SORVEGLIARE E PROFITTARE

Quando il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare.

Capitalismo cognitivo, capitalismo delle piattaforme, capitalismo digitale, capitalismo predittivo, capitalismo di sorveglianza: sono molte le definizioni che economisti e sociologi usano per dar conto del Capitalismo del XXI secolo come si presenta ai loro occhi attraverso le sue continue e sempre più rapide trasformazioni. Ora è appunto la volta del cosiddetto Capitalismo di sorveglianza, definizione che forse dobbiamo al libro di successo scritto nel 2018 da Shoshana Zuboff (The Age of Surveillance Capitalism), docente di economia aziendale di Harvard e mille altre cose ancora. Ho scritto forse perché molti attribuiscono la primazia di quella definizione all’esperto e “guru” della sicurezza Bruce Schneier, il quale ha scritto che «la sorveglianza è il modello di business di Internet»; tra poco dovrebbe uscire il suo ultimo saggio dal titolo poco rassicurante: Clicca qui per uccidere tutti quanti. Gli odiatori di tutto e di tutti, così presenti e attivi sui social, ne stanno aspettando la pubblicazione con la bava alla bocca…

Al centro del capitalismo di sorveglianza la Zuboff colloca ovviamente l’Intelligenza Artificiale, la quale permette ai “sorveglianti” (Google, Facebook, ecc.) di acquisire dati e informazioni sulle persone, il più delle volte senza che esse ne abbiano la minima contezza, e di trasformare quei dati e quelle informazioni in preziosa materia prima “algoritmica” utile a confezionare profili digitali da collocare sul mercato – incluso quello politico-ideologico. Niente di nuovo, parrebbe di capire, e io stesso ne ho parlato in diversi post (1). Per dirla con Toni Negri (e cioè malissimo), siamo passati da un’accumulazione basata sull’estrazione di plusvalore a un’accumulazione centrata sull’estrazione di dati personali. Naturalmente il passaggio è puramente immaginifico, perché l’estrazione del plusvalore dal lavoro vivo  (vampirizzato dal lavoro morto) «è una tremenda verità» anche nel XXI secolo, e senza questa vitale estrazione non sarebbe possibile nemmeno il “Capitalismo di sorveglianza”, qualunque cosa questa locuzione significhi.

Scriveva Marika Surace nel lontanissimo 2005: «L’espressione “società della sorveglianza” è stata spesso ascritta a David Lyon, sociologo canadese che ha studiato, in molte sue opere, gli effetti dei nuovi mezzi di controllo sociale, e delle loro interazioni con le più recenti tecnologie informatiche. In realtà, il primo a parlare di “società della sorveglianza”, è stato Gary T. Marx, in un articolo comparso nel 1985 sulla rivista The Futurist. Il sociologo statunitense analizza il forte cambiamento avvenuto nel passaggio dall’era moderna all’era postmoderna, in cui le nuove tecnologie assumono un ruolo principale nel nuovo assetto sociale, ed afferma senza timore che “grazie alla tecnologia informatica sta crollando una delle ultime barriere che ci separano dal controllo totale”. Gary T. Marx definisce questo fenomeno “New Surveillance”: lo scopo della sua analisi è proprio quello di marcare le differenze tra la sorveglianza sviluppatasi con la nascita degli stati moderni nel XIX secolo, quando la raccolta dati serviva allo stato per amministrare la nazione, e la sorveglianza contemporanea, quella in cui non solo lo stato, ma anche le aziende commerciali, le assicurazioni, agenzie ed organizzazioni dei più svariati settori raccolgono ed elaborano informazioni personali su chiunque, con lo scopo di controllarne e manipolarne le interazioni sociali, le preferenze, le opinioni» (2).

Questo solo per dire quanto lontano nel tempo rimonti il concetto di “Capitalismo di sorveglianza”, la cui prassi è ormai da anni sotto gli occhi di tutto, e quanto stretto sia il legame tra il controllo sociale ai fini della salvaguardia dello status quo sociale e il controllo sociale ai fini della mercificazione di tutte le attività umane. Detto altrimenti, il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare. Qui il concetto di sussunzione totalitaria della Società-Mondo (natura compresa) da parte del Capitale gira a pieno regime. Il «totalitarismo della sorveglianza» denunciato da molti analisti politici e da non pochi sociologi sparsi ai quattro angoli del mondo ha a mio avviso questo preciso significato politico-sociale.

Scrive Shoshana Zuboff: «Il capitalismo di sorveglianza tratta unilateralmente l’esperienza umana come materia prima libera per la traduzione in dati comportamentali. Sebbene alcuni di questi dati siano applicati al miglioramento del servizio, il resto viene dichiarato come un avanzo comportamentale proprietario, alimentato in processi di produzione avanzati noti come “intelligenza artificiale” e fabbricati in prodotti di previsione che anticipano ciò che farai ora, presto e dopo . Infine, questi prodotti di previsione sono scambiati in un nuovo tipo di mercato che io chiamo mercati dei futures comportamentali. I capitalisti di sorveglianza sono cresciuti immensamente ricchi da queste operazioni commerciali, poiché molte aziende sono disposte a scommettere sul nostro comportamento futuro». Qui fa capolino il concetto di “Capitalismo predittivo”, il quale si sposa benissimo con il concetto di sicurezza predittiva (repressione preventiva  dei potenziali reati o precrimine), come già segnalavo su un post del 2014: «Il giornalista Paolo Bottazzini, esperto in tecnologie intelligenti applicate al controllo sociale, è sicuro: “Minority Report è realtà. La polizia statunitense prevede i crimini”» (L’algoritmo del controllo sociale). Oggi è la Cina che sul terreno della sicurezza predittiva si colloca decisamente all’avanguardia mondiale: rinvio al post Riflessioni orwelliane. Qui mi limito a segnalare quanto si dibatte in sede di riflessione politica e sociologica circa l’impatto immediatamente politico che le tecnologie cosiddette intelligenti hanno al contrario delle tecnologie del periodo “fordista”. Si osserva in particolare che mentre la tecnologia “stupida” di una volta non metteva in crisi la democrazia parlamentare e i suoi tradizionali soggetti (partiti, sindacati, “corpi intermedi” di vario tipo), la tecnologia “intelligente” dei nostri tempi starebbe invece per ribaltare completamente il vecchio scenario, rendendo obsoleta l’architettura politico-istituzionale dell’Occidente come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. In Italia ovviamente si cita il caso della famigerata piattaforma Rousseau che, com’è noto, fa capo alla Casaleggio & Associati. In un’intervista di qualche tempo fa Davide Casaleggio teorizzava senza giri di parole il superamento della democrazia rappresentativa: «I modelli novecenteschi stanno morendo, dobbiamo immaginare nuove strade e senza dubbio la Rete è uno strumento di partecipazione straordinario. Per questo la cittadinanza digitale deve essere garantita a tutti. […] Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile» (La Verità). Il sogno di Casaleggio è vedere tutti i pesci che nuotano nel Web finire dritti dritti nella sua Rete, dove tutti sono uguali e solo pochissimi sono più uguali degli altri, come i maiali della nota Fattoria. La chiamano “democrazia diretta” – dai maiali di cui sopra. Di certo chi scrive non verserà democratiche lacrime sul «superamento della democrazia novecentesca».

«Sono trent’anni che si parla di Grande Fratello, ben prima delle nuove tecnologie. Direi che il tema risieda altrove, non nel progresso tecnologico»: qui Casaleggio dice, suo malgrado, il vero.

Scrive James Bridle: «La litania di esperienze appropriate viene ripetuta così spesso e così estesamente che siamo diventati insensibili, e così dimentichiamo che non si tratta di una visione distopica del futuro, ma del presente. Originariamente intento a organizzare tutta la conoscenza umana, Google ha finito per controllare tutti gli accessi ad esso; facciamo una ricerca e ci perquisiamo a turno. Partendo solo per connetterci, Facebook si è trovata in possesso dei nostri più profondi segreti. E nel cercare di sopravvivere commercialmente oltre i loro obiettivi iniziali, queste aziende si sono rese conto di stare seduti su un nuovo tipo di risorsa: il nostro “surplus comportamentale”, la totalità delle informazioni su ogni nostro pensiero, parola e azione, che potrebbero essere scambiate a scopo di lucro su nuovi mercati basati sulla previsione di ogni nostra esigenza o sulla sua produzione» (The Guardian). In effetti scandalizzarsi per l’uso capitalistico che della nostra vita privata fanno i colossi dell’industria “esistenziale” (Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple) è davvero ingenuo, e piuttosto l’attenzione critica andrebbe posta sull’estrema facilità con cui siamo disposti a regalare a quei colossi la materia prima che essi trasformano in prodotti commerciali. E a mio modesto avviso non vale, o comunque non vale più, il discorso secondi cui le persone che usano i social sono ignari di quel che si muove nel retroscena digitale: magari non conosciamo i dettagli tecnici della cosa, ma ormai tutti noi abbiamo capito che in cambio di un qualche servizio gratuito che riceviamo offriamo qualcosa a chi gentilmente ce lo “regala”. E quel qualcosa non può che essere la massa di dati che ogni giorno immettiamo sul Web. È ingenuo e abbastanza confortante (e perciò stesso sbagliato) pensare che si tratti solo di ignoranza da parte dell’utente, e che quindi per il pensiero “critico” si tratterebbe solo di informarlo circa l’uso capitalistico della sua cosiddetta privacy. Non è così: siamo tutti complici più o meno zelanti del “Capitalismo di sorveglianza”; sappiamo che dobbiamo pagare un prezzo (non ci vuole un Adam Smith o un Karl Marx per capire che nel Capitalismo nessun pasto è gratis), e oggi siamo disposti a pagarlo, per poi magari odiare a morte i padroni dei big data quando leggiamo notizie circa i loro stratosferici guadagni.  Sotto questo aspetto Hai Varian, capo economista di Google e tra i padri della microeconomia contemporanea, ha buon gioco nel dire che «Le persone sono ben contente di vedere la loro privacy invasa […] purché ricevano in cambio quello che desiderano […]: uno sconto su una polizza assicurativa o sanitaria, un mutuo ad un tasso più conveniente. […] Tutti sono pronti ad essere tracciati e monitorati poiché i vantaggi attesi in termini di risparmio, efficienza e sicurezza sono enormi».

In questo contesto atomizzazione degli individui, registrato dagli analisti sociali come «individualismo sfrenato», e loro massificazione («siamo diventati materia prima digitale») sono le due brutte facce di una stessa medaglia, e la cosa non può non avere precisi riscontri anche sul terreno della politica e della «psicopolitica», come il filosofo Byung Chul Han ha definito la pratica delle fake news, dei pregiudizi e delle minacce che si fanno l’un contro l’altro armati (per adesso solo di computer) gli «atomi digitali».

«La storia principale è che non si tratta tanto della natura della tecnologia digitale quanto di una nuova forma mutante di capitalismo che ha trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi. Il nome che Zuboff ha dato alla nuova variante è il “capitalismo di sorveglianza”. Funziona fornendo servizi gratuiti che miliardi di persone utilizzano allegramente, consentendo ai fornitori di tali servizi di monitorare il comportamento di tali utenti in modo sorprendente – spesso senza il loro esplicito consenso». J. Naughton, (The Guardian) Ma a ben vedere, da che esiste il moderno Capitalismo «la storia principale» non è mai stata, in primo luogo, la «natura della tecnologia», quanto soprattutto il suo uso capitalistico. Non è che il capitalismo dei nostri giorni ha finalmente trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi, una lettura piuttosto ingenua (a testa in giù, avrebbe detto Marx) dei processi sociali cui assistiamo su scala planetaria; è che il Capitale come peculiare rapporto sociale produce sempre di nuovo la tecnologia a immagine e somiglianza della sua insaziabile fame di profitto. Il Capitale promuove la ricerca scientifica per espandere continuamente il suo potere di dominio sugli uomini, sulle cose e sugli animali: l’ha sempre fatto e continuerà a farlo in modo sempre più stringente, capillare, razionale, scientifico, in una sola parola: disumano.

A proposito di animali! Dall’Internet degli uomini siamo passati all’Internet delle cose, e adesso è il momento, appunto, dell’Internet degli animali: «Le mucche sono un buon esempio di queste opportunità. Usando il sistema di monitoraggio di Estrus di Huawei per connettere una mucca a Internet, gli allevatori possono controllare meglio la salute dell’animale e il tempo di deposizione dello sperma, consentendo al tempo stesso una maggiore libertà di vagabondare senza preoccuparsi del pericolo. Utilizzando la rete NB-IoT, il dispositivo di monitoraggio della vacca può funzionare per cinque anni con una batteria 5400mAH. Ci sono ovviamente altri benefici per l’animale e l’agricoltore, e Hu ha evidenziato che ogni vacca collegata nello studio ha fruttato 420 dollari extra per l’agricoltore nella produzione di latte» (J. Davies, Telecoms). Sono davvero commosso per i «benefici» arrecati dalle nuove tecnologie intelligenti agli animali manipolati dal Capitale . Scrive Ugo Bertone: «Non meno impegnativa la scommessa di Wang Yufeng: connettere, entro il 2025, un miliardo di vacche. Un’impresa faraonica ma inquietante: dalle vacche agli uomini il passo può essere breve» (Il Foglio). Ma il passo è già stato compiuto: tutti siamo connessi in qualche modo alla rete capitalistica! Per Wang Yufeng, responsabile degli X Lab di Huawei, «Negli ultimi venti anni i progressi della tecnologia ci hanno permesso di connettere gli esseri umani. Ora ci prepariamo al passo successivo: vogliamo che sia l’intelligenza artificiale a prendere il controllo del mondo fisico. Droni e robot devono essere connessi e autonomi. La parola d’ordine è connettività per tutti» (Il foglio). Ecco, appunto.

Detto en passant, la vacca “intelligente” mi ha fatto venire in mente un passo marxiano, questo: «Il capitale preso nell’unico rapporto in cui genera plusvalore […] smunge plusvalore tramite la costrizione fatta sulla forza lavorativa, vale a dire sull’operaio salariato» (3). Smunge… Sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici la vacca “intelligente” e l’operaio salariato condividono lo stesso pessimo destino.

«Le aziende hanno deciso che siamo gratis, cioè che possono prendere la nostra esperienza gratuitamente e tradurla in dati comportamentali. Così siamo diventati la loro materia prima» (S. Zuboff). La tecnoscienza è sempre stata al servizio del Capitale, che se ne serve per rendere più produttivo il lavoro, per inventare a getto continuo nuove e più promettenti occasioni di profitto, per fare della stessa esistenza degli individui un bio-mercato, per trasformare ogni cosa in una risorsa economica: dal “capitale tecnoscientifico” al “capitale umano”, dal “capitale natura” al “capitale cultura”, e via di seguito – una via che conduce ossessivamente l’umanità in direzione del denaro, il Moloch che decide la vita di tutti i suoi sudditi. Per dirla con Jamie Davies, «La tecnologia è il burattino, ma il capitalismo di sorveglianza è il burattinaio». Non c’è dubbio: il «burattinaio» è il Capitale.

«Il capitalismo della sorveglianza ha preso l’esperienza umana e l’ha trasformata in qualcosa da comprare e vendere sul mercato» (S. Zuboff). Proprio così. Mercificare l’intero spazio esistenziale degli individui è sempre stato un imperativo categorico per il Capitale, e nel XXI secolo questo principio si mostra assai più che nel passato nella sua radicale essenza disumana. Il nostro stesso corpo (nella sua totalità e unità psicosomatica) sta diventando una sorta di touch screen a disposizione del Capitale. Ma la “colpa” non è della tecnoscienza che avrebbe reso possibile la realizzazione della cattiva ”utopia” capitalistica, ma del Capitale, il quale per un verso orienta la tecnoscienza in direzione di invenzioni che – ovviamente – sorridono ai suoi interessi, e per altro verso ha acquisito nel tempo la capacità di sfruttare ogni invenzione e ogni evento che non ne mettono in discussione l’esistenza in un’occasione, prima solo potenziale e presto o tardi fattuale, di profitto. È nella maligna (disumana) natura del Capitale muoversi in quel modo, ed è quindi ingenuo attendersi da questa società altro che una sua totale mercificazione (a iniziare dalle attività lavorative) e una sua trasformazione in una gigantesca (planetaria!) occasione di profitti per chi ha la fortuna di poter investire capitali in qualche business. Più che di Intelligenza Artificiale dovremmo piuttosto parlare di Intelligenza del Capitale.

Qui parlo di Capitale in primo luogo come rapporto sociale e come potenza sociale che, marxianamente, domina sulla vita di tutti gli individui, i quali non controllano razionalmente le fonti vitali della loro esistenza, ma ne sono piuttosto controllati. Chi paventa il «potere autonomo delle macchine» non si accorge che quell’autonomia fa capo al Moloch capitalistico, il quale si serve appunto delle “macchine intelligenti” per rafforzare, espandere e approfondire sempre di nuovo il suo dominio sugli uomini, sulla natura e sulle cose.

Per Sebastiano Bagnara, docente di Human Factors all’Università di San Marino ed esperto di interazione uomo-macchina, i principi fondamentali della «roboetica, l’etica dei robot» (la quale segna i confini entro cui utilizzare i robot senza perderne il controllo), «erano già impliciti nei principi della robotica di Asimov, il grande romanziere di fantascienza che ne scrisse negli anni Cinquanta: i robot potevano esistere solo al servizio delle persone. Ma sarà sempre così?» (Offida.it). Fin dove è possibile, si chiede sempre Bagnara, spingere l’autonomia delle macchine intelligenti senza correre il rischio, appunto di perderne il controllo e ricevere un danno, anziché un vantaggio, dal loro impiego “a 360 gradi” (dalla produzione di beni e servizi alla produzione di salute, benessere e cultura)? Risposta: «Quello che possiamo fare non è tanto resistere al sistema e uscire dai social media, ma recuperare la dimensione riflessiva del pensiero, non accettare acriticamente ciò che accade e coltivare il dibattito su come vogliamo usare questi software e per quali scopi. Perché esercitare il pensiero aiuta a proiettare anche nuove realtà possibili». La risposta non eccelle per originalità e in linea di principio appare perfino condivisibile, almeno a chi scrive. Ma già l’acritica accettazione del concetto di roboetica la dice lunga su quanto sia oltremodo difficile praticare un pensiero autenticamente critico sull’uso sociale della tecnologia, e su quanto il feticismo tecnologico, che cammina sempre insieme al pensiero reificato, sia profondamente radicato nella nostra testa.

Il linguaggio reificato e feticizzato del XXI secolo trova forse nei discorsi intorno alla cosiddetta “Intelligenza Artificiale” la sua massima espressione. Le macchine non pensano, le macchine calcolano, computano in base a istruzioni (software) e a meccanismi tecnici (hardware) progettati, disegnati, impostati e costruiti dall’uomo per conseguire determinati obiettivi. Si può parlare di “intelligenza” e di “pensiero” artificiali solo al prezzo di stressare oltremodo il linguaggio e di sostituire alla cosa reale (un calcolo più o meno complesso e un movimento elettromeccanico che lo rende possibile e fruibile) un’espressione analogica («la macchina sta pensando») che dice la verità, appunto, solo intorno all’alto tasso di feticismo e di reificazione raggiunto dal pensiero in questo periodo storico.

Come dicevo sopra, tutto il chiacchierare intorno all’Intelligenza Artificiale che rischierebbe di dominare l’umanità cela, e al contempo rivela, il reale dominio delle potenze sociali capitalistiche sull’uomo, il quale non solo non controlla quelle potenze, ma le subisce in un grado sempre più forte e stringente. Il fantascientifico dominio del robot “intelligente” rinvia direttamente al realissimo dominio totalitario del Capitale sugli uomini e sulle cose. Il feticismo si deposita sul linguaggio. Il linguaggio degli algoritmi è al servizio della dura grammatica e della ferrea logica del rapporto sociale capitalistico: altro che “Algocrazia”!

(1) Siamo uomini o “profili”?; Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

(2) Dalla sorveglianza moderna alla New Surveillance: il ruolo delle tecnologie informatiche nei nuovi metodi di controllo sociale.

(3) K. Marx, Il Capitale, III, pp. 1470-1772, Newton, 2005.

ESSERE IL POPOLO

Sovranità del Popolo, Potere al Popolo, Governo del Popolo, Manovra del Popolo, avvocato del Popolo, deputati del Popolo, portavoce del Popolo. Tutti zitti: parla il Popolo! Il Popolo ha sempre ragione. Se il Popolo avesse torto marcio, bisognerebbe dargli ragione. Popolo è oggi la parola magica che serve da pretesto per qualsiasi truffa ai danni delle classi subalterne.

SUL CONCETTO DI CAPITALE UMANO

Il concetto di capitale umano, oggigiorno così usato e abusato in molti contesti della vita sociale, è falso almeno sotto due profili. In primo luogo occorre dire che accostare l’umanità al capitale la dice lunga non tanto sul secondo, sul capitale, concettualizzato in diverso modo dalle varie scuole economiche, ma soprattutto sul concetto di umanità che abbiamo in testa, il quale evidentemente può benissimo armonizzarsi con qualcosa (il capitale, è evidente) che nega in radice ogni autentica espressione di umanità. In altri termini, l’individuo del XXI secolo non è in grado di comprendere che la locuzione qui posta sotto osservazione realizza il più odioso degli ossimori, dà corpo ad una palese contraddizione in termini: infatti, o c’è il capitale o c’è l’umanità. Aut Aut! Oggi l’umano viene fuori, quando può e attraverso sforzi e contraddizioni d’ogni genere, non in armonia con il capitale, ma contro il concetto stesso di capitale, per non parlare della sua prassi. L’umano si fa strada timidamente e con indicibili difficoltà in un ambiente ostile che può vederlo soccombere da un momento all’altro, per mancanza di aria respirabile, mentre il capitale può vivere e prosperare solo respirando e producendo disumanità.

In secondo luogo, il concetto di cui si parla è falso sotto il profilo squisitamente economico-sociale, e qui faccio valere un punto di vista particolare. Il concetto di capitale umano dà a intendere che i lavoratori, non importa di che genere, avrebbero qualcosa da investire, che poi sarebbe appunto la loro capacità lavorativa: la loro professionalità, la loro creatività, la loro forza, la loro intelligenza, la loro perizia e così via. Siamo insomma tutti autorizzati a crederci imprenditori di noi stessi, a pensarci un po’ come dei capitalisti (1). Invece le cose stanno altrimenti. Il lavoratore non investe ma vende capacità lavorativa, e la vende alla stregua di qualsiasi altra merce, trasformando con ciò stesso tutta la sua vita, e non solo la sua forza-lavoro, in una merce il cui valore di scambio trova espressione appunto nel salario, nel denaro che gli permette di vivere come lavoratore, e quindi di riprodurre sempre di nuovo la sua maledetta condizione sociale.

«Distinguiamo: la forza-lavoro è merce, non capitale; [essa] opera come capitale dopo la vendita, in mano al capitalista, durante il processo stesso di produzione» (2). Nelle mani dei lavoratori la capacità lavorativa si dà come merce, come «un articolo di commercio», mentre essa diventa capitale solo nelle mani di chi la compra per trarne un profitto: ed è appunto questo il corretto concetto di capitale, già secondo Adam Smith: «Il reddito derivato dal lavoro si chiama salario, quello derivato dal capitale, da parte di colui che lo amministra o lo impiega, si chiama profitto» (3). Marx farà il contropelo critico all’economia politica smithiana impigliata nella feticistica formula trinitaria (4), dimostrando che il profitto non sgorga come sostanza naturale dal capitale (così come la rendita fondiaria non nasce spontaneamente dalla terra), ma piuttosto dall’uso capitalistico del lavoro umano (che diventa così senz’altro disumano), ma questo qui non ci riguarda.

Ecco perché non vedo dignità alcuna nel lavoro salariato, che, lo ripeto, non dà al lavoratore se non la possibilità di perpetuare la propria condizione di sudditanza sociale (economica, politica, ideologica, psicologica, in una sola e tutt’altro che meramente filosofica parola: esistenziale), mentre arricchisce chi ne sfrutta il prezioso… capitale umano. Insomma, quando un lavoratore sente parlare di “capitale umano” dovrebbe subito tirare fuori la metaforica pistola dalla tasca (trattasi di arma critica, Maresciallo Gargiulo, non della critica delle armi!), zittire tutti e gridare: «Alt! Basta così! Quantomeno non mi si prenda in giro!». Come diceva il Sommo, ogni limite ha una pazienza! O mi sto sbagliando?

(1) L’Istat ha perfino quantificato «il capitale umano di ciascun italiano», il cui «valore medio è di circa 342mila euro. […] Attenti però: lo stock di capitale umano non è uniformemente distribuito tra i diversi gruppi della popolazione» (Il Sole 24 Ore). Lo stock di capitale umano! Come sempre, cinica è la realtà, non chi cerca di darne conto con gli strumenti concettuali di cui dispone.
(2) K. Marx, Il capitale, II, p. 399, Editori Riuniti, 1980.
(3) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 99, Newton, 1995.
(4) «Capitale-profitto, terra-rendita fondiaria, lavoro-salario, questa è la formula trinitaria che abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale. […] In questa trinità economica collegante le parti costitutive del valore e della ricchezza in generale con le sue fonti, la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico-sociale è completa: il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre. […] Personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione, questa [è] la religione della vita quotidiana» (K. Marx, Il capitale, III, pp. 927-943, Editori Riuniti). Il concetto di capitale umano bestemmia contro l’umanità e la verità mentre delizia le orecchie del Dominio.

SERGIO MARCHIONNE COME PERSONA E COME FUNZIONARIO DEL CAPITALE

Questo post è stato scritto ieri.

Solo in quanto è capitale personificato, il capitalista ha
valore storico e possiede quel diritto storico all’esistenza
che, come dice spiritosamente il Lichnowsky, non ha data.
Il capitalista è rispettabile solo come personificazione del
capitale; in tale qualità condivide l’istinto assoluto per
l’arricchimento proprio del tesaurizzatore. Ma ciò che
in costui si presenta come mania individuale, nel capitalista
è effetto del meccanismo sociale, all’interno del quale egli
non è altro che una ruota dell’ingranaggio.
K. Marx

Tra le tante interviste rilasciate sulla vicenda Marchionne dai personaggi che rappresentano l’establishment politico, economico, sindacale e culturale del nostro Paese si segnala per più motivi, a mio avviso, quella rilasciata oggi da Fausto Bertinotti a Repubblica. Intanto l’ex Presidente della Camera invita a distinguere il Marchionne come persona che lotta per la vita in una stanza d’ospedale, dal Marchionne come funzione sociale e come simbolo che rinvia a un sistema sociale, e questo in risposta al molto odio e disprezzo a cui  in queste ore è fatto segno l’ex Chief Executive Officer della Fiat Chrysler Automobiles (e molto altro ancora) anche da parte di non pochi lavoratori che hanno sperimentato sulla loro pelle la funzione sociale esercitata da Marchionne. È facile esercitarsi in simili distinzioni quando non si ha a che fare con la sopravvivenza quotidiana, quando ci si può concedere il lusso della riflessione distaccata. Come sempre occorre cercare le cause dei comportamenti che giudichiamo inappropriati sotto il profilo etico, anziché perdere tempo nel solito rituale esercizio dell’indignazione quotidiana che non manca di oggetti sempre nuovi su cui scaricarsi.

«Cara Collega, Esiste un mondo in cui le persone non lasciano che le cose accadano. Le fanno accadere. Non dimenticano i propri sogni nel cassetto, li tengono stretti in pugno. Si gettano nella mischia, assaporano il rischio, lasciano la propria impronta. È un mondo in cui ogni nuovo giorno e ogni nuova sfida regalano l’opportunità di creare un futuro migliore. Chi abita in quel luogo, non vive mai lo stesso giorno due volte, perché sa che è sempre possibile migliorare qualcosa. Le persone, là, sentono di appartenere a quel mondo eccezionale almeno quanto esso appartiene loro. Lo portano in vita con il loro lavoro, lo modellano con il loro talento. V’imprimono, in modo indelebile, i propri valori. Forse non sarò un mondo perfetto e di sicuro non è facile. Nessuno sta seduto in disparte e il ritmo può essere frenetico, perché questa gente è appassionata – intensamente appassionata – a quello che fa. Chi sceglie di abitare là è perché crede che assumersi delle responsabilità dia un significato più profondo al proprio lavoro e alla propria vita. Benvenuta in quel mondo. Benvenuta in Fiat Chrysler Automobiles». Ho riportato il testo di una lettera inviata da Marchionne nella sua qualità di Chief Executive Officer della Fca a una sua nuova dipendente. È possibile che non tutti si sentano a proprio agio nel competitivo mondo descritto così entusiasticamente da Marchionne. D’altra parte il lungo processo di ristrutturazione tecnologica e di risanamento finanziario guidato con successo dall’ex capo operativo della FCA ha lasciato sul terreno molti morti e molti feriti, né bisogna trascurare il malessere “esistenziale” che il forte incremento di produttività ha provocato nei lavoratori che hanno avuto e hanno la “fortuna” di abitare in «quel mondo eccezionale».

In ogni caso è certamente vero che il problema non sono le persone ma la loro funzione sociale; ma d’altra parte non ci si può certo scandalizzare se quella funzione genera presso non pochi individui un odio e un disprezzo tali da coinvolgere anche la sfera personale di un individuo che incarna una determinata funzione per conto della società. Il circolo è “oggettivamente” vizioso! Non si tratta di giustificare comportamenti più o meno “deplorevoli” posti in essere da chicchessia, ma di capirne le cause più significative, quelle che ci aiutano a capire in che razza di mondo siamo costretti a vivere. La società raccoglie ciò che i suoi rapporti sociali dominanti seminano sempre di nuovo.

D’altra parte la stessa maniacale cura con cui per giorni i massimi dirigenti della galassia Fiat-Agnelli hanno cercato di tenere nascosta la notizia del ricovero ospedaliero del Super Manager  e dell’inatteso aggravamento delle sue condizioni di salute, nell’evidente – e più che giustificato – timore di improvvisi sommovimenti borsistici, la dice lunga sulla distinzione tra funzione sociale e sfera personale. Certe infauste notizie si danno solo a mercati chiusi! Lo stesso finanziere dai maglioni neri quasi certamente avrebbe condiviso quell’”umanissimo” riserbo tenuto da persone dedite alla santa causa degli azionisti. Sembra però che non tutti gli investitori della Multinazionale basata a Detroit hanno apprezzato il depistaggio messo in atto dalla famiglia Agnelli-Elkann per non far scappare  precipitosamente i buoi con un po’ di malloppo in pancia. Il riserbo “umanissimo” va bene, purché non intacchi la borsa! Come sempre cinica è in primo luogo la realtà, quella che a diverso titolo e con diverse conseguenze tutti subiamo.

In ogni caso, e come si è capito, qui parliamo di Marchionne come funzionario del capitale, nell’accezione propria – direi marxiana – del concetto. Ma ritorniamo all’intervista di Fausto Bertinotti, un altro personaggio con la fissa dei maglioncini, questa volta di cachemire: la classe non è acqua…  «Quella del cachemire è una leggenda metropolitana», ha detto una volta Bertinotti; se è per questo anche il suo essere “comunista” è rubricabile come leggenda metropolitana, peraltro di pessima fattura.

Com’è noto Bertinotti è un nostalgico dei “bei” tempi che furono, quando ad esempio «Non si attaccava mai qualcuno sul piano personale. Si discuteva di ciò che le persone rappresentavano. Si discuteva del capitalista, dell’ imprenditore, del padrone. Ma non si attaccava mai la persona. Anche perché questo avrebbe significato mettere in secondo piano l’analisi sulla società, che poi era quella che ci interessava. Questo vale anche per lo slogan Agnelli, Pirelli ladri gemelli: in quel caso Agnelli e Pirelli erano dei simboli, non delle persone in carne e ossa». Come sappiamo «l’analisi sulla società» dei cosiddetti “comunisti” portava a conclusioni politiche che non avevano nulla a che vedere con una prassi autenticamente comunista, ossia anticapitalista, e lo confessa lo stesso Bertinotti, il quale mostra di apprezzare la “fase olivettiana” di Marchionne: «A mio parere Sergio Marchionne rappresenta la transizione dal capitalismo del Novecento italiano a quello della globalizzazione. Lui stesso ha avuto due diverse fasi. Ho in mente il discorso che fece all’ Unione industriale di Torino credo nel 2006. Un discorso importante, direi di impronta olivettiana». Piccola parentesi: è ormai da diversi anni che l’ex leader dei rifondatori del “comunismo italiano” consiglia ai suoi vecchi compagni di sventura di riscoprire le “culture umaniste” come il “comunitarismo” di Adriano Olivetti, e questo ovviamente alla luce del doppio fallimento del «comunismo novecentesco» (leggi: stalinismo nelle sue diverse traduzioni nazionali) e del «capitalismo finanziario globalizzato» che secondo il Nostro si sarebbe consumato soprattutto ai danni dei lavoratori.  Chiudo la parentesi e riprendo la citazione: «Marchionne spiegava che i lavoratori sono la vera ricchezza il vero valore aggiunto di un’azienda ». Fermi tutti! Ma questo lo aveva detto qualche annetto fa un tal Karl Marx, se la memoria non m’inganna. Nel suo Capitale si legge infatti che solo il lavoro vivo crea al Capitale ricchezza, cioè valore: il robot ha il disumano potere di rendere più produttiva la singola capacità lavorativa, come sanno i Marchionne di tutto il pianeta, ma non è in grado, “in sé e per sé”, di creare «valore aggiunto», ossia quel vitale plusvalore che costituisce la materia prima d’ogni specie di profitto, di rendita e così via. Sto forse alludendo alla marxiana distinzione tra «capitale costante» (robot) e «capitale variabile» (lavoratore)? Si capisce! A tal proposito rinvio a un mio vecchio post, credo buono per l’occasione: Marchionne e la bronzea legge del valore. Le ragioni del Capitale (della Fiat e di Marx).

«Marchionne ha cambiato atteggiamento», continua il simpatico Fausto, «quando ha accettato di portare l’azienda in una dimensione globale, in una dimensione post-novecentesca. Quando Fca è diventata globale è la finanza che ha finito per prevalere sul lavoro. Con quella operazione Marchionne ha fatto uscire l’azienda dalla civiltà del lavoro del secondo Novecento». Mi permetto a questo punto una piccola, quasi insignificante precisazione, giusto perché sono un inguaribile pignolo: trattasi della civiltà del lavoro salariato, ossia del lavoro dominato dal rapporto sociale capitalistico, che è appunto una relazione sociale di dominio e di sfruttamento di uomini e di risorse naturali. Solo chi non ha capito la dinamica interna del processo capitalistico del XXI secolo può poi porre in opposizione la «civiltà del lavoro» (salariato!) e le attività finanziarie d’ogni genere. Tra l’altro il processo di finanziarizzazione della Fiat rimonta assai indietro nel tempo, e già nel 1986 Cesare Romiti, allora amministratore delegato della Fiat, poteva parlare della finanza come del «nuovo vitello d’oro che pare far dimenticare tante buone, vecchie regole» (sic!), mentre solo più tardi Marchionne, dimentico di Adriano Olivetti e della «civiltà del lavoro» (salariato!), avrà la franchezza di ammettere che «l’unico misuratore di valore, stabilito dall’equilibrio tra chi compra e chi vende, è il mercato finanziario. Il resto sono cavolate». Esatto.

Cavolate politico-ideologiche come quelle che profferisce l’ex Presidente della Camera: «Capisco che il mio possa sembrare un ragionamento di altri tempi. Ma penso che la strada della globalizzazione, dell’azienda che diventa una comunità in lotta contro altre aziende-comunità, non sia ineluttabile». Bertinotti pensa dunque a un futuro fuori dalla disumana dimensione capitalistica? Ma nemmeno per idea! Stiamo parlando di Fausto Bertinotti, l’ex segretario di “Rifondazione Comunista, non di un rivoluzionario anticapitalista! Egli pensa piuttosto «a una politica in grado di pensare un diverso modello di sviluppo». E qui già sento puzza di Capitalismo di Stato, di dirigismo economico e delle altre “belle idee” tipiche del sinistrume di vecchio e di “nuovo” conio.

Bertinotti esprime al meglio (si fa per dire) il Capitalismo in salsa italiana entrato definitivamente in crisi negli anni Novanta; un Capitalismo fortemente sostenuto (“partecipato”, sovvenzionato, “consociativo”) dallo Stato e quindi intimamente intrecciato con il sistema politico italiano, sempre affamato di consensi elettorali ottenuti attraverso le più diverse forme di clientelismo (pubblico e privato), e con il sindacalismo collaborazionista, CGIL in primis. Il sindacalismo sinistrorso ce l’ha con Marchionne soprattutto perché quest’ultimo non gli ha confermato il vecchio status collaborativo, il quale confliggeva con le nuove esigenze competitive imposte dalla globalizzazione industriale e finanziaria. Mutatis mutandis, analogo discorso può farsi per il rapporto che legava Marchionne alla Confindustria, divenuta un intralcio per quel dinamismo manageriale che ha permesso al Gruppo Fiat di prendere una nuova boccata d’ossigeno a un passo dal fallimento, cosa che peraltro non l’ha messo del tutto al riparo da futuri scenari  catastrofici – e di fatti si parla già da tempo della necessità di nuove alleanze industriali e finanziarie per quel Gruppo.

Tuttavia per Bertinotti il sovranismo e il nazionalismo dei dazi e delle frontiere rappresentano «una deriva rischiosissima, una replica subalterna e nazionalistica alle difficoltà. E questo accade perché il modello del capitalismo globalizzato non è in grado di fornire le garanzie che aveva promesso. Come si esce da questo schema? Ridando al lavoro la sua centralità». Ridare centralità al lavoro (salariato!): che bella e originale pensata! Insomma, un altro modello di Capitalismo è possibile. «Per farlo occorre che la politica torni a dire la sua, non si arrenda di fronte alle ineluttabili leggi della finanza. Ma non ho molte speranze». Che dispiacere!

Purtroppo anche le speranze di chi scrive (le quali, sia detto chiaramente a scanso di antipatici equivoci, si oppongono nel modo più assoluto a quelle bertinottiane) sono ridotte al lumicino, tanto più che le «ineluttabili leggi» del Capitale (come esso si dà necessariamente nella Società-Mondo del XXI secolo) sembrano diventare più forti e stringenti ogni giorno che passa. Il problema, per quanto mi riguarda, non è che le classi subalterne «dimenticano i propri sogni nel cassetto»: il problema è che i subalterni sembrano non avere più sogni di emancipazione da «stringere in pugno».

 

ORGE SOVRANISTE E COSTITUZIONALISTE SULLA NOSTRA PELLE

La medaglia d’oro della banalità politicamente corretta oggi va senz’altro concessa a Concita De Gregorio, la quale scrive su Repubblica la perla progressista-francescana (nel senso di Papa Francesco) che segue: «Ridateci una politica dove più dello spread contano le persone. Il dibattito della gente è sulla vita reale più che sui vincoli economici». Come se la «vita reale della gente» non fosse tutti i giorni incalzata e sferzata dalla potenza disumana del Moloch chiamato denaro! Certi personaggi hanno una concezione ben strana circa la «vita reale della gente».
Oggi insomma veniamo a sapere ufficialmente che nella società capitalistica la sovranità politica non appartiene al cosiddetto Popolo, «che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (borghese), ma ai mercati, ai poteri forti, ai loschi gnomi della finanza (magari amici di Soros, e ho detto tutto!): come si fa a non indignarsi. È vero, il mitico/famigerato “Piano B” dell’ormai celebre Paolo Savona, l’eroe del giorno per ogni sovranista che si rispetti, prevede sacrifici inenarrabili per il Popolo, lacrime e sangue che il Popolo italiano non ha ancora conosciuto negli ultimi 73 anni, ma meglio affrontare mille sacrifici (compreso il taglio dei salari reali per conquistare competitività in regime di forte svalutazione della nuova lira) che patire gli umilianti diktat di Berlino, di Parigi e di Bruxelles.

A proposito: è stato il Professorone Savona a copiare il “Piano B” del “marxista irregolare” Varoufakis, peraltro anch’egli amante come il primo della “teoria dei giochi”, o viceversa? Pura curiosità intellettuale.

«Mi sono accorto che l’Italia è un Paese a sovranità limitata. Mai servi, mai schiavi! Mai chinerò la testa dinanzi a chi non fa gli interessi degli italiani. Mai, mai, mai! Libertà o morte!»: e bravo Matteo Salvini! Che schiena dritta! Come si permettono i tedeschi a trattarci esattamente come i leghisti fino a qualche mese fa trattavano i meridionali italiani (soprattutto i napoletani: «scrocconi che non dicono neanche grazie»)? È stata una vera sofferenza, poi, vedere la Mummia Sicula mettere in sella Carlo Cottarelli, notoriamente al servizio del Fondo Monetario Internazionale, dei mercati, dei poteri forti e degli oligarchi di Bruxelles: il Presidente della Repubblica ha tradito la Sacra Carta, gli interessi nazionali e la democrazia! Certo, suo malgrado Mattarella ha fatto schizzare in alto le quotazioni elettorali della Lega, anche a scapito dei camaleontici grillini, ma queste son quisquilie che non riguardano i sinceri sovranisti, i quali si muovono per amor di Patria, e non per convenienze elettoralistiche.«Siamo pronti a rivedere la nostra posizione, se abbiamo sbagliato qualcosa lo diciamo, ma ora si rispetti la volontà del popolo perché noi l’Italia la vogliamo salvare. Una maggioranza c’è in parlamento, fatelo partire quel governo, basta mezzucci perché di governi tecnici e istituzionali non ne vogliamo. Per quanto riguarda l’impeachment non è più sul tavolo perché Salvini non lo vuole fare e ci vuole la maggioranza». Che Statista, questo Luigi Di Maio! Altro che le indegne caricature di Maurizio Crozza, servo dei poteri forti! E soprattutto, che barzelletta questa “crisi di regime”. Una barzelletta che però, anziché far ridere, può far piangere molti.

Mi si consenta una breve riflessione d’ordine generale. Quel che il sovranista, comunque politicamente “declinato”, è assolutamente incapace di comprendere è che nel mondo governato dagli interessi economici ciò che decide intorno al grado di autonomia di un Paese sono i rapporti di forza sistemici tra le diverse società nazionali. Soprattutto oggi questi rapporti di forza si strutturano appunto intorno alla potenza economica (e quindi tecno-scientifica e, almeno potenzialmente, militare) dei Paesi che si contendono mercati (anche di forza-lavoro), risorse energetiche e influenze geopolitiche. Non si tratta, da parte del sovranista, di un difetto di intelligenza, ma semplicemente di un accecamento ideologico e di un disagio/risentimento di qualche tipo che gli impediscono di prendere atto di ciò che l’intera storia del mondo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio.

Ad esempio, per un Paese come l’Italia l’alternativa non sarebbe, ovviamente, quella tra sudditanza e indipendenza, ma sul tipo di sudditanza che meglio verrebbe incontro agli interessi generali delle classi dominanti nazionali, o di quelle fazioni di esse contingentemente vincenti. Oggi conviene stare con la Germania o con la Russia, con gli Stati Uniti o con la Cina? Scriveva il filosofo “marxista” Alain Badiou nel 2015, ai tempi della Grexit: «Sullo sfondo, si agitano timori geopolitici. E se la Grecia si rivolgesse verso qualcun altro di diverso dai padri e dalle madri fustigatori dell’Europa? Allora, io direi: ogni governo europeo ha una politica estera indipendente. Contro le pressioni alle quali è sottomessa, la Grecia può e deve avere una politica altrettanto libera. Siccome i reazionari europei vogliono punire il popolo greco, quest’ultimo ha il diritto di cercare degli appoggi esteriori, per diminuire o impedire gli effetti di questa punizione. La Grecia può e deve rivolgersi alla Russia, ai paesi dei Balcani, alla Cina, al Brasile, e anche al suo vecchio nemico storico, la Turchia». Cito questa posizione perché essa esprime bene l’esatto opposto di quanto sostengo io: la necessità dell’autonomia di classe, sul terreno nazionale come su quello internazionale. Molti “marxisti” credono di poter fare la storia della lotta di classe nello stesso momento in cui partecipano alla storia della lotta interborghese e interimperialistica, ossia alla lotta che il Dominio fa all’umanità in generale e alle classi subalterne in particolare. Non si insisterà mai abbastanza sulla sindrome della mosca cocchiera in guisa “marxista”.

Per chi ragiona ponendosi dal punto di vista degli interessi nazionali (cioè delle classi dominanti), la migliore “scelta di campo”, sempre compatibile con i rapporti di forza interimperialistici, può certamente avere un senso, mentre non ne ha alcuno, se non quello critico qui esposto, per chi pensa e agisce dal punto di vista anticapitalistico. Purtroppo per le classi dominate non si danno “Piani B”…

Quando ad esempio gli Stati Uniti arretrano sullo scacchiere internazionale, non è che in esso si instauri una condizione di autonomia nazionale e di pacifica armonia fra i popoli: semplicemente accade che all’egemonia imperialistica statunitense si sostituisce quella cinese (basata soprattutto sull’economia), o quella russa – basata soprattutto sulla violenza politico-militare. Ovviamente oggi la Cina, la potenza che aspira al primato mondiale nella contesa imperialistica, ha tutto l’interesse a propagandare idee di “armonia”, di “apertura” (pro-global) e di “pacifica convivenza” fra le diverse nazioni, le diverse culture e   i differenti regimi politici, mentre gli Stati Uniti, che si sentono sotto pressione, inclinano verso il protezionismo e l’isolazionismo, che comunque sono interpretati da Washington in modalità assai dinamica, pragmatica, mai rigidamente ideologica.

Come dicevano i marxisti internazionalisti ormai quasi un secolo fa, posta la società capitalistica nella sua fase imperialista ogni discorso introno alla libertà nazionale dei popoli non è solo una pia illusione di stampo borghese-illuminista, ma è soprattutto una menzogna che incatena i proletari al carro del nazionalismo, la più velenosa e sanguinosa delle suggestioni.

Viola Carofalo, portavoce nazionale di Potere al Popolo, contende alla De Gregorio il primato della banalità sinistrorsa: «Le persone vengono prima dei profitti!». Questa aurea regola dovrebbe valere nella società-mondo basata sull’ossessiva ricerca dei profitti: il tutto mi sembra di una logica assai stringente, diciamo.

Anziché provare a dire alle «persone» che il Capitale, anche quello con caratteristiche stataliste che tanto piace a molti sovranisti di “estrema sinistra” e di “estrema destra”, è incompatibile con un’esistenza autenticamente umana delle «persone», della «gente», del «popolo», taluni sedicenti “rivoluzionari” continuano a fomentare fra le classi subalterne ogni sorta di illusione democraticista, costituzionalista, statalista, progressista, benecomunista. Mi stupisco? Assolutamente no: certi polli politico-ideologici ormai li conosco da molto, troppo tempo, e se ogni tanto essi cambiano piumaggio, giusto per adeguarsi alle contingenze e reagire alle sconfitte, non sfuggono certo all’occhio allenato.

Lottare contro le diseguaglianze sociali avendo come proprio faro la Costituzione (capitalistica) di questo Paese e i “veri” interessi nazional-popolari, significa nei fatti voler confermare e rafforzare l’attuale condizione di impotenza politico-sociale delle classi subalterne, le quali sono chiamate da tutte le fazioni in lotta a “scegliere” di che morte intendono morire, a quale albero (sovranista, europeista, liberista, statalista) intendono essere impiccate.

«Le affermazioni  disinvolte del commissario europeo Oettinger sono un gravissimo attacco alla tenuta democratica del paese. Veramente immaginiamo che qualcuno in nome dei mercati possa indirizzare il voto degli Italiani? Cosa rimane dei diritti democratici in questo paese? Caro Oettinger, gli italiani – non quelli amici tuoi, ma i lavoratori, i giovani, gli sfruttati, i precari, quelli che vorrebbero andare in pensione e non possono – insegneranno ai mercati a stare al loro posto. Prima le persone, poi l’economia» (V. Carofalo). E sì, anch’io sono un tantino in apprensione per la «tenuta democratica del paese». Ma giusto un poco, sia chiaro. In ogni caso, caro Oettinger, spezzeremo le reni a Berlino, a Parigi, a Bruxelles e, dulcis in fundo, «ai mercati»! O quantomeno tenteremo, proveremo con tutte le forze a inchiodare il nemico sul bagnasciuga della nostra Sovranità e della nostra Democrazia. Sovranità o morte! Amici compatrioti, però mi raccomando: non esageriamo…

LA SINISTRA TRA PROGRESSISMO E CONSERVATORISMO

Scriveva ieri  Francesco Borgonovo su La Verità: «Comunque la si metta, il cuore pulsante della questione, il grande tema con cui tutti si devono confrontare, è sempre il medesimo: il rapporto con la tecnologia. Un argomento così potente e divisivo da creare spaccature ovunque, a destra come a sinistra, persino nei fronti che – a prima vista – si crederebbero granitici». È forse inutile precisare in questa sede che «il rapporto con la tecnologia» chiama in causa direttamente il rapporto sociale – capitalistico – che informa in modo sempre più “globale” ( totalitario) e stringente l’intera prassi sociale, la nostra intera esistenza. È la potenza del Capitale che conferisce potenza alla “problematica” individuata dal Nostro. A ogni buon conto la precisazione pignolesca vale a rimarcare l’altrui feticismo concettuale, quello che vede cose, oggetti, là dove il pensiero critico vede soprattutto relazioni umane – o disumane, come sarebbe forse più adeguato scrivere.

«Tra gli intellettuali di derivazione marxista», continua Borgonovo con una comprensibile soddisfazione intellettuale, «volano metaforiche botte da orbi. Da una parte ci sono i fanatici del progresso, i cantori dello sviluppo e dell’avanzamento. Dall’altra, ci sono pensatori di più ampie vedute, che sono stati capaci di recepire idee provenienti dall’ambito identitario e conservatore. Nel secondo schieramento (quello che più ci piace, lo dichiariamo subito) svetta come un titano il filosofo francese Jean Claude Michéa, uno degli intellettuali più interessanti degli ultimi anni, che non a caso ha molto influenzato i movimenti cosiddetti populisti esplosi in tutto il mondo». Michéa rimprovera ai suoi ex compagni di sinistra di non essere riusciti a superare la “malattia infantile” del sessantottismo, con il suo sfrenato e inconcludente movimentismo intriso di giovanilismo e di modernismo: «Corri compagno, il vecchio mondo è dietro di te». «L’anima della sinistra si esprime così, nella corsa sfrenata, in quell’ideologia che altri due brillanti francesi, Pierre André Taguieff e Thibault Isabel, hanno chiamato “bougisme”, ovvero “il culto del movimento fine a sé stesso. In mancanza di una causa per cui battersi si celebra la novità”. Questo culto del movimento, della crescita, secondo Michéa rende la sinistra l’alleata perfetta del neoliberismo». Per molti aspetti qui si dice il vero, ma non bisogna d’altra parte dimenticare né la faccia a mio avviso più scura del ’68, quella che aveva le sembianze dei ritratti di Stalin e di Mao portati in processione da non pochi “militanti rivoluzionari”, né la corrente più creativa e umanamente “più calda” di quel movimento, la quale pur nella sua ingenuità politica (ma forse proprio per questo, visto le ideologie che allora dominavano la scena politico-sociale in Europa e nel mondo) avanzò bisogni e pose problemi molto radicali, che investivano la stessa esistenza quotidiana degli individui nel suo rapporto con il potere politico e economico.

Ormai da tempo, osserva Borgonovo commentando il saggio di Michéa appena uscito in Italia  («intitolato Il nostro comune nemico, è uno di quei libri che hanno la forza di terremotare le menti»: nientedimeno!), la sinistra imborghesita e cosmopolita (Pietrangelo Buttafuoco oggi sul Tempo parla di «fighettismo benecomunista») non ha «più altro ideale concreto da proporre se non la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari – e la dissoluzione delle loro ultime conquiste sociali – nel moto perpetuo della crescita globalizzata, sia essa dipinta di verde o coi colori dello “sviluppo sostenibile”, della “transizione energetica” e della “rivoluzione digitale”». Ma «la dissoluzione continua e sistematica dei modi di vivere specifici delle classi popolari» è più il prodotto della “deleteria” campagna ideologica “antipopolare” della sinistra “fighetta” che si è messa al servizio del finanzcapitalismo globalizzato, o non invece del processo sociale capitalistico? E poi, siamo così sicuri che «i modi di vivere specifici delle classi popolari» meritino di venir preservati? Cosa ha causato, tanto per fare un esempio, la destabilizzazione e l’evanescenza delle tradizionali figure genitoriali: l’ideologia antiautoritaria del “vietato vietare”, l’irruzione delle tecnologie “intelligenti”, o non piuttosto il già citato processo sociale, il quale passa come un rullo compressore sulle nostre vite? E poi, è possibile – ed auspicabile! – la restaurazione della tradizionale famiglia “borghese”? Il potere del denaro non è forse un eccezionale corrosivo di tutte le relazioni umane che in qualche modo rendono meno fluido e veloce il processo che genera la ricchezza? Il vecchio comunista di Treviri a questo punto direbbe: «Ma il denaro non è che la più verace espressione della vigente baracca sociale fondata sullo sfruttamento sempre più efficace degli individui e della natura!». Signor Marx, lo vada a dire lei a Papa Francesco e agli apologeti dell’etica del lavoro (salariato)! Scrive il compagno Papa: «Il Vangelo non è un’utopia ma una speranza reale, anche per l’economia; abbiamo il dovere di denunciare col Vangelo in mano i peccati personali e sociali commessi contro Dio e contro il prossimo in nome del dio denaro e del potere. Non possiamo smettere di credere che con l’aiuto di Dio e insieme si può cambiare questo nostro mondo e rianimare la speranza, la virtù forse più preziosa oggi» (Potere e denaro – la giustizia sociale secondo Bergoglio). Caro Francesco, contro il Moloch chiamato Denaro anche l’Onnipotente deve confessare la propria impotenza, come i fatti, non il modesto pensiero di chi scrive, confermano ampiamente e sempre di nuovo. Come ho scritto altrove, non si tratta semplicemente di avere speranza, dobbiamo piuttosto farci noi stessi speranza, dobbiamo diventare la speranza che nessun altro può mettere in scena al nostro posto. Lo so, è più facile a dirsi che a farsi, ma come dicono quelli che hanno studiato, Hic Rhodus, hic salta!

Una volta Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher disse che «”Miracolo” non è altro che il nome religioso per “evento”»; ecco, dal mio punto di vista solo un Miracolo può salvarci, cioè a dire l’Evento Rivoluzionario. Ma basta con questa spicciola quanto inconcludente “teologia-politica”!

«La sinistra dovrebbe rendersi conto che l’immigrazione di massa serve a livellare i salari, e a creare concorrenza tra lavoratori stranieri e autoctoni, quelli che non possono “fare a meno di vedere quei migranti economici con occhio malevolo, ed è normale”. Michéa cita il regista Ken Loach, che ha avuto il fegato di affermare: “La sinistra non può continuare a dire che l’immigrazione è una cosa buona per l’economia”. Il pensatore francese, con ironia feroce, sostiene che l’immaginario no border dei progressisti “deve indubbiamente molto di più alle Guide routard e alle pubblicità della Benetton che al vecchio internazionalismo proletario”». Giusto, ben detto. Ma qual è l’alternativa offerta dai critici della “sinistra buonista e salottiera” che può permettersi il lusso della filantropia e del cosmopolitismo? È presto detto: il ritorno indietro verso un capitalismo meno aperto, meno globalizzato, meno “selvaggio”, più regolamentato. Insomma, pura chimera ultrareazionaria. Siamo poi sicuri che il capitalismo di una volta fosse migliore di quello che ci tocca in sorte oggi? Allora è da preferirsi il capitalismo dei nostri tempi? No! Si tratta di uscire tanto dalla logica passatista (“si stava meglio quando si stava peggio!”) quanto dalla logica progressista (“dopotutto, oggi in Occidente nessuno muore più di fame!”): il processo sociale capitalistico risponde a dinamiche che nulla a che fare hanno con le nostre preferenze, con quello che a noi pare essere “migliore” o “peggiore”. Ieri si stava male, oggi si sta peggio, e fermo restante il capitalismo le cose non possono che peggiorare, necessariamente: è così che la vede io, epigono peraltro del «vecchio internazionalismo proletario» – quello di Marx, non quello, strafalso, di Stalin e dei suoi epigoni, compresi quelli che oggi si presentano al “Popolo” in salsa sovranista e statalista.

Chiedersi se sia preferibile il capitalismo di ieri a quello di oggi, o viceversa, significa semplicemente non essere in grado di concepire nemmeno in astratto, come pura ipotesi, alcuna alternativa alla società capitalistica, il che a me appare un’assoluta tragedia. E non si tratta certo di un mero difetto ideologico, né, men che meno, di una mancanza di intelligenza o di cultura. Qui è piuttosto il concetto di coscienza critica che occorre chiamare in causa, la quale ci chiede di uscire fuori, almeno con il pensiero, dalla gabbia ideologica e psicologica che spontaneamente la vita sulla base degli attuali rapporti sociali crea incessantemente e alle nostre spalle. Respiriamo illibertà e inumanità come fosse aria. In ogni caso, dalla mia prospettiva nuovisti e conservatori, globalisti e sovranisti, europeisti e nazionalisti, populisti “di destra” e populisti “di sinistra” appaiono insistere sullo stesso escrementizio terreno.

«Come è facile immaginare, le posizioni di Michéa sull’immigrazione gli hanno creato più di un nemico a sinistra. Ma le sue idee sulla “rivoluzione digitale” hanno suscitato altrettante perplessità. Ed è qui che emerge l’altro fronte marxista, rappresentato da Alex Williams e Nick Srnicek, autori del Manifesto accelerazionista appena pubblicato in Italia da Laterza. Costoro sono convinti che le forze anticapitaliste dovrebbero affidarsi allo sviluppo tecnologico, portandolo all’estremo ed orientandolo verso il benessere della popolazione, garantendo così la fine del lavoro e la sopravvivenza tramite “reddito di base”. Non si rendono conto che la loro utopia coincide con quella allestita dalla Silicon Valley. Il connubio tra capitalismo sfrenato e cultura progressista trova il suo Eden in quella “Silicon Valley che, da decenni, rappresenta la sintesi più perfetta della cupidigia degli uomini d’affari liberali e della controcultura “californiana” dell’estrema sinistra dei Sixties (Steve Jobs e Jerry Rubin sono due ottimi esempi”)». Come si vede, per Michéa (e per Borgonovo) basta essere degli ammiratori di Steve Jobs e Jerry Rubin per finire automaticamente nel poco raccomandabile calderone dell’«estrema sinistra», qualunque cosa ciò significhi per lui. Ma riprendo la suggestiva citazione: «”Infatti, come è noto, è in questa nuova Mecca del capitalismo che oggi si pone in essere il delirante progetto ‘transumanista’ [… ] di mettere tutte le moderne risorse della scienza e della tecnologia – scienze cognitive, nanotecnologie, intelligenza artificiale, biotecnologie, ecc. – al prioritario servizio della produzione industriale di un essere umano ‘aumentato’ (e se possibile immortale) e del nuovo ambiente robotizzato che ne stabilirà la vita quotidiana persino nei suoi aspetti più intimi”». Che paura! Detto altrimenti, e forse più seriamente, non è con ricette populiste e antiliberiste di qualche tipo che l’umanità può sperare, non dico di stracciare, ma anche solo di mitigare e “umanizzare” «il delirante progetto» del Capitale. Più che il “transumanismo” di domani mi atterrisce la disumanizzazione di oggi.

Ho letto il Manifesto per una politica accelerazionista firmato da Alex Williams e Nick Senicek nel 2014, e quindi rinvio il lettore al post che allora scrissi: Accelerazionismo e feticismo tecnologico 2.0. Ecco comunque una parte di quel post.

***

Ma veniamo al concetto di accelerazione. «Contrariamente ad una critica già molto nota e all’atteggiamento di alcuni marxisti contemporanei, dobbiamo ricordare che lo stesso Marx utilizzò i dati empirici a lui disponibili e gli strumenti teorici più avanzati nel tentativo di comprendere appieno e trasformare il suo mondo. Non fu un pensatore che resisteva alla modernità, ma piuttosto un pensatore che cercava di analizzarla e intervenire all’interno di essa, capendo che nonostante tutto lo sfruttamento e la corruzione, il capitalismo rimaneva il sistema economico più avanzato del tempo. I suoi vantaggi non dovevano essere invertiti, ma accelerati oltre le restrizioni della forma valore capitalista». Intanto non esiste la «modernità» astrattamente intesa, ma la modernità capitalistica, quella che appunto Marx penetrò criticamente e dialetticamente per mostrare che sulla base del Capitalismo per la prima volta l’umanità poteva immaginare e, soprattutto, praticare la strada che poteva (che può) emanciparla da ogni forma di asservimento naturale e sociale: dal Regno della necessità l’uomo poteva (può) passare al Regno della libertà, la sola dimensione esistenziale che rende possibile il respiro dell’uomo in quanto uomo. Anziché sognare impossibili ritorni indietro verso modi di produzione ritenuti meno disumani (ad esempio quelli basati sul lavoro artigiano o sulla piccola produzione industriale e contadina), si trattava di superare il capitalismo con uno scatto rivoluzionario in avanti. Di qui, la sua critica del socialismo piccolo borghese. Questo in primo luogo.

In secondo luogo Marx scriveva in un tempo in cui il Capitalismo non aveva ancora sviluppato tutte le sue enormi capacità produttive, un capitalismo che non aveva prodotto le distruzioni della prima e della Seconda guerra imperialista, mentre noi ci troviamo a che fare con un regime sociale che non ha più nulla da dare in termini di progresso storico.

Mi permetto una citazione da Eutanasia del Dominio (2008): «L’economia basata sul calcolo comunista lascia immaginare il soddisfacimento dei bisogni umani al più alto livello qualitativo possibile, e col minore dispendio di energie umane e naturali possibile. Le più avanzate tecnologie informatiche dei nostri tempi lasciano intuire quanto possa essere facile quel calcolo in termini puramente organizzativi. D’altra parte già oggi esistono tecnologie produttive a bassissima dissipazione energetica e a bassissimo inquinamento, e nuovi materiali poco inquinanti (ad esempio, già oggi la plastica potrebbe essere sostituita da sostanze di origine vegetale, come quelle derivanti dalla soia, ma sono ancora troppo costose per il “calcolo capitalistico”) il cui uso non è ancora economicamente razionale. Per questo più che sviluppare in senso quantitativo le forze produttive sociali, come legittimamente potevano pensare Marx o Lenin a partire dal grado di sviluppo del capitalismo che avevano dinanzi, si tratterà piuttosto di mettere un freno a questo tipo di sviluppo, e di riorientarlo in senso qualitativo. Sotto questo aspetto il pensiero ecologista, nella sua critica anticonsumista e antisviluppista, coglie nel segno, ma deraglia completamente quando immagina una economia “a misura d’uomo e di natura” sulla base degli attuali rapporti sociali, che sono per definizione rapporti nichilisti nei confronti dell’uomo e della natura. Questa critica si risolve, nei fatti, in una feconda sollecitazione per il capitalismo, stimolato a dotarsi di tecnologie sempre più sofisticate, in grado di risparmiare risorse energetiche e umane. Non è un caso che i cosiddetti standard qualitativi siano diventati negli ultimi venti anni un eccezionale strumento di lotta nella competizione tra le più grandi multinazionali mondiali, nonché un peso insopportabile per le imprese di piccole e medie dimensioni (infatti la “qualità” costa molto)».

Per il Manifesto in questione, invece, si tratta di portare alle estreme conseguenze le tendenze accelerazioniste immanenti al Capitalismo e da esso stesso in qualche misura frenate. «Infatti, come anche Lenin scrisse nel testo del 1918 sull’infantilismo di sinistra: “Il socialismo è inconcepibile senza l’enorme macchina capitalista basata sui più recenti progressi della scienza moderna. Non è concepibile senza un’organizzazione statale che prevede di sottoporre decine di milioni di persone alla più rigorosa osservanza di un’unica norma di produzione e di distribuzione. Noi marxisti, questo lo abbiamo sempre detto, e non vale neanche la pena di perdere nemmeno due secondi a parlare con gente che non lo ha capito (anarchici e una buona metà dei rivoluzionari della sinistra socialista)”». Ma Lenin polemizzava con il punto di vista anarcoide e piccolo borghese nel momento in cui per l’arretrata Russia rivoluzionaria del 1918 il «capitalismo di Stato tedesco» si offriva agli occhi dei bolscevichi come il modello da seguire in vista della transizione al socialismo: «Finchè in Germania la rivoluzione ancora tarda a “nascere”, il nostro compito e di metterci alla scuola del capitalismo di Stato tedesco, di cercare di assimilarlo con tutte le forze, di non rinunciare ai metodi dittatoriali per affrettare questa assimilazione ancor di più di quello che fece Pietro I» (p. 309). Qui Lenin esprime il punto di vista della rivoluzione proletaria considerata dalla prospettiva di un Paese che egli non si perita di definire «barbaro», socialmente arretrato, bisognoso di svilupparsi in senso capitalistico. Di notevole nella posizione di Lenin c’è l’idea che non bisogna ingannare e auto ingannarsi quando si tratta di fare i conti con la realtà: «Nessun comunista ha negato, a quanto pare, che l’espressione “repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici» (p. 305). Questa lucidità analitica e politica in parte fu persa per strada durante il cosiddetto Comunismo di guerra, per rifare drammaticamente capolino alla fine della guerra civile, quando le illusioni “accelerazioniste” del periodo precedente si infransero contro la dura realtà di una rivoluzione entrata in pericolosa, e alla fine mortale, sofferenza. Sulla mia lettura della sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre rimando il lettore a Lo scoglio e il mare.

Che senso ha dunque, tirare in ballo quella posizione leniniana oggi, nell’epoca della sussunzione totalitaria del pianeta al Capitale? «L’enorme macchina capitalista» non è già sufficientemente… enorme? Ciò che in Lenin suona come storicamente fondato, nel Manifesto suona invece come apologetico. Esagero? Vedete un po’ voi: «Come Marx era ben consapevole, il capitalismo non può essere identificato come l’agente della vera accelerazione. Ma allo stesso modo valutare la politica di sinistra come antitetica all’accelerazione tecnosociale è, almeno in parte, un grave travisamento. Se davvero la sinistra vuole avere un futuro, deve essere quello in cui essa stessa abbracci al massimo la sua repressa tendenza accelerazionista».

Né poteva mancare nel Manifesto una strizzatina d’occhio a Gramsci, riletto sempre in termini accelerazionisti: «La sinistra deve sviluppare egemonia sociotecnologica: sia nella sfera delle idee, che nella sfera delle piattaforme materiali». La tecnologia come strumento di lotta anticapitalista? Tenendo conto che la tecnologia capitalistica è l’espressione di peculiare rapporti sociali, che significa, in concreto, «sviluppare egemonia sociotecnologica»? Significa, forse, muoversi sullo stesso terreno della tecnoscienza capitalistica per conseguire obiettivi anticapitalistici? A occhio, mi sembra un’impresa quantomeno azzardata. Diciamo così.

«Il capitalismo ha iniziato a reprimere le forze produttive della tecnologia, o almeno, a dirigerle verso fini inutilmente limitati». Ancora una volta: in che senso «fini inutilmente limitati»? Ciò che nel Capitalismo decide dello sviluppo tecnologico è, in ultima analisi, la legge del profitto, che regola l’accumulazione e i momenti essenziali dell’economia capitalistica colta nella sua complessa totalità. Più che alle forze produttive della tecnologia, bisogna dunque por mente al grado di sfruttamento del lavoro vivo, il quale notoriamente ha molto a che fare con la composizione tecnica del capitale.

«Le guerre dei brevetti e la monopolizzazione delle idee sono fenomeni contemporanei che indicano sia il bisogno del capitale di superare la concorrenza, ma soprattutto l’approccio sempre più retrogrado del capitale alla tecnologia». Qui apro una piccola parentesi. Una volta Lenin parlò del conservatorismo tecnologico del Capitalismo maturo (vedi l’Inghilterra del suo tempo) giunto nella sua fase monopolistica. Come sempre, egli ne parlò in termini di tendenza generale, la cui complessa e contraddittoria fenomenologia andava indagata Paese per Paese, fase per fase. Se è indubbio che il monopolio giocò allora un ruolo importante nel fenomeno di “raffreddamento tecnologico”, la causa più profonda di questo fenomeno va ricercata tuttavia in una insufficiente valorizzazione del capitale che colpisce i settori più maturi dell’industria, là dove l’alta composizione organica del capitale tende a schiacciare il saggio del profitto. Quando ciò accade, il capitale industriale non solo tende a conservare la vecchia base tecnica della produzione, ma può anche decidere di abbandonare, in parte o integralmente, quei settori per penetrare in nuove sfere produttive, oppure nel mercato creditizio, in patria o all’estero, ossia là dove c’è la promessa di rendimenti migliori. Il rapporto tra accumulazione e propensione alla modernizzazione del sistema produttivo attirò l’attenzione dello stesso Adam Smith, il quale notò che il ritmo di accumulazione era tanto più veloce, quanto meno ricche e meno tecnologicamente avanzate erano le nazioni che si mettevano sulla scia dell’Inghilterra.

«L’approccio sempre più retrogrado del capitale alla tecnologia» non solo non è una “legge assoluta” nel Capitalismo del XXI secolo, ma essa non è sempre corrispondente alla realtà dei fatti, i quali mostrano piuttosto un continuo sviluppo della tecnoscienza. Uno sviluppo che, come sempre nel Capitalismo, è strettamente connesso alla bronzea legge del profitto. Di qui, accelerazioni, decelerazioni, battute d’arresto, nuove accelerazioni e via di seguito. Ho quasi l’impressione che gli autori del Manifesto vogliano essere più realisti del re, più capitalisti dei capitalisti: per loro la “distruzione creativa” non è ancora al giusto livello. Personalmente ritengo che ci sia già fin troppa distruzione…

Ma i nostri amici accelerazionisti sono assai più esigenti rispetto a chi scrive; per loro di Capitalismo, tecnoscienza inclusa, non ce n’è mai abbastanza. «Gli accelerazionisti intendono liberare le forze produttive latenti. In questo progetto, la piattaforma materiale del neoliberismo non ha bisogno di essere distrutta. Vogliamo accelerare il processo dell’evoluzione tecnologica. Ma ciò di cui argomentiamo non è tecno-utopismo. Mai credere che la tecnologia sia sufficiente a salvarci. Necessaria sì, ma mai sufficiente senza azione socio-politica. La tecnologia e il sociale sono intimamente legati l’uno all’altra, e il mutamento dell’uno potenzia e rinforza il mutamento dell’altra. Laddove i tecno-utopisti sostengono che l’accelerazione automaticamente eliminerà il conflitto sociale, la nostra posizione è che la tecnologia debba essere accelerata proprio perché necessaria per vincere i conflitti sociali stessi». Ma «accelerata» dove? quando? come? Si sta parlando della vigente società capitalistica, oppure si allude a una possibile società futura postcapitalistica? Non è forse a questa ipotizzata e auspicata società che spetterà il compito di regolarsi come meglio crederà circa la tecnologia? Domanda dirimente: che tipo di società “postcapitalistica” hanno in mente gli autori del Manifesto? Di che razza di «accelerazione umana» si parla?

È presto detto: «Qualsiasi trasformazione della società deve coinvolgere sperimentazione economica e sociale. Il progetto cileno Cybersyn è emblematico di un simile atteggiamento sperimentale, fondendo tecnologie cibernetiche avanzate con sofisticati modelli economici e una piattaforma democratica materializzata nella sua stessa infrastruttura tecnologica. Esperimenti simili furono condotti negli anni ’50 e ’60 anche nell’economia sovietica: la cibernetica e la programmazione lineare furono impiegate nel tentativo di superare i nuovi problemi affrontati della prima economia comunista. Che entrambi gli esperimenti non abbiano avuto successo si può ricondurre ai vincoli politici e tecnologici in cui questi pionieri cibernetici operavano». Ora, prescindendo da ogni altra considerazione, si può dar credito a persone che credono che l’economia sovietica degli anni ’50 e ’60 fosse la «prima economia comunista» della storia? Se poi a questa invitante concezione del “comunismo” sommiamo il palese feticismo tecnologico che traspira da tutti i pori del Manifesto, capite bene che la società prospettata dagli accelerazionisti non mi piace neanche un poco.

Per rendersi conto dell’ambiguità, sempre per rimanere sul terreno dell’eufemismo, che caratterizza il discorso politico del Manifesto è sufficiente leggere quanto segue: «Per raggiungere ognuno di questi obiettivi, a livello più pratico riteniamo che la sinistra accelerazionista debba pensare più seriamente ai flussi di risorse e denaro necessari alla costruzione di una nuova ed efficace infrastruttura politica. Al di là della formula del people power e dei corpi nelle strade, abbiamo bisogno di finanziamenti, sia da parte di governi che istituzioni, think tank, sindacati o singoli benefattori. Riteniamo che la localizzazione e l’indirizzamento di tali flussi di finanziamento siano essenziali per iniziare a ricostruire una efficace ecologia delle organizzazioni della sinistra accelerazionista». Un «potere di classe» finanziato dal nemico di classe ancora non si era mai visto. Ma quanto sono pragmatici e astuti questi accelerazionisti! A loro la rodata e sempre di nuovo confermata (anche dal presente Manifesto) astuzia del Dominio fa un baffo.

Eccone un esempio: «Abbiamo bisogno di promuovere una riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala. Nonostante l’apparente democratizzazione che offrono internet e le reti sociali, i mezzi di comunicazione tradizionali rimangono cruciali per selezionare e definire narrazioni, assieme al possesso delle risorse economiche necessarie per continuare a promuovere il giornalismo investigativo. Portare questi organi il più vicino possibile al controllo popolare è cruciale per disarticolare lo stato attuale delle cose». Come questa auspicata «riforma dei mezzi di comunicazione su larga scala» possa in qualche modo produrre «nuovo potere sociale» resta per me un mistero, e forte rimane la sensazione che i riformisti dell’Accelerazione continua e permanente lavorino, loro malgrado (“a loro insaputa”) per il Re di Prussia. La sindrome della mosca cocchiera qui fa capolino.

«Il futuro ha bisogno di essere costruito. È stato demolito dal capitalismo neoliberista e ridotto ad una promessa al ribasso di maggiori disuguaglianze, conflitto e caos. Questa crisi dell’idea di futuro è sintomatica della situazione storica regressiva della nostra epoca, e non, come i cinici di tutto lo spettro politico vorrebbero farci credere, un segno di maturità scettica. Ciò che l’accelerazionismo propone è un futuro più moderno — una modernità alternativa che il neoliberismo è intrinsecamente incapace di generare. Il futuro deve essere infranto e riaperto ancora una volta, sganciando i nostri orizzonti verso le universali possibilità del Fuori». Detto che il nemico di tutto ciò che odora, anche alla lontana, di umano non è il «capitalismo neoliberista» ma il Capitalismo tout court; detto questo occorre ripetere che ciò che ha demolito il futuro è stata soprattutto la più grande menzogna del XX secolo: il “comunismo” in Russia, in Cina e negli altri Paesi cosiddetti “comunisti” e “socialisti”. L’esistenza del «socialismo reale», ossia di un miserabile Capitalismo di Stato aggressivo all’interno della società come all’estero, ha annichilito l’idea stessa di una comunità umana, di una comunità finalmente libera da miseria, violenza e coazioni di varia natura, e ha convinto milioni di sfruttati nel mondo che, dopo tutto, il sistema capitalistico non è poi così schifoso se paragonato  al “comunismo”. Per questo il «futuro più moderno» proposto dagli accelerazionisti non mi sembra poi così alternativo rispetto all’escrementizia realtà che ci tocca subire tutti i giorni.

Il futuro immaginato degli accelerazionisti appare ai miei occhi fin troppo decrepito, ossia incapace di oltrepassare concettualmente l’odierna dimensione del Dominio, e tutto il gran parlare di cibernetica, di algoritmi piegati alle esigenze del «nuovo potere sociale» e di «un’accelerazione che sia anche ‘navigazionale’, processo sperimentale di scoperta all’interno di uno spazio di possibilità universale» può impressionare e affascinare solo il pensiero irretito in quel feticismo tecnologico che ancor prima di essere una “sovrastruttura” ideologica, è in primo luogo esso stesso struttura del dominio capitalistico.

Probabilmente anche il Manifesto per una politica accelerazionista paga un tributo alla lettura ideologica che i teorici del Capitalismo cognitivo* hanno fatto del general intellect, concetto che in Marx ha una pregnanza teorica e politica potentemente dialettica (rivoluzionaria), mentre nei teorici di cui sopra esso svolge una funzione ideologica chiamata a supportare chimerici programmi comunardi da realizzarsi hic et nunc, nell’ambito stesso del Capitalismo, nonché intellettualistiche congetture intorno a supposti «nuovi soggetti rivoluzionari» generati sempre di nuovo dalle trasformazioni strutturali che intervengono nel Capitalismo avanzato. In questo senso si può davvero parlare di “cattivi maestri”.

 

* «Siamo in una diversa fase di sviluppo dello sfruttamento capitalistico, quella che Carlo Vercellone – a proposito del rapporto fra capitale cognitivo e lavoro cognitivo – non chiama già più post-industriale, ma decisamente informatica. Una fase che ormai comincia a trovare il suo equilibrio, e in cui il rapporto di sfruttamento – nella attuale figura estrattiva – diventa assai difficile da definire, perché in quest’ambito c’è sicuramente confusione ed ibridazione di capitale fisso e lavoro vivo, forse riappropriazione di capitale fisso da parte dei soggetti stessi, e c’è un’emergenza di cooperazione sociale che probabilmente deve essere considerata come un dispositivo di autonomia» (T. Negri, La comune della cooperazione sociale). Probabilmente però le cose non stanno affatto così.

Probabilmente ciò che Negri e i teorici del Capitalismo cognitivo registrano come «emergenza di cooperazione sociale» e «dispositivo di autonomia» altro non è che l’ulteriore espansione quantitativa e, soprattutto, qualitativa del rapporto sociale capitalistico in ogni ambito della prassi sociale. Per quanto riguarda la «tematica antropologica» ai tempi del «capitalismo cognitivo», Negri travisa analiticamente e capovolge concettualmente l’individuo capitalistico ad alta composizione organica (secondo il concetto marxiano ripreso da Adorno in Minima moralia) dei nostri tempi. La cosa appare abbastanza chiara nei passi che seguono: «L’elemento importante da considerare, qui, è che ormai il comando capitalista non opera più semplicemente una sorta di iniezione di elementi tecnologici nel corpo umano, ma ha ora a che fare in maniera altrettanto importante con una capacità di riappropriazione e di trasformazione autonoma degli elementi macchinici in strutture dell’umano. Oggi quando si parla di “passioni sociali” si deve parlare di passioni legate al consumo passivo di tecnologie ma anche e soprattutto di consumo attivo». Più che una puntuale critica dell’alienazione capitalistica e della sussunzione totalitaria dell’individuo al Capitale, troviamo nell’elaborazione teorica di Negri robusti fili che attraverso l’esaltazione del «lavoro cognitivo» la connettono direttamente al feticismo tecnologico e all’etica borghese – che tende a farsi apologia – del «lavoro buono». Persino la rivendicazione di un reddito sociale garantito, nella misura in cui è concepito come «validazione sociale e un mezzo di finanziamento di questa rete densa di attività non mercantili che la società del General Intellect crea, al di là del salariato» (L. Baronian, C. Vercellone, Moneta del comune e reddito sociale garantito), appare informata da quel tipo di etica.  La stessa cosa può dirsi circa la parola d’ordine negriana del «rifiuto del lavoro». L’ossessione lavorista, declinata “cognitivamente”, sembra un marchio di fabbrica dei teorici del Capitalismo cognitivo.

LA SEVERA LEZIONE DI ANTIFASCISMO DEL PROFESSOR ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA

Dalle pagine del Corriere della Sera della scorsa domenica il Professor Ernesto Galli della Loggia ha impartito ai suoi lettori una notevole e non banale lezione di storia dell’antifascismo e di scienza della politica. È vero, sostiene il noto intellettuale, che la nostra Repubblica (capitalistica: aggiunta settaria di chi scrive) è «nata dalla Resistenza», e «che la nostra Costituzione è antifascista», ma storicamente e politicamente parlando c’è antifascismo e antifascismo. C’è stato l’antifascismo dei sinceri democratici e quello di chi non predicava né praticava la democrazia ma un sistema di valori autoritari almeno quanto lo erano quelli che facevano capo al Fascismo e al Nazismo. Il riferimento è ovviamente al mondo “comunista” (Unione Sovietica) che si alleò con il mondo democratico (Stati Uniti e Inghilterra) per sconfiggere il nazifascismo. Inutile dire che il Professorone chiama “comunismo” quello che, come sanno i miei pochissimi lettori, io chiamo stalinismo, una mostruosa creatura politico-sociale che rappresentò la più feroce negazione del comunismo e di ogni aspirazione di emancipazione umana. Ma questo fa parte del mio modestissimo bagaglio politico-dottrinario che certo non può minimamente reggere il confronto con quello dell’intellettualone di cui si parla.

Ma diamogli pure la parola: «Sta bene. Non possiamo fare a meno di ricordare che l’Italia è una Repubblica fondata sull’antifascismo, che la nostra Costituzione è antifascista. Si dà il caso però che la storia – la storia ripeto e non già le nostre opinioni personali –  dovrebbe farci chiedere: antifascista sì, ma di quale antifascismo?». Alzo la manina e come uno scolaretto che crede di essere preparato rispondo: «Professore, si trattò di un antifascismo tutto interno alla lotta interborghese e interimperialistica».  «Intercosa? Qui non si parla di calcio! Faccia piuttosto silenzio e impari qualcosa ascoltando la mia Scienza!» Va bè, sto zitto e continuo la citazione: «Come infatti sa chi ha letto qualche libro, la storia registra molti avvenimenti che non possono non porre qualche problema di contenuto quando si adopera il termine antifascismo. Erano certamente antifascisti, ad esempio, quelli che in Spagna incendiavano le chiese e passavano per le armi preti, anarchici e trotzkisti. Erano antifascisti quelli che nel 1939 pensavano che l’Unione sovietica avesse fatto benissimo ad annettersi i Paesi baltici e mezza Polonia dopo essersi messa d’accordo con Hitler, così come lo erano quelli che sul nostro confine orientale dal ’43 al ’45 gettarono qualche migliaia di italiani nelle foibe. […] Ancora: antifascisti a diciotto carati erano pure quelli che negli anni ‘50 non esitavano a definire “nazisti” gli Stati Uniti mentre non riservavano una sola parola di solidarietà, neppure una, agli antifascisti cecoslovacchi o ungheresi, solo pochi anni prima loro compagni nella Resistenza e ora mandati sulla forca con le accuse più inverosimili e infamanti dai regimi comunisti stabilitisi nei loro Paesi. E non si sono sempre proclamati antifascisti – a loro dire anzi del più “coerente” antifascismo – i terroristi delle Brigate rosse e di altre organizzazioni consimili?». La ricostruzione storica mi sembra ineccepibile.

Chi simpatizzava per gli Stati Uniti stava dalla parte giusta (democratica) della barricata, chi simpatizzava per l’Unione Sovietica stava invece dalla parte sbagliata, perché sosteneva un regime dittatoriale liberticida, peraltro neanche in grado di competere sul terreno economico con l’odiato sistema capitalistico: è il succo del discorso di della Loggia. Solo la comparsa del Male Assoluto nazifascista rese possibile un’alleanza altrimenti nemmeno immaginabile tra un Paese antidemocratico come l’Unione Sovietica di Stalin e Paesi democratici come gli Stati Uniti di Roosevelt e la Gran Bretagna di Churchill, il quale fu il primo, a guerra finita, a lanciare l’allarme sui pericoli che l’Occidente correva se non si fosse sufficientemente armata per contenere l’«imperialismo comunista» di Mosca. A Occidente il Bene, a Oriente il Male. Fortunatamente, abbastanza presto ho conosciuto compagni che stavano su una ben diversa barricata: quella dell’anticapitalismo e dell’antistalinismo. A Occidente il Capitalismo, a Oriente il Capitalismo: il mondo intero vive sotto il tallone di ferro di un solo rapporto sociale. Il «socialismo reale» dell’Unione Sovietica come reale Capitalismo (più o meno “di Stato”) a forte vocazione imperialista: questo concetto per me è stato forse l’acquisto dottrinario (che parolona!) e politico (idem!) più importante alla fine degli anni Settanta.

Per quanto riguarda il riferimento alle Brigate Rosse, in effetti, e come ho ricordato altre volte, c’è da dire che la concezione politica della galassia dei gruppi e gruppuscoli che stavano alla “sinistra” del PCI (“terroristi rossi” compresi) trovava non poco alimento “dottrinale” proprio nel mito della «Resistenza tradita» (e poi della «Costituzione tradita») elaborato dai militanti “comunisti” che alla fine della Seconda guerra mondiale avevano sperato di prendere il potere con l’aiuto dell’Armata Russa – e magari anche con l’aiuto del “compagno” Tito, a proposito di foibe. Ora, e sempre per rimanere sul piano della ricostruzione storica tanto caro al nostro professore, un conto era voler «fare come in Russia» nel 1917, ai tempi di Lenin, un conto tutt’affatto diverso era voler «fare come in Russia» nel ’45, ai tempi di Stalin, una distinzione che i post  stalinisti, e lo stesso prestigioso editorialista del Corriere della Sera, non possono apprezzare nel suo autentico significato. Per me si tratta della distinzione che passa tra la Rivoluzione e la Controrivoluzione, né più, né meno.

Oggi non pochi antifascisti militanti duri e puri vorrebbero «fare come in Venezuela», dimostrando con ciò stesso quanto sia ancora forte lo stalinismo inteso come ideologia politica. Un solo esempio, tanto per farci quattro risate. Scrive Luciano Vasapollo, sostenitore di Potere al Popolo e grande amico del «Venezuela rivoluzionario chavista» (ah, ah, ah, già rido!): «Molte forze in Potere al Popolo da anni si battono per difendere la democrazia in questo paese. Ma per democrazia intendiamo quella popolare e partecipata, non quella rappresentativa. E questo secondo me è già vivere rivoluzionario. Pensare che la rivoluzione sia solo atto violento è una follia. Chávez ha rivoluzionato tutta l’America Latina vincendo le elezioni e ancora oggi il chavismo è un modello per tutti gli ultimi della terra. Evo Morales in Bolivia, Rafael Correa in Ecuador hanno vinto regolari elezioni e poi rivoluzionato Bolivia e Ecuador. Cuba va alle elezioni a marzo. La questione che fanno finta di non capire in molti è che da una parte il movimento dei lavoratori, le forze popolari, i comunisti e i paesi progressisti nell’Alba si danno forme di democrazia partecipativa; dall’altro lato, in questo mondo a capitalismo maturo si pensa che l’unica democrazia sia quella rappresentativa. Ma rappresentativa di chi?» Degli interessi che a diverso titolo fanno capo alle classi dominanti, o alle fazioni contingentemente più forti di esse, esattamente come accade nei Paesi che hanno la “fortuna” di sperimentare la «democrazia popolare e partecipativa».  Finisco la rivoluzionaria citazione: «È necessario quindi che non solo tutti coloro che si battono per il superamento del capitalismo e l’apertura di spazi di socialismo, ma anche ogni sincero democratico e progressista e chiunque ritenga un valore l’autodeterminazione dei popoli, mostri la propria tangibile solidarietà con il Venezuela rivoluzionario chavista. Atilio Boron ha definito la lotta del Venezuela come la Stalingrado dell’America Latina. Io credo sia la Stalingrado di tutti i popoli che ambiscono all’autodeterminazione, alla sovranità e alla giustizia sociale». Più che di Stalingrado, parlerei piuttosto di stalinismo, appunto. È proprio vero, Professor Ernesto galli della Loggia, c’è antifascismo e antifascismo! Ma non finisce qui: «Sono tornato in queste ore da un lungo viaggio a Cuba con cui ho avuto incontri con governo, partito, accademici, economisti anche di Venezuela, Bolivia e Stati Uniti. Concordiamo tutti su un punto: la finta democrazia occidentale serve solo a restringere gli spazi di democrazia». Mentre quella «popolare e partecipativa» invece… Forse nemmeno gli stalinisti italiani degli anni Cinquanta si permettevano simili comiche idiozie al ritorno dai loro viaggi “internazionalisti” nella “Patria del Socialismo”. Sul Venezuela, invece, c’è poco da ridere.

Sul regime venezuelano rimando ai miei diversi post pubblicati sul Blog; sulla crisi sociale sempre più devastante che sconvolge quel Paese e sulle condizioni sempre più difficili dei proletari venezuelani, soprattutto di quelli che sono fuori dal circuito clientelare (o “Stato Sociale”) creato dal chávismo con i proventi della rendita petrolifera, cercherò di scrivere qualcosa tra qualche giorno, giusto il tempo di ricevere le solite velenose veline anticháviste dai miei amici e finanziatori americani.

In passato molti mi hanno rimproverato il fatto di prendermela più con gli stalinisti che con i fascisti, e avevano pure ragione! Come si spiega un atteggiamento che a molti militanti della sinistra deve apparire inaccettabilmente settario? Ecco la mia difesa. In primo luogo sul piano storico è lo stalinismo che ha vinto (dopo aver cercato di allearsi con il nazismo e dopo essersi alleato con l’imperialismo angloamericano), ed è perciò con esso che milioni di proletari hanno dovuto fare i conti per decenni, anche in Italia, attraverso il PCI da Togliatti a Occhetto; in secondo luogo, e cosa più importante per un modestissimo epigono di Marx, lo stalinismo si faceva chiamare “comunismo”, sventolava bandiere rosse e diceva di fare gli interessi della classe operaia russa e mondiale, mentre il fascismo non ha mai nemmeno lontanamente toccato simili abissali profondità di menzogna. O mi sbaglio? Chiudo l’ennesima parentesi autobiografica, dedicata a chi conosce solo la storia ufficiale scritta e tramandata dagli intellettuali di regime (in gran parte di orientamento sinistrorso), e ritorno alla noiosa cronaca politica dei nostri giorni.

«Basta con questa storia del fascismo e dell’antifascismo, non se ne può più. È un dibattito di una inconcludenza totale, fondato sul nulla. Pensiamo piuttosto al fatto che i nostri ragazzi escono da scuola senza sapere bene chi era Hitler e Mussolini». Così si è espresso qualche giorno fa un altro pezzo grosso dell’italica intellighentia, Massimo Cacciari. Crisi di rigetto dopo aver ascoltato per decenni, come una litania sempre più stanca e noiosa, lo slogan «Ora e sempre Resistenza»? È probabile. Certo è che nella testa progressista di chi ha una certa età e non è abituato a lisciare sempre e comunque il pelo al Popolo della Sinistra, qualche dubbio intorno all’attualità, alla pregnanza politica e alla serietà dell’antifascismo gli sarà venuto. «”Suvvia – dice il filosofo operaista e senatore dem Mario Tronti, che sfila in corteo a dispetto dei suoi 86 anni – non esageriamo il fenomeno di qualche minoranza che si agita”. Osservazione saggia, se non fosse che fra sette giorni si vota» (Il Messaggero, 25/02/18). Sempre che l’antifascismo, militante (“dal basso”) o istituzionale (“dall’alto”) che sia, porti nuovi voti alla sinistra, di opposizione o governativa che sia, e non si risolva invece in un ennesimo regolamento di conti al suo interno. Un problema che ovviamente non mi sfiora nemmeno. «Nel corteo romano Veltroni, Zingaretti, Zanda e altri si mescolano al popolo che grida: “Antifascismo, Costituzione, questa è la nostra rivoluzione”». Che bella “rivoluzione”! Una “rivoluzione” che lascio molto volentieri al Popolo della Sinistra, la cui massima aspirazione è quella di vedere i Cari Leader dare il ben servito a Renzi, non a caso dipinto fino a qualche mese fa come l’incarnazione del neoliberismo, dei poteri forti, del «fascismo del XXI secolo» e, orribile a dirsi, del berlusconismo. Fascismo, antifascismo, berlusconismo, antiberlusconismo: l’eterno ritorno del sempre uguale! «Che palle!» direbbe un altro intellettuale di sicuro peso e di altrettanto certo spessore, Giuliano Ferrara, il quale peraltro ha denunciato la sciatta e pavida superficialità con cui i media nazionali hanno raccontato la mancata strage terroristica di Macerata: «Perché non abbiamo detto e scritto, come abbiamo fatto in analoghe circostanze, “Siamo tutti Gideon, Festus, Jennifer, Mahmadou, Wilson, Omar”?». Già, perché? Elezioni incombenti?

Essendo un intellettuale borghese liberale, Galli della Loggia quando tratta di antifascismo conosce solo una distinzione, tutta radicata sul terreno della difesa dello status quo sociale: quella tra antifascismo democratico e antifascismo antidemocratico. Non conosce né concepisce altre forme di antifascismo. E non è il solo, peraltro. Naturalmente egli appoggia con tutte le sue forze il primo e osteggia nel modo più risoluto e conseguente il secondo: «le democrazie si difendono dal fascismo non facendo la Resistenza – come pretenderebbero facendola a modo loro i teppisti di Torino, di Piacenza o di Palermo – bensì applicando la legge. Nelle democrazie il capo della Resistenza è il Ministro degli interni. Punto. Se non lo è – ma il ministro Minniti appare da ogni punto di vista perfettamente calato nel ruolo – va richiamato ai suoi doveri, non già surrogato da qualche violento capobanda dei centri sociali». Il monopolio della violenza va lasciato allo Stato anche quando si tratta di difendersi dal fascismo. Ma è appunto questo che contestano «i teppisti (copyright di Antonio Padellaro)» che praticano l’antifascismo militante, i quali sostengono che i “traditori” della Repubblica [capitalistica] nata dalla Resistenza e della Costituzione [capitalistica] più bella del mondo non solo non reprimono adeguatamente l’insorgenza fascista, ma addirittura la sostengono in qualche modo, anche attraverso il sistema dei media, il quale avrebbe scientemente “sdoganato” il neofascismo presentandolo agli occhi dell’opinione pubblica come il solo movimento politico che davvero ha a cuore le sorti degli ultimi, delle vittime della globalizzazione – o mondializzazione, per usare il lessico del sovranismo destrorso –, e del Paese. A proposito di sdoganamento: «Una signora sotto lo striscione dedicato a Giacomo Matteotti se la prende in pieno trip da retropia addirittura con il Migliore: “Fu Togliatti a sdoganare il fascismo con l’amnistia del ‘46”» (Il Messaggero). Anche questa in fondo è storia.

Si può individuare una differenza di principio, radicale in termini storici e sociali, tra antifascismo militante e antifascismo istituzionale? Io credo di no, e anzi possono entrambi venir considerati come interni a un antifascismo di regime, il regime nato appunto dalla Resistenza. Verrò dopo su questo decisivo punto.

Scrive della Loggia: «Nell’Italia della Costituzione, difendere la democrazia – dal fascismo come da ogni altra minaccia – è compito solo delle forze dell’ordine della Repubblica». E la Repubblica nata dalla Resistenza sa bene come difendersi, non ha bisogno di venir surrogata da un “antifascismo dal basso”. E qui mio malgrado mi tocca dare ragione al Professore. Vediamo subito in che senso attraverso la solita antipatica autocitazione: «Negli anni Settanta la distruzione dei movimenti sociali fu affidata soprattutto agli apparati repressivi dello Stato, con il pieno sostegno di tutti i partiti appartenenti a quello che allora si chiamava “arco costituzionale”, a cominciare dal PCI e dalla DC. […] In quegli anni il neofascismo ebbe uno scarsissimo ruolo nella repressione e nell’intimidazione dei movimenti antagonisti. Insomma, la democrazia capitalistica sa difendersi benissimo dai nemici dell’ordine costituito (e costituzionale) anche senza sguinzagliare le squadracce fasciste contro i “sovversivi”, e ciò in piena coerenza con la lettera e con lo spirito della Costituzione più bella del mondo» (Fascismo reale, fascismo immaginario…).

Fino a prova contraria non il fascismo, in una qualsiasi forma più adatta ai tempi, ha amministrato politicamente e ideologicamente questo Paese negli ultimi sette decenni, ma la democrazia capitalistica, la sola forma di democrazia possibile nel Capitalismo del XXI secolo. Marx e Lenin parlarono della «democrazia borghese» come del migliore involucro politico–ideologico-istituzionale della dittatura sistemica radicata nei rapporti sociali capitalistici. Migliore, beninteso, per le classi dominanti. Forse quei due personaggi preferivano i regimi borghesi autoritari a quelli democratici? Ovviamente no; semplicemente essi avevano capito che la forma democratica offre alle classi dominanti, almeno nei Paesi capitalisticamente avanzati dell’Occidente, più spazio di manovra nella gestione dei conflitti sociali, un più intelligente e funzionale uso della carota politico-ideologica e del bastone – bombe e picchiatori fascisti compresi, alla bisogna. Per non farsi schiacciare, per resistere alla pressione del processo sociale le classi subalterne devono contare solo sulla loro forza, sulla loro unità, sulla loro autonomia politica, ideale e psicologica nei confronti dello Stato e dei partiti di regime – di “destra” o di “sinistra” non ha alcuna importanza. Ecco perché è fondamentale cercare di fare luce sulla natura ipnotica della democrazia capitalistica, la cui sostanza sociale non è che la realtà del totalitarismo degli interessi economici.

Insomma, è sulla dittatura dei vigenti rapporti sociali che dovremmo concentrare tutta la nostra attenzione anche quando analizziamo il significato storico e sociale del fascismo e della democrazia. Non si tratta di sottovalutare i fenomeni neo-fascisti, tutt’altro! Si tratta piuttosto di collocarli nella giusta prospettiva, così da evitarci l’avvitamento in inconcludenti battaglie ideologiche che alla fine rafforzano solo lo status quo sociale.

E qui entra in scena un altro tipo di antifascismo, quello che prende di mira il fascismo non in quanto forma politica che si oppone alla democrazia (capitalistica), alla Repubblica nata dalla Resistenza e alla Costituzione che, com’è noto, tutto il mondo ci invidia (salvo che in Venezuela, dove è in atto un meraviglioso tentativo di “democrazia partecipativa” e di “socialismo dal volto umano”), ma il fascismo (o come altrimenti si voglia chiamarlo) come strumento di repressione e di intimidazione nei confronti delle avanguardie di classe (dove e quando queste ci sono), delle lotte operaie, dei proletari più radicalizzati in senso anticapitalista (speriamo!), di quanti esprimono solidarietà nei confronti degli immigrati, degli ebrei, dei “diversi” d’ogni genere, delle idee di emancipazione d’ogni tipo, incluse quelle che toccano il ruolo della donna in questa società violenta e abbastanza escrementizia. Per questo è assolutamente sbagliato contrapporre la forma democratica dell’esercizio del potere a quella fascista, per il semplice fatto che entrambe concorrono a mantenere intatto e anzi più forte lo status quo sociale. Ho scritto status quo sociale perché la forma politico-istituzionale che amministra un Paese può anche mutare purché sopravviva il dominio delle classi dominanti: è questo, ad esempio, il significato autentico dell’alternanza Fascismo-Antifascismo che si verificò in Italia come conseguenza della sua rovinosa sconfitta militare ad opera delle Potenze Alleate. Non mi stancherò mai di ricordare a me stesso che la Resistenza altro non fu che la continuazione della guerra imperialista sotto altre condizioni storiche determinate dalle bombe angloamericane sganciate con generoso slancio democratico e antifascista sulle città italiane. Lo so che quando leggono simili affermazioni i fascisti si leccano i baffi: ma chi se ne importa di quella gentaglia! A me interessa denunciare il carattere imperialista della Seconda guerra mondiale da tutte le parti in conflitto, e lascio ai miserabili simpatizzanti del Duce la gioia di sentirsi accomunati con altra gentaglia di diverso orientamento politico. Contenti loro!* La precisazione di cui sopra non ha affatto un carattere passatista, perché intende colpire la mitologia resistenzialista nella sua essenza storico-sociale; una mitologia ultrareazionaria che ancora oggi pesa sulla coscienza di non pochi giovani che desiderano “fare la rivoluzione”.

«Il fascismo è fuori dalla Costituzione», ha detto qualche giorno fa il Premier Gentiloni. È fuori dalla Costituzione, mi permetto di precisare, ma dentro (eccome!) il regime sociale che quella Costituzione esprime. Io sostengo un antifascismo che vuole essere fuori dalla Costituzione e contro quel regime. Ebbene giovani compagni, non c’è Rivoluzione se non fuori dalla Costituzione e contro la Costituzione.

 

* Qualche anno fa un amico mi informò che su un sito rigorosamente nazifascista era comparso un mio scritto sulla democrazia e la Costituzione Italiana. La cosa che mi fece più ridere fu vedere che quel pezzo stava accanto a un articolo di Amadeo Bordiga, il noto fondatore del PC d’Italia nel 1921, sempre di tenore antidemocratico e anticostituzionale. Quale onore! Poveri nazifascisti, cosa sono costretti a fare per non essere considerati dei miserabili reietti dai loro nemici sinistrorsi!

CATALOGNA. SUL PONTE SVENTOLA LA BANDIERA BIANCA! E NON SI CANTA L’INTERNAZIONALE…

L’ex Presidente della Catalogna Carles Puigdemont per molti è un eroe della ribellione indipendentista e della libertà. In questi ultimi tempi mi è capitato spesso di citare Franco Battiato, e oggi lo faccio ancor più volentieri anche come augurio di una sua pronta guarigione dopo l’ultima dolorosa caduta: «Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso». Quando ci vuole, ci vuole!

Come ho scritto l’altro ieri, per me si tratta di battersi tanto contro l’unionismo spagnolo e l’attuale repressione giudiziaria e poliziesca scatenata da Madrid, quanto contro il secessionismo catalano, un progetto capitalistico al 100 per 100. Non si tratta di una posizione indifferentista, come sostengono coloro che sono abituati a pensare solo in termini di posizionamento (schieramento) interborghese (o stai con questa cosca capitalistica, supposta come il male minore, oppure con quella concorrente, supposta come “la peggiore”), ma di una posizione che cerca di costruire l’autonomia di classe a partire dalla disperata situazione in cui si trovano le classi subalterne di tutto il pianeta.

Ieri a Barcellona si gridava contro Madrid: «Questa non è giustizia, è dittatura! Questa non è democrazia, è fascismo!». Non sono d’accordo: questa è la giustizia borghese, questa è la democrazia borghese. Qualcuno ieri mi ha obiettato che nei miei post sulla crisi catalana non prendo in considerazione il carattere franchista (o fascista) del regime spagnolo; rispondo con una citazione: «Quando si usano le parole a casaccio finisce che si hanno idee a casaccio e si fanno proposte a casaccio. Il Governo PP-PSOE non è fascista: è un normale governo “democratico” come “democratico” è il governo di Trump, di Angela Merkel o di Paolo Gentiloni; solo gli incrollabili amici della democrazia borghese chiamano “fascisti” i governi quando manganellano i manifestanti, mettono le bombe sui treni, limitano il diritto di sciopero, partecipano ad aggressioni militari, ecc…; non hanno ancora capito che la democrazia borghese può essere violenta tanto quanto certi regimi fascisti» (Antiper). È sufficiente ricordare la repressione degli anni Settanta del secolo scorso in Italia e in Germania per capire con quanta maestria la democrazia capitalistica sappia dosare l’uso della carota e del manganello, della scheda elettorale e del carcere. Sulle superstizioni democratiche coltivate da molti sinistrorsi cosiddetti radicali, rinvio a miei diversi scritti (*).

In un precedente post avevo messo in luce il carattere leghista (soprattutto del leghismo delle origini, quello caldeggiato da Gianfranco Miglio, per intenderci) del movimento indipendentista catalano, e la sua connessione con la globalizzazione capitalistica, la quale tende a ridisegnare gli assetti politico-istituzionali dei Paesi e dei continenti seguendo le linee di forza generate dal processo capitalistico di produzione/distribuzione della ricchezza sociale. «Nella vecchia logica dello Stato moderno», scriveva Miglio, «si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia, la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale». Mi è ritornata in mente questa intelligente riflessione ieri sera, dopo aver letto l’ultima dichiarazione di Puigdemont dall’esilio (?) belga: «Il leader del Pdecat, Puigdemont, si considera in esilio anche se oggi ha detto che questo non gli impedirà di fare campagna, “visto che viviamo in una società globalizzata”» (ANSA). Ricordate il concetto di GloCal che impazzò durante l’epoca d’oro dell’ideologia globalista? Pensare globale e agire locale, si diceva. Ecco, l’ex Presidente della Generalitat, che si è detto pronto a consegnarsi «alla vera giustizia, quella belga» (prendo nota, non si sa mai…), sembra incarnare al meglio lo spirito GloCal.

L’interessante analisi di Oriol Nel·lo Colom (Limes) sembra avvalorare quanto appena detto: «Il processo d’integrazione europea – uno dei frutti più lampanti della dimensione politica della globalizzazione – è percepito come una cornice che, invece di frenare l’anelito indipendentista, ne assicura la viabilità, offrendo una struttura di protezione e di inquadramento per l’eventuale nuovo Stato. Da qui l’apparente contraddizione di un movimento sovranista che, a differenza di quelli nazionalisti xenofobi, si definisce europeista, benché il processo d’integrazione comunitaria comporti necessariamente una riduzione della sovranità degli Stati. Il movimento indipendentista catalano si inscrive dunque nella tendenza verso il rescaling della politica europea, che ha trovato terreno fertile in Scozia, nelle Fiandre e nel Paese Basco. Il fatto che, nonostante l’apparente immutabilità delle frontiere europee, sia emersa nell’ultimo quarto di secolo una nutrita schiera di nuovi Stati nel continente, molti dei quali hanno aderito all’Ue, ha anche contribuito a evidenziare l’esistenza di una finestra di opportunità per il movimento indipendentista. Da qui i continui richiami all’intermediazione europea da parte del suo corpo dirigente. Di contro, l’Unione Europea si è mostrata refrattaria a farsi coinvolgere, quantomeno pubblicamente, mentre la causa indipendentista non ha trovato sponde in alcun governo d’Europa, né in alcuna delle principali organizzazioni internazionali». La costruzione di un polo imperialista europeo in grado di competere con Stati Uniti e Cina non è esattamente un pranzo di gala e trova lungo il suo percorso ostacoli vecchi e nuovi.

«Migliaia di catalani si sono concentrati in tutto il paese davanti ai luoghi di lavoro a mezzogiorno per un minuto di silenzio all’appello delle organizzazioni della società civile indipendentista per protestare contro il “processo politico” avviato contro il Govern. Centinaia di persone si sono riunite davanti al Palazzo della Generalità a Barcellona gridando “Puigdemont è il nostro Presidente”, “Llibertat!” e cantando l’inno di Els Segadors» (La Stampa). Els Segadors, dunque!

Bon cop de falç!
Bon cop de falç, defensors de la terra!
Bon cop de falç!

Ara és hora, segadors!
Ara és hora d’estar alerta!
Per quan vingui un altre juny
esmolem ben bé les eines!

Que tremoli l’enemic
en veient la nostra ensenya:
com fem caure espigues d’or,
quan convé seguem cadenes!

Buon colpo di falce!
Buon colpo di falce, difensori della terra!
Buon colpo di falce!

È giunta l’ora mietitori!
È giunta l’ora di stare all’erta!
Per quando verrà un altro giugno
teniamo affilati gli arnesi!

Che tremi il nemico
vedendo la nostra insegna:
come facciamo cadere le spighe dorate,
quando è opportuno seghiamo le catene!

Ecco! Le catene bisogna segarle, non renderle più forti marciando a fianco del nemico di classe! E ovviamente questo vale per le classi subalterne non solo di Barcellona e di Madrid, ma di tutto il mondo. Come sottrarci alle lotte di potere intercapitalistiche (su scala locale, nazionale e internazionale)? Come costruire l’autonomia di classe e demistificare l’ideologia dominante (che trova alimento anche nell’eterno e falso dualismo tra democrazia e fascismo)? Come estirpare la pianta velenosa del nazionalismo delle piccole e delle grandi patrie? Questo è il tema che personalmente mi interroga in quanto proletario anticapitalista.

Compagni catalani e spagnoli, «teniamo affilati gli arnesi» contro il capitale, non contro una capitale (Barcellona o Madrid che sia)! Caspita, per un attimo ho creduto di essere Vladimiro… Sarà per via del noto centenario.

(*) solo alcuni titoli:

STATO DI DIRITTO E DEMOCRAZIA TRA MITO E REALTÁ

SULLA CRISI DELLA DEMOCRAZIA

LA “BELLA POLITICA”, DA PERICLE A PIPERNO

IL PUNTO SULLA CRISI CATALANA

Scriveva Niccolò Locatelli su Limes all’indomani del referendum indipendentista catalano del 1º ottobre 2017: «La catastrofica e autolesionistica figura politica di David Cameron meriterebbe di essere rivalutata, se messa a confronto con il dilettantismo mostrato questa settimana dagli indipendentisti catalani. I quali stanno avendo molte difficoltà ad uscire dall’angolo nel quale loro stessi si sono rinchiusi». L’altro ieri Michele Boldrin su Linkiesta parlava dell’indipendenza catalana nei termini di «una pagliacciata, come previsto».  Per Michele Boldrin «La storia è un misto di tragedie e di farse. E per fortuna l’indipendenza catalana del 2017, al contrario di quella del 1934, appartiene a pieno alle seconde». Un’ultima citazione sul tema: «La vicenda dell’ex presidente catalano Carles Puigdemont, scappato in Belgio a elemosinare un asilo politico quasi impossibile dopo aver chiesto ai suoi di fare “resistenza democratica”, può essere letta come la parabola dell’avventurista. I quotidiani spagnoli, ma anche quelli catalani, ne danno un giudizio inesorabile» (Giulia Belardelli).

Certamente le ultime mosse dei “rivoluzionari” catalani non sono tali da poter confutare, o quantomeno mitigare, questi severi giudizi, tutt’altro. La figura politica e umana dell’ex Presidente della Generalitat appare, almeno ai miei occhi, senz’altro ridicola, più che drammatica. Ovviamente non sono fra quelli che lo vorrebbero vedere penzolare dall’albero dei “traditori” della patria catalana («la bandiera della rivoluzione catalana è stata gettata nel fango dall’avventurismo e dalla vigliaccheria di Puigdemont e soci»), né da quello dei “traditori” della patria spagnola. I miei nemici di classe non li consegnerei mai nelle mani del Leviatano capitalistico.

Sulle azioni dei leader indipendentisti, i quali sembrano essere andati allo scontro con Madrid confidando solo sulla buona sorte e sulla loro – presunta – superiore intelligenza politica, aleggia dunque lo spettro della farsa più scombinata e ridicola, che tuttavia potrebbe trasformarsi in un’autentica e sanguinosa tragedia per molti catalani che sono stati conquistati dall’ultrareazionario “sogno” secessionista. Ultrareazionario, beninteso, al pari del “sogno” unionista – ed europeista.

Volando a Bruxelles, forse Puigdemont credeva forse di portare nel cuore stesso dell’Unione Europea quel “dualismo di potere” che non è riuscito a radicare a Barcellona. La già citata Belardelli su questo punto ha le idee chiare: il leader indipendentista catalano ha portato nella capitale belga «tutta la goffaggine e l’inadeguatezza di un leader politico che ha cavalcato una causa populista senza prima assicurarsi di aver allacciato la sella. Ma il paradosso è anche per il debole governo belga, la cui fragilità ha permesso alla “farsa” catalana di finire proprio nel centro di un’Europa a sua volta sempre più fragile». Non c’è dubbio che la crisi catalana ha messo in luce, oltre che le magagne sistemiche della Spagna (in perfetta analogia con le magagne italiane: vedi la rinata Questione settentrionale), tutta la debolezza del progetto europeista, il quale deve ancora fare i conti con la dimensione nazionale degli attori chiamati a implementarlo. Più che per solidarietà europeista, i leader europei hanno sostenuto le ragioni di Madrid contro le ragioni di Barcellona per paura di un effetto domino transnazionale. Persino la Cancelliera di Ferro volgendo lo sguardo verso la Penisola Iberica ha visto controluce una possibile crisi bavarese.

Mi fanno ridere quelli che in Italia cianciano di «diritto all’autodeterminazione del popolo catalano» e poi negano al «popolo lombardo-veneto» il diritto a una più spinta autonomia politica e fiscale delle loro regioni! Come se le due vicende (ma è anche il caso della Scozia) non avessero, mutatis mutandis, una comune radice sociale individuabile nella natura altamente contraddittoria e conflittuale del processo sociale capitalistico, alla scala individuale (vedi alla voce alienazione: spesso vorremmo separarci da noi stessi!), locale, regionale, nazionale e mondiale. Più la globalizzazione capitalistica ci centrifuga come alimenti gettati dentro a un frullatore (altro che “omologazione”! altro che “pensiero unico”!), e più cerchiamo disperatamente – e pateticamente – di aggrapparci a qualche misero brandello di “identità”: nazionale, culturale, sportiva, etnica, sessuale, religiosa ecc.

Ai miei colleghi di classe dico che alla globalizzazione capitalistica non si risponde con successo alzando muri (economici, nazionalistici, identitari, eccetera), ma piuttosto abbattendo la madre di tutti i muri reali e virtuali: il Capitalismo. «E in attesa di eventi migliori, non facciamo niente?». È, questa, la solita puerile obiezione che lo pseudo rivoluzionario rivolge a chi intende praticare la “via maestra” della lotta di classe non con spirito “purista”, ma con la coerenza di un’autentica radicalità. Gli «eventi migliori» non cadono dal cielo nel mitico giorno x della rivoluzione sociale “dura e pura”, ma bisogna prepararli nei periodi di magra rivoluzionaria. Sto parlando dell’oggi. Non si tratta di opporre, banalmente e infantilmente, la lotta per gli obiettivi massimi a quella per gli obiettivi minimi: si tratta piuttosto di fare degli obiettivi cosiddetti minimi (come la rivendicazione di un salario migliore e di migliori condizioni di lavoro e di vita) altrettanti momenti utili a costruire rapporti di forza favorevoli alla realizzazione degli obiettivi cosiddetti massimi. L’autonomia di classe dei lavoratori e dei proletari è un obiettivo che va perseguito qui e ora, a partire da qualsiasi occasione di lotta e di conflitto sociale; esso non va rimandato a “tempi migliori”, i quali ovviamente non arriveranno mai se non ne vengono realizzati i presupposti. Come sapevano i rivoluzionari di una volta, è una fesseria voler scavare un fosso tra prassi e teoria, tattica e strategia.  Scriveva nel 1919 il giovane György Lukács: «Il criterio di un giusto agire in senso socialista, di una giusta tattica può essere esclusivamente lo stabilire se il modo dell’agire in un caso determinato serva a realizzare l’obiettivo finale»; per il rivoluzionario ungherese sono da considerare «cattivi tutti i mezzi che ottenebrano la coscienza di classe». Per Lukács anche gli «interessi materiali temporanei del proletariato» sono deleteri se contribuiscono a «ottenebrare» la sua coscienza di classe, a indebolirne l’autonomia di classe: il riformismo borghese, supportato fortemente dal collaborazionismo sindacale, non ha avuto altro significato. Ma rituffiamoci nell’attualità politica!

Qualche giorno fa Giorgio Cremaschi invitava «le compagne e i compagni» che non hanno condiviso il suo «omaggio al popolo della Catalogna, giudicando la sua lotta sbagliata, ambigua, borghese, egoista, nazionalista, eccetera», ad andare a scuola da Lenin: «Mi permetto di citare ciò che Lenin disse dell’emiro dell’Afghanistan, un reazionario che nel 1920 si batteva contro gli inglesi… Lenin disse che aveva fatto più danni all’imperialismo quell’emiro che tutta la socialdemocrazia e la sinistra europea. Per favore, a cento anni dalla Rivoluzione contro Il Capitale, come la definì Gramsci [e anche il mitico Antonio è sistemato!], non usate Marx e Lenin in senso scolastico e soprattutto da menscevichi. […] Lenin scriveva che per la rivoluzione vale il motto di Napoleone: si comincia lo scontro e poi si vede… Per favore compagni non date i voti a chi ci prova nella condizione reale in cui sta, soprattutto da un paese, il nostro, che dopo essere stato per decenni all’avanguardia dei conflitti in Europa oggi è alla più triste retroguardia. Cari compagni [e compagne no?] non fate i pedanti, ma siate generosi…».

Vorrei spendere solo due parole su quanto appena riportato, per ribadire la mia posizione sulla sempre più “bizzarra” e aggrovigliata crisi spagnola, e non certo per polemizzare con Cremaschi, dal quale peraltro mi separa un abisso concettuale e politico, visto che la “sinistra radicale” di cui egli fa parte è la diretta discendente di quel “comunismo” con caratteristiche italiane che ho sempre combattuto ritenendolo uno dei pilastri dello status quo sociale (ripeto: sociale, non meramente politico-istituzionale) del nostro Paese, insieme alla Democrazia cristiana e agli altri partiti della cosiddetta Prima Repubblica.

Secondo il leninista Cremaschi non corre dunque alcuna differenza, o una differenza politicamente trascurabile, tra i tempi storici e la specifica situazione sociale e geopolitica nella quale agiva Lenin, e i nostri tempi, la concreta realtà sociale e geopolitica nel cui seno si dipana anche la crisi catalana, che poi è la crisi del regime spagnolo com’è venuto fuori dopo la morte di Franco. Secondo lui le guerre nazionali dei Paesi sottoposti al colonialismo e all’imperialismo ancora ai tempi di Lenin, avevano, sempre cambiando quel che c’è da cambiare, lo stesso significato storico e lo stesso impatto sugli equilibri interimperialistici che potrebbe avere l’indipendentismo catalano. Un minimo sindacale di analisi materialistica della società spagnola, Catalogna incluso, e dello scenario mondiale di riferimento consente di confutare nel modo più assoluto ogni accostamento storico tra i fatti richiamati polemicamente da Cremaschi e le vicende di cui ci occupiamo oggi. Sulla natura fondamentalmente “leghista” della questione catalana rimando ai miei due precedenti post (*). Tra l’altro, l’emiro reazionario afghano probabilmente organizzava attentati contro l’imperialismo inglese, mente l’ex Presidente reazionario della Generalitat è scappato via per chiedere sostegno all’imperialismo europeo: c’è una leggerissima differenza tra le due cose, mi pare. Ma sicuramente si tratta di una raffinatissima strategia politica che un’indigente di dialettica e un dottrinario come chi scrive non è in grado di apprezzare nella sua autentica sostanza.

«Lenin scriveva che per la rivoluzione vale il motto di Napoleone: si comincia lo scontro e poi si vede»: verissimo! Ai menscevichi (quelli veri!) che, testi marxiani alla mano, giudicavano immatura la rivoluzione proletaria nella Russia capitalisticamente arretrata, Lenin, che inquadrava il Grande Azzardo dell’Ottobre ’17 nel quadro della rivoluzione sociale internazionale (una “sottigliezza” politico-concettuale che quasi tutti i cultori della materia tendono a trascurare, e che nemmeno il Gramsci pizzicato da Cremaschi comprese), rispondeva appunto che i bilanci non si tirano prima della battaglia, ma dopo. Ora, di che guerra, di che rivoluzione stiamo discutendo nel caso della Catalogna? La risposta mi appare di una semplicità a dir poco imbarazzante: di una guerra di potere tutta interna agli interessi delle classi dominanti, catalane e spagnole. Parlare di «guerra nazionale» e di «rivoluzione» nel caso di specie, e negli altri casi simili, è semplicemente ridicolo, e io tratto l’argomento solo per contribuire a dissipare qualche dubbio in chi frequenta la cosiddetta sinistra radicale.
Leggendo alcuni articoli sinistrorsi (pubblicati ad esempio dal Blog Contropiano) sulla crisi catalana mi è sembrato di leggere la cronaca della Rivoluzione Russa! Mancavano all’appello solo i Soviet e la madre di tutte le rivendicazioni: Pace, pane e terra! Forse la suggestione del Centenario ha causato in alcuni qualche scompiglio intellettuale. È un’ipotesi, beninteso.

Chi ha voluto e chi ha cominciato lo scontro in Catalogna? Si risponde: «il popolo catalano». Già, certo, il “popolo”! Il “popolo” ha sempre ragione! Chi siamo noi per dare voti e lezioni al popolo «che ci prova»? Ma «ci prova» a fare che cosa esattamente, compagno leninista: a fare la rivoluzione? a costruire “una nuova e socialmente più avanzata” sovranità nazionale? a conquistare una maggiore libertà e migliori condizioni di vita? a mettere in crisi l’odierno assetto interimperialistico? a ricostruire un fronte di classe? Ovviamente nulla di tutto questo, e come sempre al netto delle illusioni e dei veri e propri autoinganni coltivati dai singoli e dalle masse. Il cosiddetto “popolo”, in Catalogna, in Spagna e ovunque in Europa e nel mondo (vedi anche le cosiddette “Primavere arabe”), oggi è solo una bestia da soma che tira il pesante carro del Dominio. Lo so che dire questo non è né “popolare” né “populista”, ma io non mi devo presentare alle prossime elezioni, ed essendo un modestissimo scolaro di Marx so che le classi subalterne, alle quali purtroppo appartengo per “anagrafe sociologica”,  non vanno mai adulate e accarezzate per carpirne la simpatia, ma criticate puntualmente per sollecitarne la crescita politica in vista dell’agognata autonomia di classe. Quantomeno uno ci tenta, e che diamine!

L’idea, poi, che si possa “cavalcare da sinistra” un movimento politico-sociale interamente subordinato agli interessi capitalistici, è qualcosa che rasenta l’idiozia. In realtà questa idea rivela la natura borghese della “sinistra radicale” di cui parlano molti sedicenti anticapitalisti.

E poi, in che senso è legittimo, sul piano dell’analisi sociale e dell’iniziativa politica, parlare di “popolo”? Come aveva già capito Marx, ragionare in termini di popolo significa inchinarsi agli interessi della classe che nell’ambito del popolo ha più potere sociale: la borghesia. E difatti il più delle volte il comunista di Treviri parlava di «popolo dei lavoratori», un popolo di salariati contrapposto a quel concetto borghese di popolo che sta al centro dell’ideologia pattizia elaborata dalla borghesia nella sua fase rivoluzionaria: vedi, fra l’altro, Rousseau. Non si tratta, come si vede bene, di pedanti sofismi dottrinari, di sottigliezze teoriche prive di contenuto politico e di attualità, ma di precise demarcazioni concettuali che hanno un gigantesco significato politico che l’anticapitalista (Cremaschi si senta dunque esonerato dalla difficilissima incombenza) deve sforzarsi di far valere nella situazione presente, una contingenza caratterizzata dalla confusione politica e ideale più totale.

Come mi capita spesso di dire, nel XXI secolo e soprattutto nei Paesi capitalisticamente avanzati (vedi Spagna) quando si parla di “popolo” bisogna mettere subito le mani alla pistola: sicuramente si tratta di una truffa, di una menzogna, di un miserabile tentativo di trascinare le classi subalterne in una guerra che non è la loro (la nostra, la mia) guerra. Nell’epoca del dominio totalitario del Capitale su tutto il pianeta parole come “popolo”, “nazione”, “sovranità nazionale”, “patria” eccetera suonano odiosamente false: esse non sono che fumo ideologico dietro il quale si nascondono enormi interessi economici, politici e geopolitici. Il nazionalismo delle grandi e delle piccole patrie appare sempre più per quel che è, e cioè una disgustosa menzogna ideologica che serve alle classi dominanti di tutte le nazioni per tenerci ben stretti al carro dello status quo sociale e portarci quando serve sul campo di battaglia, reale e virtuale, così che possiamo scannarci, l’un l’altro armati di fucili o di schede elettorali, per affermare la volontà dei nostri padroni. Spagnoli o catalani, italiani o lombardo-veneti, britannici o scozzesi, americani o californiani: sempre di padroni si tratta!All’invocazione del “popolo” fatta dai capitalisti e dai loro funzionari politici e ideologici, occorre rispondere con la lotta di classe, la sola via di fuga dall’impotenza che oggi vede il popolo dei nullatenenti disarmati di fronte agli opposti interessi che lo tengono in una morsa che si strige sempre più.

«E poi con chi stareste voi, con un popolo che si ribella, ripeto con ambiguità e contraddizioni, e che in questa ribellione matura, o con il Re e i postfranchisti che lo reprimono? Siete sicuri di potervi chiamare fuori da tutto questo?». Bel modo di ragionare, quello del leninista Cremaschi! Un modo di ragionare, sia detto en passant, perfettamente organico alla “sinistra radicale” di cui egli è uno dei leader più apprezzati e autorevoli. O stai dalla parte del «popolo che si ribella» (e che, come si è detto prima, ha sempre ragione, per definizione populista, anche quando sbaglia, esattamente come il cliente che non bisogna mai lasciarsi scappare dalle grinfie a beneficio della concorrenza), oppure stai dalla parte della monarchia e dei postfranchisti: il bolscevico Cremaschi non vede alternative possibili a questo drammatico (o comico?) aut-aut. Per me invece l’alternava si dà, eccome! Questa alternativa si chiama indipendenza di classe e disfattismo di classe. Si può benissimo essere contro il progetto indipendentista del «popolo catalano» (leggi: della classe dominante catalana) senza per questo appoggiare, neanche “oggettivamente”, la causa unionista, monarchica e postfranchista di Madrid. «Si può essere nemici del regime costituzionale senza essere per questo amici dell’assolutismo» disse una volta l’uomo con la barba; Marx portava forse acqua al mulino dell’assolutismo? «Sì, oggettivamente». Non l’avevo capito!

Essere disfattisti non significa affatto essere indifferenti, starsene con le mani in mano a guardare gli altri che si danno battaglia, nelle piazze o nelle urne, per conto dei loro padroni, come sostengono le novelle mosche cocchiere della “rivoluzione” che si credono più furbe del cavallo che ha la gentilezza di portarle a spasso per il capitalistico mondo; essere disfattisti significa invece lottare contro tutte le fazioni padronali, contro tutti i partiti al servizio della Nazione e dello Stato. Essere disfattisti in Spagna e in Catalogna oggi significa rigettare gli interessi capitalistici che fanno capo a Madrid e a Barcellona e battersi perché non un solo individuo muoia per sostenere quegli interessi. Unionismo? Secessionismo? Europeismo? Non in nostro nome!

(*) ALCUNE RIFLESSIONI SULLA CATALOGNA; CATALOGNA E NON SOLO. PER UNA “SECESSIONE DI CLASSE” CONTRO GLI OPPOSTI NAZIONALISMI.

AUTOMAZIONE E BASE DI VALORIZZAZIONE DEL CAPITALE. IL CASO GIAPPONESE

La notizia è questa: «Per via del costante calo di manodopera, le aziende giapponesi hanno preso a reclutare personale meccanico», cioè robot. Si dirà: «e la novità dove sta?». Da nessuna parte, ed io stesso da anni scrivo sull’impatto che la nuova tecnologia cosiddetta intelligente ha non solo sul mondo del lavoro (1), che, è bene ricordarlo, è sostanzialmente un mondo di sfruttamento e di alienazione, ma sulla società nel suo insieme. Tuttavia oggi mi è venuto in testa proprio il Giappone mentre rileggevo quanto scriveva Henrik Grossmann, sulla scia di Marx, a proposito della base di valorizzazione del capitale, ossia della materia prima vivente che genera valore e plusvalore. Provo a spiegarmi.

Grossmann tratta questo oggetto nel suo celebre testo del 1928 Il crollo del capitalismo, e in particolare in  un capitolo intitolato Accumulazione di capitale e problema della popolazione. A pagina 351 si legge: «La popolazione costituisce un limite all’accumulazione; non però un limite nel senso di Rosa Luxemburg, cioè nel senso che il numero dei consumatori, dei compratori, limita l’accumulazione, ma per il fatto che con la popolazione è dato anche il limite di valorizzazione» (2). Ciò che sostanzia la base di valorizzazione non è la popolazione in generale, genericamente intesa, ma quella che Marx chiamava «popolazione operaia»: «Data la durata della giornata lavorativa […] la massa del plusvalore può essere aumentata soltanto aumentando il numero degli operai, cioè aumentando la popolazione operaia» (3). Alludendo polemicamente agli economisti di “scuola marxista” Grossmann scrive: «Si dimentica che tuttavia il valore e conseguentemente anche il plusvalore, può essere creato soltanto nella produzione di beni» (p. 355). Nella produzione di merci si ha la valorizzazione del capitale investito in mezzi di produzione e salari, ossia la generazione di un plus di valore che va a sommarsi al capitale iniziale; nella vendita di quelle merci si ha la realizzazione del valore (valore vecchio più plusvalore) in esse corporato, ossia quella trasformazione del valore in denaro che rappresenta il punto d’arrivo della «metamorfosi della merce».

Ora, non è nella sfera della realizzazione, come inclinano a pensare i teorici del sottoconsumo della popolazione come fondamento delle crisi economiche (4), ma piuttosto in quella della valorizzazione che bisogna individuare i limiti cui periodicamente va incontro il processo di accumulazione. Uno dei limiti più significativi riguarda appunto la base di valorizzazione, ossia la massa di capacità lavorativa a disposizione del capitale. La valorizzazione del capitale deve fare i conti con una contraddittoria e ineliminabile dialettica: per un verso essa ha bisogno di una base di valorizzazione sempre più ampia, ossia di un numero crescente di lavoratori da “mettere a valore” (leggi da sfruttare); per altro verso la ricerca del profitto, che mette i capitali in reciproca concorrenza su un campo di battaglia che oggi abbraccia l’intero pianeta, spinge il capitale ad elevare quella che Marx chiamava composizione tecnica di ogni singola impresa, ossia il suo livello tecnologico ed organizzativo, e ciò se consente di aumentare la produttività del lavoro, elevando il saggio del plusvalore, fa aumentare al contempo la composizione organica del capitale, definita dal rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione (che non creano valore) e il capitale investito in capacità lavorativa, la sola risorsa in grado di conservare valore vecchio mentre ne crea uno nuovo di zecca. La base di valorizzazione tende cioè a restringersi, non in assoluto, ma in rapporto al capitale investito in mezzi di produzione. «È unicamente nel modo capitalistico di produzione che si riscontra questo bisogno di un aumento assoluto del numero dei salariati nonostante la loro relativa diminuzione» (5).

Occorre dire che la fenomenologia monetaria del processo di valorizzazione (non a caso Marx parla di capitale costante e capitale variabile: il primo investito in mezzi di produzione e il secondo in forza-lavoro) occulta la sostanza del processo di valorizzazione, ossia il suo essere fondamentalmente un processo di sfruttamento di lavoro vivente, di uomini in carne ed ossa, attuato servendosi di mezzi tecnologici sempre più sofisticati. È qui che trova alimento la concezione feticistica dell’economia mercantile, la quale appare come «una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici» (6).

Per accrescere la base di valorizzazione e reggere il confronto con la concorrenza internazionale, il capitale italiano investito nell’agricoltura ha messo le mani sulla materia prima vivente arrivata soprattutto dall’Africa, e qualcosa di simile, sebbene su una scala più ridotta, è avvenuto nel comparto manifatturiero. Bassissimi salari, ritmi di lavoro sostenuti e una lunga giornata di lavoro: che pacchia per il Made in Italy! Ne ricavo quanto segue: quando le anime candide ci dicono che gli africani fanno il lavoro che gli italiani non vogliono più fare, e che così ci pagano pure le pensioni messe in crisi dal calo demografico, occorre subito impugnare la metaforica rivoltella. «Metaforica?». Sì, metaforica; per la critica delle armi c’è sempre tempo, forse. D’altra parte, non avrebbe senso alcuno armare la mano senza prima armare la testa, e gli esempi, lontani e recenti, in Italia non sono mancati e non mancano. Armare la testa significa, nel caso di specie, demistificare il discorso di razzisti e buonisti gettando un fascio di luce sul funzionamento dell’economia basata sul profitto, per scongiurare la guerra tra i miserabili, materia prima vivente a disposizione del Capitale. E qui ritorniamo a Grossmann e al Giappone.

Nel capitolo Accumulazione di capitale e problema della popolazione Grossmann fa la storia del Capitalismo tedesco, e mostra come nel corso del suo sviluppo il capitale tedesco avesse via via allargato la propria base di valorizzazione per sostenere i sempre più accelerati ritmi di accumulazione. «Con la rapida espansione dell’industria e con il ritmo accelerato dell’accumulazione di capitale a partire dagli anni ’90 [del XX secolo] cessò l’emigrazione e cominciò persino l’immigrazione (polacchi, italiani) nei settori industriali dell’occidente. Soltanto questo crescente assorbimento della forza lavoro addizionale poteva formare una base sufficiente per la creazione di plusvalore, che era necessaria per la valorizzazione del capitale accresciuto. […] Dopo la crisi del 1907 il capitale è costretto a crearsi una più ampia base di valorizzazione attraverso un più elevato impiego del lavoro femminile che possiede ancora il vantaggio di essere più a buon mercato» (pp. 352-353). Come diceva Marx, i rapporti sociali capitalistici rivoluzionano continuamente non solo la struttura tecnologica delle imprese industriali e commerciali, ma anche la struttura sociale presa nel suo insieme. E degli effetti “sovrastrutturali” di questa “rivoluzione sociale” si trova traccia anche nei commenti dei moralisti: «La mascolinizzazione della donna sotto tutti i punti di vista rappresenta un grande pericolo della civiltà contemporanea». Questo scriveva P. Leroy-Beaulier (citato da Grossmann) nel 1913, che concludeva con queste parole dense di preoccupazioni (di stampo capitalistico, beninteso) tutt’altro che infondate: «Le razze europee manterranno ancora a lungo una eccedenza degna di nota delle nascite rispetto ai decessi?». Calo demografico e immigrazione: in Europa non si sta forse discutendo di questo da molti anni? Allargare la base di valorizzazione e al contempo rendere più economica la sostanza vivente che realizza quella base: un difficile problema che come vediamo ha implicazioni di vario ordine.

Ho pensato al Giappone leggendo le pagine dell’assai istruttivo libro di Grossmann perché quel Paese oggi si confronta con una dinamica demografica molto più problematica di quella europea. Cito, e mi scuso, un mio post del 2015 dedicato appunto al Giappone:

«I giapponesi vantano il non invidiabile primato mondiale per quanto riguarda la loro età media: 44,7 anni. Quella giapponese è, infatti, la popolazione più vecchia del mondo, davanti a quella tedesca e italiana. Alla fine della Seconda guerra mondiale l’età media giapponese si aggirava intorno ai 22,5 anni: esattamente la metà di quella attuale. E se ancora a metà degli anni Settanta del secolo scorso il tasso di natalità in Giappone oscillava sopra il 2%, oggi il Paese deve fare i conti con una decrescita che fa registrare una contrazione della popolazione totale. Sulla scorta di dati basati sulla proiezioni del trend demografico degli ultimi anni, la popolazione giapponese potrebbe passare dagli attuali 125 milioni circa di abitanti a poco più di 80 milioni entro il 2060. La popolazione attiva del Giappone rappresenta una percentuale via via decrescente della popolazione del Paese. Oggi in quel Paese si va in pensione a 70 anni con il 35% dell’ultimo stipendio. L’incidenza delle pensioni sulla spesa pubblica attualmente non supera il 20% del PIL, ma secondo recenti stime questa incidenza potrebbe oltrepassare il 35% entro il 2035. […] Com’è noto, la società del Sol Levante è storicamente chiusa nei confronti di acquisti di popolazioni “barbare”: l’unico gruppo etnico non giapponese che vive nel Paese è quello Ainu, che conta circa 25.000 persone concentrate quasi interamente sull’isola di Hokkaido e sulle Isole Curili. “L’altissimo livello di coesione sociale e razziale della popolazione, che ha sperimentato pochissimi matrimoni misti con etnie diverse”, è alla base di “una coesione che si palesa non solo in un fortissimo senso di identità nazionale e in una specificità culturale, quanto anche – ed è questo che maggiormente impressiona gli occidentali – in una marcata enfasi su principi quali armonia sociale, ricerca del consenso, deferenza generazionale e subordinazione dei desideri individuali al bene collettivo” (P. Kennedy, Verso il XXI secolo, Garzanti, 1993). […] Insomma, la politica della purezza della razza oggi mostra tutti i suoi limiti, e la demografia del Giappone si è incamminata da anni lungo un sentiero molto problematico. Naturalmente qui non si fa riferimento a un’astratta demografia, alla demografia in sé, per così dire, ma alla questione demografica come viene configurandosi nel contesto di una società capitalistica collocata in un pianeta dominato dai rapporti sociali capitalistici. Insomma, una lettura malthusiana di questo problema è, almeno per chi scrive, del tutto priva di senso».

Ritorniamo adesso, per concludere rapidamente, al punto di partenza. Scriveva ieri Cristian Martini Grimaldi sulla Stampa: «Oggi i tassi di natalità più bassi hanno generato un invecchiamento precoce della popolazione e una diminuzione della forza lavoro che hanno messo in serio pericolo la futura crescita economica del Paese. […] Al momento tra le soluzioni contemplate non c’è quella di utilizzare l’immigrazione per compensare il declino. Basti considerare che l’anno scorso sono stati accolti appena 28 richiedenti asilo e 27 nel 2015. Non sorprende dunque se nella relazione annuale sulla politica estera pubblicata ogni anno dal ministero competente si legge già alla seconda pagina: “Il numero di persone che attraversano le frontiere è drammaticamente in crescita a causa della globalizzazione, questo fatto pone una grave minaccia per lo scoppio e la diffusione di malattie infettive”. Nessun cenno quindi alle risorse che potrebbero rappresentare i migranti, si parla solo di un loro potenziale pericolo». E come pensa di supplire all’assottigliamento della base di valore il capitalismo giapponese? È subito detto: automatizzando ogni settore dell’economia, dall’industria, com’è ovvio, ai servizi d’ogni tipo. «Ed ecco allora che lo staff dell’Henna Hotel di Nagasaki è stato rimpiazzato da un’eclettica schiera di robot, tra i quali una signora umanoide che annuisce e regala sprazzi di realistiche espressioni. Ora, per via del costante calo di manodopera, le aziende giapponesi hanno preso a reclutare personale meccanico alla stessa maniera di quello strano hotel».

Se non è possibile estendere fisicamente la base di valore, prosciugando sacche di lavoro umano non ancora “messo a valore”, è necessario intensificare lo sfruttamento di quella stessa base, la quale peraltro tende a restringersi, sia per una questione di calo demografico, sia perché l’intensificazione dello sfruttamento nel Capitalismo avanzato si traduce presto o tardi in un’espulsione di capacità lavorativa divenuta superflua ai fini della valorizzazione. Scriveva Marx: «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (7). Oggi parlerei di sottomissione totale del lavoro al capitale; di dominio totale e totalitario degli uomini e della natura da parte dei rapporti sociali capitalistici.

C’è un aspetto fondamentale della questione che bisogna considerare, e che qui mi limito a sfiorare. Elevando la composizione organica del capitale, espressione monetaria della composizione tecnologica di un’impresa, si innesca un meccanismo che da virtuoso (si eleva il saggio di sfruttamento del lavoro, definito marxianamente come saggio del plusvalore) tende a trasformarsi in vizioso (si abbassa il saggio del profitto, ossia il rendimento dell’intero capitale investito in una produzione di beni). Infatti, il robot può rendere più produttiva la forza-lavoro ma non può creare plusvalore nel processo produttivo di merci, plusvalore che rappresenta la base reale, la “struttura” che sorregge ogni tipo di profitto e di rendita, ogni superfetazione a carattere speculativo. «Non esiste un capitalista il quale applichi di buon grado un nuovo metodo di produzione quando questo, pur essendo assai più produttivo ed aumentando considerevolmente il saggio del plusvalore, provoca una diminuzione del saggio del profitto. Ma un tal metodo fa diminuire il prezzo delle merci» (8), e ciò consente al capitale tecnologicamente più avanzato, per così dire, di battere la concorrenza.

Insomma, i robot non potranno mai diventare la base di valorizzazione del XXI secolo, e questo non per un limite tecnologico o antropologico, ma per un irriducibile limite storico-sociale.

(1) Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(2) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1976.
(3) K. Marx, Il Capitale, I, p. 345, Editori Riuniti, 1980.
(4) E come teorizzava la stessa Rosa Luxemburg in un saggio del 1913: «La realizzazione del plusvalore è a priori legata in quanto tale a produttori e consumatori non-capitalistici. L’esistenza di acquirenti non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del problema dell’accumulazione del capitale» (R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 361, Einaudi, 1980).
(5) K. Marx, Il Capitale, III, p. 317, Editori Riuniti.
(6) K. Marx, Il Capitale, I, p. 103.
(7) K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976.
(8) K. Marx, Il Capitale, III, p. 318.

IL CAPITALE SECONDO VILFREDO PARETO

Nicola Porro ha letto – o riletto – Il Capitale di Vilfredo Pareto, un saggio critico scritto dall’eminente sociologo ed economista italiano nel 1885, e ripubblicato quest’anno dall’editore Aragno, e ne è rimasto letteralmente estasiato: «È favoloso vedere la lucidità di Pareto e scorgere in alcune sue critiche al marxismo, alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero dominante e collettivistico di oggi». Già solo questo ammirato giudizio ci fa comprendere quanto poco Porro abbia compreso Il Capitale marxiano, e questo, come vedremo, anche sulla pessima scia di Pareto (1). Con quanta superficialità e assenza di cultura storica Porro si approccia a Marx e al cosiddetto marxismo è ben rivelato dagli spassosi passi che seguono: «Alla fine dell’Ottocento Karl Marx è una star. È un Saviano [che faccio, rido?], si parva licet [ah, ah, ah!], su scala globale: è la cosa giusta, scritta nel momento giusto, e appoggiata dai salotti giusti. Sono in pochi a contestarlo [come no!]. Il socialismo è agli inizi, ma gode di grande fama». Ai «salotti giusti» è sufficiente aggiungere i «poteri forti» i «giornaloni» e i salotti radical-chic, ed ecco Marx trasformato in un Bertinotti qualunque, in un protagonista della scena politico-mediatica dei nostri miserabili tempi. Ma che film storico ha visto il signor Porro? Affari suoi, comunque, e del resto lui scrive per un pubblico che non vuole ragionare criticamente, ma desidera piuttosto intrupparsi in una delle tifoserie che movimentano la scena politica di Miserabilandia. Com’è noto, Porro ama tifare per le squadre che si schierano “a destra” del metaforico campo di gioco e che propugnano un capitalismo liberale/liberista insofferente nei confronti di ogni forma di statalismo. Ora, non avendo capito un solo fico secco degli scritti marxiani (ammesso che non si siano limitati a ripetere secolari quanto infondati luoghi comuni fabbricati dai detrattori dell’ubriacone di Treviri), i personaggi alla Porro credono che il comunista tedesco sia nientemeno il padre di tutti gli statalisti sinistrorsi, e quindi ritengono che attaccandolo raggiungono più facilmente il loro target. Ecco perché non mi sento minimamente chiamato in causa dalle «critiche al marxismo e ad alcuni tic che ancora contraddistinguono il pensiero dominante e collettivistico di oggi», critiche che anzi mi divertono alquanto proprio per l’inconsistenza dottrinaria di chi le formula.

Giustamente Porro scrive che, in generale, Pareto critica «la cosiddetta teoria del valore marxiana», e che tale critica è «cosa che oggi è diventata generalmente accettata»: dalla scienza economica borghese, mi permetto di aggiungere. D’altra parte è più che logico che sia così, considerato che la marxiana teoria del valore è in primo luogo una radicale critica dei rapporti sociali capitalistici, i quali sono, per Marx e per il modesto scolaretto che scrive, rapporti di dominio e di sfruttamento. Ma veniamo al peso massimo!

Il saggio di Pareto, scritto nel 1894 come Introduzione al più celebre testo marxiano pubblicato nel 1867 (2), esordisce osservando che «il libro di Carlo Marx dovrebbe intitolarsi il capitalista, piuttosto che il capitale, almeno se si vuole intendere quest’ultima parola nel senso, abbastanza generalmente ammesso, di beni economici destinati a facilitare la produzione di altri beni» (3). Già da queste poche frasi si capisce come l’intellettuale italiano non abbia compreso il concetto marxiano di capitale, e come egli si muova concettualmente all’interno di quella economia politica che Marx giustamente definì volgare, ossia priva di profondità analitica e ferma al punto di vista del pensiero comune, e robinsoniana, ossia priva di senso storico, tale cioè da trasformare le categorie dell’economia politica in platoniche idee eterne, perfettamente in grado di penetrare i misteri di ogni sistema economico-sociale: da Adamo ed Eva in poi. Attribuire un significato storico e sociale ben preciso alle categorie economiche adoperate dalla moderna economia politica, ebbe per Marx il significato di trattare la società borghese come un sistema sociale transeunte esattamente come lo furono le società che l’hanno preceduta, e facendo ciò egli si appropriò e al contempo superò il metodo storico-dialettico hegeliano, il quale aveva indicato appunto nella società borghese il compimento del processo storico.  A differenza di Marx, Pareto aveva dunque del capitale una concezione non storica ma metastorica, idealistica o, appunto, robinsoniana, come dimostra la seguente citazione: «Robinson nella sua isola aveva dei beni economici che egli impiegava nella produzione di altri beni, cioè aveva dei capitali, ma non aveva alcuna circolazione né di merci, né di denaro» (4). Per Pareto, anche l’arco e le frecce dei cacciatori primitivi rientrano a pieno titolo nella rubrica del capitale: robinsonate, appunto (5). Scrive Marx: «Nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione, non fosse altro questo strumento che la mano; nessuna produzione è possibile senza lavoro passato, accumulato, non fosse altro questo lavoro che l’abilità assommata e concentrata nella mano del selvaggio mediante l’esercizio ripetuto; il capitale è tra l’altro anche uno strumento di produzione, anche lavoro passato, oggettivato; dunque il capitale è un rapporto naturale eterno, universale. Ovverosia, a condizione che io tralasci proprio quell’elemento specifico che solo trasforma uno “strumento di produzione”, in un capitale» (6). Solo sotto determinate condizioni storiche lo strumento di produzione, la materia prima e lo stesso lavoro, ossia i fattori produttivi che incontriamo nelle diverse formazioni storico-sociali, assumono la natura di capitale, e ciò per Marx si realizza nella forma capitalisticamente più “pura” – ossia peculiare – nel momento in cui il produttore immediato della ricchezza sociale (l’operaio, il contadino) viene violentemente allontanato dal possesso dei fattori produttivi e, quindi, dal prodotto del suo lavoro, la cui proprietà è presa in carico in forma monopolistica dal Capitale – non importa quale forma giuridica assume la proprietà capitalistica (7).

Ma per Marx è l’esempio robinsoniano in quanto tale che non ha la benché minima consistenza “scientifica”, un briciolo di senso che non sia quello di mettere in luce la concezione ingenua e fallace del processo sociale di chi lo adopera credendo di poter semplificare fondatamente passaggi logici e storici. «Il singolo ed isolato cacciatore e pescatore con cui cominciano Smith e Ricardo, appartengono alle immaginazioni prive di fantasia che hanno prodotto le robinsonate del XVIII sec. […] La produzione dell’individuo isolato al di fuori della società è un tale assurdo quanto lo è lo sviluppo di una lingua senza individui che vivano insieme e parlino tra loro. Ma è inutile indugiare su questo punto. E non ci sarebbe neppure bisogno di toccarlo se questa insulsaggine, che aveva un senso e una ragione per gli uomini del XVIII secolo, non fosse stata reintrodotta seriamente nel bel mezzo dell’economia più moderna da Bastiat, Carey, Proudhon ecc.» (8). Un’insulsaggine che evidentemente ha fatto breccia anche nel pensiero “scientifico” di Pareto. E non per caso.

Pareto distingue il capitale semplice, che sarebbe più corretto definire capitale eterno («beni destinati alla produzione di altri beni»), e capitale appropriato, «capitale che funziona nelle mani dei capitalisti»: «Il libro di Carlo Marx è evidentemente diretto contro questa categoria di capitali, o, in altri termini, contro i capitalisti. quanto al capitale semplice, Carlo Marx non ne disconosce per nulla l’importanza. […] È il capitalista il nemico» (9). Secondo il nostro scienziato sociale Marx vorrebbe salvare il Capitale e annientare i capitalisti. Ora, anche un modestissimo lettore dei testi marxiani, qual è certamente chi scrive, non può che sorridere dinanzi a una sciocchezza così grossolana; è noto, infatti, che Marx scrisse che si occupava dei singoli capitalisti solo nella loro qualità di funzionari del Capitale, in quanto personificazione (incarnazione) di esso. Per Marx, infatti, il capitale è in primo luogo un rapporto sociale storicamente determinato, e per questo la “fenomenologia” giuridica riguardante la sua proprietà (privata, statale, mista, cooperativistica, azionaria) nulla toglie e nulla aggiunge alla sua sostanza storica e sociale. Su questa infondata interpretazione dei testi marxiani è potuta nascere la miserabile leggenda del Marx statalista. Sulla differenza abissale che corre tra statalizzazione e socializzazione rimando al mio post Sul concetto di socializzazione.

A differenza dei socialisti piccolo-borghesi del suo tempo, che piagnucolavano sui “lati negativi” dello sviluppo capitalistico e che propugnavano un ritorno della società borghese verso forme meno “selvagge” e disumane di economia mercantile, Marx si sforzò di individuare piuttosto le cause di fondo che rendono assolutamente necessario il continuo sviluppo delle forze produttive sociali in regime capitalistico, un imperativo categorico che periodicamente entra in conflitto con la vitale ricerca del profitto; non si trattava, per lui, di superare i “lati cattivi” del Capitalismo e di conservarne i “lati buoni”, oppure di restaurare forme economiche ormai superate, che peraltro avevano preparato il terreno per la nascita della moderna società borghese, ma di oltrepassare in avanti, con una coraggiosa – o magari semplicemente disperata! – corsa rivoluzionaria, il regime sociale capitalistico, e mettere finalmente al servizio dell’intera umanità quanto il millenario processo storico-sociale ha prodotto in termini di conoscenze tecniche e scientifiche (10). Questo atteggiamento storico (materialistico), così distante dall’indignazione moralistica del piccolo-borghese progressista, nei confronti del Capitalismo ha indotto nella testa dei lettori più superficiali e indigenti di dialettica dei tasti marxiani l’idea che Marx fosse, sotto sotto, un entusiasta apologeta dello sviluppo capitalistico: niente di più falso e di più ridicolo! Bisogna riconoscerlo: la dialettica materialistica non è pane per i denti degli scienziati sociali che amano proiettare la propria insulsaggine dottrinaria sul pensiero altrui. Almeno questa è la convinzione di chi scrive.

Scrive Marx: «La particolare, specifica funzione del capitale è la produzione di plusvalore che non è niente altro che produzione di pluslavoro, appropriazione di lavoro non pagato nel reale processo produttivo, che si presenta materializzato come plusprodotto» (11). Come si vede, qui Marx parla della funzione peculiare del capitale, non del capitalista, e analoghe precisazioni si trovano in diverse pagine del Capitale, testo che concepisce il Capitalismo non come la risultante di molteplici scelte economiche prese dai detentori di capitali, ma come il primo modo di produzione realmente sociale apparso sulla scena storica. La stessa teoria marxiana del valore (a cominciare dalle distinzioni tra valore e prezzo di produzione, tra lavoro concreto e lavoro astratto, tra plusvalore e profitto) non è accessibile alla comprensione se non si tiene fermo il principio della totalità sociale che informa l’analisi critica marxiana. E difatti Pareto mostra di non comprendere, per l’essenziale, il nocciolo di questa teoria, anche perché egli tratta come un cane morto il lascito dottrinario degli economisti classici: «Noi riputiamo, per nostro conto, assolutamente oziosa, nello stato attuale della scienza, ogni discussione che non abbia altro scopo che di sapere che cosa si deve intendere per valore, capitale, o altre simili espressioni. È questa una questione che appartiene alla filologia, ma non già alla scienza economica» (12). Per Pareto la sostanza storica e sociale del valore, del capitale, della merce, del lavoro salariato o di altre simili “cose” non rappresenta un problema ma un fatto del tutto privo di misteri da svelare, di zone d’ombra da rischiarare attraverso l’analisi. Mentre per la scienza economica positiva – e apologetica – il rapporto sociale capitalistico è un dato, un fatto compiuto che bisogna accettare acriticamente alla stregua del contadino che accetta l’esistenza della terra, del sole e della pioggia come intangibili ed eterni elementi naturali (13), per Marx all’opposto questo rapporto sociale rappresenta un problema, anzi: il problema, da sviscerare e approfondire in tutti i suoi complessi e contraddittori aspetti. Per lui «il capitale [è] un essere incredibilmente misterioso», e lo è soprattutto perché «la produzione capitalistica sviluppa su grande scala le condizioni del processo lavorativo come potenze dominanti il singolo lavoratore e a lui estranee. […] Le condizioni di lavoro si accumulano come forze sociali che si impongono al lavoratore e, in questa forma, vengono capitalizzate» (14). È in questa dimensione di pura alienazione/reificazione che le forze sociali assumono l’aspetto di capitale, almeno nell’accezione marxiana del concetto che personalmente sposo in toto. Ed è esattamente questa mostruosa (disumana) dimensione che conferisce un grado altissimo, e mai conosciuto nella storia umana, di irrazionalità all’economia che ha fatto dell’uso della scienza e della tecnica la sua stessa condizione di esistenza. Naturalmente per lo scienziato sociale “oggettivo” e “avalutativo” tutte queste considerazioni non sono che fuffa filosofica che niente a che fare ha con l’analisi puntuale e rigorosa dei fatti economici; ciò è perfettamente conforme alla sua concezione feticistica del processo che crea e distribuisce la ricchezza sociale in regime capitalistico. Lo stesso feticismo, ancor prima che nelle teste degli economisti “avalutativi”, si sviluppa nella realtà del processo produttivo: «non i mezzi di produzione, le condizioni materiali del lavoro appaiono sottomessi al lavoratore, ma questo ad essi. È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto, nella sua semplicità, è personificazione delle cose e reificazione delle persone» (15). Il recente dibattito intorno all’uso sempre più massiccio e “pervasivo” delle cosiddette tecnologie intelligenti è interamente orientato dalla concezione feticistica di cui parla Marx (16).

Pareto non comprese che tutta la sua costruzione teorica intorno al concetto di utilità economica (ofelimità) può avere un qualche fondamento empirico solo a valle, per così dire, della legge del valore-lavoro, mentre non può sostituirla in alcun modo. Ciò si può dire in analogia con la legge della domanda e dell’offerta, la quale agisce su una sostanza di valore già creata, influenzando la dinamica dei prezzi solo post festum, a valore di scambio creato nel processo produttivo. Un conto è la formazione del valore, un altro l’oscillazione sul mercato della sua espressione monetaria. Prescindendo dalla teoria del valore-lavoro l’ofelimità paretiana può dirci qualcosa di minimamente interessante sul versante della psicologia di massa, non certo su quello del processo economico capitalistico.

Quando poi Pareto scrive che la scienza economica «si occupa dei rapporti fra cose e non fra persone», egli mostra in tutta la sua ingenuità quello che Marx definì con azzeccatissima locuzione feticismo delle merci, fondamento di ogni sorta di feticismo economico (cioè a dire relativo al denaro, alla tecnologia e così via), il quale non consente di capire che «quel che assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi» (17). Ripetiamo per l’ennesima volta il celebre versetto marxiano in sfregio alla scienza sociale “avalutativa”: il Capitale non è una cosa, né una relazione fra cose, ma un peculiare rapporto sociale. L’economia volgare postclassica che si “emancipò” dalla scottante teoria del valore-lavoro di Smith e Ricardo nella prassi economica vede solo movimenti di grandezze fisiche (macchine, materie prime, lavoratori, capitali finanziari, ecc.), mentre il rapporto sociale Capitale-Lavoro che rende possibile e spiegabile sul terreno storico-sociale tali movimenti non li riguarda neanche un po’. E si capisce bene perché!  La più recente scienza economica si è illusa di poter nascondere la propria volgarità e la propria impotenza analitica sotto un gigantesco edificio di equazioni e di concetti matematici che incutono timore solo in chi non ha avuto la ventura di leggere senza pregiudizi Marx e di conoscere, attraverso la sua mediazione critica, i fecondi studi dei fondatori dell’economia politica. La marxiana teoria del valore, che è in primis la teoria dello sfruttamento del lavoratore, “manuale” o “intellettuale” che sia, da parte del Capitale, purtroppo è più viva che mai!

Più in generale, se l’approccio puramente oggettivo, descrittivo e “avalutativo” con la realtà fenomenica è un’ingenua illusione nella sfera della scienza naturale, figuriamoci se esso può godere di maggior credito nel campo dei fenomeni sociali, nella dimensione cioè degli interessi sociali più disparati e, soprattutto, dei conflitti sociali dovuti alla divisione classista degli individui (18). Scriveva Adorno: «Allo stesso modo che da un punto di vista sociale e contenutistico l’apatia politica rivela un carattere politico, lo stesso avviene per la tanto elogiata neutralità scientifica. Da Pareto in poi la scepsi positivistica si è sempre messa d’accordo con il potere esistente, anche con quello di Mussolini. Poiché tutte le teorie sociali sono intrecciate con la società reale, di ciascuna di esse è certamente possibile abusare, o trasformare la funzione, a scopi ideologici; ma il positivismo … si presta specificamente all’abuso ideologico, a causa della sua indeterminatezza contenutistica, del suo modo di procedere che è un incasellare e ordinare, e, infine, della preferenza accordata all’esattezza [il più delle volte semplicemente formale] rispetto alla verità» (19). E la verità parla il duro linguaggio del dominio di classe. Se tu, scienziato “avalutativo” e in ottima fede, non ti occupi (non riconosci) il rapporto sociale dominante, esso si occupa di te, alle tue spalle!

Ma riprendiamo la citazione marxiana lasciata in sospeso: «Le funzioni che il capitalista esercita non sono allora se non funzioni dello stesso capitale – del valore che si valorizza assorbendo valore vivo – espletate con coscienza e volontà: il capitalista funziona unicamente come capitale personificato, capitale-persona, allo stesso modo che l’operaio funziona come lavoro personificato […] Il dominio del capitalista sull’operaio è quindi dominio della cosa sull’uomo, del prodotto sul produttore. […] L’autovalorizzazione del capitale – la creazione di plusvalore – è dunque lo scopo preciso e ossessivo del capitalista, la molla ed il contenuto assoluto del suo operare, […] un contenuto, quindi, astratto e meschino che fa apparire il capitalista completamente sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico non meno che, al polo opposto, l’operaio». Qui addirittura lo stesso capitalista appare nei panni della vittima costretta a sacrificarsi al Moloch sociale chiamato Capitale. Ma, continua Marx, mentre in questa dimensione disumana e alienante il capitalista trova «un assoluto appagamento», «l’operaio, in quanto sua vittima, si pone sin dall’inizio in un rapporto di ribellione, e lo avverte come un processo di asservimento» (20). Tuttavia, una volta eliminati per ipotesi (cara agli statalisti di tutte le tendenze ideologiche e politiche) i singoli capitalisti (21) senza intaccare il rapporto sociale capitalistico che tutto e tutti domina, l’umanità non avrebbe fatto un solo passo avanti sulla strada della sua emancipazione da ogni forma di sfruttamento e di asservimento.

Non avendo compreso, fra l’altro, il concetto marxiano di capitale Pareto fece del comunista di Treviri il precursore del «socialismo di Stato», o «socialismo popolare», come egli lo definì in opposizione al «socialismo borghese», ossia allo statalismo propugnato dai partiti borghesi che egli detestava in quanto economista liberale/liberista; cioè a dire di quel «socialismo», soprattutto nella sua versione lassalliana, contro cui l’uomo con la barba ebbe modo di polemizzare per tutta la sua  tormentata vita. È sufficiente leggere la Critica del programma di Gotha (1875) per capire di che parlo. È così che si spiega la fesseria paretiana che segue: «Bisognerebbe completare la teoria di Carlo Marx colla legge di bronzo di Lassalle perché la dimostrazione [della sua pochezza dottrinaria] fosse completa» (22). Ora, tutto si può dire di Marx, tranne che egli non abbia deriso e combattuto, in quanto concettualmente falsa e politicamente pericolosa (reazionaria), la legge bronzea del salario! (23)

Diamo dunque la parola all’accusato! «È noto che della “legge bronzea del salario” appartiene a Lassalle soltanto la parola “bronzea”, presa in prestito dalle “eterne, bronzee, grandi leggi” di Goethe. La parola “bronzea” è un sigillo che permette agli ortodossi di riconoscersi tra loro. […] Lassalle non sapeva che cosa fosse il salario, ma, sulla scia degli economisti borghesi, prendeva la parvenza per la sostanza della cosa» (24). Una puntuale critica marxiana della legge bronzea del salario, la quale nella sua impostazione concettuale deve molto a Malthus, si trova in Salario, prezzo e profitto, un saggio “popolare” che Marx scrisse nel 1865 per confutare le tesi “bronzee” di John Weston, un operaio seguace di Owen. Riporto solo alcuni passi, tanto per dare al lettore un’idea del suo contenuto: «La volontà del capitalista consiste certamente nel prendere quanto più è possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non è di parlare della sua volontà, ma di indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti. […] Il cittadino Weston ha dimenticato che la zuppiera nella quale mangiano gli operai è riempita dall’intero prodotto del lavoro nazionale e che ciò che impedisce loro di prenderne di più, non è né la piccolezza della zuppiera, né la scarsità del suo contenuto, ma soltanto la piccolezza dei loro cucchiai» (25). Caspita! Ma allora possiamo annoverare Marx fra i riformatori sociali che si battono per rendere più grande il cucchiaio “degli ultimi”? Marx come un Bertinotti o un Bergoglio qualsiasi? Ma neanche per idea! Infatti egli conclude il saggio come segue: «Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto. […] Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande. Nello stesso tempo la classe operaia non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato.  […] Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera  il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» (26). La lotta economica per strappare al Capitale migliori condizioni di lavoro e di vita come palestra di lotta di classe. Lo so, non è dialettica che gli scienziati sociali positivi possono facilmente comprendere, né si sforzano di farlo: a che pro, del resto?

Scrive Pareto: «Marx cade nell’errore di non fare abbastanza attenzione a ciò: che il valore d’uso non è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbe la composizione chimica, ma è al contrario un semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini. Questo errore è ancora più manifesto per il valore di scambio, ed è una delle cause principali del sofisma che si trova nella teoria del plus-valore». Ora, non riesco proprio a capire dove Pareto ha letto la sciocca idea sul valore d’uso che mette in testa a Marx, il quale storicizzò perfino i cinque sensi umani: «I sensi dell’uomo sociale sono diversi da quelli dell’uomo non sociale. Soltanto attraverso l’intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell’essere umano, viene in parte educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell’uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell’uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l’amore, ecc.), in una parola il senso umano, l’umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l’esistenza dell’oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L’educazione dei cinque sensi è un’opera di tutta la storia del mondo sino ad oggi» (27). Per Marx l’uomo ha un rapporto storico-sociale con tutto ciò con cui egli entra in rapporto (28), e d’altra parte nemmeno un incallito materialista volgare può pensare che «il valore d’uso è una proprietà inerente a ciascuna merce, come sarebbe la composizione chimica» di un qualsivoglia oggetto; lo stesso concetto di valore d’uso rinvia immediatamente oltre la “cosa in sé”, in direzione del soggetto consumatore; piuttosto sarebbe da precisare il «semplice rapporto di convenienza tra una merce e uno o più uomini» di cui parla, con la superficialità (banalità) tipica dell’economia postclassica,  Pareto. Anche per questo egli appare quantomeno poco credibile quando parla della teoria del plus-valore, che non poteva capire a causa della sua falsa concezione del capitale (e del Capitale), nei termini di un sofisma.

Ciò che a Marx interessa porre in evidenza per ciò che riguarda il valore d’uso è la sua derivazione dai bisogni sociali e dal lavoro umano chiamato a conferire al corpo della materia prima sottoposta alla manipolazione umana impieghi (usi) sempre nuovi, in aderenza agli sviluppi nella struttura produttiva (nuove tecnologie) e, più in generale, nella struttura sociale (nuovi bisogni). «Dove e quando è stato costretto dal bisogno di coprirsi, l’uomo ha tagliato e cucito per millenni, prima che un uomo divenisse sarto. Ma l’esistenza dell’abito, della tela, di ogni elemento della ricchezza materiale non presente nella natura, ha sempre dovuto essere procurata mediante un’attività speciale, produttiva in conformità a uno scopo, che assimilasse particolari materiali naturali a particolari bisogni umani. Quindi il lavoro, come formatore di valori d’uso, come lavoro utile, è una condizione di esistenza dell’uomo, indipendentemente da tutte le forme della società» (29).Viceversa, il valore di scambio presuppone l’esistenza di una peculiare forma di società, nel cui seno lo scambio tra prodotti è mediato dal denaro in quanto «misura di valore», come «forma fenomenica necessaria della misura immanente di valore delle merci, del tempo di lavoro» (30). Può anche darsi che Pareto si sia fatto suggestionare dal fatto che Marx definisce il valore d’uso come «ricchezza materiale», ma la natura di questa «ricchezza materiale» è ben spiegata dall’autore del Capitale. Nel suo libro Marx cerca di spiegare perché «la ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci», con ciò che tale indiscutibile circostanza, nel XXI secolo molto più vera di quanto non lo fosse nel XIX, presuppone e pone sempre di nuovo in ogni ambito della prassi sociale e nella vita di ogni singolo individuo. È possibile liberare il valore d’uso dei prodotti del lavoro (che oggi hanno appunto la maligna natura di merci, “materiali” o “immateriali” che siano) dalla schiavitù del valore di scambio? Per Marx sì, e, si parva licet, anche per il sottoscritto. Qui però bisogna mettere fine alla cosa!

Ovviamente si può anche essere in completo disaccordo con il punto di vista marxiano concernente la natura del Capitale (che ho il vezzo di scrivere con la “c” maiuscola proprio per enfatizzarne la sostanza storico-sociale, il suo essere in primo luogo un rapporto sociale), ma intanto bisognerebbe capirlo, e a me pare che Pareto neanche riuscì a sfiorare l’essenza teorica e politica del Capitale marxiano. Più in generale, egli concepì l’organizzazione economica capitalistica come un ancorché di naturale, la cui stabilità e razionalità sono continuamente messe in crisi da una generica quanto capricciosa «natura umana». L’economia come la sfera della pura razionalità, della pura logica; la società come il regno dell’irrazionalità e dell’illogicità: questa ingenua dicotomia, così tipica in un pensiero indigente di profondità concettuale, di senso storico e di dialettica, non fa i conti col fatto che è proprio nella sfera economica che si realizza quell’inversione di oggetto e soggetto, di strumento di lavoro e lavoratore, di prodotto e produttore che rappresenta la madre di tutte le irrazionalità generate dalla vigente società, e che non a caso ho posto come filo conduttore di questo modesto scritto.

 

(1) «Vilfredo Pareto nasce il 15 luglio 1848 a Parigi, dove si era rifugiato nei primi anni Trenta suo padre Raffaele (1812-1888), nobile genovese, esperto di ingegneria idraulica e mazziniano, personaggio dalla ricca e poliedrica personalità che ebbe un ruolo importante nell’educazione scientifica del figlio. La madre Marie Métenier (1813-1889) era invece francese. Ancora bambino, Vilfredo torna a Genova (probabilmente nel 1854) e, a Casale Monferrato prima, a Torino poi, frequenta l’istituto tecnico nella sezione industriale. Quindi, sempre a Torino, si iscrive alla facoltà di Scienze, e quindi alla Scuola di applicazione per ingegneri, dove nel 1870 ottiene a pieni voti il diploma di ingegnere. […] In quegli anni legge anche gli Éléments d’économie politique pure di Walras, ma non ne resta affascinato. La conversione alla nuova economia, quella matematica e marginalista, è legata all’incontro con Pantaleoni. Maffeo Pantaleoni era l’economista italiano più originale del periodo (prima dell’arrivo di Pareto), il “principe degli economisti italiani”, come lo definì Piero Sraffa e dopo di lui molti altri economisti del Novecento. Il rapporto con Pantaleoni sarà fondamentale per lo sviluppo della teoria economica di Pareto» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani).
(2) V. Pareto, Introduzione a K.Marx, Il Capitale, Sandron, 1894. Ho letto il saggio di Pareto nella versione pubblicata dalla UTET nel 1934 insieme ad altri saggi.
(3) V. Pareto, Il Capitale, in AA. VV., Politica ed Economia, p. 141, UTET, 1934-XII. In una lettera del 1893 indirizzata a Maffeo Pantaleoni Pareto scrive, riferendosi a Marx, che «quell’autore vale poco», e che se ne occupava solo perché anche in Italia molti intellettuali si stavano convertendo alla nuova “religione” marxista (Lettere a Maffeo Pantaleoni, 1890-1923, I, p. 349, Edizioni di Storia e Letteratura, 1962).
(4) V. Pareto, Il Capitale, p. 141.
(5) «L’economia politica predilige le robinsonate. […] Perfino il Ricardo ha la sua robinsonata. Secondo lui i pescatori e i cacciatori primitivi si scambiavano subito pesce e selvaggina, come se fossero possessori di merci, nel rapporto del tempo di lavoro oggettivato in questi valori di scambio. Questa volta, egli cade nell’anacronismo di far consultare al cacciatore e al pescatore primitivi, per calcolare i loro strumenti di lavoro, le mercuriali in uso nel 1817 alla borsa di Londra» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 108, Editori Riuniti, 1980).
(6) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I,  p. 7, La Nuova Italia, 1978.
(7) «Come racconta Marx nel suggestivo capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria), il punto di partenza dello svolgimento storico-sociale che porta alla moderna società borghese non è rappresentato dal denaro, dalla sua rivoluzionaria immissione in un ambiente economico altrimenti destinato a rimanere inchiodato a secolari prassi e tradizioni, ma dall’allontanamento violento (anche con l’ausilio del diritto borghese) dei produttori immediati (contadini e artigiani, in primis) dalla proprietà dei presupposti oggettivi della loro produzione e, dunque, dalla proprietà del loro prodotto: questa doppia proprietà, che realizza i nuovi rapporti sociali borghesi, si concentra nelle mani dei capitalisti.  In questo contesto il lavoro salariato si trova in una condizione di totale soggezione nei confronti del Capitale, in una condizione sociale di pura alienazione: gli strumenti di lavoro, la materia prima lavorata e il prodotto del lavoro si ergono come potenze estranee e ostili a chi lavora. Il lavoratore come oggetto della produzione; il Capitale come soggetto della produzione: un mondo invertito che oggi più di ieri genera irrazionalità d’ogni genere e continui mal di testa esistenziali, se così posso esprimermi» (Sul concetto di socializzazione).
(8) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I,  pp. 3-6.
(9) V. Pareto, Il Capitale, p.143.
(10) ) «Questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda» (K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 34, Editori Riuniti, 1972).
(11) K. Marx, Il Capitale, Libro VI inedito, p. 7, Newton, 1976.
(12) V. Pareto, Il Capitale, p. 141.
(13) «Il dialogo con Croce culmina in una polemica pubblica, ospitata sul Giornale degli economisti nel 1900-1901, attorno al “principi”» e al “fenomeno” economico. Il tema al centro del dialogo con Croce è il ruolo dei “fatti” nella scienza economica. L’economia “sperimentale” di Pareto si fonda sui fatti, considerati più affidabili, dal punto di vista epistemologico, delle categorie di “utilità” o “valore” che riscontrava nella scienza economica del tempo. Croce, dalla sua prospettiva idealista, cercò in quegli anni di mostrargli che i fatti, in realtà, sono meno semplici di quanto Pareto (e i positivisti) pensassero: i fatti hanno bisogno di categorie pre-empiriche che li possano far “parlare”, altrimenti sono spesso muti e sempre equivoci. In particolare, Croce cercò di mostrare che sotto questa fede nei fatti si nasconde una religione, una metafisica: quella positivista. Un corollario di questa fede consiste nel considerare i fatti dell’uomo non sostanzialmente diversi dai fatti della natura, un assunto chiave di Pareto e di tutti i monisti metodologici. Le domande di Croce non convertirono Pareto, lo portarono piuttosto a una fede positivista ancor più radicale. […] Einaudi esprime bene il senso del rapporto tra questi due protagonisti della cultura italiana: “Il Pareto non badò al Croce e scrisse il Trattato di Sociologia Generale, applicando allo studio delle leggi le quali governano le società umane un metodo di classificazioni in tipi e sottotipi […] profondamente ripugnante a chi sia fornito di quel minimo di istinto storico”» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani).
(14) K. Marx, Il Capitale, Libro VI inedito, p. 84.
(15) Ibidem, p. 82.
(16) K. Marx, Il Capitale, I, p. 104.
(17) Su questi aspetti rinvio a diversi miei scritti scaricabili dal Blog: Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(18) «Per Pareto, l’economia è una scienza semplice, perché studia azioni prevedibili, regolari, in quanto azioni logiche. Il difficile delle scienze sociali inizia allora con la sociologia, scienza del non logico.
L’economia viene così ridotta da Pareto allo studio delle sole azioni logiche che gli esseri umani pongono in essere per soddisfare al meglio i propri interessi. L’unica forma di razionalità consentita all’homo oeconomicus è dunque quella strumentale; l’unico paradigma da prendere a riferimento è quello della fisica newtoniana» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani). Per Claudio Napoleoni «la teoria marginalista è la rappresentazione di un mondo armonico, il quale tende all’equilibrio, e sia nelle configurazioni di equilibrio, sia nei processi con cui accidentalmente si discosta da esse è descrivibile mediante modelli non dissimili da quelli con cui la scienza naturale descrive la realtà fisica. Ora la storia del capitalismo ha mostrato in misura crescente che la realtà capitalistica non è una realtà armonica, ma al contrario procede per squilibri, crisi, antagonismi» (C. Napoleoni, Smith, Ricardo, Marx, p. 11, Boringhieri, 1973). E difatti la grande crisi del ‘29 distruggerà definitivamente ogni illusione “armonicista” anche nel campo della “scienza economica”; l’invocazione dell’intervento dello Stato per salvare il meccanismo economico attraverso la regolazione della domanda, della distribuzione del reddito e attraverso la programmazione della produzione segnerà la definitiva scomparsa del pensiero marginalista, e costringerà la moderna “scienza economica” a uscire fuori dalla retorica neo-armonica e a misurarsi con le contraddizioni capitalistiche, a partire da quella più importante e rivelatrice di tutte le altre: la crisi economica, appunto.
(19) T. W. Adorno, Scritti sociologici, p. 272, Einaudi, 1976. «La teoria delle élites diventerà negli anni un elemento centrale nel pensiero di Pareto, in quanto strumento per sostenere la sua tesi. […] In Pareto, questa posizione ideologica elitaria e sempre più critica delle masse e del consenso popolare con il passare degli anni si accentuerà, al punto che egli diverrà uno dei teorici che giustificarono e approvarono l’emergere del fascismo» (L. Bruni, Enciclopedia Treccani). Scivolare in una concezione ultrareazionaria della società è quello che spesso capita a chi critica la massificazione degli individui e la demagogia democratica come strumento di consenso e di controllo sociale da una prospettiva “aristocratica”. Io mi sforzo di farla, quella critica, cercando di conquistare un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionario. Ci riesco? Lasciamo stare!
(20) K. Marx, Il Capitale, Libro VI inedito, pp. 18-19.
(21) «La produzione capitalistica stessa ha portato a questo, [ossia al] lavoro di direzione totalmente separato dalla proprietà del capitale. È divenuto assolutamente inutile che questo lavoro di direzione sia esercitato da capitalisti» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, pp. 515, Einaudi, 1958).
(22) V. Pareto, Il Capitale,   p. 169.
(23) Com’è noto, Ferdinand Lassalle sosteneva che anche in presenza di una congiuntura economica «propizia, generale e durevole, l’aumento dei salari che si verifica a poco a poco genera un tale aumento di matrimoni e di famiglie operaie e un tale aumento di domanda di lavoro che, di regola, viene compensata con ciò la crescente offerta di lavoro, e il salario cade di nuovo al suo antico livello o sotto di questo» (F. Lassalle, Capitale e lavoro, ed. Samonà e Savelli, 1970).  Per dirla con Engels, secondo Lassalle «l’operaio riceve in media solo il minimo del salario perché secondo la teoria della popolazione di Malthus vi sono sempre troppi operai»: di qui, sempre secondo il parere del bronzeo socialista tedesco, la sostanziale inutilità delle lotte operaie sul terreno delle rivendicazioni economiche.
(24) K. Marx, Critica del programma di Gotha, pp. 48-49, Savelli, 1975.
(25) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, pp. 36-38, Newton, 1976.
(26) Ibidem, pp. 115-116. Le Trade Unions non mirano ad altro che ad impedire l’abbassamento del salario al di sotto del suo livello tradizionalmente dato nei diversi rami di commercio, a impedire la riduzione del prezzo della capacità lavorativa al di sotto del suo valore (K. Marx, in appendice a Il Capitale, Libro VI inedito, p. 126).
(27) K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del ’44, p. 48, MIA, 2007.
(28) Mi scuso e mi cito: «L’uomo è tale (naturalmente, storicamente e socialmente) nella misura in cui oppone resistenza, “materiale” e “spirituale”, alle cose e agli eventi, e non li subisce passivamente. Come ho scritto altre volte, balbettando abbastanza ignobilmente concetti hegelo-marxiani, l’uomo è la specie che pone la mediazione: “Medio, dunque esisto!”. L’uomo pone il mondo come una mediazione tra sé e l’ambiente circostante, e lo fa naturalmente, spontaneamente, cioè a dire prima che la cosa diventi oggetto della sua riflessione, la quale peraltro non tarda a bussare alla sua porta: ed ecco la filosofia, la scienza, l’arte, la religione, e così via. Mediare significa comprendere, trasformare e padroneggiare il mondo, tanto quello “esterno” quanto quello “interno”, e senza soluzione di continuità reale e concettuale tra questi momenti: nel caso dell’uomo è impossibile immaginare un impulso ad agire per soddisfare una necessità vitale che sia privo di un qualche fondamento razionale, non importa quanto “sofisticata” e adeguata alla “verità oggettiva” sia la sua manifestazione» (Sul potere sociale della scienza e della tecnologia).
(29) K. Marx, Il Capitale, I, p. 75.
(30) Ibidem, p. 127.

A DOMANDA RISPONDE

Papa Francesco: «Cosa c’è all’origine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo?».
Sebastiano: Rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. Nel XXI secolo questi rapporti si compendiano nel concetto di Capitalismo e nella sua demoniaca prassi, che oggi ha una dimensione mondiale.

Papa Francesco: «Cosa c’è all’origine del degrado e del mancato sviluppo?».
Sebastiano: La contraddittoria manifestazione di quei rapporti sociali.

Papa Francesco; «Cosa c’è all’origine del traffico di persone, di armi, di droga?»
Sebastiano: L’economia fondata sul profitto «predato», «smunto», «estorto», «scroccato» ai lavoratori nelle onestissime imprese che producono beni e servizi. Su questa base virtuosa si erge l’edificio di una società completamente dominata dal denaro, la cui origine, com’è noto, non puzza, non ha colore, non ha sesso, non ha razza, non ha religione (fratello Jihadista si fa per dire!), è del tutto impersonale, è soprattutto disumana. Non c’è magagna sociale che non realizzi un’occasione di profitto per chi ha le giuste “competenze specifiche” (da quelle giurisprudenziali a quelle malavitose, da quelle sanitarie a quelle criminali) da far valere sul mercato: è il Capitalismo, Santità!

Papa Francesco: «Cosa c’è all’origine dell’ingiustizia sociale e della mortificazione del merito? Cosa, all’origine dell’assenza dei servizi per le persone? Cosa, alla radice della schiavitù, della disoccupazione, dell’incuria delle città, dei beni comuni e della natura? Cosa, insomma, logora il diritto fondamentale dell’essere umano e l’integrità dell’ambiente?».
Sebastiano: Azzardo una risposta originale: il maledetto rapporto sociale di cui sopra!

Per Sua Santità la causa è invece un’altra: «La corruzione, che infatti è l’arma,  è il linguaggio più comune anche delle mafie e delle  organizzazioni criminali nel mondo. Per questo, essa è un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte delle mafie e delle organizzazioni criminali». Di qui, la sua “rivoluzionaria” idea di scomunicare i corrotti e i mafiosi.

Ora, chi sono io per obiettare al Santissimo Padre che è il profitto il linguaggio comune di tutte le attività imprenditoriali, comprese quelle mafiose e quelle che fanno capo alle «organizzazioni criminali nel mondo»? Chi sono io per obiettargli che è il Capitale in sé che dà corpo a «un processo di morte che dà linfa alla cultura di morte»? E difatti, come sempre, non gli obietto un bel nulla: non è che il poveruomo può scomunicare, dalla sera alla mattina, un intero regime storico-sociale! Un  po’ di sano realismo, per favore. E poi anche il Papa ha il sacrosanto diritto di vendere un po’ di ideologia al popolo indignato e affamato di capri espiatori. Che il Capo dei Capi Totò Riina crepi in carcere e senza il conforto di Nostro Signore!
Non sarò diventato anch’io un pochino populista? Che tempi! Che tempi!