Ivi, p. 31.
(12) Ivi, p. 43.
(13) Ivi, p. 38,
(14) F. Engels, Introduzione (del 1891) a K. Marx, Lavoro salariato e capitale, 1849, p. 126, Newton, 1978.
(15) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito, p.  36.
(16) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865,  p. 76, Newton, 1976.
(17) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p.83.
(18) Ivi, pp. 92-96.
(19) Ivi, p. 102.
(20) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 84.
(21) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito p. 46.
(22) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 116.
(23) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 108.
(24) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 11, Einaudi, 1955.
(25) Ivi, p. 12.
(26) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito.
(27) K. Marx, Il Capitale, I, p. 556, Editori Riuniti, 1980.
(28) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 69.
(29) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 98.
(30) D. Ricardo, Principi dell’economia politica, cit. tratta da K. Marx, Storia  delle teorie economiche, II, p. 21.
(31) «In quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l’accumulazione dei fondi e l’appropriazione della terra, il rapporto fra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l’uno con l’altro» (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 95). Non essendoci né profitto né rendita, il valore della merce è identico al valore del lavoro, e così il prezzo della prima è identico al prezzo del secondo, ossia al salario. Le cose cambiano completamente, dice sempre Smith, quando dallo «stadio piuttosto rozzo della società» si passa a una più matura e civile organizzazione sociale, dominata dalla feconda divisione sociale del lavoro. Qui il valore delle merci è dato, oltre che dal salario del lavoratore, anche dal profitto di chi investe capitale in un’impresa e dalla rendita fondiaria del proprietario terriero. Ai tempi di Smith la proprietà fondiaria godeva ancora di una certa autonomia rispetto al fittavolo capitalista che lo ripagava con una parte del profitto estorto ai lavoratori. Come osservò Marx, l’economista inglese per molti aspetti si mosse dentro schemi concettuali di chiara impronta fisiocratica, e ciò del resto si spiega con il grado di sviluppo, ancora relativamente modesto, del Capitalismo della sua epoca.
(32) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 97.
(33) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p.   75.
(34) Ivi, p. 71.
(35) Ivi, pp. 108-109.
(36) F. Engels, Marx-Engels Opere, XVI p. 480, Editori Riuniti, 1983.
(37) K. Marx, Il Capitale, III, p. 943.
(38) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito, p. 31.

LETTERA DI UN ANTICAPITALISTA A GRETA THUNBERG

Immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente.

Cara Greta,

mi chiamo Sebastiano, vivo in Italia e fin dall’inizio ho seguito con molta simpatia la tua battaglia contro i cambiamenti climatici e la distruzione dell’ecosistema del nostro pianeta. Il tuo discorso alla Conferenza sul Clima (COP 24) di Katowice mi ha molto impressionato e ha ispirato la riflessione che segue, che ti consegno non per convincerti, non ne avrei le capacità, ma per esporti un punto di vista che forse non conosci sulla scottante questione che tanto ci sta a cuore.

Carissima,

chi ti scrive è un anticapitalista al quale, esattamente come te, «non importa risultare impopolare» ma che, a differenza di te, non si batte per la «giustizia climatica e un pianeta vivibile», ma per un pianeta libero da una potenza sociale che ormai da più di due secoli domina, sfrutta e devasta la natura e gli esseri umani: il Capitale. Ho capito pochissime cose di come va il mondo, e tra queste te ne segnalo una: il Capitalismo è necessariamente incompatibile con il rispetto della natura e dell’umanità. Dico necessariamente perché la prassi economica che devasta tanto l’ambiente naturale quanto quello sociale non deriva né dalla cattiva volontà dei decisori politici posti al servizio dello status quo sociale, come si rinfacciano a turno i partiti che si alternano al governo nei Paesi di tutte le nazioni, né dalla malvagità della cosiddetta élite che detiene le leve dell’economia, quanto piuttosto dalla stessa natura del Capitalismo. Rapporti sociali fondati sul dominio e sullo sfruttamento dell’uomo e della natura in vista del vitale profitto (vitale, beninteso, per la Società-Mondo della nostra epoca) non possono non generare disastri d’ogni tipo: “naturali”, sociali, esistenziali. Se le classi subalterne del pianeta si impossessassero, per un “miracolo” di qualche tipo, di questa eccezionale idea, e provassero ad agire di conseguenza, questa società potrebbe davvero avere i giorni contati, e la tua generazione, facendosi essa stessa speranza, praticando la speranza, potrebbe inaugurare una nuova storia. Sì cara Greta, sto parlando di rivoluzione.

«Per fare ciò dobbiamo parlare chiaramente, non importa quanto questo possa risultare scomodo»: così hai detto qualche tempo fa; è ciò che sto cercando di fare io con te, sapendo d’altra parte benissimo che difficilmente tu e i tuoi coetanei potrete capirmi, visto che da molto tempo un punto di vista autenticamente anticapitalista non trova spazio nella società, è bandito da essa, anche a causa della miserabile fine che hanno fatto i regimi falsamente “socialisti” o “comunisti” in ogni parte del mondo. Avevo pressappoco la tua età, cara Greta, quando studiando la storia del movimento di emancipazione degli oppressi e degli sfruttati, ho capito che ciò che in Unione Sovietica, in Cina e altrove veniva propinato all’opinione pubblica mondiale appunto come “socialismo reale”, non era altro che un reale Capitalismo (più o meno di Stato), per altro una forma particolarmente aggressiva (anche nei confronti dell’ambiente naturale) e oppressiva di Capitalismo. Ti scrivo queste cose perché per me è stato molto importante scoprire improvvisamente che davvero “un altro mondo è possibile”, che non è affatto vero che dobbiamo accontentarci di vivere nella società capitalista, la quale si sarebbe dimostrata migliore di quella cosiddetta “socialista”. Un mondo a misura di natura e di umanità, e quindi, necessariamente, un mondo che non conosce la divisione degli individui in classi sociali, un mondo le cui attività siano tutte orientate a soddisfare i molteplici bisogni umani, bisogni anch’essi umanizzati, cioè a dire liberati dalla coazione mercificante del Capitale. A una mente giovane e aperta come la tua forse potrebbe interessare l’utopia che si esprime nelle mie parole. Cos’è l’utopia? Per me è il mondo umanizzato che ancora non c’è, ma che potrebbe esserci.

Come dici tu, «immaginate cosa potremmo fare tutti insieme, se solo lo volessimo veramente». È dunque possibile immaginare la fine del Capitalismo e la continuazione del mondo? Oggi è più facile immaginare esattamente  il contrario, e non a caso i guru del global warming presentano la lotta ai mutamenti climatici come un’assoluta priorità che deve unire gli uomini e le donne di tutto il pianeta al di là di ogni loro differenza di classe, di nazionalità, di religione e così via. È come se la Terra subisse l’attacco di una potenza aliena, extraterrestre! Niente di più falso, e di più strumentale, perché intorno al global warming da anni si gioca una furibonda lotta economica, scientifica e tecnologica tra Paesi, Continenti e imprese. La potenza aliena che tutto sfrutta, mercifica e inquina si chiama Capitale, e gli Stati di tutto il mondo sono al suo servizio.

Tu scrivi: «La civiltà viene sacrificata per dare la possibilità a una piccola cerchia di persone di continuare a fare profitti. La nostra biosfera viene sacrificata per far sì che le persone ricche in Paesi come il mio possano vivere nel lusso. Molti soffrono per garantire a pochi di vivere nel lusso. Noi dobbiamo lasciare i combustibili fossili sotto terra e dobbiamo focalizzarci sull’uguaglianza e se le soluzioni sono impossibili da trovare in questo sistema significa che dobbiamo cambiarlo». La penso esattamente come te, anche se diversamente da te io definisco Capitalismo «questo sistema», il quale, a mio avviso, non va semplicemente cambiato, reso “migliore”, ecologicamente “più sostenibile”, ecc., ecc., come da decenni predicano i “progressisti” di tutto il mondo; esso va consegnato senz’altro alla storia – o preistoria – dell’umanità.  Certo, «se solo lo volessimo veramente», si capisce. È praticando l’illusoria e ingenua politica del “male minore” e dei “piccoli passi” che siamo giunti a questo punto, mentre l’umanità ha bisogno di un pensiero davvero audace, giovane, rivolto al futuro.

Cara Greta,

come hai detto a Katowice, nel 2078 festeggerai il tuo settantacinquesimo compleanno, mentre chi ti scrive avrà lasciato questo pianeta già da un pezzo. «Se avrò dei bambini probabilmente un giorno mi faranno domande su di voi. Forse mi chiederanno come mai non avete fatto niente quando era ancora il tempo di agire. Non siamo venuti qui per pregare i leader a occuparsene. Tanto ci avete ignorato in passato e continuerete a ignorarci. Voi non avete più scuse e noi abbiamo poco tempo. Noi siamo qui per farvi sapere che il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no. Il vero potere appartiene al popolo». Così hai detto quel giorno parlando dinanzi ai “cari leader” mondiali. Sul “potere al popolo” per questa volta sorvolo, magari ne parliamo un’altra volta; adesso ti invito piuttosto a non aspettare il 2078 per chiederti se la mia utopia non sia per caso meno incredibile e campata in aria della “rivoluzione ecologica” che ormai da decenni imperversa, tra alti e bassi, nel dibattito pubblico internazionale, soprattutto nei Paesi occidentali. Forse tra sessant’anni potresti scoprire che un Capitalismo a “emissioni zero”, a “economia circolare”, a “chilometro zero” e quant’altro, dopotutto non è meno disumano di quello che oggi inquina, saccheggia e distrugge mari, fiumi, terre, cieli e rapporti umani. Personalmente penso che “mettere in sicurezza” il pianeta lasciandolo nelle mani del Moloch chiamato Capitale, sia un’idea vecchissima e ultrareazionaria; un’idea che certamente non merita l’interesse e l’energia di una mente giovane, ribelle e sensibile ai problemi dell’umanità.

E qui metto un punto, Cara Greta. Ti ringrazio per l’attenzione che vorrai accordarmi, e ti saluto. Ciao, e buona lotta!