SULL’ACCORDO CINA-UE DEL 30 DICEMBRE 2020

Qui di seguito cercherò di dare una mia prima valutazione sul significato del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) firmato il 30 dicembre scorso dalla Cina e dall’Unione Europea, e lo farò come sempre riportando le considerazioni di analisti e politici che mi sono sembrate più interessanti – non necessariamente più condivisibili, soprattutto sul piano dell’interpretazione politica di fondo, com’è ovvio.

Sul terreno propriamente economico, il Comprehensive Agreement on Investment appare come un netto successo per l’UE (e, sembra quasi inutile precisarlo, soprattutto per la Germania), la quale strappa a Pechino una serie di importanti concessioni, come l’accesso agli investitori europei di diversi settori dell’industria, dei servizi e della finanza cinesi, compresi alcuni di quelli considerati strategicamente “delicati”, come le telecomunicazioni. Scrive Alessia Amighini: «Le aziende europee avranno ora un migliore accesso ai settori manifatturiero, ingegneristico, bancario, contabile, immobiliare, delle telecomunicazioni e della consulenza. I negoziatori della Commissione sono riusciti a inserire una clausola secondo la quale i loro investimenti non devono essere “trattati in modo meno favorevole” rispetto ai concorrenti nazionali. I funzionari dell’UE hanno anche convenuto che la Cina deve essere più trasparente riguardo ai sussidi statali. In cambio di un migliore accesso al mercato europeo ancor più grande di quello che ha oggi, Pechino sarà obbligata a pubblicare ogni anno una lista di sussidi forniti ai settori designati» (ISPI). Inutile dire che su quest’obbligo molti analisti nutrono forti dubbi. «Sul lavoro forzato, una questione che aveva minacciato i negoziati, l’UE ha dichiarato: “La Cina si è impegnata ad attuare efficacemente le convenzioni dell’ILO che ha ratificato, e ad adoperarsi per la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’ILO, comprese sul lavoro forzato“» (South China Morning Post, Hong Kong). Anche su questo “impegno” è lecito nutrire qualche dubbio, diciamo così. Infatti, è dal 2001, anno di ingresso della Cina nel WTO, che Pechino fa “melina” sui suoi impegni riguardanti il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, oggi parlamentare europeo, ha dichiarato: «Le storie che escono dallo Xinjiang sono puro orrore. In queste circostanze, qualsiasi firma cinese sui diritti umani non vale la carta su cui è scritta». Sull’orrore che caratterizza la situazione nello Xinjiang, siamo d’accordo (esclusi ovviamente i miserabili sostenitori del capitalismo con caratteristiche cinesi, soprattutto quelli che si definiscono “comunisti”); sui «cosiddetti diritti umani» (Marx) usati dagli Stati come arma di lotta sistemica (economica, ideologica, geopolitica), personalmente stendo un velo pietosissimo, e il richiamo ai “diritti” mi serve solo per ribadire, per quel che vale, la mia radicale ostilità all’Imperialismo Unitario (ma non unico, tutt’altro!) colto nella sua compatta e disumana totalità (1).

L’accordo del 30 dicembre per un verso si limita a prendere atto di un fatto: oggi l’interscambio commerciale tra l’Unione Europea e la Cina è più intenso di quello che stringe gli europei agli Stati Uniti: secondo l’Eurostat il sorpasso della Cina sugli Usa come principale partner commerciale dell’UE si è consumato a luglio 2020; nei primi dieci mesi del 2020 il volume degli scambi tra UE e Cina si è assestato a 477 miliardi di euro (582,8 miliardi di dollari USA), il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. «Al contrario, il commercio di merci con gli Stati Uniti nel periodo gennaio-ottobre è sceso a 460,7 miliardi di euro, in calo dell’11,2% su base annua. A ottobre, l’Unione Europea ha esportato beni per 178,9 miliardi di euro, in calo del 10,3% su base annua, e ha importato 150,8 miliardi di euro, con una diminuzione del 14,3% rispetto al mese di ottobre del 2019» (Il Sole 24 Ore). Il trend di crescita nell’interscambio commerciale UE-Cina ha subito una netta accelerazione nel 2009, nel momento in cui gli Stati Uniti facevano ancora fatica a trovare un sentiero di crescita dopo la nota crisi.

Par altro verso il CAI pone le premesse per una serie di sviluppi a medio/lungo termine che superano di molto la semplice dimensione economica, andando a investire direttamente i rapporti e gli equilibri geopolitici tra le grandi potenze capitalistiche del mondo. Ed è proprio su questo terreno, tutt’altro che limpido e di facile lettura, che si è focalizzato l’interesse di politici e di analisti geopolitici.

Francia e Germania sembrano aver rilanciato insieme il tradizionale asse strategico Parigi-Berlino che detta l’agenda agli altri Paesi dell’Unione, ma la realtà è che ancora una volta è Berlino che guida le danze, mentre Parigi deve fare buon viso a cattivo gioco per rimanere sulla scia della potenza europea egemone, tanto più che adesso non può più giocare di sponda come prima con la riottosa Gran Bretagna. Controllare la potenza sistemica tedesca per la Francia diventa più difficile che nel passato, e per mascherare la propria debolezza nei confronti della Cancelliera tedesca Macron ha fatto di tutto per strappare a Berlino e a Bruxelles la sua presenza alla videoconferenza del 30 dicembre, cosa che ha fatto irritare soprattutto l’Italia, sempre più fragile e isolata nel contesto europeo e internazionale. Il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto, notoriamente molto legato a Washington, ha espresso le “perplessità” con cui il governo italiano ha seguito le fasi conclusive dell’accordo: «Devo esprimere la mia più grande sorpresa per il formato. Era ovvio che ci fossero Von der Leyen e Michel e per le istituzioni Ue e Merkel come presidente di turno. Ma avere Macron, la scelta di un solo Paese sugli altri 26, non credo si giustifichi. È un formato irrituale che segna anche una sconfitta per noi italiani. E ci dice che quello sciagurato accordo sulla Via della Seta che il precedente governo ha concluso nel 2019 è stato un fallimento completo. Non solo non ci ha aiutato nel rapporto commerciale e ci ha fatto pagare un prezzo politico: non ci ha dato neanche la credibilità per essere leader in questa negoziazione. Fu una mossa sbagliata, che non vincolava i cinesi a nessun obbligo commerciale, ma dava loro un enorme dividendo politico. Tutto questo rivela la nostra debolezza» (Il Corriere della Sera). Una debolezza che l’Italia di oggi esibisce anche nel suo storico cortile di casa, e basta pensare a cosa accade in Libia per averne un immediato riscontro. Per il “nostro” Paese non sarà facile conservare (o riconquistare?) lo status di media potenza regionale.

L’italica irritazione nei confronti della Germania si esprime senza infingimenti “europeisti” soprattutto a “destra”; scrive ad esempio Gianni Micalessin «L’obbiettivo politico ed economico della Cancelliera è emerso in tutta la sua spregiudicata evidenza il 30 dicembre quando, nel penultimo giorno di Presidenza tedesca dell’Unione, è arrivato l’annuncio dell’intesa con Pechino sul trattato per gli investimenti. Il trattato, messo a punto dopo sette anni di negoziati, dovrebbe in teoria garantire ad Europa e Cina un terreno comune per i reciproci affari. In verità rappresenta un meschino e stupido apparentamento con una potenza comunista pronta a farsi beffe dei diritti umani e a venderci merci prodotte grazie al lavoro a costo zero di centinaia di migliaia di musulmani uiguri deportati nei lager e utilizzati alla stregua di schiavi. Dietro l’intesa sugli investimenti ci sono i calcoli di una Cancelliera convinta che il futuro dell’economia tedesca sia strettamente e inevitabilmente legato a Pechino. Dal suo punto di vista non ha torto. L’Europa piegata, ancor prima che dal Covid, dal surplus commerciale teutonico ben difficilmente potrà assorbire ulteriori crescite produttive di Berlino. E ben difficilmente accetterà di farlo un’America decisa, fin dai tempi di Obama, a contrastare la rapacità di una Germania sorda ad ogni richiesta di riequilibrio commerciale». (G. Micalessin, Il Giornale).

Per Carlo Pelanda, docente di Geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi ed esperto di Studi strategici, «al momento, l’accordo è una finzione che evita una restrizione all’export tedesco in Cina da cui dipende una parte rilevante del Pil della Germania (e dell’Italia che fornisce componenti all’industria tedesca). Ma anche una finzione utile a negoziare con gli Stati Uniti. In sintesi, il problema dell’Ue è non riuscire ancora a formulare una strategia di collocamento dell’Ue stessa entro il conflitto tra Cina e America. Merkel lo ha risolto provvisoriamente con una tattica di finzione e rinvio, nonché cerchiobottismo, facendo comunicare al proxy Valdis Dombrovskis che l’accordo con la Cina non impedisce un trattato euroamericano. Ma evidentemente la formulazione di una strategia di collocamento internazionale stabile dell’Ue non è più rinviabile» (La Verità). Non dimentichiamo che appena un anno fa Bruxelles ha definito la Cina «rivale sistemico», offrendo agli Stati Uniti la sponda europea nel suo sforzo di contenimento della Cina.

Interessante questa riflessione “analogica” di carattere storico sempre di Pelanda: «Un fatto curioso mostra la difficoltà di Berlino. Merkel ha usato la tattica cinese, codificata da Sun Tsu (L’arte della guerra) nel 500 avanti Cristo, di usare l’estensione del tempo e la finzione per risolvere un problema contingente, mentre Xi ha adottato lo schema (1831) del prussiano Carl von Clausewitz con enfasi sulla massima rapidità – compressione del tempo, blitz – per raggiungere un obiettivo». Come si spiega, secondo Pelanda, la tattica adottata dal Presidente cinese? «Anche Xi è in difficoltà. Deve contrastare l’isolamento della Cina e, soprattutto, un accordo economico forte euroamericano che creerebbe il nucleo imbattibile di un impero e mercato delle democrazie molto più grande e potente del suo. Ha usato una megacarota, ma anche un megabastone: il ricatto di restringere l’export tedesco se l’accordo non fosse stato firmato entro fine 2020 perché voleva chiuderlo prima che Joe Biden entrasse nei pieni poteri (il 20 gennaio). I collaboratori di Biden, infatti, agli inizi di dicembre hanno dato forti segnali di irritazione nei confronti dell’Ue». E difatti il Financial Times riportava pochi giorni prima dell’accordo una dichiarazione rilasciata da un membro dello “staff di transizione” statunitense, secondo cui «l’amministrazione Biden-Harris ha intenzione di consultarsi con la UE in un approccio coordinato sulle pratiche economiche corrette e altre importanti sfide». La Merkel ha voluto bruciare i tempi e mettere la nuova Amministrazione americana di fronte a un fatto compiuto, un fatto che in ogni caso non preclude nulla e che si segnale piuttosto per la sua molteplicità di interessi e di significati, non necessariamente univoci e coerenti tra loro, tutt’altro.

Per Pelanda, che giudica il CAI «un accordo che apparentemente offre un grande successo al Partito comunista cinese e al suo regime autoritario, aggressivo, repressivo, schiavista e bugiardo», la giusta strategia per l’UE deve necessariamente parlare il linguaggio della forza, il solo che capiscono i “comunisti”: «Stringere con l’America un accordo economico fortissimo, ravvivando quello militare».

Anche per Federico Rampini l’accordo di dicembre segna un punto a favore della Cina: «Nell’applicazione concreta Xi potrà continuare a privilegiare il suo “capitalismo politico”, i campioni nazionali dell’industria di Stato, e a discriminare contro gli imprenditori europei. Le promesse più vaghe sono quelle che riguardano ambiente, diritti umani, trattamento dei lavoratori. Biden può ancora sperare di far deragliare questo accordo nella fase di ratifica all’Europarlamento, dove le obiezioni americane troveranno consensi. Ma non si fa illusioni. Il presidente eletto ha troppa esperienza di politica estera per non capire il segnale che arriva da Bruxelles. L’Ue lo accoglierà a braccia aperte, felice di chiudere il capitolo Trump. Ma un conto saranno le buone maniere, altro è la sostanza» (La Repubblica). E la sostanza è fatta, oggi come ieri e come sempre in regime capitalistico, dagli interessi sistemici e dai rapporti di forza, nient’altro che da questo. Tutto il resto è fumisteria propagandistica venduta ai politici e agli intellettuali di serie B, nonché, soprattutto, all’opinione pubblica interna e internazionale.

«Nella nuova guerra fredda Usa-Cina», continua Rampini, «gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa». Sulla sostanziale continuità della politica estera americana attraverso l’alternarsi delle Amministrazioni presidenziali non è possibile nutrire alcun serio dubbio, anche se sarebbe sbagliato, a mio avviso, pensare al sistema sociale capitalistico americano nei termini di un blocco unico privo di contraddizioni interne, con quel che ne segue anche sul terreno della “dialettica politica” nazionale (2). Mutatis mutandis, e non è davvero poco, analogo discorso vale anche per il sistema sociale capitalistico cinese.

La Commissione europea ha cercato, prima e dopo l’accordo con la Cina, di rassicurare gli “alleati” americani circa l’impegno dell’UE nella comune politica di contenimento del “nemico strategico”: «L’accordo non influirà sull’impegno del blocco per la cooperazione transatlantica, che sarà essenziale per affrontare una serie di sfide create dalla Cina». Ma non saranno certo le dichiarazioni diplomatiche che potranno convincere Washington, e probabilmente non passerà molto tempo per assistere alla contromossa americana. Comunque l’accordo non entrerà in vigore immediatamente, ma dovrà attendere il superamento di non pochi e complessi passaggi politici e tecnici, e questo darà agli europei (soprattutto ai tedeschi) il tempo di aggiustare la loro linea di condotta nei confronti della Cina e degli Stati Uniti. La ratifica da parte del Parlamento Europeo è infatti prevista per il 2022/2023.

Danilo Taino teme una pericolosa “deriva bipolarista”: «Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali, o tra blocchi (la sola Ue ne ha firmati 72). Così, il commercio non è più un veicolo per la collaborazione tra Paesi ma diventa sempre più spesso strumento di alleanze, di divisioni e in certi casi viene “militarizzato” a scopi geopolitici. Se affrontato in una dimensione bilaterale, il rapporto con Pechino è destinato a favorire la divisione del mondo in rapporti preferenziali, nel tempo fondamento di conflitti. Solo in una dimensione multilaterale la relazione con la Cina può avere un carattere proficuo. L’accordo Ue-Cina non va in questa direzione» (Il Corriere della Sera). Che il commercio internazionale sia «un veicolo per la collaborazione tra Paesi» può crederlo solo un bambino o un ingenuo “idealista” di stampo liberale-liberista.

A proposito di ideologia liberale-liberista, vale la pena riportare il pensiero del Caro e Celeste Leader: «Il presidente cinese ha sottolineato che l’accordo avrà una grande forza trainante per la ripresa economica post-pandemica, promuovendo la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti globali, intensificando la fiducia della comunità internazionale verso la globalizzazione economica e il libero commercio e dando importanti contributi cinesi ed europei alla costruzione di un’economia mondiale più aperta» (Formiche.net). Non sono commoventi queste parole? Per il resto, qui è solo il caso di ricordare che la politica della porta (leggi mercato mondiale) aperta è storicamente la politica seguita dalle potenze in ascesa che sanno di poter rivaleggiare con successo con le potenze concorrenti più o meno declinanti. Non dimentichiamo che la firma del Comprehensive Agreement on Investment segue quella che ha suggellato un altro importante accordo commerciale, il Regional Comprehensive Economic Partnership, sottoscritto tra i paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In ogni caso, ancora nel 2021 non bisogna dare come definitivo il declino assoluto della potenza statunitense, la quale possiede tutti i mezzi (compreso ovviamente quello militare) per frenare quantomeno la tendenza a essa sfavorevole.

La crisi pandemica ha proiettato la Cina ancora più in alto nella gerarchia imperialista del pianeta, essendo stato il suo sistema sociale, capitalistico al 100 per 100 (3), quello che è riuscito a subire meno danni rispetto agli altri Paesi concorrenti (Stati Uniti, in primis) e ad avvantaggiarsi di più delle altrui disgrazie. Come in ogni guerra, c’è chi vince e c’è chi perde – e poi ci sono quelli che, pur perdenti, recitano la parte dei vincenti: ogni riferimento alla Francia e all’Inghilterra del 1945 è puramente voluto.

Scrive il “marxista” David Harvey: «L’altro lato che è importante da un punto di vista anticapitalista, è che la Cina è ancora impegnata nella sua posizione marxista. È ancora governata da un partito comunista, e se molti diranno che il Partito Comunista è in realtà un partito di classe capitalista, è comunque un partito nominalmente comunista in cui i pensieri di Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, e ora Xi Jinping, sono considerati come centrali per le loro ambizioni. L’ultimo congresso del partito ha dichiarato che prevede di diventare un’economia pienamente socialista entro il 2050» (L’importanza della Cina nell’economia mondiale, Antiper). Se è per questo, io dichiaro di diventare bellissimo e intelligentissimo entro il 2030, salvo incidenti di percorso sempre possibili nelle ambiziose “fasi di transizione”. Beninteso, si tratta di una mera previsione… «Il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (K. Marx). Certi “marxisti” amano attenersi feticisticamente alla «natura del tutto esteriore» delle cose: contenti loro!

Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, Xi Jinping: che bell’ammucchiata! «Io non sono un marxista!», disse una volta il comunista di Treviri: che saggezza! che lungimiranza!

A proposito: che fine ha fatto Jack Ma?

(1) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporto con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.
(2) L’imperialismo americano tra realtà e “narrazione”; Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”.
(3) Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

 

 

 

 

 

 

 

SULLA CRISI BIELORUSSA

Giusto un anno fa il Presidente della Bielorussia Aljaksandr Lukashenko (o Lukašenka) dichiarava di voler difendere la sovranità nazionale del suo Paese dalle mire espansionistiche russe a tutti i costi, se necessario anche con l’uso della forza militare. «La classe dirigente della Bielorussia ha anche pensato, nelle more della crisi ucraina, che la Russia minacciasse il suo territorio con le esercitazioni militari e si è fortemente insospettita per la domanda, da parte di Mosca, di aprire una base militare nel suo territorio» (Limes). Com’è noto, Russia e Bielorussia sono legate da diversi trattati di “fraterno e mutuo soccorso”, a partire dal Trattato di unione tra Russia e Bielorussia firmato nel 1997 e che ha dato vita all’Unione Russia-Bielorussia. Con il tempo però le relazioni tra i due Paesi si sono per così dire raffreddate, soprattutto perché Mosca non ha mai nascosto la sua volontà di riportare la Bielorussia all’interno dello spazio russo.

Ancora alla vigilia delle elezioni del 9 agosto Lukashenko accusava Mosca di volere complottare contro la Bielorussia, ed evocava il pericolo di un «colpo di Stato» ai suoi danni. «C’è qualche forza esterna interessata a una rivoluzione colorata nel nostro Paese», ha ripetuto diverse volte il Presidente baffuto durante la campagna elettorale, con chiare allusioni a Mosca, a Kiev e a Varsavia. Oggi lo stesso “simpatico” personaggio chiede a Putin di difendere la sovranità della Bielorussia dalle solite “ingerenze esterne”. In realtà, e come sanno tutti, ciò che atterrisce Lukashenko non è il nemico esterno (la Nato, l’Unione Europea, l’Ucraina, la Polonia), ma il nemico interno, ossia una popolazione in larga parte toccata dalla crisi economica e sempre più insofferente nei confronti del regime autoritario messo in piedi dal Presidente nel corso di parecchi anni. Al regime di Lukashenko si rimprovera anche una grave responsabilità nella crisi sanitaria dovuta al Covid-19, e infatti, come scrive Iryna Vidanava, «Gli operatori sanitari, delusi dall’incapacità dello stato di proteggerli e sostenerli, si sono uniti alle manifestazioni e hanno parlato apertamente online per la prima volta. Alcuni sono stati arrestati e hanno perso il lavoro. La polizia ha bloccato le proteste e ha perseguitato attivisti, giornalisti e blogger, anche quelli a cui era stato diagnosticato il virus e che erano ricoverati. I tribunali, al soldo del governo, li hanno condannati a pene detentive. Se questo modo di procedere è noto e frequente in Bielorussia, questa volta è stato in qualche modo diverso. La risposta dello Stato alla pandemia di Covid-19 ha portato a un maggiore dissenso nella società, in un maggior numero di gruppi, come mai prima d’ora» (Debates Digital).

La struttura economica del Paese, in gran parte ancora centrata sul vecchio capitalismo di Stato con caratteristiche “sovietiche”, è da anni entrata in un circolo vizioso che non rende più possibile quella politica assistenzialista che tanti consensi aveva portato all’ «ultimo dittatore europeo». Comprare il consenso popolare in tempi di vacche magre è un’impresa molto difficile, e il futuro non promette niente di buono per i lavoratori della Bielorussia, anche per quelli impiegati nelle imprese statali, fonte di inefficienze, sprechi e corruzione – esattamente come accadeva ai “bei tempi” dell’Unione Sovietica. D’altra parte, solo grazie ai “fraterni” aiuti russi il regime di Minsk può sperare di mantenere in piedi «il sistema di welfare che gli garantisce il sostegno delle campagne, degli operai nelle fabbriche, dei pensionati, dei meno abbienti in generale». Ed è esattamente questo “capitalismo assistito” che tanto piace ai rimasugli dello stalinismo italiano.

Ormai da anni si parla in Bielorussia della necessità di una radicale privatizzazione dell’economia del Paese, prospettiva che genera sogni e appetiti in alcune persone, mentre in molte altre è fonte di incubi e di preoccupazioni. Non si escludono – tutt’altro! – divisioni e scontri nel seno dello stesso regime bielorusso intorno alla possibile divisione della torta, ed è anche alla luce dei forti interessi economici in gioco che va letta l’attuale crisi che scuote un Paese schiacciato nella morsa della competizione interimperialistica.

Una volta il Presidente del Venezuela Hugo Chávez definì la Repubblica di Bielorussia come uno «Stato modello»: si tratta di capire di che “modello” parliamo. Ricordo che allora (2007) Slavoj Žižek, che molte illusioni si era fatto sul caudillo di Caracas, definì «folle e catastrofica» la presa di posizione di Chávez; io, nel mio infinitamente piccolo, mi sono fatto quattro crasse risate sulle reazionarie illusioni dell’intellettuale sloveno, il quale dimostrava ancora una volta che l’intelligenza non sorretta dalla coscienza (“di classe”) non basta a capire il mondo.

Leggo da qualche parte: «È opportuno precisare subito che il presidente bielorusso non è un comunista, ma un “paternalista autoritario”, fautore di “un’economia di mercato socialmente orientata”» (Sinistrainrete). Mi chiedo perché qualcuno avverte la premura di “precisare” ciò che dovrebbe essere ovvio per chi abbia in zucca un minimo, non un massimo, di intelligenza storica e politica. Evidentemente in Italia c’è qualcuno (vedi i «rimasugli» di cui sopra) che non si vergogna di accostare quel personaggio al “comunismo”, e qualcun altro che sente il bisogno di contraddirlo. Polemiche che non mi riguardano – ma che la dicono lunga sul cosiddetto “comunismo italiano”.

Il quotidiano on line Tut.by ha riportato che a fermarsi, nonostante gli inviti a riprendere il lavoro dei dirigenti, sono stati anche i lavoratori di importanti aziende come la Naftan (idrocarburi), la MZKT (veicoli pesanti), la MTZ (trattori) e la BMZ (acciai).I lavoratori chiedono la fine della repressione, giustizia per coloro che hanno subito violenze, il rilascio dei prigionieri politici, la consegna dei responsabili dei tre morti durante gli scontri ed ovviamente nuove elezioni con nuovi candidati» (Notizie Geopolitiche). Lukashenko si era illuso di poter liquidare le proteste nel giro di pochi giorni, usando con l’usuale spietatezza il pugno di ferro repressivo; ma non è stato sufficiente sbattere in galera migliaia di manifestanti e mandare all’ospedale centinaia di essi, per piegare il movimento di lotta, che peraltro ha ottenuto la scarcerazione di gran parte degli arrestati. Quando si dice che l’unità fa la forza!

Per tenere a bada le «mire annessioniste» di Mosca e controbilanciare le pesanti avance di marca europea, Minsk si è avvicinata a Pechino, desiderosa di crearsi una base economica nel cuore del Vecchio Continente: «Prima del 2014, la Cina giocava tutte le sue carte sull’Ucraina. Ora, dopo i capolavori russo-occidentali sul territorio di quel Paese, la Cina si volge facilmente verso Minsk. Xi Jinping ha chiamato la Bielorussia “la perla della Belt&Road”» (Formiche.net). Come ricordava Orietta Muscatelli qualche giorno fa, «Il primo leader internazionale a congratularsi con Lukasenka per l’improbabile 80% dei voti è stato il presidente cinese Xi Jinping, deciso a fare della Bielorussia un hub commerciale tra Europa e Asia, poi si vedrà. A Bruxelles, come a Washington e pure a Mosca se ne prende nota, con una certa comprensibile preoccupazione» (Limes). Questo per dire della complessità geopolitica della vicenda, e del resto è sufficiente osservare la collocazione geografica della Bielorussia per farsi un’esatta idea della questione. Di certo quel Paese soffre molto la sua condizione di “zona di cuscinetto” tra Est e Ovest, sebbene cerchi di ricavarne qualche “utilità marginale”.

Naturalmente il virile Vladimir è ben contento di “aiutare” il sempre più traballante e indifendibile Presidente bielorusso, visto che da tempo “lo Zar” «vuole fissare la Russia Bianca (Belaja Rus’) in modo definitivo nell’orbita del Cremlino. Preoccupata dalla penetrazione cinese e occidentale, Mosca intende fissare Minsk nella sua orbita. Lukašenka punta sul nazionalismo e su un’integrazione che preservi la sovranità del paese. Molto dipenderà da quanto faranno gli Usa in Polonia. Mosca di Lukasenka può fare a meno, ma della Bielorussia no. Persa l’Ucraina nel 2014, per il Cremlino è ancora più vitale il controllo sulla ‘Russia Bianca’, fascia di sicurezza sul suo fianco occidentale, collegamento strategico verso Berlino, verso l’enclave militarizzata di Kaliningrad e il Baltico europeo, come pure verso il Mar Nero e la Crimea. Per Mosca, è decisivo un “avvicinamento intensivo”, da ottenere utilizzando la leva economica» (Limes). Oggi per Putin si apre la possibilità di utilizzare anche la leva militare (magari in modo “informale”, come ha fatto in Ucraina (*) e altrove nel suo cortile di casa), che peraltro porta risultati in un tempo assai più breve, anche se la cosa si presta a complicazioni di vario genere e certamente di non agevole gestione. Se puntellare l’attuale Presidente bielorusso dovesse farsi per la Russia troppo dispendioso sul piano delle relazioni economiche e diplomatiche, Putin potrebbe giocarsi una carta di riserva fra le diverse che gli analisti gli accreditano. Ad esempio, qualcuno pensa che «a Mosca stanno cercando di mandare al potere Viktor Lukashenko, il figlio del leader e uomo di formazione “gorbacioviana”» (Formiche.net). L’evocazione di Gorbaciov non so quanto possa assicurare i sostenitori dell’alleanza strategica tra la Russia e la Bielorussia.

Intanto, dopo qualche giorno di esitazione, l’ex batka (“babbo”: sic!) dei bielorussi ha ripreso a usare la sua solita retorica violenta e nazionalista contro i manifestanti, accusati di essere dei fascisti al servizio dell’imperialismo occidentale, e, com’è noto, con i “fascisti” e con i “traditori della Patria” non si tratta. Riferendosi al Consiglio di coordinamento dell’opposizione, istituito dalla rivale Svetlana Tikhanovskaja, Lukashenko ha dichiarato che «La creazione di un organo parallelo e alternativo per usurpare il potere è punibile dalla legge. Voglio ribadire che se pensano che le autorità qui si sono incrinate e ora stanno traballando, si sbagliano: voglio sottolineare che abbiamo qualcuno su cui appoggiarci. Pertanto, non vacilleremo. Percorreremo la nostra strada, come dovremmo fare» (La Repubblica). Il Presidente ha ordinato il Ministro degli Interni a porre senz’altro fine alla protesta; in effetti l’ex uomo forte di Minsk cerca di guadagnare tempo alternando promesse di carota e minacce di bastone, sperando nelle more di fiaccare la resistenza dei manifestanti, i quali rischiano non solo il carcere ma anche la disoccupazione, e di logorare e dividere l’opposizione politica, magari per giungere a un “onorevole” compromesso.

Da parte sua l’Unione Europea ha fatto sapere di non riconoscere il risultato delle elezioni del 9 agosto, come richiesto a gran voce dall’opposizione al regime; «” Oggi mandiamo un messaggio chiaro e solidale con il popolo bielorusso e non tolleriamo impunità. L’Ue imporrà presto sanzioni contro un importante numero di persone responsabili delle violazioni contro i manifestanti e contro i responsabili delle frodi nel voto”, ha annunciato il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel» (La Repubblica). Berlino e Parigi hanno subito precisato che il problema bielorusso non è un problema geopolitico, non è e non deve diventare un fatto che possa in qualche modo modificare l’assetto geopolitico dell’area che confina con lo spazio russo, e questo a voler rassicurare Mosca, con la quale si spera di poter trovare una “soluzione politica” alla crisi. Come se la soluzione militare non fosse la continuazione della “soluzione politica” con altri mezzi, come sa benissimo la Russia di Putin. Questo detto en passant. Insomma, a Est come a Ovest si lavora per un cambio di regime che sia il meno traumatico possibile. Tuttavia, il problema presenta troppe incognite, e la sua soluzione appare tutt’altro che facile, cosa che porta a non escludere un esito violento della crisi. Scrive Vittorio Emanuele Parsi: «Allo stato attuale, solo un ammutinamento interno al regime (del tipo di quello che portò alla destituzione di Ceausescu in Romania nel 1989) o un colpo di palazzo “tattico”, volto a cambiare tutto perché nulla cambi (come quello che depose Mubarak in Egitto nel 2011), potrebbero dar luogo a una transizione morbida.  Ma mancano sia le condizioni interne sia quelle internazionali perché ciò sia probabile. Mubarak era comunque l’espressione del potere politico e del privilegio economico detenuto gelosamente dall’esercito da oltre 60 anni. Quando Ceausescu venne deposto e fucilato, l’Urss di Gorbaciov era nel pieno della sua crisi terminale. Lukashenko non si è fatto – e non si farà – nessuno scrupolo nell’usare il pugno di ferro» (Il Messaggero). Naturalmente Parsi auspica un ruolo maggiormente “assertivo” dell’Occidente, soprattutto dell’Europa: «Si tratta di una rotta difficile da tracciare e ancor di più da mantenere, mentre il nocchiero americano è distratto e incapace e la via tedesca sta rapidamente “facendo pratica”». Naturalmente l’anticapitalista non può che mettersi di traverso nei confronti di questo auspicio.

Non ho mai dato alcun credito, né tanto meno alcun sostegno politico, alle cosiddette “rivoluzioni colorate” (e alle “primavere arabe”); questo però non significa che io non solidarizzi con i movimenti sociali che in qualche modo cercano di reagire all’oppressione politica e a condizioni sociali sempre più insopportabili. E questo anche quando la reazione delle classi subalterne assume forme che personalmente giudico non solo politicamente sbagliate, ma senz’altro reazionarie se guardate dal punto di vista anticapitalista. Contestare un regime politico-istituzionale che è al servizio del dominio capitalistico sostenendo le ragioni delle forze che aspirano a sostituirlo in quella ultrareazionaria funzione non rappresenta alcun guadagno per i lavoratori, per i disoccupati, per gli strati sociali in via di proletarizzazione. Chi lavora per l’autonomia di classe non può far mancare la sua critica solo perché al momento essa appare, come in effetti è, del tutto ininfluente sul reale processo sociale. Simpatizzare e, al contempo, criticare rappresentano a mio avviso due facce di uno stesso approccio politico ai movimenti sociali. In ogni caso questo vale per me; per me che scrivo dall’Italia e non dalla Bielorussia.

Sintetizzo la mia posizione: Contro il regime di Minsk; contro il Sistema Imperialista Unitario; sostegno alle lotte dei lavoratori e degli studenti bielorussi.

 

* Sulla crisi ucraina rimando ad alcuni post:

L’IMPERIALISMO ENERGETICO DELLA RUSSIA

IL PUNTO SULLA “QUESTIONE UCRAINA”

SULLA CRIMEA E SUL MONDO

DUE PAROLE SULLA CRIMEA

KIEV. ANCORA SANGUE A PIAZZA MAIDAN

L’UCRAINA E I SINISTRI PROFETI DI CASA NOSTRA

L’UCRAINA DA LENIN A LUCIO CARACCIOLO

INTRIGO UCRAINO

 

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

Chi non vuole parlare di capitalismo non deve
parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine
totalitario non è altro che l’ordine precedente
senza i suoi freni. […] Oggi combattere il
fascismo richiamandosi al pensiero liberale
significa appellarsi all’istanza attraverso cui
il fascismo ha vinto (Max Horkheimer).

Ho letto l’interessante breve saggio sugli Aspetti del nuovo radicalismo di destra (Marsilio, 2020) ricavato dalla registrazione di una conferenza che Theodor W. Adorno tenne il 6 aprile del 1967 all’Unità di Vienna su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Il testo della conferenza è rimasto «pressoché sconosciuto» per oltre mezzo secolo, come ricorda lo storico Volker Veiss nella sua postfazione. Pare che il libro stia riscuotendo un notevole successo non solo in Germania ma un po’ in tutta Europa, e leggendolo i motivi di un tale consenso appaiono subito chiarissimi.
In effetti, per molti aspetti le “problematiche” affrontate da Adorno nel 1967 appaiono più attuali oggi che allora; eccone un esempio: «Nonostante la piena occupazione e nonostante tutti i segni di prosperità, lo spettro della disoccupazione tecnologica continua ad aggirarsi tanto che, nell’epoca dell’automazione, anche gli esseri umani che si trovano all’interno del processo produttivo in realtà si sentono già potenzialmente superflui o potenziali disoccupati (pp. 15-16). Bisogna tener presente che ancora nel 1967 l’eccezionale fase espansiva dell’economia iniziata nel secondo dopoguerra faceva sentire i suoi “benefici” effetti, sebbene il processo di accumulazione avesse di molto rallentato la sua “spinta propulsiva” e si avviasse alla prima seria battuta d’arresto postbellica anticipata in qualche modo dai movimenti del ’68. Allora – come oggi – la Germania era la locomotiva del capitalismo europeo.

Oggi, nell’epoca della cosiddetta Intelligenza Artificiale, lo spettro della “disoccupazione tecnologica” alita sul collo del lavoratore (“manuale” o “intellettuale” che sia) fondando economicamente una precarietà esistenziale sempre più acuta e difficile da gestire emotivamente e psicologicamente. È fortissima la tentazione di cadere nel feticismo tecnologico, ossia di accedere alla cattivissima idea di attribuire una volontà, e quindi una responsabilità di qualche tipo, alla cosa, e non alla relazione sociale di cui essa è l’espressione. Detto en passant, di questi tempi è molto diffuso il feticismo virale, ossia l’idea malsana di attribuire al coronavirus la crisi sociale internazionale che ha avuto nella pandemia solo la sua miccia d’innesco, senza contare la stessa natura squisitamente sociale della pandemia già nel suo momento genetico – a cominciare dalla distruzione capitalistica degli ecosistemi. «Un invisibile virus ha messo in ginocchio l’economia mondiale»: sciocchezze! Le contraddizioni tipiche del capitalismo e le sue leggi di movimento hanno messo in ginocchio l’economia mondiale: il nemico invisibile si chiama rapporto sociale capitalistico. Questo solo per dire che abbiamo a che fare con un clima sociale che rende possibile, oggi come allora, la diffusione di quelle idee irrazionali che sono la premessa del successo dei «cosiddetti sistemi di massa di stampo fascista», i quali hanno senza alcun dubbio una profonda relazione strutturale con i sistemi della follia» (p. 30).

La disoccupazione causata dall’introduzione nel processo produttivo (di “beni e servizi”) di tecnologie che risparmiano lavoro per molti è una triste realtà, e per molti altri è, appunto, uno spettro sempre presente e minaccioso. Oggi assai più di ieri il rischio della rapida obsolescenza tocca tutti i settori di attività, e financo il “mestiere più antico del mondo” (sì, proprio quello!) sembra poter fare a meno di personale in carne ed ossa per soddisfare le esigenze del cliente, e con una discrezione e un’igienicità che nel contesto della “nuova normalità” rappresentano requisiti senz’altro molto apprezzati dagli utenti del sesso a pagamento. La “prostituzione robotica” (o “intelligente”) sembra corrispondere puntualmente a quel concetto di distanziamento (a)sociale che coglie perfettamente un aspetto fondamentale della nostra disgraziata epoca, oggi come e più di ieri.

Anche il discorso sull’avanzata delle destre ci suona incredibilmente attuale, anche se il cuore del problema, per Adorno e certamente per chi scrive, è rappresentato soprattutto dalle cause sociali che, «oggi come allora», rendono possibile e perfino inevitabile (almeno per chi scrive) il comparire sulla scena sociale di movimenti politici apertamente nazionalisti (o “sovranisti”), razzisti, antisemiti, autoritari.
Adorno lo dichiara subito: «Nel 1959 ho tenuto una conferenza dal titolo Che cosa significa elaborazione del passato nella quale ho illustrato la tesi secondo cui il radicalismo di destra, o il potenziale di un radicalismo di questo genere, può essere spiegato con il fatto che, oggi come allora, continuano a sussistere le premesse sociali del fascismo. Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico» (pp. 13-14). Soprattutto nel caso italiano, la radicale continuità tra regime fascista e regime postfascista non ha avuto solo un carattere sociale, ma per non pochi aspetti essa ha riguardato anche il piano politico-istituzionale, come attesta, ad esempio, la sopravvivenza in epoca repubblicana del diritto penale elaborato sotto il fascismo. Anche la struttura economica, con i suoi robusti e “intimi” legami con il mondo politico-sindacale, esibisce un’evidente continuità fra i due regimi. Lo stesso passaggio di non pochi militanti del Partito Fascista nel cosiddetto Partito Comunista di Togliatti alla fine della Seconda guerra mondiale non si spiega solo con il proverbiale opportunismo italiano, con l’italico salto sul carro del vincitore, ma anche, e forse soprattutto, con la comune matrice psico-sociale di fascismo e stalinismo, che facevano presa su una personalità desiderosa di un forte e rigido inquadramento. Adorno parla di «personalità autoritaria». Detto in altri termini, stalinisti e fascisti hanno impastato lo stesso materiale umano caratterizzato da una forte propensione gregaria/autoritaria. Credo che il successo che il «nuovo radicalismo di destra» sta avendo soprattutto nei Länder Orientali della Germania, le regioni che formavano la Repubblica Democratica Tedesca (1), si spieghi, mutatis mutandis, anche con quanto appena accennato, oltre che con i problemi economico-sociali e con la delusione che hanno interessato la popolazione che vive in quei Länder. Diciamo che i due aspetti si incrociano. Radicalismo di destra e Ostalgie, la nostalgia per la Germania dell’Est, sono due fenomenologie dello stesso problema sociale (dimensione psicologica compresa), almeno per come la vedo io. Per dirla sempre con Adorno, «qui gioca un ruolo essenziale il concetto di organizzazione, […] l’elemento del rigore e del centralismo. […] Fa parte degli elementi di base dell’ideologia tedesca il fatto che non si debba agire da soli. […] Si vuole avere qualcosa alle spalle. […] Qui gioca un ruolo il fatto che proprio nella Repubblica Federale lo Stato nazionale si è realizzato con un ritardo colossale, soprattutto rispetto all’Inghilterra o alla Francia. E le persone in Germania sembrano vivere in un perenne stato di paura per la propria identità nazionale» (pp. 24-26).

Attualissima suona anche la denuncia adorniana del nazionalismo (che oggi ama appunto definirsi “sovranismo”), il quale è tanto più velenoso, quanto più le sue basi oggettive diventano sempre più inconsistenti e spettrali: nel contesto dei «due enormi blocchi [USA e URSS] i singoli Stati giocano un ruolo subordinato. Nessuno ci crede più davvero. La singola nazione è straordinariamente limitata nella sua libertà di movimento dall’integrazione nei grandi blocchi di potere. Ma non bisogna trarne la conseguenza affrettata che il nazionalismo, in quanto superato, non giochi più un ruolo chiave; viceversa, accade spesso che alcune convinzioni o ideologie assumano un aspetto demoniaco o autenticamente distruttivo proprio quando non risultano più sostanziali in base alla situazione oggettiva» (p. 17). Perdendo il proprio ancoraggio oggettivo (economico, geopolitico, culturale: in una sola parola: sociale), il nazionalismo si espande senza più limiti in guisa di bolla speculativa ideologica. Adorno parla dello «spettro di uno spettro», una superfetazione ideologica che cresce seguendo l’espandersi delle paure, delle angosce, delle frustrazioni e dei risentimenti che la situazione reale non cessa di generare sempre di nuovo, sebbene con ritmi diversi nelle diverse congiunture del ciclo economico e investendo i più disparati strati sociali.
Per quanto mi riguarda la freccia critica antinazionalista colpisce tanto il sovranismo di “destra”, quanto il sovranismo di “sinistra”, due facce della stessa escrementizia medaglia. Oggi molti sovranisti di “sinistra” sono schierati dalla parte dell’imperialismo cinese, che nel frattempo ha sostituito l’imperialismo “sovietico” nel ruolo di nemico strategico dell’imperialismo americano. I nostalgici piagnucolosi della “Russia socialista” oggi possono consolarsi con il “socialismo con caratteristiche cinesi”, il cui sistema autoritario con caratteristiche orwelliane è segretamente apprezzato anche da molti leader politici occidentali che si definiscono liberali. Quanto a controllo sociale la Cina è oggi il modello da imitare. Il sistema di controllo e repressione realizzato dal regime nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale (un carcere a cielo aperto che contiene al suo interno numerosi “campi di rieducazione e lavoro”), sarebbe piaciuto moltissimo alla «cricca nazista», in particolar modo a quei personaggi che, come Eichmann e Himmler, avevano «una prospettiva strettamente tecnologica» (p. 30).

Adorno coglie bene anche il carattere reazionario «dell’antiamericanismo» e della «paura nei confronti della Comunità economica europea» che caratterizzavano il radicalismo di destra dei suoi tempi: «È evidente come nell’ideologia un ruolo molto forte venga giocato dall’antiamericanismo, il quale era già prefigurato in epoca nazista in espressioni come nazione “plutocratica” e simili. Nella prospettiva di questo antiamericanismo si tenta di usurpare l’idea di un’Europa come “terza forza”» (p. 41). Oggi l’antiamericanismo destrorso in generale non usurpa più, in Germania e in tutto il Vecchio Continente, «l’idea di un’Europa come “terza forza”», ma anzi combina antiamericanismo e antieuropeismo e avanza un programma decisamente “sovranista”. Invece, quell’idea si fa strada a partire da un processo sociale oggettivo che potrebbe culminare nella formazione di un autentico polo imperialista europeo, e ovviamente in tutto ciò la Germania ha un ruolo centrale, e qui naturalmente si registra una grande differenza con il contesto politico e geopolitico che Adorno aveva dinanzi: «In ogni caso la Germania di oggi non è più un soggetto politico, anche solo in termini di possibilità, come invece lo era ai tempi di Weimar. C’è addirittura il rischio […] che la Germania devii dagli orientamenti della politica mondiale, dalle sue tendenze generali e venga ridotta a provincia» (p. 32). Come sappiamo, le cose sono andate diversamente e personalmente concordo con chi sostiene che la Germania sia stata la vera vincitrice della lunga Guerra Fredda. Certo, anche oggi «manca completamente la prospettiva “oggi qui, domani tutto il mondo”» (p. 43); ma non c’è dubbio che la Germania può coltivare ambizioni geopolitiche inimmaginabili mezzo secolo fa, e bisogna anche dire che quel Paese ha in parte moderato le proprie pretese politiche sia perché non ha dimenticato le dure lezioni apprese nel “Secolo breve”, e sia per beneficiare di una difesa militare quasi interamente pagata dagli Stati Uniti. Ma oggi la Germania sembra sul punto di voler e poter assumere le “responsabilità politiche” che le derivano dalla sua potenza economico-sociale. Che la Germania diventi «un soggetto politico» di grande rilevanza internazionale (soprattutto attraverso la mediazione dell’Unione Europea), oggi è più che una possibilità.

Devo d’altra parte dire che non condivido neanche un po’ le pur timide simpatie politiche che Adorno manifesta, sebbene implicitamente, per l’Europa e per gli Stati Uniti, i cui sistemi politico-sociali gli appaiono in ogni caso meno cattivi di quelli di matrice sovietica o maoista – cosa che, tra l’altro, lo porterà a polemizzare nel ’68 con una certa area del “radicalismo di sinistra”, accusata giustamente (da lui e da Horkheimer, contro l’opinione di Marcuse) di lavorare per conto delle potenze sociali che tengono incatenati al carro del dominio sociale gli individui, a cominciare da quelli appartenenti alle classi subalterne.

Per “legittima difesa” Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo, ma quale «prassi di riferimento» i due avevano allora dinanzi? Quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale. Prendendo congedo dalla prassi essi intesero mettere al riparo quella teoria dall’omologazione stalinista, e questo lo considero un grandissimo merito, fondato però su una cattiva interpretazione del «fenomeno-stalinismo», associato in qualche modo dai due filosofi francofortesi al pensiero marxiano, sebbene in una sua variante particolarmente volgare. «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (2). Nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e per altro verso il cosiddetto «Socialismo reale» non era che un capitalismo (più o meno di Stato) assai agguerrito sul piano dell’agone imperialistico, quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole – Minima Moralia. Allora non si trattava certo di sospendere la prassi rivoluzionaria, ma piuttosto di elaborarne una coerente con i suoi presupposti teorici e adeguata alla situazione oggettiva. La stessa cosa vale oggi come e più di allora.

A proposito di antiamericanismo, c’è da dire che un certo “radicalismo di sinistra” ama nascondere quella posizione politico-ideologica sotto i panni di un “antimperialismo” tanto gridato quanto mai praticato, come dimostra l’accesa simpatia per l’imperialismo cinese molto diffusa in quell’ambiente politico.

«Oggi come allora»: ho trovato particolarmente pregnante questa locuzione che, se non ho sbaglio a contare, compare quattro volte nel testo adorniano. Si nota anche un «oggi come ai tempi di Hitler» con riferimento alla tecnica propagandistica usata dal radicalismo di destra. Scrive Adorno: «Vorrei puntualizzare en passant che la questione non implica affatto che tutti gli elementi di questa ideologia siano falsi, ma che anche il vero [il disagio sociale, ad esempio] può essere messo al servizio di un’ideologia falsa. […] La tecnica più importante grazie alla quale la verità viene messa al servizio della non verità è quella di separare osservazioni in sé vere o corrette dal loro contesto, isolandole così da poter affermare: “Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra”, senza vedere invece che l’intera congiuntura degli anni dal 1933 al 1939 è stata possibile solo grazie a una frenetica economia di guerra, alla preparazione della guerra (3). E ci sono cento altri esempi. […] Vorrei ribadire peraltro che nel fascismo non vi fu mai un’ideologia in senso proprio e che resta sempre sottointeso che in esso la questione fosse quella del potere. Naturalmente, proprio questo ha conferito a tali movimenti sul piano ideologico quella flessibilità che è facile osservare. Del resto, il primato di una prassi a-concettuale è nello spirito del tempo [oggi più che allora]. Oggi come ai tempi di Hitler la loro unità sta in questo appello alla personalità autoritaria» (4) (pp. 41-44). A qualcuno sembra di dire qualcosa di particolarmente originale e geniale affermando: «Il nostro movimento non è né di destra né di sinistra» (5), una frase coniata a suo tempo dall’ex socialista Benito Mussolini, teorico del “pensiero antidogmatico” (sic!).

Ci fu un tempo in cui il termine sinistra connotava, in linea di principio, una posizione anticapitalista. Quel tempo si è chiuso con il trionfo in quello che una volta si chiamava movimento operaio internazionale del riformismo socialista e dello stalinismo, due ideologie radicalmente borghesi. Oggi l’anticapitalista non è “più a sinistra” della “sinistra ufficiale”, ma piuttosto collocato su un altro e opposto terreno di classe, e in questo peculiare senso egli è davvero né di “destra” né di “sinistra”. Quando si usano certi termini, bisogna innanzitutto intendersi sui concetti che essi sono chiamati a esprimere, e quest’opera di chiarificazione concettuale ha anche molto a che fare con la lotta al radicalismo di destra come a ogni forma di autoritarismo – che spesso assume un aspetto sinistrorso.

Se, come osservava giustamente adorno, «il comunismo è diventato solo una parola che suscita spavento», di ciò le classi dominanti occidentali devono ringraziare soprattutto i cosiddetti “comunisti”, portatori di un modello sociale che quanto a sfruttamento, oppressione, alienazione, violenza, disumanità e quant’altro regge benissimo il confronto con la prassi delle società capitalistiche “conclamate”., le quali ai miei occhi hanno almeno il pregio, per così dire, di non millantare crediti che hanno a che fare con le idee di emancipazione delle classi subalterne e, più in generale, dell’umanità.

Sempre a proposito delle premesse sociali dei movimenti fascisti, Adorno pensa «in primis alla tendenza del capitale alla concentrazione, dominante oggi come allora, della quale non si può affatto dubitare, per quanto la statistica, con tutti i suoi artifici, tenti di farla scomparire dalla faccia della terra [oggi come allora!]. Questa tendenza alla concentrazione significa, d’altro canto, oggi come allora, che resta sempre possibile il declassamento di strati sociali che dal punto di vista della loro coscienza di classe soggettiva risultano del tutto borghesi» (p. 14). Sappiamo il peso che questo declassamento ha avuto nella genesi dei movimenti autoritari in Italia e in Germania nel primo dopoguerra. Ma, oggi come ieri, il demagogo non pesca solo nel mare della media e piccola borghesia declassata dal processo sociale, ceto sociale che certamente offre al suo movimento politico la gran parte dei quadri dirigenziali: egli rivolge la sua “profetica” parola a tutti gli individui maltrattati dal Moloch capitalistico, la cui marcia diventa particolarmente distruttiva durante le crisi economiche. Ed è nel corso delle più gravi crisi economiche che nella società inizia a dilagare il «sentimento della catastrofe sociale» a cui i movimenti neofascisti cercano di dare una soddisfazione e una prospettiva politica: «Si potrebbe parlare di una distorsione della teoria marxiana del collasso, la quale avrebbe luogo in questa coscienza falsa e mutilata. […] “Com’è possibile andare avanti, se c’è una grande crisi?”, e questi movimenti si propongono appunto come una risposta a tale situazione. Essi hanno qualcosa in comune con quella specie di odierna astrologia manipolativa (6) che io considero un sintomo fortemente caratteristico e importante dal punto di vista della psicologia sociale del fatto che, in un certo senso, essi vogliono la catastrofe, che si nutrono di fantasie di tramonto del mondo, cosa che del resto – come sappiamo dai documenti – non era affatto estranea alla cricca che prima guidava il partito nazionalsocialista. […] A chi non vede nulla davanti a sé e a chi non vuole la trasformazione delle basi sociali non resta nient’altro se non ciò che afferma il Wotan di Richard Wagner: “Sai che cosa vuole Wotan? La fine”; a partire dalla sua situazione sociale vuole il tramonto, e non il tramonto del proprio gruppo, ma, se possibile, il tramonto tout court» (pp. 22-24). La situazione disperata genera sentimenti di disperazione: la domenica di Pasqua del 1932 l’editorialista della Frankfurter Zeitung pubblicava, a mo’ di augurio, le parole pronunciate nel 1809 dal maggiore Schill, l’eroe della fallita insurrezione antinapoleonica: «Meglio una fine nell’orrore che un orrore senza fine». Su questo aspetto della storia tedesca rimando il lettore a un mio post di qualche anno fa: La Germania e la sindrome di Cartagine.

Adorno invita giustamente a «essere scettici nei confronti di un’interpretazione meramente psicologica dei fenomeni sociali e politici», perché l’espandersi di una psicologia di massa orientata in senso irrazionale «ha anche un fondamento oggettivo» (7). L’organizzazione sociale capitalistica, oggi come e più di ieri, genera sempre di nuovo i presupposti materiali, culturali e psicologici di quella che Adorno e Horkheimer definirono negli anni Quaranta del secolo scorso (e sul fondamento di una ricerca sociale empirica condotta negli Stati Uniti) «personalità autoritaria», ossia la personalità dell’individuo atomizzato che non oppone alcuna resistenza critica alle imperiose esigenze della totalità sociale e che, anzi, solo all’interno di un ingranaggio che schiaccia ogni autentica libertà e ogni decisione umanamente razionale e responsabile si sente al riparo da minacce che egli non comprende e che travisa nel modo più rozzo secondo le direttive impartite alle masse dai capi. Solo nella massa l’individuo atomizzato, che nella Personalità autoritaria Adorno definisce «tipo manipolativo» (che si lascia cioè manipolare e che, a sua volta, tende a manipolare gli altri), si sente protetto e in armonia con il mondo creato dalle sue paure, dalle sue angosce, dalle sue aspirazioni. Ovviamente questa condizione psicologica ha delle cause sociali precise e riconoscibili, ed è a queste cause che bisogna arrivare seguendo le indicazioni che la “sovrastruttura psicologica” ci indica. È per questo che è importante imparare il linguaggio di questa “sovrastruttura”, capirne la complessa e spesso paradossale grammatica.

Scrive Adorno: «Fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio compito» (p. 21). Ma la democrazia storicamente sorge sul disumano fondamento della divisione classista degli individui – e nella Grecia Antica gli schiavi non erano considerati nemmeno uomini in senso proprio. Concettualmente e praticamente la democrazia è radicata nella dimensione politica, ossia nella dimensione del conflitto sociale, il cui presupposto è appunto la divisione degli individui in dominati (la massa che lavora) e dominanti (la ristretta elite che si appropria del prodotto del lavoro altrui). Non a caso il comunismo immaginato da Marx postulava il superamento della politica, almeno nell’accezione che essa ha avuto e continua ad avere nella società classista. Per questo, a mio avviso, tanto il fascismo quanto la democrazia capitalistica rappresentano due modi diversi e intercambiabili (dipende dalle circostanze, nazionali e internazionali) di amministrare la società per conto delle classi dominanti e in vista del supremo obiettivo perseguito dalla politica (al cui vertice si colloca lo Stato): la continuità del rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Questo obiettivo può anche dar luogo alla completa statalizzazione dell’economia (ciò che il volgare pensiero borghese, di “destra” e di “sinistra”, concepisce come “socialismo”) nel caso in cui una catastrofica crisi economica innescasse pericolosi movimenti sociali. Pericolosi, beninteso, dal punto di vista dello status quo sociale. Anche ai nostri giorni possiamo osservare in tutti i maggiori Paesi del mondo un interventismo statale che la dice lunga sulla gravità della crisi economica che erroneamente il pensiero mainstream attribuisce al Coronavirus. Interventismo statale e “deriva autoritaria” (8) sono, oggi come allora, due fatti intimamente correlati fra loro, e la stessa cosa si può dire per le politiche assistenzialiste di lunga durata. Come scriveva Max Horkheimer, il dominio sociale «non più conservabile con i mezzi economici, essendo la proprietà privata sopravvissuta a se stessa, è conservato con mezzi direttamente politici» (9).

La democrazia capitalistica (perché non esiste un’astratta e astorica democrazia) «è pienamente all’altezza del proprio concetto» se è in grado di assicurare la stabilità sociale, e ciò, come sappiamo, si realizza attraverso un accurato uso di carota e di bastone, di mezzi che ricercano il consenso dei cittadini e di mezzi immediatamente coercitivi e repressivi – quelli che giustificano il concetto, tutt’altro che “mostruoso” e contraddittorio, di democrazia fascista. È per questo che non condivido affatto ciò che Adorno dice a proposito del modo concreto in cui è possibile fronteggiare il pericolo nazifascista: «occorre anche tentare di trovare dei mezzi legali attraverso cui uno Stato democratico possa procedere contro di esso» (p. 39). A mio avviso per un verso lo Stato democratico è parte del problema qui in oggetto, e non della sua soluzione; e per altro verso, e sempre a mio avviso, è solo incoraggiando l’autonoma iniziativa antifascista delle classi subalterne e di quanti intendono lottare contro i movimenti autoritari di qualsiasi tendenza politica (inclusi quelli che sostengano regimi come quelli cinesi, cubani, venezuelani, ecc.) che si creano negli individui gli anticorpi idonei a proteggerli in qualche modo dalla personalità autoritaria. Giustamente Adorno dice che nella lotta al radicalismo di destra «non bisogna contrapporre menzogna a menzogna»; dal mio punto di vista contrapponendo lo Stato democratico ai movimenti di “stampo fascista” si scivola appunto nella menzogna, tanto sul piano storico (vedi la responsabilità che la liberaldemocrazia ha avuto negli anni Venti e Trenta del secolo scorso nella sconfitta del movimento operaio e nel trionfo del fascismo e del nazismo), quanto su quello politico.

Tra l’altro Adorno e Horkheimer già negli anni Trenta non mancarono di denunciare il lavoro preparatorio al trionfo del nazifascismo svolto dalla borghesia liberale: «Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (10). Adorno sostiene giustamente che la stessa grande industria che foraggiò il nazismo soprattutto in chiave controrivoluzionaria subì il processo di autonomizzazione del movimento hitleriano, una dinamica che ricorda molto il caso italiano. L’autonomizzarsi del manganello anche dagli interessi economici dominanti non era stato previsto dai politici liberali che pensavano di potersi disfare facilmente della “triviale” e violenta azione politica fascista dopo averla usata contro i lavoratori. Mussolini e Hitler passarono invece all’incasso, favoriti da una devastante crisi economico-sociale. «In tutte queste faccende – osserva Adorno – bisogna prestare molta attenzione a non pensare in modo troppo schematico e a non operare in maniera molto avventata»: un consiglio valido anche oggi. «In Germania – conclude Adorno – si è arrivati al fascismo come ultima ratio, ossia nel momento in cui la crisi economica si era ingigantita e non lasciava nessun’altra possibilità per quell’industria della Ruhr che allora risultava già in bancarotta» (p. 19). Sappiamo bene come la corsa al riarmo in vista della guerra risollevò le sorti dell’industria pesante tedesca (e dell’occupazione) prostrata dalla crisi economica e costretta ad agire, di fatto, entro i ridotti limiti fissati soprattutto dalla Francia. Anche la Germania ebbe il suo “boom” economico che preparò il boom dei cannoni e delle bombe. «Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra»…

Segno dei tempi: la copertina dell’Economist del 25 giugno ci invita a riflettere sulla «prossima catastrofe – e a come sopravvivervi». La prossima catastrofe può arrivare sotto forma di eruzioni solari, di asteroidi, di eruzioni vulcaniche, di tsunami, di cambiamento climatico, di epidemia virale (l’ennesima!), di guerra atomica, o di altro ancora, ma di certo essa ci farà visita entro un ragionevole arco di tempo, e quindi dobbiamo prepararci al peggio avvantaggiandoci degli errori commessi in passato. E se invece lavorassimo pensando al meglio, in vista del meglio, costruendo il meglio? Detto in altri termini, anziché impegnarci per la sopravvivenza in un mondo ostile, non potremmo come umanità operare per uscire fuori dalla millenaria dimensione classista che rende possibile ogni forma di catastrofe sociale? «Quasi tutti i grandi asteroidi che possono avvicinarsi alla Terra sono stati ora trovati. Nessuno è una minaccia a breve termine. Il mondo non è solo un luogo manifestamente più sicuro di quanto sembrasse. È anche un posto migliore» (The Economist). Ma ciò che minaccia in mille modi (alcuni dei quali oggi non riusciamo neanche a immaginarli) non è la natura, ma una prassi sociale il cui funzionamento per l’essenziale non riusciamo né a capire né a controllare.
Civettando con Adorno svolgo la seguente riflessione: alla luce dei problemi e delle contraddizioni che segnano la nostra epoca «forse alcuni di voi mi chiederanno cosa penso del futuro» dell’umanità. Ebbene, «credo che questa sia una domanda sbagliata perché eccessivamente contemplativa. In quel modo di pensare che sin dal principio vede queste faccende come catastrofi naturali, sulle quali è possibile fare previsioni come per le trombe d’aria o i disastri meteorologici, si cela già una forma di rassegnazione che ci mette in realtà fuori gioco come soggetti politici; vi si cela, cioè, un comportamento da cattivi spettatori di fronte alla realtà. Come queste cose proseguiranno e la responsabilità per come andranno avanti ricade, in ultima istanza, su di noi» (pp. 56-57). Siamo talmente deboli di fantasia e di immaginazione, oltre che di pensiero critico, che riusciamo a concepire senza eccessivi sforzi concettuali la fine del mondo, mentre la fine di questo capitalistico mondo non riusciamo nemmeno a farla entrare nel campo delle ipotesi.

Scrivendo «oggi come allora», personalmente ho inteso sottolineare, non credo distaccandomi troppo dalle intenzioni di Adorno, la radicale continuità del dominio sociale che rende possibile ogni genere di sofferenza e di evento catastrofico: dalle guerre mondiali alle pandemie, dallo sterminio “industriale” di «persone indegne di vivere» (in linea di principio l’ebreo non manca mai nella lista nera: «Non possiamo dire nulla a riguardo, ma tra noi ci capiamo») alle crisi economiche, dalle emigrazioni di massa alla distruzione degli ecosistemi – a cominciare dall’ecosistema a noi più prossimo, il nostro corpo.

(1) «Sembra paradossale ma le formazioni di estrema destra in Germania nascono nei Länder orientali cioè nei territori della Repubblica Democratica Tedesca che oggi rappresentano i bastioni elettorali dell’Alternative für Deutschland. Perché? Per un motivo poco noto fuori dalla Germania: la riunificazione del 1990 – concretizzatasi nell’assorbimento della DDR nella Repubblica Federale – ha avuto costi altissimi non solo per le casse statali, ma anche per i sedici milioni di tedesco-orientali. La ristrutturazione del sistema economico-produttivo ha portato ad un’impennata della disoccupazione, ad un aumento del costo della vita, all’aumento dell’immigrazione interna ed al crollo della natalità. Una crisi che fa sentire i suoi effetti ancora oggi, a trent’anni ormai dalla riunificazione. Questo ha generato in molti elettori dell’est la disponibilità a sostenere le forze che, di volta in volta, si sono presentate come di opposizione totale al duopolio Cdu/Spd. C’è, poi, un altro aspetto: molti tedesco-orientali nel 1989-’90 ambivano a “ritornare” tedeschi piuttosto che a diventare occidentali, ovvero a recuperare un’identità nazionale condivisa. Questa è una delle speranze tradite della riunificazione, messa ancora più in crisi dall’avanzare della globalizzazione: facile per una forza come AfD, che fa della riscoperta e valorizzazione dell’identità tedesca uno dei suoi elementi forza, intercettare questi consensi» (Opiniojuris).
(2) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254. Einaudi 1970.
(3) Si trattò di una tendenza generale. Scriveva Paul Mattick nell’agosto del 1937: «Riassumendo, possiamo dunque individuare come caratteristica del presente sviluppo economico la tendenza verso la monopolizzazione, la concentrazione capitalistica e l’estensione del controllo statale. […] Sempre più evidente si fa, quindi, l’inevitabilità di una soluzione violenta delle difficoltà del capitalismo odierno, che solo attraverso l’eliminazione delle nazioni più deboli a vantaggio delle potenze capitalistiche più forti può sperare di prolungare la sua esistenza» ( in AA., VV., Capitalismo e fascismo verso la guerra, pp. 78-79, La Nuova Italia, 1976). Non dimentichiamo che anche John Maynard Keynes non mancò di lodare l’interventismo economico della Germania. «Ciò che il seguente libro intende illustrare, si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, piuttosto che a condizioni di libera concorrenza e di ampie misure di laissez-faire» (J. M. Keynes, Prefazione all’edizione tedesca del 1936 della General Theory). Non a caso, come ricorda la storica dell’economia Amity Shlaes ne L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione (Feltrinelli, 2011), i politici e gli intellettuali del New Deal guardavano con estremo interesse, chi alla Russia di Stalin, chi alla Germania di Hitler. Molti guardavano con simpatia a entrambi i regimi, non disdegnando nemmeno di studiare il promettente «caso italiano».
(4) «I 5 Stelle sono un patchwork, una combinazione delle caratteristiche di diversi “storici” movimenti populisti (argentino, peruviano, venezuelano, boliviano, brasiliano) che hanno prosperato per decenni in America Latina. Come i loro parenti latinoamericani, sono sorti per combattere la “oligarchia”, i ricchi, i potenti ( le caste). Come i loro parenti, sono statalisti e giustizialisti. Le loro politiche assistenzialiste, ridistributive, a favore dei descamisados, dei poveri, consentono a chi non va molto per il sottile di definirli “di sinistra”. Il loro antiparlamentarismo li accomuna a tanti movimenti del passato (non solo latinoamericani) sia di estrema sinistra che di estrema destra» (A. Panebianco, Il Corriere della Sera).
(5) «I trucchi retorici sono sempre gli stessi. […] Il pensiero rigido, stereotipato, e la ripetizione incessante costituiscono i mezzi della pubblicità di stile hitleriano. Essi smussano i modi di reazione, rendono a suo modo ovvio quel che è piattamente banale, e mettono fuori gioco le resistenze della coscienza critica. Da tutti questi discorsi e manualetti dell’odio si può così sceverare, proprio come nel caso della propaganda del Terzo Reich, un numero assai ristretto di trucchi impiegati di continuo, standardizzati e legati tra loro in modo meccanico» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, La personalità autoritaria, in AA. VV., La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, 2005).
(6) «Erano tempi grami per tutti, tranne forse per gli indovini, i maghi, i cartomanti e simili, che videro aumentare la clientela. […] Fritz Lang condivideva con altri registi dell’epoca un debole evidente per determinati temi: il suicidio, l’inesorabilità del fato, la pazzia, la morte. […] Tra le catastrofi recentissime e i pericoli della nuova civiltà tecnologica, non rimaneva molto posto per l’ottimismo» (W. Laqueur, La Repubblica di Weimar, pp. 291-294, Rizzoli, 1979).
(7) «Molto si discorre, e non senza ragione, della tecnica del dominio delle masse. Ma bisogna guardarsi dall’idea che i demagoghi che ne usano sorgano ai margini della società, e poi quasi per caso o mercé l’impiego abusivo di strumenti tecnici ottengono un potere sugli altri uomini, per il resto pacifici e giusti. […] Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato. […] In un mondo ampiamente dominato da leggi economiche su cui gli individui umani hanno ben poco potere, l’individuo è assai più impotente di quel che sappia confessarsi» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 95, Einaudi, 2004).
(8) Ecco l’ultima denuncia della “deriva autoritaria” che mi è capitato di leggere: «Le crisi svolgono essenzialmente una funzione maieutica, la loro arte è quella della levatrice, traggono fuori da noi ciò che già in noi era in germe, maturava. Piccole o grandi sono sempre apocalissi, che significa rivelazioni: ciò che si nascondeva dietro il sipario e che ancora ci sforzavamo di ignorare, ecco ora si palesa, inaggirabile, infuggibile. Si capisce allora la formidabile idiozia dell’interrogarsi se saremo migliori, peggiori o uguali a prima. […] L’epoca in cui ogni distanza deve venire meno, in cui appare intollerabile alla nostra ansia di simultaneità ogni confine spaziale, si specchia perfettamente nello slogan osceno del “social distancing”. La pandemia e l’esigenza di contrastarla non c’entrano nulla in quanto tali. Ciò che è rivelatore sono i modi in cui esse vengono narrate e gestite. […] L’attacco al ruolo delle assemblee rappresentative funziona perché queste assemblee non funzionano, e non funzionano da decenni. O i democratici sanno riformarle o vincerà chi democratico non è. Tertium non datur» (Massimo Cacciari, L’Espresso). Questo pianto riformista quasi mi commuove. Ho detto quasi.
(9) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 42, Savelli, 1978.
(10) Ivi, p. 55.

SAREMO NOI CHE ABBIAMO NELLA TESTA UN MALEDETTO MURO…

Sarà la musica che gira intorno, quella che
non ha futuro. Saremo noi che abbiamo nella
testa un maledetto muro (I. Fossati).

Dei rituali festeggiamenti organizzati in Germania e in tutto il «libero e democratico Occidente» per ricordare la caduta del Muro di Berlino, ciò che ho trovato di gran lunga più vomitevoli sono stati i ridicoli tentativi di difendere le ragioni del Muro, della DDR e dell’imperialismo “sovietico” da parte degli ultimi nostalgici dello stalinismo e dell’assetto politico-sociale mondiale del periodo storico chiamato Guerra fredda (1). Purtroppo questi infimi personaggi non sono pochi, soprattutto in Italia, dove non a caso per decenni operò il più forte partito stalinista d’Occidente: si chiamava Pci – da Togliatti a Occhetto, mutatis mutandis.

Per il Financial Times, il 9 novembre 1989 «è il giorno glorioso che ha reso possibile la costruzione di un’Europa libera e democratica»; per i nostalgici del “socialismo reale” quella data rappresenta invece l’inizio della fine, il progressivo scivolare del mondo nell’abisso del “liberismo selvaggio”.

Anziché demistificare la propaganda degli apologeti del “sistema occidentale”, personaggi che si autodefiniscono anticapitalisti e militanti della “causa comunista”, si sono buttati nell’escrementizia impresa di dimostrare che ai tempi del “socialismo reale” i lavoratori europei se la passavano meglio che ai nostri “ordoliberistici” tempi, e che lo stesso “socialismo” della DDR alla fine degli anni Ottanta era tutt’altro che decotto e giunto al capolinea, sebbene denunciasse alcune magagne economiche tutte ascrivibili alla criminale iniziativa espansionista messa in essere dalla perfida Germania Occidentale, non solo con il sostegno attivo degli imperialisti americani, com’è ovvio, ma anche con il tacito consenso dei «revisionisti e traditori del socialismo» tipo Gorbacev, il patetico “teorico” della Glasnost e della Perestrojka che firmò un certificato di morte per un cadavere già in avanzatissimo stato di putrefazione. Solo gli stalinisti occidentali, tristi e grigi personaggi di stampo orwelliano-kafkiano, non sentivano il vomitevole olezzo proveniente da Oltrecortina, e denunciavano con disprezzo l’ingenuo popolo dei paesi dell’Est che con tanta facilità si lasciava sedurre dalle false promesse di una società più prospera e libera che giungevano dall’Ovest capitalistico. «Non rinunciate a quel poco che vi dà la Patria socialista, ricca di nobili ideali e lanciata verso un radioso futuro, in cambio di un mondo mercificato e pieno di ingiustizie». E allora, perché non costruire un Muro ancora più alto ed esteso, ancora più “intelligente” dal punto di vista tecnologico, così da mettere al riparo le masse dell’Est traviate dal demone capitalistico? Perché non prendere esempio dai Cari Compagni Cinesi, i quali avevano annegato nel sangue le fantasie consumistiche di chi aveva osato sfidare il Millenario regime “comunista”? Altro che un Muro: per difendere il “socialismo”, ancorché “reale”, dal capitalismo tentatore e corruttore bisognava alzare una Muraglia cinese!

Per il “compagno” Gorbaciov invece ormai non c’era più nulla da fare, se non gestire al meglio la fine dell’assetto politico-istituzionale imposto con la forza delle armi dalla Russia stalinista secondo i noti accordi stipulati con gli americani già a partire dal 1943 (Conferenza di Teheran), quando le due Super-potenze iniziarono a delineare il Nuovo Ordine mondiale postbellico, diventato col tempo vecchio e pieno di crepe, incapace di sopravvivere ai mutamenti imposti al mondo dal processo sociale capitalistico. Un Ordine che diventò insostenibile soprattutto al centro dell’Europa, con la mai sopita Questione Tedesca. Non a caso i primi a non volere la Riunificazione tedesca erano, com’è noto, gli inglesi e i francesi (2), timorosi di dover fare i conti con una Germania ancora più forte di quanto già non fosse diventata la sua parte Occidentale nel volgere di pochi lustri, dopo un esito catastrofico del conflitto. Quasi tutti gli storici e gli analisti geopolitici più seri concordano oggi nell’attribuire alla Germania la metaforica medaglia d’oro nella competizione sistemica chiamata Guerra Fredda (3).

Ovviamente il penoso discorsetto degli stalinisti allora non commosse neanche un po’ i proletari dell’Est, sfruttati, umiliati e oppressi dai regimi capitalistici orientali – ovviamente definiti “socialisti” anche dai colleghi anticomunisti dichiarati (viva la sincerità!) degli stalinisti: due facce della stessa escrementizia medaglia. Polacchi, cecoslovacchi, ungheresi, rumeni, tedesco-orientali: tutti volevano abbandonare la “Patria socialista” per cercar fortuna nella Germania Occidentale, al punto che il 18 marzo 1989 il Washington Post scrisse che «l’URSS, preoccupata dal caos che investe l’Europa orientale, spinge la Germania Federale a svolgere un ruolo più deciso nella regione al fine di promuovere un ordine economico e politico più stabile». Poteva la Germania Occidentale rimanere insensibile alle richieste degli amici sovietici? Giammai! Sappiamo come è andata a finire la vicenda.

Per Vladimiro Giacché, «L’unificazione tedesca è stata un elemento fondamentale del crollo dei regimi comunisti dell’Est europeo e quindi del ridisegno dell’assetto geopolitico in Europa rispetto all’ordine postbellico. In un certo senso, è l’evento che chiude simbolicamente il Novecento, e comunque uno spartiacque decisivo al suo interno». Cosa c’è di sbagliato in questa ricostruzione storica? A mio avviso l’essenziale, soprattutto dal punto di vista di chi lotta contro la vigente società capitalistica mondiale in vista di una – possibile e oggi sempre più negata – Comunità Umana: i «regimi comunisti» di cui parla Giacché non solo non avevano nulla a che fare con il comunismo, o con il socialismo, né con quello “reale” né con quello immaginario; ma del comunismo e del socialismo essi rappresentavano la più completa negazione. Come scrivo ormai da troppo tempo, il cosiddetto socialismo reale fu un reale capitalismo – più o meno “di Stato”, secondo le caratteristiche storico-sociali dei vari “Paesi socialisti”. Senza contare che i Paesi dell’Est europeo diventarono “socialisti” grazie alla spartizione del Vecchio Continente tra le due grandi Potenze imperialiste uscite vincenti dal Secondo macello mondiale. Sotto questo aspetto, la divisione della Germania rappresentò il paradigma del nuovo ordine mondiale post-bellico.

Si parla tanto di Ostalgie, cioè della nostalgia per la Germania dell’Est che starebbe dilagando nei Länder Orientali, soprattutto fra gli strati sociali più poveri, i quali esprimono la loro rabbia e il loro disagio anche aderendo a ideologie neonaziste. Le masse frustrate e incoscienti armano la loro mente e il loro braccio con ciò che trovano sul mercato politico-ideologico. Evidentemente la Riunificazione non è stata un pranzo di gala, né poteva esserlo, come non lo è nessun processo sociale capitalistico, soprattutto se di vaste proporzioni. (Peraltro in Italia si parla ancora di una Questione Meridionale ancora dopo più di un secolo e mezzo dall’Unità!). Scrivevo nel lontanissimo dicembre 1989: «Sarà molto più facile che in passato per il proletariato di Est e di Ovest riconoscersi nella “casa comune” degli sfruttati e dei senza potere, riconoscersi negli stessi problemi e nelle stesse lotte. Sotto questo aspetto è legittimo aspettarsi dalle classi subalterne dei Paesi dell’Est grandi cose, perché i problemi che in essi si sono aperti non sono di facile  soluzione e le contraddizioni che li stanno investendo sono destinate ad acuirsi. […] Le economie dei Paesi dell’Est si aprono a un mercato mondiale sempre più agguerrito, ed esse non potranno rialzarsi tanto facilmente, con ciò che ne segue sul terreno della conflittualità sociale ad Est e di un suo possibile contagio ad Ovest» (A carte scoperte. La crisi dell’Est Europa come crisi del capitalismo stalinista ed esplosione delle vecchie alleanze imperialistiche). Diciamo che non c’è stato alcun contagio. Diciamo che allora peccai di ottimismo, capita.

Scriveva lo storico Viktor Suvorov: «L’obiettivo del muro: evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo normale. Il muro fu costantemente perfezionato e rinforzato. […] Ma più lavoro, ingegnosità, denaro e acciaio i comunisti mettevano per migliorare il muro, più chiaro diventava un concetto: gli esseri umani possono essere mantenuti in una società comunista solo con costruzioni impenetrabili, filo spinato, cani e sparandogli alle spalle. Il muro significava che il sistema che i comunisti avevano costruito non attraeva ma repelleva». Quel sistema non attraeva ma repelleva: su questo, come si dice, non ci piove, e solo i più incalliti stalinisti possono negarlo – e di fatti continuano a farlo! Ma siamo proprio sicuri che si trattasse di una «società comunista»?

Per Suvorov l’obiettivo del muro fu quindi quello di «evitare che il popolo della Germania socialista potesse scappare nel mondo normale»: cosa dobbiamo intendere per «mondo normale», il capitalismo con “caratteristiche occidentali” o il capitalismo tout court? Sempre ammesso, per pura quanto assurda ipotesi, che la Germania Orientale fosse davvero governata da un regime socialista. Ora, non c’è dubbio che per la stragrande maggioranze della popolazione mondiale il capitalismo è il solo «mondo normale» possibile. Per il saggista Yuval Noah Harari, «Possiamo non amare il capitalismo, ma non possiamo vivere senza il capitalismo. Ciò che è necessario è che vi sia un controllo su di esso. Lo Stato non può non intervenire» (Sapiens. Da animali a dèi, Bompiani). Oltre il capitalismo, il Nulla.

Sostenendo i cosiddetti “regimi socialisti”, in passato anche gli stalinisti hanno collaborato con zelo alla costruzione di questo maledetto muro mentale (definirlo semplicemente ideologico mi sembra riduttivo), il quale impedisce soprattutto alle classi subalterne di immaginare un mondo libero da ogni forma di dominio, di sfruttamento, di oppressione politica e psicologica.

La musica della liberazione davvero non ha un futuro? Non saprei dire, e fortunatamente il futuro non dipende da me; ciò di cui però sono certo, anzi certissimo, è che abbattere quel «maledetto muro», almeno provarci, non è affatto un’impresa impossibile, né disprezzabile, né incapace di soddisfazioni “esistenziali”.

So benissimo che questo discorso non può che suscitare ilarità nella testa delle persone animate da realismo e da sano buonsenso; quelle persone che anziché discorrere oziosamente intorno al migliore (o semplicemente umano?) dei mondi possibili, lottano per migliorare questo (capitalistico) mondo, l’unico mondo possibile («siamo realisti!»), e di farlo con pazienza, giorno dopo giorno, passo dopo passo. Salvo poi magari, nella migliore delle ipotesi, rendersi conto che la pratica del “male minore” spalanca le porte al “male peggiore”.

(1) Solo due esempi. Scrive il noto complottista Giulietto Chiesa: «Dal 1949 al 1961, ben 2,7 milioni di persone uscirono da Berlino. Solo nel 1960 – l’anno prima del Muro – se ne andarono in 200mila. Alla DDR restava solo la scelta tra arrendersi e sprangare la porta. Ma i rapporti di forza tra le due parti del Muro rimasero diseguali. Il Muro resse per 28 anni. Adesso sarebbe tempo di dire la verità sui motivi che lo fecero sorgere. Ma questa verità non può essere detta». E qual è la verità secondo il Nostro? Che dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi l’Unione Sovietica non fece che reagire alla politica imperialista degli Stati Uniti, i quali tradivano puntualmente le amichevoli aperture di Mosca. Si dirà che questa è la vecchia e rancida cacca propagandistica servita dalle mense moscovite per decenni nel corso della Guerra Fredda; e infatti è proprio così. Qualunque sia la loro ispirazione politico-ideologica (democratica, fascista, nazista, stalinista, ecc.), i difensori della società capitalistica ragionano sempre in termini di ragion di Stato (capitalistico, si capisce): «Alla DDR restava solo la scelta tra arrendersi e sprangare la porta». Cacca, appunto, e con rispetto parlando.
Ecco adesso un Twitter di Marco Rizzo, Segretario generale del Partito Comunista (sic!): «Quando c’era il muro di Berlino… c’era l’art.18; uno stipendio da un milione di lire (500 €) era un ottimo stipendio; la DDR aveva case, lavoro e welfare per tutti; Libia, Irak, Siria erano stati indipendenti; i popoli africani non erano obbligati ad una migrazione forzata…». Per non parlare di Babbo Natale e della Befana, i quali ogni anno rallegravano i bambini con doni e con dolci. Altro che la festa di Halloween importata  dagli Stati Uniti! Non c’è niente da fare: lo stalinista perde il pelo ma non il vizio.
(2) Scrive Sergio Romano: «Sapevamo che trent’anni fa, dopo il crollo del muro di Berlino, alcuni uomini di Stato europei (fra i quali Mitterrand, Thatcher e Andreotti) vedevano con qualche timore e molta diffidenza la prospettiva di una Germania riunificata. Ma un articolo di Philip Stephens apparso sul Financial Times del 25 ottobre ci ricorda che Margaret Thatcher, allora primo ministro del Regno Unito, si spinse più in là. Approfittò del viaggio di ritorno, dopo una visita a Tokyo nel settembre 1989, per una sosta a Mosca dove ebbe una conversazione a quattrocchi, nella sala di Santa Caterina del Cremlino, con Mikhail Gorbaciov, presidente dell’Unione Sovietica e segretario generale del Partito comunista. Parlarono di Germania e la Lady di ferro, secondo le note prese da un consigliere di Gorbaciov (Anatolij Cerniaev), disse al suo interlocutore che la Gran Bretagna non desiderava la riunificazione tedesca “perché temeva mutamenti territoriali che avrebbero pregiudicato gli equilibri del secondo dopoguerra”. Per le stesse ragioni Thatcher, in quella circostanza, avrebbe garantito a Gorbaciov che la Nato non si sarebbe adoperata per la dissoluzione del Patto di Varsavia (l’accordo stipulato dall’Urss con i suoi satelliti nel 1955). Contemporaneamente, secondo i ricordi di Philip Stephens, Thatcher avrebbe proposto al presidente francese François Mitterrand la conclusione di una Intesa Cordiale simile a quella che Francia e Gran Bretagna avevano concluso nell’aprile del 1904 per contenere la crescente potenza del Reich tedesco. Trent’anni dopo, le preoccupazioni della signora Thatcher mi sembrano almeno in parte giustificate» (Il Corriere della Sera). Com’è noto, Mitterrand impose a Kohl l’abbandono del Marco tedesco e l’accettazione dell’Euro nel vano tentativo di controllare e azzoppare in qualche modo la potente economia tedesca, ossia il fondamento materiale della Questione Tedesca, la quale è a tutti gli effetti e sempre di più una Questione Europea.
Evidentemente i leader europei del tempo sottovalutarono la crisi economica, sociale e politica che da tempo minava le stessa fondamenta del cosiddetto “socialismo reale”, a partire dall’Unione Sovietica, ormai incapace di reggere il confronto con il ben più forte e dinamico “modello occidentale”: alla fine degli anni Ottanta il regime sovietico appariva (ed era) moribondo, incapace di reagire a sfide di un certo rilievo, come dimostrò la stessa vicenda occorsa a Chernobyl.
(3) Per Carlo Jean l’esito della Guerra Fredda, con l’unificazione tedesca, «ha indotto non pochi commentatori ad affermare – spesso malevolmente – che il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali sia stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (Manuale di geopolitica, p. 153, Laterza, 2003). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca, un evento che solo qualche anno (o mese) prima quasi nessun politico o geopolitico del pianeta riteneva possibile, e certamente non auspicabile. Scriveva uno sconsolato Vittorio Feltri cinque anni fa: «Quando il problema tedesco sembrava definitivamente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria europea, esso riappare all’orizzonte. Quell’egemonia che la Germania non è riuscita a conquistare con le armi belliche sembra essere stata “pacificamente” conseguita con l’arma economica» (Il Giornale). È il capitalismo nella sua fase imperialista, bellezza!

 

TU NON CI SERVI: VATTENE!

Della serie: per gli ultimi non esistono luoghi sicuri, e i primi a farglielo capire sono peraltro i cosiddetti penultimi, nella miserabile convinzione che calpestando la testa di chi sta appena un po’ più in basso nella scala sociale possa aiutarli a tenere il naso e la bocca appena fuori dalla melma, mentre gli immigrati affogano, in tutti i sensi. Che odiosa illusione!

La Repubblica, 13 agosto 2019
Germania. Rimpatriati con la violenza 1.289 migranti
di Tonia Mastrobuoni

“Migranti legati e sedati” sotto accusa i voli da Berlino. La Germania conferma, numeri alla mano, di far ricorso sempre più spesso a manette, cinghie e nastri per immobilizzare i migranti da respingere. Nei primi sei mesi di quest’anno la polizia ha legato le mani, a volte persino i piedi, a persone rimpatriate nei loro Paesi d’origine o ricollocate in altri Paesi europei per ben 1.289 volte. Quanto nell’intero 2018, dieci volte quanto nell’anno dei profughi 2015, quando circa 850 mila richiedenti asilo raggiunsero la Germania soprattutto dalle zone di guerra del Medio Oriente. La conferma dell’aumento delle violenze nei confronti dei migranti da rimpatriare, di cui Repubblica ha dato per prima notizia, è sostanziata dai numeri forniti dal ministero dell’Interno tedesco alla parlamentare della Linke Ursula Jepke, che ne ha chiesto conto in un’interrogazione al Bundestag. La maggior parte dei migranti respinti con le manette o con altri mezzi di coercizione provengono da Algeria, Marocco, Nigeria e Gambia.
Il ministero guidato da Horst Seehofer giustifica il vertiginoso aumento dell’uso di cinghie o manette col fatto che “sono aumentate le persone che resistono ai respingimenti”. A una domanda del nostro giornale, il ministero aveva già risposto settimane fa di ritenere legittimo il fatto di legare i migranti (nello specifico i profughi dublinanti da respingere in Italia).
Ma la parlamentare Jelpke ritiene “insopportabile che la disperazione di queste persone venga spezzata in modo sempre più implacabile con la violenza, per rimandarle contro la volontà in posti terribili”. In 20 casi i migranti o i richiedenti asilo hanno tentato di suicidarsi o si sono auto-inflitti delle ferite, pur di non dover salire sugli aerei. […] Aumentano, comunque, anche i migranti che lasciano volontariamente la Germania: tra gennaio e fine giugno sono partiti in 14.500. Ma a quella data le persone che il ministero dell’Interno ha condannato al rimpatrio immediato ammontavano ancora a quasi quattro volte tante, 55.620. Due mesi fa il Bundestag ha approvato un giro di vite nei confronti dei profughi che allunga i tempi di permanenza nei “centri di ancoraggio”, consente di rinchiuderli anche nelle carceri normali, alla vigilia della data di rimpatrio, cancella gli aiuti per i dublinanti e rende più severe le regole per chi falsificai documenti di identità. Un pacchetto fortemente voluto da Seehofer, ribattezzato da Ong come Pro Asyl “Legge Vattene”.

EUROPA FIRST? SIC! ITALIA FIRST? STRASIC!

A che punto è la notte?

Giustamente gli europeisti di “destra” e di “sinistra” accusano i partiti sovranisti del Vecchio Continente di essere «miopi vassalli» al servizio, che ne abbiano coscienza o meno, delle «potenze imperiali», ossia di Stati Uniti, Cina e Russia. Per «contrastare lo strapotere delle potenze imperiali», sostengono gli europeisti d’ogni tendenza, occorre «recuperare il sogno originario», messo in soffitta dagli egoismi nazionali che sono riesplosi come «sbagliata» risposta ai problemi sociali posti dalla crisi economica internazionale scoppiata undici anni fa. Insomma, i «popoli d’Europa» devono rimettersi sulla buona strada che porta agli Stati Uniti d’Europa, la sola possibilità che avrebbe il nostro Continente per non continuare a recitare il triste e umiliante ruolo del vaso di coccio tra vasi di ferro.

Per carità: non dite agli europeisti, di “destra” e di “sinistra”, che un polo imperialista europeo “finalmente” unificato non rappresenterebbe alcun un progresso per «la pace, il lavoro (salariato, cioè sfruttato), l’integrazione, i diritti umani, l’ambiente, la democrazia»! Potrebbero mettervi nello stesso sacco dei sovranisti e dei servi sciocchi «delle potenze imperiali».

Scrive Slavoj Žižek: «È talmente piena di pericoli questa nuova situazione, che si apre per l’Europa un’occasione unica: impegnarsi nella formazione di un nuovo sistema economico globale che non sarà più dominato dal dollaro americano come valuta globale. Nell’economia globale è guerra, dunque è tempo di misure estreme. L’Europa dovrebbe essere consapevole che non si può tornare alle condizioni esistenti prima di Trump. Per infliggere a Trump il suo giusto castigo è necessario un ordine mondiale davvero nuovo. Né la Russia né la Cina lo possono creare, sono all’interno dello stesso gioco di Trump, parlano lo stesso linguaggio dell’‘America (Russia, Cina) first’» (Come un ladro in pieno giorno). Morire, quantomeno metaforicamente, per gli Stati Uniti d’Europa, dunque? Ecco la mia “classica” risposta: trasformare l’attuale competizione imperialistica sistemica (economica, tecnologica, scientifica,ideologica, geopolitica) in lotta di classe “a 360 gradi”! Ognuno coltiva il sogno che più gli aggrada…

La realtà è che tutte le «potenze imperiali», compresa l’Europa unita e federale auspicata dagli europeisti, parlano lo stesso disumano linguaggio: quello del Dominio sociale capitalistico. Ma questa è una materia estranea al sofisticato pensiero degli “internazionalisti europeisti”.

SUI GILETS JAUNES

Qui sème la misère, récolte la colère!

Fin dall’inizio ho sostenuto che il movimento dei Gilet Gialli mi appariva interessante soprattutto per la sua natura sintomatica e per la sua possibile funzione di catalizzatore dell’antagonismo sociale generalizzato; ma dire “soprattutto” naturalmente non equivale a dire “esclusivamente”. La struttura sociale composita, contraddittoria e frammentata del movimento francese è, infatti, un oggetto molto interessante da analizzare in quanto tale, perché esso ci dice molto del conflitto sociale come si dà in questa fase storica nel cuore del capitalismo avanzato, e del modo in cui la dinamica capitalistica ha sconvolto e ridisegnato la mappa della stratificazione sociale nei Paesi occidentali. Due fatti che con ogni evidenza stanno tra loro in strettissimo rapporto. Quest’analisi permette al soggetto anticapitalista di misurarsi, quantomeno sul piano teorico, con il reale processo sociale, valutandone le contraddizioni, le potenzialità, i problemi che esso pone all’iniziativa politica orientata in senso radicale-rivoluzionario. E tutto questo senza nulla concedere alla suggestione di teorizzare la contingenza, generalizzandone lezioni e significati che molto probabilmente saranno smentiti nello spazio di qualche mese, se non di qualche settimana, considerata l’estrema volatilità “esistenziale” che caratterizza quest’epoca, non a caso definita “interessante” da chi intende trarre profitto dal caos sistemico sociale e geopolitico.

Per dirla con il filosofo dell’ovvietà, l’analisi di cui sopra sarebbe teoricamente e politicamente più corretta e feconda se venisse condotta dall’interno del movimento di lotta, ma il non poterlo fare nel vivo dello scontro sociale non azzera, a mio avviso, l’importanza di quello sforzo di comprensione e, fino a un certo punto, di “immaginazione creativa”.

Radicale, dicevo sopra non casualmente, nel senso marxiano del concetto: cogliere alle radici la disumana dialettica del Dominio; una fondamentale indicazione, questa, che deve afferrare con tutte le forze chi non intende scivolare nell’escrementizia palude dell’“anticapitalismo” praticato dai tifosi del Capitalismo di Stato – quello che certi intellettuali particolarmente “originali” chiamano Comune. Come la storia insegna, l’interventismo statale generalizzato attrae molto gli strati sociali più colpiti dalla crisi economico-sociale, ed è quindi anche con le forze stataliste (populiste, sovraniste) di “destra” e di “sinistra” che l’anticapitalista deve fare i conti, tanto più che il precedente armamentario politico, ideologico e sindacale (quello, per intenderci, fedele al mito resistenziale e alla Costituzione “più bella del mondo”) si mostra incapace di svolgere la sua reazionaria funzione di controllo e indirizzo dell’antagonismo sociale.

Rispetto alle settimane che hanno preceduto la prima manifestazione nazionale del 17 novembre 2018, il movimento dei Gilet Gialli ha cambiato pelle nel corso dei mesi, e questo mutamento non si arresta, anzi è in pieno corso. Alla rabbia delle casalinghe dell’entroterra francese alle prese con il rincaro delle bollette; di coloro che lavorano con l’automobile e i camion (i famosi “piccoli padroncini” che sfruttano se stessi in un modo ignobile), colpiti dalle cosiddette tasse ecologiche (sic!); e di chi è stato costretto a chiudere la propria piccola bottega a causa dei debiti e della concorrenza “sleale” da parte della grande distribuzione commerciale: alla rabbia di questa gente martellata quotidianamente da una condizione di vita sempre più difficile si è subito aggiunta quella di strati sociali sempre più diversi. Insomma, il simbolico Gilet Giallo ha finito per coagulare attorno a sé il disagio sociale di chi davvero «non riesce ad arrivare alla fine del mese»: lavoratori poco qualificati, precari, disoccupati, pensionati “al minimo”. E la lista dei “disagiati” che decidono di indossare un Gilet catarifrangente si allunga, anche perché in Francia si stima l’esistenza di oltre 9 milioni di poveri, la maggioranza dei quali peraltro non ha nemmeno un’automobile…  Chi scende in strada col Gilet si è di fatto assunto la rappresentanza di un malessere sociale che va molto al di là del numero dei manifestanti fatto registrare nelle diverse giornate di mobilitazione locale e nazionale.

Soprattutto nelle due ultime manifestazioni è stato evidente il protagonismo delle donne; colpite da una forte disparità salariale, dalla precarietà di lavori part-time, da una condizione familiare sempre più difficile, soprattutto se c’è un figlio colpito da un handicap da accudire, le donne del “popolo” hanno pagato molto duramente la crisi economica degli anni scorsi, che si è prolungata anche negli anni della “ripresina”. «Ad Avignone molte donne vivono nella loro macchina, con 500 euro al mese, a volte con dei bambini» (France Bleu). Avvicinata da un giornalista di ObjecifGard, una manifestante ha dichiarato: «I familiari che sono in pensione, invece di potere passare dei giorni felici, devono occuparsi del sostentamento quotidiano dei loro figli che non ce la fanno più». Ecco allora che il pensionato prende il Gilet Giallo e scende in campo, insieme al figlio e al nipote! Detto en passant, molti di questi nipoti non prenderanno mai una pensione, esattamente come i loro cugini di sventura italiani.

È solo con la manifestazione del 17 novembre, dunque, che il mondo scopre l’esistenza del movimento sociale francese chiamato Gilets Jaunes, ed è a quel punto che le forze politiche “populiste” e “sovraniste” (di “destra” e di “sinistra”: per me pari sono!) decidono di rompere gli indugi e di sostenerlo: per controllarlo, per strumentalizzarlo ai fini della lotta politica contro il Presidente “dei ricchi” Macron e, dulcis in fundo, per incassare quanto prima il non disprezzabile dividendo elettorale. Tanto più che i Gilet hanno subito conquistato la simpatia di gran parte dell’opinione pubblica francese, segno, come si diceva, di un malessere sociale molto diffuso. Da decenni la società francese si trascina dietro diverse magagne strutturali che solo l’attivismo da Grandeur delle sue classi dirigenti ha permesso, ma solo in parte, di nascondere. I Gilet hanno in parte sporcato, e forse perfino rotto, il giocattolo con cui Macron ha finora giocato sulla scena internazionale accreditandosi come un leader mondiale dinamico e “riformista”. La Cancelliera di Ferro lo ha fin qui assecondato, secondo il tradizionale (e molto aleatorio) schema dell’asse franco-tedesco, ma il quadro sociale e geopolitico è in rapida evoluzione, e le debolezze sistemiche della Francia potrebbero improvvisamente dar prova di sé impattando su una situazione già critica.

Dopo la manifestazione del 17 novembre, la sinistra radicale non orientata in senso populista-sovranista ha cercato di superare il precedente approccio con quel movimento; approccio che aveva visto il prevalere della consueta preoccupazione “purista” – come se non si desse alternativa rispetto all’atteggiamento di acritico e apologetico appoggio, ovvero alla sua sommaria liquidazione attraverso rigorose considerazioni “di classe”. La formula politica che ai suoi occhi ha sdoganato i Gilet Gialli è stata: «Questo movimento è legittimo»; come se il disagio sociale e la rabbia avessero bisogno di un qualsivoglia attestato di legittimità stilato da chicchessia! «Ma mi faccia il piacere!», avrebbe detto qualcuno.

Anche per i bonzi sindacali della sinistra “ufficiale” il movimento è diventato improvvisamente “legittimo” (dopo essere stato tacciato di fascismo, di razzismo, di vandeismo), e subito si sono messi all’opera per insegnargli le buone maniere, ossia come si tratta con il Governo secondo le sacre regole sancite dal “patto sociale”. La lotta di classe è (deve essere!) un pranzo di gala! Tra l’altro i sindacalisti hanno cercato di convincere i ribelli in gilet circa l’utilità sociale delle tasse. E ho detto tutto! A quanto pare l’opera di recupero istituzionale tentato dai sindacati gialli (CGT in primis) non ha ancora sortito grandi risultati, e il “Presidente dei ricchi” è stato costretto a subire l’ennesima giornata di ordinaria protesta: «Ancora una volta, una violenza estrema ha attaccato la Repubblica – i suoi custodi, i suoi rappresentanti, i suoi simboli. Quelli che commettono tali atti dimenticano il cuore del nostro patto civico. Giustizia sarà fatta». La CGT intanto pensa a uno sciopero generale che possa risucchiare i Gilet Gialli nel consueto alveo della politica progressista.

A proposito della Giustizia minacciata da Emmanuel Macron, c’è da dire che la repressione ai danni del movimento e di chi lo appoggia (vedi gli studenti) si fa sempre più dura. Scriveva qualche giorno fa una «portavoce dei gilets jaunes»: «Abbiamo a che fare con un potere esecutivo sordo ad ogni rivendicazione e che tenta di risolvere un problema politico con la repressione violenta. Contiamo oramai più di mille feriti e 12 morti, centinaia di gente arrestata, tribunali in panne e non molliamo. […] La violenza di cui vi fanno parte i media francesi é diventata disgraziatamente l’unica risposta umanamente possibile di fronte alla reazione del governo. […] È dura quando ti rendi conto che non sei più in democrazia». Mi viene da dire: è la democrazia (capitalistica), bellezza! Lo Stato democratico sa bene come combinare la politica della carota con quella del bastone. Lo so, scrollarsi di dosso l’illusione democraticista non è facile. In ogni caso, il pugno di ferro repressivo ha posto al movimento sociale il problema dell’autodifesa. La pratica dell’autodifesa può lasciare sul terreno una tutt’altro che disprezzabile esperienza utile anche ai futuri movimenti sociali. Facendo e sbagliando magari un domani si capirà che «il cuore del nostro patto civico» (Macron) batte per tenere in vita il dominio sociale capitalistico – e non questo o quel Governo, di “destra” o di “sinistra”, “sovranista” o “europeista”.

«Come mai queste violenze non suscitano una reazione nell’opinione pubblica, ma anzi c’è un implicito sostegno?», ha chiesto Anais Ginori (La repubblica) alla ricercatrice C. Lagier; risposta: «I responsabili di governo non hanno saputo vedere la crisi che si apriva nelle nostre società. E hanno aggravato la situazione cavalcando la democrazia d’opinione, instaurando metodi di governo che eliminano i corpi intermedi. È diventato un gigantesco boomerang perché sono saltati i filtri democratici. E dopo tante delusioni, molti francesi non si scandalizzano più davanti alla violenza. Si dicono: pazienza, forse è l’unico modo di cambiare un sistema bloccato ed inefficace» (La Repubblica 8/01/19). Quando la democrazia capitalistica entra in crisi, l’anticapitalista non può certo versare lacrime di dolore, e anche se sa benissimo che nulla garantisce a questa crisi di produrre un salto qualitativo nella coscienza dei subalterni (diciamo che oggi la cosa mi appare un tantino difficile…), nondimeno egli si muove in essa come un pesce nell’acqua. La crisi (economica, politica, istituzionale, ideologica, esistenziale) è ciò che rende improvvisamente possibile ciò che solo un minuto prima appariva impossibile. Ancora una volta preciso che non mi riferisco al momento presente: mi muovo sempre sul terreno della riflessione generale, e probabilmente anche generica. Più che analitico, qui voglio essere “suggestivo”, evocativo.

È vero che molti pseudo rivoluzionari approfittano delle manifestazioni dei Gilet Gialli per mettere in scena una pseudo rivoluzione solo per dispiegare una violenza contro cose, persone e simboli che non ha niente a che fare con la lotta delle classi subalterne, e che anzi spesso torna utile alla funzione repressiva dello Stato; ma questi “anticapitalisti” da stadio troveranno sempre meno spazio con l’estensione e la maturazione politica dei movimenti sociali, e la loro stessa presenza nelle manifestazioni, così apprezzata anche dai mass media che non aspettano altro che mostrare al grande pubblico televisivo macchine in fiamme, vetrine sfasciate e “guerriglia urbana”, è la manifestazione dell’attuale condizione di debolezza politica e sociale nella quale riversa la classe dei senza risorse. Certo, c’è sempre da sperare che qualche “anticapitalista” da stadio ancora capace di pensiero critico capisca, con l’esperienza, che non è mimando la “rivoluzione” che si contribuisce alla crescita politica dei movimenti sociali, ma lavorando al loro interno per seminare dubbi nei confronti del “bene comune” (chiamato anche interesse nazionale), della Costituzione, della democrazia (capitalistica), della Repubblica, del «patto civico». Bisogna essere radicali nelle posizioni politiche, non nei gesti autoreferenziali.

Dopo tanti decenni di avvelenamento stalinista, progressista e democratico, e di continui arretramenti sul mero terreno “tradunionista” di quello che un tempo si chiamava movimento operaio, l’anticapitalista non può certo illudersi di poter fare chissà che cosa, né che le classi subalterne possano disintossicarsi nel giro di qualche mese, anche in presenza di lotte vaste e di “avanguardie” agguerrite . C’è forse da stupirsi se i manifestanti sventolano bandiere tricolori e cantano la Marsigliese? «Lasciateci almeno l’identità nazionale, non abbiamo altro!». D’altra parte abbiamo visto in passato che grattando molte bandiere rosse si trovava sotto l’odioso tricolore nazionale. Purtroppo il cancro nazionale-statale ha attecchito a fondo nel corpo proletario, ed estirparlo non sarà facile, e dicendo questo sono già ottimista, visto che non escludo una possibile guarigione. Dare però questa guarigione per scontata, per inevitabile, addirittura per prossima è una musica che al mio orecchio suona semplicemente falsa, più che stonata. D’altra parte, chi sono io per criticare le altrui certezze!

Alcuni sinistri radicali hanno paura che politicizzandosi, il movimento possa aprirsi all’influenza dei partiti ultrareazionari (vedi Le Pen e Mélenchon), e per questo auspicano che la sua piattaforma rivendicativa rimanga quanto più possibile sul terreno strettamente economico. Ma a mio avviso questa preoccupazione è più il frutto di una debolezza politica che l’espressione di un corretto punto di vista “classista”. Il problema non è la politicizzazione dei movimenti sociali, fatto che dobbiamo dare per scontato, se si tratta di un movimento autenticamente sociale, generato cioè da reali bisogni economici ed “esistenziali”; il problema è piuttosto la qualità di quella politicizzazione, cosa che chiama in causa il ruolo che l’anticapitalista può ritagliarsi in quel movimento, e che prima ho sintetizzato nei seguenti termini: seminare dubbi nei confronti del “bene comune” (o interesse nazionale), della Costituzione, della democrazia (capitalistica), della Repubblica, del «patto civico». Tutte le volte che può l’anticapitalista deve a mio avviso favoleggiare intorno alla possibilità di una Comunità autenticamente umana, cosa che chiama in causa la “problematica” del potere politico, del farsi potere, anziché delegare ad altri la soluzione dei nostri problemi, e così via.  Altro che «Macron fuori dai cojon»! All’inizio la gente si metterà a ridere, e quasi certamente (lo dico per esperienza!) rinfaccerà all’anticapitalista la miserabile esperienza del “socialismo reale”; ma non bisogna lasciarsi intimidire dalla spaventosa pesantezza del compito, né sottovalutare la potenza evocativa delle parole: bisogna continuare a raccontare la favola, sperando che prima o poi essa possa conquistare la fantasia di qualcuno, e poi di qualcun altro, e così via. «Si comincia, poi si vede», diceva Lenin riprendendo Napoleone.

Non sto “dettando” una linea politica; sto dicendo cosa farei io. E, repetita iuvant (forse!), non mi riferisco all’attuale movimento sociale francese, la cui vitalità peraltro mi è ignota (è iniziato il suo riflusso o è terminata solo la sua fase iniziale?): faccio una riflessione d’ordine generale.

La politicizzazione di una parte del movimento sociale francese non deve insomma stupire nessuno, tanto meno la cosa può sorprendere chi ha sempre sostenuto che i movimenti economico-sociali sono anche, di fatto, movimenti politici, perché in ogni caso, e a prescindere dalla coscienza e dalla volontà dei suoi protagonisti, essi investono il problema del potere (sociale e politico), le relazioni tra le classi, i rapporti di forza tra classe dominante e classe subalterna, la dinamica dei partiti che amministrano, chi dal governo, chi dall’opposizione, lo status quo sociale, ecc. Né d’altra parte può sorprendere l’adesione della parte maggioritaria di quel movimento a ideologie ultrareazionarie, non importa se di stampo sinistrorso o destrorso; adesione che si spiega non tanto in grazia della sua composita struttura classista (detto en passant, la “purezza di classe” è un articolo che non mi ha mai affascinato, come sanno i miei critici ai tempi dei Forconi), quanto soprattutto col fatto che esso trova lungo la propria strada solo quel tipo di ideologie, solo organizzazioni politiche asservite al dominio sociale capitalistico. Le ideologie dominanti in ogni ambiente sociale sono le ideologie della classe dominante: purtroppo a questo ancora siamo, oggi come e più di ieri; con questa nefasta realtà deve fare i conti il punto di vista autenticamente anticapitalistico. Ma anche questa considerazione ha un significato generale.

Qualche giorno fa sono rimasto colpito da un articolo di Domenico Quirico (La Stampa) che puntava i riflettori sulle conseguenze sociali delle politiche di chiusura e respingimento in materia di immigrazione adottate dal nostro Paese e dagli altri Paesi dell’Unione Europea (ma, mutatis mutandis, anche gli Stati Uniti si muovono nella stessa direzione): che fine faranno gli immigrati africani che la fortezza europea ricaccia indietro? «Le notizie che arrivano da Nord del mondo sono chiare: le vie sono chiuse. In Niger, in Libia, lungo tutta la frontiera del mare i gendarmi, i soldati i funzionari ora vigilano. L’incredibile è accaduto: l’Europa ha sbarrato le porte del mare e di terra. Come se per miracolo avesse di colpo spostato le sue frontiere, i suoi muri più a Sud. Avesse reso più piccolo il mondo. Qualcuno, testardo, tenterà. Partirà egualmente. Forse qualche rivolo di migranti riuscirà ancora a passare. Ma era la Grande Migrazione verso il nord del mondo la stella polare su cui ruotava la vita di migliaia di giovani africani. E questa improvvisamente si è spenta. Da questa parte del mondo non ce ne siamo mai accorti, avvolti nella nostra piccola rete di paure razziste, di furberie geopolitiche, di ipocrisie. Ma la migrazione ha disincagliato la Storia di un continente, ora per reinventare il mondo dovranno rivolgersi a sé stessi. Non sarà passaggio lieve.  Una generazione di africani nel partire ha trovato una uscita di sicurezza alla miseria del loro presente, tanto da farne un rito di passaggio verso la vita adulta. Nel contempo ha allentato la stretta su economie sull’orlo della carestia e sollevato dalla prospettiva di essere uccisi in conflitti tribali e fanatici, o schiacciati da regimi implacabili. Ora sono di nuovi prigionieri di un cerchio remissivo che protegge e sfianca. Sono uomini che si devono ricomporre. […] La sconfitta collettiva impone una riflessione più complessa: i giovani possono ricomporre la loro condizione umana solo se rifiutano la colpa e la trasformano in rabbia. Hanno vissuto tutto il ciclo delle esperienze, superato le prove più dure e sentono di essere rimasti incompleti, mutilati. Diventano ribelli e rivoluzionari perché trasferiscono questa sensazione di incompletezza alla società in cui sono tornati: per metterla frutto. Li farà saltare il fosso. Finalmente con le spalle al muro liberano la rabbia che suscitano in loro vecchi misfatti riscaldati. La violenza come la lancia di Achille può cicatrizzare le ferite. C’è qualcuno che potrebbe sfruttare a suo vantaggio la rabbia di questi giovani sconfitti. I jihadisti. Sono lì, dal Mali alla Nigeria, dalla Somalia al Centrafrica. Attendono l’occasione. Tra questi giovani rimasti senza Migrazione c’è il “lumpenproletariat” africano ma anche una generazione istruita: dunque i futuri burattinai del terrore e i futuri martiri ciechi e inconsapevoli».

Una rapida considerazione. In primo luogo si conferma validissima la tesi circa l’islamizzazione del disagio sociale, della frustrazione, della ribellione, della radicalizzazione sociale; una tesi che ridicolizza quella, pompata dai politici e dai media occidentali, che ciancia di radicalizzazione dell’Islam, che è piuttosto la conseguenza di una crisi e di una disgregazione sociale, più che la sua causa. Cosa offre oggi il mercato politico-ideologico dei Paesi africani e mediorientali a milioni di giovani che vivono un’esistenza di miseria materiale ed esistenziale? Offre forse loro il “marxismo” (magari non quello, falsissimo, degli anni della post-decolonizzazione)? La risposta è tragicamente semplice, e tutti la conoscono: «C’è qualcuno che potrebbe sfruttare a suo vantaggio la rabbia di questi giovani sconfitti. I jihadisti». Appunto.

«Tra questi giovani rimasti senza Migrazione c’è il “lumpenproletariat” africano ma anche una generazione istruita: dunque i futuri burattinai del terrore e i futuri martiri ciechi e inconsapevoli». Insomma, si preparano nuove “Primavere”: centinaia di migliaia di giovani finiranno nel tritacarne della lotta di potere tra le diverse fazioni delle classi dominanti dell’Africa. Non è escluso che essi vengano reclutati in qualche guerra, più o meno regionale, dagli opposti imperialismi che si stanno disputando il controllo delle materie prime del continente africano – com’è noto, in questa competizione l’Imperialismo Cinese oggi segna un notevole successo nei di quello statunitense ed europeo.

Sembra che non si dia nemmeno la più remota possibilità che la collera di quei giovani immiseriti e oppressi in ogni senso possa trasformarsi in coscienza rivoluzionaria e, dunque, in prassi rivoluzionaria. Sembra che in Africa e in Medio oriente non ci sia alternativa alla islamizzazione della radicalizzazione sociale. Insomma, ovunque nel mondo la rabbia delle classi subalterne trova sul suo cammino solo le ideologie che legano quelle classi al carro della conservazione sociale; quelle classi non riescono ancora a impadronirsi dell’eccezionale idea secondo la quale esse stesse possono farsi potere (politico e sociale), che non c’è alcun bisogno di delegare a un partito, più o meno “tradizionale”, la rappresentanza dei loro bisogni, delle loro rivendicazioni economiche, politiche, sociali. Come diceva quello, se vogliono diventare soggetti della storia, i senza riserve devono farsi soggetto politico, conquistando quell’autonomia di pensiero e di azione che rappresenta la conditio sine qua non della loro possibile emancipazione. Chi ha la possibilità di suonare questa musica, come può, dove può e quando può, lo fa sempre con il massimo della gioia. Ho scritto gioia, non illusione.

SIAMO GIÀ AL “MOMENTO TSIPRAS”?

Sui sovranisti (soprattutto su quelli “alle vongole” e “pizza e mandolino”) gli europeisti possono certamente rivendicare un più alto tasso di verità alla loro comunicazione politica. Beninteso si tratta di una verità che parla l’odioso linguaggio del Dominio. Tuttavia oggi è il linguaggio della propaganda sovranista, non quello della realpolitik europeista, che assicura ai politici un più ricco bottino elettorale. Oggi; domani si vedrà! A questo punto è semmai da chiedersi se la sgangherata “narrazione” sovranista-populista messa in piedi dal cosiddetto “governo del cambiamento” (in peggio; ma il peggio è un pozzo senza fondo: a questo peggio farà seguito un altro peggio, statene certi) può reggere l’urto dell’armistizio (alcuni parlano di resa incondizionata, di «badoglismo», di «retromarcia clamorosa») siglato l’altro ieri con Bruxelles, e durare fino alle prossime elezioni europee. Perché fin da subito è stato evidente quale fosse l’orizzonte politico che aveva in testa la “strana coppia” pentaleghista, anche se ovviamente i parenti-serpenti gialloverdi continuano a vendere sul mercato della propaganda politica una durata ben più ampia: «Dureremo almeno cinque anni, forse cinquanta, visto che l’opposizione è ormai morta e sepolta».  Ma oggi la volatilità politica dell’opinione pubblica è talmente esasperata, che fare previsioni elettorali anche di brevissimo termine è diventato quasi impossibile. Per chi scrive poi la cosa è del tutto irrilevante: al sondaggismo preferisco l’astrologia!  Ma insomma, ha vinto Roma o Bruxelles? La “manovra del Popolo” è stata scritta in Italia dal primo governo orgogliosamente “sovranista” della recente storia italica o dai “burocrati di Bruxelles” al servizio dei “poteri forti”, di Berlino, di Parigi e… di Soros (ma sì, meglio abbondare nella ricerca dei capri espiatori eventualmente da sventolare sotto gli occhi di un elettorato deluso e arrabbiato)?

Regge alla prova dei fatti l’immagine della «manovra scritta a Bruxelles a un governo con il cappello in mano e le braghe calate» (Vasco Errani, Leu)? Sembra proprio di sì, soprattutto se guardiamo la manovra nella sua proiezione triennale. Di certo si tratta di una manovra piena di trucchi contabili che consentono alla Commissione di Bruxelles e al governo italiano di parlare di «vittoria del buon senso» (Salvini) e di rinviare a dopo le elezioni di Maggio 2019 la resa dei conti, soprattutto con le condizioni di vita dei lavoratori e dei pensionati.

Per il noto Avvocato del Popolo si è trattato di un pareggio, di un compromesso («non al ribasso») che alla fine ha accontentato tutti: «Abbiamo evitato la bocciatura della Commissione senza sacrificare i pilastri della nostra manovra, la quale come tutti sanno guarda agli interessi del Popolo». Che bella quadratura del cerchio! Diciamo anche che il caos della Brexit e la “nuova politica economica” annunciata da Macron (e dal Premier belga) per arginare il movimento dei Gilets Jaunes hanno ammorbidito, e non poco, la Commissione, esposta alla facile critica di voler aiutare qualcuno e penalizzare altri: «In Europa non ci sono figli e figliastri», hanno piagnucolato in coro i due azionisti di maggioranza del “governo del cambiamento” mentre il Ministro Tria incassava i colpi dell’«ubriacone» Jean-Claude Junker e di Pierre Moscovici, francese e dunque, secondo Salvini, nemico naturale degli interessi italiani. «Io lo spread lo mangio a colazione», diceva qualche mese fa sempre il Truce (copyright Giuliano Ferrara); si vede che gli è rimasto in gola. Intanto il “falco” vicepresidente Ue Valdis Dombrovskis ha fatto sapere che «se qualcosa va male possiamo tornare sulla questione a gennaio. La scadenza per decidere sulla procedura è a febbraio. Su questo siamo stati molto chiari nella risposta all’Italia».

Insomma, se non si può parlare di commissariamento, poco ci manca. Lo spaccone che ama sussurrare alla ruspa ha subito replicato: «Rispondo ai Commissari europei che dicono che i conti italiani resteranno sotto controllo che sarà il governo italiano a tenere sotto controllo il bilancio europeo». «Che paura!», si saranno detti i “burocrati di Bruxelles”.

Per l’opposizione parlamentare di «manovra del Popolo» si deve, in effetti, parlare perché sarà appunto il Popolo a pagare i danni già fatti (vedi alla voce spread) e quelli che verranno se il “governo del cambiamento” non cambierà radicalmente la sua impostazione politica: «Siete dilettanti allo sbaraglio». «No, siamo dei geni che hanno ereditato i vostri disastri», rispondono quelli che hanno eliminato, nell’ordine, la povertà, l’immigrazione, la corruzione, l’arroganza della Commissione Europea e diverse altre magagne che al momento mi sfuggono. Il senatore di Fratelli d’Italia Adolfo Urso ha dichiarato (con la precisa intenzione di cospargere sale sulle ferite degli amici leghisti) che la manovra del Popolo è sì stata scritta a Bruxelles («altro che sovranismo!»), ma che si tratta in ogni caso della «prima manovra comunista» della storia italiana: e com’è possibile una cosa simile? Infatti, non è possibile. Il poverino intendeva dire statalistaassistenzialista: «Invece di creare ricchezza e lavoro promuovendo politiche di sostegno alle imprese, distruggete ricchezza e lavoro sussidiando per scopi clientelari i disoccupati e i poveri. L’unica cosa che avete abolito è la verità». L’ex Ministro Lamberto Dini ha espresso un concetto analogo: «Questa manovra sembra stata scritta da Rifondazione Comunista, o dal PCI, solo senza l’intelligenza dei comunisti». Chissà come suonano queste parole alle orecchie dei “comunisti”. C’è anche da dire che della “manovra del popolo” alla Commissione interessavano i saldi contabili finali, più che il contenuto “socio-politico”.

Tra l’altro, a proposito di misure assistenziali-clientelari, non si sa ancora che ne sarà del reddito di sudditanza: è uscito vivo o morto dalla “trattativa dialettica” (copyright di Giuseppe Conte) con la Commissione Europea? Si sa invece, per la felicità dei teorici della “democrazia diretta” (da qualcuno che è più uguale degli altri, come dicevano i maiali di Orwell), che il Parlamento praticamente non avrà modo di dire alcunché di essenziale sulla manovra confezionata dal governo italiano e dalla Commissione. «Ma così la democrazia muore!» Un urlo di dolore che non può certo toccare il cuore dei denigratori della democrazia capitalistica – sto parlando di me, non di Casaleggio.

Il discorso tenuto qualche settimana fa al Sant’Anna di Pisa da Mario Draghi, il Presidente della BCE che gli europeisti tricolore vedrebbero benissimo a capo del prossimo governo di salvezza nazionale, è a suo modo un saggio di verità che agli occhi dei sovranisti di tutte le tendenze politiche è apparso come il crocifisso agitato dal prete al cospetto del Demonio in persona: «Vade retro, Sovranista!» Ecco, in estrema sintesi, il sermone europeista uscito dall’arida bocca del Dragone: «Dal varo del sistema monetario europeo la lira fu svalutata sette volte, eppure la crescita della produttività fu inferiore a quella dell’euro a 12, la crescita del prodotto pressappoco la stessa, il tasso di occupazione ristagnò. Allo stesso tempo l‘inflazione toccò cumulativamente il 223% contro il 126% dell’area euro a 12. Alcuni paesi persero sia i benefici della flessibilità dei cambi che la sovranità della loro politica monetaria, e i costi sociali furono altissimi, in un processo che si concluse con le crisi valutarie del ‘92-’93. La possibilità di stampare moneta per finanziare il deficit non è usata neanche dai Paesi che fanno parte del mercato unico ma non sono parte dell’euro, e ciò smentisce le tesi di chi parla dei presunti vantaggi che deriverebbero dalla sovranità monetaria. Bisogna ricordare che prima dell’euro le decisioni rilevanti di politica monetaria erano prese in Germania, mentre oggi sono partecipate». «Partecipate» solo fino a un certo punto, visto che sul terreno della potenza sistemica (economica, tecnologica, scientifica, ecc.) la Germania rimane il Paese di gran lunga più forte dell’Unione Europea, e che quindi ha più voce in capitolo degli altri Paesi sulle decisive questioni commerciali e finanziarie. I rapporti di forza contano eccome, ma Draghi certe cose non può dirle in pubblico, può solo pensarle, e magari esternarle fra qualche tempo, quando avrà concluso il suo servizio presso la Banca Centrale Europea e iniziato una nuova carriera al servizio del “bene comune”. Come ho scritto altrove, ai Paesi dell’Unione Europea non si dà altra alternativa alla costruzione del polo imperialista egemonizzato dalla Germania che non sia la “scelta” di mettersi sotto tutela “sistemica” nei confronti dei poli imperialistici concorrenti. Non a caso prima di arrivare a più miti consigli, il governo del Popolo sovrano ha strizzato l’occhio ora a Putin, ora a Trump, ora a Xi Jinping, nel tentativo di impaurire e spiazzare Bruxelles, che evidentemente non si è lasciata né impaurire né spiazzare. A suo tempo, il governo “rivoluzionario” di Tsipras e Varoufakis tentarono lo stesso puerile giochetto, con i risultati che sappiamo. La sovranità nazionale è un mito ultrareazionario il cui fondamento oggettivo (economico) è smentito sempre di nuovo, e rimane efficace solo come maligna ideologia intesa a catturare il consenso delle masse, soprattutto in tempi di crisi e di guerre.

Bisogna anche ricordare che la Germania, interessata a conservare la propria sovranità monetaria basata sul forte Marco, all’inizio si oppose strenuamente all’introduzione dell’Euro voluta soprattutto dal Presidente francese François Mitterrand, preoccupato dall’unificazione tedesca seguita al crollo del Muro di berlino. «Il morso per tenere a bada la Germania parve essere, allora, a Mitterrand, l’euro, la moneta unica europea vista come lo strumento per mettere in riga la Germania, diluendone la forza negli altri paesi della Ue. Non a caso, la Germania, in quegli anni, recalcitrò a lungo di fronte a questo strumento monetario. L’euro, da Mitterrand, era visto come un salasso permanente a danno del marco tedesco che, già prima dell’unificazione, si era connotato come la moneta europea più forte. Sennonché, in base all’eterogenesi dei fini, l’euro, al posto di essere un salasso per domare, mettere in riga e tenere la Germania al passo con gli altri paesi, si è rivelato adesso, in pratica, e paradossalmente, come lo strumento per assicurare l’egemonia di Berlino sull’intera Europa» (P. Magnaschi, Italia Oggi). Il fatto, materialisticamente parlando, è che alla fine, presto o tardi, la forza dell’economia (con tutto quello che ciò presuppone e pone a livello sistemico: scienza, tecnica, istruzione, cultura, ecc.) si impone sempre su ogni calcolo politico.

Ha poi senso parlare di svalutazioni competitive nel quadro della cosiddetta catena globale del valore (1)? In generale assai poco, nel caso italiano pochissimo, anche perché l’Italia è quasi del tutto priva di materie prime. Un’automobile prodotta in Italia, ad esempio, assembla componenti provenienti da diverse parti del mondo, e alla fine il bilancio di valore tra componenti importate e prodotto finito esportato potrebbe risultare sfavorevole a una competitività ricercata sul terreno del differenziale monetario. Per le imprese la via maestra al successo commerciale è sempre stata quella dello sviluppo tecnologico orientato all’incremento di produttività del lavoro.

Tra l’altro il Presidente della BCE ha ribadito un concetto a lui caro: o si va avanti nel processo di integrazione, concludendolo positivamente nel volgere del medio tempo, così da assicurare a tutti i Paesi dell’Unione più crescita e occupazione, oppure bisogna prepararsi a nuovi scossoni economici, finanziari, politici e sociali nell’aria euro che faranno ballare e infine deragliare rovinosamente il carrozzone europeo. Com’è noto, sono soprattutto i Paesi del Nord’Europa che si oppongono alla piena integrazione bancaria (unione bancaria e bilancio comune), atterriti come sono dalla prospettiva di dover sostenere finanziariamente i Paesi «spendaccioni» del Mezzogiorno (l’Italia, in primis), i quali usano la leva fiscale in chiave elettorale-clientelare: «Roma, ladrona, il Nord’Europa non perdona!» Berlino manda avanti i cani “leghisti” del Nord per costringere le cicale del Sud a convergere su parametri strutturali assai più “sostenibili”, perché nessuno è disposto a pagare il clientelismo degli altri: a casa nostra siamo tutti padroni! Pare che la Cancelliera Merkel non abbia molto apprezzato la “calata di braghe” di Macron nei confronti dei rivoltosi in gilet, perché la sua conversione “populista” ha impedito la resa incondizionata del governo italiano.

È dalla fine degli anni settanta del secolo scorso che la parte più avveduta della classe dirigente di questo Paese va alla ricerca di un «vincolo esterno» in grado di eliminare la facile tentazione offerta dalla svalutazione competitiva, e così innescare un virtuoso processo di “riforme strutturali” in grado di mettere il Made in Italy («L’azienda Italia», come si cominciò a dire negli anni Ottanta) nelle condizioni di affrontare con uno spirito “nuovo e vincente” la competizione capitalistica internazionale. L’adesione alla moneta unica europea, in un’area monetaria che tutti gli esperti del pianeta riconoscevano non essere «ottimale» (2), sembrò mettere felicemente un punto alla ricerca del mitico vincolo esterno. Mutatis mutandis, pare invece che la ricerca continui, come dimostra il “momento Tsipras” che sta vivendo il “Governo del Popolo” – quello che aveva abolito la povertà dal noto balcone, e che doveva spezzare le reni a mezzo mondo. D’altra parte ci fu un tempo in cui l’Italia osò dichiarare guerra perfino agli Stati Uniti! Diciamo che alla classe dirigente di questo Paese non è mai mancato né il senso del ridicolo né una massiccia dose di opportunismo – non sempre baciato dalla fortuna, come sappiamo.

Leggo da qualche parte: «C’è bisogno d’altro, c’è bisogno di occupare lo spazio, lasciato vuoto, della rottura della gabbia dell’Unione Europea e di riempire le piazze, come in Francia, delle lotte e delle rivendicazioni degli sfruttati. A questo lavoriamo, questo dobbiamo costruire, a partire dalle firme per le leggi di iniziativa popolare che mirano a eliminare il pareggio di bilancio dalla Costituzione e a introdurre il referendum popolare sui trattati internazionali». Ma la gabbia che bisogna mandare in frantumi è piuttosto quella che il rapporto sociale capitalistico costruisce ogni giorno, sempre di nuovo, a prescindere da chi, pro tempore, si occupa della parte politico-amministrativa del dominio sociale! Basta vendere fumo sovranista agli sfruttati! Sovranisti (quasi sempre orientati in senso statalista) ed europeisti (di solito orientati in senso liberista) sono le due facce della stessa escrementizia  medaglia. Per i lavoratori il problema non è rappresentato dal «pareggio di bilancio» introdotto nella Costituzione, o dal fatto che essi non abbiano voce in capitolo sui trattati internazionali (vogliamo forse “decidere” a quale albero geopolitico impiccarci?): il problema, uno tra i tanti, è che ancora oggi essi si lasciano abbindolare dai guardiani della Costituzione “più bella del mondo”, la quale ovviamente inchioda ideologicamente le classi subalterne alla croce dei sacri interessi nazionali – sebbene in “armonia” con il quadro internazionale uscito fuori dal Secondo macello imperialistico mondiale, che nel frattempo è assai mutato: di qui i tentativi di “riformare” la Sacra Carta. Non è rimanendo sul terreno della riforma costituzionale che le classi subalterne possono lottare con efficacia e autonomia contro «il partito del Pil».

(1) «È il processo organizzativo del lavoro – figlio della globalizzazione e della riduzione “fisica” e “virtuale” delle distanze geografiche – in base al quale le singole fasi della filiera di produzione vengono parcellizzate e svolte da fornitori e reti di imprese sparse in diversi Paesi in base alla convenienza economica e al grado di competenza e specializzazione delle diverse aziende coinvolte. Dalla concezione del prodotto alla vendita diretta al consumatore, tutte le fasi intermedie si possono coinvolgere in un network di imprese dislocate in diversi paesi» (Il Sole 24 Ore).

(2) In un saggio del 1995, Pier Carlo Padoan segnalava tutte le criticità dell’integrazione monetaria, sottolineando soprattutto le asimmetrie nella distribuzione dei benefici dell’integrazione a favore del Nord Europa e a danno dei «Paesi periferici», concentrati nel Sud del Vecchio Continente. Egli paventava soprattutto l’allargamento del mercato europeo a Est. «L’integrazione non comporta semplicemente l’eliminazione di barriere, ma richiede la definizione di nuove regole, la definizione cioè di un regime di regolazione dei rapporti tra gli Stati sovrani. […] Emerge, in altri termini, il ben noto fatto che ogni processo di integrazione è, soprattutto, un processo politico. […] È la Germania il Paese che mostra una più sviluppata capacità di adattamento. […] I risultati dei lavoro di seguito considerati si possono così riassumere: la Germania sarà il Paese a beneficiare di gran lunga più degli altri dall’allargamento del mercato che ne deriverà» (P. C. Padoan, Dal mercato interno alla crisi dello SME, NIS editori, 1995). Leggi: L’Europa non è (ancora) un’area monetaria ottimale.

 

 

A PARIGI, A PARIGI!

Continua la lotta dei gilets-jaunes; «Il Presidente Macron deve considerarci, perché siamo tanti, di tutti gli strati della popolazione. Vogliamo essere ricevuti all’Eliseo, bisogna discutere, non blocchiamo stupidamente tutto il Paese senza motivo. Il dialogo deve cominciare»: è quanto ha dichiarato un leader della protesta ai microfoni di Bfm-Tv. Il Governo francese continua a non voler “dialogare”, anche perché non intende creare un antipatico precedente che potrebbe dare la stura alle rivendicazioni di altri strati della società. Il disagio sociale è tanto, e si fa presto a bloccare un intero Paese!

Anna Maria Merlo sul Manifesto ha definito il movimento di cui si parla «un oggetto sociale non identificato»; non sono in grado di dare giudizi su questa definizione, anche perché di quel movimento conosco assai poco, e cioè solo quello che ho letto sui giornali, i quali peraltro danno su di esso informazioni non sempre fra loro coerenti. Quello su cui oggi vorrei riflettere brevemente è piuttosto sul carattere sintomatico di quel movimento sociale e sulle sue oggettive (e in un certo senso astratte) potenzialità. Inutile dire che dalle mie parti ogni illusione su questo movimento è pari allo zero, e questo lo dico soprattutto a chi, dopo aver fatto l’analisi al sangue ai gilets-jaunes, ha riscontrato in quel movimento preoccupanti tracce di ideologia di estrema destra – vedi Philippe Martinez della Cgt.

Forse complice il cinquantenario del ’68, i media europei hanno subito avvertito l’urgenza di comunicare all’opinione pubblica del Vecchio Continente che con la protesta dei “gilet gialli” francesi non abbiamo a che fare con una rivoluzione: si tratta di un vasto movimento di protesta che il Governo francese oggi stenta a contenere e a piegare, ma non di una rivoluzione. Questo lo avevo capito perfino io. Aldo Cazzullo ci mette invece in guardia: «La Francia ha il mito della piazza, anzi della “rue”, la strada. È un Paese che non procede per riforme, ma per strappi, se non per rivoluzioni. Non è il caso ovviamente di scomodare il 1789, il 1830 con la caduta del re Borbone, il 1848 con la Seconda Repubblica, fino al Maggio ’68. Ma quei precedenti sono ben vivi nella memoria nazionale; la rivolta, l’insurrezione, la prova di forza rappresentano un elemento della cultura politica transalpina» (Il Corriere della Sera). E la Comune di Parigi del 1871, dove la mettiamo? In effetti, l’omissione “storica” di Cazzullo ha una ragion d’essere: la Comune di Parigi, infatti, mal si concilia con lo spirito nazionale francese, essendo stata piuttosto l’espressione (e poi la bandiera) della lotta di classe del proletariato internazionale.

Ma chi sono questi gilet gialli? «Sono operai, pensionati, impiegati, lavoratori di ogni ordine e grado che, attraverso i social network, si sono auto-organizzati» (Panorama). La composizione sociale del movimento è insomma tale da suscitare le giuste apprensioni da parte della classe dirigente francese, che a quanto pare non si trova a dover fare i conti con la rabbia di strati sociali che è possibile criminalizzare, marginalizzare e reprimere abbastanza facilmente e con il consenso di vasti settori di opinione pubblica. I media francesi assicurano, sondaggi alla mano, che tre francesi su quattro sostengono la lotta dei “gialli”.

A ogni buon conto, la democrazia capitalistica reagisce secondo il solito schema: carota (“moratoria” sull’aumento delle accise sui carburanti) e bastone, mea culpa («non sono riuscito a riconciliare il popolo francese con i suoi dirigenti», ha confessato Macron) con contorno di promesse e minacce – carcere fino a due anni, multe fino a 4.500 euro, forte penalizzazione per ciò che riguarda la patente (sottrazione di 6 punti) e sequestro dell’auto. Dichiarare che lo Stato è pronto a colpire la patente e l’automobile di chi non rispetta le leggi a persone che tutti i giorni sono costrette a muoversi in auto per raggiungere i luoghi di lavoro, non è minaccia da poco. Fino a oggi la strategia governativa non sembra aver conseguito alcun successo, mentre l’onda gialla cresce e rischia di diventare una marea di ribellismo sociale pronta a schiantarsi su Parigi, il luogo in cui in Francia tutto si decide, nel bene come nel male.

Leggo sul Foglio di ieri: «L’ultima jacquerie francese è quella dei “gilet gialli”, movimento sociale nato spontaneamente sul web per denunciare l’aumento delle tasse sulla benzina (3 centesimi) e sul diesel (6 centesimi) introdotto da Emmanuel Macron a partire dal 1° gennaio 2019 – l’obiettivo del presidente, all’orizzonte 2022, è rendere meno costosa la benzina rispetto al diesel, più inquinante, e favorire la transizione ecologica». Oggi Giuliano Ferrara ribadisce il concetto: trattasi di una «Jacquerie del Suv in terra di Francia, una notizia spettacolare» che fa perfino ombra ai tanti e importanti fatti politici che si stanno producendo in Europa. «Niente più lotta per il pane o l’identità», continua Ferrara, «oggi in Francia la nevrastenia da chattamento ha prodotto un’insurrezione fiscale». Si tratterebbe insomma di un corto circuito tra “nevrastenia social” e insofferenza fiscale. Ferrara sembra dimenticare che molti “suvvisti” per guadagnarsi il pane devono spendere molti soldi in odiose accise.

Ora, ha senso politico definire jacquerie la protesta dei gilet gialli che da giorni crea non pochi grattacapi al Presidente Macron (peraltro impegnato a progettare una “nuova Europa” per rialzare le quotazioni, bassissime, di quella vecchia)? Forse dal punto di vista “riformista”, ossia dalla prospettiva di chi auspica una Francia più dinamica e competitiva, quella definizione, che da sempre ha una chiara connotazione reazionaria, ci può anche stare. E infatti così continua Il Foglio: «La mobilitazione di oggi contro il rincaro del carburante è anche una protesta contro il senso di isolamento di una certa Francia, quella che non si sente coinvolta dalla dinamica riformista di Macron, non gode dei vantaggi della globalizzazione e si sente vessata dalla pressione fiscale». La jacquerie dei perdenti della globalizzazione minaccia il cuore pulsante della modernità capitalistica? Siamo dinanzi a un tentativo di accerchiamento della Capitale francese (tendenzialmente alla portata solo di chi ha una professione molto remunerativa) da parte della periferia povera e refrattaria a ogni progresso civile reso possibile dallo sviluppo tecnologico? Futuro contro passato? La verità è che la politica “ecologista” del Governo francese ha impattato violentemente su uno strato sociale già duramente provato dalla crisi economica e dalla pressione fiscale. È bastata una scintilla per far esplodere una situazione satura di disagio sociale.

«“Il nostro obiettivo è essere la cassa di risonanza di tutti i malcontenti”, ha detto ieri su Bfm.tv Benjamin Cauchy, portavoce dei “gilet gialli”, prima di aggiungere: “Il nostro movimento è la Francia periferica, non è né di sinistra, né di destra, è la Francia che non ce la fa più ad arrivare a fine mese”. […] Il movimento sociale che sta prendendo in contropiede il governo non è un “epifenomeno” destinato a svanire rapidamente, come alcuni lo avevano definito prima di sabato. E la prova che questa contestazione inedita, senza etichette politiche né sindacali, è più compatta del previsto, arriva dall’annuncio di un “Atto II”, che si svolgerà il 24 novembre a Parigi. “Dobbiamo dare il colpo di grazia e salire tutti a Parigi con ogni mezzo possibile (car-sharing, treno, autobus, etc…). Parigi, perché è qui che si trova il governo!!!! Aspettiamo tutti, camion, bus, taxi, Ncc, agricoltori etc. Tutti!!!!!!”, si legge nella descrizione dell’evento Facebook, organizzato da uno dei guru della protesta, Éric Drouet, professione camionista» (Il Foglio, 20/11/2018). A Parigi, a Parigi!

Finora il movimento “giallo” sembra refrattario nei confronti delle sirene populiste di “destra” e di “sinistra”, il cui linguaggio e le cui ricette peraltro diventano sempre più simili, in virtù del noto teorema politico: insistendo sullo stesso escrementizio terreno sociale (la difesa del Capitalismo), gli estremi politici tendono a toccarsi. «Solo i Verdi non dimenticano gli impegni ecologici e obtorto collo non si scagliano contro il governo» (Il Manifesto). Com’è noto, ai Verdi piace assai un Capitalismo eco-sostenibile, un Capitalismo rispettoso dell’ambiente naturale, e poco importa se c’è un prezzo da pagare per raggiungere questo meraviglioso obiettivo. Evidentemente i “gialli” questo prezzo non intendono pagarlo: «Che trogloditi!»

Dopo qualche esitazione, quando ha capito che i gilet gialli non erano il frutto di una bolla mediatica nata sui social, Marine Le Pen si è schierata dalla loro parte, pregustando un facile successo già alle elezioni europee del prossimo maggio: «La Francia che lavora, la Francia che paga le tasse, la Francia che non chiede mai nulla, oggi, è venuta a dire “stop”, “non ne possiamo più”. […] Questo “popolo centrale” sta soffrendo. Fino a oggi, soffriva in silenzio. Ora non vuole più essere sottomesso». Non è affatto escluso che una consistente quota di astensionismo elettorale, forte proprio nella componente sociale che alimenta il movimento giallo, possa trasformarsi in consenso elettorale per i populisti-sovranisti.

Naturalmente le classi dirigenti del Paese temono che questo movimento sociale possa innescare altri movimenti (di operai, di disoccupati, di piccola e media borghesia declassata, di studenti, di proletariato marginalizzato che vive nelle banlieue delle grandi città) nel cuore della metropoli francese. Il contagio sociale: è questo che le classi dominanti e i loro funzionari politici temono più della peste. È un istinto di classe che si attiva tutte le volte che la gestione dei conflitti sociali diventa problematica a causa dei limiti manifestati dalle istituzioni tradizionali, partiti e sindacati compresi. La democrazia capitalistica vive una profonda crisi di legittimità. Benissimo!

POPOLO, TUTTO SI FA (E SOPRATTUTTO SI DICE) PER TE!

Pierre Moscovici: «Bocciamo la manovra presentata dal Governo italiano perché essa va soprattutto contro gli interessi del popolo italiano. Il debito affossa il welfare di oggi e distrugge il futuro dei nostri figli. Noi pensiamo al benessere di tutti i popoli dell’Unione Europea».

Matteo Salvini: «Non stanno attaccando un governo, ma un popolo. Noi andiamo avanti, tiriamo dritto, perché il popolo italiano ci sostiene».

Renato Brunetta: «Gli interessi elettorali di Salvini e Di Maio stanno portando il popolo italiano al disastro! Noi non lo permetteremo!»

Sebastian Kurz: «La ricerca del facile consenso elettorale da parte di un governo populista non cadrà sulle spalle del popolo austriaco».

Luigi Di Maio: «Prima di tutto i cittadini, il popolo italiano, che adesso vuole che noi rispettiamo le promesse fatte in campagna elettorale. Prima di tutto. E poi i mercati ci vogliono bene! Comunque, e prima di tutto, noi non arretreremo di un solo millimetro! Viva il popolo! Prima di tutto!»

Lorella Cuccarini: «Io sostengo questo governo, è il più amato dal popolo italiano. Tra popolo e spread, io scelgo il popolo».

Alessandro Sallusti: «Salvini dice che Bruxelles ha dichiarato guerra al popolo italiano, ma è questo governo che ha dichiarato guerra al popolo italiano! Salvini e Di Maio forse stanno cercando di vendere la sovranità del popolo italiano ai russi, ai cinesi e agli americani, che infatti sono invitati a comprare i titoli del nostro debito pubblico in caso di disastro finanziario. Come sempre a rimetterci saranno i più poveri, sarà il popolo».

Giuseppe Conte (rivolto a Vladimir Putin): «Mi auguro che lei possa venire in Italia al più presto, manca da troppo tempo: non vorrei che il popolo italiano pensasse che lei non gli presta attenzione».

(Io, ad esempio, non ci dormo la notte! Virile Vladimir, che aspetti a incontrare il popolo italiano? Ma dopo la povertà, non potevamo abolire anche gli avvocati del Popolo?).

Joerg Meuthen (presidente di Alternativa per la Germania, sovranista/populista di “estrema destra”): «Bravo Salvini! Lo scontro con la Commissione Europea sulla manovra insegna che l’Italia è uno Stato sovrano. Deve essere il popolo italiano a caricarsi sulle proprie spalle onori ed oneri».

Jean-Luc Mélenchon (leader della France insoumise, sovranista/populista di “estrema sinistra”): «L’Ue è diventata una prigione del popolo. La decisione della Commissione di bocciare la manovra di Movimento 5 Stelle e Lega è una spoliazione della sovranità di una nazione e di un popolo. Gli italiani hanno diritto di decidere cosa è bene per l’Italia».

Ah Popolo, cosa non si fa per te (e ancora non hai visto niente…)!

Post Scriptum

Qui il termine populismo va declinato in un’accezione più vasta di quella che esso ha nella polemica politica che oppone, gli uni contro gli altri armati (per adesso solo di parole), populisti/sovranisti e antipopulisti/europeisti. Nella politica al servizio delle classi dominanti c’è infatti una gara a chi è più amico del Popolo, a chi meglio fa “i veri” interessi del Popolo. In questo senso qui parlo di populismo. Avevo pensato di scrivere: «I politici, che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa». Ma correvo il rischio di passare a mia volta per… populista! Certo, avrei potuto precisare: i politici borghesi, oppure i politici al servizio delle classi dominanti, ecc., ma così avrei appesantito inutilmente la frase e distrutto il suo legame con i passi della bella canzone di Francesco De Gregori, a cui mi sono ispirato (nostalgia canaglia!): «Mussolini ha scritto anche poesie, i poeti che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa» (Le storie di ieri).

ROMA, LADRONA, BERLINO NON PERDONA!

«Cosa succede quando gli interessi di un populista si scontrano con quelli di un altro populista? È scontro totale, senza alcuna solidarietà. Ognuno tira l’acqua al suo mulino. È quel che ha fatto Alice Weidel, leader di Alternative for Deutschland, l’estrema destra tedesca, che su twitter ha calato il randello su Matteo Salvini.  “La folle manovra degli italiani a spese della Germania: perché dobbiamo pagare noi per i ricchi italiani? Orrendo nuovo indebitamento: sono pazzi questi romani! L’Italia si affida alla solidarietà europea o sul fatto che la Bce annulli i suoi debiti obbligazionari. In questo modo la Germania sarà ancora una volta l’ufficiale pagatore”» (Dagonews).

Come sempre, c’è sempre un leghista/sovranista/populista più leghista/sovranista/populista di te.

FRANCE À FRIC

«Nel linguaggio comune esiste un gioco di parole, ossia France à fric: la pronuncia è la stessa di Françafrique ma la forma scritta deriva dall’espressione argotica pompe à fric (macchina da soldi), chiaramente riferita al saccheggio delle ricchezze e risorse naturali africane da parte della Francia» (1).

 

«”Perché un continente così ricco di risorse naturali è anche così povero? Perché quelle terre vengono depredate da multinazionali e governi come quello francese, che con la sua politica neocoloniale si accaparra materie prime e terre rare causando disastri ambientali e desertificazione. 14 stati africani pagano ancora il pizzo alla “madrepatria” attraverso il Franco CFA. La Francia dell’ex banchiere Macron, con il suo neocolonialismo predatorio è una delle maggiori cause dell’immigrazione e invece di farsi carico dei danni che crea chiude le frontiere. Dovrebbe avere la decenza di starsene in silenzio”. È quanto dichiara Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia» (Agenpress, 3 agosto 2018). «Che fine ha fatto la missione italiana in Niger che i francesi hanno bloccato? Bella domanda. I francesi sono un problema, perché la loro è una strategia economica, non umanitaria. I francesi hanno un approccio imperialista e colonialista che non è apprezzato in Africa e quindi qualche paese è disponibile a ragionare di fronte a investimenti veri. Mi piacerebbe che il ministro Salvini, brutto, sporco, cattivo, razzista, fascista, fosse quello che investe seriamente in Africa. Per permettere a quei ragazzi di restare lì a lavorare»» (Matteo Salvini, intervista rilasciata a Quotidiano.net). Com’è umano lei! E com’è ingiusto che qualcuno lo accusi di razzismo e di fascismo! Insomma, oggi è soprattutto la “destra” che denuncia, del tutto strumentalmente, il neocolonialismo francese, accusato di affamare i popoli dell’Africa costringendoli a lasciare i loro Paesi devastati dall’avidità di Parigi e a “invaderci”. Come ho scritto altrove, è facile fare i “buonisti” accusando l’imperialismo dei concorrenti.

È giusto farsi quattro crasse risate sulla presunzione «dell’ex banchiere Macron» (e magari, gratta gratta, è possibile scoprire qualche sua discendenza poco raccomandabile dal punto di vista razziale…) di rappresentare la – supposta – superiorità morale della Francia e i veri valori dell’Occidente progressista e illuminista, ma l’ondata francofoba che osserviamo montare in alcuni ambienti politici e sociali è altrettanto farsesca e molto pericolosa se guardata dal punto di vista autenticamente antimperialista. «Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia»: così recita Il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Essendo chi scrive un proletario italiano, ne consegue che il suo nemico principale è l’imperialismo italiano (e tutti i politici e gli intellettuali che in qualche modo ne sostengono gli interessi), per quanto esso possa apparire o essere modesto se confrontato con gli imperialismi che stanno al vertice della contesa intercapitalistica mondiale. Nel suo piccolo, l’imperialismo italiano partecipa al Sistema Imperialista Mondiale, ne è parte non trascurabile, ed è da questa peculiare prospettiva che osservo i movimenti e i conflitti interni a quel Sistema, che personalmente rigettato in blocco, come una sola, compatta, mostruosa e disumana entità sociale. Insomma, con questo post sono lungi dal voler portare acqua al mulino degli italici sovranisti che oggi attaccano il «neocolonialismo francese» un po’ come Mussolini attaccava l’imperialismo delle plutodemocrazie ai tempi delle “inique sanzioni”. Io metto la Francia e l’Italia dentro lo stesso sacco, anche se sul piano politico ho un occhio particolarmente critico e sensibile nei confronti della seconda, per il motivo, tutt’altro che ideologico, summenzionato.

Alla Conferenza degli ambasciatori francesi di fine agosto 2017 il Presidente Emmanuel Macron disse che «è in Africa che si gioca il futuro del mondo». Esagerava? Può darsi. Rimane il fatto che è in Africa che la Francia si gioca ciò che rimane del suo status di potenza imperialista di un qualche rilievo. E certamente il continente africano rappresenta oggi una delle aree più dinamiche e problematiche del mondo dal punto di vista sociale, economico e geopolitico, ed è proprio questa effervescente complessità che sta mettendo sotto pressione la presenza francese nelle sue ex colonie, che Parigi non cessa di considerare il proprio cortile di casa. Non c’è dubbio che è stata l’avanzata in grande stile dell’imperialismo cinese in Africa a mutare completamente il vecchio scenario e i vecchi rapporti di forza tra le diverse Potenze che si contendono le materie prime (oro, uranio, petrolio, gas, cacao, caffè) di cui sono ricchissimi molti Paesi africani, a cominciare da quelli che ancora oggi fanno parte dal punto di vista finanziario e monetario all’area francese. Forse non tutti sanno che molti Paesi del Centro Africa e dell’Area Subsahariana (Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) hanno come moneta ufficiale il franco CFA, una moneta stampata in Francia e garantita dal Tesoro Francese, il quale drena il 50% delle riserve monetarie di quei Paesi. «In pratica, quando uno dei 14 Paesi del franco Cfa esporta verso un paese diverso dalla Francia, e incassa dollari o euro, ha l’obbligo di trasferire il 50% di questo incasso presso la Banca di Francia. In origine la quota da trasferire in Francia era pari al 100% dell’incasso, poi è scesa al 65% (riforma del 1973, dopo la fine delle colonie), infine al 50% dal 2005. Così, per esempio, se il Camerun, previo un esplicito permesso francese, esporta vestiti confezionati verso gli Stati Uniti per un valore di 50mila dollari, deve trasferirne 25 mila alla Banca centrale francese. Un sistema al quale non sfugge neppure un soldo, in quanto gli accordi monetari sul franco Cfa prevedono che vi siano rappresentati dello Stato francese, con diritto di veto, sia nei consigli d’amministrazione che in quelli di sorveglianza delle istituzioni finanziarie delle 14 ex colonie. Grazie a questo trasferimento di ricchezza monetaria, la Francia gestisce a suo piacimento il 50% delle valute estere delle 14 ex colonie, investendoli massicciamente in titoli di Stato emessi dal proprio Tesoro, grazie ai quali ha potuto finanziare per decenni una spesa pubblica generosa, sovente ignara dei vincoli di Maastricht» (Italia Oggi). Si parla di un trasferimento di ricchezza da quei Paesi al sistema capitalistico francese globalmente considerato di circa 500 miliardi di dollari l’anno. Non è una cifra disprezzabile, diciamo.

In vigore dal 1945, in seguito agli accordi di Bretton Woods, il franco coloniale ha conservato l’acronimo CFA, pur con diverso significato “semantico” (ma con identico significato economico e politico): da Franco delle Colonie Francesi d’Africa a Comunità Francese d’Africa. La continuità dell’acronimo segnala in modo fin troppo scoperto la continuità del rapporto di sfruttamento e di rapina che Parigi intende mantenere fino all’ultimo con le sue ex colonie, pur adattandolo al nuovo mondo globalizzato. «Sostanzialmente, la Francia si fa garante della credibilità del franco CFA come valuta e ne controlla, direttamente o indirettamente, l’intera politica monetaria, dai consigli d’amministrazione delle banche centrali alla creazione monetaria. Ciò permette, inoltre, alla Francia di rimanere perfettamente informata sulla struttura degli scambi monetari, quindi degli investimenti esteri realizzati. La zona franco è quindi, secondo l’economista Samuel Guérineau, uno strumento di influenza che dà potere allo Stato francese; si tratta di un “soft-power”, il quale permette di conservare una relazione particolare con l’Africa». Si scrive “soft-power”, si legge imperialismo. Ma completiamo la citazione: «In tempi più moderni e in un contesto oggi più globalizzato, la Françafrique non ha tuttavia cessato di esistere, bensì si è adattata ed evoluta sfruttando una più vasta rete di influenza data dall’era in cui viviamo. Anche il sistema di depredazione del continente africano si è evoluto in seno al capitalismo francese: in termini di appropriazione delle ricchezze si è, infatti, progressivamente passati da un’oligarchia erede diretta della colonizzazione, ad una più globalizzata ma che mantiene gli atout istituzionali e le reti ufficiose della prima» (2).

Quando parliamo dell’Africa francofona (Françafrique) ci riferiamo dunque a una vastissima area geografica popolata da oltre 150 milioni di persone. In quell’area il capitale francese, pubblico e privato, ha un diritto di prelazione su tutti gli affari economici, e solo se i francesi si dichiarano non interessati a una certa iniziativa economica, i partners africani possono rivolgersi al capitale di altri Paesi per riceverne l’indispensabile sostegno. «In molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura. […] C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa. La Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’elite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione» (3). Ma quale psicopatia, ma che mancanza di creatività e di immaginazione: si tratta della normalissima e vecchissima prassi neocolonialista, una prassi che personalmente mi sembra più corretto definire, con una certa mancanza di creatività e di immaginazione, senz’altro imperialista.

In quell’area geopolitica ogni significativo avvenimento politico e sociale (guerre, colpi di Stato, carestie, disastri ecologici connessi allo sfruttamento delle miniere, corruzione e quant’altro) ha in qualche modo a che fare con la Francia, la quale sta cercando di estendere i propri tentacoli verso la Libia per consolidare ed estendere la sempre più traballante Françafrique. L’ex Presidente francese Jacques Chirac una vola si lasciò andare a questa candida ammissione: «Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano». Inutile dire che tutti i Presidente francesi si impegnano anno dopo anno a «superare definitivamente l’anacronistico e immorale» sistema neocoloniale  istituito alla fine degli anni Cinquanta, quando il generale De Gaulle era al potere, e che altrettanto puntualmente non se ne fa un bel niente. I Presidenti di “sinistra” giustificano la gradualità del processo di superamento del sistema Françafrique tirando in ballo la necessità della “fraterna cooperazione economica” tra la Francia e i Paesi sottoposti al suo controllo, mentre i Presidenti di “destra” chiamano in causa soprattutto questioni legati alla sicurezza e alla stabilità sociale tanto della Francia quanto dei Paesi africani. Ultimamente la lotta al terrorismo jihadista è l’argomento più forte, soprattutto in chiave di politica interna, perché l’opinione pubblica francese è molto sensibile a quel problema. Ed è servendosi di quell’argomento che i francesi sono intervenuti militarmente in Mali nel gennaio 2013 (Operazione Serval), dopo aver dichiarato più volte di non voler immischiarsi nel conflitto malese scoppiato nel 2012. Macron non ha fatto mancare la sua “autocritica” riguardante la perdurante prassi neocoloniale della Francia, ed ha anzi invitato la gioventù africana ad alzare la testa e a porsi all’avanguardia del processo di sviluppo dei loro Pesi, senza peraltro proferir parola circa il franco CFA, con ciò che esso implica sul piano economico e politico, e sull’appoggio politico-militare che Parigi garantisce ai regimi delle sue ex colonie. «Contrariamente a quanto i discorsi ufficiali vogliano far apparire, la Françafrique è ben lontana dall’essersi dissolta. Vi è piuttosto una reiterazione delle strategie e delle pratiche di influenza e persino una riaffermazione e istituzione di questi strumenti e di questa politica, attraverso delle dichiarazioni che danno a intendere un presunto “cambiamento” o che forniscono delle giustificazioni razionali allo status quo. Da queste traspare una Françafrique “necessaria”, che deve farsi carico dell’ordine politico e militare, come all’epoca coloniale. La recente differenza consiste nel riconoscere l’importanza funzionale della diaspora africana in Francia e di utilizzarla come mezzo più sottile di perpetrazione delle pratiche neocoloniali» (4).

Proprio qualche giorno fa Macron ha riconosciuto ciò che i francesi avevano sempre negato con sdegnata indignazione, e cioè che ai tempi della guerra in Algeria (1954-1962) l’esercito e i servizi segreti francesi sequestravano, torturavano e uccidevano i patrioti algerini obbedendo a una prassi che allora Parigi considerava assolutamente legittima, normale, adeguata alla situazione. Il Presidente ha chiesto ufficialmente scusa per conto della civilissima Francia al popolo algerino e alle famiglie delle vittime. Un gesto, che sa molto di risciacquo a freddo delle coscienze, che non costa nulla e che può invece avere un buon ritorno in termini di propaganda politica, anche considerando che Macron tende ad accreditarsi in Europa e nel mondo come il nuovo leader dell’Occidente liberale.

A proposito del franco CFA e del sistema monetario-finanziario che lo rende possibile, la Germania e i Paesi del Nord che aderiscono all’Unione Europea più volte hanno sollecitato Parigi a prendere atto dell’esistenza di una Banca Centrale Europea, la quale non può venir bypassata per linee esterne, attraverso un Tesoro controllato solo dalla Banca Centrale Francese, ma ovviamente i francesi hanno fatto orecchie da mercante: il retaggio coloniale rappresenta per loro un pezzo di sovranità nazionale a cui non intendono assolutamente rinunciare, anche per continuare ad assicurare al Paese quelle briciole di ricchezza “esotica” che cadendo sulle classi subalterne ne smussano la potenziale rabbia. Vero è che per la Francia il bilancio tra ricavi e perdite riguardanti la sua presenza in Africa non è affatto privo di “criticità”, di ombre, perché le spese che lo Stato francese deve sostenere per difendere le sue posizioni “africane” sono tutt’altro che trascurabili. Questo anche in considerazione del fatto che Paesi come la Cina, la Germania e la stessa Italia mostrano di rispettare solo fino a un certo punto gli interessi economici e strategici francesi consolidatasi in un tempo molto lungo. D’altra Parte la Francia e l’Inghilterra nel 2011 non ci pensarono su due volte quando si presentò l’occasione di indebolire gravemente la presenza italiana in Libia, Paese che per l’Italia ha un’importanza che forse non si esagera a definire vitale. Ultimamente, a proposito del conflitto politico tra Roma e Parigi sulle sorti della Libia, molti analisti hanno scritto giustamente che in altri tempi avremmo assistito a una guerra “tradizionale”; un tempo tra le nazioni si arrivava alle mani anche per molto meno. Oggi il contesto internazionale e lo stesso retaggio storico (la Francia ha “vinto” la Seconda guerra mondiale ed è fornita di armi atomiche, l’Italia…, meglio non parlarne per non ferire l’orgoglio dei sovranisti!) non consentono questo esito, ma, come si dice, mai dire mai. In ogni caso, sempre di guerra (economica e politica) si tratta. Una contesa per il potere economico e politico (geopolitico): si tratta insomma di un “classico” (né “vecchio” né “nuovo”) confronto imperialistico.

Ma per la Francia un conto è avere a che fare in Africa con l’Italia, un conto assai diverso è vedersela con la Cina e la Germania, Paese, quest’ultimo, che ha sì perso la Seconda guerra mondiale, ma che ha vinto la Guerra Fredda, e senza sparare un solo colpo di fucile, a dimostrazione che la potenza di una nazione risiede soprattutto nella sua economia, come peraltro aveva già capito Adam Smith analizzando l’inarrestabile ascesa della produttiva Gran Bretagna e l’inesorabile declino delle parassitarie nazioni Iberiche.  A marzo dello scorso anno la Cancelliera inaugurò a Berlino il Primo Forum Economico Germania-Africa dedicato alle piccole e medie imprese tedesche interessate a far profitti in terra africana. Sulla presenza del Celeste imperialismo in Africa rimando ai miei diversi post dedicati al tema.

È evidente che nel corso degli anni è andata formandosi nei Paesi che costituiscono la Françafrique un ceto di borghesia nazionale interessata a farla finita con il sistema di sfruttamento economico, di controllo politico e di egemonia culturale messo in piedi dalla Francia, ma questo strato sociale non ha ancora acquisito sufficiente forza economica ed esperienza politica, tali da rappresentare, almeno nel medio periodo, un serio pericolo per i francesi. Il problema è che sono soprattutto le masse diseredate di quei Paesi a fornire il materiale combustibile che alimenta le guerre tra le diverse fazioni che aspirano, chi a mantenere il potere, magari appoggiandosi a Parigi, chi a conquistarlo, magari appoggiandosi a Pechino, o a Berlino. Le classi subalterne dell’Africa versano sangue per gli interessi di coloro che li opprimono oggi o che si preparano a opprimerle domani: è una tragedia che le accomuna alle classi subalterne di tutti i Continenti di questo capitalistico pianeta.

(1) E. Ruggero, La presenza francese nell’Africa subsahariana, dalla decolonizzazione ai giorni nostri: una forma di neocolonialismo contemporaneo, p. 16, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, 2017, PDF.
(2) Ibidem, pp. 61-65. «Nei paesi africani francofoni l’appoggio della Francia ai dirigenti “amici” prende la forma tradizionale del neocolonialismo: la diplomazia francese copre le farse elettorali che permettono a regimi dittatoriali di avvalersi di una legittimità “democratica”, mentre le loro forze repressive beneficiano della cooperazione militare e della forze armate; altresì, le stesse autorità francesi approfittano della propria influenza in seno alle istituzioni internazionali per garantire ai propri partner africani delle agevolazioni di finanziamento attraverso i meccanismi di aiuto allo sviluppo, mentre le risorse locali vengono razziate a favore di interessi stranieri» (p. 64).
(3) Dal Blog di Davi Luciano.
(4) E. Ruggero, La presenza francese nell’Africa…, p. 99.

MISERIA DEL SOVRANISMO. La “questione nazionale” nel XXI secolo

Quanto si parla, si discute e si grida oggi
a proposito di nazionalità e di patria!
(Lenin, 1914).

Scrive Massimo Cacciari: «Ognuno deve rendersi conto che le diverse nazionalità hanno un futuro solo se si collocano in termini federali nell’ambito dell’Unione Europea. Senza Europa gli staterelli europei sono destinati a essere succubi di tutte le tendenze culturali, economiche e scientifiche che si determineranno nell’ambito dei sovranismi. Se vogliamo vivere tutti da servi al seguito del carro del destino, padroni di esserlo e avanti popolo» (1). In direzione della riscossa o verso il precipizio? Per il Presidente della Commissione Europea, Jean-Claude Junker, «il patriottismo del XXI secolo ha due matrici: una nazionale e l’altra europea». Diego Fusaro la pensa diversamente: «La Nazione è l’ultimo fortilizio che ci rimane per resistere alla mondializzazione capitalistica» (2). I primi due si battono per un sovranismo di livello europeo, il solo in grado, a loro avviso, di salvaguardare anche le specificità culturali ed economiche delle singole nazioni europee, le quali da sole non potrebbero certo reggere l’urto sistemico con le grandi potenze mondiali (Stati Uniti, Cina, Russia); il secondo invece si batte per una «rinazionalizzazione» dell’economia e della politica, affinché il Popolo riprenda in mano il proprio destino. Anche Carlo Formenti parla di «rinazionalizzazione della politica», e se la prende con i suoi ex compagni del Manifesto, ormai precipitati, secondo lui, nell’inferno del «neoliberismo progressista»: «L’agitarsi scomposto del neoliberismo progressista ha l’unico effetto di rallentare il processo di costruzione di un’alternativa al populismo e al sovranismo di destra, perché i loro attacchi idioti e confusionari regalano continuamente voti all’avversario». Una polemica tutta interna alla galassia “comunista” e post “comunista” contro la quale mi sono sempre battuto. Certo è che osservare la gara che si svolge nella “sinistra sovranista” a chi la spara più grossa in termini di “populismo”, è davvero raccapricciante, anche se tutt’altro che spiazzante, per chi conosce i personaggi. Ogni freno inibitorio è saltato e c’è persino chi cavalca la bestia xenofoba pur di contendere lo spazio politico occupato dai populisti di “destra”, come se ci fosse qualche pur minima differenza tra uno xenofobo di “destra” e uno xenofobo di “sinistra”! Che miseria sociale!

Alcuni Nazionalsovranisti giustificano la loro avversione nei confronti delle politiche di immigrazione di stampo liberale tirando in ballo il dumping sociale, l’abbassamento dei salari, la distruzione del welfare e così via. Per i comunisti, da Marx in poi, c’è un solo modo di affrontare il problema dell’immigrazione e dello sviluppo ineguale dei salari su scala mondiale: battersi per l’unità di tutti i proletari, contro ogni forma di razzismo e di xenofobia: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» È questo il modo comunista di combattere ogni forma di competizione fra i proletari delle diverse nazioni. Entrare nel merito dei flussi migratori per suggerire alla classe dominante del proprio Paese come meglio regolarli (magari per favorire i proletari italiani: Prima i proletari italiani!), significa porsi al servizio della conservazione sociale. Certo, quella che propongo è una posizione politica che oggi, dopo decenni di devastazione politico-ideologica (sottoforma di stalinismo, riformismo, feticismo democratico e quant’altro) ai danni delle classi subalterne, non può riscuotere alcun successo presso il proletariato occidentale; si tratta di una posizione che non dà alcun riscontro di tipo elettoralistico: un problema, questo, che ovviamente sta in cima ai pensieri dei “populisti” d’ogni tendenza politica, i quali cavalcano, fomentano e amplificano il senso di insicurezza e di precarietà dei subalterni per carpirne il consenso politico-elettorale.

Per Vladimiro Giacché «La falsa opposizione tra angustia delle “piccole patrie” e la presunta apertura internazionalistica dell’UE è falsa per molti motivi, ma anche per questo: perché oggi nella bandiera europea sono avvolti gli interessi (delle classi dominanti) di alcune nazioni, con altre nazioni che sono state già ridotte a protettorati e altre che sono prossime a questo poco invidiabile status. Nell’UE le prime potenziano la propria sovranità, le altre la vedono ridursi. […] Dobbiamo ripartire dalla Costituzione. Essa deve tornare a essere il metro di valutazione dei trattati internazionali, ivi inclusi i Trattati europei» (3). Fare di una Costituzione capitalistica «il metro di valutazione dei trattati internazionali, ivi inclusi i Trattati europei», significa adottare il punto di vista delle classi dominanti. ««L’idea di fondo è che oggi il lavoro (gli interessi dei lavoratori) possa essere difeso soltanto attraverso un patriottismo costituzionale». L’economista Giacché evidentemente non ha capito che il lavoro di cui parla la Costituzione italiana è il marxiano lavoro salariato, ossia il lavoro-merce la cui esistenza presuppone i vigenti rapporti sociali di dominio e sfruttamento. Come diceva l’uomo con la barba, «Il lavoro-merce è una tremenda verità», e l’Articolo 1 della Costituzione ci dice senza infingimenti che l’Italia, come ogni altro Paese di questo capitalistico mondo, si fonda su quella «tremenda verità». Per questo porre in antitesi la Costituzione «più bella e più socialista del mondo» con i bassi salari, la precarietà e la disoccupazione è, marxianamente parlando, semplicemente ridicolo.  Sulla Costituzione Italiana rinvio al post Contro la Costituzione. Quella di ieri, di oggi e di domani.

Scriveva qualche tempo fa l’Alter-Europeista Toni Negri: «L’Europa ha la possibilità di essere una barriera contro il pensiero unico dell’unilate­ralismo economico: capitalista, conservatore e reazionario. Ma l’Eu­ropa può essere anche un contro-potere di fronte all’unilateralismo statunitense, il suo dominio imperiale, la sua crociata in Iraq per con­trollare il petrolio. Gli USA l’hanno capito così bene che, fin dagli anni ’50, lottano come matti contro il processo di unificazione europea. Gli USA vi vedono un blocco all’estensione del loro potere. […] Bisogna essere pragmatici» (4). Negri definisce “pragmatica” quella che in realtà è una politica di aperto sostegno al progetto teso a realizzare in Europa un polo imperialista (un “Impero”) in grado di competere con i maggiori imperialismi mondiali, a cominciare da quello statunitense. Nel frattempo vaste aree del pianeta sono finite sotto il cielo dell’imperialismo cinese.

Delle alternative qui sommariamente presentate qual è quella più realistica (oltre che desiderabile e auspicabile) dal punto di vista degli interessi nazionali e/o europei? È possibile (oltre che desiderabile e auspicabile) la piena sovranità di tutte le nazioni (vedi il concetto di Europa delle nazioni e dei popoli versus il concetto di Patria europea) posto il Capitalismo del XXI secolo? E come si presenta oggi  la Questione nazionale, generalmente intesa, dalla prospettiva di un autentico internazionalismo anticapitalista? Ecco, qui di seguito cercherò di rispondere a queste difficilissime domande.

  1. Miseria del sovranismo

Personalmente sono contro ogni forma di sovranismo (nazionale o europeo) e di patriottismo (della Nazione o della Costituzione) non per fedeltà a Marx o a Lenin, ma per un intimo convincimento che ha il suo fondamento teorico e politico nell’analisi della società capitalistica come ci si offre all’attenzione nel XXI secolo. Se, per assurdo, qualcuno dovesse dimostrarmi che quei due sciagurati personaggi in realtà erano dei sovranisti e dei nazionalisti “duri e puri” che amavano travestirsi, per conseguire inconfessabili obiettivi, da internazionalisti intransigenti, ebbene non muterei solo per questo di una sola virgola la mia posizione radicalmente antisovranista e antipatriottica. Anche per questo (per motivi “precauzionali”, diciamo) non mi definisco né “marxista” né “leninista” ma sostenitore di un punto di vista che vuole – diciamo pure che si sforza di – essere radicalmente anticapitalista, con ciò che ne segue anche a proposito della cosiddetta “Questione nazionale”. Il che ovviamente non mi impedisce di citare proprio Marx e Lenin argomentando le mie tesi, le quali sono principalmente indirizzate contro quei sedicenti “marxisti” e “leninisti” che sostengono un punto di vista sovranista e nazionalista, sebbene declinato “da sinistra” – sic! La citazione non è mai politicamente neutra; citare significa in qualche modo interpretare il pensiero altrui, perché ciò che conferisce significato alla citazione è il contesto concettuale che la ospita. Come ho scritto altre volte, la mia citazione ha sempre un carattere strumentale, è cioè funzionale a esprimere in primo luogo il mio punto di vista.

La «sinistra patriottica, costituzionale e sovranista» può invitare a cuor leggero i compagni a sfidare il populismo “di destra” «sul suo stesso terreno» (5) semplicemente perché essa condivide con quella posizione politica lo stesso terreno di classe, sebbene i socialpatrioti si impegnino molto a giustificare le loro ultrareazionarie posizioni richiamandosi alla storia del movimento operaio – soprattutto a Gramsci, per via della sua “ambigua” teoria nazional-popolare fondata su una lettura del tutto sbagliata del ritardo capitalistico dell’Italia.

Credo insomma che il sovranismo, il nazionalismo e il patriottismo comunque “declinati” rappresentino quanto di peggio il personale politico al servizio delle classi dominanti possa propinare alle classi dominate. Venduto dalla “destra” o dalla “sinistra”, il nazionalismo (o sovranismo, come si usa chiamarlo oggi per bypassare certe antipatiche accuse) rimane il peggior veleno ideologico offerto alle classi subalterne dai servitori dello status quo sociale. Le classi dominanti si compiacciano di dare in dono una patria ai dominati per legarli a doppio filo al carro degli interessi nazionali, i quali esprimono i loro specifici interessi economici e politici. Com’è noto, per difendere la Patria, per impedire al Nemico di calpestarne i sacri e inviolabili confini, lo Stato nazionale chiede ai suoi sudditi il dovuto tributo di sangue, e proprio a questo fatto il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha fatto chiaro riferimento nel suo discorso del 14 settembre al vertice di Riga: «Io sono avanti negli anni, sono nato durante i bombardamenti e, forse per questo, mi è rimasta un’innata diffidenza, e un’innata idiosincrasia verso qualunque pericolo di nazionalismo e di guerre. Occorre riflettere su questo perché corriamo il rischio che riproporre dentro l’Unione un clima che non è soltanto concorrenziale ma è di contrapposizione, che poi diventa contrasto, poi diventa ostilità, diventa non sappiamo cosa». L’Unione Europea, insomma, come area di pace, di democrazia e di libertà da preservare assolutamente, senza nulla concedere alle suggestioni “populiste” e “nazionaliste”.

In realtà all’interno dell’Unione Europea è da tempo in corso una guerra di potere tra le nazioni che ne fanno parte, perché il suo consolidamento non può che realizzarsi, almeno nell’immediato, a spese di alcuni Paesi (ad esempio dell’Italia) e a vantaggio di altri (ad esempio della Germania), e la stessa Brexit, o la questione Catalana sono lì a ricordarci che l’Unione Europea è tutt’altro che una creatura geopolitica e sociale pacifica e pacificata, e non può esserlo in grazia della sua natura capitalistica e imperialistica. Il fatto è che oggi vengono al pettine nodi che in realtà non sono mai stati sciolti perché toccarli avrebbe significato – e significa – innescare nei singoli Paesi dell’Unione tensioni sociali di difficile gestione. È ad esempio il caso del welfare dell’Italia, del suo sempre più obeso debito pubblico, con tutto quello che tali magagne significano sul piano politico e sociale (clientelismo, divario Nord-Sud, ecc.); oppure dell’obsoleta struttura economica della Francia messa sotto pressione dalla dinamica economia dell’area tedesca.

«Potrà l’Europa sopravvivere all’ondata razzista e nazionalista che l’ha investita? Quello che soprattutto spaventa è il fatto di trovarsi di fronte una destra estrema ed una sinistra residuale unite nella lotta contro la costruzione europea. […] Battersi contro nazionalismo e sovranismo, per la democrazia, significa oggi sviluppare lotta di classe» (6). Nient’affatto: significa, oggi come ieri e come sempre (finché l’umanità sarà costretta a vivere sotto il dominio del Capitale), «sviluppare lotta» a sostegno di un polo capitalistico-imperialistico (quello europeo, nella fattispecie) che si oppone ad altri e concorrenti poli capitalistici e imperialistici. Mi scuso con chi legge, ma non posso esimermi dall’affermare che solo degli imbecilli patentati possono concepire l’europeismo come una forma modificata («adatta ai nostri tempi»: sic!) di internazionalismo, o di “post internazionalismo”, per usare il gergo dei teorici del postismo: post tutto. Ma non si tratta di imbecillità, beninteso. Il fatto è che la quasi totalità degli intellettuali sinistrorsi di tutto il mondo attribuiscono a parole come rivoluzione, socialismo, lotta di classe e via di seguito un significato che certamente tipi come Marx, Engels e Lenin avrebbero bollato come insulsaggini piccolo-borghesi. Ovviamente essi presentano la loro disgustosa e tutt’altro che originale brodaglia concettuale come la traduzione del marxismo ai nostri tempi, ma se si va appena oltre la fraseologia, si scopre facilmente il fondamento reazionario delle loro “dottrine”. D’altra parte non saprei come meglio definire le posizioni di chi ieri (2012) ha sostenuto Hollande alle lezioni presidenziali francesi e che oggi sostiene il regime venezuelano del caudillo Maduro e l’Unione Europea, sebbene da “sinistra internazionalista”…

  1. Stato, Nazione, Patria, Popolo…

La rivendicazione del superamento dei confini nazionali in vista di una sola, umana e fraterna Comunità rappresenta il “minimo sindacale” per una posizione politica che intenda conquistare un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionaria dal quale approcciare la società capitalistica del XXI secolo. Questo principio, tanto elementare quanto potentemente eversivo dell’ordine sociale vigente su scala planetaria, informa completamente la mia analisi dei rapporti tra gli Stati, il mio approccio a quella che un tempo si chiamava “Questione nazionale”, la quale si dà nel nostro tempo, al tempo del dominio totalitario e planetario dei rapporti sociali capitalistici, in modo affatto diverso che ai tempi di Marx e di Lenin.

«Il Centro è dappertutto» scrisse una volta Nietzsche; «Il Capitale è dappertutto», possiamo scrivere oggi, magari avendo cura di precisare, sulla scorta di Marx, che «il capitale non è una cosa ma un rapporto sociale». Il capitale è ovunque (dagli Stati Uniti alla Cina, dall’Europa all’Africa, dall’Australia all’Americana Latina) al centro della prassi sociale e, in guisa di merce e di denaro, esso è al centro dell’esistenza di ogni singolo individuo. Il capitale è insomma diventato quella potenza sociale sovranazionale e sovraumana di cui Marx ed Engels parlavano già nella prima metà del XIX secolo. Sempre più il mondo appare come un solo, gigantesco Paese, e lo Stato nazionale tende a configurarsi come un potere locale (regionale) nell’ambito del Capitalismo globale. Ciò vale soprattutto per quei Paesi che non possono aspirare al rango di grande Potenza; per questi Paesi si offre però la possibilità di aggregarsi in un’Unione di Stati in grado di reggere in qualche modo la competizione sistemica (economica, scientifica, tecnologica, politica, ideologica) mondiale. È il caso dell’Unione Europea.

Come ho scritto altre volte, per i Paesi di piccola o media taglia capitalistica la cosiddetta sovranità si risolve nella scelta della Potenza imperialistica che al momento sembra garantire a quei Paesi migliori condizioni di “agibilità politica”. È il caso del Venezuela “bolivariano”, il Paese che tanto piace ai socialsovranisti italiani, il quale da anni cerca il sostegno economico della Cina, ossia della Potenza oggi di gran lunga più dinamica sul terreno della competizione interimperialistica: dall’Africa all’America Latina, dal Sud-Est Asiatico all’Europa non c’è area del pianeta che non veda in azione il capitale cinese, tanto nella sfera della cosiddetta economia reale, tanto in quella finanziaria – sempre che nel XXI secolo abbia un pur minimo senso operare questa distinzione quando si tratta di esportazione di capitale e di sfruttamento da parte dei capitalismi più forti ai danni di quelli più deboli.

Quando nei miei scritti “geopolitici” parlo di Imperialismo unitario (non unico!) intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali” (7).

Leggo da qualche parte: «Non è vero che lo Stato nel XXI secolo non conti più». Ecco perché dobbiamo combatterlo! Insomma, un conto è essere sovranazionalisti (tifosi della Patria europea, ad esempio), un conto affatto diverso è essere internazionalisti, ossia radicalmente ostili a ogni forma di statualità capitalistica – nazionale e sovranazionale. Sovranisti e sovranazionalisti si muovono insomma sullo stesso terreno di classe, si battono sotto una stessa escrementizia bandiera, e dal mio punto di vista non sarebbe serio nemmeno pensare di allearsi, anche solo “tatticamente” (si dice sempre così, nevvero?), con uno dei due campi politico-ideologici.

Le spinte sovraniste, nazionaliste, identitarie, razziste e xenofobe che provengono dal sottosuolo delle società occidentali sono il prodotto delle molteplici contraddizioni che sempre di nuovo crea ciò che usiamo chiamare globalizzazione capitalistica, e quindi esse stesse sono parte organica di questa globalizzazione, la quale non può darsi che in modalità altamente contraddittoria e conflittuale. Più il Capitale Globale centrifuga gli individui in guisa di alimenti gettati dentro un frullatore, e più essi cercano disperatamente – e spesso pateticamente – di aggrapparsi a qualche misero brandello di “identità”: nazionale, culturale, etnica, sessuale, religiosa, sportiva… Un’esasperata ricerca di identità è la prova più sicura di quanto potente sia il processo sociale che tende a creare l’individuo unidimensionale del XXI secolo.  La realtà capitalistica dei nostri giorni «costituisce uno stadio più avanzato di alienazione. Quest’ultima è diventata completamente oggettiva; il soggetto dell’alienazione viene inghiottito dalla sua esistenza alienata. V’è soltanto una dimensione, che si ritrova dappertutto e prende ogni forma» (8). In questo peculiare significato, radicalmente sociale (non meramente politologico né genericamente sociologico) parlo di dominio totalitario e globale del Capitale, che preferisco scrivere con la “c” maiuscola proprio per sottolinearne anche formalmente il contenuto storico e sociale.

Espressione verace, ancorché macchiettistica, della tendenza identitaria è senz’altro il filosofo fasciostalinista Diego Fusaro, il quale ultimamente oppone alla “naturale” espansione del dominio capitalistico in ogni sfera della prassi sociale, in ogni luogo e in ogni centimetro del corpo umano, «il vecchio modello familiare»: «Oggi sposarsi è diventato rivoluzionario, ristabilendo il vincolo etico di fronte al plusgodimento come una forma di speranza e di lotta contro il capitale». Un’altra perla “rivoluzionaria”: «Il liberista è colui che dichiara guerra allo Stato per il proprio profitto individuale, il libertino è quello che dichiara guerra alla famiglia in modo di ottenere il plusgodimento, la variante erotica del plusvalore» (9). Chissà cosa avrebbe detto Marx – o Lacan – a proposito dell’accostamento psicoeconomico tra «plusgodimento» e «plusvalore». Certo è che come materialista storico il libertino di Treviri avrebbe fatto presente al “marxista” Fusaro che non esiste uno Stato in generale, senza alcuna connotazione storica e di classe, e la stessa cosa vale naturalmente per la famiglia. Agli statalisti ideologici ovviamente ripugna chiunque ricordi loro che lo Stato non è che il cane da guardia dei rapporti sociali capitalistici, concetto marxiano che ridicolizza l’ideologia pattizia che sta al centro del concetto borghese di Stato e di Sovranità: «Lo Stato siamo noi, lo Stato è del Popolo, «La sovranità appartiene al popolo». Come no! Più si parla di Popolo (Potere al Popolo! Servire il Popolo! Il Popolo ha sempre ragione!), e più si nasconde la maledetta realtà della divisione classista degli individui, riformulata dai “populisti” d’ogni tendenza nei termini di una divisione tra alto e basso, élite e marginali, ricchi (i magnati della finanza speculativa come Soros) e poveri, vincenti e i perdenti (imprenditori “onesti” compresi) della globalizzazione, e così via. Ma ritorniamo al libertino «che dichiara guerra alla famiglia».

Leggo sul Manifesto del partito comunista del 1848: «Abolizione della famiglia! Persino i più avanzati fra i radicali [Fusaro, sia chiaro, non è certamente fra questi] si scandalizzano di così ignominiosa intenzione dei comunisti. Su che cosa si basa la famiglia odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia. […] Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull’educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto più nauseanti, quanto più, in conseguenza della grande industria viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia» (10). Confrontati con la distruzione della famiglia borghese nel seno della stessa società borghese, come essa si dava centosettanta anni fa, Marx ed Engels non piagnucolavano sulla morte della famiglia borghese, non rivendicavano il ritorno al precedente modello di famiglia («si tratta di una mera chimera reazionaria» avrebbero detto i due amici), ma piuttosto denunciavano il processo sociale che “stressava” gli  «intimi rapporti fra i genitori e i figli» e che creava ogni sorta di relazioni disumane e disumanizzanti. Non si combatte la crescente disumanizzazione delle attività e delle relazioni proponendo alla società un armamentario politico-ideologico passatista che non è in grado nemmeno di frenare le tendenze sociali radicate, avrebbe detto Marx, nel concetto stesso di Capitale. Si vuole il Capitale (di Stato, nella fattispecie), ma non i suoi “lati negativi”: tipico appunto della mentalità piccolo-borghese.

«La stessa dinamica sociale che permise il costituirsi della famiglia borghese, dove gli individui trovarono un punto d’appoggio nel flusso della dinamica sociale e contro di esso, minaccia costantemente e progressivamente la famiglia medesima. Come accade per tutte le forme di mediazione tra singolarità biologica e totalità sociale la famiglia, nel suo contenuto sostanziale, viene riassunta a proprio conto dalla società. […] Sono le tendenze economiche che van distruggendo la famiglia. […] La famiglia soffre di ciò come ogni particolare che preme verso la propria liberazione: non vi sarà emancipazione della famiglia senza emancipazione della totalità sociale» (11). Ecco un modo storico e dialettico di approcciare i fenomeni sociali generati dall’implacabile marcia del Moloch capitalistico. Mi si può legittimamente obiettare: «Ma intanto che aspettiamo l’emancipazione della totalità sociale, dobbiamo pur far qualcosa!» E certamente! Ad esempio, lottare contro tutte le manifestazioni del dominio capitalistico senza fomentare in noi stessi e negli altri false speranze, soprattutto se sono “speranze” fondate su concezioni passatiste e/o riformiste: di passatismo e di riformismo l’umanità muore! Non sono io a dirlo: è la storia passata e recente che lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio.

La sovranità appartiene al popolo o allo spread? È il titolo di un saggio scritto recentemente da Antonio Maria Rinaldi, l’economista di riferimento dell’attuale governo pentaleghista (e ho detto tutto). Mi permetto di rispondere alla domanda di cui sopra citando il titolo di un mio post: Sovrano è il Capitale. Tutto il resto è illusione e menzogna. Lo spread, con tutto quello che questo nuovo spauracchio sociale presuppone sul versante economico come su quello politico-istituzionale, non ha alcun significato se non viene riferito direttamente alla prassi capitalistica considerata sul piano locale (nazionale) e internazionale. Solo un insulso economista può pretendere che chi finanzia il debito pubblico di un Paese per trarne un profitto (e cosa dovrebbe trarne, attestati di riconoscenza popolare?) non tenga in considerazione la salute economica di quel Paese, la sua produttività sistemica, la componente produttiva e improduttiva della sua economia e così via. Scrivendo questo non mi illudo certo di prosciugare il mare di luoghi comuni dal quale attingono i “populisti”: lo spread, i poteri forti, Soros, la Trilateral, le cavallette…

  1. Patria o morte? A morte la Patria!

«La patria sta davvero morendo e trascinando con sé lo stato-nazione che ne ha accolto e tutelato per secoli il patrimonio di identità culturale? I flussi migratori, i circuiti finanziari intercontinentali, la trans spazialità linguistica e religiosa, gli esperimenti di integrazione economica, ecc., sembrerebbero dire di sì. Eppure la patria, secondo l’autore, è l’unico luogo di aggregazione morale, civile e spirituale in grado di garantire la pluralità delle esperienze esistenziali di cui oggi possono godere gli uomini e le donne in questa tarda ora del secondo millennio, permettendo loro di affrontare i problemi della vita di relazione, senza l’angosciosa insicurezza del viandante e dell’esule» (12). Anche nei passi appena citati non si coglie alcuna determinazione storico-sociale dei concetti di Stato-Nazione e di Patria, concetti che suonano vuoti, privi di significato se non vengono riempiti di concreti contenuti storici e sociali, e, come si diceva sopra, ciò è del tutto confacente all’ideologia dominante, la quale ha tutto l’interesse a celare il carattere classista di quei concetti.

La Nazione è storicamente la dimensione (geografica, politica, istituzionale, culturale, “spirituale”) nel cui seno si esercita il dominio delle classi possidenti in una determinata area del mondo; lo Stato nazionale è posto al servizio di quelle classi, per preservarne il dominio nei confronti dei nemici interni ed esterni. «Nella società classista», scriveva Rosa Luxemburg, «la nazione non esiste in quanto insieme omogeneo sociale e politico; esistono invece, all’interno di ogni nazione, classi con interessi e “diritti” antagonistici. Non vi è letteralmente neppure una sola sfera sociale, dai più grossolani rapporti materiali ai più raffinati rapporti morali, nella quale la classe dei proprietari e il proletariato cosciente si presentino come un indifferenziato insieme nazionale. […] In una società così costituita non è possibile parlare di volontà collettiva e omogenea della nazione» (13). Ai tempi dell’ascesa rivoluzionaria della borghesia aveva un preciso significato progressivo parlare di Nazione, di Patria e di Popolo; al tempo del Capitalismo “ultramaturo”, del capitalismo giunto nella sua fase imperialista, tanto per scomodare Lenin, parlare di Nazione, di Patria e di Popolo può avere solo un significato ultrareazionario. Le stesse parole acquistano un contenuto concettuale affatto diverso quando vengono “calate” in differenti contesti storici.

«La patria sta davvero morendo e trascinando con sé lo stato-nazione che ne ha accolto e tutelato per secoli il patrimonio di identità culturale?» Ma di che patria stiamo parlando? La risposta non potrebbe essere più semplice: della patria capitalistica, della patria come si dà, e non potrebbe darsi altrimenti, oggi, nell’epoca del dominio mondiale e totalitario del rapporto sociale capitalistico. Il poeta può anche pensare la Patria come un luogo dello spirito: «La mia Patria è l’Umanità» (condivido!); ma chi si occupa di come “rottamare” la società capitalistica e di cosa sostituirle, deve anzitutto svelare il contenuto storico-sociale del concetto di Patria veicolato dall’ideologia dominante – in tutte le sue varianti: di “destra” e di “sinistra”, “liberista” e “statalista” (o “socialista” che dir si voglia), europeista o sovranista.

La Patria (la Nazione) è un presupposto storico-sociale che si impone a prescindere e contro la volontà delle classi subalterne; è un dato di fatto che esse si trovano a dover subire fin dalla nascita, esattamente come a nessun neonato è data la facoltà di scegliere in quale famiglia nascere, la condizione sociale dei suoi genitori, la nazionalità, e così via. I dominati devono dunque fare i conti con la Patria (con la Nazione), ma per remare contro i suoi interessi, in vista della sua distruzione. Come scriveva Lenin nel 1915 contro i «socialpatrioti» che assumevano il patriottismo come un valore positivo nell’ambito della lotta di classe, «Le patrie borghesi esisteranno finché la rivoluzione internazionale del proletariato non le distruggerà. Il terreno per questa rivoluzione esiste già» (14). La patria capitalistica non è certo un luogo della storia che i comunisti intendono conservare o difendere: tutto il contrario! Come si vede, chi scrive è tutt’altro che indifferente al problema della Patria, della Nazione e a tutte le questioni che in qualche modo vi si connettono.

Cito dal Manifesto di Marx ed Engels: «Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno» (15). Per comprendere bene questo potentissimo passo occorre porlo in diretta connessione con la tesi marxiana secondo la quale la dimensione naturale del Capitale è quella che ha i confini dell’intero pianeta: «L’isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l’uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa corrispondenti» (16). In questo peculiare senso per Marx i rapporti sociali capitalistici vanno considerati storicamente rivoluzionari se confrontati con i precedenti rapporti sociali che confinavano gli esseri umani in ambiti comunitari molto angusti, sotto molteplici e fondamentali aspetti. «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda. […] Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in “una volta”  e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che esso comunismo implica» (17). Certamente Marx ed Engels non furono mai né sovranisti né teorici del comunismo in un solo Paese.

Il processo storico-sociale innescato dai nuovi rapporti sociali capitalistici non andava arrestato per far ritornare indietro la ruota della storia, così da ripristinare i vecchi confini tracciati con la spada, cosa d’altra parte impossibile; esso andava piuttosto portato avanti fino alle sue estreme conseguenze per approdare nella Comunità Umana che non conosce né capitale, né classi sociali, né Stato, né confini. Il superamento della società capitalistica può bensì essere pensato in due modi: uno reazionario e passatista e l’altro rivoluzionario e rivolto al futuro, ma solo il secondo ha la possibilità (non la certezza) di affermarsi, perché esso non contraddice la materialità del processo storico-sociale ma anzi esprime il movimento storico nel modo più coerente. La filantropia borghese esprimeva il processo storico-sociale secondo il punto di vista della borghesia; l’internazionalismo proletario esprimeva lo stesso processo ma dal punto di vista del proletariato, la nuova classe storicamente rivoluzionaria.

A differenza di quanto pensavano Marx ed Engels sulla base del mondo quale si presentava ai loro occhi nel 1848, «gli antagonismi nazionali dei popoli» non solo non sono scomparsi con lo svilupparsi e il diffondersi su scala planetaria del Capitalismo, ma essi si sono piuttosto moltiplicati in quantità e qualità, fino a culminare nelle micidiali guerre imperialistiche del XX Secolo. Lo stesso Marx tuttavia ebbe modo di cogliere la svolta storica rappresentata dalla guerra franco-prussiana del 1871: «Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l’esercito vincitore e l’esercito vinto fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti indica […] che la guerra nazionale è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti» (18). Nei Paesi capitalisticamente più evoluti la Nazione aveva perduto ogni connotato storicamente progressivo, e quindi i proletari d’avanguardia delle diverse nazioni non si dovevano più porre il problema di quale borghesia nazionale appoggiare per far avanzare la società mondiale considerata nel suo complesso in direzione dell’emancipazione universale degli individui da ogni divisione classista e da ogni forma di sudditanza: economica, politica, ideologica, psicologica. In quei Paesi il patriottismo e il nazionalismo andavano dunque considerati come dei potenti veleni ideologici somministrati dalle classi dominanti alle classi subalterne.

Durante la Prima guerra mondiale gli autentici rivoluzionari europei, a cominciare da Lenin, tennero ferma la straordinaria lezione comunarda come si trova nelle parole di Marx (19), e promossero, rischiando la pelle, il disfattismo antinazionale anche in quei Paesi nei quali la questione nazionale aveva ancora qualcosa da dire e da dare (si veda l’atteggiamento internazionalista dei socialisti Serbi elogiato da Lenin); lo stesso non si può certo dire per i sedicenti marxisti attivi durante la Seconda guerra imperialista – i quali, è sempre bene ricordarlo, ingurgitarono senza fiatare anche il Patto Molotov-Ribbentrop, e anche qui ho detto tutto. Ciò non significa che i “marxisti” del tempo di Stalin hanno adottato una diversa linea politica sulla scorta degli sviluppi intervenuti nella storia del mondo con la nascita del – supposto – socialismo in Russia e con la presenza del Fascismo in Italia e del Nazismo in Germania; significa piuttosto che gli stalinisti non avevano nulla a che fare con il marxismo rivoluzionario che provò a contrastare in tutti i modi la Prima carneficina mondiale. È un fatto che la Russia di Stalin, che aveva spartito con la Germania di Hitler la Polonia e che non aveva mosso un dito per arrestare l’occupazione tedesca dell’Europa occidentale, si schierò contro il nazismo solo quando le armate tedesche dilagarono sul territorio russo. Poi uno può anche credere alla leggenda della Russia che si era alleata con la Germania solo per prendere tempo, armarsi adeguatamente e infine fare i conti con il nazifascismo da una posizione di forza; ma qui cerco di attenermi il più oggettivamente possibile ai dati offerti dalla storia.

In un articolo del 1915 Lenin prendeva di mira il «socialsciovinista» A. Potresov, il quale aveva sostenuto l’opportunità per i marxisti di appoggiare “tatticamente” una delle nazioni che si contendevano con le armi il potere sul mondo, e dicendo questo egli credeva di muoversi sulle orme di Marx e di Engels: «Con tutta la passione che era loro propria essi si mettevano con fervore alla ricerca di una soluzione del problema, per quanto esso fosse complesso; facevano la diagnosi del conflitto, cercavano di determinare il successo di quale campo avrebbe aperto più spazio alle possibilità che consideravano desiderabili, e in tal modo stabilivano la base sulla quale costruire la loro tattica» (20). Vediamo cosa rispose Lenin: «Questo ragionamento sarebbe ridicolo, se non fosse così… vergognoso. […] Allora il contenuto oggettivo del processo storico nell’Europa continentale non era l’imperialismo, ma erano i movimenti borghesi di liberazione nazionale. La molla principale era il movimento della borghesia contro le forze feudali e assolutistiche»  (21). Per Lenin non aveva alcun senso storico-materialista “calare” nell’epoca dell’imperialismo l’atteggiamento marxiano-engelsiano che si giustificava solo alla luce della precedente epoca storica, quando Paesi come la Germania, l’Italia, la Polonia, l’Irlanda ecc. erano ancora impegnati in guerre rivoluzionarie di stampo nazionale-borghese. Quale nazione appoggiare? «Potresov non ha notato che Marx si poneva la domanda in un momento in cui esistevano – e non solo esistevano, ma si ponevano in primo piano nel processo storico dei più importanti Stati d’Europa – movimenti borghesi incontestabilmente progressivi. Ai giorni nostri sarebbe ridicolo perfino pensare a una borghesia progressiva». E ai nostri giorni?  Siamo seri e concludiamo la citazione! «A. Potresov, come tutti i social sciovinisti, si trova indietro rispetto alla sua epoca di democrazia moderna, riprendendo il punto di vista da lungo tempo superato, morto e perciò intrinsecamente falso, della vecchia democrazia (borghese)» (22).

Al tempo della democrazia (capitalistica) del XXI secolo «sarebbe ridicolo perfino pensare a una borghesia progressiva», con ciò che ne segue in termini di iniziativa anticapitalistica sia in tempo di guerra guerreggiata, per così dire, sia in tempo di guerra sistemica, la guerra di questa epoca storica. D’altra parte il primo tipo di guerra, quella che ha nello strumento militare il suo mezzo più efficace (e convincente), nasce sul terreno sociale preparato dal secondo tipo di guerra, ne è la naturale continuazione, e non certo la negazione o la degenerazione come pensano certi geopolitici. Cito il Lenin della Prima guerra mondiale proprio per sottolineare il carattere bellico dei nostri tempi, i quali esigono da parte degli internazionalisti un’azione politica all’altezza della situazione. Ecco perché condivido quanto scrive Carlo Galli, storico di dottrine politiche e seguace del «metodo di analisi della realtà che viene da Gramsci», a proposito della cosiddetta sovranità europea: «Le sovranità degli stati si sono formate nel sangue della guerra civile o nel furore delle rivoluzioni. Mai una sovranità è nata perché qualcuno intorno a un tavolo ha trasferito pacificamente a un soggetto terzo il diritto di tassare, di formare un esercito, detenere il monopolio della violenza, individuare gli interessi strategici di una comunità» (23). Il processo di unificazione europea, che ha come suo motore il possente capitalismo tedesco (che per decenni Parigi e Londra hanno cercato di controllare e frenare in qualche modo), e i cui esiti sono ancora tutti aperti, ha appunto i caratteri di una vera e propria guerra, sebbene agli occhi dell’analista superficiale essa appaia come un’iniziativa pacifica resa complicata dalla cattiva volontà di politici incapaci di sognare in grande («il sogno europeo»).

Non dobbiamo dimenticare che l’unificazione della Germania è stata ottenuta soprattutto con mezzi “pacifici”, ossia attraverso processi di natura essenzialmente economica e sociale. Personalmente condivido la tesi di chi sostiene che «il vero vincitore del ciclo storico delle guerre mondiali [è] stata la Germania. Quest’affermazione può suonare paradossale; ha tuttavia il merito di sottolineare che l’impiego di strumenti puramente economici può consentire il riassetto della economia internazionale in modo addirittura più efficace del ricorso alla forza militare» (24). Con «ciclo storico delle guerre mondiali» occorre intendere, secondo Carlo Jean, il lungo periodo che va dalla Prima guerra mondiale alla fine della cosiddetta Guerra Fredda, culminata agli inizi degli anni Novanta nella Riunificazione Tedesca e nella dissoluzione dell’Unione Sovietica. In realtà l’Unione Europea è stata concepita dalla Francia e dall’Inghilterra soprattutto per controllare e marcare da vicino la potenza sistemica della Germania, e magari usarla all’occorrenza in funzione antirussa e antiamericana. Come spesso accade la volontà politica si deve arrendere al cospetto della forza dell’economia.

«I conflitti internazionali sono rimasti per la loro forma uguali ai conflitti [delle epoche precedenti], ma il loro contenuto sociale e di classe è cambiato radicalmente. La situazione storica obiettiva è oggi completamente diversa» (25). Per Lenin ciò che conta, ciò che è dirimente nell’analisi di un conflitto e nella decisione politica basata su quell’analisi, è la natura 1. degli interessi sociali in gioco e 2. della dimensione sociale nel cui seno questo conflitto nasce e si sviluppa. «Le guerre effettivamente nazionali, che si svolsero specialmente tra il 1789 ed il 1871, avevano come base una lunga successione di movimenti nazionali di massa, di lotte contro l’assolutismo, per l’abbattimento del giogo nazionale e la creazione di Stati su base nazionale, i quali erano la premessa dello sviluppo capitalistico. l’ideologia nazionale, sorta in quel periodo, lasciò tracce profonde nelle masse della piccola borghesia e in parte del proletariato. Di questo fatto si valgono oggi, in un’epoca assolutamente diversa, vale a dire nell’epoca dell’imperialismo, i sofisti della borghesia e i traditori del socialismo che si mettono al loro rimorchio. […] Le parole del Manifesto comunista: “Gli operai non hanno patria”, sono più vere che mai. Soltanto la lotta internazionale del proletariato contro la borghesia può difendere le conquiste proletarie ed aprire alle masse oppresse la via di un migliore avvenire» (26). La nostra epoca è «assolutamente diversa» da quella di cui parlava Lenin, ma nel senso che nel XXI secolo i caratteri reazionari denunciati dal rivoluzionario russo si sono enormemente rafforzati ed espansi: c’è più capitalismo, più imperialismo, più violenza sistemica, più oppressione politico-sociale – anche nelle democrazie occidentali, i cui stanchi riti elettorali sempre più dimostrano di essere ciò che in realtà sono sempre stati: una dichiarazione di impotenza da parte delle classi subalterne, chiamate a scegliere da quale bastone intendono essere governate per un certo periodo. Nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora nietzschiana del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (27). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. È per questo che anziché concentrarci sulla fenomenologia, più o meno farsesca, del “populismo”, dovremmo piuttosto denunciare la prassi sociale che massifica (e instupidisce) gli individui e li rendi disponibile ai farneticanti discorsi di populisti e demagoghi d’ogni genere e colore politico.

  1. La “questione nazionale” nel XXI secolo

Oggi ha piena validità, mutatis mutandis, ciò che Rosa Luxemburg scrisse nel 1908, e che allora forse scontava quei limiti di astrattezza e di unilateralità che Lenin non mancò di segnalare: «L’idea di assicu­rare a tutte le nazioni la possibilità di autodeterminarsi corrisponde per lo meno alla prospettiva di un regresso dello sviluppo dal livello di grande capitalismo a quello dei piccoli stati medievali o anche a quello di molto precedente il XV e XVI secolo» (28). È appena il caso di ricordare che Lenin sostenne, anche contro la rivoluzionaria polacca, la politica di autodeterminazione dei popoli oppressi (come quello polacco) non perché credesse nella borghesissima idea circa la pacifica e armonica convivenza delle nazioni, ma in vista di due fondamentali obiettivi: 1. favorire e accelerare il processo di formazione di una coscienza autenticamente di classe nel proletariato delle nazioni oppresse, processo rallentato e indebolito dallo spirito nazionalista che facilmente conquistava “i cuori e le menti” di gran parte dei proletari di quelle nazioni; 2. indebolire materialmente, politicamente e ideologicamente le Potenze colonizzatrici, così da favorire la lotta di classe nelle metropoli del Capitalismo mondiale.

In quanto socialdemocratico «grande-russo», come amava definirsi, Lenin era ovviamente interessato in primo luogo a colpire gli interessi della Russia, della sua Patria; da parte sua, in quanto socialdemocratica polacca Rosa Luxemburg aveva motivo di temere che il nazionalismo polacco avrebbe indebolito la coscienza di classe del proletariato della Polonia, nazione oppressa dalla Russia zarista: due ragioni che all’epoca non riuscirono a sposarsi. Scriveva Lenin: «Marx chiedeva la separazione dell’Irlanda dall’Inghilterra, non dal punto di vista dell’utopia piccolo-borghese del capitalismo pacifico, non per motivi di “giustizia verso l’Irlanda”, ma dal punto di vista degli interessi della lotta rivoluzionaria del proletariato della nazione dominante, cioè inglese, contro il capitalismo. […] L’internazionalismo del proletariato inglese sarebbe stato una frase ipocrita se il proletariato inglese non avesse chiesto la separazione dell’Irlanda» (29). Dal loro canto i comunisti irlandesi, supposta la loro esistenza, avrebbero dovuto battersi contro la penetrazione del veleno nazionalista nelle file del proletariato irlandese e per l’autonomia di classe di esso anche nel conteso di una rivoluzione nazionale che aveva i caratteri di un evento «storicamente progressivo», come si diceva allora. Mantenere l’autonomia politica e organizzativa del proletariato della nazione oppressa e al contempo sostenere la rivoluzione nazionale per conseguire l’obiettivo dell’indipendenza politica di quella nazione: si comprende bene come di fronte a questa complessità politica, a questa oggettiva problematicità, il comunista attivo nella nazione oppressa facilmente si aprisse alla tentazione di ripiegare su una posizione di intransigenza internazionalista che negava ogni valore positivo alla guerra nazionale.

Ancora Lenin: «Il proletariato [della nazione oppressa] non può andare oltre nell’appoggiare il nazionalismo, perché più oltre in­comincia l’attività “positiva” della borghesia, che tende a rafforzare il nazionalismo». Bisogna ammettere che era estremamente difficile trovare e mantenere fermo il limite di cui parlava Lenin. Per questo non ha alcun senso, almeno all’avviso di chi scrive, attribuire torti e ragioni quando analizziamo il dibattito che sull’annosa Questione nazionale vide come protagonisti di primissimo piano Lenin e Rosa Luxemburg; importa invece cogliere la complessità e la dinamica dei problemi che essi si trovarono ad affrontare avendo in mente, entrambi, un solo assillo: come «liberare il proletariato dal suo assoggettamento alla borghesia sciovinista» (Lenin).

Come osservavo sopra, nel XXI secolo l’oppressione nazionale e lo sfruttamento economico realizzato da alcuni Paesi e aree continentali a danno di altri Paesi e arre continentali si dispiegano su una base sociale completamente diversa rispetto a quella con cui ebbero a confrontarsi Marx e Lenin. Del resto la situazione storico-sociale ai tempi di Lenin differiva non poco da quella dei tempi di Marx, e solo Engel, nella parte conclusiva della sua vita, ebbe modo di vedere in modo sufficientemente chiaro le premesse economiche (il superamento della fase liberale/concorrenziale del Capitalismo con la formazione di monopoli, trust ecc., il crescente ruolo del capitale finanziario, ecc.) del fenomeno sociale che passerà alla storia come Imperialismo.

Marx, Engels e Lenin si trovarono a dover fare i conti con la Questione nazionale in un tempo in cui la formazione degli Stati nazionali (Germania, Italia, Polonia, Irlanda ecc.) e la liberazione nazionale degli Stati colonizzati (Cina, India, ecc.) erano problemi che occupavano il centro della scena nella “politica estera” del movimento operaio internazionale. Nel XXI secolo questi problemi o non esistono più, o sono del tutto marginali; oggi il movimento operaio internazionale (che peraltro non esiste, che latita ormai da troppo tempo) ha a che fare solo con la competizione capitalistica universale, in cui lo sfruttamento economico e l’egemonia politica perseguita dalle grandi Potenze ai danni di quelle più piccole, nonché delle nazioni capitalisticamente più deboli, rispondono alla “normale” prassi del Capitalismo nella sua fase imperialistica. Lo sfruttamento economico e il dominio politico che osserviamo in campo internazionale, sul terreno dei rapporti tra gli Stati, non è che la continuazione dei rapporti sociali capitalistici esistenti in ogni singolo Paese. È dunque illusorio aspettarsi il superamento di questa situazione senza sradicare i vigenti rapporti sociali: è come prospettare l’emancipazione dei lavoratori senza spazzare via la causa che li rende succubi del Capitale, ossia il capitale stesso. L’armonia e l’uguaglianza fra i soggetti sociali (nazioni, classi) sono delle reazionarie chimere tanto sul terreno interno come su quello internazionale (posta la crescente labilità di questa distinzione), e chi predica il contrario, raggiunge a mio avviso un solo obiettivo: ingannare le classi subalterne e tenerle saldamente legate al carro del Dominio. «Le chimere della repubblica europea della pace eterna sotto l’organizzazione politica sono diventate ridicole proprio come le frasi sulla unione dei popoli sotto l’egida della libertà generale del commercio. […] L’unione e la fratellanza delle nazioni sono una vuota frase che oggi è sulla bocca di tutti i partiti, in particolare dei liberoscambisti borghesi. Indubbiamente esiste una certa fratellanza tra le classi borghesi di tutte le nazioni: è la fratellanza degli oppressori contro gli oppressi, degli sfruttatori contro gli sfruttati» (30).

«L’integrazione del popolo intero nella comunità nazionale di cultura, la conquista della totale autodeterminazione da parte della nazione, una differenziazione spirituale crescente delle nazioni: questo è il so­cialismo. […] La borghesia, nel suo desiderio di sfruttare i nuovi mezzi per aumentare i suoi profitti, ha tradito il suo antico ideale dello Sta­to nazionale e aspira allo Stato imperialista plurinazionale. […] Nell’epoca del capitalismo matu­ro, nell’epoca dei cartelli, dei trust e delle grandi banche, il principio di nazionalità, tradito dalla borghesia, diventa patrimonio ideale della classe operaia» (31). Detto che il «socialismo» prospettato a suo tempo da Otto Bauer somigliava moltissimo al “socialismo” di marca stalinista (32), osservo che è semplicemente ridicolo opporre lo Stato nazionale allo Stato imperialista, il Capitalismo della fase liberoscambista e concorrenziale a quello della sua fase imperialista, come se quest’ultimo non fosse stato preparato dallo sviluppo del primo. Questo modo adialettico e astorico di ragionare fu tipico dei socialdemocratici rimasti fedeli alla concezione kautskiana della società capitalistica nella sua fase imperialista.

Scriveva l’evocato Karl Kautsky: «L’antagonismo tra borghesia e proletariato continua a crescere, ma nello stesso tempo il proletariato è sempre più il nerbo della nazio­ne, per numero, intelligenza, energia, e gli interessi del proletariato e quelli della nazione convergono sempre di più. Una politica ostile alla nazione sarebbe dunque per il proletariato un vero suicidio» (33). La nazione è concepita qui come una realtà politicamente e socialmente neutra: quanto di più lontano ci possa essere da una concezione storico-materialistica, la quale evidentemente non riuscì a mettere profonde radici nel pensiero di Kautsky, nonostante egli si considerasse il degno e miglior erede di Marx ed Engels, in ciò peraltro confortato dall’opinione che di lui aveva la gran parte dei socialdemocratici europei, compreso Lenin, che lo considererà un «rinnegato» solo dopo il 1914. In realtà la posizione “ambigua” che sulla guerra mondiale difese l’ex Papa del Socialismo non si spiega, a mio avviso, con la categoria del tradimento, ma appunto con la concezione che sulla società, sulla lotta di classe, sulla democrazia, sui compiti dei socialdemocratici e sulla rivoluzione egli aveva elaborato nel corso di molti anni.

La posizione nazionalista e patriottarda dei «socialsciovinisti» naturalmente cercava in Marx ed Engels un solido sostegno dottrinario, che essi credettero di individuare nei passi che seguono: «Gli operai non hanno patria. […] Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch’esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia» (34). La lotta di classe si svolge nell’ambito nazionale (in questo senso essa è nazionale) ma non ha obiettivi nazionali, tutt’altro! La forma è nazionale, ma la sostanza politica è, e non può che essere, internazionalista, ossia radicalmente antinazionale. La lotta del proletariato deve avere quantomeno un respiro nazionale, non locale, non localistico, ma appunto internazionale e internazionalista. La nazione è concepita da Marx e da Engels come spazio sociale e geopolitico imposto ai dominati dai vigenti rapporti sociali, nonché  come sezione dell’auspicato Partito comunista – mondiale. Ma sono gli stessi autori del Manifesto a chiarire, qualche pagina prima, il senso della loro affermazione: «Sebbene non sia tale per contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia è però, all’inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia» (35). Più chiaro di così!

In conclusione (si fa per dire)! Il contenuto oggettivo del processo sociale in questo preciso momento storico mi porta a concludere che ogni forma di sovranismo/nazionalismo/patriottismo va respinto e combattuto con tutte le forze, e che non c’è alcuna possibilità di accordo con chi sostiene che i “rivoluzionari” devono appoggiare un campo imperialista (ad esempio quello ostile agli Stati Uniti) piuttosto che l’altro per favorire… non si sa poi cosa di preciso. Chi pensa che non si possa rimanere “equidistanti” e “indifferenti” rispetto alla contesa imperialistica si pone, per dirla con Lenin, «sotto la bandiera altrui», ossia sotto la bandiera degli interessi delle classi dominanti (nazionali o sovranazionali che siano), degli Stati (capitalistici), delle nazioni (capitalistiche). Non si tratta poi di essere “equidistanti” e “indifferenti”, come pensa chi non riesce ad andare oltre l’orizzonte ideologico borghese, ma semplicemente di essere contro tutti i Paesi del pianeta, a cominciare beninteso dal proprio Paese, dall’Italia nella fattispecie, tanto per essere chiari fino in fondo e non lasciare nulla all’immaginazione. «Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia»: ecco, appunto!

Ai compagni che s’indignano per aver voluto chiamare Patria e Costituzione la sua nuova associazione politica, l’Onorevole Stefano Fassina ricorda opportunamente l’Art. 52 della Costituzione di questo Paese: «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino». Un motivo in più per disprezzare questa Costituzione!

 

 

 

 

(1) Intervista rilasciata all’Huffington Post, 7/9/2018.
(2) Il filosofo più telegenico del momento ha ripetuto i suoi italianissimi concetti dinanzi alla platea dei camerati di CasaPound, riscuotendo calorosissimi applausi. Simone Di Stefano, uno dei leader del movimento neofascista (o diversamente fascista), lo ha ringraziato commosso: «Ci riconosciamo nella stessa Patria: al di là delle nostre diverse posizioni politiche siamo tutti italiani che intendono difendere gli interessi nazionali». Che belle parole! Per l’occasione Fusaro ha citato (per l’ennesima volta!) Giovanni Gentile: «Volgiamoci dunque al nostro passato, per fare di questa nostra italianità, quale si venne realizzando lungo la nostra storia particolare, il nostro problema presente ed urgente, il segreto della nostra vita spirituale». Pure il patriota che alberga in me, sebbene vergognosamente nascosto, si è assai commosso! Era dai mondiali di calcio del 2006 che non mi sentivo così italiano.
(3) Lavoro, patria e costituzione, Sinistrainrete.
(4) Toni Negri, intervista su Libération, 13/5/2005.
(5)«Accettare la sfida del populismo significa comprendere che non è possibile opporsi al capitale globale senza lottare per la riconquista della sovranità popolare la quale, a sua volta, comporta la riconquista della sovranità nazionale» (C. Formenti, La variante populista, p. 9, Derive Approdi, 2016).
(6) M. Assennato, T. Negri, Internazionalismo contro sovranismo, Euronomade.
(7) sotto quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964).
(8) H. Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata, p. 31, Einaudi, 1991.
(9) Il nuovo ordine erotico, Intervista rilasciata ad Affaritaliani.it., 15/9/2018.
(10) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 502, Editori Riuniti, 1973.
(11) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Famiglia, in Lezioni di sociologia, pp. 155-163, Einaudi, 2001.
(12) Dalla Presentazione del saggio Patria. Circumnavigazione di un’idea controversa (Marsilio, 1996) scritto dallo storico Silvio Lanaro.
(13) R. Luxemburg, Scritti scelti, pp. 284-285, Einaudi, 1976.
(14) Lenin, I südekum russi, in Opere, XXI, p. 108, Editori Riuniti, 1966.
(15) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, p. 503.
(16) Ivi.
(17) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 33-34, Editori Riuniti, 1972.
(18) K. Marx, La guerra civile in Francia, p. 141, Newton, 1973.
(19) «La trasformazione dell’attuale guerra imperialista in guerra civile è la sola giusta parola d’ordine proletaria additata dall’esperienza della Comune» (Lenin, La guerra e la socialdemocrazia russa, Opere, XXI, p. 25).
(20) Cit. tratta da Lenin, Sotto la bandiera altrui, Opere, XXI,  p. 123.
(21) Ibidem, pp. 127-128.
(22) Ibidem, pp. 124-126.
(23) Intervista rilasciata a Huffington Post. «Il capitalismo, lasciato a se stesso, tende a distruggere la società. Compito della politica è costringerlo ad adattarsi alle esigenze della democrazia, regolandolo, mettendo dei limiti, tutelando gli interessi dei suoi cittadini, lasciando che il conflitto sociale si manifesti». Questo è «il compito della politica» asservita agli interessi delle classi dominanti. Compito degli anticapitalisti è invece quello di demistificare la natura di classe della democrazia (capitalistica) e di trasformare il conflitto sociale in lotta di classe: per il lavoro, per il salario, per migliori condizioni di vita, in vista della rivoluzione sociale. Anche nel XXI secolo l’alternativa è, mutatis mutandis, sempre la stessa: Riforma sociale o rivoluzione?
(24) C. Jean, Manuale di geopolitica Manuale di geopolitica, p. 153, Laterza, 2003.
(25) Lenin, Sotto la bandiera altrui, Opere, XXI, p. 132.
(26) Lenin, La conferenza delle sezioni estere del POSR, 1915, Opere, XXI, pp.142-143.
(27) S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, p. 111, Newton, 1991.
(28) R. Luxemburg, Scritti scelti, p. 282, Einaudi, 1976.
(29) Lenin, Il proletariato e il diritto di autodeterminazione, p. 375, Opere, XXI.
(30) ­Marx-Engels, Discorsi sulla Polonia, 1847, Opere, VI, p. 410.
(31) O. Bauer, Socialdemocrazia e questione nazionale, Editori Riuniti, 1999.
(32) Del resto Bauer guardò sempre con molta simpatia la Russia stalinista: «Nell’Unione Sovietica abbiamo una società socialista in divenire. Per quanto grandi siano le difficoltà contro le quali l’Unione Sovietica deve ancora lottare, […] essa dimostrerà nei fatti a tutti i popoli del mondo la superiorità economica, sociale e culturale di un ordine sociale socialista» (O. Bauer, La crisi della democrazia, 1936, in Tra due guerre mondiali?, p. 196, Einaudi, 1979). Peccato che allora in Unione Sovietica non ci fosse alcun «ordine sociale socialista» di cui andar fieri. Scriveva Herbert Marcuse nel 1969: «Sotto certi importanti aspetti il “comunismo mondiale” è stato il Nemico che si sarebbe dovuto inventare se non fosse esistito. […] L’opposizione nei paesi a capitalismo avanzato è stata gravemente indebolita dall’involuzione stalinista del socialismo, che ha fatto del socialismo un’alternativa non esattamente piacevole al capitalismo» (H. Marcuse, Saggio sulla liberazione, p. 100, Einaudi, 1973). Ciò che Marcuse definiva, sbagliando, «involuzione stalinista del socialismo» va a mio avviso considerato come una diretta e piena negazione del socialismo, avendo avuto il regime sociale chiamato “sovietico” una natura pienamente capitalista e imperialista. Una tesi, questa, che molti Socialnazionalisti dei nostri tempi vedono come il fumo negli occhi, perché il lupo stalinista perde il pelo ma non il vizio.  Sul significato storico-sociale dello stalinismo rimando a Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924).
(33) K. Kautsky, La nazione moderna e il ruolo “nazionale” del proletariato, in R. Mon­teleone, Marxismo, internazionalismo e questione nazionale, p. 137, Loescher, 1982.
(34) Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 503.
(35) Ibidem, p. 497.