PER TUTTI I REGENI DEL MONDO

Leggo su l’Huffington Post: «Un mare di sospetti. Affari e geopolitica. Armi e petrolio. Pugnalate alle spalle dei “fratelli coltelli” europei e di gole profonde di oltre Oceano. Interviste “sospette”, pilotate per chiudere il caso, e raìs senza scrupoli che in cambio del contenimento dei migranti chiedono miliardi di dollari oltre che il silenzio assoluto sui crimini interni. Libia ed Egitto. Lager e Regeni». Su Affari Internazionali il concetto appena delineato si chiarisce in tutta la sua cinica pregnanza: «C’è un convitato di pietra, a cui ogni tanto si accenna quando si parla dell’assassinio di Giulio Regeni. È una parola all’apparenza rassicurante, e allo stesso tempo saggia. Stabilità. È la stabilità dell’Egitto alla quale dobbiamo guardare con estrema attenzione, nel nostro delicato ruolo politico nel Mediterraneo. È la stabilità dell’Egitto che ci proteggerà dall’attacco dell’autoproclamatosi “stato islamico”. È la stabilità del più importante Paese della costa settentrionale dell’Africa che dobbiamo proteggere, per tutte le ragioni politiche, economiche, strategiche che toccano l’Italia: la crisi libica, le migrazioni, il contenimento dell’integralismo di marca islamista. La stabilità è la nostra trincea e per mantenerla dobbiamo ingoiare bocconi amari. La Realpolitik è razionale, seria. La ricerca di verità e giustizia sul caso Regeni è carica di troppo idealismo». È, mutatis mutandis, la stessa stabilità politico-sociale che la Cina vorrebbe imporre in Venezuela e in tutti i Paesi dell’America Latina per creare un ambiente meno “volatile” e precario per i suoi cospicui investimenti colà indirizzati. Il valore della stabilità non sarà mai apprezzato nel modo corretto dagli “idealisti”, ai quali sfugge la realtà degli interessi e dei rapporti di forza.

Anche Fulvio Scaglione spezza una lancia a favore della realpolitik: «Al resto del mondo del “caso Regeni” non importa nulla. Ce lo dimostrò, nelle settimane successive alla morte di Giulio, il buon François Hollande, socialista francese, che corse al soccorso di Al Sisi con prestiti e nuovi trattati commerciali, ansioso di prendere il posto dell’Italia nei rapporti bilaterali. Nel caso dell’Egitto occorre purtroppo conciliare il dramma e lo sdegno della famiglia Regeni e di tutti coloro che hanno sete di giustizia con l’interesse dell’intero Paese. E questo non può non valutare l’influenza del regime di Al Sisi sulla situazione della Libia (l’Egitto è un grande sponsor del generale Al-Haftar), migranti compresi, e le relazioni economiche tra i due Paesi. A partire magari dal settore energetico e dalla scoperta in acque egiziane, due anni fa, da parte dell’Eni, del più grande giacimento di gas del mondo» (Linkiesta). Chi analizza e riflette ciò che accade nel vasto e capitalistico mondo dal punto di vista degli interessi nazionali (o “del Paese”) non può che condividere questa realistica impostazione.

Gianandrea Gaiani (Analisi Difesa) augura all’Italia un tonificante bagno pragmatico  e avanza il sospetto dell’odioso complotto ai danni del nostro Paese: «In un paese come l’Egitto dove la tortura è legale e centinaia di oppositori scompaiono nel nulla chi aveva interesse a far ritrovare il corpo di Regeni con addosso i segni inequivocabili della tortura nella rotonda più trafficata del Cairo? Solo chi avesse voluto creare un muro nei rapporti tra Italia ed Egitto. […] Chiudere le relazioni diplomatiche con l’Egitto non ci ha dato la verità su Regeni ma ha svantaggiato l’Italia su tutti i fronti in cui i rapporti con al-Sisi hanno un valore strategico, dall’energia alla crisi libica. Meglio non dimenticare che l’Eni ha scoperto al largo di Alessandria un gigantesco giacimento di gas. Non a caso i nostri “alleati/competitor” europei hanno approfittato della crisi con l’Egitto per accaparrarsi un po’ di contratti. Incluso il settore delle armi per le forze egiziane dove l’Italia sembrava in pole position dopo gli incontri tra Renzi e al-Sisi, prima dell’omicidio Regeni e invece il business è andato a francesi e russi». Gaiani ricorda poi che altri cittadini europei sono finiti nella rete dei servizi segreti egiziani: «il caso più importante è forse quello del francese Eric Lang morto all’interno di un commissariato di polizia egiziano. Parigi ha più volte protestato e chiesto giustizia ma senza mai interrompere i contatti col Cairo che dalla Francia ha comprato negli ultimi anni (solo nel settore militare) navi da guerra e cacciabombardieri per 6 miliardi di euro. Non si tratta di accettare violenze, soprusi e omicidi di connazionali in cambio di affari ma di affrontare la questione con pragmatismo e sono in molti a non voler il ritorno di ottimi rapporti tra Roma e Il Cairo, specie a Parigi». Un po’ di sano pragmatismo insomma non guasterebbe, anche perché un eccesso di idealismo rischia di compromettere seriamente e per molto tempo i nostri interessi nazionali avvantaggiando quelli dei nostri «alleati/competitor». Urge chiudere in qualche modo il “caso Regeni”!

Paolo Mastrolilli (La Stampa) illumina un altro aspetto della vicenda: «Una seconda fonte del settore d’intelligence è convinta che Regeni sia stato vittima di una “turf war” fra gli apparati egiziani, in sostanza una guerra interna tra i vari servizi di sicurezza. In questo quadro, la morte di Giulio è stata usata da qualcuno per “scoring points”, cioè segnare punti a danno dei suoi avversari. Al Sisi voleva dare una lezione, e l’arresto del ricercatore italiano rientrava in questo obiettivo. Invece il suo omicidio, e poi l’abbandono del cadavere in strada allo scopo evidente di farlo ritrovare, sono serviti ai responsabili per rendere pubblica la sua tragedia e farne ricadere la colpa sui rivali. Il governo degli Stati Uniti aveva ottenuto le prove “humint” di questa verità, cioè intelligence umana. In altre parole, rivelazioni ricevute da informatori interni agli apparati egiziani, considerati credibili e affidabili. […] Di sicuro l’allora segretario di Stato Kerry era a conoscenza dei dettagli, e li rinfacciò direttamente al collega egiziano Sameh Shoukry, durante un incontro molto teso avvenuto nell’aprile del 2016, a margine del vertice nucleare che gli Usa avevano ospitato a Washington. Il capo della diplomazia americana disse al collega che il caso Regeni era diventato una seria complicazione nei rapporti bilaterali, perché gli Stati Uniti non potevano accettare che i civili di paesi alleati fossero trattati in questa maniera. Davanti alle obiezioni e le smentite di Shoukry, Kerry aveva risposto che l’intelligence americana aveva le prove inconfutabili della responsabilità dei servizi egiziani nell’uccisione di Giulio. Quindi aveva detto che l’unica soluzione accettabile per gli Usa era l’arresto e la punizione dei colpevoli. Questo non è mai accaduto, ma le fonti americane restano convinte che gli egiziani possano farlo». È davvero commovente osservare la prima potenza imperialista del pianeta ergersi a paladina della “verità” e della “giustizia”, sebbene orientate in senso geopolitico: Guantanamo, e non solo, insegna. Gli Stati Uniti non possono accettare che i civili di paesi alleati siano «trattati in questa maniera»: il destino dei civili nati sotto una diversa costellazione imperialistica non è cosa che possa riguardarli. Anche il “senso di umanità” deve dunque inchinarsi dinanzi alla geopolitica. Come sempre invito alla riflessione critica, non all’indignazione moralistica che sovente porta acqua al mulino di una delle parti in competizione, mentre si tratterebbe di far saltare in aria l’intero gioco.

La terribile – ma tutt’altro che eccezionale – vicenda toccata in sorte a Giulio Regeni è insomma finita nel tritacarne degli interessi economici, geopolitici e politici. Com’era d’altra parte inevitabile che accadesse, come nel mio infinitamente piccolo ho cercato di dire fin dall’inizio:

«In ogni caso, personalmente non ho bisogno di vedere i volti – veri o presunti – di chi ha materialmente massacrato «il nostro ragazzo» per condannare senza appello il vero colpevole dell’odioso crimine: il Sistema Mondiale del Terrore (o società capitalistica mondiale che dir si voglia), di cui fanno parte a pieno titolo l’Italia e l’Egitto. Il resto è ricerca del capro espiatorio di turno, cinico accomodamento diplomatico, gestione del potere, propaganda, geopolitica, business, giustizia amministrata per conto dello status quo sociale. Tutto il male del mondo che la madre di Giulio ha visto sul volto martirizzato del figlio è esattamente il vero volto di quel Sistema. Chiedere “giustizia” per Giulio e per tutte le vittime del Moloch può avere dunque, per chi scrive, un solo significato umano e politico: rompere con la logica e con la retorica “del mio Paese” e della “dignità nazionale”. Tanto per cominciare. Impostato il problema nei suoi corretti termini, la stessa richiesta di una “Verità per Giulio” assumerebbe il pregnante significato di una denuncia del regime italiano e del regime egiziano, in particolare, e del regime internazionale delle relazioni interimperialistiche in generale. Dinanzi agli interessi del Capitale e degli Stati la vita umana appare del tutto sacrificabile: lo chiamano “effetto collaterale”. Un movimento d’opinione orientato in quel senso non sarebbe un obiettivo politico disprezzabile, mi sembra. Lo so benissimo, la cosa appare quantomeno “problematica”, e tuttavia…» (Tutto il male del mondo. Quale verità per Giulio Regeni?). «Un massacro in più o in meno non può certo cambiare il mio giudizio su ciò che ho definito il Sistema Mondiale del Terrore (*), concetto che spiega anche la strage di San Pietroburgo. A suo tempo anche Giulio Regeni sperimentò la crudeltà di questo mostruoso sistema terroristico che sfrutta e uccide; tutti i Paesi del pianeta ne sono parte organica, sebbene a vario titolo e con diverso peso specifico» (Un’umanità gasata).

Per capire il mio approccio con il “caso Regeni” è indispensabile sapere che la nazionalità di Giulio mi lascia del tutto indifferente: la sua morte ai miei occhi non è “qualitativamente” diversa da quella di migliaia di giovani egiziani che nel corso degli anni sono “scomparsi” (magari dopo atroci torture) nella più totale indifferenza delle stesse persone che oggi reclamano per la sua terribile vicenda “verità” e “giustizia” solo perché c’è di mezzo l’onore e il prestigio del nostro Paese. Per me la morte di un italiano “pesa” esattamente quanto quella di un egiziano, o di un siriano, o di un libico, insomma di un Giulio Regeni qualsiasi nato in un luogo qualsiasi di questo mondo sempre più violento e disumano. Piango gli offesi, i torturati e gli assassinati senza prima controllare il loro colore della pelle, la loro fede religiosa, la loro nazionalità: mi basta e avanza sapere che degli esseri umani sono stati sacrificati sull’altare di interessi che nulla a che fare hanno con un assetto umano della nostra vita, oggi appunto negato nel modo più ottuso e nichilista. So benissimo che il punto di vista dei genitori di Giulio è completamente diverso dal mio; ma qui si tratta del mio punto di vista, non del loro.

Personalmente trovo rivoltante (ma non inaspettato!) il modo in cui l’Italia, i suoi “alleati” occidentali e mediorientali e i partiti di casa nostra stanno usando l’affaire Regeni per acquistare vantaggi e assestare colpi all’avversario, e di certo la legittima domanda di verità e giustizia deve necessariamente prestare il fianco alla strumentalizzazione da parte del Sistema Mondiale del Terrore se non tiene conto della natura sommamente disumana di questo Sistema.

* Ho elaborato questo concetto con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo. Rimando al post La radicalizzazione del Male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

TUTTO IL MALE DEL MONDO

Quale verità per Giulio Regeni?

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«Il suo volto così come restituito dall’Egitto era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Sul suo viso ho visto tutto il male del mondo che si è riversato su di lui» (Paola Regeni).

Ho appena finito di leggere un interessante e istruttivo articolo di Alberto Negri dedicato alla «storia ignobile di Giulio Regeni», pubblicato il 31 marzo dal Sole 24 Ore. Istruttivo soprattutto per quel che riguarda la “fenomenologia” politico-diplomatica dell’imperialismo nostrano. Eccone un’ampia sintesi:

«Regeni è stato ammazzato probabilmente dalla polizia egiziana, che fosse italiano è secondario: lavorava per un’istituzione accademica britannica, aspetto importante che però non è così decisivo. La polizia ha l’ordine di tenere d’occhio gli stranieri che ficcano il naso negli affari interni: per sostituire l’islamismo serve un nazionalismo ferreo, implacabile, anche stupido, esercitato in ogni direzione. Il sistema conta più delle persone o dobbiamo ricordare tutti i morti. L’Italia è stato il primo governo in Europa a sdoganare il generale golpista. Consegnando il corpo e facendo fuori quattro criminali da strapazzo, Al Sisi pensava di chiudere il caso: un “incidente” che ha coinvolto il cittadino di un Paese sempre pronto a corteggiarlo pur di fare affari, non diversamente peraltro da russi e francesi che vendono caccia e incrociatori. Loro, peraltro, sono anche suoi alleati in Cirenaica, in contrasto evidente con i nostri interessi in Tripolitania. I misteri? Ce ne sono ma non così fitti. Il più evidente è perché abbiano gettato il cadavere in un fosso quando anche i più stupidi tra “i bravi ragazzi” l’avrebbero occultato sotto tre metri di cemento. La scena è questa: Al Sisi avrà chiesto a un suo sottopancia perché un ministro italiano dell’Economia invece di parlare con lui solo di affari avesse chiesto dove fosse finito un suo connazionale. I raìs non gradiscono imprevisti. Il capo si è inferocito e scendendo per i rami gerarchici e dell’apparato di sicurezza gli autori dell’omicidio, impauriti, si sono liberati in giornata del cadavere pensando di simulare un incidente. Perché questa era la prima versione con cui speravano di cavarsela con il Capo, non con noi che per loro non contiamo nulla. Da qui è partita una sequela di errori e giustificazioni. Persino il Capo nell’intervista procurata a un giornale italiano cerca di accreditare la teoria del complotto: un sabotaggio agli affari dell’Eni. Musica per noi giornalisti che sulle dietrologie non ci batte nessuno. Ma questa è una storia sbagliata, dove la sorte terribile di una vittima ingigantisce l’infamia e la stupidità dei suoi assassini. E ora cerchiamo “soddisfazione” da chi non può darcela, tentando di montare un intrigo internazionale perché non sappiamo cosa fare. Fateci caso. I due marò, Regeni, la Libia di Gheddafi: siamo diventati i campioni delle fregature, noi, il Paese dei furbetti. Di Regeni in molti dissero, prima di correggere il tiro con la consueta eleganza, che forse non doveva ficcare il naso tra gli operai e i sindacati, ora è diventato un eroe “italiano”, la maschera sanguinante dove nascondere le nostre meschinità e indecisioni. È questa, come cantava Guccini, la piccola storia ignobile del nostro Paese e gli altri la conoscono bene. Cambiarla dipende da noi, non dal generale Al Sisi».

Cambiare la «piccola storia ignobile del nostro Paese»? Io mi chiamo fuori! Personalmente sono attratto da cambiamenti assai più epocali e utopistici: il realismo, come sa il lettore avvezzo a questo Blog, non è mai stato il mio forte e comunque lo lascio volentieri nelle mani di chi ama «il nostro Paese», non importa se “declinato” da “destra” o da “sinistra”. Il «nostro Paese» colleziona “brutte figure” in giro per il mondo? Benissimo! Mille di queste “brutte figure”! Faccio del disfattismo antinazionale? Mi pare oltremodo ovvio. «Vedremo se il governo Renzi, davanti a questo caso politico-diplomatico gravissimo, inalbererà l’orgoglio tricolore come per i due marò sotto processo in India, oppure si comporterà in maniera codarda col pretesto della “realpolitik”» (CampoAntimperialista). Ecco, il mio punto di vista antinazionale si colloca su un terreno “dottrinario” e politico affatto diverso, più precisamente: opposto da quello che ha fatto germogliare la perla “Antimperialista” appena citata. Nella mitica e fatidica “Notte di Sigonella”* Bettino Craxi mostrò coraggio dinanzi agli arroganti alleati americani, e gli “antimperialisti” dell’epoca si produssero in un miserabile (quanto non sorprendente) applauso di approvazione nei confronti di un Premier decisionista che era riuscito a inalberare l’orgoglio tricolore mille volte maltrattato; allora come oggi la natura “antimperialista” di certi “antimperialisti” è piuttosto sospetta, diciamo. A volte l’”antimperialismo” ama mostrarsi con il volto del nazionalismo più ottuso: misteri della “dialettica”!

C’è un modo rapido e “dignitoso” per venire fuori dal cul de sac politico-diplomatico nel quale si è cacciata la relazione speciale italo-egiziana? «Come può difendere la propria dignità un paese come l’Italia? Continuando a insistere per ottenere verità e giustizia, senza abbandonare i propri interessi» (Il Foglio). Dello stesso avviso è ovviamente Paolo Scaroni, vicepresidente della banca Rotschild ed ex amministratore delegato di Enel ed Eni, grande conoscitore del Medio Oriente e sostenitore della divisione della Libia nelle tre storiche “macroregioni” (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan) poi accorpate violentemente dall’Italia fascista nel 1934 – naturalmente la Tripolitania dovrebbe essere di nostra competenza. «Faccio solo due osservazioni. Mi sembra un po’ presto per tirare le conclusioni della vicenda Regeni. Primo, dobbiamo essere vigili ed esser certi di non essere presi in giro, per rispetto della famiglia e per la nostra stessa dignità nazionale. Le conclusioni vanno tirate quando sarà chiaro se hanno voglia di darci una risposta seria o meno. Secondo, il maggior interesse al gas di Zohr non è dell’Eni o dell’Italia ma dell’Egitto stesso, che ne ha un bisogno disperato. Con lo sviluppo di quel giacimento, il Cairo tornerà infatti a essere autosufficiente. Per questo vanno valutate reazioni intempestive, che invece di punire il colpevole, finiscano per penalizzare la parte sbagliata» (Il Corriere della Sera).

Ora, per come la vedo io è proprio la logica «del nostro Paese», della «nostra dignità nazionale», degli «interessi nazionali» (logica da estendersi a tutti i Paesi del mondo) che ci tiene inchiodati ideologicamente e psicologicamente alla croce di questa ignobile società mondiale che ci espone a ogni sorta di trattamento disumano e a ogni tipo di pericolo: non siamo sicuri nemmeno quando aspettiamo o prendiamo un mezzo di trasporto, o quando ci concediamo un momento di relax secondo il nostro insuperabile “stile di vita” – oggi preso di mira dal “nichilismo islamico”. Ogni luogo di ritrovo è diventato parte del fronte bellico. Figuriamoci cosa può capitare a chi si mette in testa la bizzarra idea di «ficcare il naso tra gli operai e i sindacati» di un altro Paese!

Ieri il Premier Renzi ha ribadito un concetto che corrisponde agli interessi attuali e alle preoccupazioni** dell’imperialismo italiano: è sbagliato sostenere che siamo in guerra contro il Califfato Nero, perché la guerra la fanno gli Stati; si tratta piuttosto di una lotta al terrorismo che va approcciata secondo criteri adeguati alla natura del problema. Sulla guerra sistemica in corso rimando al mio ultimo post e agli altri post dedicati al tema. Il punto decisivo che ho cercato di mettere in luce in questi post è il carattere necessariamente aggressivo, competitivo, violento, terroristico, in una sola parola disumano della vigente società mondiale, e questo tanto in regime di “pace” quanto in regime di “guerra guerreggiata” – la quale rivela il vero volto del Moloch che ci sovrasta.

A parer mio, fino a quando le classi subalterne continueranno a ragionare secondo la logica delle classi dominanti (ossia in termini di «dignità nazionale», di «interessi del Paese» e via dicendo) non c’è nemmeno da ipotizzare la possibilità di un futuro assetto umano della nostra esistenza, e ogni ulteriore peggioramento della nostra condizione non è solo possibile, ma è altamente probabile. In ogni caso, personalmente non ho bisogno di vedere i volti – veri o presunti – di chi ha materialmente massacrato «il nostro ragazzo» per condannare senza appello il vero colpevole dell’odioso crimine: il Sistema Mondiale del Terrore (o società capitalistica mondiale che dir si voglia), di cui fanno parte a pieno titolo l’Italia e l’Egitto. Il resto è ricerca del capro espiatorio di turno, cinico accomodamento diplomatico, gestione del potere, propaganda, geopolitica, business, giustizia amministrata per conto dello status quo sociale. Tutto il male del mondo che la madre di Giulio ha visto sul volto martirizzato del figlio è esattamente il vero volto di quel Sistema.

Chiedere “giustizia” per Giulio e per tutte le vittime del Moloch può avere dunque, per chi scrive, un solo significato umano e politico: rompere con la logica e con la retorica «del mio Paese» e della «dignità nazionale». Tanto per cominciare.

Impostato il problema nei suoi corretti termini, la stessa richiesta di una “Verità per Giulio” assumerebbe il pregnante significato di una denuncia del regime italiano e del regime egiziano, in particolare, e del regime internazionale delle relazioni interimperialistiche in generale. Dinanzi agli interessi del Capitale e degli Stati la vita umana appare del tutto sacrificabile: chiamasi “effetto collaterale”. Un movimento d’opinione orientato in quel senso non sarebbe un obiettivo politico disprezzabile, mi sembra. Lo so benissimo, la cosa appare quantomeno “problematica”, e tuttavia…

 

* «Era ancora un’Italia che non si era scrollata completamente di dosso la ferita dell’8 settembre ‘43 quella che si presentava armata nella notte del 10 ottobre 1985 sulla pista della base Nato di Sigonella. Ma i carabinieri al comando del generale Bisognero (padre dell’attuale ambasciatore italiano a Washington) che presidiavano il Boeing egiziano con a bordo i dirottatori dell’Achille Lauro non si sarebbero opposti con tanta fermezza alla Delta Force americana senza una catena di comando unitaria e una guida politica inflessibile, quella di Bettino Craxi, che li guidò in quelle difficili ore restituendo quell’onore perso in guerra quarant’anni prima davanti agli occhi del mondo» (G. Pelosi, Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015).

** «Il formidabile caos libico ci riguarda sempre più da vicino perché l’Italia nei mesi scorsi si era offerta per un ruolo guida che aveva perduto nell’ex colonia con la caduta di Gheddafi nel 2011. Fu la più grave e sostanziale débâcle della nostra politica estera dalla fine della seconda guerra mondiale. Adesso, come recuperare la Libia?» (Il sole 24 Ore, 2 aprile 2016). «Siamo tutti alleati qui in Occidente, ma definirci amici a volte è un po’ azzardato. In compenso siamo sicuramente concorrenti, al punto che in ogni vicenda oscura, a torto o a ragione, vediamo sullo sfondo, nell’ombra, l’artiglio di interessi economici inconfessabili: non è così anche per il caso Regeni?» (A. Negri, Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2016).

GUERRA E – COSIDDETTA – PACE

aut trÈ dal 2003, dai tempi della Seconda guerra in Iraq, che intellettuali francesi “non allineati” (al pensiero mainstream progressista) come Alain Finkielkraut e André Glucksmann martellano le posizioni “pacifiste” europee, rubricate come Spirito di Monaco e vetero pacifismo ideologico. Ad esempio, dalle colonne dell’International Herald Tribune del 12 marzo 2003 Glucksmann rimproverò i governi di Parigi e Berlino di riprodurre «gli argomenti dei “Movimenti per la Pace” staliniani» della guerra fredda. Un’accusa che, al netto della posizione guerrafondaia sostenuta dall’intellettuale francese in difesa dei Sacri Valori Occidentali, ebbe allora il merito di mettere in luce tutta l’ambiguità della “politica estera” europea in generale, e di quella franco-tedesca in particolare. Sempre concesso che si possa parlare con qualche fondamento di una “politica estera” europea. Come il lettore ricorderà, allora si parlò di una Nuova Europa (i «volenterosi» amici di Bush: Inghilterra, Italia e Spagna) e di Vecchia Europa (gli avversari dell’intervento militare in Iraq, con alla testa la Francia di Jacques Chirac).

Gli ultimi avvenimenti in Ucraina e in Libia hanno riaperto anche in Italia il dibattito “teorico” intorno all’atteggiamento europeo in materia di conflitti armati: ha ancora senso parlare di ripudio della guerra quando nel cuore stesso dell’Europa e a due passi dalla Sicilia divampano conflitti che rischiano di incenerirci mentre proferiamo le rituali e sempre più stucchevoli frasi pacifiste? Scriveva ieri Stefano Folli (La Repubblica): «La Libia ha creato quasi all’improvviso un fatto nuovo che rende obsoleti certi comportamenti e richiama tutti alla serietà. […] La campana della Libia suona per tutti, salvo che per le forze che si pongono fuori del sistema». Sarà forse per questo che chi scrive non l’ha sentita, almeno nei termini in cui li ha posti il bravo editorialista: «La minaccia è reale e incombente, tocca da vicino gli interessi italiani e si somma all’emergenza dei profughi». Non c’è dubbio: la campana libica suona per gli interessi strategici del Paese, che rischia di farsi scavalcare non solo dalla più aggressiva, esperta e militarmente attrezzata Francia, come ai tempi della “guerra umanitaria” contro Gheddafi, ma anche dall’Egitto, la cui ombra già si estende sulla Cirenaica. La campana della guerra sistemica (non solo militare) suona per gli interessi strategici del Paese, appunto, non certo per gli interessi delle classi subalterne, e certamente non per chi scrive, almeno nel significato qui messo in luce.

Ernesto Galli della Loggia prende molto sul serio, per criticarla da par suo (ossia con intelligenza e fine sarcasmo), l’ideologia pacifista che condannerebbe l’Europa all’impotenza e che la esporrebbero a pericoli esistenziali di cui ancora non ci rendiamo conto: «Gli europei sono incapaci di pensare alla loro sicurezza innanzi tutto perché sono ormai incapaci di pensare alla guerra. Di pensare concettualmente la guerra. Di convincersi cioè che quando in una situazione di crisi una delle due parti appare decisa per segni indubitabili a usare la violenza, c’è un solo modo di fermarla: minacciare di usare una violenza contraria. E quando è inevitabile, usarla».

Della Loggia ridicolizza soprattutto il vezzo politically correct tutto europeo di ricondurre la Guerra in generale, il fatto bellico come concetto, a «inutile strage» secondo la celebre definizione papale applicata alla Grande Guerra: «Inutile dunque l’indipendenza della Polonia, dell’Ungheria o dei Paesi baltici che scaturì da quel conflitto. E perché? In che senso, da quale punto di vista? Inutile pure il risveglio politico di tutto il mondo islamico in seguito al crollo dell’impero ottomano: ma chi può dirlo? Così come inutile, naturalmente, nel suo piccolo, anche il ritorno all’Italia di Trento e Trieste, non si capisce in base a quale criterio. In base al criterio, si risponde, che tutto questo è costato un enorme numero di morti. È vero. Ma un enorme numero di morti, per fare solo qualche esempio, sono costate anche le invasioni barbariche, le guerre di religione del Seicento, la battaglia di Stalingrado, per non parlare, che so, della colonizzazione dell’America in seguito alla scoperta del Nuovo mondo: si è trattato perciò di avvenimenti “inutili”? Ma via, che modo è mai questo di fare storia, assumendo come criterio chiave il numero dei morti?» (Il Corriere della Sera, 16 febbraio 2015). Il titolo dell’interessante articolo dell’editorialista è molto significativo: Cattiva coscienza europea.

In che senso della Loggia parla di cattiva coscienza europea? È preso, e solo in parte correttamente, detto: «La guerra, gli europei dell’Ue hanno deciso di lasciarla agli americani. Credendo così, tra l’altro, di poterli comodamente giudicare dei “guerrafondai” schiavi della “cultura delle armi” e di potersi sentire quindi moralmente superiori ad essi: in una parola più democratici. E invece è vero proprio il contrario». Sono i temi che il “falco” Robert Kagan propose nel suo Paradiso e potere (Mondadori, 2003) a proposito dell’ambiguo rapporto tra le due sponde dell’Atlantico: «L’Europa sta voltando le spalle al potere. […] Sta entrando in un paradiso poststorico di pace e relativo benessere: la realizzazione della “pace perpetua” di Kant. Gli Stati Uniti invece restano impigliati nella storia a esercitare il potere in un mondo anarchico, hobbesiano, nel quale la vera sicurezza, la difesa e l’affermazione dell’ordine liberale dipendono ancora dal possesso e dall’uso della forza». Colombe contro falchi, Kant versus Hobbes, Venere contro Marte.

Naturalmente niente di tutto questo, a uno sguardo meno superficiale – diciamo pure meno ideologico – della questione. D’altra parte, declinare la potenza e la forza di un Paese a partire dalla sua dimensione politico-militare è sbagliato, soprattutto nel contesto della società-mondo del XXI secolo, nell’epoca della sussunzione totalitaria di tutto e di tutti al Moloch capitalistico. Viceversa, sarebbe praticamente impossibile spiegare la forza di attrazione e la potenza sistemica della Germania del secondo dopoguerra. Lo stesso confronto USA-URSS, vinto in modo fin troppo netto dagli americani, fu innanzi tutto un confronto economico, tecnologico e scientifico, nonostante l’opinione pubblica fosse attratta dagli aspetti ideologici (il cosiddetto conflitto fra democrazia e “totalitarismo comunista”: sic!) e militari (sfilate di carri armati e di missili, guerre per procura, e così via) della contesa. Anche la debolezza strutturale (industriale, in primis) dell’imperialismo russo di oggi, non a caso definito dagli analisti di geopolitica secondo la figura retorica (ma non per questo meno veritiera) del gigante dai piedi d’argilla, credo avvalori la tesi qui sostenuta.

1302524382452_guerra_libia_500Ma ritorniamo a Galli della Loggia. Egli spiega senz’altro la prassi degli individui e delle nazioni sulla base della loro ideologia; io, viceversa, mi sforzo di individuare i presupposti storico-sociali, attuali e lontani, delle ideologie, che cerco di spiegare sulla scorta di precisi interessi. Per dirla con il solito Marx, io cerco di fare di un problema ideologico una questione essenzialmente “pratica”, mentre della Loggia rimane sul terreno ideologico e da lì scaglia le sue frecce critiche. Per quanto mi riguarda, l’ideologia pseudo pacifista degli europei per un verso è servita a mascherare un fatto epocale indiscutibile: lo strapotere degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale, che ha annichilito ogni velleità di Grande Potenza da parte dei maggiori Paesi europei, Inghilterra e Francia comprese, che  a ben guardare alla fine risulteranno essere le vere sconfitte di quel conflitto (alludo ovviamente al loro “glorioso” passato coloniale); e per altro verso quell’ideologia è stata sempre usata in chiave polemica dal Vecchio Continente nei confronti degli USA, a volte per smarcarsi da iniziative politico-militari decise da Washington che non rientravano nei suoi interessi strategici, e sempre per contribuire il meno possibile in termini finanziari e politici al mantenimento dell’Alleanza atlantica. Fare del male (l’egemonia statunitense) un bene, avvantaggiarsi quanto più possibile dell’ombrello americano offrendo all’alleato d’Oltre Oceano il meno possibile in tutti i sensi: l’ideologia cosiddetta pacifista degli europei è stata messa al servizio di questa scaltra strategia, che infatti da sempre è stata oggetto delle critiche americane. «È facile affettare pose pacifiste delegando ad altri il lavoro sporco!».

L’opportunismo delle “colombe” europee nei confronti dei “falchi” americani non va dunque letto come un difetto ideologico da parte delle prime, bensì come una politica che risponde a precisi, e il più delle volte inconfessati, interessi.

«Oscuramente», continua Galli della Loggia, «gli europei avvertono che il loro rifiuto della guerra, apparentemente così virtuoso, in realtà copre la paura che in qualche modo la guerra possa resuscitare come d’incanto i démoni che affollano il loro passato così poco democratico. È solo un caso se il Paese non da oggi più pacifista di tutti è la Germania? Il nostro amore per la pace, insomma, assomiglia molto a un antico rimorso divenuto cattiva coscienza». Come ho cercato di argomentare, non si tratta di un rifiuto ideologico della guerra, né di astratte paure legate al retaggio storico, ma piuttosto di interessi sistemici che rendono problematica la decisione degli “europei” di accedere al fatto bellico. Tutti hanno visto come la “pace” e l’ideologia pacifista hanno reso più potente che mai la Germania,  cosa che «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (C. Jean, Manuale di geopolitica). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile a breve/medio termine, e certamente non auspicabile.

Ascoltiamo l’ultima lamentela antipacifista di Galli della Loggia: «L’Italia in specie poi, si sa, è votata alla pace. Se domani andremo in Libia, se mai ci andremo, anche lì, c’è da giurarci, non andremo per fermare con le armi le orde dello “Stato islamico”, cioè con la guerra. No. Dimentichi che non c’è ipocrisia maggiore di quella delle parole, ma decisi a non dismettere la nostra sciocca ideologia, andremo “per mantenere la pace”». Sull’ipocrisia “pacifista” made in Italy non ho nulla da aggiungere.

quarta spondaHo invece qualcosa da dire a proposito di quanto ha scritto Tommaso Di Francesco sul Manifesto del 14 febbraio in risposta al virile «siamo pronti a com­bat­tere» esternato dal Ministro degli Esteri italiano: «piut­to­sto che un impeto leo­par­diano, asso­mi­glia al solito disprezzo dell’articolo 11 della nostra Costi­tu­zione e anche dell’Onu, la cui egida viene strumen­tal­mente evo­cata ma considerata più che per­dente». Non c’è guerra, o preparazione di un qualsiasi intervento militare da parte del Bel Paese che non evochi, nella testa dei pacifisti, l’Art 11 della Costituzione Italiana: L’Italia ripudia la guerra… Ora, sul piano storico quell’articolo non attesta la natura pacifista della «Repubblica nata dalla resistenza»: ne attesta piuttosto la natura di Paese sconfitto nella Seconda Carneficina Mondiale. Dopo l’occupazione militare angloamericana e la resa incondizionata ottenuta a suon di bombardamenti aerei sulle città italiane, le potenze Alleate ottengono dall’Italia la ratifica di Paese vinto che non cercherà mai più la strada della guerra per accrescere in potenza. Di più: il suo potenziale bellico viene messo a disposizione di istituzioni sovranazionali (NATO e ONU) per consentire «alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»; e difatti l’Italia «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». Su questa base giuridica all’Italia è consentita la guerra in guisa di piccola o media potenza assoggetta ai vincoli imperialistici che le derivano appunto dall’esito della seconda guerra mondiale. Analogo discorso deve naturalmente farsi per la Germania e il Giappone*.

Insomma, sulla base del citatissimo nonché mitico Articolo 11 della Costituzione l’Italia può benissimo impegnarsi in una guerra internazionale, naturalmente secondo le modalità prescritte da chi di fatto ha scritto quell’Articolo: gli Stati Uniti. È d’altra parte un fatto che all’ombra dell’articolo 11 l’Italietta è riuscita nel corso della Guerra Fredda a ritagliarsi un ruolo di piccola/media potenza nella sua tradizionale riserva di caccia: Balcani, Vicino Oriente, Nord’Africa. Nell’ultimo quarto di secolo questo ruolo si è alquanto indebolito, per una serie di motivi che adesso tralascio di citare e analizzare. E qui ritorniamo all’inquietante attualità.

* «Nella sede del partito di Abe, c’è un ufficio apposito, con tanto di targhetta, per la revisione della Costituzione ultrapacifista imposta dagli Usa vittoriosi. Non ci sarebbe niente di male a cambiare dopo oltre 60 anni una Carta fondamentale dettata dallo straniero: qualsiasi altro Paese l’avrebbe già fatto.  Il problema è che le bozze di revisione fatte circolare hanno fatto accapponare la pelle a molti costituzionalisti» (Stefano Carrer, Il Sole 24 Ore, 2012).

GIANFRANCO LA GRASSA E LA QUINTA COLONNA SINISTRORSA

egizGli articoli di Gianfranco La Grassa dedicati alla crisi delle cosiddette «primavere arabe» sono interessanti non tanto, o non solo, per l’analisi geopolitica dello scenario regionale (dal Medio Oriente al Maghreb) e planetario che sorregge la sua riflessione “post-comunista” del mondo, analisi che in parte condivido (salvo che per le sue implicazioni squisitamente politiche); quanto per le critiche alla «sinistra», anche a quella più «radicale», che vi si trovano. Si tratta forse di un regolamento di conti tra ex compagni di strada? Leggendo questi articoli la domanda sorge, come si dice, spontanea.

Ecco, ad esempio, cosa scrive La Grassa a proposito dell’ultimo «colpo di Stato militare» nel Paese delle piramidi, il quale, tra l’altro, avrebbe incontrato la «chiara soddisfazione israeliana»: «È ora che lo si chiami con il suo nome e non con la finzione di un semplice aiutino dato al popolo, finzione tipica anche di ipocriti e infami “fu” antimperialisti, che non lo sono in realtà mai stati; erano degli imbroglioni pagati da “chi sa chi” (ma ora si capisce chi era!) per andare in giro nel mondo a predicare un terzomondismo fallimentare e dunque connivente nei fatti con il paese che imponeva il proprio predominio (gli Usa)» (Prudenza, please!, Conflitti e strategie, 21 agosto 2013).

Il cosiddetto antimperialismo e il terzomondismo d’accatto del “bel tempo che fu” (quando l’Imperialismo Russo marciava sotto la bandiera rossa) come strumenti politico-ideologici al servizio dell’Imperialismo americano? I «fu antimperialisti» e i terzomondisti fallimentari prezzolati da Washington? La mia tesi è che gli uni e gli altri fossero piuttosto al servizio delle potenze concorrenti degli Stati Uniti: Unione Sovietica, Cina, India e «Sud del mondo» in generale. Il limite teorico e politico più grave dell’antiamericanismo e del terzomondismo è stato sempre quello di aver trascurato, o comunque grandemente sottovalutato, la tensione sistemica (economica, politica, geopolitica, ideologica) che si è andata accumulando, a partire dal secondo dopoguerra, nel campo imperialistico dominato dagli americani; questa tensione, molto forte sul terreno della competizione squisitamente capitalistica (ossia della contesa economica, tecnologica, scientifica), è stata appiattita, e di fatto cancellata, in ossequio alla – falsa, astorica, adialettica – teoria del padrone assoluto alle prese con meri «servi sciocchi». La riunificazione tedesca, basata in larga misura sulla potenza capitalistica della Germania, sulla sua superiorità sistemica nei confronti dei “paesi fratelli” europei, ha dimostrato nel modo più clamoroso quanto fallace fosse quella teoria.

La dialettica interimperialistica Nord-Nord, di gran lunga più interessante sul piano analitico e certamente più significativa dal punto di vista della lotta di classe anticapitalistica, è stata sacrificata sull’altare della dottrina stalinista-maoista del «nemico principale», individuato nell’Occidente in generale e negli Stati Uniti in particolare.

imagesCome si fa a non sghignazzare, ad esempio, pensando che in Italia c’è ancora gente che confida in un personaggio come Hamdin Sabbahi, leader del Fronte di salvezza nazionale che appoggia “da sinistra” l’attuale regime militare, il quale ha rilasciato la dichiarazione che segue: «Invitiamo Vladimir Putin a venire al Cairo, lo acclameremo, come ha fatto Nasser con l’Unione sovietica» (Il Manifesto, 21 agosto 2013)? Ci mancava pure il ritorno di Nasser! Si sa, a volte ritornano… Si annuncia un nuovo “socialismo” con caratteristiche egiziane? È proprio vero: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Mi correggo: come macchietta, nel caso degli italici nasseriani.

Ma ritorniamo, per concludere questa breve riflessione, a La Grassa, interessato, a quanto pare, a sostenere un assetto multipolare del mondo: «Stiamo però attenti a quei fottuti che, fingendosi anti-americani, anti-israeliani, anti-imperialisti, in realtà si schierano con una delle strategie Usa, cioè con uno dei “centri strategici” di quel paese, tutti miranti allo stesso scopo anti-multipolare con mezzi e manovre diversi. Per questo va sempre usato il plurale: strategie, non strategia. Negli Usa andranno appoggiati soltanto quei centri che, infine, accettassero la visione multipolare». Ne ricavo l’idea che il Nostro bastona i «fottuti» di cui sopra in ragione di un autentico antiamericanismo, o quantomeno in vista di un radicale ridimensionamento dell’imperialismo americano.

brown-egyptDal mio punto di vista, che non si radica sul terreno della geopolitica ma su quello dell’anticapitalismo conseguente (ossia rivoluzionario), un mondo «multipolare» appare orribile esattamente come un mondo «monopolare». D’altra parte, lo stesso Grassa, aderendo alla dottrina del realismo geopolitico, non ci tiene affatto a vendere l’auspicato mondo «multipolare» nella confezione arcobaleno che tanto piace ai pacifisti: «Non cominciamo però ad illudere nessuno: simile prospettiva non assicurerà certamente una pace perpetua. La pace sarà sempre ballerina, incerta, ondeggiante; per il semplice motivo che sarà assicurata soltanto da un equilibrio delle forze, dal guardarsi sempre “le spalle”, dal prevedere i tradimenti e i tentativi di aggressione per vie traverse (anche usando le solite quinte colonne, infami rinnegati e traditori del tipo di quelli che oggi in Italia stanno a “sinistra”, perfino in quella che si dice radicale, anticapitalista, per la “giustizia” e il “bene dei popoli”)». Non avendo mai avuto nulla a che spartire (anzi!) con i sinistri che tanto irritano La Grassa, non mi sento minimamente toccato dalle sue simpatiche invettive, le quali peraltro non toccano il cuore del problema, ossia la reale natura della “sinistra”, inclusa «quella che si dice radicale». Probabilmente La Grassa non ha saputo fare i conti come si deve con lo stalinismo. È un’ipotesi, si capisce.

Concludo davvero con questa interessante citazione, che mi permette di autocitarmi: «I cosiddetti “popoli” – che poi sono in genere delle élites che si inseriscono in una lotta sociale, facendo leva sui sedicenti oppressi per liberarsi dei vecchi detentori del potere e impadronirsene loro, a loro uso e consumo – saranno sempre al seguito di qualcuno dei gruppi attualmente in “pole position” nei diversi paesi (“che contano”)». Mettete a confronto questa tesi con quella, assai più modesta, da me elaborata in Egitto e dintorni il 7 luglio: «Come ho scritto altrove, solo chi è impigliato nella rete dell’ideologia dominante (borghese) può usare col sorriso sulle labbra, come se si trattasse della cosa più bella del mondo, il concetto di “popolo”, il quale, in Egitto e ovunque, cela una realtà sociale fatta di classi, semi-classi, ceti e di tante stratificazioni sociali comunque irriducibili a quel concetto. In Egitto come in ogni altra parte del mondo il “popolo” è una parolina magica evocata dai “sicofanti” per far scomparire la divisione classista della società e il rapporto sociale di dominio e sfruttamento che informa l’attività “umana” in tutto il pianeta. Soprattutto nel XXI secolo il “popolo” è una truffa tentata ai danni dei dominati». Non mi stupirei se La Grassa condividesse questa mia “ortodossia veteromarxista”.

EGITTO (MA ANCHE SIRIA E LIBANO): PIOVE SANGUE SU QUELLO GIÀ VERSATO

piramidi-egittoLeggo dal blog Invisible Arabs: «Questa rivoluzione non è più tale, oggi. O forse è quel tipo di rivoluzione che prevede il sangue, tanto sangue: la rivoluzione sanguinosa di cui criticava l’assenza un giornalista francese a un fine intellettuale egiziano, due anni fa, in una conversazione tra pochi intimi. Perché, diceva, ogni rivoluzione passa attraverso un lavacro di sangue. Credevo non avesse ragione, e che la sua critica fosse originata dal suo essere francese, cresciuto nel mito di un’altra rivoluzione. E ora mi devo ricredere» (Umm al Dunya, prego per te, 14 agosto 2013). Come ho scritto nei precedenti post dedicati alle cosiddette “primavere arabe”, la “rivoluzione” egiziana (o tunisina) non è mai stata tale, almeno che non si voglia assecondare la moda per cui qualsiasi movimento sociale, soprattutto se sporco di sangue, è ipso facto “rivoluzionario”.

Diciamo subito che non è la quantità di sangue versato, né la quantità delle masse in movimento, che fanno di un evento sociale caratterizzato da lotte di strada una rivoluzione*. D’altra parte, in Egitto la sola rivoluzione che la storia, non chi scrive, ha messo all’ordine del giorno è quella anticapitalista, perché con tutti i limiti e le contraddizioni, peraltro comuni a tutte le società che insistono nella turbolenta area che va dal Medio Oriente al Maghreb,  quella egiziana è da tempo una società capitalista. Lo era, beninteso, anche quando qualche leader egiziano straparlava di «socialismo arabo», civettando con gli stalinisti e i maoisti occidentali.

Detto di passata, il Capitalismo di Stato in salsa araba, spacciato appunto per socialismo con caratteristiche egiziane, se ha promosso un certo sviluppo economico del Paese e una sua relativa indipendenza nazionale in epoca postcoloniale, ha d’altra parte generato una serie di magagne sistemiche, di natura sia economica sia politica, che alla fine ne hanno di molto rallentato l’ulteriore processo di modernizzazione.  Questa dialettica sociale, che naturalmente dev’essere vista da una prospettiva geopolitica di ampio respiro, in qualche modo segna la dinamica sociale di tutte le nazioni che insistono nel quadrante geopolitico di riferimento. In quasi tutti questi paesi l’esercito ha svolto un’importante funzione sociale (la cui natura borghese è fuori discussione) che però, a un certo punto, nel nuovo scenario mondiale creato dall’ultima ondata di globalizzazione capitalistica, ha presentato i conti in termini di arretratezza sistemica. Questa situazione ha messo all’ordine del giorno, ormai almeno da vent’anni, la transizione dal vecchio modello di sviluppo capitalistico a uno nuovo in grado di affrontare con successo le nuove sfide sistemiche. In gioco non c’è solo la stabilità sociale del Paese, ma le sue ambizioni di potenza regionale in un’area particolarmente densa di nazioni che aspirano alla leadership politica, economica, militare e ideologica regionale. Si comprende bene come il fronte interno e quello esterno siano intimamente intrecciati.

EGITTO~1Nel Paese delle piramidi stiamo dunque assistendo al dispiegarsi di fenomeni sociali che in gran parte si spiegano sulla base delle contraddittorie tendenze riconducibili a precisi interessi di classe, da conservare o da promuovere, che fanno capo a una «società civile» che, per quanto relativamente arretrata se valutata con gli standard occidentali, può ben definirsi borghese. Nell’analisi dei processi sociali non bisogna farsi sviare dalla coloritura politico-ideologica, nella fattispecie in gran parte riconducibile alla tensione inter-religiosa o allo scontro tra forze religiose e forze laiche, che gli interessi materiali cui facevo cenno assumono.

Naturalmente le tendenze sociali che spingono nella direzione del cambiamento urtano contro la resistenza degli strati sociali e dei gruppi di potere che hanno interesse al mantenimento dello status quo, o quantomeno a negoziare da posizione di forza la ristrutturazione del sistema, rendendola “più sostenibile” attraverso una serie di compromessi. Non è un caso che la crisi egiziana e la crisi siriana esplodono quando i primi risultati delle «riforme strutturali» varate dai regimi del Cairo e di Damasco intorno al 2004 hanno reso evidente come la transizione sistemica reclamasse le sue vittime, al vertice della piramide sociale come nei suoi gradini più bassi, cosa che peraltro spiega il sostegno di massa di cui godono i gruppi borghesi interessati a frenare le tendenze “modernizzatrici”.

In Egitto questi gruppi si sono finora dimostrati in grado di intercettare e mobilitare il crescente disagio sociale del proletariato urbano, del sottoproletariato e dei contadini poveri, ossia degli strati sociali che più degli altri hanno subito i colpi dall’ondata “riformista” che, sotto l’egida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ha interessato il Paese.

Scrive Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente: «Il compromesso raggiunto da Morsi con i nuovi “giovani ufficiali” guidati da el-Sisi, che portò alla deposizione del Maresciallo Tantawi e al consolidamento del potere di Morsi, nell’agosto 2012, sancì un nuovo equilibrio: Morsi si sottraeva al controllo dei militari, a cui però veniva garantita la conservazione di quella larga area di potere economico, sociale e di privilegio cui erano assuefatti. L’errore di Morsi è stato quello di considerare il compromesso raggiunto come consolidato e definitivo, mentre per l’esercito esso era un punto d’equilibrio da sottoporre a verifica e condizionato» (Apprendisti stregoni e sepolcri imbiancati, L’Huffington Post, 17 agosto 2013).

Il ruolo politico-istituzionale dell’esercito egiziano è radicato in una funzione economica ancora molto forte, che genera consenso negli strati sociali occupati nelle imprese industriali e commerciali gestite più o meno direttamente dall’esercito.  Scriveva Roberta Zunini sul Fatto Quotidiano del 5 luglio scorso: «Una cosa è certa: l’esercito pesa enormemente sull’economia egiziana fin dall’inizio dell’Ottocento quando furono aperte numerose fabbriche militari per la produzione di uniformi e armi. Da allora la spa militare non ha mai dovuto fronteggiare momenti di crisi. Nemmeno durante questo anno e mezzo di collasso finanziario del Paese dovuto alla transizione dall’era Mubarak a quella della Fratellanza musulmana. L’esercito egiziano controllerebbe circa il 30% dell’economia. Le imprese di proprietà dei militari realizzano la maggior parte dei beni di consumo: dai computer ai televisori, dai frigoriferi alle lavastoviglie. Dominano settori essenziali come l’alimentare producendo e vendendo, nei propri supermercati, olio, pane, carne. Sono entrate in partnership con compagnie automobilistiche come la Jeep per realizzare Cherokee e Wrangler. Hanno partecipazioni nelle compagnie energetiche e nell’industria alberghiera. Le società controllate dai quadri dell’esercito fanno lauti affari anche e soprattutto nel campo delle costruzioni dove i soldati hanno diritto di lavorare da quando stanno per andare in pensione. È cosa loro il nuovo complesso dell’Università del Cairo, la costruzione delle principali arterie stradali e la maggior parte degli alberghi sul Mar Rosso […] In questo ultimo anno scosso da un’inflazione alle stelle, nei negozi gestiti dall’esercito i beni di sua proprietà, come l’acqua minerale Safi, la più popolare del Paese, la carne e il pane sono stati venduti a metà prezzo rispetto alle catene private. Il ministero della produzione militare impiega inoltre da solo circa 40mila lavoratori civili».

islamisti-egittoChi oggi deplora il ruolo dell’esercito, magari dopo averlo sostenuto quando si trattò di sbarazzarsi di Morsi, deve fare i conti con questa realtà strutturale che trova un preciso riscontro politico-istituzionale al vertice del potere egiziano e nelle sue sanguinose convulsioni. A mio avviso sbaglia anche chi vede nella gigantesca polveriera araba solo la mano dell’imperialismo occidentale, a cominciare ovviamente dal «Grande Satana» e dal suo «perfido» alleato mediorientale, Israele. Un antiamericanismo e un terzomondismo sempre più sclerotizzati per un verso non consentono di valutare adeguatamente le contraddizioni e gli interessi radicati nei singoli paesi sconvolti dalla guerra civile e nell’area geopolitica in questione (basti pensare al ruolo che l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar stanno giocando nel decorso della crisi in Egitto e in Siria), e per altro verso, spingono le «masse diseredate» del Sud e del Nord a schierarsi con una delle fazioni (lealisti versus ribelli, laici versus religiosi, statalisti versus liberisti, filo-arabi versus filo-occidentali, ecc.) coinvolte nel bagno di sangue.

Scrivevo il 7 luglio a proposito di Samir Amin, sostenitore di «un’alleanza tra l’Egitto e paesi come la Cina, l’India, la Russia, l’Iran, l’India, il Brasile e la Nuova Turchia»: «È anche contro questa logica di collaborazione “tattica” tra masse diseredate e borghesia “progressista e antimperialista”, uno schema ideologico qualificabile come reazionario già negli anni Settanta del secolo scorso e che oggi puzza di rancido lontano un miglio, che bisogna lottare, a Sud come a Nord – si tratta della “triade Stati Uniti/Europa/Giappone” (Samir). Inutile dire che chi scrive non ha nulla a che fare con la “sinistra radicale” evocata da Samir, la quale si orienta ancora sulla base della vecchia bussola maoista centrata sulla pseudo-dialettica “nemico principale/nemico secondario”. A mio modesto avviso le classi dominate del pianeta devono fronteggiare un solo nemico di classe: il dominio capitalistico colto in tutte le sue molteplici “declinazioni” sociali – comprese le forme che cadono sotto l’occhio indagatore del geopolitico. Nel XXI secolo non si dà autentica lotta all’Imperialismo senza un’assoluta e tetragona autonomia di classe. Tutto il resto è contesa interimperialistica».

Conference on youth unemployment in Europe in BerlinA proposito di contesa interimperialistica: «E gli americani, che tanto avevano puntato sui Fratelli musulmani allo scoppio delle “primavere”? A Obama va bene tutto, purché sia scongiurato il fantasma dell’ennesima guerra civile, a massacro siriano ancora in corso, che rischierebbe di risucchiare gli americani nei conflitti mediorientali da cui cercano in ogni modo di districarsi, per dedicarsi alla sola priorità: la Cina» (L. Caracciolo, Il rebus arabo, La Repubblica,  5 luglio 2013). Gli Stati Uniti devono sempre più fare i conti con gli interessi dei loro alleati nella regione, la quale appare assai più fluida e contraddittoria che ai “bei tempi” della guerra fredda, quando il mondo bipolare rendeva possibile strategie di dominio e di controllo abbastanza facili da applicare e prevedibili sul piano analitico. Per quanto riguarda l’Europa, un titolo di un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung del 30 luglio dedicato alla crisi egiziana rende bene la situazione circa la politica estera dell’Unione: Catherine Ashton, mediatrice utile ma non decisiva. Utile ma non decisiva! In realtà non esiste una politica estera dell’Unione, ma tante politiche estere quanti sono i paesi dell’Unione, almeno di quelli più importanti. Anche l’Italietta in quello scottante quadrante geopolitico ha qualche carta da giocare autonomamente, magari per prevenire una nuova sortita anglo-francese. Della serie: fratelli coltelli!

«È vero che l’Ue accorda generosi aiuti finanziari all’Egitto (5 miliardi di euro in crediti e aiuti solo per il 2012-2013), ma tradizionalmente non se ne serve come leva nelle trattative politiche. Il denaro serve da sostegno alla protezione dei diritti umani, della democrazia, dell’istruzione e al progresso del paese» (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Quanto è “umano” l’Imperialismo europeo! Quasi mi commuovo. Quasi. Anziché commuoversi, è forse meglio predisporsi a rispondere alla nuova «guerra umanitaria» che già si prepara a pochi chilometri dalla Sicilia.

imagesDal suo mitico blog Grillo tuona: «Per l’Occidente la democrazia è un concetto relativo, che si applica caso per caso, quando gli conviene. Per i militari egiziani non si applica» (Egitto, massacri e democrazia). Diciamo piuttosto che la democrazia è, in politica interna come in politica estera, un eccezionale strumento di controllo, di dominio e di propaganda politico-ideologica che non esclude affatto l’uso della violenza. Proprio la secolare prassi sociale occidentale ci ammaestra in questo senso. «La polveriera Egitto», continua lo statista di Genova, «rischia di travolgere ogni equilibrio in Medio
Oriente e in tutto il Mediterraneo mentre l’Italia fa da comparsa. Il ruolo che le riesce meglio». Qui insiste il vecchio pregiudizio ideologico, di matrice fascio- stalinista, dell’Italia «serva sciocca» di qualcuno, di solito degli Stati Uniti. Eppure da sempre il Bel Paese ha cercato di ritagliarsi un ruolo geopolitico autonomo, naturalmente nei limiti posti alla sua politica estera dalla sua reale forza sistemica e dall’alleanza imperialistica cui esso è parte, nell’area balcanica e nel quadrante che va dal Medio Oriente alla Libia. Ma, si sa, si può fare di meglio e di più. «Italiani!»

* «Rivoluzionario è il processo sociale che mette in discussione non un regime politico, ossia la mera forma politico-istituzionale di un dominio sociale, bensì questo stesso dominio, i peculiari rapporti sociali che lo rendono possibile. Come dimostra, ad esempio, la transizione italiana dal fascismo alla democrazia dopo la Seconda carneficina mondiale, i regimi passano, il dominio capitalistico continua. Salvo, appunto, l’irruzione sulla scena storica del processo sociale chiamato Rivoluzione, un evento che, marxianamente, presuppone il farsi “classe per sé” delle cosiddette masse, ossia la metamorfosi dell’oggetto (materia prima vivente) del Capitale in soggetto politico-sociale autonomo, in cosciente produttore di nuova storia. Già lo stesso parlare di “masse”, anziché di classe nell’accezione qualitativa appena accennata, contraddice il concetto di rivoluzione sociale anticapitalista. Per questo, per fare altri due noti esempi, la cosiddetta rivoluzione komeinista del ’79 non fu una rivoluzione (sebbene probabilmente ce ne fossero i cosiddetti presupposti materiali), né fu rivoluzionario il crollo del cosiddetto “socialismo reale” dopo il fatidico ‘89» (dal post Egitto e dintorni).

EGITTO E DINTORNI. Un contributo alla definizione del concetto di Rivoluzione.

resizerL’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Il Corano).
Che cos’è la verità? (Ponzio Pilato).

Colpo di Stato o non colpo di Stato? Ma è poi questo il problema?  Analisti politici e luminari della scienza politica si arrovellano e si accapigliano nel tentativo di trovare un adeguato titolo al dramma sociale andato in scena in Egitto nei giorni scorsi, e che ha avuto come epilogo la caduta dell’ex premier Morsi in diretta televisiva mondiale. Un dramma che peraltro è lungi dall’esaurirsi, come testimoniano i sanguinosi scontri di ieri. In linea generale condivido la tesi “realista ” sostenuta da Sergio Romano, il quale ci suggerisce di non applicare ovunque nel mondo gli schemi interpretativi forgiati in Occidente. «Fino a che punto è stato democratico, secondo i nostri standard, il regime inaugurato dai Fratelli Musulmani dopo la caduta di Mubarak? Basta, poi, una tornata elettorale a trasformare un Paese che ha conosciuto decenni di potere autoritario e di tutela militare in una democrazia di stampo occidentale?»

Anche Lucio Caracciolo critica il mainstream democratico occidentale da posizioni “realiste”: «Se nei paesi della “primavera araba” vuoi far votare il popolo, preparati a un probabile governo islamista. Se non vuoi gli islamisti, vai sul sicuro e non far votare il popolo. Se poi il popolo ha votato e rivotato gli islamisti e tu sei abbastanza certo di non poter mai vincere un’elezione, scatena la piazza, accendi la mischia e chiama i militari a scioglierla. Questa regola, sperimentata nel 1991-92 in Algeria, è confermata oggi in Egitto» (La Repubblica, 5 luglio 2013). La sindrome algerina, che evoca un lungo e sanguinoso periodo di marasma sociale caratterizzato da quotidiani attentati terroristici di “matrice islamica”, è uno spettro che inquieta tutti gli analisti occidentali di geopolitica, e per la verità non solo loro.

Tuttavia, qui siamo ancora alla superficie del problema, alla sua interpretazione politologica, che comunque ha una sua notevole pregnanza perché allude ad altro. Per tentare di afferrare almeno un bandolo “strutturale” dell’intricata matassa bisogna andare sotto il pelo dell’acqua, lasciarsi cioè alle spalle la schiuma politico-ideologica che, per così dire, la intorbidisce. Sia chiaro: anche in profondità l’acqua è alquanto fetida. Tuttavia, da lì è possibile capire qualcosa di essenziale, e così evitare a se stessi il non invidiabile destino di chi, ad esempio, inneggia alla “rivoluzione!” a ogni peto del processo sociale.

A scanso di antipatici equivoci chiarisco subito che con “peto” non sto alludendo alle attuali vicende egiziane, le quali in ogni caso non hanno nulla a che vedere con la rivoluzione, almeno per come la intendo io.

islamisti-egittoScrive Marco Hamam:«Se quello di ieri è stato un golpe militare, che cos’è allora una rivoluzione? Abbiamo assistito a manifestazioni pacifiche e ordinate di folle oceaniche stimate dai 13 ai 30 milioni. Se sommiamo i manifestanti nei quattro giorni di fila arriveremo a cifre che sfiorano il centinaio di milioni di persone, un numero molto superiore a quello totale degli aventi diritto al voto […] Se, etimologicamente, e spesso costituzionalmente, nelle democrazie il potere appartiene al popolo, il popolo ha il diritto di esercitarlo, a maggior ragione se pacificamente, anche se al di fuori del consueto percorso istituzionale» (Limes, 5 luglio 2013). Come ho scritto altrove, solo chi è impigliato nella rete dell’ideologia dominante (borghese) può usare col sorriso sulle labbra, come se si trattasse della cosa più bella del mondo, il concetto di «popolo», il quale, in Egitto e ovunque, cela una realtà sociale fatta di classi, semi-classi, ceti e di tante stratificazioni sociali comunque irriducibili a quel concetto. In Egitto come in ogni altra parte del mondo il «popolo» è una parolina magica evocata dai “sicofanti” per far scomparire la divisione classista della società e il rapporto sociale di dominio e sfruttamento che informa l’attività “umana” in tutto il pianeta. Soprattutto nel XXI secolo il «popolo» è una truffa tentata ai danni dei dominati.

La rivoluzione non è innanzitutto un fatto di quantità (la quantità di gente che scende in strada, la quantità di violenza, o di non-violenza, che essa dispiega, e via di seguito), ma di qualità. Rivoluzionario è il processo sociale che mette in discussione non un regime politico, ossia la mera forma politico-istituzionale di un dominio sociale, bensì questo stesso dominio, i peculiari rapporti sociali che lo rendono possibile. Come dimostra, ad esempio, la transizione italiana dal fascismo alla democrazia dopo la Seconda carneficina mondiale, i regimi passano, il dominio capitalistico continua. Salvo, appunto, l’irruzione sulla scena storica del processo sociale chiamato Rivoluzione, un evento che, marxianamente, presuppone il farsi «classe per sé» delle cosiddette masse, ossia la metamorfosi dell’oggetto (materia prima vivente) del Capitale in soggetto politico-sociale autonomo, in cosciente produttore di nuova storia. Per questo, per fare altri due noti esempi, la cosiddetta rivoluzione komeinista del ’79 non fu una rivoluzione (sebbene probabilmente ce ne fossero i presupposti materiali), né fu rivoluzionario il crollo del cosiddetto «socialismo reale» dopo il fatidico ‘89.

In Egitto come ovunque nel mondo la sola rivoluzione sociale autentica, ossia fedele al suo proprio concetto e adeguata alla vigente epoca storica, è quella anticapitalistica. Posso vantare pochissime certezze, anche sul terreno politico, e una di queste certezze l’ho appena esternata.

So bene che il mio criterio di valutazione può sembrare fin troppo severo, tanto più nell’epoca in cui il marketing non si vergogna di attribuire proprietà “rivoluzionarie”, e a volte persino miracolose, anche a una nuova marca di dentifricio – per non parlare delle “rivoluzioni”, più o meno “civili”, di certi manettari. Ma tant’è!

Naturalmente ciò non significa, per me, squalificare tutte le espressioni di antagonismo sociale non rubricabili come “rivoluzionarie”, anche perché la rivoluzione ha molto a che fare, almeno potenzialmente, con tutte le forme di antagonismo e di disagio sociale. Si tratta piuttosto di acquisire la capacità di illuminare l’hegeliana notte buia che rende nere tutte le vacche. Un problema che solo gli ingenui e gli ottimisti ad oltranza, entrambi facili prede del ragno borghese, possono considerare alla stregua di un lusso dottrinario.

Al contrario, solo acquisendo la capacità di cui sopra è possibile valorizzare al meglio in chiave rivoluzionaria la più piccola delle contraddizioni sociali, ogni più piccolo spiraglio che si apre all’iniziativa antagonista dei dominati e degli oppressi, ogni più insignificante peto del processo sociale. La logica parolaia del massimalismo non mi è mai piaciuta. Bisogna portare la dialettica particolare-universale sul terreno della radicalità rivoluzionaria.

Se poi si vuole appiccicare l’etichetta Rivoluzione a ogni forma di cambiamento radicale, naturalmente si è liberi di farlo, e dopotutto lo stesso Marx definì rivoluzionario lo stesso Capitalismo perché esso non può sopravvivere senza mutare continuamente la «struttura» della società borghese, con ciò che ne segue sul piano della corrispondente «sovrastruttura» (dalla politica alle forme ideologiche, dalla cultura alla psicologia delle masse). Il periodico rivoluzionamento della base tecnologica e organizzativa dell’economia fondata sul profitto è peraltro la causa di ultima istanza di molti processi sociali che si offrono allo studio di politologi, sociologi, psicoanalisti, eccetera.

Per il resto, non sono un feticista delle parole, e posso dunque tranquillamente chiamare Pippo il concetto di Rivoluzione sociale che ho nella testa, e così d’altra parte mi regolo a proposito di altri fondamentali concetti che hanno subito il vile trattamento inflazionistico da parte di molti “marxisti”: vedi, ad esempio, alla voce comunismo.

Scrive sempre Hamam: «Il fatto ironico è che nel 2011 le dinamiche furono simili: i militari presero in mano le redini del paese dopo estenuanti, gigantesche manifestazioni che forzarono l’ex presidente Mubarak a rassegnare le dimissioni. Eppure molti di quelli che oggi gridano al colpo di Stato, tra cui la stessa amministrazione americana, chiamarono quel fatto “la più grande rivoluzione degli ultimi tempi” […] Siamo sul terreno, nudo e crudo, della geopolitica: se il tuo leader mi sta antipatico e tu lo cacci (facendomi anche un piacere), è rivoluzione; se il tuo leader mi sta simpatico (e magari l’ho aiutato a vincere) e tu lo mandi via, allora è un golpe». Qui la freccia critica di Hamam coglie il bersaglio. «Ma alla fine – conclude – è veramente una semplice questione di punti di vista?» In un certo senso sì. Per quanto mi riguarda si tratta naturalmente di un punto di vista di classe, non geopolitico, e difatti a me stanno “antipatici” tutti i protagonisti politici della vicenda (con annesse relazioni internazionali), i quali sono a diverso titolo rappresentanti e amministratori di un potere sociale ostile a tutto ciò che odora, anche alla lontana, di umano. Applico lo stesso criterio classista alla vicenda siriana, la cui dinamica per molti aspetti è analoga a quella che stiamo osservando in Egitto.

Ecco adesso, per concludere, un saggio di tardo-terzomondismo, che riporto non per spirito polemico, ma unicamente per chiarire il ragionamento fin qui svolto: «È troppo presto per dirlo, ma è incomprensibile ostinarsi a ignorare che sarà la cristallizzazione rapida della sinistra radicale, ansiosa di andare ben oltre la semplice rivendicazione di elezioni corrette, che permetterà una ripresa delle lotte per un cambiamento degno di questo nome. È compito di questa sinistra radicale elaborare una strategia di democratizzazione della società di portata ben più ampia di quella elettorale, ossia quello di associare la democratizzazione al progresso sociale. Un obiettivo che implica, ovviamente, l’abbandono del modello di sviluppo attuale e la messa in atto di una politica internazionale indipendente e decisamente antimperialista. Non saranno certo i monopoli imperialisti e i loro servi internazionali (Banca mondiale, FMI, OMC e l’Unione europea) che aiuteranno i paesi del sud a uscire dal loro miserabile degrado» (Samir Amin, Le rivoluzioni arabe due anni dopo, Marx XXI, 7 maggio 2013).

È anche contro questa logica di collaborazione “tattica” tra «masse diseredate» e borghesia «progressista e antimperialista», uno schema ideologico qualificabile come reazionario già negli anni Settanta del secolo scorso e che oggi puzza di rancido lontano un miglio, che bisogna lottare, a Sud come a Nord – si tratta della «triade Stati Uniti/Europa/Giappone» (Samir). Inutile dire che chi scrive non ha nulla a che fare con la «sinistra radicale» evocata da Samir, la quale si orienta ancora sulla base della vecchia bussola maoista centrata sulla “dialettica” «nemico principale/nemico secondario». A mio modesto avviso le classi dominate del pianeta devono fronteggiare un solo nemico di classe: il dominio capitalistico colto in tutte le sue molteplici “declinazioni” sociali – comprese le forme che cadono sotto l’occhio indagatore del geopolitico.

Chi parla di «progresso sociale» senza mettere in questione il rapporto sociale capitalistico, ossia il Capitalismo tout court, invita le classi dominate del “Sud” e del “Nord” a scegliere l’albero a cui impiccarsi.

Nel XXI secolo non si dà autentica lotta all’Imperialismo senza un’assoluta e tetragona autonomia di classe. Tutto il resto è contesa interimperialistica.

MA CHE POPOLO D’EGITTO!

11638171_smallPubblico due miei brevi “pezzi” postati su Facebook ieri (Egitto!) e oggi come contributo alla riflessione intorno ai fatti egiziani. Rinvio anche a:
SI FA PRESTO A DIRE “RIVOLUZIONE”!
TEORIA E PRASSI DELLA «RIVOLUZIONE».
A proposito della «Primavera Araba»

MA CHE POPOLO D’EGITTO!

Chi oggi dice ai militari egiziani: «Bravi, avete fatto quel che andava fatto, ma adesso, per favore, restituite il potere al popolo», mostra, nascosta dietro un imbarazzante quanto sottilissimo velo di ingenuità, tutta la sua indigenza politica e analitica. Solo chi non conosce la storia dell’Egitto moderno può guardare con simpatia all’esercito, strumento di sfruttamento economico diretto (vedi il ruolo che esso ha giocato e continua a giocare nell’economia egiziana, come d’altra parte in quasi tutte le economie dei Paesi un tempo «in via di sviluppo», Cina compresa), di violenta repressione del conflitto sociale, di capillare controllo sociale e di promozione delle ambizioni di potenza della nazione nella delicata area geopolitica di sua “competenza”.

L’esercito è parte in causa nella guerra tra fazioni borghesi (nell’accezione storico-sociale, e non banalmente sociologica, della locuzione) che accompagna ormai da molti anni il lento processo di “modernizzazione” della società egiziana.

E solo chi è impigliato nella rete dell’ideologia dominante (borghese) può usare il concetto di «popolo», il quale, in Egitto e altrove, cela una realtà sociale fatta di classi, semi-classi, ceti e di tante stratificazioni sociali comunque irriducibili a quel concetto. In Egitto come in ogni altra parte del mondo il «popolo» è una parolina magica evocata dai “sicofanti” per far scomparire la divisione classista della società e il rapporto sociale di dominio e sfruttamento che informa l’attività “umana” in tutto il pianeta. Soprattutto nel XXI secolo il «popolo» è una truffa tentata ai danni dei dominati.

Personalmente mi auguro una rapida emancipazione dal velenoso spirito patriottico e “populista” delle «masse diseredate», in Egitto e dappertutto.

11638176_smallEGITTO!

Riflettendo alla radio sul «colpo di Stato popolare-militare» che è andato in scena (è proprio il caso di dirlo) in Egitto, ieri sera Carlo Panella ha ripreso, invertendolo, il noto aforisma marxiano: «la prima volta come farsa, la seconda come tragedia». Panella, che si vende ai media come esperto di cose mediorientali, paventa per l’Egitto un bagno di sangue al cui confronto gli incidenti che hanno segnato la prima “rivoluzione” egiziana, quella che pensionò (sempre con l’aiutino del papà-esercito)  Mubarak, appaiono ben poca cosa, un gioco da ragazzi. Scrive oggi Panella: «I sedici morti della notte di martedì nei cortili dell’Università di al Azhar e nel quartiere popolare del sud del Cairo di Giza segnano una “svolta storica” nel mondo arabo. Sono ben più che i nuovi caduti del rivolgimento iniziato nel gennaio del 2011: sono le prime vittime del jihad tra piazza araba e piazza araba. Sono l’immediata, diretta conseguenza dell’irresponsabile appello al “martirio” della sua piazza lanciato lunedì da Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani: “Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione!”» (Il Foglio, 4 luglio 2013).

Vedremo come andranno le cose. Tuttavia è possibile dire fin da ora che la contesa politico-religiosa non costituisce affatto il cuore del problema, il quale pulsa piuttosto, come sempre, nei processi sociali che lavorano, per così dire, il tessuto sistemico di un Paese, colto nel suo necessario rapporto con il resto del mondo. Dimensione sociale e dimensione geopolitica vanno infatti sempre tenute insieme, soprattutto quando si analizza la realtà di un Paese storicamente così significativo e strategicamente assai importante (decisivo nell’area mediorientale e nel mondo arabo) com’è indubbiamente l’Egitto. Ho trovato interessanti, per la comprensione di ciò che sta accadendo in quel Paese, tre articoli pubblicati da Limes, che mi sono permesso di sintetizzare per metterli a disposizione di chi ne fosse interessato.

Egitto, assalto e saccheggio alla sede dei fratelli musulmaniDopo il golpe, l’Egitto può ancora salvarsi
di Alessandro Accorsi – 4 luglio 2013

Mohamed Morsi non è più il presidente egiziano.È stato deposto dai militari con un golpe, anche se molti si rifiutano di chiamarlo così.

I manifestanti si rifiutano perché, effettivamente, il colpo di Stato non sarebbe stato possibile senza le enormi sollevazioni popolari che hanno portato 30 milioni di egiziani in strada. Si rifiutano, anche se quello che è successo non si può chiamare propriamente rivoluzione e non sarebbe stata parimenti possibile senza i carri armati in strada a evitare scene da guerra civile.

Alle forze armate non conviene riprendere il potere anche perché, finalmente, sono tornati ai livelli di prestigio persi dopo l’esperienza di governo dello Scaf. Il potere logora chi ce l’ha in Egitto, quindi meglio una “democrazia controllata” di un governo militare.

Si rifiutano di chiamarlo golpe – pur denunciando l’intervento dei militari – anche gli Stati Uniti, che da un lato si sono resi conto di aver scommesso sul cavallo sbagliato, dall’altro chiedono un ritorno immediato del potere ai civili. Chiamarlo golpe, inoltre, comporterebbe la sospensione da parte del Congresso degli aiuti militari e civili necessari per far ripartire l’economia e, soprattutto, garantire la stabilità del comunque instabile confine con Israele.

Gli Usa sono stati gli ultimissimi alleati dei Fratelli Musulmani, difendendo fino a poche ore prima dello scadere dell’ultimatum dei militari la legittimità del presidente Morsi. Dopo aver appoggiato Mubarak e le dittature militari nella regione e in giro per il mondo, Obama aveva scommesso sull’Islam politico e sulla possibilità di spingere i Fratelli a moderarsi e democratizzarsi. L’ha fatto, però, appoggiandosi ai falchi del movimento.

11638175_smallLa vera storia della rivoluzione egiziana
di Sam Tadros – 4 febbraio 2011

L’esercito egiziano è immensamente popolare, grazie alla mitologia della politica: è in tutti i gangli del regime, ma la popolazione lo vede come ad esso alieno. Lo considera pulito (non come il governo, corrotto), efficiente (costruiscono i ponti in fretta), e soprattutto sono gli eroi che hanno sconfitto Israele nel 1973 (inutile discutere al riguardo con un egiziano). Quando i carri armati e le truppe sono apparsi per strada la gente ha pensato che l’esercito stesse dalla loro parte, qualsiasi cosa ciò significasse. Il presidente continuava a rimandare la propria dichiarazione: il popolo si stava preparando all’annuncio delle dimissioni di Mubarak.

Dal 1952 il regime egiziano si basa su una coalizione fra esercito e burocrati che risponde al modello di Stato autoritario di O’Donnell. L’esercito controlla l’economia e il potere reale: ex-generali sono a capo di aziende statali e ricoprono posizioni amministrative di alto livello. L’esercito stesso ha un enorme braccio economico tramite il quale controlla dalle imprese di costruzioni ai supermercati. Le cose hanno iniziato a cambiare verso la fine degli anni Novanta.

Tutti sanno che Gamal Mubarak, il figlio del presidente, stava studiando per succedergli. In realtà Hosni non è mai stato entusiasta di questo scenario, vuoi perché  aveva intuito le ridotte capacità del figlio, vuoi perché  l’esercito non sembrava troppo convinto della successione. La moglie di Hosni invece era totalmente dalla parte del figlio. Gamal piano piano saliva i gradini dell’Ndp, trascinando su due gruppi della coalizione al potere: i tecnocrati dell’economia con studi in Occidente e fiducia nel Washington Consensus e la crescente business community. Insieme stavano cambiando l’economia egiziana e il partito.

I tecnocrati stavano facendo miracoli: l’economia sotto il governo Nazif mostrava picchi di crescita clamorosi. La moneta era deprezzata, affluivano investimenti dall’estero, aumentavano le esportazioni. Persino la crisi mondiale non si faceva sentire più di tanto. Il problema drammatico era che nessuno si prendeva la briga di spiegare e difendere questa politica economica (che stava portando il paese verso un sistema capitalistico vero e proprio) all’opinione pubblica egiziana.

Tale processo di ristrutturazione dell’economia colpiva la popolazione, abituata a dipendere per tutti i suoi bisogni dal governo e intontita dalla stanca retorica socialista. Non conta molto che il paese stesse crescendo: la gente non se ne rendeva conto. Non che i benefici non arrivassero a tutti, ma ci si era abituati allo Stato che faceva da balia, e non si capiva perché  non dovesse più essere così.

Gli uomini d’affari hanno approfittato dei miglioramenti economici, e iniziato ad avere aspirazioni politiche. Hanno avuto il seggio parlamentare che dava loro l’immunità, ma con Gamal hanno fiutato qualcosa di più grande. Questi voleva rimodellare l’Ndp come un vero partito più che come una massa di organizzazioni che operavano dentro lo Stato. I businessmen come Ahmed Ezz (il magnate dell’acciaio) grazie a Gamal hanno preso il controllo del partito, e con esso del potere.

All’esercito Gamal e i suoi compari non sono mai piaciuti. Lui non ha mai fatto il militare, e i suoi amici stavano mettendo in discussione il potere delle forze armate nell’economia (con le riforme liberali dei tecnocrati) e nella politica (ora che il partito diventava un’organizzazione seria). All’improvviso per fare carriera in Egitto non serviva più la leva ma una tessera di partito.

Egitto, assalto e saccheggio alla sede dei fratelli musulmaniEgitto: una rivoluzione a spese dell’economia
di Giovanni Mafodda – 18 febbraio  13

L’economia egiziana, pesantemente toccata dall’inizio della rivolta, ha iniziato a vedere momenti particolarmente difficili dal 2011, ben prima dell’elezione di Mohammed Morsi a presidente. Le previsioni di crescita per quest’anno non superano il 2%. La disoccupazione giovanile è al 25%, cifra che spaventa in un paese dove solo 3 cittadini su dieci sono sopra i trenta anni. Declino del turismo, blocco degli investimenti, inflazione crescente, forte indebitamento e deficit statale alto, caratterizzano, per il resto, un’economia che appare oltre ogni possibilità di autonomo recupero. Le uniche fonti di valuta estera a non aver subito i contraccolpi della rivolta anti Mubarak di due anni fa derivano dagli introiti dei transiti navali nel Canale di Suez e dalle rimesse degli emigranti.

Lo scorso novembre, l’Egitto aveva raggiunto un accordo preliminare con il Fondo monetario internazionale per un finanziamento di 4,8 miliardi di dollari, a un tasso di poco superiore all’1%, il più basso sul mercato della finanza internazionale, nell’ambito di un programma che prevede un cambio sostanziale del tanto deprecato sistema dei sussidi e una nuova, impopolare, impostazione in tema fiscale. Il presidente Morsi è stato però costretto a un precipitoso dietro front, dopo la fortissima reazione della popolazione alle previste misure di incremento degli introiti fiscali mediante l’imposizione di nuove tasse su acqua, carburante e consumi elettrici, nonché su alcuni beni di largo consumo come sigarette, bevande e liquori. Tutte misure pubblicizzate come altamente progressive, ma in realtà largamente penalizzanti per le classi media e meno agiata. “Come stringere la cinghia attorno a pance che già hanno fame”, è stato osservato.

Le riserve in valuta estera sono scese da 36 miliardi di dollari registrati prima della destituzione di Mubarak – a 15 miliardi e vanno assottigliandosi sempre di più, a un ritmo di circa un miliardo di dollari al mese. Una condizione che la stessa banca centrale egiziana ha definito “minima e a un livello critico”.

Com’è opinione generale nello stesso governo, la priorità numero uno per Morsi è mettere mano alla disastrata condizione fiscale del paese, che presenta un doppio deficit di bilancia dei pagamenti e di budget statale, e prossimo a una crisi di bilancio che sarebbe devastante. Servono circa 23 miliardi di dollari per tamponare il deficit previsto per l’anno fiscale 2012/2013. La stessa cifra fu necessaria anche per finanziare il deficit del bilancio precedente, il primo post-rivoluzionario, appianato poi con i proventi della raccolta di risparmio interno e delle riserve finanziarie in valuta. Non fu semplice neanche allora, ma lo stato finanziario del paese risulta oggi molto più indebolito ed il compito è sicuramente più gravoso.

Con un accordo siglato al Cairo dal presidente Morsi e da Catherine Ashton, capo delle relazioni esterne dell’UE, a novembre Bruxelles ha promesso all’Egitto un pacchetto di aiuti per un totale di 5 miliardi di euro per i prossimi due anni. La Banca europea degli investimenti e la Banca europea di ricostruzione e sviluppo garantiranno 2 miliardi di euro ciascuna, mentre 1 miliardo è previsto arrivare dai paesi appartenenti all’UE.nel maggio del 2011, le trattative per un prestito di 3,2 miliardi di dollari da parte del Fmi furono interrotte anche a causa dell’opposizione salafita all’interno dell’ora disciolto parlamento. Quest’ultima sosteneva che il prestito fosse contro la Sharia in quanto i previsti tassi di interesse erano da considerarsi come usura, posizione tutt’altro che unanimemente accettata all’interno dello stesso partito salafita al-Nour.

Ma il clima da “due passi avanti e uno indietro” che si continua a respirare dalle parti del Cairo circa l’accordo con il Fmi, più che un problema di natura religiosa, riguarda in definitiva il ristrettissimo spazio di manovra che il governo ha davanti a sé per attuare un consistente piano di risanamento dei conti pubblici. Destinato a produrre ulteriori, dolorose ristrettezze per una popolazione ormai abituata a rispondere con le barricate. “A meno che non riesca a tirare fuori dalla manica con rapidità un paio di grassi conigli, è difficile possa trovare il supporto che gli serve”, ha commentato Elijah Zarwan, rappresentante al Cairo del Consiglio europeo per le relazioni estere, la difficile posizione del presidente Morsi.

GIOCHI DI GUERRA ALL’OMBRA DEL PROFETA

«L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso» (Franco Battiato, Up Patriots To Arms).

Com’è noto, nella primavera del 1993 apparve l’articolo di Samuel Huntington, pubblicato su Foreign Affairs, sullo scontro tra le civiltà. Un articolo che, come si dice, fece epoca: «La mia tesi è che la fonte prima di conflitto in questo nuovo mondo non sarà né essenzialmente ideologica né essenzialmente economica.  Le grandi divisioni all’interno dell’umanità e la fonte di conflitto predominante avranno carattere culturale. Gli stati nazione resteranno i protagonisti più potenti degli affari mondiali ma i principali conflitti della politica globale avranno luogo tra nazioni e gruppi di civiltà diverse. Lo scontro di civiltà dominerà la politica mondiale. Le faglie tra civiltà saranno i fronti di battaglia del futuro».

Finita la guerra fredda, sconfitto su tutti i fronti (economico, politico, scientifico, culturale) il Nemico fronteggiato nel corso di quasi mezzo secolo, gli Stati Uniti avevano bisogno di una nuova ideologia, o, per dirla con il Nichi nazionale, di una nuova «narrazione» sulla cui base incardinare la loro visione strategica adatta ai nuovi tempi, e Huntington cercò di rispondere a questa esigenza, peraltro in concorrenza con il teorico della fine della storia Francis Fukuyama. Gli eventi che seguirono parvero dargli ragione. Naturalmente alludo all’11 Settembre.

Scriveva Edward Said nel novembre del 2001, mentre le squadre di soccorso scavavano sotto le macerie ancora fumanti delle Twin  Towers alla – vana – ricerca di superstiti: «Viviamo momenti di tensione ma è meglio pensare in termini di comunità che detengono il potere e comunità che ne sono prive, di secolari politiche di raziocinio e ignoranza, e di principi universali di giustizia e ingiustizia, piuttosto che smarrirsi in astrazioni che possono essere fonte di soddisfazione momentanea ma producono scarsa auto-consapevolezza. La tesi dello “scontro di civiltà” è una trovata tipo “Guerra dei mondi”, più adatta a rafforzare un amor proprio diffidente che la conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo» (Più che di civiltà è scontro di ignoranze, La Repubblica, 1 novembre 2001).

Nella giusta critica della rozza, semplicistica e pericolosa tesi di Huntington l’intellettuale palestinese scomparso nel 2003 commise, a mio avviso, un grave errore di valutazione (di matrice illuministica, per così dire, come peraltro si ricava già dal titolo), che lo portò a «smarrirsi in astrazioni» altrettanto inconcludenti sotto il profilo storico e reazionarie sul piano dell’iniziativa politica. Per non «smarrirsi in astrazioni» sul terreno dei rapporti tra ciò che chiamiamo Occidente e Islam occorre prendere in considerazione concetti “forti” quali imperialismo, scontro interimperialistico, lotta fra fazioni capitalistiche, potenza e impotenza sociale, ecc.. Solo all’interno di questa costellazione concettuale le questioni culturali e “antropologiche”, che ovviamente esistono e che hanno una grande importanza sul piano della prassi e dell’analisi critica di essa, si riempiono di viva sostanza storica e sociale. Solo a partire dall’analisi delle grandi forze sociali che spingono, e spesse volte strattonano, il processo storico mondiale si  può costruire la «conoscenza critica della sorprendente interdipendenza del nostro tempo».

I concetti appena evocati dovrebbero informare anche l’analisi di quanto sta accadendo in tutto il mondo musulmano dopo la diffusione del film «blasfemo» L’innocenza dei musulmani, giudicato dalle frange più radicali del fondamentalismo islamico «un altro capitolo nella guerra crociata contro le terre del Profeta». Lo stesso Mohamed Morsi, il presidente egiziano venuto in visita in Italia, nel cuore della Civiltà Cristiana, ha dichiarato senza peli sulla lingua che «il Profeta è una linea rossa invalicabile». Chi tocca il Profeta muore: questo continua a essere l’imperativo categorico che sovrasta la Comunità devota ad Allah, anche dopo la cosiddetta «primavera araba», ultima infatuazione degli intellettuali progressisti occidentali – «Il processo democratico continua, anche se lentamente e non senza problemi», ha scritto ad esempio Loretta Napoleoni nel suo libro Contagio: già, non senza problemi…

Siamo di fronte a un ennesimo episodio di scontro tra le civiltà? O stiamo assistendo all’esplodere di un vasto movimento antimperialista cementato da un’ideologia religiosa? Ovvero, per dirla con Edward Said, siamo dinanzi a «uno scontro di ignoranze», più che di civiltà? A mio avviso, nulla di tutto questo. Si tratta piuttosto di un ennesimo esempio di come le “moltitudini” prive di coscienza rimangano facilmente vittima delle ideologie più reazionarie e, quindi, degli interessi che fanno capo alle classi dominanti o solo ad alcune delle sue fazioni che oggi aspirano al potere in esclusiva, ovvero a strati sociali e a gruppi politico-ideologici che sognano un’impossibile ritorno indietro delle società musulmane.

A proposito di linea rossa, ieri il premier israeliano ha dichiarato ai media americani che «il programma nucleare iraniano deve rappresentare per il mondo libero una linea rossa invalicabile»: il Presidente degli Stati Uniti deve imparare la lezione cubana impartita da Kennedy ai russi. Il clima in Medioriente si arroventa, e il regime iraniano naturalmente ha gettato benzina sul fuoco della “blasfemia”: «L’Iran condanna con forza gli insulti alle figure sacre dell’Islam», ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri di Teheran, che ha accusato Washington di alimentare «l’odio culturale e gli insulti alle figure sacre dell’Islam, destinati a scatenare una guerra contro l’Islam». Per capire quanto inadeguata sia una lettura in chiave astrattamente culturale delle tensioni che da oltre mezzo secolo travagliano quell’area del mondo, è sufficiente ricordare l’alleanza di fatto che si costituì tra Israele, Iran e Siria ai tempi della lunga guerra tra Iran e Iraq. Come sempre, anche allora ai palestinesi toccò in sorte il triste ruolo di merce di scambio tra potenze regionali assetate di petrolio e di potere. All’ombra del Profeta si bruciano i corpi e le coscienze delle moltitudini.

Come ho scritto in diversi articoli, nel mondo musulmano il Verbo del Profeta può essere usato, indifferentemente, per tutte le cause: per quella del “progresso” (ossia dello sviluppo capitalistico, non importa se di tipo “occidentale” o “autoctono”), come per quella della “conservazione”, e questo in assoluta analogia con quanto è accaduto nel resto del mondo nel corso dei secoli. Non è la religione presa in sé che favorisce o impedisce il processo sociale – colto in tutta la sua dimensione esistenziale: dall’economia alla psicologia degli individui, dai rapporti sociali alle relazioni fra uomo e donna, e via di seguito. Non è a partire dalla religione che possiamo ricostruire la storia passata e presente delle civiltà, mentre piuttosto è la prassi sociale, a cominciare dall’attività che crea e distribuisce la ricchezza sociale, che spiega non tanto la religione quanto le sue cangianti interpretazioni.

Permettetemi una correzione alla precedente tesi: per tutte le cause, tranne che per quella che sostiene l’emancipazione delle classi dominate e di tutta l’umanità: a questa altezza storica e sociale il Verbo del Profeta è inconsistente.

Non a caso prima ho parlato di “moltitudini” prive di coscienza, non semplicemente «ignoranti», ossia non illuminate dalla razionalità scientifica e dal pensiero laico. D’altra parte di questa coscienza di classe: coscienza della propria situazione sociale e delle eccezionali potenzialità storiche che in essa si celano, sono prive anche le classi dominate del resto del pianeta, e infatti anch’esse vanno appresso all’ideologia dominante e ai gruppi di potere che si contendono le fette più cospicue della ricchezza sociale. Atea o religiosa, la demagogia che si nutre del malessere sociale è ovunque in agguato, per sacrificare corpi e coscienze sull’altare del potere. C’è da sperare – e da lottare – che siano le faglie tra le classi sociali i fronti di battaglia del futuro. Ovunque.

ANALOGIE STORICHE

Quando il Regno Unito e la Francia retrocessero nel Campionato di Serie B del Grande Gioco Imperialistico.

L’attivismo anglo-francese di questi giorni ricorda per molti profili una vicenda lontana nel tempo: la Crisi di Suez del 1956. Ricostruire per sommi capi quella vicenda può forse servire ad illuminare qualche lato oscuro dell’odierno affaire libico, o quantomeno per porlo in una prospettiva storica di più ampio respiro.

Nel febbraio del ’54 l’egiziano «Consiglio della Rivoluzione» (nel mondo post coloniale la politica dei nuovi Stati indipendenti assume dappertutto l’accattivante forma della «Rivoluzione») rimuove il generale Neghib dalla carica di Primo Ministro, e lo sostituisce con il colonnello J. A. Nasser, un uomo che, secondo un rapporto della CIA, «Prova un piacere infantile nella congiura». Nasser fu in effetti un autentico militante della causa nazionale sia egiziana che panaraba, cosa che, tra l’altro, lo portò ritenere la fondazione dello Stato Israeliano «il più grande crimine internazionale della storia», un’anomalia storica che bisognava cancellare quanto prima. Non pochi Musulmani continuano a pensarla in questo modo.

Truppe britaniche nella colonia egiziana

D’altra parte, occorre considerare che gli Stati Uniti avevano una gran fretta di sostituirsi al Regno Unito come Potenza egemone anche nell’ex spazio coloniale della Vecchia Albione (come peraltro quella vecchia volpe di Churchill aveva capito fin dal principio), e in questo quadro Nasser godeva, se non ancora dell’appoggio, certamente della simpatia degli americani. La declassata ed economicamente spossata Inghilterra doveva recitare, suo malgrado, la parte della Nazione Civile che accetta di buon grado il responso del processo storico. Ma tutto il fronte occidentale si allarmò quando, per un verso Nasser tentò di annettere il Sudan al Grande Egitto, e per altro verso si rivolse al blocco sovietico per una serie di forniture di armi.

 

Se tuttavia gli interessi degli americani erano, fino a quel momento, intaccati solo per via indiretta e nella prospettiva, la stessa cosa non poteva dirsi per gli interessi dell’Inghilterra e della Francia, Paesi che avevano tutto da perdere, e fin da subito, in un eventuale passaggio di campo dell’Egitto. Il nuovo Ministro degli Esteri britannico Selwyn Lloyd disse chiaro e tondo a Nasser che l’Inghilterra considerava il canale parte integrante del sistema petrolifero mediorientale, vitale per la sua economia. Nasser non si fece certo spaventare da questa franca rivendicazione imperialista, e anzi rilanciò: se le cose stavano nel modo in cui gli inglesi le prospettavano, l’Egitto avrebbe dovuto godere almeno di una parte dei benefici che derivavano dall’estrazione, dalla commercializzazione e dall’uso del petrolio e dei suoi derivati.

Alla fine del 1955, per ammorbidire il duro leader egiziano e per scongiurare una sua defezione a vantaggio dell’Orso Russo, americani e britannici promisero di finanziare, in collaborazione con la Banca Mondiale, la costruzione della diga di Assuan (uno dei bacini artificiali più grandi del mondo), sul Nilo, un’opera di importanza strategica per l’economia egiziana (si prevedeva la produzione di dieci miliardi di kW ora all’anno, e una irrigazione costante su una grande zona agricola sino ad allora non produttiva). Nasser si dichiarò molto lusingato e ben disposto verso la generosa proposta angloamericana, ma lasciò capire che non avrebbe abbandonato l’idea di giocare a tutto campo, in modo da bilanciare l’influenza economica occidentale con la collaborazione politica e militare richiesta al «Blocco Socialista».

A questo punto (estate 1956) gli americani e gli inglesi ritirarono la loro proposta, in un modo così improvviso da cogliere di sorpresa non solo Nasser, ma la stessa Banca Mondiale. Il 26 luglio le truppe egiziane occuparono il Canale di Suez, in vista di una sua prossima nazionalizzazione. Questa decisione genera sullo scacchiere internazionale una lunga catena di fatti che qui è meglio trascurare, se non per citarne i più salienti.

Gran Bretagna e Francia dichiararono al mondo che Nasser «è il nuovo Hitler da abbattere»; puntando sulla – presunta – accondiscendenza degli alleati americani, e sulla distrazione dei russi (impegnati a reprimere la rivolta ungherese), gli anglo-francesi bombardarono per una settimana (Novembre 1956) gli aeroporti egiziani. Gli egiziani affondarono diverse navi nel canale e chiesero ai «Fratelli Musulmani» di far saltare gli oleodotti. Il 5 Novembre paracadutisti e truppe anglo-francesi occuparono Porto Said. Eisenhover denunciò l’azione anglo-francese come «un colpo fatale inferto alle Nazioni Unite», nonché un grave «gesto di slealtà» nei confronti degli Stati Uniti. L’Unione Sovietica ingiunse agli inglesi e ai francesi di fermarsi immediatamente, e propose agli Stati Uniti un intervento militare congiunto. Gli anglo-francesi dovettero abbandonare precipitosamente l’impresa, sancendo in tal modo “ufficialmente” la retrocessione delle due ex Potenze Coloniali europee nel Campionato di Serie B, se non C, del Grande Gioco Imperialistico. Il resto è cronaca di prima pagina.

RIVOLUZIONARI, MA NON PER PROCURA

Dialogo con il mio ipotetico interlocutore – chiunque egli sia.

Chi è il mio – quantomeno potenziale  – interlocutore quando abbozzo una riflessione possibilmente non scontata sui fatti tunisini, algerini, egiziani (e domani, molto probabilmente, siriani, giordani, iraniani, ecc.)? Rivolgo il mio verbo alle vaste e diseredate masse di quei paesi? Ovvero solo alle loro «avanguardie rivoluzionarie» (anche qui ragiono per ipotesi, si capisce)?

Purtroppo anche la mia smisurata mania di grandezza deve fare i conti col principio di realtà. D’altra parte, visti i magri tempi, il semplice fatto di riflettere criticamente sulle cose del mondo mi appare già un esercizio velleitario. E tuttavia!

No, con ogni evidenza e contro il mio scatenato volontarismo, il «popolo arabo» non può sintonizzarsi sulle frequenze del mio pensiero, se non altro per la debolezza dell’emittente…

E allora? È il mio interlocutore la «moltitudine» che affolla le città del nostro Paese? O almeno la sua «avanguardia», più o meno «rivoluzionaria»?

La risposta non cambia, rimane negativa, e me ne dolgo molto. Cioè, vorrei, fortemente vorrei, ma non posso!

I fatti me lo impediscono. La mia stessa formazione critica me lo impedisce: essa, infatti, mi trattiene dall’esaltazione ideologica degli eventi (del tipo: «Viva la rivoluzione egiziana! È così che si fa! Berlusconi come Mubarak!»), e mi obbliga a chiedermi a chi posso realisticamente – ma non per questo meno significativamente – rivolgermi in un dato momento.

Il mio interlocutore oggi è chi si pone il problema di dare una lettura critica, profondamente radicale («la radice è l’uomo») dei fatti che a vario titolo lo coinvolgono. Non per “imporgli” la mia scienza – che peraltro è ben poca cosa –, ma per costruire con lui un punto di vista umano su ogni cosa che accade tra terra e cielo.

Il mio interlocutore è solo un’ipotesi? Forse sì, ma io gli parlo lo stesso, per filosofia – nell’accezione greca del concetto.

Al mio potenziale o ipotetico interlocutore chiedo: che cosa ci dice lo smottamento che sembra poter ridisegnare il volto politico e sociale del Maghreb e del Medio Oriente (nonché creare tanti problemi ma anche tante opportunità all’imperialismo di casa nostra)? Per rispondere correttamente a questa domanda occorre, a mio avviso, dare prima una risposta adeguata a quest’altra: i «popoli» di quei paesi stanno recitando un ruolo che li rende soggetti di storia, o piuttosto oggetti di una trama scritta dal processo sociale? Insomma, quale mano impugna la penna?

Il fatto che la miseria sociale (la fame, l’oppressione politica, ideologica, culturale, ecc.) ciclicamente generi sommosse, rivolte, vere e proprie guerre civili è qualcosa che appare ovvia da tempo immemore, e solo gli ideologi della nonviolenza possono prestare fede alla chimera di un mondo pacificato nel seno delle società che conoscono il dominio sociale e lo sfruttamento. La società classista è violenta anche quando regna la «pace sociale», perché i suoi rapporti sociali violentano sempre di nuovo la possibilità degli individui di vivere come uomini. Che la pressione del movimento sociale possa mandare in frantumi il più duraturo e repressivo dei regimi politici, è, dunque, cosa risaputa, e questo certamente deve rincuorare coloro che, come me, non amano lo status quo, a cominciare da quello del proprio paese; essi però devono pure interrogarsi sul significato politico e sociale di quell’esito, andando oltre il fascino della «forza popolare», oltre la fenomenologia della sommossa. Dal mito, insomma, dobbiamo passare alla critica politica e sociale di ciò che la realtà ci sbatte in faccia.

A mio avviso, ciò che sta accadendo in Tunisia, in Egitto e altrove è importante, dal punto di vista del pensiero critico-radicale, non perché è – o può scatenare – una rivoluzione (per favore, ogni tanto cerchiamo di avere un po’ di cura per il significato delle parole!), bensì perché da quel marasma può prendere corpo almeno un barlume di autorganizzazione degli operai (attraverso la formazione di sindacati indipendenti, gruppi di iniziativa politica autonoma, stampa “alternativa”, ecc.), dei disoccupati, degli studenti, delle donne, e così via. Se poi lo smottamento di quei regimi più o meno imbalsamati (detto per inciso, che Mubarak fosse a scadenza, non solo politica, è cosa risaputa almeno da due anni) dovesse generare scompiglio anche nell’altra parte del Mediterraneo, tanto meglio! Per carattere son casinista…

Nelle attuali circostanze storiche, se questo fermento sociale si realizzasse sarebbe, e mi si scusi l’espressione poco scientifica, tutto grasso che cola. Anzi, sarebbe una vera e propria… rivoluzione! Se questo malauguratamente non dovesse accadere, vorrà dire che le masse arabe avranno giocato ancora una volta il ruolo di potente, ancorchè politicamente passivo, strumento nelle mani di questo o quel gruppo di potere, di questa o quella fazione della classe dominante. Trattasi di una coazione a ripetere di un funesto e insuperabile destino? Tutt’altro! Bisogna comunque imparare a non pretendere dai movimenti sociali che si sviluppano nel mondo ciò che essi non possono dare, e ciò che noi sogniamo di fare. L’altrui «rivoluzione» non rinsangua le nostre pallide guance.

Nel giugno dell’’89 ho tifato con forza per i ragazzi di piazza Tien-Anmen, non perché mi aspettassi da loro la «rivoluzione», o perché non vedessi come una fazione del regime cinese intendesse usarli come massa di manovra nella lotta per il potere; ma perché il loro movimento contro la dittatura del Partito cosiddetto Comunista avrebbe potuto innescare un ben più vasto e profondo movimento sociale, e, difatti, in quella breve stagione iniziarono a formarsi organismi sindacali indipendenti a Pechino e a Shanghai. Allora molti nipotini di Mao della mia città mi guardarono con sospetto, tanto più che gli studenti cinesi avevano scelto come loro modello politico e sociale l’odiata America: «Hanno perfino costruito a Tien-Anmen una miniatura della statua della libertà!» Proprio sotto la gigantografia del Celeste Preside: che scandalo! Quel che si dice rimanere impigliati nell’ideologia. Il bagno di sangue dell’‘89 non è il meno insignificante, tra gli eventi che spiegano l’incredibile ascesa della potenza capitalistica cinese negli ultimi vent’anni.

Tutto questo lo scrivo non per influenzare gli eventi che mi godo dal salotto di casa mia, tra una spaghettata e una chiacchierata con gli amici, ma per comunicare al mio potenziale o ipotetico interlocutore quanto importante sia la costruzione di una soggettività politica in grado di favorire la costituzione delle classi dominate in fattori attivi di storia. «Vasto Programma», per dirla col Francese; proprio per questo mi piace!

Noi occidentali non possiamo sempre fare la «rivoluzione» per procura. Almeno questo capiamolo.

SI FA PRESTO A DIRE RIVOLUZIONE!

Tunisia, Algeria, Egitto: ma davvero stiamo assistendo a delle rivoluzioni in diretta televisiva? Davvero le mitiche masse arabe diseredate, a pochi chilometri dalle nostre coste meridionali, stanno impartendo una dura lezione di Rivoluzione al sonnecchiante e obeso proletariato occidentale? Insomma, ha ragione il bifolco manettaro dell’Italia dei Valori, quando suggerisce ai giovani, ai disoccupati e a chi non ne può più del Nero Cavaliere, di «fare come in Egitto»? Calma e gesso. Già i consigli populisti-giustizialisti dei manettari di casa nostra dovrebbero metterci sulla buona strada, nella ricerca di una risposta non banale a quelle domande. Non farò un’analisi della situazione sociale dei Paesi nordafricani oggi in ebollizione; cercherò piuttosto di afferrare e tirare un solo filo politico della questione, a mio avviso di notevole interesse, anche teorico. Per le analisi sociali e geopolitiche accurate c’è sempre tempo.
Avendo da sempre criticato la concezione feticista – ideologica – delle parole, non starò qui ad impiccarmi su un termine (rivoluzione), peraltro quanto mai abusato e inflazionato dal marketing politico e pubblicitario (scusate la distinzione…). Ma al suo concetto però sì! Ebbene, se con rivoluzione vogliamo intendere un processo sociale alla fine del quale la vecchia classe dominante viene spazzata via dal potere (economico, politico, ideologico, sociale tout court) dalla classe prima dominata, la quale costruisce una nuova società (non solo un nuovo governo), certamente quello che sta accadendo in Africa settentrionale e che rischia di terremotare il Medio Oriente non entra nei “parametri” appena citati. Non solo la posta in gioco in quei Paesi non è il potere sociale, ma i movimenti di protesta che li attraversano di fatto tendono a rafforzare le fazioni della classe dominante che hanno interesse a cambiare regime politico, chi per rallentare il processo di modernizzazione, chi invece per accelerarlo.
Non basta che le moltitudini affamate e oppresse scendano in strada, e che usino anche le forme più violente della lotta politica, per poter – per così dire – scomodare il concetto (non la parola) di rivoluzione. Infatti, non di rado le fazioni della classe dominante si combattono a suon di “rivoluzioni”. In Cina gli imperatori promuovevano Celesti Rivoluzioni per regolare i conti con le dinastie nemiche. «Sparare sul quartier generale!», diceva l’Imperatore Mao ai tempi della cosiddetta «Rivoluzione Culturale Proletaria». La stessa «rivoluzione komeinista» di fine anni Settanta ci dice fino a che punto la rabbia delle classi dominate può venir usata per scopi ultrareazionari.
Il quid che ormai da moltissimo tempo manca ai movimenti sociali, in Occidente come in Oriente, a Nord come a Sud del mondo, è ciò che con antica – ma non per questo meno vera – fraseologia possiamo chiamare «soggettività politica», ossia la coscienza delle classi dominate di poter coltivare interessi diametralmente opposti da quelli «generali del Paese», i quali fanno capo, in modo più o meno diretto e mediato, alle classi dominanti.
È possibile la rivoluzione (nel significato radicale appena delineato) nella società mondiale del XXI secolo? E’ su questa domanda che, a mio avviso, vale la pena di spendere qualche riflessione, magari dopo aver spento la televisione che ci mostra la povera gente dare il sangue per i salvatori della patria di turno.