LA CLASSE IMPOSSIBILE SECONDO FRIEDRICH NIETZSCHE – E SECONDO KARL MARX

La “dignità del lavoro” è uno dei più stolti
vaneggiamenti moderni. È un sogno di schiavi.
E questa necessità sfibrante della vita, che si
chiama lavoro, dovrebbe essere “dignitosa”?
(F. Nietzsche).

La dignità dell’uomo e la dignità del lavoro, sono
i miseri prodotti di una schiavitù che vuole
nascondersi a sé stessa (F. Nietzsche).

L’aforisma 206 di Aurora, il saggio pubblicato da Friedrich Nietzsche nel 1881, ha per titolo La classe impossibile. A quale classe sociale si riferisce l’autore, e perché la considera impossibile? Per avere una prima risposta non dobbiamo fare altro che leggere i suggestivi passi che seguono: «Povero, lieto e indipendente! – queste cose insieme sono possibili; povero, lieto e schiavo! – anche queste sono possibili, – e agli operai, della schiavitù della fabbrica, non saprei dire niente di meglio, posto che essi non avvertano in generale come un’infamia, il venir adoperati in tal modo, ed è quel che accade, come ingranaggi di una macchina e, per così dire, come tappabuchi dell’umana arte dell’invenzione!» (1). La classe impossibile di cui parla Nietzsche è dunque quella operaia, e, per essere ancor più precisi, si tratta della classe operaia del Vecchio Continente: «Gli operai in Europa d’ora innanzi dovrebbero dichiararsi come classe un’impossibilità umana». E come singoli individui? Il tema non è sviluppato dall’autore e certamente non intende approfondirlo chi scrive, ma semplicemente sfiorarlo. Tra poco vedremo che la specificazione geosociale della nietzschiana “questione operaia” ha un preciso significato – e d’altra parte allora solo l’Europa vantava una forte, moderna e politicamente organizzata classe operaia.

Come abbiamo visto, nell’aforisma in oggetto Nietzsche parla degli operai in termini che, almeno in apparenza, ricordano molto da vicino Karl Marx, dai Manoscritti economico-filosofici del 1844 in poi. E qui forse ha un senso anche ricordare che quando il filosofo di Röcken parla, in generale, di “socialismo” e di “sovversivismo” egli si riferisce al “socialismo” e al “sovversivismo” che nulla a che fare hanno con il comunista di Treviri, mentre invece molto a che vedere hanno con il «socialismo piccolo-borghese» di Proudhon, il «socialismo di Stato» di Lassalle (2) e l’anarchismo di Bakunin (3), ossia con tutte quelle posizioni politico-ideologiche che Marx si trovò a combattere sul terreno politico e dottrinario. Non bisogna peraltro sottovalutare il notevole influsso che Richard Wagner (4) ebbe sul giovane Nietzsche, ed è probabilmente dal primo che il secondo trasse molte informazioni intorno al “comunismo”, al “socialismo” e al “materialismo”, nonché dalla lettura (1868) della Storia del materialismo di F. Lange. È molto probabile che Nietzsche «non ha mai letto neppure una riga di Marx e di Engels» (5). Ma ritorniamo all’aforisma 206.

In che senso per il nostro filosofo gli operai europei danno corpo a una «classe impossibile»? Leggiamo: «Puah! Credere che attraverso un salario più elevato possa essere cancellata la sostanza della loro miseria, cioè la loro condizione di impersonale asservimento. Puah! Lasciarsi convincere che attraverso un potenziamento di questa impersonalità si possa, all’interno del congegno meccanico di una nuova società, trasformare in virtù l’infamia della schiavitù! Puah! Avere un prezzo, per il quale non si è più persone, ma si diventa ingranaggi […] nell’attuale follia delle nazioni che vogliono anzitutto produrre il più possibile ed essere il più possibile ricche». Qui l’accostamento di Nietzsche a Marx appare ancora più giustificato – e “imbarazzante”…

Com’è noto, per Marx la “questione operaia” non ha al suo centro il livello (alto, medio, basso) del salario, ma la stessa natura salariale (cioè capitalistica) del lavoro, ed è in questo peculiare senso che quella operaia è una questione sociale generale nell’accezione più radicale del concetto, in quanto essa chiama in causa il rapporto sociale di produzione che rende possibile la società capitalistica. «Il salario reale può rimanere immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire. […] Quantunque l’operaio disponga di una maggiore quantità di merci che non prima, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista. […] Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. […] La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (6). Cosa fondamentale, ad «avere un prezzo» non è semplicemente il lavoro, ossia la peculiare capacità lavorativa che il lavoratore aliena in cambio di un salario, ma l’intera esistenza del lavoratore («La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente», osserva Marx), e questo Nietzsche sembra quantomeno intuirlo: «non si è più persone, ma si diventa ingranaggi». Partendo da diverse e opposte posizioni concettuali e politiche (anche se parlare di politica nel caso del filosofo che ci occupa è alquanto forzato), Marx e Nietzsche riaffermano il carattere maledetto del lavoro, e provano a destrutturare e demistificare il pensiero (sia religioso che laico) che nel corso dei secoli ha cercato di inserire il lavoro (sfruttato) nella dimensione dell’eticità. Il lavoro come l’attività che più delle altre conferisce dignità alla vita delle persone: questa è oggi una credenza condivisa pressoché da tutti, e chi prova a svelarne il contenuto disumano e ultrareazionario, finisce inevitabilmente per passare come il solito personaggio eccentrico che non riesce a far pace con la realtà – con la sola realtà considerata possibile. Essere eccentrici in questa epoca storica che ha come suo centro il dominio capitalistico, è certamente molto rischioso ma anche molto stimolante dal punto di vista intellettuale, emotivo e psicologico.

«Un apologista classico del lavoro fu nell’ultimo decennio del secolo Emile Zola, che proclamò in un discorso: «Io ebbi un’unica fede, un’unica forza: il lavoro. Mi sostenni soltanto con l’enorme lavoro impostomi. […] Lavoro! Tenete presente, signori, che esso costituisce l’unica legge del mondo. La vita non ha alcun altro scopo, alcuna altra ragione di esistenza, e noi tutti nasciamo soltanto per dare il contributo nella nostra parte di lavoro e per poi scomparire» (7). Il lavoro come fine in sé, non come mezzo. Senza considerare l’indifferenza per la natura sociale di questo lavoro, concepito come una vera e propria religione, come una missione – e un’ossessione. Quando si dice un cattivo maestro! Un maestro affetto da “cineseria intellettuale”, avrebbe chiosato Nietzsche. Scrive Karl Löwith: «Soltanto spiriti rari come Nietzsche e Tolstoj hanno riconosciuto il falso pathos e l’implicito nichilismo che caratterizzano questa valutazione del lavoro» (8).

Nietzsche spregiava con tutte le sue forze la “religione del lavoro” che si era affermata negli Stati Uniti: «La loro frenesia di lavoro – il vero vizio del Nuovo Mondo – comincia già per contagio a inselvatichire l’Europa e a diffonder su di essa una straordinaria ottusità. Già ci si vergogna di riposare; quasi si prova rimorso per una meditazione un po’ lunga. Si pensa con l’orologio alla mano, come si mangia a mezzogiorno con gli occhi sul bollettino della borsa, si vive come se si temesse continuamente di “perdere” un affare. “Meglio fare una cosa qualsiasi che nulla”. Anche questo principio è una corda che può servire ad ammazzare cultura e gusto. E come davanti a questa frenesia di lavoro manifestamente periscono tutte le forme, così vanno alla malora anche il sentimento della forma e l’orecchio e l’occhio per afferrare la melodia dei movimenti. […]La caccia del guadagno costringe continuamente l’intelligenza a spremersi fino all’esaurimento, in un perpetuo dissimularsi o ingannare o prevenire gli altri: adesso la vera virtù consiste nel far qualche cosa in minor tempo che un altro. […] Se vi è ancora un piacere alla vita socievole e alle arti, è il piacere che si procurano gli schiavi morti di fatica» (9). Sul fondamento di questa stanchezza esistenziale è sorta una floridissima industria del cosiddetto tempo libero: cultura, arte, intrattenimento, turismo, e quant’altro ristori e titilli il corpo e la mente, e tutto rigorosamente e orgogliosamente di massa: com’è bella la democrazia capitalistica!  La polemica antiamericana Nietzschiana avrà molto e duraturo successo tanto a “destra” quanto a “sinistra”.

«Ebbene; una volta era il contrario: era il lavoro che dava rimorso. Un uomo ben nato nascondeva il suo lavoro se la miseria lo costringeva a lavorare. Lo schiavo lavorava oppresso dalla convinzione di far qualche cosa di spregevole… “Fare” era già per se stesso spregevole. “Non vi è nobiltà e onore che nell’ozio e nella guerra”: suonava la voce del pregiudizio antico!» (10). Forse non sbagliamo di molto se affermiamo che il cuore di Nietzsche si riscaldava al suono di quel «pregiudizio antico».

Per Nietzsche «l’abisso tra uomo e uomo, classe sociale e classe sociale […], ciò che io chiamo pathos della distanza, è proprio di ogni epoca forte» (11). L’epoca borghese è un’epoca debole, secondo il filosofo della distanza, perché essa concede troppo spazio a idee egualitarie e a pratiche sociali di stampo “democratiste” che tendono a eliminare le differenze: «gli estremi stessi si cancellano sino a somigliarsi». Di qui, la sua polemica nei confronti del cristianesimo («Siamo uguali al cospetto di Dio e lo saremo nel Regno dei Cieli») e del socialismo egualitario, entrambi espressioni del «movimento di décadence» – «Indipendentemente dal fatto che io stesso sono un décadent, sono anche il suo contrario» (12). La prospettiva dalla quale Nietzsche osservava la società del suo tempo non gli consentiva di vedere, dietro la giustamente criticata massificazione ideale, morale e psicologica degli individui, «l’abisso sociale» di cui parlava Marx come fondamento oggettivo della riduzione degli individui a una sola dimensione, per dirla con Marcuse (13), quella che li rende abili alla vita nella società capitalistica.

Dalla sua prospettiva, aristocratica (14) sul piano dell’interpretazione storica e filosofica dei fatti, come su quello della loro ricezione etica, Nietzsche non concepiva nemmeno nei termini di una mera ipotesi la possibilità di una società che non fosse fondata sull’asservimento di una classe dedicata al nutrimento dei padroni, degli artisti e degli uomini valorosi preposti alla difesa dell’ordine costituito, e quindi invitava gli operai europei a non prestare orecchio al «piffero dei socialisti acchiappatopi, che vi vogliono eccitare con assurde speranze, che vi ordinano di essere pronti e niente altro che questo, pronti dall’oggi al domani, cosicché non facciate altro che aspettare qualcosa dall’esterno, e per il resto viviate come avete sempre vissuto, […] in attesa che alla fine sorga il giorno della bestia triumphans». Anche qui il Nostro presta, suo malgrado, la penna alla verità: la classe subalterna non deve aspettare nessuno, e deve piuttosto farsi essa stessa speranza e promessa di un futuro a misura d’umanità. Per dirla in termini marxiani, il proletariato deve costituirsi in classe indipendente sul piano politico: «L’emancipazione del proletariato deve essere opera dello stesso proletariato».

Per il filosofo tedesco la generalizzazione della condizione operaia a tutta l’umanità, come auspicavano i livellatori socialisti e le utopie social-cristiane del suo tempo («Tutti poveri e fratelli in Dio»), era una prospettiva che bisognava evitare a ogni costo, e anche in questo aveva, a mio avviso, perfettamente ragione. Ecco perché Nietzsche reagì con ironico sarcasmo al messaggio che l’Imperatore Guglielmo I inviò al Reichstag nel 1881, nel quale questi affermava: «Siamo tutti lavoratori!»: «Come anche il più pigro di noi è adesso vicino al lavoro e all’operaio! La gentilezza regale che si trova nelle parole: “Siamo tutti operai!” sotto Luigi XIV sarebbe stata cinismo e mancanza di decoro» (15).

Com’è noto, per Marx il capitalismo aveva avuto una funzione storicamente rivoluzionaria e progressiva proprio perché aveva creato per la prima volta nella storia le condizioni materiali (ossia le premesse oggettive) per fare uscire l’umanità da una dimensione esistenziale fatta di sfruttamento, di dominio, di violenza, di miseria, di crisi economiche e sociali. Noi purtroppo ci troviamo ancora immersi, anzi: sempre più immersi, in questa pessima dimensione. Lungi dal voler “livellare” la condizione degli esseri umani, per Marx si trattativa piuttosto di elevare l’umanità al suo più alto e autentico concetto, e per questo egli sostenne che il comunismo praticato in una società economicamente e socialmente non sviluppata avrebbe, presto o tardi, riprodotto «la vecchia merda borghese», in una sorta di coazione a ripetere del dominio (16).

Detto en passant, anche in rapporto a Sigmund Freud Nietzsche mostra di saperla assai più lunga circa la genealogia della morale e dei costumi (a cominciare da quelli connessi alla sessualità) attraverso la domesticazione degli istinti – mentre esibisce un eccesso di biologismo e di arcaismo antropologico (probabilmente ripreso da Carl Gustav Jung) a proposito della «Logica del sogno» (17). Mi scuso per la divagazione “psicologica”.

Sto forse cercando di insinuare che Nietzsche e Marx si davano la mano? Tutt’altro! Intendo semplicemente dire che la lancia critica nietzschiana penetra facilmente nella carne dei livellatori socialisti, in quella dei credenti nel cristianesimo delle origini e di tutti i “buonisti“ e i moralisti del XIX secolo (e dei secoli successivi!), ma che si spezza miseramente contro il pensiero critico-rivoluzionario di Marx.

A questo punto del discorso la posizione nietzschiana ci appare alquanto contraddittoria, almeno per come ho cercato di delinearla fin qui: per un verso il filosofo-psicologo non immagina possibile l’emancipazione degli operai (europei) attraverso l’emancipazione dell’intera umanità (insomma, Nietzsche non è Marx, e questo lo abbiamo ampiamente documentato!), e per altro verso egli si augura che questi stessi operai mettano fine alla loro condizione infamante e disumanizzante. Vediamo come il Nostro cerca di sciogliere la contraddizione: «Ognuno [ogni operaio] dovrebbe pensare dentro di sé: “Meglio emigrare, in selvagge e fresche regioni del mondo cercar di divenir padrone e, soprattutto, padrone di me stesso, […] purché finisca questa indecente condizione di schiavitù”» (18). Qui sembra che la soluzione nietzschiana abbia un carattere “individualista”, ma probabilmente non è così, o non è semplicemente così.

Se abbiamo capito bene, Nietzsche invita gli operai europei a un esodo, come quello che vide gli ebrei abbandonare l’Egitto dei faraoni; in realtà egli pensa a un processo di colonizzazione come quello che travagliò la sua tanto amata Grecia Antica; pensa infatti a «entusiaste spedizioni di colonizzatori». Ogni rimando al colonialismo e all’imperialismo ottocentesco qui sarebbe del tutto fuori luogo, di più: sarebbe semplicemente ridicolo. Riprendiamo piuttosto la lettura: «Essi [gli operai] dovrebbero introdurre nell’alveare europeo l’epoca dei grandi sciami migratori, quali finora non si erano mai visti, e, attraverso questa azione di libertà di emigrazione in grande stile, protestare contro la macchina, contro il capitale e contro la scelta che adesso li minaccia, quella cioè di dover diventare o schiavi dello Stato  o schiavi di un partito sovversivo. […] Le virtù dell’Europa con questi operai se ne andranno in giro al di fuori dell’Europa […] Che manchino pure, allora, le “forze del lavoro”! Forse si rifletterà allora sul fatto che ci si abitui a tanti bisogni solo dal momento in cui divenne così facile soddisfarli – e alcuni bisogni si tornerà di nuovo a disimpararli! Forse allora si faranno venir qui dei Cinesi: e questi porterebbero con sé il modo di vivere e di pensare che si conviene a laboriose formiche. Anzi, essi potrebbero nel complesso aiutare ad infondere nel sangue di questa inquieta Europa, che si sta logorando, qualcosa della calma e contemplatività asiatica e – cosa di cui c’è maggiore necessità – qualcosa della asiatica resistenza e stabilità» (19). Non è escluso che quest’ultimo accenno alla “resilienza” asiatica possa suonare bene all’orecchio di qualche ammiratore nostrano del Celeste Imperialismo Cinese. Certo, c’è da prendere in considerazione pure il vecchio pregiudizio occidentale del cinese come bestia da soma che si accontenta di una scodella di riso: quale parte del bicchiere vogliamo vedere?

Svuotare la «madre Europa», ormai diventata una «vecchia donna ammuffita», di operai indigeni, e riempirla di lavoratori cinesi, i quali sarebbero culturalmente e antropologicamente tagliati per una vita da schiavi salariati e da ubbidienti sudditi dello Stato (magari attraverso la mediazione di un «partito sovversivo»): è questa, dunque, la soluzione della “questione operaia” in Europa secondo il Nietzsche del 1881? È questa la sua bizzarra (diciamo pure provocatoria) “utopia”? Così sembrerebbe. Rimane da capire a quale luogo, reale o immaginario, pensava Nietzsche come nuova patria degli operai europei impossibilitati, «come classe», a rimanere nel Vecchio Continente; e poi, per fare cosa, per vivere come, esattamente? In ogni caso, qui ritorna al mio anticapitalistico orecchio il tema dell’autonomia di classe: l’emancipazione degli operai deve essere opera degli stessi operai, non dello Stato o di qualche partito – fosse anche quello «sovversivo». Sempre per dirla in termini marxiani, i lavoratori stessi si costituiscono in partito, in soggetto politico, in potere rivoluzionario. Ovviamente nulla di questa riflessione è da attribuire a Nietzsche, che mi permetto di usare, per così dire, per impostare la mia riflessione.

Scriveva Nietzsche nella sua fase precocemente crepuscolare: «Io non vedo che cosa si voglia fare con l’operaio europeo. Egli sta troppo bene per non pretendere ora un poco alla volta di più, per non pretendere con sempre maggiore esagerazione: alla fine ha il numero dalla sua. È completamente finita la speranza che si costituisca qui una specie d’uomo modesta e facilmente contentabile di sé, una schiavitù nel senso più blando del termine, in breve una classe, qualcosa che abbia immutabilità». Come si vede, il concetto nietzschiano di classe non è solo diverso da quello che aveva in testa Marx, ma opposto: per il filosofo di Röcken classe sta per gregge, per accozzaglia di lavoratori pacificamente asserviti ai padroni e allo Stato, mentre per il comunista di Treviri solo costituendosi in classe i lavoratori perdono la pessima condizione di gregge, di amorfa accozzaglia incapace di una volontà autonoma. La classe marxiana non è riconducibile a un concetto meramente sociologico, tutt’altro.

Riprendiamo la citazione: «Si è reso l’operaio militarmente abile: gli si è dato il diritto di voto, il diritto di associazione: si è fatto di tutto per corrompere quegli istinti sui quali si poteva fondare una cineseria operaia: così che l’operaio già oggi sente e fa sentire la sua esistenza come uno stato di bisogno (in termini morali come un’ingiustzia…). Ma cosa vogliamo? domandiamo ancora una volta. Se si vuole uno scopo, è necessario volere i mezzi: se vogliamo schiavi – e occorrono! –, non bisogna educarli da signori» (20). Gli operai presentano il conto a una classe dominante fin troppo arrendevole con i suoi sottoposti: dopo il metaforico dito, adesso gli operai rivendicano la mano, per poi magari domani pretendere l’intero corpo sociale. E, cosa ancora più esiziale al mantenimento della civiltà, la quale presuppone «una cineseria operaia», si è fatto di tutto perché gli operai elaborassero una loro “coscienza di classe”, un loro pensiero politico: in queste condizioni è la stessa esistenza di una classe di lavoratori, cioè di operai-schiavi, a essere impossibile. La classe operaia era andata così avanti in termini di autocoscienza, di sensibilità sociale e di raffinatezza civile, che ormai era diventata insostenibile la sua esistenza come classe sfruttata sacrificata sull’altare dell’ozio fecondo.

I passi citati sopra dimostrano soprattutto quanto poco Nietzsche avesse compreso l’intima natura del dominio sociale in epoca capitalistica; domino che si fonda sulla “libera” contrattazione tra chi vende capacità lavorative e chi desidera comprarle per usarle produttivamente – cioè con profitto. Egli non comprese che la «cineseria operaia» si dà nella moderna società borghese in termini diversi, rispetto alle epoche precapitalistiche, e cioè soprattutto attraverso la corruzione degli istinti di classe degli operai, per usare il linguaggio nietzschiano. La borghesia ha cercato in tutti i modi di dare ai proletari una Nazione, una Patria, dei valori universali per cui vivere e combattere, dei beni materiali da difendere e moltiplicare, in modo che essi avessero qualcosa da perdere (e non solo le marxiane catene) e da guadagnare in questo capitalistico mondo, e non nell’altro – nel Regno dei Cieli o nel Regno della Libertà, la sola dimensione sociale che rende possibile il respiro dell’«uomo in quanto uomo» (21). Già Marx ed Engels notarono la formazione di un’aristocrazia operaia, di uno strato sociale proletario “imborghesito” che si nutriva di ideali piccoloborghesi e che rendeva oggettivamente possibile la fondazione di quell’ideologia riformista che alla fine riuscirà a conquistare “il cuore e la mente” dei lavoratori.

L’impossibilità marxiana è declinata in tutt’altro modo. La condizione di operaio salariato è umanamente impossibile, e inconcepibile, perché la sua possibilità presuppone e pone sempre di nuovo condizioni sociali disumane. Ma il carattere disumano della condizione operaia si proietta come un’ombra maligna sull’intera società, su tutti i suoi strati sociali, ed è esso stesso l’espressione di una più generale disumanità che ha come fondamento rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Non si dà la possibilità di una vita (individuale e collettiva) umana, nella società disumana e disumanizzante, e l’aforisma nietzschiano qui brevemente commentato viene a dirci proprio questo, anche alle spalle del suo aristocratico autore, il quale peraltro, poco più che trentenne, scriveva i bei passi che seguono: «Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l’umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l’uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi» (22).

 

(1) F. Nietzsche, Aurora, pp. 167-168, Newton, 1988.
(2) «A questo proposito, non avrà il suo peso la circostanza che l’unico importante esponente della socialdemocrazia tedesca in qualche modo conosciuto da Nietzsche fosse Lassalle? Dalle lettere scambiate nel 1867-68 tra Gersdorff e Nietzsche sappiamo che i due giovani amici nutrivano grande simpatia per Lassalle» (M. Montinari, Su Nietzsche, pp. 96-97, Editori Riuniti, 1981. «Il socialismo e i suoi mezzi. – Il socialismo è il fratello minore dell’ormai superato dispotismo, di cui vuol diventare erede; le sue aspirazioni son dunque reazionarie nel senso più profondo. Esso desidera infatti una pienezza di potere statale quale solo il dispotismo ha posseduto, anzi supera tutto il passato nella sua aspirazione all’annientamento formale dell’individuo; il quale egli si presenta come un ingiustificato lusso di natura, che dev’essere corretto e trasformato in un adeguato organo della comunità. […] Quando la sua voce roca irromperà nel grido di battaglia: “Quanto più Stato possibile!”, questo grido in un primo momento sarà più rumoroso che mai; ma presto proromperà, con forza tanto maggiore, il grido opposto: “Quanto meno Stato possibile!”» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, 1878, I, p. 255, Newton, 1988). Come la stragrande maggioranza degli intellettuali del suo tempo (e del nostro!), Nietzsche assimilava senz’altro il socialismo allo statalismo. Per Marx (e per chi scrive) statalismo e liberismo sono le due facce di una stessa escrementizia medaglia chiamata Capitalismo. Chi vede nella critica nietzschiana una profetica accusa ai danni del “socialismo reale” (Cina inclusa), deve sapere che per il sottoscritto quest’ultimo non era (e non è) che un reale capitalismo – più o meno di Stato. Contro lo statalismo di qualsiasi matrice ideologica la critica nietzschiana ha ragione da vendere.
(3) Nella sua autobiografia, «Wagner narra della sua esperienza rivoluzionaria del 1849 a Dresda e soprattutto del suo incontro con Bakunin. Come non supporre che anche qui, attraverso colloqui con Wagner, si siano aperte per Nietzsche altre fonti di conoscenza del socialismo nella Germania del tempo» (M. Montinari, Su Nietzsche, p. 97).
(4) «Richard Wagner […] non fu certo patriota nel senso dello stato-potenza, ma piuttosto socialista, utopista culturale mirante ad una società senza distinzione di classi, liberata dal lusso e dalla maledizione dell’oro, fondata sull’amore; insomma il pubblico ideale sognato per la sua arte. Il suo cuore era per i poveri contro i ricchi. La sua partecipazione ai moti del ’48, che gli costò un tormentoso esilio di dodici anni, fu da lui sin dove possibile sminuita e rinnegata più tardi, quando si vergognava del suo “nefando” ottimismo e si sforza di scambiare la realtà concreta dell’impero bismarckiano con l’attuazione dei suoi sogni. Egli ha percorso il cammino della borghesia tedesca: dalla rivoluzione alla delusione, al pessimismo e all’intimismo rassegnato all’ombra del potere» (T. Mann, Dolore e grandezza di Richard Wagner, discorso tenuto da Thomas Mann il 10 febbraio del 1933 all’Università di Monaco). La «maledizione dell’oro» di cui parla Mann ha molto a che fare con quell’antisemitismo che Nietzsche schifò, insieme al nazionalismo tedesco, per tutta la vita. «Estraneo come sono, nei miei istinti più profondi, a tutto ciò che è tedesco, tanto che solo la vicinanza di un tedesco mi ritarda la digestione, il primo contatto con Wagner [nel 1868] segnò anche il primo momento della mia vita in cui respirai a fondo: lo sentii, lo venerai come un paese stranero, come antitesi, come protesta vivente contro tutte le “virtù tedesche”. […] Cosa non ho mai perdonato a Wagner? Di aver accondisceso ai tedeschi – di essere diventato un tedesco dell’impero… Dovunque la Germania arrivi, guasta la civiltà» (F. Nietzsche, Ecce homo, p. 246, Newton, 1989).
(5) «Con che diritto possiamo affermare di Nietzsche che tutta la sua opera fu una polemica contro il marxismo e il socialismo, quando è evidente che egli non ha mai letto neppure una riga di Marx e di Engels? Noi crediamo tuttavia di poterlo affermare, e ciò perché ogni filosofia, nel suo contenuto e nel suo metodo, è determinata dalle lotte di classe del suo tempo» (G. Lukács, La distruzione della ragione, p. 312, Einaudi, 1959). La critica lukacsiana del pensiero aristocratico di Nietzsche è a mio avviso troppo imbevuta di ideologismo di stampo determinista (vedi Diamat), per poterci dire qualcosa di attendibile, di fecondo, di non stereotipato, riguardo al filosofo tedesco. In ogni caso, il Nietzsche «precursore intellettuale del nazionalsocialismo» (Lukács) è una volgare sciocchezza che può esistere solo in una testa bacata dall’ideologia. Più volte il filosofo tedesco si espresse chiaramente contro il nazionalismo (soprattutto quello tedesco), la teoria della razza e l’antisemitismo del suo tempo. Scrive il già citato Mazzino Montinari: «Lukács critica Franz Mehring per avere questi una volta affermato che il nietzscheanesimo poteva costituire per i giovani di provenienza borghese una tappa nel passaggio verso le idee socialiste. […] Per Lukács invece il contenuto della filosofia di Nietzsche si riduce alla lotta contro la “concezione proletaria del mondo. Dove era questa concezione del mondo, perché Nietzsche potesse conoscerla e combatterla”? Lukács lo ha detto: senza conoscerla, Nietzsche la combatteva. […] Nietzsche non si spinse mai ad una conoscenza scientifica né dell’economia politica borghese, né del movimento operaio europeo. Di Marx, Nietzsche lesse probabilmente a mala pena il nome: per di più la sua fonte era particolarmente cattiva, giacché si chiamava Eugen Dühring! Ma proprio in Dühring Nietzsche vede un esponente del comunismo e dell’anarchismo – i due termini sono per Nietzsche interscambiabili – e sotto la suggestione di Dühring lesse il Manuale di economia politica di Carey, e a questo si riduce praticamente tutto quanto Nietzsche ha fatto per conoscere la questione per eccellenza del suo tempo, la cosiddetta “questione sociale”. Così non può meravigliarci di vedere Nietzsche concentrare la sua polemica antisocialista sulla questione dell’”eguaglianza”, che ai suoi occhi era la rivendicazione principale del movimento socialista, […] e doveva pur esserci un motivo se Marx, nella Critica al programma di Gotha, demoliva la “rigatteria delle frasi antiquate sull’uguaglianza” correnti ancora nelle file del socialismo tedesco e se proprio quel Dühring, la cui concezione astratta dell’eguaglianza veniva criticata da Engels alcuni anni dopo, ebbe tanta fortuna nella socialdemocrazia tedesca. […] Il fatto è che non il socialismo era il bersaglio centrale della polemica antiegualitaria di Nietzsche, bensì il cristianesimo»  (M. Montinari, Nietzsche, pp. 94- 98). E infatti, per molti aspetti la critica nietzschiana del cristianesimo appare fuori tempo massimo, ossia del tutto superata, ma solo se considerata dal punto di vista della teoria critico-rivoluzionaria, dalla prospettiva dell’anticapitalismo radicale – che poi è il solo anticapitalismo possibile.
(6) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 64-68, Newton, 1978. «Il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» (K. Marx, Critica al programma di Gotha, 1875, p. 49, Savelli, 1975).
(7) Cit. tratta da K. Löwith, Da Hegel a Nietzsche, p. 430, Einaudi, 1988.
(8) Ivi.
(9) F. Nietzsche, La Gaia scienza, 1882, 207-208, Rusconi, 2017.
(10) Ivi.
(11) F. Nietzsche, Crepuscoli degli idoli, 1888, p.179, Newton, 1989.
(12) F. Nietzsche, Ecce homo, pp. 227-228.
(13) «La democrazia di massa creata dal capitalismo monopolistico ha foggiato i diritti e le libertà ch’essa concede a sua propria immagine e somiglianza e nel suo proprio interesse; […] le deviazioni sono facilmente “contenute”, e il potere accentrato può permettersi di tollerare (e magari perfino difendere) il dissenso radicale fintanto che questo si uniforma alle regole e ai modi stabiliti. […] La democrazia capitalistica di massa è in grado di autoperpetuarsi in misura forse maggiore di qualsiasi altra forma di governo e di società; e ciò è tanto più vero quanto più essa si fondi non sul terrore e la scarsità, ma sull’efficienza e sulla ricchezza, e sulla maggioranza della popolazione soggetta e governata (H. Marcuse, Saggio sulla libertà, 1969, pp. 79-81, Einaudi, 1969). Altro che epoca debole!
(14) «Una cultura [o civiltà] superiore può nascere solo dove esistono due diverse caste sociali: quella di chi lavora e quella di chi ozia, di chi è capace di vero ozio; o, con un’espressione più forte, la casta del lavoro nella costrizione [o lavoro forzato] e quella del lavoro libero» (F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, p. 239). Qui Nietzsche non fa che ribadire la concezione aristocratica esposta da Aristotele nell’Etica Nicomachea: «I cittadini non devono praticare una vita da operaio o commerciante (vite ignobili e contrarie alla virtù) né dovranno essere contadini quelli che aspirano a diventare cittadini (perché la nascita della virtù e l’esercizio delle funzioni politiche esigono libertà dagli impegni di lavoro quotidiano)» (Aristotele, Etica Nicomachea, Laterza, 1999). Come ai pensatori “aristocratici” d’ogni tempo, anche a Nietzsche la divisione classista della società e la divisione sociale del lavoro che necessariamente ne deriva apparivano del tutto conformi alla natura umana che aspiri a vivere civilmente, ed è da questa prospettiva che, come abbiamo visto, egli critica l’ipocrisia del cristianesimo, della democrazia progressista e del «socialismo piccolo-borghese» (Marx). In lui il Dominio sociale si esprime, per così dire, liberamente, senza alcun infingimento, senza avvertire il bisogno di nascondere dietro discorsi “umanitari” e “progressisti” la dura realtà dei fatti, l’eterna esistenza di padroni e di sfruttati. La sua critica della modernità borghese è talmente esplicita nella sua apologia del Dominio senza tempo, da apparire, più che “inattuale”, ingenua, fin troppo ingenua.
(15) F. Nietzsche, La gaia scienza, 1882, p. 153.
(16) «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. […] Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta”  e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica» (K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 33-34, Editori Riuniti, 1972).
(17) F. Nietzsche, Umano, troppo umano, I, p. 48, Newton, 1988.
(18) F. Nietzsche, Aurora, p. 168.
(19) Ivi, p. 169.
(20) F. Nietzsche, La volontà di potenza, 1888, p. 348, Newton, 1989. La Volontà di potenza non è il titolo di un’opera scritta da Nietzsche, ma un concetto (largamente travisato da epigoni e detrattori) e un progetto letterario, che egli non portò mai a termine, concepito come «tentativo di una nuova interpretazione del mondo». Il libro che porta quel titolo è stato costruito assemblando i cosiddetti Frammenti postumi. Nel 1906 vide la luce la prima edizione della Volontà di potenza, «arbitrariamente costruita da Elisabeth [sorella di Nietzsche] e Peter Gast con una preordinata e tendenziosa utilizzazione dei frammenti postumi» ( A. Venturelli, Cronologia della vita e delle opere, in Aurora, p. 25). Bisogna dunque approcciarsi con la massima cautela e criticità di spirito «all’opera che Nietzsche mai scrisse» (M. Montinari, Su Nietzsche, p. 51).
(21) Com’è noto, per Marx l’umanissimo salto dal Regno della necessità al Regno della libertà si avrà solo quando il lavoro perderà ogni carattere coattivo e normativo, e acquisterà i caratteri di una libera espressione dell’individuo, di un’attività esercitata liberamente alla stregua di altre attività non finalizzate direttamente alla creazione di valori d’uso strettamente indispensabili alla conservazione della nuda vita degli individui. L’umanizzazione del lavoro potrebbe rendere piacevole e gioiosa questa vitale e serissima attività. Non dimentichiamo che per i bambini non c’è niente di più serio del gioco…
(22) F. Nietzsche, Richard Wagner a Bayreuth, 1876, E. S. T., 1992.

IL PASSAGGIO ALL’ATTO SECONDO MANUEL DE PEDROLO

Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole.
(F. Nietzsche).

Esistono delle situazioni – tragiche situazioni –
nelle quali è impossibile agire senza attirare su
di sé una colpa (G. Lukács).

Non c’è legge, vi dico. La città ne vuole una nuova…
Tutti si sono chiusi in casa, persino la polizia.
(M. De Pedrolo).

Quella che segue non è una recensione, ma una “libera” riflessione sollecitata dalla lettura del bel romanzo di Manuel De Pedrolo Atto di violenza (Paginaotto, 2020), finito dallo scrittore catalano nel 1961 e pubblicato solo dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975), dopo anni di ostinata censura da parte del regime (1). Nonostante tutto, l’opera di Pedrolo vince il premio Prudenci Bertrana nel 1968 con un titolo differente ma molto significativo ed evocativo: Estat d’excepció. Ed è un vero e proprio stato di eccezione che si realizza nella città “immaginaria” governata con il pugno di ferro dal Giudice Domina; una lacerazione nel tessuto della normalità che si compie sotto l’egida di una parola d’ordine tanto semplice quanto socialmente “impattante”: «È molto semplice: restate tutti a casa». Qui forse trovano appiglio le parole di Slavoj Žižek tratte da un suo saggio del 2007: «Talvolta, non fare nulla è la cosa più violenta da fare. Meglio non fare nulla che impegnarsi in atti che in definitiva servono a far funzionare meglio il sistema».

L’intellettuale sloveno non alludeva all’astensione dal lavoro, come nel caso presentato da Atto di violenza, ma a quella dal voto: «L’astensione dal voto si pone come un autentico atto politico: ci obbliga a confrontarci con la vacuità delle odierne democrazie» (La violenza invisibile, Rizzoli, 2008). Personalmente sono da sempre un “astensionista strategico” e un critico radicale della democrazia capitalistica, e quindi non faccio fatica a comprendere la «vacuità delle odierne democrazie» di cui parla Žižek e la straordinaria portata politica dell’idea da egli fatta balenare – peraltro sulla scia di un romanzo di Josè Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2004), nel quale si narra appunto di una tornata elettorale che, tra astensionismo e schede nulle, evoca agli occhi dei politici (tanto di “destra” quanto di “sinistra”) lo spettro della delegittimazione del sistema democratico nel suo insieme.

Il romanzo di De Pedrolo e il saggio di Žižek mettono insomma al centro della riflessione la violenza oggettiva del Potere, sia quella visibile, legata immediatamente al potere politico e ai suoi “dispositivi” di controllo e di repressione, sia quella invisibile, della quale «è necessario tenere conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni “irrazionali” di violenza soggettiva» (La violenza invisibile). La realtà è che il corpo sociale trasuda violenza sistemica (politica, fisica, psicologica, “esistenziale”) da tutti i pori, in alto come in basso, al centro come alla sua periferia e, cosa molto difficile da accettare per il pensiero comune, con stringente necessità. È con questa verità davvero sconvolgente che ci confrontiamo tutti i giorni. Il fatto che nella routine quotidiana appariamo tutt’altro che sconvolti, è forse l’elemento più inquietante della nostra attuale tragica condizione umana – e di certo ciò che alimenta il sempre più rigoglioso commercio di psicofarmaci e il mercato delle razionalizzazioni “pur che sia”. Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene». Ma qui si divaga! Forse.

Il luogo (o location, visto il «taglio quasi cinematografico» del racconto) immaginato da Pedrolo per la sua storia ricorda molto da vicino la Spagna (soprattutto ricorda Barcellona) alle prese con il tardo franchismo, un regime desideroso, per così dire, di avviare una stagione di “riforme” sociali e politiche necessarie alla modernizzazione capitalistica del Paese e alla stessa sopravvivenza di una classe dirigente che sente di non aver più alcuna solida base sociale su cui contare né una sponda politica internazionale che le facesse da supporto e da scudo; un regime ormai declinante eppure ancora così violentemente repressivo nei confronti degli oppositori politici e sociali. “Riformismo”, certo, ma dall’alto e con giudizio. La “lunga transizione” alla democrazia in Spagna non fu certo un pranzo di gala, sebbene l’epoca franchista si concludesse in modo abbastanza ridicolo, cioè con il fallito golpe del 23 febbraio 1981. Mi fa ancora ridere il ricordo del tenente colonnello Antonio Tejero Molina che si aggira spaesato alla Camera dei deputati di Madrid mentre agita nervosamente la pistola d’ordinanza in direzione dei deputati che cercano riparo sotto i loro scranni. Il poverino, esponente fantasmatico di una Spagna che non esisteva più, non solo scambiò la Camera dei deputati per il vero centro del Potere, ma soprattutto non capì come l’Esercito spagnolo, del quale credeva di essere un’avanguardia, fosse diventato lo strumento e il supporto di una borghesia desiderosa di partecipare al grande gioco del business globale, e sicuramente di quello europeo – magari sotto le ali protettive della Germania (2).

«Caratterizzato fortemente dai temi della disobbedienza civile, dello sciopero e del conflitto, Acte de violència non solo si scontra con lo zelo censorio del regime ma non si trova in sintonia neppure con l’opposizione rappresentata dal PCE, ormai passato a sostenere la politica di riconciliazione nazionale» (Catalunyasenzarticolo). E dove c’è «riconciliazione nazionale», c’è reazione, controrivoluzione, conservazione sociale, e su questo terreno franchismo e stalinismo (con caratteristiche spagnole) si davano la mano. La stessa cosa vale per l’Italia e per il PCI, beninteso.

Nelle pagine di Atto di violenza viene insomma fuori con forza il violento tramonto di un’epoca. Scrive Paco Camara su Courmayeur noir in festival: «Franco muore il 20 Novembre 1975 (quel giorno ci fu il massimo consumo di champagne di tutta la storia della Spagna), ma non si può dimenticare che soltanto due mesi prima aveva firmato ancora cinque condanne a morte. Cinque antifranchisti morirono fucilati». L’ultimo ordine impartito dal Giudice Domina in fuga dalla città insubordinata descritta da De Pedrolo riguarda la fucilazione di un giornalista: «Un uomo come me non si può permettere debolezze! Né adesso né mai! Non voglio che la storia mi giudichi per un’azione da perdente. Fucilatelo». Non sappiamo se l’ordine è stato eseguito dagli ex collaboratori di un perdente che non vuole arrendersi alla realtà: «Non sto scappando! Ho pianificato tutto, ricomincerò come quindici anni fa, dalle montagne se necessario…». Ci penserà, suo malgrado, Batxera, l’autista incaricato di mettere in salvo l’ex uomo forte in fuga, a mettere fine alla vicenda del Giudice Domina con la sola pistolettata che De Pedrolo concede nel suo racconto a favore dei subordinati. «Ero pronto a portarla alla Casetta Verde, alla frontiera, dove avesse voluto. Non ho mai avuto l’intenzione di ucciderla. […]«Perché non ha scelto di andare via davvero? Perché? Perché questa ambizione distruttiva? La città non vuole sangue, vuole vivere…». Poi la pistola che impugna Batxera si abbassa verso il «maledetto vigliacco» che adesso implora clemenza mentre anche il cielo piange, non si sa per tristezza o per gioia; parte un colpo, poi «una seconda vampa esplode, precisa e totale, nell’oscurità della sua carne lontana, che non sentirà mai più la pioggia».

«È molto semplice: restate tutti a casa»: come suona male, malissimo, questa “parola d’ordine” in tempi di pandemia e di segregazione domiciliare imposta alla gente dal governo! Lo stesso effetto deve aver fatto ad Alberto Prunetti, il quale nella sua Postfazione al racconto di De Pedrolo scrive: «Chiudo questo prologo pensando alle strade vuote dei giorni del Covid. Non è l’idea di Atto di violenza ma sarà impossibile, sfogliandolo, che certi ricordi recenti del nostro confino domestico non vengano a galla. Leggiamo De Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa». Stando in casa oppure altrove (nelle strade, nei posti di lavoro, ovunque esercitiamo le nostre molteplici attività lavorative e ricreative) rifiutiamoci di collaborare con il Potere: «Per vedere l’effetto che fa»! In ogni caso, lo stare in casa del libro in questione si configura come un atto di insubordinazione e di liberazione, anche psicologica, non certo di confinamento obbligato (o lockdown, nella sua espressione “neutrale”, cioè ipocrita) come quello che ci tocca vivere in questi cupi giorni. «A pensarci bene, è ammirevole che, impauriti o no, tutti quanti abbiamo deciso di ribellarci al Giudice. Perché questa è ribellione»: come invidio i ribelli di De Pedrolo!

Come si può immaginare oggi una rivoluzione sociale? Credo che il libro di De Pedrolo abbia a che fare, di fatto, “oggettivamente”, attraverso i mille fili invisibili che legano le esperienze del passato a quelle del presente, con questa domanda di eccezionale portata storica, sociale e politica. Questo libro ha a che fare anche con la risposta a questa domanda così impegnativa? Questo non so dirlo, anche perché la trasformazione sociale che aveva in testa il suo autore è probabilmente molto diversa da quella che ho in testa io; nondimeno subisco il fascino dell’idea che sta al centro di questo romanzo “utopico”: l’azione di insubordinazione collettiva che disorienta il Potere e gli toglie qualsiasi fondamento sociale, qualsiasi legittimazione politica o di altro tipo. Certo, poi si tratta, appunto, di precisare la natura di questo potere, di chiarire come dovremmo “declinarlo” per averne un’adeguata comprensione; e si tratterebbe anche di chiarire in vista di che cosa intendiamo superare lo stato di cose esistente, o Potere che dir si voglia. Ma entrare nel merito di queste importanti “problematiche” ci condurrebbe, forse, troppo fuori tema, e di certo non mancherà occasione di ritornarci sopra – anche perché i miei modesti scritti non sono che una variazione su un unico tema: la vigenza del Dominio e la possibilità di metterlo definitivamente fuori dalla dimensione storica. Ho scritto Dominio, non Domina.

Leggendo il romanzo di Manuel De Pedrolo, mi è tornato subito alla mente quello che scrisse Marx in una sua lettera a L. Kugelmann datata 11 luglio 1868: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa». In fondo, di cosa parla essenzialmente il libro di De Pedrolo se non di una sospensione generale del lavoro orientata a rendere impraticabile la vita normale di una comunità, e per questa via privare il potere politico di ogni sua ragion d’essere, e così costringerlo ad abbandonare la scena? Disertare le fabbriche, disertare gli uffici, disertare le scuole, disertare i negozi e ogni altra attività che possa in qualche modo sostenere, appunto, la normalità del vivere e con essa il Potere che se ne nutre. Astenendosi dal lavoro, il “popolo” apre di fatto, “oggettivamente”, le porte all’evento eccezionale che improvvisamente svuota di contenuti sostanziali il regime, che ad un tratto scopre di essere un colosso dai piedi d’argilla. La tradizione cinese parla di «revoca del mandato popolare». Purtroppo i limiti di questa revoca stavano nel fatto che a un Imperatore “revocato” (spesso con la violenza) dal popolo seguiva un altro Imperatore, e così via lungo i secoli e sempre sotto l’attenta sorveglianza delle Potenze Celesti, perché da quando si dà storia delle civiltà tutto ciò che accade, accade sotto il Cielo – del Dominio. Chi prenderà il posto del Giudice Domina, caduto in disgrazia dopo quindici anni di incontrastato potere? Questo non lo sapremo mai!

Su quegli anni “controversi” conosciamo però il giudizio di Tara, un capitalista di “destra” alle prese con lo sciopero dei suoi operai: «Mai, sentimi bene, mai c’era stata una legislazione tanto progressista! Durante i quindici anni di cui parli abbiamo fatto un balzo in avanti che neppure i più ottimisti si azzardavano a sperare». Tara discute con il suo socio Bran, un capitalista di “sinistra”, il quale ascoltando l’adirato collega ride e scuote il capo: «No, Tara, no! Queste sono tutte chiacchiere. Per progresso sociale intendo non solamente il miglioramento delle condizioni materiali degli operai e di tutti quanti. […] L’uomo non vive di solo pane… Persino noi vogliamo qualcosa di più». Perle di saggezza progressista che però non schioderanno il collega reazionario dalle sue convinzioni, peraltro subito soddisfatte dall’arrivo della polizia nella fabbrica vuota di operai: «Tenente Orsia, delle forze di polizia. Abbiamo l’ordine di fare un rapporto su tutti i vostri operai che non si sono presentati al lavoro». Tara non si fa pregare: «”Sì. Entrate, entrate!”. Mentre l’altro poliziotto accosta la porta alle sue spalle, il tenente spiega: “L’ordine non riguarda soltanto la sua azienda, signor Flixa; sono stati presi provvedimenti per tutte le imprese con più di cinquanta Lavoratori”. Il sorriso di Tara si accentua.“Naturalmente. E, se me lo consente, le dirò che era ora”. Indica le poltrone. “Ma, prego, accomodatevi mentre cerchiamo l’elenco del personale”». Questo significa essere collaborativi!

Nella fabbrica di Tara e Bran si sono presentati «solo tre operai»: «Nel capannone non c’è anima viva. Solo decine e decine di macchine da scrivere, in diverse fasi di montaggio, giacciono allineate sui banchi degli operai, accanto a mucchi di pezzi e di arnesi invecchiati dall’uso». Tutto profitto andato a male. «Quale triste logorio morale del capitale!», avrebbe chiosato ironicamente l’ubriacone di Treviri dinanzi a una siffatta «distruzione di capitale»: «In quanto il processo di produzione si arresta e il processo lavorativo viene limitato o, in certi luoghi, completamente fermato, vi è distruzione di capitale reale. Il macchinario, che non viene usato, non è capitale. Il lavoro, che non viene sfruttato, equivale a una perdita di produzione. Le materie prime, che giacciono inutilizzate, non sono capitale. I valori d’uso (come pure le macchine di nuova costruzione), che restano o inutilizzati o incompiuti, le merci che imputridiscono nei magazzini, tutto ciò è una distruzione di capitale. [..]. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio se ne vanno al diavolo» (Il Capitale, II). Si può dunque rimproverare Tara per il suo zelo collaborativo? «È grazie al Giudice che c’è disciplina e possiamo lavorare senza la paura di disordini», osserva senza tanti fronzoli “progressisti” il nostro «funzionario personificato del capitale» (Marx). Ciò che invano cerca di fargli capire il collega “progressista” , Bran, è che l’ordine sociale, che per un capitalista è di gran lunga il genere di ordine che occorre preservare a tutti i costi, va tutelato in modo “intelligente”, “pragmatico”, adeguato alle contingenze, in altre parole tenendo conto dei cambiamenti che si verificano nella società, nella sua “struttura” come nella sua “sovrastruttura”. «Questo istinto di conservazione ci ha fatto guadagnare quindici anni», osserva Bran, ma adesso è venuto il momento di cambiare pelle, non certo natura. Non si tratta di una libera scelta, ma di un fatto che si impone alla volontà dei due capitalisti, a quello “buono” come a quello “cattivo”, con assoluta necessità, se vogliono continuare a smungere con una certa serenità la vacca del profitto. Questa assoluta necessità è vissuta da chi non vuole mutamenti sociali e politici significativi come un vero e proprio atto di violenza.

Anche lo sciopero della fame condotto fino alle estreme conseguenze, ad esempio dai detenuti per ottenere migliori condizioni di detenzione, estrema forma di lotta che esprime un’incolmabile squilibrio di forza tra lo Stato e chi ne subisce l’oppressione, è spesso condannato dai governanti come un atto di violenza: «Ma così ci ricattate, ci sparate contro il vostro stesso corpo, e venite a parlarci di pacifica disobbedienza civile!» Evidentemente il concetto di violenza si presta a diverse letture; come sempre, è una questione di punti di vista – e di interessi.

A proposito: chi ha dato l’ordine di sospendere in modo generalizzato e a oltranza il lavoro, così da paralizzare qualsiasi attività economica? A quanto pare nessuno. E com’è possibile? Qualcuno avrà pure scritto l’ordine di rimanere tutti a casa! Dove c’è un muro si legge la famosa, o famigerata, scritta. Anche i muri delle toilette non vengono risparmiati: «Mentre si sbottona la patta dei pantaloni legge la frase che qualcuno ha scritto sulle mattonelle bianche: “È molto semplice: restate a casa”, scuote il capo e, mentre orina, fruga nella tasca interna della giacca in cerca della matita che porta sempre con sé. Si riabbottona, con una mano sola. Poi, inclinato sulla tazza, aggiunge un “tutti” alla frase, cercando di imitare la grafia dello sconosciuto». Restate tutti a casa: suona meglio! Va bene, ma chi è stato il primo a pensare, a dire e a scrivere quell’idea diventata tanto popolare (virale!) in così poco tempo?

Insomma, chi c’è dietro la cosa cospirativa? O si tratta forse di un movimento spontaneo? Tara, a differenza di Bran, non lo crede possibile: «Spontaneo? Non farmi ridere! Credi davvero che qualche migliaio, qualche milione di persone possano mettersi d’accordo in questa maniera… Spontanea? Sicuramente c’è qualcuno dietro. Vedrai se non è così! Tutte le cose hanno un motivo e qui, come ovunque, ci sono interessi privati, inconfessabili, che si servono di quei disgraziati per i loro scopi». Per Tara i «disgraziati» che se ne stanno a casa ad annoiarsi e a non guadagnare sono essi stessi vittime di qualcuno che persegue «interessi privati, inconfessabili»: è la logica del potere che parla con la bocca del capitalista smaliziato. E poi, quando mai gente che si accontenta di portare a casa la pagnotta quotidiana, magari mentre esalta la propria squadra di calcio e sputa sulle altre, è stata in grado di simili azioni generalizzate, coordinate e organizzate? Anche Domina naturalmente è dello stesso parere: «I popoli sono incapaci di prendere iniziative se nessuno li dirige. La storia ce lo dimostra chiaramente». Eppure questa volta sembra che la spontaneità delle masse abbia avuto la meglio sul “momento organizzativo” e sulla stessa storia!

La natura astratta – inafferrabile, impalpabile, eppure tremendamente concreta – del dominio sociale capitalistico forse ha qualcosa a che fare con il carattere anonimo dell’insubordinazione raccontata da De Pedrolo. Forse. C’è da riflettere anche sul fatto che ai tempi in cui egli scriveva il suo libro non c’era niente che possa far ricordare i nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai cosiddetti “social”. Forse è proprio per questo che una singola “parola d’ordine” è potuta diventare, nella sua asciutta semplicità, così potente e dirompente? Non sono in grado di dire cose intelligenti su questo punto – perché, sul resto?

Il dottor Morns, dopo aver visitato una giovane donna ferita dalla polizia, «va verso il lavabo, apre il rubinetto. Ma [l’infermiera] interviene: “Attenzione, dottore. Quando i serbatoi si saranno svuotati non avremo neanche l’acqua”». Chissà come sono messi ad alcol, Amuchina e a dispositivi sanitari di vario genere: occhio ai virus! Ma che dico! Purtroppo l’attualità si infila da tutte le parti: mi scuso! La benzina è finita, quasi tutti i negozi sono chiusi perché non hanno più nulla da vendere («La maggior parte delle famiglie si è attrezzata per resistere a questo strano assedio e già da giorni ha fatto scorte, al punto che molti negozi di alimentari e affini sono ormai vuoti»); scarseggia il cibo, le scuole sono chiuse. «I miracoli non li so fare», confessa il cuoco Pots al vecchio cameriere Carbi, entrambi “crumiri” evidentemente; «Non c’è gas, non c’è energia, non abbiamo quasi più legna, manca il carbone. E il cibo? Cosa vuole che cucini se non c’è niente?». «Questo si chiama fare le cose per bene…».

D’altra parte, se tutti si astengono dal lavoro, “materiale” e “immateriale”, chi produce e commercializza i “beni e servizi” di cui una società ha quotidianamente bisogno? Nessuno, è ovvio! Chi c’è lungo le strade della città insubordinata? Nessuno. Chi c’è nelle fabbriche? Nessuno. E negli uffici? Nessuno! «Non si può nemmeno telefonare al paese accanto. Non c’è nessuno!» Si materializza insomma una condizione che potremmo chiamare, appunto, Niente e Nessuno; una contingenza straordinaria in grado di mettere il Potere (peraltro ancora tutto da decifrare quanto a natura) con le spalle al muro. Nessuno decide di non ubbidire più al Potere e con questa sola decisione ne minaccia la continuità. Ricordate la “suggestiva” vicenda di Polifemo e Odisseo? «Amici, Nessuno mi vuol uccidere per via d’inganni e non con la forza». Chi vinse dunque il possente ciclope con la sola forza dell’intelletto? «Nessuno fu». Parola di Omero. «La rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima», disse una volta Amadeo Bordiga, il “vero fondatore” del PC d’Italia (Livorno 1921); e aggiunse: «Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire». Accostare Bordiga a De Pedrolo può suonare ideologicamente “blasfemo” ed “esteticamente” dissonante, ed è esattamente per questo che al mio bizzarro orecchio la cosa suona benissimo! Nessuno deve arrivare: chissà se, alla fine, Nessuno arriverà…

Il treno non si muove, la stazione è praticamente deserta di viaggiatori indaffarati con i riti della partenza: biglietti da pagare, valigie da spostare, richieste di informazione da formulare, qualche panino da addentare frettolosamente. Niente di tutto questo. «Tutti. Macchinista, fuochista, bigliettaio… hanno abbandonato tutti il treno». E non c’è uno straccio di macchina che supplisca alla bisogna, né locande che possano ospitare anche solo per poche ore i pochi e stanchi viaggiatori presenti nella stazione. Uno di questi si lamenta: «Capisco che il personale delle ferrovie sia solidale con tutta la popolazione. Io stesso, e immagino anche voi, stavo tornando a casa prima di aver finito il mio giro per collaborare, per essere uno di più… Ma questi stronzi potevano almeno arrivare in città per non creare problemi a nessuno». Ma il disservizio è implicito nel concetto stesso di sciopero, direbbe a questo punto un sociologo. «Forse vivono qui», azzarda un «omone». Non si sa. Improvvisamente il silenzio è rotto da «violenti colpi, accompagnati da un brusio di voci concitate». Alcune persone cercano di forzare la porta del bar della stazione: «Le otto mani stringono forte la sbarra e il rappresentante comincia a contare: “Uno… due… e tre!”». Quantomeno si può bere e mangiare qualcosa alla faccia dell’ordine costituito. Non si vive di sola disobbedienza civile!

Il professor Jurt Nadia invece non approva l’azione; secondo lui quell’«atto di vandalismo» ai danni del bar non si armonizza con lo spirito della pacifica e civile insubordinazione ai danni del Giudice Domina. «Una delle donne fa: “Se le Ferrovie ci hanno abbandonati in questo posto sperduto è naturale che cerchiamo di difenderci”. L’uomo maturo la appoggia: “Ha ragione. Qui ci deve essere da mangiare e da bere. Perché dovremmo digiunare?”». Già, perché? «Ma possibile che nessuno si renda conto che, comportandoci così, ci mettiamo allo stesso livello della mentalità che stiamo combattendo?». «”Si spieghi meglio!”, esclama un’altra delle donne». A questo punto subentra nella discussione Job, l’amico di Jurt (i due si sono incontrati nella sala d’attesa della stazione casualmente): «Sappiamo tutti che, in molti quartieri, la polizia e i soldati sono intervenuti per sfondare le porte dei negozi che avevano chiuso e fare irruzione nelle case… Anche se la finalità è diversa, i procedimenti sono gli stessi. È questo che voleva dire il mio amico». Ciò che per Job e Jurt conta è salvaguardare il carattere pacifico della «resistenza passiva», ed estendere questo carattere a tutte le azioni che in qualche modo hanno a che fare con quella forma di lotta.

«Dobbiamo evitare a ogni costo che questa resistenza passiva venga stravolta da momenti di impazienza, malumori o difficoltà momentanee. Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta. Sì, avete ragione. È un episodio minimo che coinvolge appena una decina di persone in un posto fuori dal mondo. E che, lo ammetto, non ha nessuna importanza. Ma non ci siamo soltanto noi. Qui, là, ovunque, ci sono gruppetti, alcuni addirittura più piccoli del nostro, che si trovano di fronte a tentazioni molto simili. Ora, se ciascuno di quei gruppi si convince che ciò che fa non conta, perché è un atto isolato, irrilevante nell’insieme delle cose, alla fine potremmo scoprire che la società intera si è allontanata da una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa…». L’”intellettuale” della situazione alla fine riesce a convincere gli affamati e arrabbiati viaggiatori: «”Tutti abbiamo capito. Non siamo così ignoranti”…. Quello con la sciarpa rossa, accigliato come se stesse facendo un grosso sforzo di concentrazione, interviene: “Adesso quello che manca è che in ciascun gruppo ci sia una persona come voi per mettere le cose in carreggiata…”». La funzione sociale dell’intellettuale dissidente trova qui una puntuale conferma, per la grande soddisfazione di Job: «Per fortuna qui quella persona l’abbiamo». Si decide di comune accordo di richiudere la porta del bar appena sfondata: «”Forse io vi posso aiutare. Sono fabbro”. Scoppiano tutti a ridere di cuore».

A proposito di cuore, non c’è dubbio che abbiamo appena toccato, almeno credo, il cuore politico ed etico che pulsa nelle pagine di Atto di violenza. Alludo alla scottante questione circa la relazione che stringe, o dovrebbe farlo, i mezzi ai fini. Anche il problema della responsabilità individuale nel contesto di un’azione collettiva è senza dubbio evocato, eccome.

«Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi», soleva dire giustamente Friedrich Nietzsche. E non c’è dubbio che tra lo scopo che si persegue e i mezzi idonei a praticarlo deve insistere una qualche “relazione dialettica”; si tratta di precisare, magari attraverso una serie di approssimazioni, i termini teorici e politici di questa relazione. Ad esempio, in che senso e fino a che punto i mezzi devono – e possono – essere adeguati allo scopo che si vuole conseguire? Di più, e più radicalmente: è possibile una tale corrispondenza? De Pedrolo immagina un’insubordinazione generale nei termini di «un’azione solidale e passiva a braccia incrociate»; argomenta il professor Jurt: «Adottare i procedimenti propri del nemico ci equipara moralmente al nemico stesso e, di conseguenza, indebolisce le nostre posizioni. Avere ragione, essere i migliori, non è una questione di forza bruta. […] Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta». La non-violenza è «una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa». È un punto di vista che ovviamente rispetto ma che mi sembra passibile di un approfondimento critico. La stessa conclusione della storia narrata da De Pedrolo credo che spinga in quel senso. Commenta  Prunetti nella sua Postfazione: «Il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla. Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza. Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere». Sembra insomma che la ribellione non possa fare a meno di misurarsi con il problema della violenza.

Scriveva György Lukács nel 1919: «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa» (Tattica ed etica) Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, credo che questa considerazione valga anche per quello che possiamo chiamare “diritto rivoluzionario”: il diritto dei dominati alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione e il diritto generato dalla rivoluzione trionfante – si spera… In altri termini, la rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada, si può “gestire” al meglio, quanto di cattivo, anche moralmente ed eticamente parlando, cercherà di insinuarsi nel processo rivoluzionario. Ma su questa importantissima e assai divisiva “problematica” rinvio a due miei scritti: L’Angelo Nero sfida il Dominio e Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano. Concludo questa riflessione, già fin troppo lunga, dicendo che bisogna porre – anche – la relazione mezzi-fini su un terreno non ideologico, perché l’ideologia fa delle convinzioni, perfino di quelle che consideriamo giuste, una prigione che non permette al pensiero critico-radicale di trovare le risposte adeguate ai problemi che esso si trova a dover affrontare nella realtà, e non nel cielo degli astratti principi.

 

(1) Durante la Guerra civile spagnola, Manuel de Pedrolo combatté per la Repubblica tra gli anarcosindacalisti e fu maestro rurale in una zona mineraria. «Marxista eterodosso e deciso sostenitore dell’indipendenza di Catalunya, per Manuel Pedrolo la liberazione di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia. In questa prospettiva Pedrolo si esprime chiaramente in un’intervista televisiva realizzata nel 1983: “Ciò che sembra intollerabile è che partiti che in principio sostengono la libertà, la libertà per tutti, nel senso di liberare i lavoratori dal loro giogo, liberare le donne dal loro giogo (che esiste), liberare le razze e liberare anche i popoli, quando si tratta di liberare una porzione di questo concetto geografico chiamato Spagna che non si accorda con la cultura spagnola perché ne ha un’altra, che ha un’altra lingua e che perciò non ha motivo di adottare quella spagnola, allora questi stessi partiti girano la schiena e dimenticano tutto ciò che significa libertà”. Un vero e proprio invito alla riflessione, rivolto a quella parte della sinistra che ancora si mostra scettica sulla repubblica catalana e sull’indipendenza dei Països Catalans, oggi più che mai all’ordine del giorno» (Catalunyasenzarticolo). Sulla questione catalana ho scritto diversi post, ai quali rimando chi fosse interessato alla mia opinione in materia.
(2) « Dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna è sottoposta dalla comunità internazionale a misure di ritorsione politiche ed economiche a causa del suo regime autoritario. Il suo isolamento viene spezzato dagli Stati Uniti che, nel 1953, stipulano con il paese un accordo bilaterale per l’installazione di basi militari. Nella seconda metà degli anni cinquanta la Spagna viene ammessa nell’organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel 1962 avanza una richiesta di ingresso nella Comunità Economica Europea. Il timore di una contrazione delle esportazioni agricole della Spagna verso i Paesi della Comunità, a seguito della politica agricola protezionista dei sei, ha un peso importante nell’indurre il paese a questo passo. La Comunità, considerando l’adesione ai principi democratici come prerequisito indispensabile per l’ammissione di nuovi membri respinge la richiesta, ma stipula più tardi (1970) con il paese un accordo preferenziale di tipo economico. Dopo la costituzione della Junta democratica (1975), il dialogo con la Comunità viene ripreso. Nel 1986 la Spagna diventa, assieme al Portogallo, membro della Comunità Europea» (PuntoEuropa).

IL VIRUS E LA NUDITÀ DEL DOMINIO

Non c’è niente da fare: se «l’uomo in quanto uomo» non esiste, tutto il male concepibile (e anche quello che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare) è possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

 

Una lettrice ha così commentato su Facebook il mio ultimo post dedicato al Coronavirus e al feticismo associato alla malattia che esso causa: «Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole. È anche con i virus, diventati parte di noi, che ci siamo trasformati nel corso dell’evoluzione». Non c’è dubbio.

Su quest’ultimo aspetto proprio un mese fa ho letto un libro scritto da due scienziati americani teorici del punto di vista evoluzionista nello studio delle malattie e nella profilassi medica: le malattie (cause e sintomi) come adattamento del corpo plasmato dalla selezione naturale, come adattamento evolutivo sempre esposto ai mutamenti ambientali – molto spesso causati dal puro caso. Un testo che consiglia di andarci piano con antibiotici e vaccini, senza ovviamente negarne la validità in termini assoluti: «È sbagliato non prendere l’aspirina solo perché sappiamo che la febbre può essere utile, ed è un errore non trattare sintomi spiacevoli di alcuni casi di nausea da gravidanza, allergia e ansia. […] Un approccio evolutivo suggerisce però che molti trattamenti potrebbero non essere necessari, e che dovremmo chiarire se i benefici siano superiore ai costi» (1). Il problema, continuano gli autori, è che «batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana». A questo punto potremmo esclamare abbastanza sconsolati, o semplicemente armati di “sano realismo”: È l’adattamento evolutivo, bellezza!

Ma l’uomo non solo non subisce passivamente la cieca pressione esercitata dall’ambiente esterno sul suo corpo e sulla sua comunità, ma col tempo ha imparato ad affinare strategie di sopravvivenza sempre più efficaci, finendo per trasformare la stessa natura in una sua gigantesca riserva di cibo, di strumenti e di creatività. La storia naturale è insomma intimamente intrecciata alla storia umana, e non a caso diverse nostre malattie (a cominciare dalla comune influenza) risalgono agli albori della nostra civilizzazione, quando abbiamo iniziato ad addomesticare piante e animali. Questo semplicemente per dire che ormai da migliaia di anni il nostro processo evolutivo si dà necessariamente all’interno di società (con “annessa” natura) storicamente caratterizzate, e non in un ambiente puramente naturale o comunque socialmente neutro: tutt’altro! Tanto è vero che molte malattie (morbillo, tubercolosi, vaiolo, pertosse, malaria) sono state debellate o grandemente ridimensionate nei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, mentre altre si sono diffuse in stretta connessione al nostro cosiddetto “stile di vita”. Si assiste poi proprio nei Paesi di più antica tradizione capitalistica al sempre più allarmante fenomeno della resistenza agli antibiotici, per cui batteri sensibili alla penicillina che negli anni Quaranta del secolo scorso sembravano aver imboccato la strada dell’estinzione (con la produzione industriale dei vaccini e la moderna profilassi), nel corso dei decenni hanno invece sviluppato enzimi in grado di degradare la penicillina: «Oggi, il 95 per cento dei ceppi di stafilococco mostra una certa resistenza alla penicillina» (Perché ci ammaliamo).

Per virus e batteri il nostro corpo è il loro ambiente esterno che li sfida, e non hanno altra “strategia di sopravvivenza” che non sia quella di mutare, di evolvere, di adattarsi a circostanze sempre mutevoli: è la «corsa agli armamenti» tra “creature aliene” e “ospite” cui accennavo prima. Per l’uomo l’adattamento a virus, batteri e quant’altro è sempre e necessariamente socialmente mediato. «Questa asserzione non significa negare che batteri e virus facciano ammalare il corpo biologico e siano conseguentemente causa di infezioni, ma che quando bisogna pensare al lamento, al disagio e al dolore nella clinica medica e nella psicoanalitica, è necessario considerare e valutare gli effetti del linguaggio e del discorso» (2), ossia, detto nei “miei” termini, della prassi sociale umana e delle «relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale» (3).

Mi si consenta a questo punto una brevissima digressione sotto forma di una metafora abbastanza rozza e banale. Una pistola spara un proiettile che colpisce a morte una persona: a chi o a cosa attribuire la responsabilità del triste evento? Al proiettile? alla pistola? alla mano che la impugna? Ovviamente al soggetto che ha sparato, che ha messo in moto la catena degli eventi. Qui i motivi dell’insano gesto non ci riguardano. Ecco, il Covid-19 ci è stato sparato contro da una società che distrugge foreste e ciò che rimane delle nicchie ecologiche, che fa un uso sempre più intensivo degli allevamenti, che investe nel settore sanitario secondo parametri di economicità e non di pura umanità (4), che di fatto mette al centro delle sue molteplici attività la ricerca del profitto e non la sicurezza delle persone, che fa dei lavoratori, dei disoccupati e in generale dei senza riserve, i soggetti di gran lunga più vulnerabili alle malattie e alle sciagure, e potrei continuare su questa strada lastricata di miseria sociale – “materiale” e “spirituale”.

La mia tesi è che il calcolo economico (legge del profitto e legge delle compatibilità tra “entrate” e “uscite”) che domina nella società capitalistica realizza una prassi sociale che nella sostanza è del tutto irrazionale, nonostante la scienza e la tecnica vi abbiano un ruolo a dir poco fondamentale. Oggi davvero l’umanità potrebbe avere nelle sue mani il proprio destino, eliminando le cause oggettive (che cioè prescindano da qualsivoglia intenzione e volontà umane) che generano sempre di nuovo irrazionalità (“disfunzionalità”) d’ogni genere, con ciò che ne segue in termini di crisi economiche, di disagio sociale, di precarietà esistenziale, di sofferenze fisiche e psicologiche, di crisi ecologiche, eccetera, eccetera, eccetera. Ciò che stiamo vivendo nell’ormai famigerata Epoca del Coronavirus (da d.C. a d.C.) la dice lunga sul carattere irrazionale (disumano e disumanizzante) della nostra società. Da anni si parlava della possibilità di una pandemia del tipo che stiamo sperimentando, ma il “sistema” ha ritenuto più opportuno non allocare risorse finanziarie nella prevenzione, sperando che quella possibilità non si trasformasse in una realtà, almeno a breve scadenza, e intanto continuare nella solita vita fatta di lavoro, di vendite, di acquisti, di viaggi, di affari, di investimenti, di speculazioni, eccetera. Lo spettacolo del Capitale deve continuare!

Mutuando Spinoza enuncio quanto segue: Dicesi schiavitù l’incapacità umana di dominare le cause e gli effetti della prassi sociale. Questa schiavitù non ha dunque a che fare direttamente con la sfera politico-istituzionale di un Paese, ma essa chiama in causa direttamente il suo fondamento sociale, la sua “struttura” economico-sociale. Di qui il concetto di totalitarismo sociale che secondo me è la chiave che apre alla comprensione dell’attuale crisi sociale.

La responsabilità “ultima” della pandemia ancora in corso è dunque della società capitalistica, la quale ha oggi una dimensione mondiale – e, com’è noto, scienziati particolarmente “visionari” e capitalisti dal “pensiero lungo” (almeno quanto il loro conto in banca) operano per allargarne i confini oltre l’angusto orizzonte del nostro pianeta: si vuol portare il virus capitalistico su altri mondi! Ma è possibile, e non solo auspicabile, un altro mondo? Personalmente non ho alcun dubbio su questa eccezionale possibilità, e il fatto che essa oggi sia negata dalla realtà nel modo più radicale e doloroso, e che certamente io non la vedrò mai realizzarsi, ebbene questo non cambia di un solo atomo il fondamento oggettivo (storico e sociale) di questa splendida alternativa al cattivissimo presente.

Io non chiedo di immaginare la società perfetta, la società che non conosce la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto, ecc.; si tratta piuttosto di concepire la possibilità di una comunità che sappia affrontare in termini umani (umanizzati) la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto e così via. Concepire l’inconcepibile, mettere radicalmente in discussione l’idea che per un qualche motivo l’umanità non possa affrancarsi dalla divisione classista della società e costruire una Comunità nel cui seno fratelli e sorelle collaborano alla felicità di tutti e di ciascuno. In fondo lo dice anche il Papa: Fratelli tutti! Il pensiero deve reagire al torpore della routine che lo intrappola nel cerchio stregato dell’ideologia dominante, e giungere a questa straordinaria conclusione: Si può davvero fare! Dobbiamo offrire al pensiero la possibilità di vedere finalmente nudo il Dominio, un po’ come il bambino della celebre favola di Anderson; e così capire che nella sua vigenza non c’è nulla di naturale o di sovrannaturale, di inevitabile o di assolutamente necessario, ma solo una questione di coscienza (o incoscienza: la nostra) e di rapporti di forza. Io cerco di dare il mio modestissimo contributo a questa vera e propria rivoluzione del pensiero, sperando ovviamente che essa non rimanga solo nel pensiero.

DAMMI TEMPO…
«Non riteniamo di introdurre una norma vincolante ma vogliamo dare il messaggio che se si ricevono persone non conviventi anche in casa bisogna usare la mascherina» (Premier G. Conte).
«Quando c’è una norma, questa va rispettata e gli italiani hanno dimostrato di non aver bisogno di un carabiniere o di un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo i controlli, ci saranno le segnalazioni» (Ministro R. Speranza).

L’esperienza della Pandemia sta portando altra velenosissima acqua alla tesi secondo cui oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. La rivoluzione sociale appare anche ai miei anticapitalistici occhi abissalmente lontana; ma penso anche che se per un qualche motivo essa diventasse improvvisamente possibile nella testa di molte persone, altrettanto repentinamente quello straordinario evento diventerebbe talmente vicino nella realtà, da poterne quasi avvertire l’odore, per così dire. Come ho scritto altrove, non ho la pretesa di pensare che con me debba finire la storia, e che altri dopo di me non possano conoscere la rivoluzione sociale e la Comunità umana; bisogna essere davvero arroganti, presuntuosi e soprattutto deboli di immaginazione, per cristallizzare in eterno (fortunatamente solo nel pensiero!) il pessimo presente. Intanto, così come respiro, mangio, dormo, eccetera, rinnovo sempre di nuovo la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana: più che di scelta, dovrei piuttosto parlare di fisiologia!

Fin dall’inizio della crisi sociale chiamata Pandemia ho cercato di mettere in luce il carattere oggettivo del processo sociale in corso su scala mondiale, il quale ha peraltro approfondito e accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Come sempre, la realtà non crea mai nulla a partire dal nulla, ma impasta, per così dire, materiale sociale già esistente aggiungendone dell’altro solo in parte o interamente nuovo; il problema è piuttosto quello di capire fino a che punto abbiamo il controllo della situazione e la natura (la “qualità”) della realtà che contribuiamo a creare giorno dopo giorno.

Il carattere autoritario, per non dire altro, delle misure politiche prese in questi asfissianti e alienanti mesi pandemici dal governo italiano a mio avviso si connette in primo luogo a processi che per l’essenziale sfuggono anche al controllo degli stessi decisori politici, i quali sono stati chiamati a un rapido adattamento alla situazione che si è venuta a creare di volta in volta su scala nazionale e globale. Sappiamo poi come i politici nostrani eccellano nell’arte dell’adattamento, e come essi sanno approfittare delle situazioni emergenziali per intascare lauti dividenti elettorali e cementare il loro consenso e il loro potere – due facce della stessa medaglia democratica. Tuttavia, il “complotto” ai nostri danni non è da ricercarsi nella volontà di Tizio piuttosto che di Caio, senza parlare dei soliti “poteri forti” (meglio se infiltrati da qualche “lobby ebraica”): è questa società che complotta tutti i giorni contro gli individui, contro le classi subalterne, contro la possibilità di relazioni autenticamente umane. Per questo non si tratta, per chi scrive, di cambiare governi e governanti, ma di mettere la parola fine a questa società e iniziare la storia della Comunità umana, la storia dell’«uomo in quanto uomo». Vasto Programma, non c’è dubbio, e per questo qui conviene mettere un bel punto.Ogni Paese ha cercato di gestire la “crisi sanitaria” ricercando un difficile bilanciamento tra protezione della salute del corpo sociale, per assicurare la continuità del sistema ed evitare una più grave catastrofe sociale (con relative tensioni generatrici di conflitti potenzialmente disastrosi per il vigente ordine sociale), e protezione della struttura economica, per evitare un collasso economico dagli esiti imprevedibili ma certamente destabilizzanti. Il tutto naturalmente sulla base delle strutture sociali e delle configurazioni politico-istituzionali dei diversi Paesi, nonché delle loro diverse esperienze in materia di epidemie: negli ultimi venti anni la Cina e altri Paesi asiatici si sono confrontati molto spesso con le epidemie virali. È ovvio che nei Paesi a regime politico-istituzionale totalitario il lockdown viene meglio, per così dire, è di più facile, rapida e sicura implementazione, soprattutto se sono in grado di servirsi di un’avanzata tecnologia idonea al controllo e alla repressione dei comportamenti sociali. Non per niente la Cina si è subito proposta all’attenzione dell’Europa come il modello da seguire, sebbene con adattamenti e innesti “democratici”. Il lockdown con caratteristiche europee, insomma. Quello italiano è stato particolarmente duro, tale da evocare lo spettro del “fascismo sanitario”. Certo è che sentir parlare di «dittatura sanitaria» da parte di personaggi che sostengono i regimi di Cina, Cuba, Venezuela e non so di quanti altri Paesi rigorosamente antiamericani, fa davvero sorridere, diciamo così. Sto per caso alludendo anche al noto filosofo-comico Diego Fusaro? Fate un po’ voi! (5)

Per usare un’analogia medica, visto che parliamo di virus e di “crisi sanitaria”, nel caso italiano è come se una parte assai consistente dell’economia fosse stata messa in una condizione di coma artificiale o farmacologico, in attesa che i parametri sociali, stressati dallo shock, iniziassero a rientrare nella normalità. In questa delicata operazione l’interventismo statale ha avuto una parte decisiva, e gli effetti del «ritorno in grande stile dello Stato» nella sfera economica, osteggiato dalla minoranza liberista ancora presente nel Paese e applaudito dalla sua maggioranza statalista, saranno evidente solo tra qualche tempo. Com’è noto, spesso dal coma indotto artificialmente, si passa al coma vero e proprio, e non raramente segue il decesso del paziente: l’intervento è riuscito, ma il paziente è moto – di fame o di qualche altro accidente, ma vivaddio senza un solo Coronavirus in corpo! Quel che è certo è che molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, non apriranno più, e già a giugno si parlava di “autunno caldo”, di disoccupazione dilagante, di gente pronta a pescare nel torbido. Il Ministro degli Interni da mesi non smette di lanciare segnali di allarme: «Andiamo incontro a una delicata situazione sociale. Dobbiamo prepararci». Preparaci a cosa? Come si dice, lo scopriremo solo vivendo – se il Coronavirus vuole!

Ho raccolto in questo PDF buona parte dei post dedicati alla “crisi epidemica” che ho pubblicato su questo Blog dall’inizio di questa crisi, la quale peraltro è lungi dall’essersi esaurita; il primo è del 5 gennaio, quando sembrava che il raggio d’azione del Coronavirus fosse circoscritto alla sola Cina, o ai soli Paesi asiatici, come avvenne per la Sars nel 2003/2004, e l’ultimo è del 6 ottobre, quando la temuta “seconda ondata” si è alla fine palesata anche in Italia, e con una forza che ha sorpreso molti degli stessi “esperti”. La “seconda ondata” si abbatte su un corpo sociale già provato fisicamente e psicologicamente, e per questo i soliti “esperti” ritengono che essa potrebbe essere ancora più devastante della “prima ondata”, con ciò che ne segue sul piano delle politiche “preventive” suggerite al governo. Se dipendesse dagli “esperti”, in Italia saremmo già al lockdown generalizzato. Vedremo cosa accadrà tra qualche settimana, o forse tra qualche giorno.

La scienza si pavoneggia per i suoi successi ottenuti nella ricerca del vaccino, ma a parte ogni altra considerazione (anche d’ordine geopolitico), non fa che riparare i guasti prodotti dalla società di cui essa è un potentissimo strumento di dominio e di sfruttamento – di “risorse” umane e naturali.

L’intreccio “problematico” che questi post offrono ai lettori è molto ricco, perché essi chiamano in causa, sebbene in forma estremamente semplice – spero non del tutto semplicistica – e sintetica molteplici questioni di natura politica, etica, geopolitica, economica, psicologica: sociale in senso generale. Purtroppo non ho potuto eliminare la ripetizione di temi, di concetti e di parole, e di questo mi scuso con i lettori.

«Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole»; anche noi dovremmo conquistare questa irriducibile volontà nei confronti del pessimo presente – con il futuro che certo non ci sorride, tutt’altro!

Qui il PDF

(1) R. M. Nesse, G. C., Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999. «Il corpo umano è al contempo fragile e robusto. Come tutti i prodotti dell’evoluzione organica, è un insieme di compromessi, e ognuno di questi offre un vantaggio, anche se spesso il prezzo è la predisposizione a una malattia. Le debolezze non possono essere eliminate dall’evoluzione perché è stata la stessa selezione naturale a crearle. […] In medicina niente ha senso se non alla luce dell’evoluzione» (pp. 287- 301). E la società, qui genericamente intesa, in tutto questo che ruolo ha? Ed è corretto, nel trattamento dei cosiddetti “disordini mentali” associati alle emozioni, mettere da parte Sigmund Freud (qui inteso come “padre della psicoanalisi”) e chiamare senz’altro in causa gli «algoritmi darwiniani della mente»?
(2) A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 52, Paginaotto, 2020.
(3) K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 21-22, Editori Riuniti, 1983.
(4) Secondo stime attendibili, dal 2009 al 2018 in Italia c’è stata una riduzione della spesa sanitaria di circa 26 miliardi, una diminuzione del 12%. Se consideriamo, oltre la spesa corrente, anche il calo degli investimenti pubblici nel settore sanitario, la riduzione si aggira intorno al 13%.
(5) «La Ue manda il Mes, gli USA mandano soldati, la Cina manda medici e mascherine. Solo uno dei tre è nostro amico. Gli altri due sono nemici da combattere. L’avete capito? Il potere vi fa apparire amici i nemici e nemici gli amici. E, così, nostri amici sarebbero UE e USA, che in questa crisi ci stanno ignorando, quando non apertamente ostacolando. E nostri nemici sarebbero Cina, Russia, Cuba e Venezuela, che ci stanno mandando aiuti e medici. L’alternativa continua ad essere tra socialismo e barbarie o, se preferite, tra socialismo e capitalismo» (D. Fusaro). Indovinate secondo chi scrive da quale parte dell’alternativa si colloca il simpatico intellettuale SocialSovranista? Solo in un mondo ottusamente nichilista nei confronti della verità, un personaggio ridicolo come Fusaro può cavalcare le escrementizie onde delle ospitate televisive in qualità di filosofo hegelo-marxista. Anche questo, nel suo infinitamente e comicamente piccolo, esprime la tragedia dei nostri tempi.

NEGAZIONISTA E COMPLOTTISTA È QUESTA SOCIETÀ

Prima della cura

Tutta la vita delle società nelle quali predominano
le condizioni moderne di produzione si presenta
come un’immensa accumulazione di rischi. L’anno
2020 ce lo ha ricordato nel modo più incisivo.

R. A. Ventura, Radical choc.

Sono francamente odiose le accuse di negazionismo e complottismo scagliate come oggetti contundenti dai socialmente allineati contro chi azzarda un minimo (non un massimo!) di atteggiamento critico sulla cosiddetta “crisi sanitaria” e, soprattutto, sulla sua gestione da parte dei “comitati scientifici”, dei decisori politici e dei loro apparati propagandistici. Si sta generalizzando l’escrementizia tendenza a bollare come “negazionista” e “complottista” chiunque esprima un’idea difforme da quella certificata come politicamente e socialmente corretta dagli esponenti più autorevoli della classe dirigente del Paese. Chi non si allinea di buon grado all’opinione comune è concepito dai più come una persona quantomeno “strana”, dalla quale è igienico mantenere le debite distanze: non si sa mai! E la cosa appare ai miei occhi tanto  più sinistra e politicamente significativa, nel momento in cui il Parlamento italiano vara una Commissione d’inchiesta (con poteri di autorità giudiziaria) sulle cosiddette “fake news” che si configura come una vera e propria Commissione di controllo e censura delle opinioni considerate dai politici filogovernativi non in linea con le verità stabilite dai sacerdoti del regime: intellettuali, politologi, scienziati, artisti, opinion leader, ecc.

Naturalmente chi abbaia contro l’irrazionalismo dei “negazionisti” e dei “complottisti” non ha nemmeno una vaga idea di quanto profondamente irrazionale, per non dire folle, sia la società che nega in radice una vita autenticamente umana e che complotta tutti i giorni contro gli individui, soprattutto  contro quelli che sopravvivono a stento nei piani bassi di un edificio sociale sempre più imputridito e appestato: altro che Coronavirus! Perché la crisi sociale che stiamo vivendo non ha niente a che fare con un virus, con la natura «che oggi ci presenta il conto», mentre ha moltissimo a che fare con la natura del capitalismo.

 

Dopo la cura. «Parker Crutchfield, professore associato di etica medica alla Western Michigan University, qualche giorno fa ha pubblicato su The conversation un singolare articolo. In sintesi, lo studioso vorrebbe iniettare nel sistema idrico americano un mix di sostanze psicoattive, che dovrebbero ammansire i bifolchi che rifiutano di indossare le mascherine» (La Verità). Se non puoi convincerli, puoi sedarli.

Per come la vedo io, il problema non è il “negacomplottista” che considera il Covid «una bufala pianificata a tavolino per dare un’ulteriore stretta alle libertà individuali», e che scende in strada senza bavaglio, pardon, senza mascherina per manifestare questa sua “bizzarra” posizione; ci sono più paradossi, più contraddizioni e più irrazionalità sistemica tra terra e cielo, non crede per principio alle “verità ufficiali” fabbricate da un non meglio specificato “sistema”. Il vero problema è piuttosto la gente che rendendosi conto di quanto rischiosa e “problematica” sia la vita che ci offre questa società, tuttavia non scende in strada (con o senza mascherina!) per manifestare la necessità e l’urgenza di sbarazzarsi di un’organizzazione sociale che, appunto, non smette di creare all’umanità problemi d’ogni tipo.

Forse ce la prendiamo tanto con il «comportamento irresponsabile» dei “negazionisti” per non guardare in faccia la nostra irresponsabilità sociale, la nostra impotenza, la nostra incapacità di immaginare un modo di vivere autenticamente umano, completamente diverso da quello a cui siamo avvezzi. Scriveva il grande Tolstoj: «Non ci sono condizioni alle quali un uomo non possa assuefarsi, specialmente se vede che tutti coloro che lo circondano vivono nello stesso modo» (Anna Karenina). Il problema è dunque il cerchio stregato dell’assuefazione, questo nostro essere gregge (per dirla con Forrest Gump, pecora è chi la pecora fa), non certo chi si prende la “pericolosa” e “irresponsabile” libertà di non rispettare le regole del distanziamento asociale. Forse è quella libertà che l’apologeta della mascherina come “segno di rispetto per gli altri” segretamente invidia. Forse.

SUL TSO “PANDEMICO”

«È apparsa negli scorsi giorni la possibilità di utilizzare il TSO (trattamento sanitario obbligatorio) per chi è restio ad accettare le cure anche se contagiato. Ne ha parlato il governatore veneto Luca Zaia, esasperato dall’aumento dell’indice di contagio in regione e dalla vicenda dell’imprenditore vicentino che si è ammalato ma ha rifiutato il ricovero, ma anche il governo che con il ministro della Salute Roberto Speranza avrebbe chiesto agli esperti giuridici del governo di studiare la possibilità di imporlo a chi ha sintomi da Covid ma sta in giro. L’obiettivo del governo è studiare un’eventuale norma più stringente per applicarlo ed estenderlo dalla psichiatria alla gestione dei casi di chi rifiuta le cure anche se contagiato dal Coronavirus. Pochi però hanno consapevolezza di cosa sia un TSO, come venga esercitato già oggi e quali conseguenze comporti per chi lo subisce. Questo strumento invasivo solitamente sconvolge le vite delle persone e può anche ucciderle» (Affaritaliani).

Franco Basaglia sosteneva che gli psicofarmaci servono a sedare, più che il malato, l’ansia dello psichiatra e della società. Analogamente possiamo dire che il TSO “pandemico” serve a preservare, più che la salute del corpo sociale, in primo luogo la stabilità dell’ordine sociale, stressata continuamente dalle contraddizioni che sempre di nuovo produce questa società altamente contraddittoria e irrazionale – nonostante il gigantesco apparato tecnoscientifico che essa esibisce e che è posto soprattutto al servizio delle pratiche di dominio, di sfruttamento e di controllo sociale. Non bisogna poi sottovalutare l’esigenza di tutelare la stabilità politica dei funzionari che ci governano dal centro e dalla periferia. Ben si comprende, ad esempio, l’ansia elettoralistica di Luca Zaia, il cui riconosciuto e molto apprezzato successo nella “guerra al coronavirus” rischia di non trasformarsi in un prossimo successo elettorale per colpa di qualche “irresponsabile”.

Ieri il “pazzo”, oggi il “disagiato mentale”, domani forse l’”untore” e l’”irresponsabile”, dopodomani non si sa chi: i casi a cui applicare un bel TSO appaiono potenzialmente numerosissimi. Intendo forse evocare la sindrome della “brutta china” (fatto un passo in una direzione, il passo successivo è inevitabile)? No, mi limito a registrare un processo sociale in atto, a riflettere su una tendenza generale attiva peraltro da moltissimo tempo e che spesso subisce quelle improvvise accelerazioni che ci permettono – o, detto più realisticamente, ci permetterebbero – di averne contezza. Per quanto mi riguarda è questa società la “brutta china” che percorriamo ogni giorno, senza sapere, per l’essenziale, dove essa ci porterà: del domani non c’è certezza, diceva quello. Devo pure confessare che l’idea del TSO “pandemico” mi è balenata in testa all’inizio della “crisi sanitaria”, e certamente non in virtù di una capacità previsionale che purtroppo non possiedo; a pensare il male spesso ci si azzecca:  «Il 2 maggio scorso un rapper calabrese, Dario Musso, ne ha subito uno dopo essere andato in giro in auto gridando con un megafono che non esiste nessuna pandemia. Il ragazzo non aveva patologie psichiatriche né è stato visitato da un medico prima del trattamento forzoso» (Affaritaliani). Il 9 maggio c’è stato un identico caso in provincia di Agrigento ai danni di un uomo di circa 30 anni: «Lo hanno sedato perché esponeva le sue ragioni in modo pacifico», ha dichiarato il suo avvocato. Si reprime dunque un’opinione con mezzi “sanitari”? «Ma si tratta di un’opinione folle, non suffragata da nessuna evidenza scientifica! Un’opinione folle e pericolosa per la comunità». Ah, ecco. Adesso mi sento meno turbato, ma solo un pochino… Anche perché non sono io a decidere circa la pericolosità dei comportamenti sociali, a cominciare dai miei! «E infatti c’è chi decide per te, per tutti noi». Appunto!

Personalmente non posso fare a meno, per una sorta di riflesso condizionato, di associare il Trattamento Sanitario Obbligatorio al fascismo, al nazismo, allo stalinismo (anche con caratteristiche cinesi), cioè alla forma totalitaria dello Stato capitalistico. Questa operazione mentale in realtà mi aiuta a mettere nella giusta prospettiva l’intima natura dello Stato cosiddetto democratico, che infatti non contrappongo ideologicamente a quello che siamo soliti definire senz’altro totalitario. Detto en passant, il minacciato ricorso al TSO rivela l’intimo legame che storicamente esiste tra trattamento psichiatrico e repressione della “devianza sociale”, tra manicomio (nelle sue diverse “declinazioni” fenomenologiche) e carcere. Contenzione e repressione non fanno solo rima: sono due lati di una stessa medaglia. Nella prassi del dominio tutto si tiene, a spese degli individui.

Non ha alcuna importanza, a mio avviso, se l’odiosa e minacciosa idea del TSO “pandemico” sarà lasciata cadere (magari anche con allegata “precisazione” del politico che l’aveva impugnata come una clava: «Sono stato frainteso!»): ciò che conta è che essa sia stata avanzata e che non abbia incontrato praticamente nessuna opposizione da parte della gente, tutt’altro. Almeno è questo che risulta a me. Staremo a vedere!

Ho espresso la mia contrarietà di principio a ogni forma di obbligo (incluso quello vaccinale) e di proibizione (incluso quello afferente all’uso delle cosiddette “sostanze droganti”) in questo post: OBBLIGO VACCINALE E ALTRO ANCORA.

 

OBBLIGO VACCINALE E ALTRO ANCORA

L’evento epidemico che ancora ci travaglia probabilmente innescherà dopo l’estate un acceso dibattito sulla necessità, o meno, di rendere obbligatorio il vaccino antivirale stagionale (antinfluenzale), quantomeno per certe categorie professionali “a rischio” (medici e infermieri, in primis; seguono gli insegnanti) o per determinate fasce di età (bambini e anziani), come profilassi idonea a scongiurare il pericolo di una saturazione degli ospedali nel caso in cui dovesse presentarsi una nuova recrudescenza del Covid-19. Com’è noto, anche su questa possibilità la comunità scientifica è riuscita a dividersi in tante “scuole di pensiero”. Secondo Walter Ricciardi, componente dell’Oms e consigliere del Ministro della Salute Roberto Speranza, «Non ci sarà bisogno di introdurre l’obbligo per il vaccino contro il Coronavirus perché la gente ha sperimentato cosa significa avere paura di una malattia». Rimane inteso che se la paura non dovesse bastare… Questo richiamo alla paura della gente la dice lunga sulla natura del controllo sociale che stiamo subendo nella cosiddetta “nuova normalità”, la quale è sostanzialmente come la vecchia, solo ancora peggiore. L’ormai celebre virologa Ilaria Capua punta invece sul maledetto mantra del “Tutto dipende da noi”: «Siamo noi stessi che attraverso i nostri comportamenti possiamo facilitare questo ritorno del virus. Dobbiamo saperci difendere». Sono i nostri cattivi comportamenti, e non questa cattivissima società, a esporci al rischio del contagio. Su questo mantra, che sembra far leva sul libero arbitrio e sulla responsabilità dei cittadini, mentre in realtà colpevolizza gli individui e li educa alla paura e al sospetto (anche nei confronti di se stessi!), rinvio ai miei diversi post dedicati alla pandemia – in realtà alla società che l’ha generata in ogni sua fase: dal mitico salto di specie (Spillover) causato dalla distruzione degli eco-sistemi, alla sua diffusione planetaria attraverso il rapido movimento di uomini, di capitali e di merci. Per non parlare della gestione della crisi sanitaria da parte dei governi dei diversi Paesi! Per non andare lontano, è sufficiente pensare al caso-Lombardia. In Italia, Paese abilissimo nella ricerca dei capri espiatori da dare in pasto a un’opinione pubblica sempre affamata di colpevoli (spesso si tratta di uomini di successo e popolarissimi caduti in disgrazia), la Magistratura è già al lavoro.

Ma ritorniamo al problema “vaccinale”. Qui di seguito intendo svolgere una breve riflessione sull’obbligo alla vaccinazione. «A margine del dibattito sull’opportunità o meno dell’obbligo vaccinale si è sviluppata in Italia una più generale discussione su una questione davvero non semplice: la scienza è democratica? È stato soprattutto Roberto Burioni a sostenere presso il grande pubblico una risposta negativa. Secondo il noto scienziato del San Raffaele, “la scienza non è democratica”, perché in ogni suo settore (ad esempio quello dei vaccini) l’opinione degli esperti – una volta verificato il consenso nella comunità scientifica – deve senza incertezze prevalere su quella di chi non ha studiato la materia» (1). Cercherò di criticare questa posizione autoritaria, che postula l’obbligo vaccinale, non dal punto di vista dell’astratta democrazia, del cosiddetto principio di maggioranza, bensì da quello che contesta radicalmente – alla radice – la stessa divisione sociale del lavoro come si configura nella società capitalistica, a cominciare dalla divisione sociale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. L’immunità di gregge che hanno in testa gli scienziati che pensano come Burioni presuppone l’esistenza degli individui come gregge, come massa di individui atomizzati privi di un punto di vista generale sulla società che pure essi stessi riproducono giorno dopo giorno, sempre di nuovo.

Si dà talmente per ovvia, per scontata la prassi vaccinale, che non appena qualcuno (soprattutto se in veste di genitore) si pone il problema di vagliare i vantaggi della vaccinazione e i rischi connessi a essa, immediatamente scatta contro il malcapitato l’accusa di  cittadino irresponsabile, per non dire di peggio, rivoltagli dalla massa dell’opinione pubblica e dalle istituzioni. Già il solo porsi il problema è percepito dall’opinione comune, medici e scienziati compresi, come sospetto: «Eccone un altro!» L’accusa di “complottista sanitario” è praticamente assicurato, è incluso nel prezzo, per dir così, insieme al compatimento in qualità di «ennesima vittima delle fake news» (2). Quando, ad esempio, qualche anno fa il Professor Luc Montagnier, Premio Nobel per la Medicina, si “permise” di mettere in luce gli aspetti negativi o semplicemente problematici della pratica vaccinale, quasi l’intera corporazione medica sentì il bisogno di esprimere la sua indignazione nei confronti dello scienziato francese, la cui notorietà rischiava, secondo i teorici dell’immunità di gregge, di conferire presso l’ignara opinione pubblica (il gregge, appunto) autorità ad asserzioni antiscientifiche e socialmente pericolose. Tra l’altro, Montagnier non è affatto contrario, in linea di principio, alle vaccinazioni antivirali, come si evince dai passi che seguono: «Il virus può essere considerato il Fregoli dei germi. È decisamente intelligente e pur di non soccombere e, per esempio, sfuggire all’attacco dei vaccini antinfluenzali, cambia rapidissimamente la propria forma, i propri connotati, si sottopone ad un radicale intervento di plastica facciale: è il modo migliore per sfuggire al “controllo d sicurezza” degli anticorpi, quei soldati del Sistema Immunitario che vigilano affinché nessuno “nemico” entri nel nostro organismo e, nel caso, lo fanno fuori. C’è però un piccolo problema: gli anticorpi sono molto specializzati e, al controllo di sicurezza, se anche solo per un neo il virus non è più lo stesso, loro lo lasciano passare. È questo il motivo per cui l’efficaci dei vaccini è comunque limitata: essi stimolano la produzione di anticorpi specifici solo e soltanto per un preciso virus, se questo si camuffa solo un po’, loro diventano totalmente inefficaci. Il vaccino è un’arma molto efficace per difendersi dal virus influenzale, ma purtroppo non può fare niente se esso cambia. In ogni caso le categorie a rischio è bene che si sottopongano alla vaccinazione» (3). Per Montagnier «il modo migliore per prepararsi all’inverno» è quello di combinare “sinergicamente” medicina allopatica (a cominciare dal vaccino antinfluenzale) e medicina omeopatica: «Quello che io mi auguro è che allopatia e omeopatia possano essere utilizzate in futuro insieme, in maniera integrata, guidate dalla medesima visione dell’uomo, considerato nella sua unità e complessità. Per cui auspico un ritorno a quella che era la vecchia medicina in cui i farmaci si prescrivevano quando vi era reale necessità e quando l’organismo non sapeva più reagire: in questa visione l’omeopatia e l’allopatia sono complementari. Ci sono casi e momenti in cui l’Omeopatia non può funzionare: si tratta di una medicina come tutte le altre che ha i suoi limiti e i suoi prediletti campi di applicazione. In questi casi è giusto integrare con un rimedio allopatico tradizionale». Naturalmente anche “il sociale” è parte costitutiva dell’uomo «considerato nella sua unità e complessità», ragion per cui ogni discorso sulla salute umana e sui rimedi farmacologici e psicologici (o di altra specie) agli “stati patologici” che non consideri nella giusta misura la “componente sociale” rischia, nei fatti, di smottare verso l’ideologia e l’apologia della scienza come essa si dà in questa epoca storico-sociale.

In realtà la pratica vaccinale è tutt’altro che ovvia, e da molti punti di vista: da quello storico a quello sociale, da quello biologico a quello ecologico, da quello politico a quello psicologico, da quello etico a quello, dulcis in fundo, economico. Metto le mani avanti, come si dice, e rassicuro chi legge che non intendo affrontare tutti questi aspetti della questione, anche per una discreta incompetenza specifica, la quale tuttavia non m’impedisce di sostenere un preciso punto di vista sull’obbligo vaccinale.

Il mio approccio al problema vaccinale è negativo, cioè a dire critico-rivoluzionario, non positivo, ossia non orientato alla ricerca della sua soluzione all’interno della vigente società. Io non voglio governare i problemi sociali: intendo piuttosto ricondurli su un terreno concettuale e ideale che renda accessibile alla gente la reale natura sociale di quei problemi, con ciò che ne segue “dialetticamente” sul piano dell’iniziativa politica. Quanto poi questo sforzo colga il bersaglio, ebbene questo è tutto un altro discorso che adesso è bene non affrontare per non andare fuori tema – insomma, per non rendere più amara la mia giornata!

Il mio approccio ai problemi sociali è informato da un punto di vista che assume come possibile, auspicabile e urgente il radicale superamento di questa società capitalistica, da me considerata altamente disumana, e non la sua stabilità, il suo rinnovamento, il suo progresso, la sua buona salute – detto anche come metafora. Superamento rivoluzionario in vista di cosa? Di una Comunità autenticamente – o semplicemente – umana. Detto en passant, e come ho accennato prima, non solo il corpo sociale ma anche il corpo umano, nella sua inscindibile totalità psicosomatica (e so bene di essere riduttivo in questa specificazione di comodo), “sente” il sociale: la natura oppressiva, predatoria, alienante, competitiva, irrazionale, violenta, ecc. di questa società non può non avere un forte impatto negativo sulla nostra condizione esistenziale considerata nel suo complesso. Quanto la cattiva condizione umana influisca negativamente, ad esempio, sul sistema immunitario, è cosa ormai acquisita anche dalla cosiddetta scienza ufficiale (una volta si diceva “borghese”), la quale è infatti molto impegnata nel riparare i danni organici e psicologici che ci infligge un ambiente sociale sempre più ostile all’umano. «La società capitalistica rende difficoltoso il normale svolgimento delle funzioni vitali: l’uomo-macchina vive per produrre. […] La società capitalistica ha combattuto i microorganismi così come si combatte un concorrente sul mercato. Ha investito nella ricerca medica così come si investe nella ricerca tecnologica: avere macchine con rendimento ottimale. Ha tenuto per sé le energie prima sottratte all’uomo dai micro parassiti. La ragione scientifica ha sostituito l’irrazionalità religiosa nel mantenere il dominio sociale sui “sudditi” riconoscenti, per i quali l’allungamento della vita media ha significato semplicemente maggior tempo nelle galere del lavoro salariato. Il prezzo che la salute umana sta pagando a questo sistema sociale non è quantificabile. Ma empiricamente è possibile osservare di quante malattie lunghe e striscianti, croniche, è affetto il genere umano. In questo quadro non può sorprendere se si sta operando una svolta storica per la specie umana: quello che per millenni era stato il simbolo della resistenza e dell’adattamento all’ambiente, cioè il sistema immunitario, sembra complessivamente compromesso. Quali anticorpi si possono produrre contro la depressione, la tristezza, la solitudine, lo stress che quotidianamente, ancor più invisibili dei microorganismi, assalgono il corpo? Quale resistenza a microorganismi che lo stesso intervento medico seleziona attraverso indiscriminate campagne di antibiotici-farmaci-vaccini sempre più forti?» (4).

A mio avviso battersi per una medicina “a misura d’uomo” (c’è perfino chi si batte per un capitalismo “a misura d’uomo”!) senza mettere radicalmente in questione la continuità storica di una società che genera sempre di nuovo disumanizzazione, non è utopistico (ciò che attiene alla possibilità), ma chimerico (ciò che attiene alla mostruosità).

Da tutto ciò ne discende a mio avviso necessariamente, e non solo “dialetticamente”, una contrarietà di principio estesa a ogni forma di obbligo e di proibizione (incluso quello afferente all’uso delle cosiddette “sostanze droganti”) imposti dallo Stato, che considero, in ogni sua manifestazione politico-istituzionale e in ogni sua articolazione regionale, il cane da guardia posto a difesa dello status quo sociale. La mia posizione sull’obbligo vaccinale prescinde cioè dal merito dell’oggetto-vaccino, ossia dal problema circa la sua efficacia dal punto di vista della salute individuale e collettiva, e non essendo d’altra parte un medico non ho da dare alcun consiglio ad alcuno in materia di vaccinazione. Essendo contro questa società, non mi pongo il problema di come essa debba o possa gestire al meglio i problemi connessi alla salute del corpo sociale, problemi che invece toccano da vicino i funzionari che ci amministrano per conto delle classi dominanti e della conservazione sociale – due diversi modi di esprimere lo stesso concetto. Il mio è, come già detto, un rifiuto di principio alla collaborazione che investe anche il fondamentale “settore sanitario”: si tratta insomma di un antagonismo politico che non conosce deroghe di sorta, per così dire, “a 360 gradi”.

Personalmente non ho mai avuto problemi di alcun genere con i vaccini che ho dovuto fare per ragioni di lavoro, e ho chinato il capo all’obbligo vaccinale («Se fai il vaccino lavori, se non lo fai non lavori: a te la scelta»: sic!) esattamente come sono stato, come sono e come sarò costretto a farlo in futuro con altri tipi di obblighi che il Moloch mi ha imposto, mi impone (la “mascherina”, ad esempio!) e mi imporrà – lo scoprirò solo vivendo, è proprio il caso di dirlo! Non ho mai fatto il vaccino antinfluenzale stagionale, ma non escludo di vaccinarmi contro il Coronavirus se e quando fosse disponibile: questo semplicemente per dire che non sono contro la pratica vaccinale in sé, ma piuttosto contro l’obbligo vaccinale, e confesso che non ho alcuna simpatia nei confronti di chi ha fatto della lotta ai vaccini una sorta di religione, di ideologia, di crociata. Ma questa antipatia non inficia minimamente il principio anti-obbligazionista.

Se una persona non vuole farsi vaccinare, o non vuole che suo figlio venga vaccinato, io non solo non ho da obiettargli nulla ma, per quel che posso, lo sostengo moralmente e politicamente se lo Stato dovesse creargli dei problemi per costringerlo a cambiare idea. Sono sordo per quanto riguarda le ragioni della salute pubblica, mentre mi riguarda molto la salute del singolo individuo che deve vedersela con la totalità sociale, con il Moloch. Non nego che lo Stato abbia ragioni e diritti da far valere anche contro il singolo individuo: li riconosco e, proprio per questo, li combatto nel modo più conseguente, contrapponendogli altre ragioni e altri diritti: le ragioni e i diritti radicati nella possibilità di una Comunità Umana e nella lotta da condurre, “qui e ora”, per costruirla. Anche la lotta contro l’obbligo vaccinale potrebbe rientrare a pieno titolo nella più generale lotta anticapitalista. Ho scritto potrebbe, e so benissimo che oggi siamo lontanissimi da questa possibilità. Ma qui cerco di abbozzare e chiarire una posizione di principio, anche a beneficio di chi scrive, cioè di me stesso.

I cosiddetti No Vax ricorrono alla Costituzione di questo Paese per sostenere le loro ragioni. Io invece combatto l’obbligo vaccinale anche contro la Costituzione, la quale, come spesso osservava Cossiga, consente allo Stato di fare tutto ciò che serve per mantenere l’ordine sociale, per controllare e, quando occorre, “sculacciare” il corpo sociale. Tra l’altro, l’Art. 32 della Costituzione, quello a cui si richiamano i sostenitori della libera scelta in materia vaccinale, è tutt’altro che univoco nella sua interpretazione: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». La legge (non il singolo medico o la classe medica nel suo complesso) può dunque obbligare a un determinato trattamento sanitario; quanto ai «limiti imposti dal rispetto della persona umana», ci troviamo dinanzi a un concetto che ammette diverse interpretazioni politiche, filosofiche, etiche, deontologiche, ecc., e difatti esso ha ricevuto sul piano giuridico differenti interpretazioni giuridiche nel corso del tempo.

Il mio antagonismo contro ogni forma di coercizione normativa investe, lo ripeto, anche la Costituzione, la cui natura sociale è confessata dall’Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Verissimo! Si tratta del lavoro salariato (5), ossia del lavoro sfruttato dal Capitale (statale o privato che sia) che fonda la società capitalistica mondiale – perché oggi il rapporto sociale capitalistico domina l’intero mondo, e non solo alcuni grandi Paesi, come ai tempi di Karl Marx, alla cui peculiare “concezione del mondo” faccio peraltro riferimento.

So benissimo che molte persone maturano una “coscienza anti vaccinale” perché danno credito a opinioni (o fake news) che nulla hanno a che fare con la cosiddetta evidenza scientifica, ma il mio giudizio negativo sull’obbligo vaccinale non cambia di un millimetro, proprio perché esso prescinde dal merito della “cosa in sé”. Ad esempio, pur essendo ateo io difendo, eventualmente anche contro l’autorità statale, la volontà del Testimone di Geova che dovesse rifiutarsi di venir sottoposto a una trasfusione di sangue accampando “problematiche” religiose. «Ma così rischia di morire!». Lo so bene, ma è la sua decisione, che rispetto, pur non condividendola. Tra l’atro mi pare che la legge sul cosiddetto consenso informato consenta oggi al paziente di rifiutare, anche a rischio della propria vita, cure e interventi chirurgici o d’altro tipo che egli non desidera ricevere e subire. Una questione che tocca anche la scottante questione del “suicidio assistito” e dell’eutanasia. Ma non allarghiamo troppo il quadro problematico!

Semmai sono interessato a capire perché molte persone sviluppano il bisogno di credere in certe idee che l’ateista – cioè l’ateo ideologizzato, l’illuminista senescente/anacronistico – si limita a bollare come assurde, irrazionali, buone solo per gente ignorante, credulona, disinformata, paranoide, psichicamente disturbata, e così via. I credenti nell’Evidenza Scientifica non capiranno mai che in questa società altamente irrazionale le strade imboccate dalla gente che è alla ricerca di un senso (di una qualche razionalità) da dare a ciò che gli accade sono davvero infinite, e in linea di principio la strada scelta da quei credenti nella Scienza Onnipotente non è migliore, almeno ai miei occhi, di quella che scelgono di percorrere i credenti in un Dio o in un Guru incontrato più o meno casualmente sul Web. Faccio del “relativismo concettuale”? No. Mi sforzo di comprendere questa società, molto spesso senza riuscirci. C’è più irrazionalità e disumanità tra cielo e terra, di quanto ne riesca a supporre lo scientista: questo l’ho capito benissimo.

Per quanto riguarda la cosiddetta evidenza scientifica, feticcio che impressiona molto soprattutto i Sacerdoti della Scienza ridotta a dogma indiscutibile, mi basta dire che dal mio punto di vista la pratica scientifica è essa stessa parte organica del sistema che tiene incatenati gli individui al carro del Dominio sociale. Una volta il filosofo Emanuele Severino disse che «La storia della scienza è la storia della volontà di potenza dell’uomo» (Legge e Caso). Io, che filosofo non sono, e nemmeno scienziato, penso anche che occorra riempire di contenuti storici e sociali il concetto (di “stampo nietzschiano”?) di «volontà di potenza dell’uomo», per strapparlo alla cattiva metafisica e ricondurlo sul terreno della reale prassi sociale degli uomini. Ed è osservando la scienza da questa prospettiva che essa mi appare come il più potente strumento che il Capitale ha oggi a disposizione per sfruttare gli uomini e la natura, e infatti esso investe sempre più in Ricerca & Sviluppo, e in ogni ramo di attività: dalla produzione di caramelle a quella dei missili “intelligenti”; dalla produzione di tecnologie che salvano vite umane, alla produzione di tecnologie che annientano vite, o che, appunto, espandono a dismisura la capacità capitalistica di sfruttare uomini, cose e natura. Com’è noto, le cosiddette tecnologie intelligenti, frutto della ricerca scientifica più avanzata in ogni ambito dello studio dei fenomeni naturali (compresi quelli che coinvolgono il corpo umano), sono alla base del controllo sociale praticato oggi da tutti gli Stati del mondo – con la Cina che gioca l’odioso ruolo di avanguardia e di modello.

Insomma, ciò che potrebbe favorire un’esistenza autenticamente umana, oggi collabora attivamente con le potenze sociali che fanno dell’uomo una mera risorsa economicamente sensibile: come lavoratore, come consumatore, come investitore, come cittadino, e così via. Ovviamente tutto questo si compie alle spalle degli stessi scienziati, senza cioè che essi ne abbiano la minima consapevolezza: lo fanno, ma non lo sanno, e anzi credono di essere i più convinti sostenitori del pensiero critico, che gli scienziati credono di poter fondare, appunto, sulle cosiddette evidenze scientifiche.

La mia netta opposizione all’obbligo vaccinale è radicata nel punto di vista che ho cercato di tracciare, sperando che esso sia di qualche interesse per chi ha avuto la bontà di seguirmi fino alla conclusione del ragionamento.

 

(1) AA. VV., Fake news in ambito medico-scientifico e diritto penale, p. 26, Filodiritto Editore, 2019.
(2) «Quali sono le possibili conseguenze delle fake news che interessano anche il diritto penale? Già il legislatore del 1930, epoca della redazione dell’attuale codice penale, si era preoccupato – sia pure con scopi differenti – della diffusione di notizie false e della loro attitudine a turbare l’ordine pubblico. Non si tratta di una vera e propria tutela della “verità”, bensì della tutela della popolazione da possibili sconvolgimenti derivanti da un comportamento idoneo ad ingenerare un turbamento. In questo senso il codice penale, tuttora vigente, ha mantenuto il reato di “diffusione di notizie false o tendenziose” all’art. 656 c.p.» (Ivi, pp. 31-32). «Sia pure con scopi differenti»: non sono affatto d’accordo! Gli scopi, allora come oggi, sono gli stessi, e il fatto stesso che il codice penale emanato dal regime fascista sia «tuttora vigente» prova plasticamente la radicale continuità tra quel regime e quello che lo ha sostituito.
(3) Il Giornale, 01/10/2010. Anche il virologo e immunologo americano Robert Gallo, co-scopritore dell’Hiv come causa dell’Aids, condivide la posizione “problematica” di Montagnier circa la validità dei vaccini antivirali: «Credo che saremo esposti ad altri ceppi del Coronavirus e temo che l’immunità generata dal vaccino non sia duratura, perché ravvisiamo analogie tra i peplomeri di questo virus e quelli dell’Hiv. E gli anticorpi nel caso dell’Hiv non sono duraturi. Potrebbe esserci la possibilità di contrarre il virus una seconda volta, a meno che l’immunità ottenuta dalla prima infezione non riesca a rispondere a tutte le varianti del virus e a meno che l’immunità non sia duratura. Se l’immunità fosse duratura, cosa che non possiamo sapere, e fosse ampia e comprendesse tutte le varianti del virus, allora non lo contrarremo di nuovo, ma non credo sia molto probabile» (Il Digitale).
(4) AIDS e salute umana, Combat, febbraio/aprile 1987
(5) La stessa disoccupazione non contraddice, ma piuttosto conferma in pieno l’Art. 1, perché il lavoro (salariato) genera in questa società anche le condizioni del non lavoro, della precarietà ecc.

LA SCIENZA E IL «NESSO STESSO DELLA VITA»

Ho appena finito di leggere un’interessante intervista rilasciata a Dagospia dal professor Francesco Le Foche, clinico e immuno-infettivologo molto esposto sul piano mediatico – come del resto molti suoi colleghi scienziati. L’intervista appare ai miei occhi interessante soprattutto perché tocca un tema molto importante e scottante, soprattutto alla luce della nostra recente esperienza epidemica, e cioè il ruolo sociale della scienza ai nostri giorni. La circostanza è per me particolarmente “suggestiva” anche perché proprio l’altro ieri ho riletto le Osservazioni sulla scienza e la crisi scritte da Max Horkheimer nel 1932.

«Capire e descrivere una realtà vivente a partire dalla somma dei suoi frammenti inerti, significa mancare il nesso stesso della vita»: è soprattutto questo approccio riduttivo e scientista che Le Foche rimprovera a gran parte della scienza medica arruolata dal governo per fronteggiare e gestire la crisi socio-sanitaria che travaglia il nostro Paese ormai da tre mesi. La critica del professore ha richiamato alla mia testa i seguenti passi di Horkheimer: «La scienza ha a che fare con la conoscenza di ampie connessioni; ma la grande connessione da cui dipende la propria esistenza e la direzione del proprio lavoro, e cioè la società, essa non è in grado di comprenderla nella sua vita reale» (1). E non è in grado di comprenderla non a causa di un suo difetto di intelligenza, o a motivo di un limite intrinseco alla prassi scientifica in quanto tale, ossia considerata in astratto (operazione concettuale priva di senso), ma in grazia del ruolo sociale che la scienza ha nella società capitalistica. «La teoria marxiana della società annovera la scienza tra le forze produttive umane. […] Nella misura in cui si presenta come mezzo per la produzione di valori sociali, e cioè si esprime sotto forma di metodi di produzione, essa rappresenta anche un mezzo di produzione. La scienza collabora al processo della vita sociale come forza produttiva e mezzo di produzione» (p. 3). Siccome il processo della vita sociale è ormai da moltissimo tempo dominato dai rapporti sociali capitalistici, rapporti sociali di assoggettamento e di sfruttamento (degli uomini e della natura) che oggi hanno una dimensione planetaria, ne deriva immediatamente la peculiare natura sociale che la scienza viene ad assumere in questa epoca storica. Come ho scritto su un post di qualche mese fa dedicato alla quarantena, «in questo peculiare senso la scienza non è affatto la soluzione, ma è piuttosto parte organica del problema che ci affligge». Al sorgere della moderna società borghese la scienza si alleò con le forze del progresso umano contro ogni forma di oscurantismo politico e ideologico, ma nella misura in cui le nuove classi dominanti andavano radicando e potenziando il loro potere sistemico (economico, politico, ideologico, psicologico), anche la scienza si vide costretta (dai fatti, dalla prassi, dalla vita, e non da un ordine formulato in termini concettuali) ad abbandonare la vecchia e virtuosa strada, per trasformarsi essa stessa in una pratica al servizio di potenze sociali disumane e in un’ideologia al servizio della conservazione sociale. Di qui, il rifiuto della scienza a comprendere il processo sociale nella sua complessa e vitale totalità, e la sua tendenza a scomporre sempre più la totalità sociale, la sola in grado di restituirci la realtà quotidiana nella sua vitalità (nel suo processo) e nella sua peculiarità storico-sociale, e la sua ossessione specialistica. E ciò «significa mancare il nesso stesso della vita», come sostiene giustamente il nostro clinico. «I criteri modellati sulle scienze della natura che la ricerca sociale empirica ha fatto propri, e che postulano la ripetibilità, la controllabilità, l’isolamento dei singoli fattori di un tutto, non giungono a darci l’essenza delle cose» (2). Frantumare il corpo sociale nelle sue parti elementari per poi procedere alla loro vivisezione, significa ritrovarsi ad avere a che fare con un ancorché di morto, non certo con la vita di un processo sociale che getta luce su ogni suo più piccolo aspetto.

La scienza diventa ideologia «nella misura in cui conserva una forma che impedisce di scoprire le cause reali della crisi»: Horkheimer scrisse questo passo nel momento in cui in tutto l’Occidente imperversava la crisi economica deflagrata nel 1929, mentre una crisi di identità travagliava già da anni il pensiero scientifico, chiamato a dar conto dei suoi fallimenti fatti registrare sul terreno del progresso umano, e ciò tanto più dopo il coinvolgimento della scienza nella carneficina della Grande Guerra. Allora una parte dell’intellettualità borghese reagì al marasma sociale e alla crisi della scienza imboccando la facile scorciatoia dell’irrazionalismo, corrente di pensiero che criticava la scienza in quanto razionalità in genere (da Socrate in poi!) (3), così che doveva risultargli sostanzialmente incomprensibile il processo sociale che aveva messo il pensiero scientifico al servizio di potenze sociali che realizzavano, alle spalle di ogni volontà e di ogni coscienza, un mondo oggettivamente disumano, violento e altamente irrazionale. «Sorse così un’antropologia filosofica fiera della sua indipendenza che assolutizzò, nell’uomo, alcuni caratteri particolari, e all’intelligenza critica venne contrapposta l’intuizione libera dalla coazione dei criteri scientifici, sicura del proprio sguardo geniale. In questo modo la metafisica allontana dalla crisi sociale, e scredita persino i mezzi necessari per indagarle. Essa confonde, in particolare, le acque in quanto ipostatizza l’uomo isolato, astratto, e quindi minimizza l’importanza della comprensione teoretica dei processi sociali. […] Nella misura in cui si parla giustamente di una crisi della scienza, essa non può essere separata dalla crisi generale. […] La crisi della scienza può essere compresa solo a partire dalla giusta teoria della situazione sociale contemporanea; poiché la scienza è una funzione sociale che in quanto tale rispecchia, oggi, le contraddizioni della società» (4). Se vuoi una scienza che sia al servizio esclusivo dei molteplici bisogni umani: dal bisogno di nutrirsi e vestirsi a quello di amare e di capire il senso ultimo delle cose (naturali, intellettuali, “spirituali”); se vuoi cioè una scienza autenticamente umana devi anche volere una Comunità umana, una prassi sociale interamente orientata in senso umano (non in senso economico e politico), cosa che presuppone un assetto comunitario privo di classi sociali e, quindi, di relazioni sociali di dominio e di sfruttamento. Molta critica antiscientista dei nostri giorni è purtroppo viziata dal punto di vista non storico-sociale e non dialettico qui appena abbozzato.

Non si tratta di «ritornare a casa», secondo il noto e ingenuo invito che l’esistenzialismo rivolse una volta all’uomo occidentale; si tratta piuttosto di costruire una casa interamente nuova, una casa adeguata alla condizione dell’uomo in quanto uomo. Noi siamo «gettati» fin dalla nascita in un mondo radicalmente disumano, perché la prassi sociale che rende possibile la vita degli uomini è posta in una dimensione classista che non può non generare un mondo radicalmente disumano, e in quanto tale radicalmente irrazionale, sebbene la scienza occupi nella nostra vita un posto di assoluta importanza.

«Bisogna intanto distinguere tra scienza e scientismo», ci ammonisce Le Foche: «La scienza deve fornire dati, trarre deduzioni, porre dubbi, indicare proposte. Lo scientismo è quando la scienza si sostituisce alla politica, come si è visto in certi regimi dove, in nome del diktat della scienza, si sono avallate cose orrende». Diciamo, meglio, che la scienza a volte crede, si illude di potersi sostituire alla politica. La «dittatura della ragione scientifica» di cui molti oggi parlano in realtà esprime una situazione sociale che vede la scienza nel ruolo di ancella della politica e del sistema sociale considerato nella sua compatta, conflittuale e contraddittoria totalità.

L’attaccamento feticistico all’oggettività, alla fattualità, esibito con sprezzante orgoglio dalla scienza finisce per diventare un’acritica accettazione del cattivo mondo, si capovolge in una sua “oggettiva” apologia celata dietro un esilissimo schermo di dichiarata “neutralità politica”. Lungi dall’essere l’ultima parola nella ricerca della verità, la scienza ammalata di scientismo collabora con le forze della conservazione a occultare le verità più essenziali allo sforzo inteso a illuminare la reale condizione umana e a individuare le possibili vie di fuga da questa pessima condizione. «La scienza deve fornire dati, trarre deduzioni, porre dubbi, indicare proposte»: ma a chi, a quale organizzazione sociale, a quale struttura di potere «la scienza deve fornire» la propria collaborazione? La natura sociale della Comunità nel cui seno agisce in termini positivi (collaborativi) la scienza sembra un dato inessenziale per il nostro scienziato, mentre essa è ai miei occhi il cuore del problema.

Per comprendere ciò che intendo dire per economia orientata in senso economico, è sufficiente richiamare alla mente la miserabile quanto farsesca vicenda delle mascherine e dei più elementari presidi igienico-sanitari diventati nel giro di poche ore, all’inizio della cosiddetta crisi sanitaria, beni di lusso inaccessibili a molte tasche e spesso semplicemente introvabili. In compenso, costruiamo costosissime macchine e manteniamo costosissime strutture tecnoscientifiche allo scopo di «rilevare onde gravitazionali di intensità pari a 10¯²¹. Un obiettivo ambizioso e sicuramente entusiasmante che vedrà l’instaurarsi di una collaborazione fattiva fra tutti gli interferometri attivi sia sul nostro pianeta sia persino nello spazio!» (5). La collaborazione fattiva fra tutti gli interferoni è qualcosa che suscita in me una sconfinata ammirazione nei confronti della ricerca scientifica. Intendevo essere ironico. Ancora Horkheimer: «Nella crisi generale dell’economia la scienza appare come uno dei numerosi elementi di quella ricchezza sociale che non adempie alla sua destinazione. La sua consistenza attuale supera di gran lunga quella delle epoche precedenti. Sulla terra ci sono più materie prime, più macchine, più forze lavorative addestrate e migliori metodi di produzione di quanto non siano mai esistiti in passato, eppure gli uomini non ne traggono un vantaggio corrispondente. La società nella sua forma attuale si dimostra incapace di utilizzare veramente le forze che si sono sviluppate in essa e la ricchezza che è stata prodotta nel suo ambito. Le conoscenze scientifiche condividono la sorte delle forze produttive e dei mezzi di produzione di altro tipo: la misura in cui sono applicati è grandemente sproporzionata al loro grado di sviluppo e ai bisogni reali degli uomini; ciò ostacola anche il loro ulteriore sviluppo quantitativo e qualitativo» (p. 4). Accade necessariamente questo quando l’intera prassi sociale è dominata dall’imperativo categorico della compatibilità/sostenibilità economica, e non a caso oggi la scienza è diventata lo strumento più potente al servizio del Capitale, che se ne serve per ottimizzare la sua ricerca del massimo profitto in ogni settore di attività. E questo giustifica anche l’esistenza, ad esempio, del costosissimo interferometro LIGO di Hanford, nello Stato di Washington, il quale «ci ha permesso di dimostrare l’esattezza della predizione di Albert Einstein» (6) circa la curvatura dello spazio-tempo: investimenti che oggi appaiono economicamente irrazionali e giustificati solo dall’amore per la pura conoscenza, possono  tuttavia favorire lo sviluppo di tecnologie molto utili al profitto e alla potenza (scientifica, tecnologica, militare) di domani. Quando vuole, il Moloch sa essere molto lungimirante, e questa virtù riceve un decisivo alimento dalla scienza. Beninteso del tutto “oggettivamente”…

«Dobbiamo ricreare condizioni che ci favoriscano biologicamente», sostiene con apprezzabile buonsenso il nostro clinico: «Dobbiamo Rinunciare a considerare il pianeta come una nostra risorsa illimitata da saccheggiare. L’onnipotenza è un nemico da combattere. Gli ecosistemi sono le nicchie biologiche che mantengono virus e batteri inoffensivi. Se li distruggi, scatta una ribellione della natura, scatenando avversità. Da dittatori del pianeta, non abbiamo un futuro. Basta guardare la storia delle dittature». Senza averne la minima idea, il professor Le Foche evoca l’onnipotenza di una forza sociale che noi per l’essenziale non solo non controlliamo, come umanità, ma di cui piuttosto subiamo la cieca azione, come da ultimo dimostra proprio la pandemia ancora in corso. Noi abbiamo a che fare con un totalitarismo sociale che rende possibile ogni sorta di “problematiche” (dittature politiche comprese) e di contraddizioni sociali, e il fatto che la scienza non riesca a comprenderlo, mentre continua a ripetere ingenue e impotenti filastrocche intorno al famigerato Antropocene, dimostra che come individui sottoposti al brutale (soprattutto in termini affettivi e psicologici) dominio del Moloch capitalistico abbiamo soprattutto bisogno di coscienza (critica, radicale, rivoluzionaria), non di scienza.

La “vecchia normalità” era caratterizzata, sempre secondo il nostro professore, da «un malsano delirio di onnipotenza. Ci ritenevamo i padroni dell’universo, è bastato un nemico invisibile, infinitamente più piccolo di una pulce a metterci al muro. Abbiamo scoperto di colpo la nostra vulnerabilità assoluta». In realtà il nostro nemico non ha le dimensioni né la natura di un virus; in realtà non siamo noi ma i rapporti sociali capitalistici i «padroni dell’universo»; in realtà «la nostra vulnerabilità assoluta» nei confronti di qualsivoglia magagna sociale e “naturale” è resa possibile dalla nostra condizione sociale radicalmente disumana. «Il sistema immunitario è la nostra armatura. Siamo ancora lontani dal conoscerlo bene ma, se attivato in modo congruo, ha le risorse intrinseche per difenderci da tutto». Forse ciò che ci manca è soprattutto la conoscenza del meccanismo sociale che maltratta (eccome!) anche il sistema immunitario; forse più che attivare il sistema immunitario oggi dovremmo piuttosto attivare il pensiero critico, per capire in profondità ciò che ci accade e perché ci accade. Forse dovremmo iniziare a non dare più per scontato che una Comunità autenticamente umana non sia realizzabile. Forse.

(1) M. Horkheimer, Osservazioni sulla scienza e la crisi, in Teoria critica, I, p. 8, Einaudi, 1974.
(2) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Lezioni di sociologia, p. 183, Einaudi, 2001.
(3) «Per Heidegger, la storia della civiltà occidentale considerata dai due punti di vista cruciali, quello della metafisica dopo Platone e della scienza e della tecnologia dopo Aristotele e Cartesio, non è né più né meno che la storia dell’oblio dell’essere. Il XX secolo è il momento culminante, ma perfettamente logico di questa amnesia» (G. Steiner, Heidegger, p. 44, Garzanti, 2014). Com’è noto, Martin Heidegger riprese, radicalizzandola, la critica nietzschiana del pensiero socratico (platonico) e dell’illuminismo.
(4) M. Horkheimer, Osservazioni sulla scienza e la crisi pp. 7-9.
(5) F. Fracas, Il mondo secondo la fisica quantistica, p. 122, Sperling & Kupfer, 2019.
(6) Ivi, p.120.

L’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Oggi lo storico israeliano Yuval Noah Harari ritorna sulla sua “inquietante” tesi, esposta in diverse interviste rilasciate nei giorni scorsi ai più accreditati quotidiani europei: l’attuale «crisi sanitaria» pone l’umanità, sempre più esposta all’aggressione di «agenti patogeni sconosciuti» che ne minacciano la salute e la stessa esistenza su questo pianeta, dinanzi alla seguente drammatica alternativa: o essa avanza con passo spedito verso la «sorveglianza totalitaria», sul “modello cinese” (ma anche quello “coreano” non scherza!), oppure impara a praticare, e non più solo predicare, l’aureo ideale della «responsabilità individuale», il quale suggerisce agli individui comportamenti adeguati nelle diverse circostanze della vita. Ad esempio, si accetta con stoica rassegnazione la quarantena quando dilaga un’epidemia non perché costretti dal Leviatano, ma perché è la cosa giusta da fare in quella circostanza.

A ben guardare, l’alternativa proposta da Harari è tutt’altro che un’autentica alternativa, e comunque essa si riduce alla “scelta” tra l’accettare con cattiva disposizione d’animo (diciamo così) la pessima realtà, oppure accettarla di buon grado, e magari con zelo, delegando di fatto a noi stessi l’autorità di segregarci in casa per un tempo indefinito. «Liberamente decido di non essere libero». In questo secondo caso, si tratterebbe non di una sorveglianza totalitaria, ma di una totale vittoria delle esigenze sociali (capitalistiche: un dettaglio!) sull’individuo, che diventa appunto il sorvegliante di se stesso. Il nodoso bastone del Sovrano si fa carne e spirito, sangue e psiche. In realtà la doppia sorveglianza (“esterna” e “interna”) dell’individuo è da tempo un fatto compiuto, come del resto aveva già “profetizzato” lo stesso Sigmund Freud, ed è questo a conferirle un carattere totalitario di natura squisitamente sociale (esistenziale, “biopolitica”), prim’ancora che di natura politico-istituzionale.

Rick DuFer si rifiuta di piegarsi alla logica del «Credere, obbedire, guarire»: «O si obbedisce ciecamente, oppure si è degli anarchici irresponsabili e privi di qualsiasi valore umano. O si mostra sui social la propria perfetta aderenza ad ogni dettame, ogni regola, ogni norma, anche la più inspiegabile, oppure si fa parte del non-popolo dei disobbedienti, degli incoscienti. Ma non c’è nulla di più incosciente, nel Paese del “fascismo eterno”, che obbedire ciecamente a quello che decide un burocrate. […] Io non sto “obbedendo” all’imposizione di restare il più possibile a casa: io decido di stare a casa nei limiti delle mie necessità primarie. Io non sto “obbedendo” alla prudenza nella relazione con gli altri: io decido di prestare attenzione al modo con cui conduco i miei rapporti per evitare di farci del male. Io non sto “obbedendo” alla norma secondo cui bisogna evitare assembramenti: io ho capito, leggendo e informandomi, che stare in gruppo è rischioso e decido di non correre quel rischio. E tutto questo ben prima che la legge arrivi ad impormelo. Non credo, non ho mai creduto e mai crederò nell’obbedienza ad alcunché» (Blog Bruno Leoni).

Questo sfoggio di “etica antiautoritaria” ai tempi del coronavirus, elude la domanda che a me pare fondamentale: perché siamo costretti alla quarantena? E più precisamente: di chi è la responsabilità della pandemia che impazza in tutto il mondo? Perché nel nostro Paese nel corso degli anni la spesa sanitaria ha subito continui e pesanti tagli? Perché la «crisi sanitaria» sta già scatenando una crisi economica? Quest’ultima domanda può suonare banale, ma non lo è affatto, perché investe il cuore pulsante del meccanismo che rende possibile la nostra stessa nuda esistenza.

Ebbene, tutte queste domande chiamano in causa non questo o quel governo, ma la natura stessa di questa società, la quale nel volgere di poco tempo ci ha fatto conoscere una devastante crisi economica internazionale, che ha lasciato sul terreno molti morti e moltissimi feriti (sotto forma di disoccupati, precarizzati, supersfruttati, declassati, ecc.), e una crisi cosiddetta sanitaria (che invece è un’autentica crisi sociale sotto tutti i punti di vista), le cui conseguenze sulle nostre condizioni di vita e di lavoro si annunciano ancora più devastanti di quelle prodotte dalla crisi economica del 2008.  Altro che “agente patogeno sconosciuto”: qui l’agente patogeno che corrode la nostra fibra sociale-esistenziale è conosciutissimo! Di più: l’agente patogeno è la società stessa, è la società capitalistica tout court, la quale è dominata dal calcolo economico.

Proprio ieri il leader della Cigil Maurizio Landini dichiarava che questa crisi sanitaria ci dice che «dobbiamo dire basta alla logica del profitto fine a se stesso»: ai progressisti piace la logica del profitto piegata alle necessità del “bene comune”. Questa colossale sciocchezza è benedetta e santificata da Papa Francesco. Per me invece si tratta di dire basta alla “logica del profitto” in quanto tale, e quindi al rapporto sociale oggi dominante in tutto il mondo. Se l’umanità non esce fuori dalla disumana dimensione del calcolo economico (bisogna far quadrare i conti nell’azienda “privata” come in quella “pubblica”, nella famiglia come ovunque si faccia sentire il problema della “sostenibilità economica”), essa si espone a ogni sorta di magagna, “agenti patogeni sconosciuti” compresi.

Parlare di “etica della responsabilità” senza aggredire la radice sociale del problema, significa a mio avviso chinare il capo e decidere come ci conviene subire la cattivissima realtà: subirla da cittadini responsabili che sanno come comportarsi in vista del “bene comune” (sic!), oppure da sudditi recalcitranti che obbediscono solo per timore della legge, e non certo per convinzione. Che bella alternativa!

Come ho scritto altre volte, poste le odierne condizioni sociali, socialmente e umanamente responsabile è, a mio giudizio, ogni azione orientata in direzione del radicale (rivoluzionario) superamento di quelle condizioni: è, questa, la sola etica della responsabilità che personalmente riesco a concepire nell’epoca del dominio totalitario dei rapporti sociali capitalistici e che, nel mio infinitamente piccolo, mi sforzo di praticare.

UGO RUSSO. E TUTTI NOI

Ma nel 2020 si può morire a quindici anni per una rapina “andata a male”? Evidentemente sì, è successo, il fatto è, come si dice, inoppugnabile, e nessuna indignazione, di qualsivoglia matrice etica o politica essa sia, può riavvolgere il metaforico nastro della vita e cambiare il finale della brutta storia . Il quindicenne Ugo Russo è stato ucciso da un carabiniere in abiti civili e fuori servizio perché con una pistola giocattolo aveva cercato di rubare il costoso orologio che il militare portava al polso: questo il fatto “nudo e crudo”. Inutile straziare l’orecchio del pubblico ripetendo il mantra, sempre utile in simili circostanze: «Questo fatto è inaccettabile!». Oppure: «Un simile fatto non deve più ripetersi!» Simili fatti continueranno a ripetersi, semplicemente perché continueranno a sussistere tutte le condizioni sociali che hanno determinato la morte di Ugo. Chi abita poi a Napoli, o in qualche altra città del Mezzogiorno (come Catania, ad esempio), non può certo affettare sorpresa per quel che è capitato al ragazzino ingoiato anzitempo da questa mostruosa (leggi: disumana) società. Il “degrado sociale” (economico, culturale, psicologico, “antropologico”) di molti quartieri di quelle città è, come si dice, palpabile, denso e spesso come gli oggetti che manipoliamo; il “disagio sociale” vissuto da molte famiglie proletarie spesso “degenera” in episodi di violenza “gratuita” ai danni delle persone più disparate, le quali agiscono da capri espiatori e da sfogatoi per una ribollente e incontrollabile rabbia. Orde di ragazzini e di ragazzine, figli e figlie di famiglie sottoproletarie, vagano per il centro città alla ricerca di qualche povero disgraziato sul quale riversare il velenoso frutto della loro disperata condizione esistenziale. Una potente carica di “odio nichilista” acceca, avvelena e anima il sottoproletariato e una parte del proletariato meridionale.

«Un ragazzo di 15 anni finisce a terra, morto, dopo una tentata rapina con una pistola giocattolo a Santa Lucia, quartiere in agonia da decenni, da quando è finito il contrabbando di sigarette che lo aveva reso “la Fiat di Napoli”. Da un lato i palazzi della burocrazia, i condomini borghesi, dall’altro il quartiere popolare, che arranca tra affitti ai turisti e disoccupazione cronica. È l’alchimia della città che costringe a vivere vicini ricchi e poveri, magistrati e criminali, onesti lavoratori e disonesti, laureati e persone che a stento hanno un diploma di terza media» (R. Saviano, La Repubblica). Una simile “alchimia” deve necessariamente generare tensioni sociali, frustrazioni, invidia sociale, impazienza e tentazioni che non si armonizzano né con la vigente legalità, né con il sistema etico dominante.

Molte persone mi criticano perché tenderei a giustificare, tirando in ballo la natura capitalistica della società, ciò che secondo il loro metro di giudizio sarebbe ingiustificabile. In particolare, pare che amerei giustificare e difendere soprattutto le ragioni di chi ha torto, di chi milita nel campo avverso al bene, di chi alimenta le cause perse che nessun avvocato vorrebbe mai difendere. «Perché, a parità di condizioni economico-sociali, non tutti rubano, ma solo alcuni? Perché non tutti usano la violenza contro il prossimo, ma solo alcuni? Perché alcuni sono onesti cittadini e buoni genitori, mentre altri non lo sono affatto?». A questa obiezione rispondo che, in primo luogo, io non giustifico nessun comportamento ritenuto asociale ed eticamente scorretto (ad esempio rubare, vendere droga, prostituirsi, ecc.), ma mi sforzo piuttosto di ricondurre le più disparate pratiche al contesto sociale, particolare e generale, senza considerare il quale esse non trovano una spiegazione “razionale” convincente, almeno per me; in secondo luogo chiamare in causa il cosiddetto libero arbitrio («Siamo ciò che decidiamo e vogliamo essere») mi appare un po’ consolatorio e auto assolutorio, alla luce di una condizione esistenziale che ci rende tutti socialmente impotenti per ciò che riguarda l’essenza della nostra vita. E ciò è dimostrato anche dalla vicenda virale che inquieta i nostri giorni. Su questo fondamentale aspetto rinvio al mio precedente post.

Condannare, anche solo moralmente, chi ruba, chi cerca di intascare denaro in uno dei tantissimi modi che si possono inventare sempre di nuovo, chi fa violenza contro il prossimo, ecc., senza condannare, in primo luogo, la causa ultima di tutto ciò, ossia la società che trasforma ogni bisogno umano in un’ammiccante occasione di profitto e ogni oggetto inteso a soddisfare i bisogni in una merce; la società che ha nel denaro il suo vero e unico Dio, onnipotente e onnipresente; la società che trasuda violenza da tutti i pori e che non raramente la pratica su scala più o meno vasta; la società che offende e nega ciò che di autenticamente umano siamo ancora in grado di esprimere; la società che esalta il successo («Purché ricercato con mezzi moralmente e penalmente leciti»: sic!) e che schifa l’insuccesso; ecco questo “doppio standard” etico mi sembra una clamorosa dimostrazione di incomprensione, per non dire altro. Le persone che fanno uso di un simile criterio di valutazione non hanno ancora capito, e non so se mai lo capiranno, con quale mostruosità abbiamo a che fare tutti i giorni. Naturalmente per mostruosità intendo la nostra società, la società che il cittadino onesto e civile vorrebbe rendere più onesta e più civile: condoglianze! Pardon: auguri!

Allora questo vuol dire che sto dalla parte di Ugo? Certamente non sto dalla parte del carabiniere che lo ha ucciso, né dello Stato che difende l’ordine sociale che rende possibile ogni genere di contraddizione e di violenza. C’è poco di che rimanere esterrefatti, poste le odierne condizioni sociali. Recito la parte del cinico perché mi piace stupire e provocare l’interlocutore? Nemmeno per idea! Come sempre cinica è la realtà, non chi si limita a darle voce senza aver paura di apparire antipatico e “politicamente scorretto”. Io sto dalla parte della possibilità di farla finita con questa escrementizia società, una possibilità che purtroppo le classi subalterne e tutti i maltrattati dal Moloch non riescono ancora a vedere, a volere, a incarnare. Che tragedia!

Come sempre e su ogni cosa, dopo l’uccisione di Ugo Russo l’italica opinione pubblica si è divisa in due opposte “scuole di pensiero”: quella che sostiene che Napoli è diventata una sola, grande Gomorra, e quella che ribatte che Gomorra non rappresenta affatto la città partenopea. «”Noi non siamo Gomorra” e mentre lo diciamo, abbiamo dimenticato cos’è Gomorra e quindi abbiamo dimenticato cosa non vogliamo essere: un cancro che si nutre del sangue dei suoi ragazzi e delle sue ragazze, e degli errori che non hanno soluzione» (R. Saviano). Per come la vedo io, il vero “cancro” è invece la società capitalistica in quanto tale, la quale rende possibile anche Gomorra e ogni altra fenomenologia del Male con caratteristiche più o meno regionali e locali. La società italiana, in particolare, è messa malissimo; dopo 160 anni di storia unitaria essa continua a essere segnata da una vasta e complessa costellazione di contraddizioni sociali, con relative magagne politico-istituzionali, che non  consentono nemmeno di avviare una seria trasformazione del tessuto economico-sociale del Mezzogiorno, salvo rare eccezioni.

La società raccoglie sempre ciò che semina, e l’anticapitalista lascia ai progressisti il compito, ultrareazionario, di sistemare le cose, di turare le falle che sempre di nuovo si aprono sui fianchi della nave, mentre si tratterebbe di lasciarla affondare e di imbarcarsi su una nave nuova di zecca, e così iniziare un nuovo viaggio. «Che utopia!» Concordo. E infatti do a tutti i realisti, soprattutto se progressisti, appuntamento al prossimo fattaccio degno della loro rituale indignazione.

LA PRIMA RADICE

Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice.
Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso (K. Marx).

Scriveva Simone Weil alcuni mesi prima di morire (il 24 agosto 1943):

«Da un biografo di Hitler sappiamo come, fra i libri che hanno esercitato una profondissima influenza sulla sua gioventù, vi fosse un’opera di infimo ordine su Silla. Che importa il fatto che fosse di infimo ordine? Essa rifletteva l’atteggiamento della cosiddetta classe dirigente. Chi scriverebbe con disprezzo di Silla? Se Hitler ha desiderato il genere di grandezza che vedeva glorificato in quel libro e dovunque, non c’è stata colpa da parte sua. Quella è la grandezza, infatti, che ha raggiunto, quella medesima alla quale noi tutti ci inchiniamo quando volgiamo gli occhi al passato. Verso quella grandezza noi ci limitiamo ad una bassa docilità spirituale; noi non abbiamo tentato, come Hitler, di afferrarla con le nostre mani. […]

Immaginiamoci quell’adolescente, povero, sradicato, che vagabonda per le vie di Vienna, affamato di grandezza. Era giusto, da parte sua, essere così affamato di grandezza. Di chi la colpa se egli non ha saputo scorgere un altro genere di grandezza che non fosse quello del delitto? […]

Si parla di punire Hitler. Ma non lo si può punire. Voleva una cosa sola e l’ha avuta: essere nella storia. Sia che lo si uccida, o lo si torturi, o lo si imprigioni, o lo si umili, la storia sarà presente a proteggerne l’anima contro ogni colpo della sofferenza e della morte. Qualunque cosa gli si infligga, si tratterà sempre di una morte storica, di una sofferenza storica; sarà storia. Come per chi è giunto all’amore perfetto per Dio ogni avvenimento, in quanto viene da Dio, è un bene, così, per quell’idolatra della storia, tutto quel che è storia è un bene. Anzi, egli è in una situazione anche più vantaggiosa; perché il puro amore di Dio abita il centro dell’anima; lascia la nostra sensibilità esposta alle offese; quell’amore non è una corazza. Mentre l’idolatria è una corazza; impedisce al dolore di penetrare fino all’anima. Tutto quel che si vorrà imporre ad Hitler, non gli impedirà di sentirsi una creatura grandiosa. E soprattutto non impedirà, fra venti, cinquanta, cento o duecento anni, a un piccolo ragazzo sognatore e solitario, tedesco o no, di pensare che Hitler è stato un essere grandioso, che ha avuto dal principio alla fine un destino grandioso, e di desiderare con tutta l’anima un eguale destino. In questo caso, guai ai suoi contemporanei.

La sola punizione capace di punire Hitler e di distogliere dal suo esempio i ragazzi affamati di grandezza che vivranno nei secoli avvenire, è una così completa trasformazione del senso della grandezza, che necessariamente lo escluda. È una chimera, dovuta alla cecità degli odi nazionali, credere che si possa escludere Hitler dalla grandezza senza una trasformazione completa, fra i contemporanei, della concezione e del significato della grandezza. E per contribuire a quella trasformazione bisogna averla compiuta in noi stessi. In questo stesso momento ciascuno di noi può dare inizio alla punizione di Hitler nell’interno dell’anima propria, modificando la distribuzione del sentimento di grandezza. Non è affatto facile, perché vi si oppone una pressione sociale pesante e avviluppante come quella dell’atmosfera. Per giungervi, bisogna escludersi spiritualmente dalla società» (*).

A mio avviso si tratta invece di farla finita con questa società, con la società che in barba a ogni discorso intorno alla sacralità dell’uomo e dei suoi diritti è sempre più dominata dagli interessi economici (capitalistici), con quel che ne segue necessariamente, in termini di disumanità, in ogni aspetto essenziale della nostra esistenza: lavoro, affettività, relazioni, ecc. E infatti la storia di cui parlava Simone Weil è la storia delle dominazioni classiste che si sono succedute nei millenni; è la storia dello sfruttamento degli uomini ad opera di altri uomini; è la storia delle guerre che le classi dominanti hanno organizzato per conquistare ricchezze e potere a spese di altre classi dominanti e sempre sulla pelle dei dominati. È su questo cattivo (disumano) fondamento che ha messo radici il concetto di grandezza criticato dalla Weil dal suo particolare punto di vista.

Per quanto mi riguarda, la morale del discorso, per così dire, è sempre la stessa: sul fondamento di questa escrementizia (disumana) società dobbiamo aspettarci tutto il male concepibile e anche quello che ancora non riusciamo nemmeno a concepire. Farsi delle illusioni a questo proposito è davvero ingenuo, oltre che “riprovevole” – in primo luogo dal punto di vista etico, di un’etica che intenda rimanere fedele alla necessità/possibilità dell’«uomo in quanto uomo». Questa società genera sempre di nuovo mostri semplicemente perché è essa stessa mostruosa, cioè disumana, e deve esserlo necessariamente, essendo le relazioni sociali che ne informano le attività vitali (produrre e distribuire la ricchezza sociale) relazioni di dominio e di sfruttamento. È solo su un terreno umano che può radicarsi un’umanità adeguata al suo più alto concetto, di «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), di «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer).

«Platone diceva che la capacità di discernere il bene esiste solo nelle anime predestinate che Dio ha educato direttamente» (S. Weil). Si tratta piuttosto di mettere gli uomini e le donne nelle condizioni di vivere bene, cioè felicemente e secondo umanità. Come diceva Ludwig Wittgenstein, «È la prassi che dà alle parole il loro senso». E non solo alle parole.

Leggi anche La radice di ogni male…

(*) Simone Weil, La prima radice, pp. 107-108, SE, 1990.

 

 

TECNOLOGIA vs UMANITÀ?

Essere, o non essere, questo è il dilemma:
se sia più nobile nella mente soffrire
colpi di fionda e dardi d’atroce fortuna
o prender armi contro un mare d’affanni
e, opponendosi, por loro fine?
W. Shakespeare

Ormai non passa quasi un singolo, brevissimo giorno senza che gli scaffali delle librerie di tutto il mondo si arricchiscano dell’ennesimo libro che mette in guardia l’umanità dai pericoli che si nasconderebbero – ma poi non così tanto – dietro la rivoluzione tecnologica che, a quanto pare, giungerà a completa maturazione entro i prossimi venti anni. Alcuni “futurologi” parlano di dieci anni: in appena due lustri l’umanità si giocherebbe la partita con l’Intelligenza Artificiale, e tutto lascia supporre che non sarà la prima a uscirne trionfante, tutt’altro.

Personalmente l’altro ieri mi sono imbattuto nell’ultimo saggio del “futurologo” (è così che egli ama definirsi) Gerd Leonhard: Tecnologia vs Umanità. Lo scontro prossimo futuro (Egea, 2019). Confesso che ho iniziato a leggere il libro con una certa ritrosia, perché temevo di perdere tempo andando dietro a concetti letti e riletti mille volte nel corso degli ultimi dieci e passa anni, e da me rubricati come feticismo tecnologico. La ritrosia, che comunque non voleva scadere nel pregiudizio, si è purtroppo rivelata ben fondata; tuttavia, cercando di cogliere in qualche pagina del libro almeno un passo suggestivo e fecondo, uno spunto argomentativo dove agganciare una critica di qualche interesse, alla fine mi sono accorto di averlo letto tutto: mio malgrado! Comunque ho chiuso la “pratica” in poco tempo, proprio perché i concetti esposti nel saggio in questione sono tutt’altro che originali, e quindi il pensiero ha avuto modo di “digerirli” rapidamente.

Il tedesco (di Bonn) Leonhard è il classico “pensatore visionario” («inserito da Wired Magazine tra le cento persone più influenti in Europa già nel 2015, e secondo il The Wall Street Journal uno dei dieci futurist keynote speakers tra i più importanti al mondo»: come mi sento insignificante!) che nei confronti delle innovazioni tecnologiche ha un atteggiamento tutt’altro che ostile, ma che al contempo riflette sugli aspetti negativi, o quantomeno fortemente problematici, di molte di esse. Per il Nostro futurista l’umanità deve certamente accogliere con entusiasmo i “lati positivi” della rivoluzione digitale che ridisegnerà radicalmente la società capitalistica, e le cui avvisaglie già possiamo cogliere in diversi ambiti della nostra vita, mentre essa deve respingerne senz’altro i “lati negativi”, ossia quelle tendenze che spingono la tecnoscienza per un verso a comprimere tutte le peculiari qualità umane; quelle qualità (emozionarci, essere compassionevoli, porci problemi etici, ricercare la felicità, essere creativi, ecc.) che fanno di noi ciò che siamo da millenni e che ci distinguono dalla macchina più intelligente che siamo in grado di concepire e produrre; e per altro verso a renderci dipendenti in modo assoluto dalle macchine intelligenti, ciò che ci obbligherebbe a una continua e snervante competizione interumana per rimanere socialmente abili in un ambiente sociale totalmente digitalizzato. Senza parlare del fatto che alcune importanti capacità umane, fisiche, intellettuali e psicologiche, col tempo subiranno un processo di atrofizzazione, essendo stato il loro uso delegato alle macchine cosiddette intelligenti. Il darwinismo tecnologico è dietro l’angolo! C’è poi un grande problema che assilla e inquieta Leonhard: la convergenza tra nanotecnologia e biologia, convergenza che potrebbe creare un mostruoso ibrido biotecnologico che renderà difficile capire dove finisce la “componente umana” della Cosa e inizia quella inumana. Chissà, forse è lo stesso concetto di umanità che subirà una radicale ridefinizione, com’è stato previsto da moltissimi romanzi e film del genere fantascientifico. Bisogna anche considerare che mentre i mutamenti tecnologici si danno con una rapidità sempre maggiore e investono sempre più direttamente e capillarmente la stessa “nuda vita” dell’uomo, i mutamenti che coinvolgono la sua struttura fisica e psichica rimangono invece lenti, e questa diversa velocità di cambiamento non può non generare problemi e contraddizioni di vasta portata, che la società cercherà di superare investendo ancora più massicciamente nell’Intelligenza Artificiale, innescando un circolo vizioso tecnologico dalle conseguenze imprevedibili.

Per analogia possiamo forse pensare ai problemi che in passato hanno dovuto affrontare le popolazioni che sono state costrette ad adattarsi nel giro di poche generazioni al clima e al regime alimentare dei luoghi nei quali si sono recati “in cerca di fortuna”. Pare che l’obesità e non poche patologie della pelle e degli occhi abbiano colpito – e colpiscano – più frequentemente persone provenienti da Paesi caldi e aventi un regime alimentare sostanzialmente vegetariano, che si sono trasferiti per lavoro in Paesi dal clima più rigido e assoggettati a una dieta basata sulla carne e sui derivati del latte. L’adattamento degli organismi viventi secondo natura è un processo che si svolge quantomeno nei millenni, mentre il capitalismo non concede alle persone tutto questo tempo, e ciò ha avuto – e forse continua ad avere – delle conseguenze anche sul loro corpo. Il nostro corpo e la nostra struttura psichica sono ancora troppo poco “moderni” e flessibili per adattarsi senza alcuna frizione alle esigenze capitalistiche. La composizione organica del “capitale umano” (1) è ancora troppo bassa. Per dirla con Günther Anders, L’uomo è antiquato: che «vergogna prometeica»! (2)

Il “lato positivo” secondo Leonhard: «La tecnologia rende le cose abbondanti perché con la buona tecnologia il prezzo cala drasticamente e la tecnologia esponenziale renderà le cose esponenzialmente abbondanti. I mezzi di comunicazione, l’informazione, i viaggi, i servizi finanziari, i servizi medici, il cibo, l’acqua, l’energia. In meno di 20 anni possiamo arrivare al punto in cui avremo energia, cibo e acqua abbondanti, mentre la maggior parte del lavoro sarà svolta da macchine o software; il che significa che “lavoreremo” solamente per poche ore al giorno, godendoci lo stesso tenore di vita e di reddito. Ciò significherà che il consumo e la crescita non potranno essere più considerati i principi che definiscono l’economia – si svilupperà una sorta di post-capitalismo. Il PIL come parametro sarà completamente sparito da allora – e forse troveremo un modo per perseguire più FIL (Felicità Interna Lorda)». Il concetto di FIL ai miei occhi è eccitante quanto lo è il pensiero di un sasso che mi cade dritto sulla testa. E ho detto tutto! Questo concetto si segnala peraltro per originalità. Tento di fare della facile ironia, con quale risultato non tocca a me dirlo.

È il turno del “lato negativo”: «Il rischio più grande, oggi, non è tanto che le macchine domineranno, governeranno o addirittura inavvertitamente elimineranno, attraverso complessi sistemi di intelligenza artificiale, l’umanità; questo è un pericolo più vicino ad alcuni film di Hollywood che affronteremo forse tra trent’anni. Il vero problema e che noi umani possiamo diventare troppo simili alle macchine, lasciando che software e IA prendano decisioni al nostro posto disabituandoci a compiere delle scelte autonome. La minaccia della disumanizzazione può interessare diversi aspetti ed è un cambiamento concreto da non sottovalutare. Ad esempio i social media, che utilizziamo tutti giorni, sono strumenti digitali fuorvianti che attraverso dati algoritmici sostituiscono i rapporti sociali ed influenzano le nostre scelte. La stessa dinamica si evidenzia, in maniera ancora più acuta, anche con gli assistenti digitali personali come l’Assistente Google ed Alexa di Amazon, che promettono di svolgere sempre più attività per noi, facendoci gradualmente dimenticare di compiere azioni comuni come accedere la luce del bagno o regolare il termostato».

Ecco adesso il “lato critico”: «La tecnologia viene sempre creata dagli umani e a sua volta ridefinisce ciò che possiamo fare e che faremo. […] L’umanesimo progressista si basa su “esseri umani fantastici sulla cima di una tecnologia straordinaria” non rifiutando la tecnologia stessa, ma rifiutando l’idea che la tecnologia sia lo scopo stesso. Lo scopo della vita è il progresso umano collettivo!»

Non c’è il minimo dubbio: «La tecnologia viene sempre creata dagli umani»; ma questa stessa prassi creatrice non è nemmeno concepibile, né spiegabile, se non si prendono in considerazione i rapporti sociali che dominano in una determinata epoca storica, il reale processo sociale che rende possibile la vita degli uomini, la loro multiforme attività. È verissimo che il desiderio di conoscere e di trasformare il mondo è una qualità peculiarmente umana; essa però non si dà in astratto, a prescindere da specifici e sempre mutevoli presupposti storici e sociali. La storia del pensiero scientifico e della tecnologia ci mostra fino a che punto essi siano sempre stati intimamente connessi alla reale struttura sociale delle comunità umane, agli interessi che fanno capo in primis alle classi dominanti, e questo aspetto è diventato di un’evidenza solare quantomeno all’inizio della Prima rivoluzione industriale. Nella nostra epoca la tecnoscienza è in primo luogo e fondamentalmente legata agli interessi capitalistici; essa è lo strumento più potente di cui dispone il capitale per rendere più produttivo il lavoro umano, per accrescere il suo dominio sulla natura, per moltiplicare all’infinito le sue occasioni di profitto. La tecnoscienza è essa stessa capitale all’ennesima potenza, ed è per questo che ho trovato sommamente feticistico il titolo del libro di Leonhard: infatti, ciò che opprime e minaccia la vita dell’umanità non è la Tecnologia ma il Capitale.

Lo sanno tutti, per fare un esempio legato alle recenti celebrazioni lunari, che dietro la sfida tecnologica e scientifica tra russi e americani per la “conquista dello spazio” c’erano interessi assai poco “umanistici”, compendiabili nel concetto di competizione imperialistica tra le due maggiori Superpotenze dell’epoca. Una competizione sistemica, “a 360 gradi”: tecnologica, scientifica, politica, militare, economica, ideologica.

Come tutti gli intellettuali “umanisti” e “progressisti” di questo mondo, Leonhard accetta, non si sa se a malincuore, il capitalismo, ma poi ne critica i “lati negativi” (come se fosse possibile separarli, anche solo concettualmente, da quelli “positivi”) e prospetta un’azione più chimerica che visionaria: renderlo “più umano” attraverso una “rivoluzione etica” che dovrebbe coinvolgere capitalisti, politici, scienziati e l’intera opinione pubblica.

La domanda eticamente corretta, sostiene giustamente Leonhard, non è quella che chiede se la tecnologia può fare questa o quella cosa, ma in vista di che cosa la usiamo, per raggiungere quale fine: per fare più soldi? per controllare la vita delle persone? per battere il nemico e vincere le guerre (militari, commerciali, tecnologiche, scientifiche, geopolitiche)? «Ci sono cose che probabilmente non dovremmo fare, anche se possiamo». Giustissimo! Ma chi decide, “in ultima analisi”, su tutti questi problemi?

Certo, a ben considerare non c’è solo un problema legato all’uso capitalistico delle macchine e della scienza, ma ce n’è un altro che chiama in causa anche il tipo di tecnologia e di scienza che si armonizza con i bisogni di una comunità autenticamente umana. Ovviamente lungi da me azzardare soluzioni concrete a questo problema, le quali sono interamente nelle mani di una possibile (“futuribile”) Comunità umana, che per essere tale come minimo non deve conoscere alcun tipo di divisione classista degli individui, alcun tipo di rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Ma con il pensiero sono salito troppo in alto, sul pianeta Utopia: mi scuso e rimetto i piedi sul nostro capitalistico pianeta.

Ridiamo la parola al futurista: «L’obiettivo che mi pongo con questo libro è quello di dare risonanza e imprimere velocità al dibattito su come fare in modo di guidare, sfruttare e controllare gli sviluppi scientifici e tecnologici perché raggiungano il loro scopo primario, ovvero servire il genere umano e promuoverne la prosperità». Che bei pensieri, e soprattutto che originalità di concezione. E tuttavia! Un altro tedesco, questa volta di Treviri, instilla nella mia debole mente un inquietante dubbio: siamo proprio sicuri che nella nostra società lo «scopo primario [degli] sviluppi scientifici e tecnologici» sia quello di «servire il genere umano e promuoverne la prosperità»?

Ora, per credere in perfetta buonafede che nella Società-Mondo del XXI secolo, nella società dominata in modo sempre più totalitario dagli interessi economici, «lo scopo della vita» possa essere «il progresso umano collettivo», bisogna avere davvero un ben misero concetto di «progresso umano», di umanità. E bisogna aver maturato una consapevolezza davvero indigente circa la natura di questa società, per credere che le questioni etiche possano imporsi agli interessi economici e politici, «solo che noi lo vogliamo» – a patto però che non mettiamo radicalmente in questione il capitalismo!

«Lo sviluppo tecnologico esponenziale nei settori come quello dell’informatica e del deep learning, delle nanoscienze, delle scienze materiali, dell’energia (batterie!), eccetera significa oltre ogni dubbio che stiamo rapidamente avvicinandoci al punto dove computer, robot e intelligenza artificiale avranno la stessa potenza di calcolo del cervello umano (10 quadrilioni di CPS – connessioni per secondo). Raggiungeremo la cosiddetta singolarità (3) probabilmente in meno di 10 anni. Quando ciò accadrà, avremo bisogno di decidere se vogliamo “fonderci” con le macchine oppure no, e la posizione che prendo in questo libro è chiara: dovremmo sfruttare la tecnologia, ma non diventarla perché la tecnologia non è ciò che cerchiamo, è come cerchiamo!». E dunque? Che fare? «Dobbiamo investire in modo pesante in ciò che chiamo “umanesimo esponenziale“, ovvero dare soldi veri per lo sviluppo umano (e sì, al di sopra della tecnologia), salvaguardando la nostra umanità in maniera molto simile a come già salvaguardiamo la natura». È chiaro, almeno questo appare a chi scrive, che l’«umanesimo esponenziale» reclamizzato da Leonhard, se probabilmente otterrà un certo successo sul mercato delle idee politicamente ed eticamente corrette (leggi: “progressiste”), certamente non salverà l’umanità dalla pessima vita che già sperimenta e da quella ancor più cattiva (il peggio, com’è noto, non conosce saturazione) che la attende in assenza di una rivoluzione sociale in grado di spezzare il circolo fatale della coazione a ripetere del Dominio. Lo so, smotto sempre nell’utopia! Sempre meglio però di rimanere impigliati in mostruose chimere concettuali. Si pensa alla «nostra umanità» nei termini di una dimensione residuale da «salvaguardare» come facciamo con i parchi e gli zoo: che tristezza! Mi correggo: che indigenza concettuale! Se l’etica progressista sostenuta dal nostro futurista è l’ultima chance che ci rimane, la partita è già persa. Ma non affrettiamo i tempi e continuiamo a sperare in qualche sua inaspettata genialata etico-politica.

«La mia convinzione è che questa è la nostra ultima possibilità di mettere in discussione la natura delle sfide che ci attendono»: ma intanto bisogna aver compreso l’essenza (capitalistica) di quella natura, e non mi sembra che egli ci sia riuscito, neanche lontanamente. «È tempo di intavolare un dibattito etico sulla tecnologia digitale, che rappresenta una minaccia al progresso umano potenzialmente maggiore della proliferazione nucleare»: ma, come forse ho già detto, ciò che ci minaccia tutti i giorni, e che domina in guisa di «potenza estranea e ostile» le fonti essenziali della nostra esistenza è il rapporto sociale capitalistico! È su questo disumano rapporto sociale che dovremmo «intavolare un dibattito etico» planetario. Non sono gli «algoritmi, i software e l’intelligenza artificiale che puntano sempre di più a “mangiarsi il mondo”»: come ho scritto nell’ultimo post dedicato a Libra, la “futuristica” moneta di Facebook, è il Capitale che punta sempre più a mangiarsi il mondo. «È la nostra ultima possibilità di decidere fino a che punto permetteremo alla tecnologia di plasmare le nostre vite»: ma il Capitale plasma e riplasma sempre di nuovo, e ormai da moltissimo tempo (Marx ed Engels iniziarono a parlarne già negli anni Quaranta del XIX secolo), le nostre vite, le quali per l’essenziale rispondono a un meccanismo sociale che né comprendiamo né controlliamo – piuttosto ne siamo controllati. Ciò a cui assistiamo è l’ennesima accelerazione del processo sociale capitalistico, e altre ne conosceremo in futuro, non v’è da dubitarne, perché il capitalismo non può vivere senza una permanente rivoluzione sociale che allarghi a dismisura il suo spazio di profittabilità (un vero e proprio spazio vitale) e gli permetta di superare limiti e contraddizioni d’ogni tipo. Non si tratta di sottovalutare i rischi futuri: si tratta piuttosto di capire ciò che accade oggi. Sul fondamento sociale che sostiene le nostre vite, tutto il male immaginabile è possibile, e il cosiddetto secolo breve lo dimostra in modo esemplare.

«Il futuro dell’umanità non dovrebbe costituire un paradigma generico dell’età industriale basato sul profitto e sulla crescita a tutti i costi, o un obsoleto imperativo tecnologico che poteva andar bene negli anni Ottanta». Ma «non dovrebbe» sulla base di quale presupposto? Perché «non dovrebbe», se i rapporti sociali del XXI secolo sono gli stessi che vigevano nel XX secolo? Su quale realistico, e non ideologico, presupposto l’imperativo categorico del profitto «non dovrebbe» plasmare il futuro dell’umanità esattamente come plasma il suo presente?

«Né la Silicon Valley né i Paesi più tecnologizzati al mondo dovrebbero diventare la “sala di controllo dell’umanità” solo perché generano sempre nuovi e ingenti flussi di entrate»: e perché mai «non dovrebbero», se la nostra esistenza oggi dipende dai «flussi di entrate»? Il Capitale, come relazione e come potenza sociale, è ormai da qualche secolo al centro della «sala di controllo dell’umanità», ma evidentemente il nostro futurista ancora non l’ha capito. Capita!

Anziché coltivare paure e angosce sul possibile avvento dell’epoca post-umana o transumana (4), dovremmo piuttosto riflettere sulle inevitabili conseguenze che ci derivano da rapporti sociali disumani, sul carattere sostanzialmente – e necessariamente – disumano della nostra società. Per come la vedo io, solo se il pensiero si sforza di cogliere le radici della cattiva condizione umana, e non si accontenta di analizzarne e descriverne la fenomenologia, si mette nelle condizioni di riempire di vita e di senso (umano) ciò che chiamiamo etica.

Alla fine l’«etica digitale» prospettata da Leonhard come una vera e propria (nonché ennesima) “rivoluzione culturale” rischia di esaurirsi nella solita retorica “antivirtualistica” intesa a spingere la gente a riconciliarsi con il “mondo reale” (il quale evidentemente non dev’essere poi così pieno di attrattive): «Abbiamo davvero bisogno di fotografare o riprendere tutto ciò che ci circonda per creare un’esaustiva “memoria meccanica nel cloud” delle nostre vite? Abbiamo davvero bisogno di condividere ogni aspetto della nostra vita su piattaforme digitali e social network? Questo ci fa sembrare (e sentire) ancora umani o, in un certo qual modo, più simili ad automi? Abbiamo davvero bisogno di fare affidamento su applicazioni di traduzione dal vivo, come SayHi o Microsoft Translator, per conversare con qualcuno in un’altra lingua?» Lascio ai lettori il compito di rispondere a queste originalissime e profondissime domande.

 

(1) «Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la sua coscienza di se stesso come un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria produttività, mentre di fatto l’individuo, nell’economia moderna, funge da semplice agente del valore. […] Decisiva, nella fase attuale, è la categoria della composizione organica del capitale. Con questa espressione la teoria dell’accumulazione intendeva “l’aumento della massa dei mezzi di produzione a paragone della massa della forza-lavoro che li anima”. Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo. […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”» (T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994).
(2) «Intendo con ciò vergogna che si prova di fronte all’umiliante altezza di qualità degli oggetti fatti da noi stessi. […] Non c’è progresso nella produzione degli esseri umani. Il modello rimane quello che era in origine. Il progresso, che tanto si loda, è delle cose; esse sono la storia. L’uomo è arretrato, immutabile, inerte nel cammino trionfale del progresso tecnologico. […] Invecchiamo ma non miglioriamo, […]siamo fatti del peggior materiale» (G. Anders, L’uomo è antiquato, 1956, p. 57, Bollati Boringhieri, 2007).
(3) Sull’avvento della mitica Singolarità circolano diverse idee nel vasto mondo dei “futurologi”. Cito solo una posizione: «Ma se la Singolarità tecnologica è possibile, essa si realizzerà. Anche se tutti i governi del mondo comprendessero la minaccia e ne fossero mortalmente spaventati, il progresso verso la Singolarità continuerebbe. I vantaggi competitivi – economici, militari e perfino artistici – di ogni progresso nell’automazione è talmente allettante che l’imposizione di divieti non farebbe altro che permettere a qualcun altro di essere il primo» (G. Vincenzo, R. Gregorio, Le tecnologie dirompenti. Intelligenza artificiale, realtà virtuale e realtà aumentata, PDF, 2017. Naturalmente qui si parla, senza averne la più pallida consapevolezza, del Capitale, non della cosiddetta «Singolarità tecnologica», concetto molto suggestivo sul piano filosofico ed estetico, ma del tutto inconsistente sul terreno dell’analisi storica e sociale dei fenomeni umani. Ma gli autori non lo sanno, come si evince dai passi che seguono: «Non possiamo prevenire la Singolarità, perché il suo arrivo è una conseguenza inevitabile della nostra competitività naturale e delle possibilità intrinseche della tecnologia». Qui feticismo antropologico e feticismo tecnologico si sposano a meraviglia, creando un mostriciattolo concettuale davvero… singolare!
(4) I post-umanisti preconizzano con orrore una società nella quale ci sarà assai poco di umano, non più che un resto residuale sottoposto permanentemente alla pressione della tecnoscienza; i transumanisti pensano invece a un’umanità potenziata, anche dal punto di vista psicosomatico, dalla tecnologia, e proprio questo consentirebbe al “nuovo uomo” di riconquistare il centro della scena. Naturalmente esistono diverse gradazioni delle due posizioni e diverse “scuole di pensiero” che le declinano.

Leggi anche:

Io non ho paura – del robot; Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

SORVEGLIARE E PROFITTARE

Quando il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare.

Capitalismo cognitivo, capitalismo delle piattaforme, capitalismo digitale, capitalismo predittivo, capitalismo di sorveglianza: sono molte le definizioni che economisti e sociologi usano per dar conto del Capitalismo del XXI secolo come si presenta ai loro occhi attraverso le sue continue e sempre più rapide trasformazioni. Ora è appunto la volta del cosiddetto Capitalismo di sorveglianza, definizione che forse dobbiamo al libro di successo scritto nel 2018 da Shoshana Zuboff (The Age of Surveillance Capitalism), docente di economia aziendale di Harvard e mille altre cose ancora. Ho scritto forse perché molti attribuiscono la primazia di quella definizione all’esperto e “guru” della sicurezza Bruce Schneier, il quale ha scritto che «la sorveglianza è il modello di business di Internet»; tra poco dovrebbe uscire il suo ultimo saggio dal titolo poco rassicurante: Clicca qui per uccidere tutti quanti. Gli odiatori di tutto e di tutti, così presenti e attivi sui social, ne stanno aspettando la pubblicazione con la bava alla bocca…

Al centro del capitalismo di sorveglianza la Zuboff colloca ovviamente l’Intelligenza Artificiale, la quale permette ai “sorveglianti” (Google, Facebook, ecc.) di acquisire dati e informazioni sulle persone, il più delle volte senza che esse ne abbiano la minima contezza, e di trasformare quei dati e quelle informazioni in preziosa materia prima “algoritmica” utile a confezionare profili digitali da collocare sul mercato – incluso quello politico-ideologico. Niente di nuovo, parrebbe di capire, e io stesso ne ho parlato in diversi post (1). Per dirla con Toni Negri (e cioè malissimo), siamo passati da un’accumulazione basata sull’estrazione di plusvalore a un’accumulazione centrata sull’estrazione di dati personali. Naturalmente il passaggio è puramente immaginifico, perché l’estrazione del plusvalore dal lavoro vivo  (vampirizzato dal lavoro morto) «è una tremenda verità» anche nel XXI secolo, e senza questa vitale estrazione non sarebbe possibile nemmeno il “Capitalismo di sorveglianza”, qualunque cosa questa locuzione significhi.

Scriveva Marika Surace nel lontanissimo 2005: «L’espressione “società della sorveglianza” è stata spesso ascritta a David Lyon, sociologo canadese che ha studiato, in molte sue opere, gli effetti dei nuovi mezzi di controllo sociale, e delle loro interazioni con le più recenti tecnologie informatiche. In realtà, il primo a parlare di “società della sorveglianza”, è stato Gary T. Marx, in un articolo comparso nel 1985 sulla rivista The Futurist. Il sociologo statunitense analizza il forte cambiamento avvenuto nel passaggio dall’era moderna all’era postmoderna, in cui le nuove tecnologie assumono un ruolo principale nel nuovo assetto sociale, ed afferma senza timore che “grazie alla tecnologia informatica sta crollando una delle ultime barriere che ci separano dal controllo totale”. Gary T. Marx definisce questo fenomeno “New Surveillance”: lo scopo della sua analisi è proprio quello di marcare le differenze tra la sorveglianza sviluppatasi con la nascita degli stati moderni nel XIX secolo, quando la raccolta dati serviva allo stato per amministrare la nazione, e la sorveglianza contemporanea, quella in cui non solo lo stato, ma anche le aziende commerciali, le assicurazioni, agenzie ed organizzazioni dei più svariati settori raccolgono ed elaborano informazioni personali su chiunque, con lo scopo di controllarne e manipolarne le interazioni sociali, le preferenze, le opinioni» (2).

Questo solo per dire quanto lontano nel tempo rimonti il concetto di “Capitalismo di sorveglianza”, la cui prassi è ormai da anni sotto gli occhi di tutto, e quanto stretto sia il legame tra il controllo sociale ai fini della salvaguardia dello status quo sociale e il controllo sociale ai fini della mercificazione di tutte le attività umane. Detto altrimenti, il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare. Qui il concetto di sussunzione totalitaria della Società-Mondo (natura compresa) da parte del Capitale gira a pieno regime. Il «totalitarismo della sorveglianza» denunciato da molti analisti politici e da non pochi sociologi sparsi ai quattro angoli del mondo ha a mio avviso questo preciso significato politico-sociale.

Scrive Shoshana Zuboff: «Il capitalismo di sorveglianza tratta unilateralmente l’esperienza umana come materia prima libera per la traduzione in dati comportamentali. Sebbene alcuni di questi dati siano applicati al miglioramento del servizio, il resto viene dichiarato come un avanzo comportamentale proprietario, alimentato in processi di produzione avanzati noti come “intelligenza artificiale” e fabbricati in prodotti di previsione che anticipano ciò che farai ora, presto e dopo . Infine, questi prodotti di previsione sono scambiati in un nuovo tipo di mercato che io chiamo mercati dei futures comportamentali. I capitalisti di sorveglianza sono cresciuti immensamente ricchi da queste operazioni commerciali, poiché molte aziende sono disposte a scommettere sul nostro comportamento futuro». Qui fa capolino il concetto di “Capitalismo predittivo”, il quale si sposa benissimo con il concetto di sicurezza predittiva (repressione preventiva  dei potenziali reati o precrimine), come già segnalavo su un post del 2014: «Il giornalista Paolo Bottazzini, esperto in tecnologie intelligenti applicate al controllo sociale, è sicuro: “Minority Report è realtà. La polizia statunitense prevede i crimini”» (L’algoritmo del controllo sociale). Oggi è la Cina che sul terreno della sicurezza predittiva si colloca decisamente all’avanguardia mondiale: rinvio al post Riflessioni orwelliane. Qui mi limito a segnalare quanto si dibatte in sede di riflessione politica e sociologica circa l’impatto immediatamente politico che le tecnologie cosiddette intelligenti hanno al contrario delle tecnologie del periodo “fordista”. Si osserva in particolare che mentre la tecnologia “stupida” di una volta non metteva in crisi la democrazia parlamentare e i suoi tradizionali soggetti (partiti, sindacati, “corpi intermedi” di vario tipo), la tecnologia “intelligente” dei nostri tempi starebbe invece per ribaltare completamente il vecchio scenario, rendendo obsoleta l’architettura politico-istituzionale dell’Occidente come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. In Italia ovviamente si cita il caso della famigerata piattaforma Rousseau che, com’è noto, fa capo alla Casaleggio & Associati. In un’intervista di qualche tempo fa Davide Casaleggio teorizzava senza giri di parole il superamento della democrazia rappresentativa: «I modelli novecenteschi stanno morendo, dobbiamo immaginare nuove strade e senza dubbio la Rete è uno strumento di partecipazione straordinario. Per questo la cittadinanza digitale deve essere garantita a tutti. […] Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile» (La Verità). Il sogno di Casaleggio è vedere tutti i pesci che nuotano nel Web finire dritti dritti nella sua Rete, dove tutti sono uguali e solo pochissimi sono più uguali degli altri, come i maiali della nota Fattoria. La chiamano “democrazia diretta” – dai maiali di cui sopra. Di certo chi scrive non verserà democratiche lacrime sul «superamento della democrazia novecentesca».

«Sono trent’anni che si parla di Grande Fratello, ben prima delle nuove tecnologie. Direi che il tema risieda altrove, non nel progresso tecnologico»: qui Casaleggio dice, suo malgrado, il vero.

Scrive James Bridle: «La litania di esperienze appropriate viene ripetuta così spesso e così estesamente che siamo diventati insensibili, e così dimentichiamo che non si tratta di una visione distopica del futuro, ma del presente. Originariamente intento a organizzare tutta la conoscenza umana, Google ha finito per controllare tutti gli accessi ad esso; facciamo una ricerca e ci perquisiamo a turno. Partendo solo per connetterci, Facebook si è trovata in possesso dei nostri più profondi segreti. E nel cercare di sopravvivere commercialmente oltre i loro obiettivi iniziali, queste aziende si sono rese conto di stare seduti su un nuovo tipo di risorsa: il nostro “surplus comportamentale”, la totalità delle informazioni su ogni nostro pensiero, parola e azione, che potrebbero essere scambiate a scopo di lucro su nuovi mercati basati sulla previsione di ogni nostra esigenza o sulla sua produzione» (The Guardian). In effetti scandalizzarsi per l’uso capitalistico che della nostra vita privata fanno i colossi dell’industria “esistenziale” (Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple) è davvero ingenuo, e piuttosto l’attenzione critica andrebbe posta sull’estrema facilità con cui siamo disposti a regalare a quei colossi la materia prima che essi trasformano in prodotti commerciali. E a mio modesto avviso non vale, o comunque non vale più, il discorso secondi cui le persone che usano i social sono ignari di quel che si muove nel retroscena digitale: magari non conosciamo i dettagli tecnici della cosa, ma ormai tutti noi abbiamo capito che in cambio di un qualche servizio gratuito che riceviamo offriamo qualcosa a chi gentilmente ce lo “regala”. E quel qualcosa non può che essere la massa di dati che ogni giorno immettiamo sul Web. È ingenuo e abbastanza confortante (e perciò stesso sbagliato) pensare che si tratti solo di ignoranza da parte dell’utente, e che quindi per il pensiero “critico” si tratterebbe solo di informarlo circa l’uso capitalistico della sua cosiddetta privacy. Non è così: siamo tutti complici più o meno zelanti del “Capitalismo di sorveglianza”; sappiamo che dobbiamo pagare un prezzo (non ci vuole un Adam Smith o un Karl Marx per capire che nel Capitalismo nessun pasto è gratis), e oggi siamo disposti a pagarlo, per poi magari odiare a morte i padroni dei big data quando leggiamo notizie circa i loro stratosferici guadagni.  Sotto questo aspetto Hai Varian, capo economista di Google e tra i padri della microeconomia contemporanea, ha buon gioco nel dire che «Le persone sono ben contente di vedere la loro privacy invasa […] purché ricevano in cambio quello che desiderano […]: uno sconto su una polizza assicurativa o sanitaria, un mutuo ad un tasso più conveniente. […] Tutti sono pronti ad essere tracciati e monitorati poiché i vantaggi attesi in termini di risparmio, efficienza e sicurezza sono enormi».

In questo contesto atomizzazione degli individui, registrato dagli analisti sociali come «individualismo sfrenato», e loro massificazione («siamo diventati materia prima digitale») sono le due brutte facce di una stessa medaglia, e la cosa non può non avere precisi riscontri anche sul terreno della politica e della «psicopolitica», come il filosofo Byung Chul Han ha definito la pratica delle fake news, dei pregiudizi e delle minacce che si fanno l’un contro l’altro armati (per adesso solo di computer) gli «atomi digitali».

«La storia principale è che non si tratta tanto della natura della tecnologia digitale quanto di una nuova forma mutante di capitalismo che ha trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi. Il nome che Zuboff ha dato alla nuova variante è il “capitalismo di sorveglianza”. Funziona fornendo servizi gratuiti che miliardi di persone utilizzano allegramente, consentendo ai fornitori di tali servizi di monitorare il comportamento di tali utenti in modo sorprendente – spesso senza il loro esplicito consenso». J. Naughton, (The Guardian) Ma a ben vedere, da che esiste il moderno Capitalismo «la storia principale» non è mai stata, in primo luogo, la «natura della tecnologia», quanto soprattutto il suo uso capitalistico. Non è che il capitalismo dei nostri giorni ha finalmente trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi, una lettura piuttosto ingenua (a testa in giù, avrebbe detto Marx) dei processi sociali cui assistiamo su scala planetaria; è che il Capitale come peculiare rapporto sociale produce sempre di nuovo la tecnologia a immagine e somiglianza della sua insaziabile fame di profitto. Il Capitale promuove la ricerca scientifica per espandere continuamente il suo potere di dominio sugli uomini, sulle cose e sugli animali: l’ha sempre fatto e continuerà a farlo in modo sempre più stringente, capillare, razionale, scientifico, in una sola parola: disumano.

A proposito di animali! Dall’Internet degli uomini siamo passati all’Internet delle cose, e adesso è il momento, appunto, dell’Internet degli animali: «Le mucche sono un buon esempio di queste opportunità. Usando il sistema di monitoraggio di Estrus di Huawei per connettere una mucca a Internet, gli allevatori possono controllare meglio la salute dell’animale e il tempo di deposizione dello sperma, consentendo al tempo stesso una maggiore libertà di vagabondare senza preoccuparsi del pericolo. Utilizzando la rete NB-IoT, il dispositivo di monitoraggio della vacca può funzionare per cinque anni con una batteria 5400mAH. Ci sono ovviamente altri benefici per l’animale e l’agricoltore, e Hu ha evidenziato che ogni vacca collegata nello studio ha fruttato 420 dollari extra per l’agricoltore nella produzione di latte» (J. Davies, Telecoms). Sono davvero commosso per i «benefici» arrecati dalle nuove tecnologie intelligenti agli animali manipolati dal Capitale . Scrive Ugo Bertone: «Non meno impegnativa la scommessa di Wang Yufeng: connettere, entro il 2025, un miliardo di vacche. Un’impresa faraonica ma inquietante: dalle vacche agli uomini il passo può essere breve» (Il Foglio). Ma il passo è già stato compiuto: tutti siamo connessi in qualche modo alla rete capitalistica! Per Wang Yufeng, responsabile degli X Lab di Huawei, «Negli ultimi venti anni i progressi della tecnologia ci hanno permesso di connettere gli esseri umani. Ora ci prepariamo al passo successivo: vogliamo che sia l’intelligenza artificiale a prendere il controllo del mondo fisico. Droni e robot devono essere connessi e autonomi. La parola d’ordine è connettività per tutti» (Il foglio). Ecco, appunto.

Detto en passant, la vacca “intelligente” mi ha fatto venire in mente un passo marxiano, questo: «Il capitale preso nell’unico rapporto in cui genera plusvalore […] smunge plusvalore tramite la costrizione fatta sulla forza lavorativa, vale a dire sull’operaio salariato» (3). Smunge… Sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici la vacca “intelligente” e l’operaio salariato condividono lo stesso pessimo destino.

«Le aziende hanno deciso che siamo gratis, cioè che possono prendere la nostra esperienza gratuitamente e tradurla in dati comportamentali. Così siamo diventati la loro materia prima» (S. Zuboff). La tecnoscienza è sempre stata al servizio del Capitale, che se ne serve per rendere più produttivo il lavoro, per inventare a getto continuo nuove e più promettenti occasioni di profitto, per fare della stessa esistenza degli individui un bio-mercato, per trasformare ogni cosa in una risorsa economica: dal “capitale tecnoscientifico” al “capitale umano”, dal “capitale natura” al “capitale cultura”, e via di seguito – una via che conduce ossessivamente l’umanità in direzione del denaro, il Moloch che decide la vita di tutti i suoi sudditi. Per dirla con Jamie Davies, «La tecnologia è il burattino, ma il capitalismo di sorveglianza è il burattinaio». Non c’è dubbio: il «burattinaio» è il Capitale.

«Il capitalismo della sorveglianza ha preso l’esperienza umana e l’ha trasformata in qualcosa da comprare e vendere sul mercato» (S. Zuboff). Proprio così. Mercificare l’intero spazio esistenziale degli individui è sempre stato un imperativo categorico per il Capitale, e nel XXI secolo questo principio si mostra assai più che nel passato nella sua radicale essenza disumana. Il nostro stesso corpo (nella sua totalità e unità psicosomatica) sta diventando una sorta di touch screen a disposizione del Capitale. Ma la “colpa” non è della tecnoscienza che avrebbe reso possibile la realizzazione della cattiva ”utopia” capitalistica, ma del Capitale, il quale per un verso orienta la tecnoscienza in direzione di invenzioni che – ovviamente – sorridono ai suoi interessi, e per altro verso ha acquisito nel tempo la capacità di sfruttare ogni invenzione e ogni evento che non ne mettono in discussione l’esistenza in un’occasione, prima solo potenziale e presto o tardi fattuale, di profitto. È nella maligna (disumana) natura del Capitale muoversi in quel modo, ed è quindi ingenuo attendersi da questa società altro che una sua totale mercificazione (a iniziare dalle attività lavorative) e una sua trasformazione in una gigantesca (planetaria!) occasione di profitti per chi ha la fortuna di poter investire capitali in qualche business. Più che di Intelligenza Artificiale dovremmo piuttosto parlare di Intelligenza del Capitale.

Qui parlo di Capitale in primo luogo come rapporto sociale e come potenza sociale che, marxianamente, domina sulla vita di tutti gli individui, i quali non controllano razionalmente le fonti vitali della loro esistenza, ma ne sono piuttosto controllati. Chi paventa il «potere autonomo delle macchine» non si accorge che quell’autonomia fa capo al Moloch capitalistico, il quale si serve appunto delle “macchine intelligenti” per rafforzare, espandere e approfondire sempre di nuovo il suo dominio sugli uomini, sulla natura e sulle cose.

Per Sebastiano Bagnara, docente di Human Factors all’Università di San Marino ed esperto di interazione uomo-macchina, i principi fondamentali della «roboetica, l’etica dei robot» (la quale segna i confini entro cui utilizzare i robot senza perderne il controllo), «erano già impliciti nei principi della robotica di Asimov, il grande romanziere di fantascienza che ne scrisse negli anni Cinquanta: i robot potevano esistere solo al servizio delle persone. Ma sarà sempre così?» (Offida.it). Fin dove è possibile, si chiede sempre Bagnara, spingere l’autonomia delle macchine intelligenti senza correre il rischio, appunto di perderne il controllo e ricevere un danno, anziché un vantaggio, dal loro impiego “a 360 gradi” (dalla produzione di beni e servizi alla produzione di salute, benessere e cultura)? Risposta: «Quello che possiamo fare non è tanto resistere al sistema e uscire dai social media, ma recuperare la dimensione riflessiva del pensiero, non accettare acriticamente ciò che accade e coltivare il dibattito su come vogliamo usare questi software e per quali scopi. Perché esercitare il pensiero aiuta a proiettare anche nuove realtà possibili». La risposta non eccelle per originalità e in linea di principio appare perfino condivisibile, almeno a chi scrive. Ma già l’acritica accettazione del concetto di roboetica la dice lunga su quanto sia oltremodo difficile praticare un pensiero autenticamente critico sull’uso sociale della tecnologia, e su quanto il feticismo tecnologico, che cammina sempre insieme al pensiero reificato, sia profondamente radicato nella nostra testa.

Il linguaggio reificato e feticizzato del XXI secolo trova forse nei discorsi intorno alla cosiddetta “Intelligenza Artificiale” la sua massima espressione. Le macchine non pensano, le macchine calcolano, computano in base a istruzioni (software) e a meccanismi tecnici (hardware) progettati, disegnati, impostati e costruiti dall’uomo per conseguire determinati obiettivi. Si può parlare di “intelligenza” e di “pensiero” artificiali solo al prezzo di stressare oltremodo il linguaggio e di sostituire alla cosa reale (un calcolo più o meno complesso e un movimento elettromeccanico che lo rende possibile e fruibile) un’espressione analogica («la macchina sta pensando») che dice la verità, appunto, solo intorno all’alto tasso di feticismo e di reificazione raggiunto dal pensiero in questo periodo storico.

Come dicevo sopra, tutto il chiacchierare intorno all’Intelligenza Artificiale che rischierebbe di dominare l’umanità cela, e al contempo rivela, il reale dominio delle potenze sociali capitalistiche sull’uomo, il quale non solo non controlla quelle potenze, ma le subisce in un grado sempre più forte e stringente. Il fantascientifico dominio del robot “intelligente” rinvia direttamente al realissimo dominio totalitario del Capitale sugli uomini e sulle cose. Il feticismo si deposita sul linguaggio. Il linguaggio degli algoritmi è al servizio della dura grammatica e della ferrea logica del rapporto sociale capitalistico: altro che “Algocrazia”!

(1) Siamo uomini o “profili”?; Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

(2) Dalla sorveglianza moderna alla New Surveillance: il ruolo delle tecnologie informatiche nei nuovi metodi di controllo sociale.

(3) K. Marx, Il Capitale, III, pp. 1470-1772, Newton, 2005.