CONTRO L’IMPERIALISMO ITALIANO! CONTRO L’IMPERIALISMO EUROPEO! CONTRO L’IMPERIALISMO STATUNITENSE! CONTRO IL SISTEMA IMPERIALISTA MONDIALE!

«Si chiama “Soleimani martire” la risposta dell’Iran all’uccisione con un drone, ordinata da Donald Trump, del noto generale comandante della Brigata al-Quds dei Pasdaran» (Notizie Geopolitiche). Ci sarà modo di parlarne nei prossimi giorni, se non nelle prossime ore; qui mi limito a registrare la possibile micidiale saldatura delle due crisi in corso nel cosiddetto Medio Oriente allargato: quella irachena/iraniana e quella libica. Di seguito “socializzo” alcune riflessioni abbozzate nei giorni scorsi.

In Iraq, in Libia, in Libano e altrove i militari italiani non rischiano la pelle a causa dell’altrui bellicismo, ma semplicemente perché l’Italia, nel suo “piccolo”, è parte organica del Sistema Imperialista Mondiale. La presenza militare e civile (tipo ospedali da campo, ecc.) del nostro Paese in diversi teatri “caldi” della mappa geopolitica risponde alle sue necessità di media potenza, e questo vale soprattutto per quanto accade in Libia in queste ore. Lo sbandierato “pacifismo” italiano ed europeo è solo fumo propagandistico venduto all’opinione pubblica dai governi di Roma e degli altri Paesi dell’Unione Europea in attesa che la situazione diventi più chiara così che si possa vedere il cavallo su cui è più opportuno puntare. Ed è esattamente questa politica “opportunista” che più irrita gli “alleati” americani, i quali non ne possono più del peloso e ipocrita “pacifismo” europeo.

Maurizio Molinari ha sintetizzato nei termini che seguono i noti fatti occorsi a Bagdad lo scorso 2 gennaio: «L’eliminazione di Qassem Soleimani da parte dei droni del Pentagono è un tassello della sfida strategica che vede la regione del Grande Medio Oriente – dal Maghreb all’Afghanistan – contesa fra quattro potenze portatrici di interessi rivali: l’Iran di Ali Khamenei, la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Donald Trump. È uno scenario che contrappone leader, armamenti, risorse ed alleati in un mosaico di conflitti di dimensioni e intensità variabili ma con una costante: la determinazione di ognuno dei quattro rivali ad imporsi sugli altri. Nell’evidente assenza di protagonisti europei per le lacerazioni interne all’Ue e l’incapacità di chi tenta di agire da solo – come la Francia in Maghreb – di ottenere risultati capaci di essere durevoli» (La Stampa). In effetti, l’assalto di massa attuato il 31 dicembre dalle milizie sciite-irachene Katib Hezbollah contro l’ambasciata americana di Baghdad è uno di quelle azioni che l’imperialismo Usa non può subire senza un’adeguata risposta. Quello che ha sorpreso gli analisti è piuttosto il livello della risposta confezionata da Washington, che appare ai più fin troppo sproporzionata, oltre che gravida di importanti conseguenze di vario genere. I giorni a venire ci diranno se quella sorprendente risposta, che di certo ha sorpreso lo stesso Soleimani (il quale pure vantava una fama di raffinato stratega) nonché l’intelligence iraniana e irachena, registra un salto di qualità nella strategia di “contenimento” elaborata dagli americani. In ogni caso i nemici degli Stati Uniti hanno commesso un grave errore di sottovalutazione, tanto più in considerazione del fatto che la strategia del caos controllato che Washington sta seguendo ai tempi di Trump dovrebbe indurre i suoi avversari a un supplemento di cautela.

Scriveva Nopasdaran del 10 ottobre 2019: «Parlando il 7 ottobre ad una conferenza con comandanti Pasdaran – trasmessa dalla TV iraniana – il Generale Qassem Soleimani ha spavaldamente affermato che le Guardie Rivoluzionarie hanno esteso la resistenza islamica dai 2000 km del Libano, a mezzo milione di chilometri quadrati in tutto il Medioriente. Ovviamente, con queste parole, il capo della Forza Qods intendeva riferirsi alla diffusione ormai ovunque di milizie sciite paramilitari al servizio di Teheran. Dalla sola Hezbollah in Libano, infatti, ora siamo passati a decine e decine di gruppi armati jihadisti sciiti, sparsi tra Siria, Iraq e lo stesso Yemen. Non a caso, in un secondo passaggio del suo discorso, Soleimani parla direttamente del fatto che la Repubblica Islamica ha creato una “continuità territoriale della resistenza” – tradotto, dei gruppi armati terroristici filo-iraniani – che connette Iran, Iraq, Siria e Libano. […] L’imperialismo iraniano, infatti, non potrà che esacerbare gli scontri regionali, con effetti diretti (contro Israele e arabi sunniti) e indiretti (con la Turchia e la Russia), davvero imprevedibili. Nessuno infatti, ufficialmente o non ufficialmente, permetterà che sia Teheran il solo master della regione e, in questo contesto, l’instabile Iraq rischia davvero di diventare il centro definitivo dello scontro per fermare l’avanzata iraniana». Come si vede, quello che si sta sviluppando sotto i nostri occhi è uno spettacolo tutt’altro che inatteso.

Negli anni scorsi gli “alleati” europei degli Stati Uniti lamentavano il progressivo ritiro dell’imperialismo americano dai centri nevralgici dell’agone geopolitico, disimpegno che secondo loro stava favorendo l’iniziativa politico-militare della Russia, dell’Iran, della Turchia e dell’Arabia Saudita; l’isolazionismo americano indebolisce l’intero Occidente, piagnucolavano francesi, tedeschi e italiani. In realtà gli americani non si sono mai ritirati dall’area mediorientale, ma hanno piuttosto “rimodulato” e ristrutturato la loro presenza in quella regione, aggiornandola ai nuovi scenari internazionali e regionali, e soprattutto calibrandola più di prima sugli esclusivi interessi di Washington. Come e più che ai tempi dell’invasione dell’Iraq del 2003, gli Stati Uniti hanno bisogno di sapere su quali Paesi europei possono contare nella loro strategia di contenimento/indebolimento nei confronti della Cina, della Russia e dell’Iran.

Non c’è dubbio che l’eliminazione del Generale Soleimani risponde anche a un calcolo di politica interna americana, ma sarebbe oltremodo ridicolo ricondurre quell’operazione a esigenze puramente propagandistiche (elettorali: è la democrazia capitalistica, bellezza!) ed elusive, come sostengono i leader democratici, i quali strumentalmente accusano Trump di aver calpestato il diritto internazionale: l’uccisione di Soleimani si configurerebbe infatti non come un legittimo atto di guerra, ma come una vera e propria azione terroristica. Un’analoga stucchevole quanto ipocrita polemica divampò ai tempi dell’eliminazione di Osama Ben Laden nel 2011; «Giustizia è stata fatta», disse allora il pacifista e progressista Obama, suscitando l’indignazione di chi predica la “guerra giusta”, nel senso di “politicamente corretta”. «Ancora una volta appare vero che la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra» (Carl Schmitt). Della guerra imperialistica, per l’esattezza.

In ogni caso il “fattore interno” gioca assai più in Paesi come l’Iran e l’Iraq, attraversati da fortissime tensioni sociali che Teheran e Bagdad stanno cercando di incanalare nel tradizionale alveo nazionalista e “antimperialista”. Nel breve termine la crisi provocata dall’evaporazione di Soleimani avrà come effetto, peraltro abbastanza scontato, quello di cementare il “popolo” attorno alla bandiera della dignità nazionale e di mettere la sordina ai movimenti di protesta che nelle scorse settimane hanno creato più di un problema a quei due Paesi; ma già nel medio periodo le previsioni si complicano, anche perché a quanto pare in Iran e in Iraq non tutti hanno pianto la scomparsa del «Che Guevara del Medio Oriente»…

Scrive Daniele Ranieri: «Il generale iraniano Qassem Soleimani voleva nominare il primo ministro dell’Iraq, faceva uccidere soldati iracheni nelle loro basi (bombardate dalle sue milizie) e faceva rapire e uccidere manifestanti iracheni di vent’anni. E questo soltanto nei suoi ultimi tre mesi di attività. Era la definizione da manuale di militare macellaio e di arroganza imperialista» (Il Foglio). Tutto giusto. Ma «la definizione da manuale di militare macellaio e di arroganza imperialista» si attaglia benissimo anche ai responsabili della sua eliminazione. Di solito non uso brindare quando un macellaio uccide un altro macellaio. Grido “Evviva!” solo quando le classi subalterne e tutti i maltrattati da questa disumana società (mondiale) trovano la forza e il coraggio di lottare contro i macellai di ogni nazione,di ogni colore, di ogni religione, di ogni ideologia.

Leggo da qualche parte la seguente incredibile frase: «Soleimani [va] inteso come sineddoche dei mille Soleimani del mondo che si oppongono all’imperialismo occidentale». Ci sarebbe di che sghignazzare, se non stessimo parlando di cose serie e dolorosissime, come l’oppressione, lo sfruttamento e la morte che i «Soleimani del mondo» infliggono alle classi subalterne.

Il noto comico Diego Fusaro, sempre più invasato e delirante nel suo primatismo nazionale, se n’è uscito con la barzelletta che segue: «L’Iran non è uno Stato totalitario, canaglia, pericoloso per la pace nel mondo. Tale è, invece, la civiltà dell’hamburger, che semina guerra per il mondo ed esporta democrazia missilistica, imperialismo etico e bombardamenti umanitari. Lo stesso Soleimani, ucciso vigliaccamente, con vigliacca approvazione dello stesso nostrano Salvini, non era un terrorista, ma un eroico patriota. Lottava contro il terrorismo dell’Isis e in nome dell’Iran sovrano e libero dal neobarbarico colonialismo di Washington. Che Allah l’abbia in gloria. Quanto a me, io non legittimo la guerra di resistenza dei popoli oppressi dall’imperialismo Usa: la esalto. L’aggredito ha sempre il diritto di difendersi, in tutti i modi. La sola guerra legittima è quella di difesa dall’invasore. Se vi sarà la guerra, occorrerà stare, senza se e senza ma, con l’Iran e non con gli Usa, come dicono i vili sovranisti nostrani, che sono solo codardi avvezzi a servire il padrone a stelle e strisce. La speranza è che la Russia di Putin sostenga l’Iran e che ugualmente agiscano altre potenze non allineate, in primis la Cina. Lo scopriremo presto». Il comico che si atteggia a filosofo dichiara dunque guerra all’imperialismo americano e si schiera, «senza se e senza ma», con chi ne ostacola le neobarbariche scorribande. Sarebbe del tutto inutile ricordare al fine dialettico che i nemici di Washington sono imperialisti esattamente come lo sono gli odiati Stati Uniti d’America, cuore pulsante della demoniaca (lo dice anche Allah!) «civiltà dell’hamburger» – e la Coca Cola dove la mettiamo?

Il fatto è che il cosiddetto “Campo Antimperialista” conosce un solo Imperialismo: quello occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti. In questo modo tale “Campo” non fa che muoversi lungo il solco tracciato a suo tempo dallo stalinismo, il quale chiamava le “larghe masse popolari” di tutto il mondo a schierarsi dalla parte della “Patria socialista”, la quale era ostacolata dal perfido Occidente guidato dagli americani nella sua umanissima missione di pace, di progresso e di libertà. Per giustificare “teoricamente” la loro ultraborghese (e quindi ultrareazionaria) posizione di sostegno ai nemici degli Stati Uniti, gli esponenti “campisti” cercano di fare entrare l’attuale conflitto interimperialistico nello schema delle lotte anticoloniali sostenute in un’altra epoca storica da Marx, Engels, Lenin, Trotsky e da tutti i comunisti degni di quella qualifica – e quindi non sto parlando dei “comunisti” con caratteristiche “sovietiche”. Ricondurre l’iniziativa delle potenze regionali (vedi ad esempio l’Iran) nell’alveo della «lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale» significa esibire una concezione del processo sociale capitalistico che non solo non ha nulla a che fare con la teoria e con la prassi dell’emancipazione delle classi subalterne (e dell’intera umanità), ma rappresenta piuttosto l’opposto di una teoria e di una politica orientate in senso anticapitalistico. Il solo parlare di «lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale» a proposito di Paesi come l’Iran significa non aver maturato, non dico una concezione materialistica della storia (da taluni non è lecito pretendere la comprensione delle più elementari nozioni di quella concezione), ma una visione del processo sociale in grado quantomeno di mantenersi all’altezza dei fatti concreti. Invece i campisti non conoscono altro ragionamento che non sia ideologico all’ennesima potenza: è il reale processo sociale che deve entrare negli schemini “dottrinari” da loro fissati in astratto, riscaldando la vecchia e rancida sbobba “antimperialista” cucinata ai tempi di Stalin – e poi di Mao.

Detto altrimenti, personalmente considero il cosiddetto “Campo Antimperialista” come un’entità politico-ideologica organicamente interna alla dinamica della competizione interimperialistica, e il suo richiamarsi, del tutto abusivamente e ridicolmente (la prima volta come tragedia, la seconda come macchietta) ai “testi sacri” del marxismo, lo fanno apparire ai miei occhi particolarmente odioso, anche perché so bene che qualche giovane desideroso di lottare contro questa società escrementizia potrebbe farsi catturare dalla fraseologia “antimperialista” (in realtà solo antioccidentale) degli amici della Cina, della Russia, del Venezuela, della Siria, dell’Iran e degli altri Paesi “antimperialisti”.

Come si arriva a mettere in uno stesso sacco tutti i protagonisti del Sistema Imperialista Mondiale? Partendo dalla definizione di quel Sistema: si tratta dell’insieme delle grandi, medie e piccole Potenze (Stati, nazioni) che competono tra loro su tutti i fronti della guerra capitalistica: sul fronte economico come su quello geopolitico, su quello diplomatico come su quello militare, su quello tecnoscientifico come su quello ideologico. Si tratta appunto di una guerra sistemica, di un conflitto cioè che ha per obiettivo l’acquisizione del massimo potere possibile. Si tratta dunque di un Sistema tanto compatto, violento e disumano, quanto dinamico, contraddittorio e conflittuale al suo interno. Ogni suggestione “superimperialista” è qui bandita e ridicolizzata.

Le prime vittime del Sistema Imperialista Mondiale sono naturalmente le classi subalterne del pianeta, le cui esistenze sono sacrificate sull’altare del Moloch capitalistico, il cui concetto ingloba anche lo Stato (a prescindere dal suo contingente assetto politico-istituzionale: democratico, autoritario, totalitario) posto a difesa dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. A chi per vivere è costretto a vendersi sul mercato del lavoro, a «vendere se stesso e la propria umanità» (K. Marx), la società chiede il massimo di energia (fisica e intellettuale) e di dedizione in ogni fase della guerra sistemica: quando si combatte producendo merci (materiali e immateriali) e quando si combatte producendo morti, feriti, dolore e distruzione – ovviamente nel nome degli «interessi superiori» della Patria, della Libertà, della Pace, dei Diritti Umani, della Democrazia e chi più ne ha, più ne metta, a proprio piacimento. Per irretire le classi subalterne e legarle al carro della conservazione sociale, le classi dominanti da sempre ricorrono a un potentissimo veleno ideologico chiamato nazionalismo. Come scrisse una volta Karl Kraus, «Il nazionalismo è un fiotto di sangue in cui ogni altro pensiero annega». A proposito di nazionalismo mi piace citare spesso anche Schopenhauer: «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale. […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze». Ancora oggi l’orgoglio nazionale è il più potente strumento politico-ideologico su cui le classi dominanti possono contare per imbrigliare, deviare e strumentalizzare il “disagio sociale” che accompagna la vita dei subalterni, e questo è ancora più vero nei momenti di più acuta crisi sociale. Ecco perché per l’anticapitalista la critica più radicale del nazionalismo, comunque “declinato” e giustificato, non rappresenta affatto un mero dato identitario da sbandierare per affermare la propria irriducibile diversità, ma essa si configura piuttosto come un essenziale asset politico.

È possibile applicare la griglia concettuale qui appena abbozzata all’odierno conflitto mediorientale? A mio avviso sì, e comunque è esattamente dalla prospettiva che essa delinea che approccio l’analisi puntuale di quel conflitto, la quale per molti aspetti è perfettamente sovrapponibile a quella elaborata da diversi analisti geopolitici e si avvantaggia della loro superiore competenza specifica. Più in dettaglio, concordo con gli analisti che considerano quasi obbligata la risposta che gli Stati Uniti stanno dando alla forte spinta espansionistica dell’Iran in tutta l’area mediorientale – e non solo: la sua proiezione in alcune regioni dell’Africa è già più che un’ipotesi. E per adesso metto un punto.

IRAN. CONTRO LA VIOLENTA REPRESSIONE DELLE MANIFESTAZIONI DI PROTESTA!

Iran. Un primo, sommario bilancio delle rivolte duramente represse dal regime sanguinario di Teheran. L’ondata di proteste, che è stata violentemente contenuta ma non ancora annientata, ha coinvolto nel corso di molte settimane oltre 100 città sparse in ogni parte del Paese. Le stesse autorità hanno affermato che circa 200.000 persone hanno preso parte alle proteste, alcune delle quali hanno preso d’assalto centinaia di banche, stazioni di polizia e stazioni di rifornimento di carburante. Fonti non ufficiali parlano di 450 morti, 4.000 feriti e 10.000 manifestanti arrestati e detenuti con pesantissime accuse, alcune delle quali prevedono la pena di morte per impiccagione. Si contano parecchie vittime tra i giovani e i giovanissimi, e non pochi sono gli adolescenti caduti sotto il fuoco dei cecchini delle cosiddette Guardie Rivoluzionarie, il braccio più violento del regime iraniano.

Ma è stata la Guida Suprema in persona a impartire l’ordine di sparare per uccidere, e d’altra parte Teheran vanta una lunga serie di massacri, come quello che si consumò nel 1988, quando vennero eliminati non meno di 30.000 prigionieri politici. Il regime khomeinista non può tollerare che la crisi sociale interna possa indebolire la proiezione esterna dell’imperialismo iraniano, attivissimo, com’è noto, in tutta l’area mediorientale, peraltro attraversata da acute tensioni sociali: vedi Iraq, Libano, ecc. Come sempre, politica interna e politica internazionale sono le due facce della stessa escrementizia medaglia – naturalmente questo è vero per tutti i Paesi del mondo.

Soprattutto le classi subalterne iraniane pagano i costi salatissimi delle sanzioni imposte al Paese dagli Stati Uniti, e quindi si può senz’altro dire che esse sono vittime della contesa imperialistica, oltre che del capitalismo iraniano con “caratteristiche khomeiniste”.

SOVRANO È IL CAPITALE. TUTTO IL RESTO È ILLUSIONE E MENZOGNA

La crisi valutaria che si è abbattuta sulla Turchia, dopo una lunga e malcelata gestazione che ha le sue cause immediate in fattori di varia natura (economica, geopolitica, politica), ha inaspettatamente riacceso il dibattito sulla politica – e soprattutto sulla retorica – sovranista che fino a qualche giorno prima sembrava aver esaurito la sua “spinta propulsiva” dopo aver imperversato per molti mesi sulle pagine dei quotidiani e sui “social”. Scriveva ieri Giuseppe Turani: «Il crollo della lira turca, meno 30 per cento da inizio anno, 7 per cento solo negli ultimi giorni, è la peggiore e più dura lezione che potesse cadere in testa ai sovranisti nostrani. In un certo senso è una specie di visione anticipata di un possibile film italiano (se non avessimo l’Europa e la Bce di Mario Draghi)» (La Nazione). «”La crisi turca è una lezione per chi ha ancora dubbi se l’Euro sia o no positivo: lo è”: così il ministro degli Esteri Enzo Moavero spiega al Foglio perché la crisi finanziaria della Turchia è una grande lezione per gli anti euro». Chissà con quali sentimenti la coppia sovranista più bella del mondo che regge le sorti del governo italiano ha incassato le chiare parole di Moavero.

La rovinosa caduta della lira turca ha dunque ringalluzzito il partito antisovranista uscito alquanto ammaccato dalle ultime elezioni politiche; non solo, ma sembra aver conquistato alla sua causa personaggi che in precedenza avevano dato un certo credito al governo “sovranista e populista” di Salvini e Di Maio. Quando c’è di mezzo la lira, sebbene turca, gli animi di coloro che sono molto sensibili ai destini della propria pecunia (e chi non lo è, avendola?) si accendono, costringendoli sovente a riflessioni più realistiche intorno al pessimo mondo in cui ci tocca vivere. È il caso di Alessandro Sallusti, protagonista ieri di un duro attacco a quello che non ha esitato a definire «inganno sovranista».

A mio parere vale la pena di riportare qualche passo del suo articolo: «Si dice che stiamo andando verso un sistema sovranista, anzi che già abbiamo un governo sovranista. “Padroni in casa nostra”, “Prima gli italiani”, “Dell’Europa me ne frego”: sono alcuni degli slogan che hanno fatto la fortuna della Lega e dei Cinquestelle. E dire che abbiamo fatto tanto, anche delle guerre, per cacciare i sovrani e sostituire le monarchie con le repubbliche unite tra di loro attraverso istituzioni politiche ed economiche sovrannazionali. Ora qualcuno vuole tornare indietro, ne ha facoltà e per certi versi la cosa affascina anche noi. Del resto chi non vorrebbe essere “padrone a casa propria”. Ma la domanda, mi rendo conto un po’ noiosa in questo torrido agosto, che dovremmo porci è la seguente: padroni di che cosa? “Di tutto”, sarebbe la risposta più ovvia e diretta. Ma è questa una risposta ottocentesca, buona per gli allocchi in campagna elettorale. Pensateci. Ieri è successa una certa cosa in Turchia e nel giro di pochi secondi la nostra economia e le nostre finanze sono crollate. Cosa c’entriamo noi con la Turchia – che non fa neppure parte dell’Europa – piuttosto che con i dazi che Trump mette alla Cina? Apparentemente nulla, ma in realtà molto e l’essere “padroni in casa nostra” non ci ha messo al riparo da danni enormi, né mai potrà farlo. Le banche italiane sono sovrannazionali, non per l’azionariato ma perché hanno nei loro bilanci beni (azioni e titoli) sovrannazionali. Le nostre aziende più eccellenti, grandi e piccole, sono sovrannazionali perché l’ottanta per cento del loro fatturato lo fanno all’estero e uno starnuto a Mosca o a Pechino può fare loro più male, o bene, di una nuova tassa, in più o in meno, decisa a Roma. Possiamo essere noi “sovrani” di questi diabolici e ineluttabili meccanismi? Proprio no, non è possibile, neppure se Matteo Salvini e Luigi Di Maio si sgolassero a urlarlo da qui all’eternità. E ancora. Possiamo essere “sovrani” sulla rete Internet che veicola oggi in tempo reale l’80% dell’informazione, vera o falsa che sia? Possiamo esserlo sull’imporre alle donne italiane le regole della maternità quando appena fuori dai nostri confini è ammesso qualsiasi tipo di fecondazione? Possono i “sovranisti” fermare la tecnologia che tutto permette a tutti? La risposta è sempre la stessa: no. Usciamo quindi dall’inganno sovranista. La questione non è essere favorevoli o contrari, semplicemente parliamo di una cosa irrealizzabile, fuori dal tempo. Io mi accontenterei di essere sovrano a casa mia, nel senso della mia famiglia. Ma anche lì ho non pochi problemi (e Salvini penso altrettanto)» (Il Giornale).

Non c’è il minimo dubbio. Per rimanere sul solo terreno “macroeconomico”, la cosiddetta filiera internazionale del valore è così lunga e complessa da rendere oltremodo difficile, se non praticamente impossibile, stabilire la nazionalità delle merci che compriamo, e ciò vale soprattutto per le merci più complesse la cui produzione è semplicemente inconcepibile fuori della divisione internazionale del lavoro – “manuale” e “intellettuale”.

Parlare poi di “sovranità” politica ed economica a proposito di un Paese di media/piccola potenza capitalistica come l’Italia è semplicemente ridicolo, e a saperlo benissimo sono in primo luogo quei “sovranisti-populisti” che cavalcano con destrezza il disagio sociale delle classi subalterne per conquistarne il consenso politico-elettorale e sfiancarle lasciandole libere di sfogarsi sul terreno dei capri espiatori (gli immigrati, Soros, i poteri forti, Bruxelles, Berlino, ecc.) e della guerra fra miserabili.

In questo momento è soprattutto il partito di Grillo & Casaleggio a essere molto interessato a spingere il pedale del “populismo socialmente orientato” perché intende crearsi un’ampia e durevole base di consenso clientelare-elettorale a cui attingere. Più che il modello “Prima Repubblica”, la cosa evoca ai miei occhi il modello chávista, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare: a cominciare dal fatto che il clientelismo “bolivariano” può contare sulla rendita petrolifera, mentre quello italiano può contare sulla fiscalità generale, come sa bene lo zoccolo duro dell’elettorato leghista: «Roma ladrona, la Lega non perdona!».

Oggi sovrano assoluto delle nostre vite è solo il Capitale, e il successo delle ideologie sovraniste e identitarie si spiega proprio con il dominio planetario e sempre più capillare degli interessi economici, i quali hanno il potere di piegare alla disumana logica del profitto tutto ciò che esiste tra terra e cielo. Le stesse guerre commerciali basate su politiche protezioniste confermano la natura planetaria e totalitaria dei vigenti rapporti sociali, i quali costringono i Paesi che più degli altri subiscono i contraccolpi negativi della globalizzazione (disoccupazione, precarizzazione del lavoro, distruzione della classe media) a tentare di praticare politiche economiche “sovraniste” e “populiste”, nel tentativo di ribaltare la situazione che oggi li vede perdenti sul terreno della competizione capitalistica totale – o globale. Il cosiddetto sovranismo è l’espressione di una forte debolezza sistemica, e lo conferma anche il fatto che l’uomo forte di Ankara oggi si scaglia contro gli Stati Uniti minacciando di abbandonarli per vendersi ai potenti di turno, ai cinesi in primis. Ma anche gli odiati russi vanno bene allo scopo: «Mosca è felice di poterci vendere i sofisticatissimi sistemi d’arma russi!» Auguri!

Scriveva sempre ieri Bruno Vespa: «Saremmo ovviamente tutti felici di avere al più presto date di pensionamento più eque, reddito di cittadinanza e tasse più basse. Ma la globalizzazione toglie sovranità». Impostato così il problema, la globalizzazione appare forse come un fenomeno che ci colpisce dall’esterno, mentre il nostro Paese ne fa parte a pieno titolo, e necessariamente, e chi ne fa le spesse sono come sempre i nullatenenti, i quali sono chiamati a inchinarsi al cattivo Moloch chiamato Globalizzazione. «Noi vorremmo, ma non possiamo!». Se non si comprende che è la sovranità del Capitale, che regge le sorti di tutti i Paesi e di tutti gli individui, a rendere non solo possibile ma senz’altro inevitabile la globalizzazione sistemica (economica, scientifica, tecnologica, culturale, “antropologica”), facilmente ci si espone alla falsa alternativa venduta sul mercato delle ideologie tra globalismo e sovranismo, europeismo e nazionalismo. Due facce della stessa escrementizia medaglia.

IRAN. OGGI E IERI

1. Oggi

«Negli ultimi anni, i caffè sono nati anche in abbinamento a librerie e a gallerie d’arte. L’aspetto è moderno, tant’è che potrebbero essere a Parigi o in qualsiasi metropoli occidentale. Ci si accorge di essere a Teheran solo per i codici di comportamento, soprattutto nel vestiario. Mi è capitato di assistere in uno di questi posti a uno shooting fotografico, con una modella, truccatissima e con il foulard, che sfilava. La gente guardava con indifferenza: è uno spettacolo usuale. Eppure, la modella, la pubblicità, il consumismo erano quanto la Rivoluzione Islamica voleva combattere. Questo è un tratto tipico degli iraniani: sanno adattarsi, rielaborare e fare proprio qualcosa che viene da fuori secondo i propri canoni. A proposito, in quel caffè ho bevuto un mojito. Naturalmente reinventato dagli iraniani senza alcol!» (A. Vanzan). Naturalmente. D’altra parte la “rivisitazione” dei rapporti sociali capitalistici in chiave locale (regionale, nazionale, continentale) è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi del mondo: dalla Cina al Giappone, dall’India al Brasile. Soprattutto nel settore dell’abbigliamento e dell’alimentazione il Capitale si avvantaggia delle specificità culturali e “antropologiche” dei vari Paesi: merci e servizi per tutti i gusti e per tutte le sensibilità – nazionali, etniche, religiose, sessuali e quant’altro. Il Capitale ama la “libertà” e la “creatività”. Mi fanno ridere, per non dire altro, gli intellettuali occidentali di diverso orientamento ideologico (ma di identica militanza sociale al servizio della conservazione) che paventano una «deriva consumistica» della società iraniana (e magari anche di quella nordcoreana!), i cui giovani si troverebbero esposti alla demoniaca influenza dei social media che li invitano a partecipare alla luccicante ed eterna festa della globalizzazione capitalistica. Questi intellettuali possono anche accettare, bontà loro, l’economia di mercato, purché ben temperata e attenta ai bisogni del “capitale umano”, ma insieme al Santissimo Papa Francesco e alla Guida Suprema Ali Khamenei essi gridano un forte e irremovibile NO alla società di mercato: si può essere così intellettualmente indigenti?

«Un’altra parte degli Iraniani, quella dei sobborghi, che ha come uniche certezze nella vita la religione e la povertà, è soggiogata dalla propaganda religiosa. Le moschee attirano giovani per arruolarli sin da piccoli nelle milizie irregolari con i loro bastoni da hooligan. Due facce così diverse dello stesso paese dove, per un giovane, non ci sono alternative ad un modello edonista e decadente oppure ad uno estremista e violento» (L. Tavi). Lo sviluppo ineguale del Capitalismo (su scala mondiale, nazionale e regionale) si presenta con aspetti particolarmente contraddittori, e persino paradossali, nei Paesi storicamente “ritardatari” che hanno alle spalle un lungo periodo di sfruttamento coloniale e imperialistico.

«Proibire l’inglese alle elementari, e magari anche gli hamburger e la coca cola. La reazione dei conservatori alle proteste di piazza si manifesta anche così, ma riapre la spaccatura fra ultrà e riformisti, con il presidente Hassan Rohani contrario alla nuova stretta e che anzi invita a capire i giovani, perché «pensano in maniera diversa» (G. Stabile, La Stampa). Anche la pizza, ci fa sapere Stabile, è stata “attenzionata” dai puristi iraniani, benché la nota prelibatezza italiana sia stata “reinventata” in salsa iraniana. Secondo il “moderato” e “riformista” Rohani l’inglese invece serve ai giovani iraniani per «trovare lavoro»: «Il governo accoglie le critiche e credo che tutti dovrebbero essere criticati, persino Maometto ha permesso alle persone di criticare. Il problema è la distanza tra noi e le nuove generazioni. La pensano diversamente sul mondo e sulla vita». Se non è un invito a bombardare il quartier generale, poco ci manca, e comunque la presa di posizione del Presidente iraniano ci dice quanto dura sia diventata la più che decennale lotta di potere al vertice del regime. E qui arriviamo agli eventi di questi giorni.

Violenta oppressione politica, ideologica e culturale (che tocca in primo luogo le donne e le minoranze religiose), alta disoccupazione giovanile (oltre il 26%), crescente inflazione (12,5%), carovita, crisi in alcuni comparti industriali, crescenti e vistosissime (soprattutto nei grandi centri urbani) diseguaglianze sociali, piccoli imprenditori e piccoli risparmiatori gettati sul lastrico dal fallimento di alcune finanziarie, oppressione etnica (azeri, curdi, armeni), centri urbani elefantiaci e zone rurali spopolate, una spesa militare sempre crescente in grado di supportare le aspirazioni di grande potenza regionale coltivate dal Paese (a discapito ovviamente delle condizioni di vita delle classi subalterne: «Occupatevi di noi, non della Siria!», gridano i manifestanti), un Capitalismo, gestito in gran parte dalla “casta” degli ayatollah e dai vertici dei Pasdaran, sempre più inefficiente e aperto alla corruzione sociale (una parte dello stesso proletariato iraniano è interessato al mantenimento della greppia clerico-statalista: il “clientelismo” non è un fenomeno esclusivo dell’Italia!), alto inquinamento in molte zone del Paese, e molto altro ancora: gli ingredienti della crisi sociale esplosiva in Iran ci sono tutti. E non si tratta certo di una condizione sociale prodottasi negli ultimi mesi o negli ultimi anni, tutt’altro. Né la crisi sociale in quel sensibilissimo quadrante geopolitico attraversa solo l’Iran, come ben dimostra il movimentismo politico che da parecchi mesi si segnala in Arabia Saudita, il nemico/concorrente numero.[1] Per non parlare della cosiddetta Primavera Araba del 2011. Le proteste contro il carovita che si stanno sviluppando in Tunisia in questi giorni certamente non sono di buon auspicio per i due regimi diversamente islamici.

«Il consenso verso il regime è, per molti versi, oggetto di uno scambio: finché gli ayatollah garantiscono buone condizioni di vita, i cittadini accettano obtorto collo di rinunciare alla propria libertà e adeguarsi alle censure del clero. Ma quando la borsa è vuota, il regime clericale viene messo in discussione. Le attuali proteste potrebbero quindi rivelarsi molto pericolose per il regime. […] Se la Rivoluzione verde del 2009 mirava a una svolta moderata del regime, ma non ad abbatterlo, queste proteste hanno un carattere maggiormente anti-establishment. Meno politicizzate e più spontanee delle precedenti, sembrano mancare nel proporre un’alternativa al regime, ma il loro carattere anarchico le rende imprevedibili. Il dissenso è un fenomeno carsico e tacitarlo per alcuni giorni, mesi, persino anni, non significa averlo sconfitto. Al di là del loro esito, queste proteste hanno segnato un passaggio di mentalità: se le immagini della guida suprema possono essere fatte a pezzi, vuol dire che anche il regime può cadere. Come ricordato da Kader Abdollah, scrittore e oppositore del regime, gli iraniani hanno compreso che il potere degli ayatollah non è eterno né inevitabile. Se vorrà conservarsi alla guida del paese, il clero dovrà andare incontro alle esigenze dei cittadini. La repressione e la censura autoritaria non sono più opzioni possibili» (East Journal). In ogni caso, il regime continua come e più di prima a usare il pugno di ferro, e sono quasi quattromila i manifestanti finiti in galera, per non parlare dei morti e dei feriti. Già si registrano diversi casi di “suicidio” (assistito?) nelle carceri, notoriamente luoghi di tortura, oltre che di infinito dolore.

È ovvio che nel mare della crisi sociale nuotano e prosperano i nemici interni ed esterni della Repubblica Islamica, ma non è certo con la chiave interpretativa dei nemici esterni (americani, sauditi, israeliani) che possiamo capire ciò che accade – e non da oggi – in quel Paese decisivo per gli assetti interimperialistici del Medio Oriente, e non solo di quell’area. A scadenza quasi decennale, i giovani iraniani scendono in strada per rivendicare la fine dell’oppressione esercitata sull’intera società dal regime dei mullah e migliori condizioni di vita, e puntualmente il regime risponde con la ben nota tattica che prevede l’uso della carota (vedi il “partito delle riforme”) e del bastone. Promesse e carcere. Ammiccamenti politici e pallottole “vaganti”. Celebrazione di “libere” elezioni e impiccagioni: anche chi è accusato di offendere in qualche modo Allah è meritevole di morte per «atti ostili contro Dio» (moharebeh). Il regime può anche contare sulla massa d’urto repressiva mobilitata dai Pasdaran (Basji) composta perlopiù da sottoproletari che per un tozzo di pane sono disposti a massacrare di botte chi gli capita a tiro durante le manifestazioni di piazza. «Dai Pasdaran dipendono i Bassij, una diramazione paramilitare molto numerosa nata negli anni 80 durante la guerra contro l’Iraq; si stima che il numero dei Bassij si aggiri intorno ai dieci milioni di iraniani sparsi su tutto il territorio nazionale. Per il reclutamento dei membri lo stato iraniano spende ogni anno centinaia di migliaia di dollari, certo di poter trovare adepti negli strati più poveri della popolazione, incentivati da offerte finanziarie e benefici, in cambio dell’arruolamento. I Bassij sono costituiti per lo più da giovani e il loro ruolo è quello di sopprimere e arginare il più possibile e dal basso, qualsiasi forma di rivolta nei confronti del regime; un altro importante ruolo che gli viene affidato è quello della propaganda e della conservazione di tutti quei valori religiosi e ideologici che fanno capo ai capisaldi del regime dei mullah» (East Journal). Dal loro canto, i Pasdaran oltre a rappresentare «da più di vent’anni la più grande forza economica iraniana, sono in prima linea per impedire che lavoratori e studenti possano riunirsi e discutere dei diritti che li riguardano e reprimono con violenza ogni minimo tentativo di dissenso nei confronti del regime» (E. J.). Tra l’altro, i pii e misericordiosi Guardiani della Rivoluzione gestiscono il traffico illegale dei prodotti di lusso occidentale che entrano di nascosto nel Paese e il cui giro d’affari pare ammontare a una cifra gigantesca: tre volte più grande della ricchezza generata dalle fondazioni legali. La massiccia violenza che i Pasdaran dispiegano contro i “nemici di Dio e dell’Iran” è adeguata agli interessi economici che essi difendono. Sarò pure un materialista volgare e determinista, ma io la penso così!

All’inizio delle proteste il “pragmatico” Presidente iraniano dichiarò che «le persone per le strade non chiedono pane e acqua, ma più libertà», rendendo così palese la guerra intestina che, come detto, da decenni travaglia il regime di Teheran. In realtà, oltre a «più libertà» i manifestanti chiedevano più generi di prima necessità e a più basso costo, e non a caso le manifestazioni sono comparse all’inizio (28 dicembre 2017) nelle aree economicamente più depresse del Paese, dove peraltro più forte è la presenza degli attivisti ultraconservatori. Pare che gli uomini legati all’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad, colui che voleva cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente nonché acerrimo nemico dell’attuale Presidente, abbiano in qualche modo favorito la protesta, per evidenti fini strumentali, salvo poi esserne scavalcati. In ogni caso, Teheran li ha subito “attenzionati”, e lo stesso Ahmadinejad è finito definitivamente in disgrazia, seppellito sotto infamanti accuse di corruzione e abusi d’ogni tipo – non ancora di stampo sessuale: questo tipo di calunnie applicate al “pio” Ahmadinejad non sarebbero forse credibili.

Con il consueto tweet, il Presidente americano ha voluto sferrare un facilissimo attacco politico, non solo al regime iraniano, ma anche, se non soprattutto, agli “alleati” europei che intendono proseguire sulla strada del “negoziato diplomatico” tracciata dall’ex Presidente Obama nel 2015 (accordo di Losanna): «Il grande popolo iraniano è stato represso per molti anni, ha fame di cibo e libertà; insieme ai diritti umani, viene saccheggiata la ricchezza dell’Iran!». Anche dalle nostre parti c’è stato qualche idiota che ha caricato la responsabilità dei manifestanti uccisi in Iran solo sulla testa di Donald Trump, reo di essersi sfilato dall’accordo sul nucleare sottoscritto dal cosiddetto 5+1 sotto l’egida dell’Onu. Ovviamente Trump, nella sua qualità di Presidente della prima potenza imperialistica del mondo, ha tutto l’interesse nel gettare benzina sul fuoco del malcontento popolare che attraversa l’Iran, e ciò tanto più dopo il relativo insuccesso americano registrato in Iraq e in Siria, dove la Russia e appunto l’Iran hanno invece riscosso un indubbio successo politico-militare.

Ieri il Financial Times e il New York Times invitano il Presidente americano a una maggiore prudenza nelle sue esternazioni sui fatti iraniani, perché le sue invettive via Twitter potrebbero ricompattare il regime; e gli consigliano anche di non sfilarsi dall’accordo sul nucleare iraniano, per rendere evidente agli occhi dell’opinione pubblica iraniana il fatto che la moratoria sulle sanzioni non dà alcun beneficio al popolo iraniano, mentre facilita l’investimento del regime in costosi armamenti. «Cinquantadue tra ufficiali militari statunitensi in pensione, membri del Congresso degli Stati Uniti, ex ambasciatori statunitensi, esperti statunitensi della sicurezza nazionale hanno firmato una lettera per sollecitare Trump a non mettere a repentaglio l’accordo con l’Iran» (NYT). Abbaiare furiosamente o tessere intorno al regime di Teheran una fitta rete diplomatica aspettando che la classe media iraniana prepari una seria alternativa in vista dell’auspicato regime change: qual è la tattica più produttiva per gli Stati Uniti? Certo non sarò io a dare buoni consigli! «Il capo della Casa Bianca vorrebbe uscire dall’accordo, in linea con le obiezioni avanzate anche da Israele, e le proteste iraniane dei giorni scorsi lo hanno incoraggiato a farlo; il segretario di Stato Tillerson, quello alla Difesa Mattis, e il consigliere per la Sicurezza nazionale McMaster ritengono che convenga salvarlo» (P. Mastrolilli, La Stampa). È probabile che alla fine anche Trump sarà della partita diplomatica, ma dopo aver chiarito che la Casa Bianca non dà nulla per scontato e che si aspetta dai negoziati risultati concreti – ovviamente dal punto di vista degli interessi americani, i quali sempre più spesso divergono dagli interessi degli “alleati” occidentali, e questo a prescindere da chi pro tempore veste la carica di Presidente degli Stati Uniti.

Il costo finanziario dei successi militari e politici di Russia e Iran è stato molto alto per entrambi i Paesi, e solo la relativa stabilità del prezzo del petrolio (intorno ai 50 dollari il barile) e del gas ha permesso, anche se solo in parte, di tamponare le falle finanziarie che si sono aperte nelle loro casse. L’Iran è impegnato pesantemente anche in Yemen, in una guerra sanguinosissima che ormai si protrae da molti anni e che, com’è noto, è alimentata anche dalle armi fabbricate in Italia: un fatturato tutt’altro che disprezzabile! Non bisogna poi sottovalutare il sostegno che Teheran offre a Hezbollah, «che è una milizia costosa, perché i miliziani Hezbollah sono pagati due volte di più di quanto Israele paga i beduini che lavorano per l’esercito; poi hanno tutta la struttura industriale militare, i missili balistici, ad esempio non li fabbricano, ma li importano dalla Corea del Nord; poi hanno la massa impiegatizia dei clerici ed anche loro sono molto costosi» (E. Luttwak, Notizie geopolitiche). Si segnala anche un crescente attivismo dell’Iran in Afghanistan, cosa che sta mettendo in allarme i pakistani e gli americani.[2]

Può, si chiede il citato Luttwak, un Paese che campa sostanzialmente di rendita petrolifera sostenere un così forte impegno militare e geopolitico? In effetti, un’economia ancora fortemente centrata sull’estrazione e la vendita di petrolio e gas rappresenta, al contempo, il punto di forza e il punto di debolezza dell’ambiziosissima potenza persiana.

L’innegabile sviluppo dell’industria metallurgica, dell’industria tessile e dell’edilizia che si è registrato negli ultimi tre decenni non è stato comunque tale da mutare la struttura del capitalismo iraniano, con ciò che ne segue sul piano degli equilibri politico-istituzionali del Paese. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale di qualche anno fa, il tasso di crescita del PIL iraniano si aggira intorno al 7,4%, ma al netto del settore petrolifero quel tasso precipita a un risicato 1%. Dati forniti dal Ministero degli Esteri del nostro Paese attestano questa struttura del PIL iraniano: «Il petrolio influisce per il 15% sul Prodotto Interno Lordo, il settore manifatturiero, quello edilizio e l’industria mineraria per il 23%, l’agricoltura per il 9%, mentre i servizi occupano il 53% del totale». Il maggiore importatore di prodotti iraniani è la Cina, ma per un valore totale molto modesto, soprattutto se posto in rapporto alle potenzialità industriali dell’Iran: appena 615 milioni di dollari. Proprio ieri l’Italia ha siglato un importante accordo con l’Iran: «Un’intesa che apre a garanzie sovrane da parte dell’Iran per finanziamenti fino a 5 miliardi di euro. I finanziamenti che seguiranno stanzieranno fondi per progetti e partnership in Iran, realizzati congiuntamente da imprese italiane ed iraniane, in settori di reciproco interesse, come ad esempio le infrastrutture e costruzioni, il settore petrolifero e del gas, la generazione di energia elettrica, le industrie chimica, petrolchimica e metallurgica. I due Ministeri [dell’economia] hanno sottolineato come l’accordo sia “un passo importante per il consolidamento della partnership economica e finanziaria tra i due Paesi, le cui origini vanno molto indietro nel tempo. L’obiettivo principale dell’accordo è quello di rafforzare il tessuto economico iraniano, in linea con gli obiettivi stabiliti dal Governo dell’Iran e con le legittime aspirazioni del popolo iraniano”» (La Repubblica). Le «legittime aspirazioni del popolo» sono costantemente in cima ai pensieri dei Governi di tutto il mondo! Troppo facile spiegare i rapporti tra gli Stati e gli affari tra le imprese dei vari Paesi del pianeta con la logica del potere sistemico e del profitto! Volevo fare dell’ironia: ci sono riuscito?

L’economia iraniana appare insomma sempre sul punto di decollare verso un grande boom (fattori di varia natura premono in quel senso)[3], ma diversi problemi strutturali e politici impediscono all’aereo di prendere il volo diretto ai piani alti del Capitalismo mondiale, una destinazione che pure sarebbe alla portata di un Paese che peraltro vanta un antichissimo e luminoso retaggio storico. Un punto molto debole di quell’economia è senz’altro la penuria di investimenti diretti esteri in Iran, che si spiega in larga parte con il ruolo di potenza regionale che il Paese vuole giocare a tutti i costi; una legittima aspirazione che lo porta sovente a cozzare contro gli interessi dell’imperialismo occidentale e dei suoi alleati regionali. Beninteso, all’avviso di chi scrive quell’aspirazione è legittima allo stesso titolo delle aspirazioni dei Paesi concorrenti: dal punto di vista antimperialistico tutte le vacche capitalistiche, piccole o grandi che siano, appaiono nere e meritevoli di finire al macello della rivoluzione sociale. La quale, ahimè, non ne vuole sapere di apparire sulla scena della tragedia.

Pur con tutti i limiti qui sommariamente evidenziati, l’economia iraniana è molto integrata nella divisione internazionale del lavoro, e una sua più piena partecipazione alle dinamiche del mercato mondiale appare ormai come prossima. Salvo devastanti crisi politico-sociali, le quali d’altra parte trovano terreno fertile nell’attuale struttura capitalistica dell’Iran e negli assetti di potere che sono venuti fuori dalla cosiddetta Rivoluzione Islamica.

Scriveva tre anni fa Eugenio Fatigante sull’Avvenire a proposito della struttura economica del Capitalismo iraniano: «C’era una volta la Rivoluzione. Islamica e, sulla carta, socialista.[4] Come tutte le rivoluzioni, però, dello spirito del ’79 è rimasto ben poco nell’Iran di oggi. All’epoca dello Scià un centinaio di famiglie cortigiane dei Pahlevi controllavano l’80% dell’economia locale. Oggi più o meno la stessa percentuale è in mano al lato oscuro degli ayatollah e dei fedeli Guardiani della rivoluzione. Si chiamano Bonyad e sono il vero prodotto doc iraniano, quanto il caviale: un coacervo di religione e pragmatismo affaristico che controlla le leve del potere e il 60% della capitalizzazione della Borsa di Teheran. È la cosiddetta Pasdaran Economy, basata su un labirinto di Fondazioni (come tali esentasse) che negli anni han fatto man bassa dei beni della corona imperiale e delle famiglie benestanti: oggi è divenuto il loro patrimonio, che utilizzano per nuovi affari e per una rete fittissima di donazioni, posti di lavoro e sussidi, necessari per mantenere il potere con metodi clientelari e con un anomalo Welfare state».[5] Questo incredibile intreccio di interessi economici e politici ci fa capire quale è la posta in gioco in Iran e come sia difficile sostituire l’attuale regime con un altro di diverso orientamento politico-ideologico. Per quanto mi riguarda, un regime (capitalistico) vale l’altro, in Iran come nel resto del mondo, e personalmente trovo risibile ogni discorso circa la necessità di sostenere in quel Paese una “rivoluzione democratica e popolare” in attesa che maturino le condizioni per una rivoluzione sociale “pura”. Lascio ai teorici delle “doppie rivoluzioni” questi insulsi discorsi. Tutto invece lascia supporre che le classi subalterne verseranno ancora molto sangue per combattere guerre volute dai loro nemici di classe per difendere e possibilmente ampliare un potere che, come abbiamo visto, si fonda su enormi interessi economici.

2. Ieri

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso vennero al pettine in Iran tutte le gigantesche contraddizioni e i fortissimi limiti di una “rivoluzione capitalistica dall’alto”, iniziata intorno al 1962 per impulso diretto del regime monarchico; una “Rivoluzione bianca” intesa a modernizzare il Paese a ritmi accelerati senza però troppo incrinare i vecchi assetti di potere (inclusa la preziosa funzione sociale svolta dal clero sciita, sebbene esso fosse stato pesantemente penalizzato sul terreno economico dalla riforma agraria) né mettere in discussione la collocazione geopolitica della moderna Persia, ormai da decenni saldamente ancorata all’Occidente.

Già negli anni Trenta lo Scià Reza Pahlavi aveva tentato una prima modernizzazione/laicizzazione forzata del Paese, espropriando le proprietà dei notabili Qajar e intaccando rapporti sociali feudali che arricchivano il clero sciita. Negli anni Cinquanta il Primo ministro Mohammad Mossadeq, il «nazionalista mistico», continuò l’opera di modernizzazione capitalistica attraverso la nazionalizzazione dell’industria petrolifera allora controllata dalla Anglo-Persian Oil Company, cosa che gli valse l’ostilità del Regno Unito e degli Stati Uniti. La produzione e l’esportazione di petrolio crollarono immediatamente. Altre riforme politiche e sociali privarono il governo di Mossadeq dell’appoggio del clero sciita e delle componenti politico-sociali che in precedenza lo avevano sostenuto ma che dopo la nazionalizzazione del maggio ‘51 temevano una modernizzazione troppo spinta del Paese. Come conseguenza di un fallito colpo di Stato tentato il 16 agosto 1953 lo Scià Mohammad Reza Pahlavi fu costretto a fuggire dal paese e a riparare a Roma. Un secondo colpo di Stato, attuato tre giorni dopo, ebbe invece successo e mise fine alla breve ma intensa stagione riformista di Mossadeq; il nuovo governo presieduto dal generale Zahedi sottoscrisse un accordo con le principali compagnie petrolifere del tempo (Consorzio delle Compagnie petrolifere: le mitiche Sette sorelle), accordo che sradicò il precedente monopolio della Anglo-Persian Oil Company. Lo Scià ritornò dall’esilio e affidò a uno Stato totalitario e potentemente centralizzato l’opera di svecchiamento definitivo del Paese. Entrambi i colpi di Stato del 1953 furono chiaramente voluti e sostenuti da Washington, che tra l’altro approfittò dell’”aiuto fraterno” offerto a Londra per prenderne il posto come prima potenza imperialista in Iran e in tutto il Medio Oriente. Mai fidarsi degli “aiuti fraterni”!

La società iraniana uscì letteralmente sconvolta dalla seconda “rivoluzione”, soprattutto a causa della riforma agraria varata nel 1963, la quale allontanò dalle campagne milioni di contadini poveri che si riversarono nei centri urbani del Paese per formarvi un esercito industriale a disposizione delle necessità dell’industrializzazione e della stessa urbanizzazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta il 60% della popolazione viveva nella campagna iraniana. Il 15 giugno del ’63 l’esercito iraniano fece fuoco con obici e mitragliatrici sui manifestanti che chiedevano pane e lavoro, uccidendone più di 4.000.

Le città si riempirono a un ritmo vertiginoso di milioni di ex contadini, soprattutto giovani, che non riuscivano a trovare un impiego e che solo nelle “caritatevoli” organizzazioni religiose riuscivano a trovare un qualche conforto materiale e spirituale. Il controllo sociale, com’è noto, ha mille volti, compreso quello barbuto del Misericordioso Mullah. Inutile dire che l’ingerenza della “mano pubblica” nella sfera economica creò una diffusissima rete di corruzione sociale, la quale venne usata dai mullah per esacerbare il rancore degli strati più poveri del proletariato in chiave antimonarchica.

A capodanno del 1978 il Presidente americano Jimmy Carter ebbe l’ardire di dichiarare durante il tradizionale brindisi di fine anno offerto dallo Scià che l’Iran rappresentava un modello di stabilità per tutto il Medio Oriente. Chissà cosa pensò di quelle parole un Pavone ormai ampiamente spennacchiato e prossimo alla fuga più vergognosa. Nel febbraio del 1979, quando la radicalizzazione dello scontro sociale divenne inarrestabile (già ad agosto del ’78 lo Scià fu costretto a promettere «elezioni libere» per il giugno dell’anno successivo), anche i partiti laici, e persino l’Amministrazione americana, si convinsero che puntare sul cavallo chiamato Khomeini fosse la sola opzione possibile per tenere sotto controllo una società in preda a convulsioni e a tensioni di estrema gravità, tali da far temere alle forze antimonarchiche un esito autenticamente rivoluzionario della crisi. La fugace apparizione sulla scena politica del Paese di Sciapur Bakhtiar, dimessosi precipitosamente dal governo all’arrivo trionfale di Khomeini dall’esilio francese, dimostrò che non era possibile una soluzione “convenzionale” (di stampo occidentale) della crisi generale che investiva l’Iran. È anche bene ricordare come solo nel 1978, dinanzi al dilagare delle manifestazioni, l’alto clero sciita iniziò a staccarsi definitivamente dal regime monarchico, dopo averlo supportato più o meno apertamente per decenni e aver contribuito per secoli alla passività delle classi subalterne.

La cosiddetta “rivoluzione islamica” del febbraio 1979 parve insomma surrogare/prevenire una potenziale rivoluzione sociale – resa peraltro impossibile dall’assenza in Iran, come peraltro ovunque nel mondo, di soggetti politici autenticamente rivoluzionari in grado di avere una certa influenza almeno su una parte del proletariato urbano e dei contadini poveri, allora molto numerosi in quel Paese. Ben presto il clero sciita si autonomizzò nei confronti del blocco “laico-socialista” che si era illuso di poter governare il Paese senza la sua ingerenza politica, e prese nelle proprie mani tutte le leve del potere (economico, politico, ideologico), schiacciando brutalmente i partiti che per decenni avevano combattuto il regime di Reza Phalavi. «Khomeini non è un uomo politico: non ci sarà un partito di Khomeini, non ci sarà un governo di Khomeini. Khomeini è il punto di incontro di una volontà collettiva»: così si era espresso Michel Foucault. Sappiamo com’è andata a finire. Come recita il Corano, «L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità».[6] Verità che nel caso di specie si “declina” in termini rigorosamente classisti, al netto della fuffa ideologica dai contorni pseudo religiosi che l’avvolge. Che una repressione violentissima volta a ripristinare l’ordine sociale assuma l’aspetto di una “rivoluzione” (ancorché Islamica) è un falso paradosso che può stupire solo chi non ha chiara la natura sociale degli eventi che si dipanano sotto i suoi occhi. Noi italiani non parliamo forse, mutatis mutandis, di “Rivoluzione Fascista”?

Le organizzazioni di estrema sinistra presenti in Iran inquadrarono gli avvenimenti che scuotevano il Paese all’interno dello schema, ormai storicamente superato, della rivoluzione democratica e antimperialista, dimostrando così la loro estraneità a un’autentica posizione anticapitalista. Per quanto strutturalmente ancora debole e legato a doppio filo all’imperialismo occidentale, il capitalismo si era ormai radicato in profondità nel Paese, mettendo definitivamente in crisi i vecchi rapporti sociali basati sulla rendita fondiaria. L’Iran del 1979 non era la Russia del 1917, né la funzione dello Scià era assimilabile a quella dello Zar. Rimanendo nel quadro delle cose contingentemente possibili, in quel Paese non c’era all’ordine del giorno una rivoluzione democratico-nazionale, ma una modernizzazione capitalistica che permettesse al Paese di superare le vecchie e le nuove contraddizioni. Investire anche solo una parte della borghesia iraniana (e del clero sciita!) di una seppur residuale «missione storica progressiva» non solo era infondato sul piano dell’analisi storica, ma soprattutto creava le premesse per una totale subordinazione delle presunte forze rivoluzionarie agli interessi dello status quo sociale. Scenario che infatti si realizzò. La sanguinosa repressione che colpì quelle forze rese evidente la loro incapacità di analisi, incapacità che aveva creato in esse illusioni davvero risibili ma pienamente conformi alla loro ideologia piccolo borghese.

È un fatto che le preziose energie che il proletariato iraniano seppe dispiegare nel biennio 78-79 non ottennero l’effetto di creare un terreno fertile all’autonomia di classe, con la formazione di organismi politici, sindacali e culturali legati agli interessi immediati e strategici delle classi subalterne. Quelle energie andarono disperse o, peggio ancora, furono usate dalle forze della conservazione sociale, non importa se in guisa laica o clericale. Ma ciò testimoniò anche, se non soprattutto, la debolezza politica e sociale del proletariato mondiale, completamente assente sulla scena storica grazie soprattutto al nefasto lavoro dello stalinismo internazionale.

Dal canto loro i partiti antimonarchici che si contendevano la leadership politica del Paese cercarono di usare i “rivoluzionari” come massa d’urto da lanciare contro il vecchio regime ma badando che il movimento sociale rimanesse sui binari di un mero cambiamento di regime politico, che alla fine ci fu. Insomma, solo il clero sciita si dimostrò all’altezza della situazione, dimostrando ancora una volta come la necessità storica spesso lavori con grande creatività politica e ideologica.

Sviluppo “ordinato” dell’economia, forte e capillare controllo sociale, proiezione del Paese nello scenario internazionale, conquista della leadership in Medio Oriente: dalla fine della guerra con l’Iraq (1980-1988) la “democrazia confessionale” degli ayatollah ha cercato di perseguire tutti questi obiettivi. Lungi dal ripristinare i vecchi rapporti sociali, impresa d’altra parte impossibile, il clero sciita si è posto al servizio dello sviluppo capitalistico del Paese, nei modi più conformi al suo nuovo assetto politico-istituzionale e alla sua nuova collocazione nello scacchiere imperialistico. C’è da dire, per concludere, che cacciati dal Paese gli assistenti americani, l’industria petrolifera iraniana si rivolse soprattutto al Giappone, alla Germania e all’Italia per ricevere gli aiuti indispensabili per riavviare la produzione e riprendere le esportazioni di greggio. L’aiuto arrivò, e ciò mise l’Iran nelle condizioni di portare avanti la lunga e sanguinosissima guerra contro l’Iraq, Paese sostenuto dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Detto en passant, la guerra Iran-Iraq favorì la strana alleanza di fatto tra Iran e Israele, entrambi interessati a frenare le ambizioni del blocco sunnita.

[1] «Oggi per la prima volta le donne saranno ammesse negli stadi in Arabia Saudita. La notizia viene riportata da Arab News» (Ansa). Una notizia davvero epocale! Ho la pelle d’oca! Scherzo, ovviamente. D’altra parte tutto è relativo, come diceva quello. «La decisione era stata annunciata lo scorso 29 ottobre, nell’ambito del processo di riforme avviate dal giovane principe ereditario Muhammad ben Salman».
[2] «L’obiettivo dell’Iran in Afghanistan, sostengono diversi analisti, è contare sempre di più, mantenendo il governo afghano debole, in due modi: aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato Islamico, entrambi nemici dell’Iran. In questo senso è difficile dire se e quanto l’uccisione di Mansour abbia indebolito gli interessi iraniani in Afghanistan. Certamente l’Iran ha perso un importante interlocutore, ma il successore di Mansour, Hibatullah Akhundzada, non ha mostrato finora di avere intenzione di rompere i legami con il governo iraniano. Di certo c’è che l’atteggiamento futuro del Pakistan verso i talebani, e la collaborazione tra il governo pakistano e americano, saranno elementi che condizioneranno il tentativo dell’Iran di farsi largo in Afghanistan» (Il Post).
[3] «La composizione demografica della popolazione, l’alto livello di alfabetizzazione e istruzione (più del 60% degli abitanti ha meno di 30 anni), la posizione geografica strategica (crocevia tra oriente e occidente), e la presenza di una rete sufficientemente sviluppata di infrastrutture, trasporti e telecomunicazioni, sono ulteriori punti di forza del contesto economico iraniano» (Ministero degli Esteri Italiano).
[4] Ovviamente Fatigante quando scrive «socialismo» intende in realtà parlare del Capitalismo di Stato in salsa iraniana promesso quarant’anni fa dal misericordioso clero sciita alle masse diseredate del Paese. Sul “socialismo islamico” avevano nutrito molte – e pietose – illusioni anche gli stalinisti del Tudeh prima che finissero sotto il tallone di ferro della Repubblica Islamica. Ecco ad esempio ciò che dichiarò a un settimane statunitense un dirigente di quel partito per spiegare l’appoggio accordato dai “comunisti” iraniani all’idea avanzata da Khomeini di creare un Consiglio della rivoluzione islamica:  «La religione sciita ha radici democratiche ed è sempre stata legata alle forze popolari nazionali anti-imperialiste. Credo che non ci sia differenza fondamentale tra il socialismo scientifico e il contenuto sociale dell’Islam. Al contrario ci sono molti punti comuni». Ricordo che nelle tempestose giornate del ’79 iraniano anche molti “comunisti” italiani si produssero in stravaganti ipotesi circa la possibilità di mettere insieme l’islamismo sciita (la «religione degli oppressi») e il “marxismo” (la “coscienza degli oppressi”). C’è anche da dire che nei confronti della parola consiglio (Soviet della rivoluzione islamica!) molti “comunisti” manifestano un alto tasso di feticismo, confermando la tesi di chi sostiene la natura magica di certe parole per certe persone.
[5] Un’inchiesta del 2013 della Reuters ha fatto luce sulla Setad, il mega-colosso finanziario iraniano, controllato direttamente dalla Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. «L’immagine al Paese e al mondo è quella sobria, ma la Guida suprema della Repubblica Islamica controlla un impero economico da 95 miliardi di dollari, oltre 70 miliardi di euro, una cifra ben superiore alle esportazioni petrolifere annuali dell’Iran. Nata per fini caritatevoli, nel corso del tempo la società Setad avrebbe cambiato volto, diventando il braccio armato dei vertici dell’Iran e gonfiandosi di partecipazioni private e pubbliche nei settori più delicati anche dal punto di vista geopolitico» (formiche.net).
[6] Allora avevo diciassette anni e le notizie che venivano dall’Iran mi riempivano di entusiasmo “rivoluzionario”; quando poi Khomeini ordinò alle milizie sciite di regolare i conti con gli ex alleati appartenenti alle diverse tendenze politiche antimonarchiche ci rimasi davvero male. Ricordo che un giorno il mio professore di religione, peraltro persona simpaticissima (in pagella mi dava il massimo dei voti!), mi avvicinò lentamente come un serpente per sussurrarmi all’orecchio la seguente velenosa frase: «Sebastiano, devi rassegnarti, le rivoluzioni vanno a finire tutte così, cioè male». Non seppi come replicare e mi nascosi dietro un sorriso di circostanza. Solo qualche mese dopo fui comunque in grado di impartirgli una circostanziata ricostruzione storico-politica degli eventi iraniani che metteva in luce la vera natura sociale della cosiddetta Rivoluzione Islamica. «Sebastiano», obiettò il prete professore, «non mi hai affatto convinto». E mi prestò un libro il cui autore cercava di mettere insieme religione e marxismo. «Dimmi che ne pensi». Lo lessi e scoprii la fulminante frase che mi portò sul campo del “marxismo”: «Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità». Grazie, Padre Papotto!

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donne-siria-1L’attentato di Capodanno a Istanbul e le bombe che hanno accompagnato la visita di Hollande a Baghdad non sono che gli ultimi episodi della guerra totale che ormai da molto tempo il Sistema mondiale del terrore ha dichiarato a tutta l’umanità. Anche la strage ai mercatini natalizi di Berlino si colloca in questo funesto scenario di guerra – “convenzionale” e “non-convenzionale”: una distinzione che non ha alcun significato per le vittime e per le potenziali vittime, ossia per tutti noi.

«Agire contro il terrorismo in Iraq – ha dichiarato Hollande – serve anche a prevenire degli atti di terrorismo contro il nostro territorio. Tutto quello che contribuisce alla ricostruzione in Iraq, rappresenta una condizione aggiuntiva per evitare che da parte di Daesh possano essere condotte azioni sul nostro territorio». La verità è che le vittime francesi del terrorismo islamico pagano la politica imperialista della Francia in Medio Oriente e in Africa. Mutatis mutandis questa affermazione vale naturalmente per tutti i Paesi del mondo (Italia compresa) che con la loro politica estera e il loro attivismo economico mettono a repentaglio la vita dei loro cittadini, i quali sono presi in ostaggio da interessi (economici e geopolitici) che non hanno alcun rispetto né per la vita umana né per i cosiddetti “diritti umani”. La popolazione turca, ad esempio, oggi paga con il sangue e con il terrore la fin troppo ambiziosa e “ambigua” politica interna ed estera del Presidente Erdogan, il quale negli ultimi tempi si è messo a recitare troppe parti in commedia, credendo di poter trarre profitto da un quadro internazionale in forte evoluzione (1).

Con ciò intendo forse dire che il terrorismo di matrice islamista – o qualsiasi altro tipo di terrorismo – ha una natura, anche solo “oggettivamente”, antimperialista? Questo possono supporlo solo gli sciocchi o chi non immagina altra politica che non sia quella di servire una delle parti in lotta: «O stai con lo Stato o stai con i terroristi». Nemmeno per idea! Personalmente lotto, nei limiti delle mie possibilità e capacità, contro tutti gli attori della «Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti», la quale ha come sue vittime privilegiate proprio i civili. Ma questa maligna caratteristica non è nemmeno una novità assoluta, se riflettiamo bene.

Come capita almeno dalla Guerra di Spagna degli anni Trenta del secolo scorso in poi, le prime vittime del Sistema mondiale del terrore non sono i militari organizzati negli eserciti, ma la popolazione inerme ammassata nelle grandi città. Gli Stati pianificano lo sterminio della popolazione civile per costringere il nemico alla resa incondizionata o quantomeno a venire, come si dice, a più miti consigli. Esiste un solo fronte di guerra, e la distinzione tra militari e civili non ha più senso. Com’è noto, nel 1943 Stalin si oppose all’evacuazione della popolazione civile da Stalingrado per costringere l’Armata Russa (altro che rossa!) a non indietreggiare di un solo millimetro, peraltro lo stesso ordine che, dall’altra parte della barricata, l’esercito tedesco ricevette da Hitler: militari e civili, uomini e donne, vecchi e bambini: tutti furono costretti a dare il loro “prezioso contributo” alla causa della “grande guerra patriottica”. Poi sarà il leader nazista (e, non dimentichiamolo, ex alleato di ferro del leader sovietico ai tempi del noto Patto sottoscritto nel 1939) a opporsi nel 1945, a guerra ormai strapersa, all’evacuazione della terrorizzata e affamata popolazione di Berlino, presa in ostaggio nel tentativo disperato di vendere cara la pelle del regime e magari strappare ai nemici condizioni di resa un po’ meno disastrose per la Germania. Insomma, nella guerra moderna la popolazione civile è presa in ostaggio da tutti gli eserciti, ed è usata come “scudo umano” soprattutto dagli eserciti che rischiano di cadere in disgrazia. Sotto questo aspetto, la battaglia di Aleppo è stata davvero emblematica.

Ho accennato alla famigerata battaglia di Stalingrado anche perché è stato il macellaio di Damasco Bashar al Assad, e sulla sua scia non pochi “antimperialisti” (in realtà non più che antiamericani e anti israeliani di vecchissimo e di nuovo conio) basati in Occidente, a porre per primo, in chiave propagandistica, l’analogia tra quella battaglia e la tragedia di Aleppo. Anche il patetico Staffan De Mistura, l’inviato dell’Onu per la Siria dal luglio 2014, parlò qualche mese fa di Aleppo come della «Stalingrado siriana»: «chi vince lì fa pendere la bilancia dalla sua parte»; di qui il carattere particolarmente micidiale che il conflitto siriano ha assunto in quella martoriata città, ridotta a un ammasso di case sventrate, a una mortifera trappola che tiene sotto sequestro migliaia di vecchi di donne e di bambini, prezioso materiale biologico da offrire in sacrificio al Moloch. Ma su questi fatti si riflette nelle pagine che il lettore avrà la bontà di leggere.

Anche sulla definizione di Sistema mondiale del terrore, concetto elaborato con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità), rimando ai post dedicati al tema che il lettore trova in questo PDF, nel quale ho raccolto una parte degli articoli che ho pubblicato negli ultimi sei anni sulla guerra in Siria, sulle cosiddette Primavere Arabe, sulla Questione Mediorientale in generale e sulla cosiddetta radicalizzazione islamista. Gli articoli scelti seguono un ordine cronologico, così che il lettore possa farsi almeno un’idea circa l’evoluzione della situazione “sul campo” e sul dibattito politico-teorico che l’ha accompagnata. Non ho fatto nessun lavoro di revisione dei testi; spero che la ripetizione di argomenti, di concetti e di singole frasi non disturbi oltremodo la pazienza del lettore.

Nel 2011 iniziava in Siria quella che molti hanno definito una «rivoluzione aconfessionale, portata avanti da una parte della società siriana, che reclama libertà, dignità e pari diritti. Una rivoluzione sulla quale si è abbattuta una forte repressione da parte del regime siriano». Così scrive ad esempio Shady Hamadi, attivista per i diritti umani, come egli si definisce, nonché estimatore di Antonio Gramsci e autore di Esilio dalla Siria (ADD Editore, 2016), un breve saggio che ho letto la scorsa settimana. Come il lettore avrà modo di appurare compulsando lo scritto che ha sotto gli occhi, chi scrive non solo non ha mai definito le Primavere Arabe nei termini di eventi rivoluzionari, ma come ha piuttosto cercato di criticare le interpretazioni “rivoluzionarie” delle scosse telluriche che hanno scosso, e che continuano a scuotere, le società mediorientali (2).

Proprio in questi giorni ho riletto quanto ebbe a scrivere Marx nel 1856 a proposito dei moti rivoluzionari del 1848: «Le cosiddette rivoluzioni del 1848 non furono che meschini episodi – piccole rotture e lacerazioni nella dura crosta della società europea». Il lapidario giudizio marxiano, espresso intorno a un eccezionale periodo storico che fece epoca, mi ha fatto subito pensare alla pochezza sociale e intellettuale dei nostri tempi, quando la parola magica “rivoluzione” è usata a destra e a manca per designare ogni sorta di evento. Non c’è nuovo modello di iPhone o di automobile che dal marketing non sia definito “rivoluzionario” rispetto ai precedenti modelli (prodotti solo pochi mesi, o giorni, prima); non c’è starnuto del processo sociale che potenzialmente non meriti di finire nella rubrica degli “eventi rivoluzioni”. Viviamo in una vera e propria inflazione “rivoluzionaria”. Centosessanta anni fa Marx poté, per così dire, permettersi il lusso di parlare del grandioso 1848 nei termini di «cosiddette rivoluzioni» e di «meschini episodi»: che invidia! Chiudo questa breve parentesi “storica” citando i passi di una canzone di Franco Battiato: «L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso» (Up Patriots To Arms). Di qui, mi permetto di chiosare, la necessità di farsi classe autonoma dei dominati di tutto il mondo, il cui disagio sociale e la cui rabbia oggi vengono facilmente usati dalle forze della conservazione sociale per supportare interessi di vario genere: economici, politici, geopolitici, ideologici.

Ovviamente con ciò non voglio in alcun modo dar credito alla tesi di chi ha voluto vedere nelle ormai declassate Primavere Arabe solo un complotto ordito dal cattivo Occidente per spazzare via regimi che opponevano una certa resistenza all’omologazione neoliberista necessaria al processo di globalizzazione capitalistica. Nel suo libro Hamadi, nato a Milano nel 1988 da mamma italiana e padre siriano, dimostra come a proposito del macello siriano la tesi del complotto internazionale teso a distruggere l’ultima Repubblica Araba rimasta indipendente dalle Potenze regionali e mondiali, come recita il format propagandistico del regime siriano ripreso da non pochi “antimperialisti” italiani, non abbia alcun fondamento, come peraltro confermano gli ultimi avvenimenti. «Si vocifera di una futura ridefinizione della Siria in chiave federale, cosa che verrà fatta attraverso una riforma costituzionale dopo nuove elezioni, ma appare evidente che le potenze vincitrici, cioè Russia, Iran e ora la Turchia, avranno nel quadro siriano rispettive zone di influenza. Oltre a loro sarà da vedere cosa otterranno i curdi siriani dell’Ypg, perennemente osteggiati dalla Turchia ma autori di importanti vittorie, ad esempio a Kobane (hanno combattuto anche con i regolari ad Aleppo), e gli Hezbollah libanesi. Sconfitti – è inutile girarci in torno – gli occidentali, che contavano di subentrare alla zona di influenza russa, e le monarchie del Golfo, le quali hanno sovrapposto alla crisi un’infinità di assurde guerre a cominciare da quella confessionale tra sciiti e sunniti e quindi con l’Iran, per arrivare a quella tra Arabia Saudita (al-Qaeda) e Qatar (Isis) per il predominio nel Medio Oriente» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 29 dicembre 2016). Scrivevo nell’ultimo post dedicato all’infernale situazione di Aleppo: «La sorte del regime siriano è completamente nelle mani della Russia e dell’Iran, e la cosa appare evidente soprattutto ad Assad, che infatti teme di essere sacrificato, prima o poi, sull’altare di un accordo tra la Russia di Putin e l’America di Trump (“l’equazione sconosciuta”, secondo la definizione di Le Figaro), magari con l’intesa dell’Iran e della Turchia. In ogni caso, alla “guerra di liberazione” del macellaio di Damasco possono dar credito solo certi inquietanti personaggi che animano l’escrementizio “campo antimperialista”». Personaggi che, infatti, oggi brindano con vodka e italianissimo spumante alla vittoria rigorosamente “antimperialista” della Russia e dell’Iran.

Leggo su un sito “antimperialista”: «Dopo il precedente libico era inimmaginabile che la Russia rimanesse nuovamente alla finestra assistendo alla perdita del suo unico punto d’appoggio navale nel mediterraneo (3), ed era altrettanto inimmaginabile un’inazione da parte dell’Iran di fronte alla possibile caduta della cosiddetta mezzaluna sciita e al suo relativo isolamento». Dal punto di vista strettamente geopolitico, ossia considerato dalla prospettiva degli interessi che fanno capo agli Stati (alle Potenze regionali e internazionali), il ragionamento non fa una piega. Ma da dove ricava l’antimperialista duro e puro la necessità di appoggiare gli interessi dell’imperialismo russo-iraniano contro gli interessi di altri imperialismi?  Certi “antimperialisti” non riescono nemmeno a concepire una posizione indipendente da parte dei dominati o, quantomeno, delle sue – quasi sempre supposte – avanguardie: o si sta con la Russia oppure con gli USA, con l’Iran oppure con l’Arabia Saudita, con l’Esercito regolare siriano o con quello irregolare dell’opposizione (4), con il macellaio di Damasco oppure con quello di Ankara, con gli hezbollah e i fondamentalisti sciiti oppure con la milizia del califfato e altra robaccia sunnita. La loro realpolitik deve sposare per forza la causa di un campo imperialista (nella fattispecie quello centrato sulla Russia e l’Iran) contro il campo avverso: non riescono a immaginare altra prassi politica “concreta”, in grado di “incidere”, e non solo di “testimoniare”. Peccato che quella di molti “antimperialisti” sia una concretezza tutta spesa sul terreno delle classi dominanti e dei loro Stati. Alla loro realpolitik ultrareazionaria contrappongo la testimonianza del punto di vista umano, oggi annichilito dallo strapotere del Sistema mondiale del terrore. Meglio l’urlo del disperato che l’ottimismo “rivoluzionario” affettato dalla sciocca mosca cocchiera.

Cito sempre dal blog “antimperialista” di cui sopra: «La guerra, è quasi banale sottolinearlo, è sempre atroce, e lo è ancor di più quando è combattuta fra civili che spesso vengono utilizzati da una parte o dall’altra come strumento di pressione o come scudi umani. Siamo convinti, come il Che, che essere capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo sia una delle qualità più belle dei rivoluzionari. Se però si rimane esclusivamente nel campo delle emozioni, suscitate ad arte da chi oggi ne detiene il monopolio, il rischio che si corre è quello di restare eterne vittime di quel “terrorismo multimediale dell’indignazione” con cui l’opinione pubblica mondiale negli ultimi decenni è stata manipolata e piegata ad ogni avventura neocoloniale». Leggendo i passi appena riportati forse il lettore crederà di scorgervi  una lunghissima coda di paglia, peraltro sporca del sangue versato dalla popolazione siriana; personalmente non credo che chi pensa in quel modo sia capace di una qualche forma di dubbio autocritico, ancorché celato da pose di dura e pura militanza “rivoluzionaria”. È poi notevole, oltre che caratteristico, il fatto che taluni “antimperialisti” individuino «avventure neocoloniali» solo da un lato dell’Imperialismo unitario (5): il solito! Ricordo come durante l’occupazione russa dell’Afghanistan gli “antimperialisti” di allora negassero in ogni modo che si potesse individuare un fondamento comune nelle politiche estere dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America, e in ogni caso nulla che avesse a che fare con il concetto di Imperialismo, il quale calzava a pennello solo alla politica estera e alla prassi economica degli USA. Eppure già Lenin, ad esempio nella sua celebre opera Lo sviluppo del capitalismo in Russia, scritta tra il 1896 e il 1898, notò come la direttrice espansiva che dal Caucaso si irradiava verso l’Asia Centrale e il Golfo Persico offrisse al giovane Capitalismo russo un vasto e “naturale” territorio da colonizzare (6). Ma lasciamo il “cielo della teoria” e veniamo a questioni politicamente più “concrete”.

Finisco la precedente citazione: «E se queste sono le alternative in campo, anche il né-né-ismo di alcuni compagni rischia di suonare un po’ pilatesco».  Come se la sola scelta possibile fosse tra il leccare il sedere a questo o a quell’imperialismo (a me il sedere di tutti gli imperialisti, grandi o piccoli che siano, dà il voltastomaco!) e una posizione di indifferente neutralità. A certi “antimperialisti” piace vincere facile, e così essi scelgono gli avversari politici che più fa loro comodo, che meglio fa risaltare la loro caratura “rivoluzionaria”. Alla miserabile politica filo-imperialista di simili “antimperialisti” e al «né-né-ismo di alcuni compagni», io oppongo il controtuttismo di chi fa di tutti gli imperialismi, di tutti gli Stati nazionali e di tutti i loro servitori (inclusi quelli che affettano pose “antimperialiste”) un solo disumano fascio meritevole di andare a fuoco.

Nel suo libro Shady Hamadi ricostruisce la genesi della guerra siriana, connettendola con la storia passata e recente della Siria e del Medio Oriente, in modo da collocare correttamente sul piano storico-sociale il regime istallatosi nel Paese con il colpo di Stato del 19 ottobre 1970; e dimostra anche come sia stato il regime di Damasco a cercare scientemente la radicalizzazione dello scontro politico-sociale in chiave di settarismo religioso per catturare il consenso della minoranza alawita che lo sostiene (7), per annegare nel sangue ogni forma di dissenso e per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale come l’unico vero nemico del fondamentalismo islamico, nonché come uno statista interessato a realizzare una società laica e rispettosa di tutte le religioni. E ha fatto ciò con grande spregiudicatezza, ad esempio lasciando mano libera in molte occasioni alla milizia del Califfato Nero, in modo che essa terrorizzasse la popolazione sciita costringendola a trovare protezione sotto le ali del regime, che l’ha prontamente usata contro la popolazione sunnita che sosteneva l’opposizione al regime, accusata dalla propaganda orchestrata da Assad di voler fare della Siria un Califfato sunnita che avrebbe cancellato ogni traccia della presenza alawita.

I limiti “progressisti” di Hamadi vengono fuori soprattutto quando si tratta di «individuare le vittime e colpire i colpevoli». Le vittime si possono facilmente individuare: per farlo è sufficiente guardare le case sventrate di Aleppo e di altre città in Siria, in Iraq nello Yemen e altrove. Per ciò che concerne i «colpevoli» da colpire la cosa diventa meno scontata. Hamadi, ad esempio, tra i colpevoli mette solo i protagonisti di uno schieramento: il regime siriano, la Russia di Putin, l’Iran e la galassia sciita. Secondo lui l’imperialismo americano e quello europeo sarebbero, se solo lo volessero, i veri alleati del popolo siriano in lotta per la pace e per la libertà, e per questo si augura «una lotta contro l’indifferenza», come recita il sottotitolo del suo libro. In tutto ciò, «L’Italia ha un ruolo culturale molto potente. Rispetto a un tedesco, per esempio, nel mondo arabo l’italiano è visto come più vicino alla sua identità e alla sua storia. Abbiamo quindi una possibilità di dialogo maggiore con gli arabi. Anche a livello geografico siamo vicinissimi a loro e dovremo essere noi i primi a portare le istanze arabe all’Unione Europea» (8). La geopolitica dell’Italia, potenza imperialista regionale tutt’altro che stracciona, non poteva trovare migliore sintesi – e mistificazione: l’Italia come benevola potenza culturale. Sic!

Per quanto riguarda la fenomenologia ideologica della guerra che scuote il Medio Oriente e una parte dell’Africa, è qui appena il caso di ricordare che non raramente, e anzi piuttosto frequentemente, la lotta tra le varie fazioni di potere ha preso in diverse parti del mondo l’aspetto dello scontro settario confessionale. Checché ne dicano Angelo Panebianco e Giuliano Ferrara, forse fra i più attivi nella “battaglia culturale” anti-islamista, non è partendo dalla questione religiosa, e nemmeno ponendola al centro dell’analisi, che possiamo dare un senso storico e sociale al groviglio di questioni che danno corpo ai violenti fenomeni che squassano il tessuto sociale dei Paesi musulmani, e che noi occidentali avvertiamo per adesso in forma assai attenuata. Scrive Panebianco: «Se si nega alla lotta armata dei jihadisti carattere religioso, se si sostiene che in quel caso la religione è un pretesto (che nasconde gli interessi materiali in gioco), una specie di “sovrastruttura”, di “oppio dei popoli”, non ci si avvede che un simile ragionamento potrebbe essere esteso logicamente fino a ricomprendere le scelte religiose di chiunque, cristiani inclusi» (Corriere della Sera, 3 gennaio 2017). Ciò consente al prestigioso intellettuale di toccare un tema centrale nella “battaglia culturale” tesa a difendere i valori della Civiltà occidentale, quello della sua «secolarizzazione/scristianizzazione»: «Fra tutte le aree del mondo l’Europa è quella in cui il processo di secolarizzazione (la scomparsa del sacro dalla vita individuale e collettiva) ha raggiunto i massimi livelli: nella sua parte protestante come in quella cattolica (e il fatto non è contraddetto dalla popolarità di cui gode anche fra i non credenti, anche fra tanti atei dichiarati, l’attuale Pontefice). Contrariamente a quanto immaginavano gli illuministi (quelli francesi, non quelli anglosassoni), la scristianizzazione non ha eliminato la “superstizione”, non ha reso gli europei “più razionali”. Ha invece aperto la strada a varie forme di regressione culturale. Per citare solo la più impressionante: sono ormai legioni coloro che pensano seriamente che non ci siano differenze fra uomini e animali (domestici e non). È arduo, per una società siffatta, accettare l’idea che ci sia gente disposta a uccidere e a farsi uccidere in nome di un credo religioso. La secolarizzazione/scristianizzazione porta con sé l’impossibilità di capire un fenomeno del genere». Detto in estrema – e forse volgare – sintesi, l’Occidente sente di non avere più valori per la cui difesa si può anche accettare l’idea dell’estremo e definitivo sacrificio; noi subiamo un irreparabile shock esistenziale se per una tragica fatalità mettiamo sotto le ruote della nostra auto un gattino, mentre il nemico jihadista va incontro alla propria morte col sorriso sulle labbra: come possiamo sperare di batterlo? Probabilmente sono considerazioni di questo genere che spingono diversi intellettuali occidentali di opposto orientamento politico a simpatizzare per il virile Putin, la cui “maschia” politica di potenza sembra almeno rispondere a canoni semplici e riconoscibili.

Naturalmente Panebianco non è così stupido da negare il peso degli «interessi materiali in gioco», perché «nel Medio Oriente attuale, divisioni religiose (ad esempio, fra sunniti e sciiti), divisioni nazionali (ad esempio, fra turchi e curdi), logica di potenza e interessi economici (petrolio e altro), interagiscono, dando luogo a un intricatissimo mosaico. Religione e “interessi” non si escludono mai a vicenda. Gli esseri umani sono complicati. Anche quando pensano “all’Al di là” non smettono, per lo più, di ricercare vantaggi nell’al di qua». Non c’è dubbio; anche se ricorrere al concetto di “essere umani complicati” mi sembra quantomeno riduttivo, diciamo. Forse il concetto chiave idoneo a districare l’intricata matassa potrebbe essere quello di processo sociale capitalistico, un processo storico-sociale che va approcciato nella sua totalità (economia, politica, ideologia, scienza, psicologia) e nella sua dimensione planetaria. Anche su questi temi si riflette nel presente PDF. Ha detto qualche tempo fa il Santissimo Padre: «Quando parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerre di religione». Ecco, spero che il mio sforzo di analisi e di critica sia quantomeno all’altezza della considerazione francescana. Buona lettura!

(1) «La Turchia di oggi è il risultato di questo groviglio di scelte, ed è un campo corso da tante guerre. Compresa la guerra di un terrorismo islamista che non è l’importazione dell’Isis ma si nutre della rabbia interna contro il “tradimento” di Erdogan. Che cosa vada preparando a se stessa la Turchia di Erdogan è ora impossibile prevedere. Si è spinta troppo oltre per riprendere il filo della conciliazione coi suoi curdi nella prospettiva del riconoscimento di un’autonomia federale e di una apertura culturale, che tuttavia sarebbe ancora il primo bandolo dal quale ricominciare la risalita dalla violenza senza tregua. Avrebbe dovuto essere anche l’impegno principale dell’Unione Europea nei confronti di Erdogan, quando era il momento, e quando invece la signora Merkel andò rovinosamente a rendere visita a Erdogan alla vigilia delle elezioni anticipate preparate dalla repressione e dal terrore. Ora, se nessuna intelligenza diversa saprà farsi viva, la Turchia oscilla fra un Erdogan risoluto a durare al costo di una repressione sempre più feroce e arbitraria, e un destino “siriano” di bande armate e burattinai esterni. Destino cui sono legate a doppio filo Europa e Nato» (A. Sofri, Il Foglio, 3/1/2017). Sofri è uno di quegli intellettuali a cui piace un più intelligente e più umano assetto della società capitalistica mondiale, o quantomeno occidentale. A volte mi chiedo se sono più utopista io o certi personaggi orientati in senso progressista e umanitario. Di certo il destino dell’Europa e della Nato non è qualcosa che possa turbare i miei sogni. Diciamo.

(2) «Prima di ogni considerazione è utile dire cosa non è rivoluzione. Negli ultimi anni, con mezza umma in fiamme e presidenti più o meno dispotici rovesciati dalle piazze rabbiose, “rivoluzione” era parola che entrava – al pari di “primavera” – perfino nelle conversazioni serali, a cena. In realtà, spiega Prodi nella premessa al saggio [Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, 2015], “tali fenomeni non solo non hanno niente a che fare con le rivoluzioni, ma ne sono spesso il contrario”. Illusione collettiva, dunque. Basterebbe, d’altronde, riprendere quanto scriveva Ivan Kratsev, che in poche righe aveva smontato per tempo quelle che l’autore definisce “le analisi boriose degli specialisti”. Osservava infatti Kratsev che “l’ondata di proteste non ha segnato il ritorno della rivoluzione: le proteste, come le elezioni, servono piuttosto a tenere il più lontano possibile la rivoluzione e le sue promesse di un futuro radicalmente diverso”» (M. Matzuzzi, Il Foglio, 25/05/2015). Rinvio ai diversi post dedicati alla questione.
(3) Mosca torna prepotentemente ad occuparsi del Medio Oriente e dei suoi interessi regionali. E lo fa schierando una dozzina di navi da guerra nei pressi della sua unica base navale estera, quella siriana di Tartus. Bastimenti “sottratti” alla Flotta russa del Mar Nero, del Baltico e del Pacifico, questi per la prima volta nel Mare Nostrum dopo oltre vent’anni di assenza. […] Era il 31 dicembre 1992, esattamente un anno dopo la deflagrazione dell’Urss, quando Mosca decise di smantellare la sua 5ª Flotta, lo squadrone di decine e decine di navi da guerra presenti nel Mediterraneo. Oggi, dopo oltre vent’anni, eccole di nuovo. In numero inferiore, ma ugualmente pronte a difendere gli interessi della Russia e i suoi alleati» (M D. Bonis, Limes, 22/05/2013). «Paradossalmente la Russia è un Paese debole, un colosso dai piedi d’argilla dalle infrastrutture obsolete, il suo Pil è inferiore a quello dell’Italia, dipende dalle esportazioni di greggio e gas. Però Putin e Lavrov hanno saputo giocare benissimo a loro favore le debolezze occidentali. Ora godono della luna di miele con Trump, si permettono una fuga in avanti per dettare nuove regole del gioco prima che questi prenda davvero in mano le redini della politica Usa». È la fine della nato? «No, non lo credo. Putin ha il fiato corto: vince sullo scatto, però non tiene nella resistenza. Le sue sono vittorie di breve periodo. Trump lo sostiene per motivi tattici. Ma è anche un pragmatico e gli Stati Uniti sono infinitamente più forti» (Intervista a Gilles Kepel, Il Corriere della Sera, 29/12/2016).
Intanto, non pochi sovranisti italioti di “destra” e di “sinistra” si godono la spettacolare «luna di miele» tra la strana coppia. Fin che dura…
(4) Scrivevo nel 2012: «Il cosiddetto Esercito Siriano Libero è foraggiato finanziariamente e militarmente soprattutto dalla Turchia e dall’Arabia Saudita, che giocano, come sempre, una doppia partita: una per conto dell’Occidente (Stati Uniti, in primis) e una per proprio conto, per conseguire obiettivi economici e politici fin troppo evidenti, e che hanno nell’Iran il loro punto di snodo più delicato. La dialettica fra sciismo e sunnismo ha senso solo se inquadrata all’interno di questo schema. Insomma, analogamente alla cosiddetta Primavera Araba, la guerra che si combatte oggi in Siria ha un segno interamente negativo per le masse subalterne di quel Paese, come per le masse arabe in generale, le quali versano sangue – e patiscono fame e oppressione – per conto di forze, nazionali e transnazionali, che sono nemiche dell’umanità e della libertà. In questo scontro esse non hanno nulla da guadagnare, mentre rischiano tutti i giorni di perdere anche la “nuda vita”. Ecco cosa accade alla massa degli sfruttati quando non hanno la coscienza e la forza di porsi come classe, ossia come un soggetto attivo di storia, e non come strumenti passivi di una storia scritta, con l’inchiostro rosso-sangue, dalle classi dominanti, non raramente divise in fazioni che si disputano il controllo di un Paese o di un’area geopolitica» (Cosa ci dice la Siria).
(5) Quando parlo di Imperialismo unitario (non unico!) intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964). In ogni caso, Imperialismo unitario e Sistema mondiale del terrore sono espressioni di una stessa realtà, concettualizzazioni di una stessa cosa, se non lo stesso concetto rubricato in due modi diversi.
(6) «L’importante è che il capitalismo non può esistere e svilupparsi senza estendere continuamente la sfera del suo dominio, senza colonizzare nuovi paesi e trascinare i vecchi paesi non capitalistici nel turbine dell’economia mondiale. E questa particolarità del capitalismo si è manifestata e continua a manifestarsi con grandissima forza nella Russia» (Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Opere, III, p. 599, Editori Riuniti, 1956). In un certo senso l’intervento dell’imperialismo “sovietico” in Afghanistan rappresentò per questo Paese un’occasione di modernizzazione capitalistica che veniva a intaccare i vecchi equilibri di potere. I limiti del Capitalismo russo, assai arretrato se confrontato con quello americano ed europeo, spiegano in larga parte la grave sconfitta dell’impresa russa in Afghanistan che accelererà il processo di disgregazione dell’Unione Sovietica. Anche la Russia di Putin deve confrontarsi con la debolezza strutturale del Capitalismo russo.
(7) «Le fortune sociali degli alawiti cominciano sommessamente, sotto il Mandato francese sulla Siria negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Dopo la grande rivolta siriana del 1925, la Francia cerca di riprendere in mano la situazione e recluta tra gli alawiti – disprezzati dal resto dei siriani – un corpo di fedeli caporali e sottoufficiali. Il Peso degli alawiti crescerà molto lentamente all’interno delle forze armate e prenderà corpo solo con la formazione del Partito socialista della resurrezione panaraba (Baas). […] Hafez Al Assad da pilota si fa strada fino ai vertici militari come generale di aviazione. Per poi diventare ministro della Difesa nella seconda metà degli anni Sessanta. […] Hafez Al Assad, pur essendo un fido alleato già allora dell’Urss di Nikita Khrusciov e Leonid Breznev, si trovò ben presto in rotta di collisione con le correnti più estremiste e collettiviste perché cercava un compromesso con la borghesia mercantile damascena e aleppina, (che quindi non data dall’altro giorno) e con le comunità religiose non musulmane, come le diverse confessioni cristiane fortemente presenti nelle professioni liberali e tecniche oltreché nel commercio. L’ascesa ai vertici dello Stato e della Repubblica data dall’autunno del 1970. [… ] L’ascesa ai vertici di Assad padre e zio, poi in acerba lite tra loro, ha condotto nel corso di oltre un quarantennio a una forte penetrazione della minoranza alawita (tra il 12-15%) della popolazione – ma le stime vanno prese con beneficio d’inventario – nelle forze armate e negli apparati vitali dello Stato. Ciò non significa che, per un quarantennio, il clan degli Assad abbia potuto reggersi unicamente sugli alawiti o su altre minoranze religiose, senza il consenso di importanti settori sociali emanazione della maggioranza religiosa sunnita. La rivolta degli ultimi 11 mesi sta però a dimostrare che questo consenso si è largamente infranto» (P. Somaini, Linkiesta, 12/02/2012).
(8) Intervista rilasciata da Shady Hamadi a Wereporter.

C’È ANCORA QUALCOSA DA BOMBARDARE AD ALEPPO?

18-1-600x400«Qui giace Aleppo», scriveva ieri Libération, nella sua ennesima denuncia della pavidità esibita in questi anni dall’Occidente democratico, nonché inventore dei «diritti umani», nei confronti del ben più assertivo e spregiudicato Putin – che proprio ieri è stato scelto da Forbes, per il quarto anno consecutivo, come persona più potente del mondo: «Dal suo Paese, fino in Siria, passando per le elezioni americane, Putin continua a ottenere quello che vuole». Che soddisfazione per i tanti figli di Putin italiani che stravedono per il virile Vladimir, il quale sempre ieri ha ricevuto dal regime iraniano le «vivissime congratulazioni» per i successi militari russi mietuti a Palmira e ad Aleppo.

Aleppo come Grozny? Forse anche peggio, magari solo per confermare la macabra – ma quanto veritiera! – tesi secondo la quale il peggio non conosce misura. Aleppo. Una città che ha (o forse dovrei scrivere aveva) alle spalle una lunghissima storia; la città che fino al 2011 era considerata la capitale economica della Siria. Oggi di quella città non rimane che un cimitero di uomini e un deserto di edifici sventrati. La guerra di sterminio (o di “pulizia” politica, etnica e religiosa) organizzata e portata avanti con inaudita ferocia da Bashar al-Assad, con il decisivo apporto della Russia putiniana, dell’Iran e dei miliziani libanesi di holzebollha, sembra volgere al termine. Infatti, è rimasto ben poco da bombardare, da catturare, da fucilare, da torturare. «Ancora tre settimane fa», scriveva ieri Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera, «si parlava di 250.000 persone intrappolate nelle zone orientali. Ora sono ridotte forse a 50.000. Gli altri sono nelle mani del regime e tutto ciò inquieta, fa paura. Per molti aspetti una tragedia annunciata. Già all’inizio delle rivolte contro il regime nella primavera 2011 le manifestazioni pacifiche furono represse nel sangue con violenza inaudita e sproporzionata. Mosca e Damasco li chiamano “terroristi”. Ma sono di civili le grida di aiuto che giungono da Aleppo. “Ci massacrano. Aiutateci! Gli sciiti di Hezbollah e i miliziani di Assad selezionano gli uomini quando si arrendono con le loro famiglie. Li prendono, li picchiano e poi spariscono. Non sappiamo più nulla di loro. Ma sentiamo spari, tanti spari. Che li stiano già fucilando?”, ci diceva via Skype dal quartiere circondato di Salaheddin tre giorni fa Ismail Alabdullah, noto Casco Bianco (come vengono chiamate le squadre di soccorso che cercano i sopravvissuti tra le macerie). “Non so se potrò parlare ancora. Ci stanno bombardando”, diceva a sera tarda domenica. Ora il suo numero tace». Speriamo che sia solo «il suo numero» a tacere. Ma l’ottimismo qui ha davvero poco senso.

«Il dramma di Aleppo – scrive Alberto Negri sul Sole 24 Ore di oggi – è che i guerriglieri di Al Nusra tengono in ostaggio i civili e non intendono arrendersi alle condizioni del regime di Damasco. A loro volta le truppe di Assad non esitano a bombardare a tutto spiano anche i civili. Gli iraniani non vogliono mollare i jihadisti di Aleppo se non in cambio della fine dell’assedio degli sciiti di Fuaa e Kefraya nell’area di Idlib. La Russia e la Turchia (che con l’Iran si troveranno a Mosca il 27 dicembre)  fanno finta di negoziare per salvare la faccia: Putin non vuole passare come il macellaio di Aleppo ed Erdogan deve farsi perdonare di avere mollato i jihadisti che ha sostenuto fino a ieri contro Assad prendendo i soldi dalle monarchie del Golfo. Gli Stati Uniti […] hanno molto da nascondere e poco da dire di fronte alla sconfitta. Quasi ne uccide più l’ipocrisia che le bombe». Più che di ipocrisia io parlerei, più realisticamente e al di là dei soliti infantili piagnistei sui «grandi della Terra che non riescono a trovare un accordo per il bene della pace e dell’umanità» (e la coscienza è soddisfatta!), di guerra per il potere – politico, militare, economico, ideologico. E questo vale per tutti i protagonisti della carneficina, i quali da anni tengono in ostaggio il popolo inerme di Aleppo e dell’intera Siria. Analogo discorso ovviamente vale per la guerra nello Yemen. Un conto è il linguaggio della guerra, che dice sempre la verità (basta intenderla); un conto affatto diverso è il linguaggio della propaganda di chi difende e ricerca il potere per mezzo della guerra. Tutto il resto è… ipocrisia.

Il regime di Assad ha – per adesso, in attesa di una futura “soluzione diplomatica” del conflitto – salvato la pelle. «La vittoria del regime su Aleppo sarebbe un duro colpo per l’opposizione: Damasco avrebbe così il controllo delle quattro maggiori città del paese. Tuttavia, questo avvenimento non segnerebbe la fine del conflitto civile, cominciato nel 2011. Resta dubbia la capacità delle forze governative di mantenere il controllo dei territori riconquistati, nonostante l’intervento russo abbia consentito ad Assad di cambiare le sorti del conflitto e guadagnare terreno» (The Post Internazionale). La sorte del regime siriano è completamente nelle mani della Russia e dell’Iran, e la cosa appare evidente soprattutto ad Assad, che infatti teme di essere sacrificato, prima o poi, sull’altare di un accordo tra la Russia di Putin e l’America di Trump («l’equazione sconosciuta», secondo la definizione di Le Figaro), magari con l’intesa dell’Iran e della Turchia. In ogni caso, alla «guerra di liberazione» del macellaio di Damasco possono dar credito solo certi inquietanti personaggi che animano l’escrementizio “campo antimperialista”.

«I presidenti di Russia e Turchia, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, hanno discusso del conflitto in Siria e “in particolare dello sviluppo della situazione ad Aleppo” in una conversazione telefonica: lo ha riferito il Cremlino nella tarda serata di ieri, sottolineando che i due capi di Stato “hanno rimarcato la necessità di unire gli sforzi per migliorare la situazione umanitaria e facilitare il lancio di un vero processo politico in Siria”. Putin ed Erdogan hanno inoltre discusso della cooperazione tra Russia e Turchia, anche nel settore energetico» (ANSA). Insomma, la geopolitica e la geoeconomia macinano fatti, non si fermano davanti a niente e a nessuno, alla faccia di chi vede nell’inferno siriano (o yemenita) solo vecchi, bambini, uomini e donne affamati, assediati e uccisi: in guerra, per dirla con Diderot, «Di giusto, tutto sommato, basta avere la mira» (Il nipote di Rameau).

Non c’è dubbio, la Russia, l’Iran e il blocco sciita controllato da Teheran stanno portando a casa una bella vittoria sulla concorrenza geopolitica regionale e mondiale. I fascisti e gli stalinisti (camerati e compagni, ogni camuffamento “nuovista” è inutile dalle mie parti!) di casa nostra che negli ultimi cinque anni hanno sostenuto «la causa del Popolo siriano» (cioè, tradotto per chi non conosce il lessico del “Campo Antimperialista”, la causa del regime siriano) possono stappare con legittimo orgoglio qualche bottiglia di italianissimo spumante: quella vittoria – e il relativo bagno di sangue – è anche la loro vittoria. Gli si potrebbe obiettare che è facile “fare politica” con gli Stati e con gli eserciti – e che eserciti! – degli altri, ma bisogna pur concedere ai tifosi della squadra vincente qualche piccola soddisfazione.

Scriveva Lorenzo Declich lo scorso ottobre: «In questi ultimi tempi l’amore per Bashar al-Assad è riuscito ad allineare fascisti, alcuni comunisti, alcuni pacifisti, persino leghisti e – da ultimi – alcuni grillini. Ma com’è potuto succedere?». Non vorrei passare per quello che “la sa più lunga degli altri”, anche perché non è così, purtroppo; e tuttavia devo confessare che la cosa “paradossale” denunciata da Declich non mi sorprende affatto, tutt’altro. Come ho scritto negli ultimi post dedicati al cosiddetto populismo, gli estremi si toccano quando essi insistono sullo stesso piano – o terreno di classe, nella fattispecie. La metafora geometrica mi sembra abbastanza chiara. Fascisti e cosiddetti “comunisti” (in realtà si tratta di vetero o “post” stalinisti, gente che in ogni caso non ha nulla a che fare con l’autentico comunismo) condividono lo stesso terreno di classe (borghese/capitalista/imperialista), come sempre al netto di fraseologie “anticapitaliste” e “antimperialiste” che possono convincere solo qualche sprovveduto in materia di Capitalismo e di Imperialismo.

La tifoseria fascio-stalinista pro Assad e pro Putin, e lo stesso silenzio del cosiddetto Movimento Pacifista, così sensibile quando a bombardare e a massacrare in giro per il mondo sono stati gli Stati Uniti d’America, si spiegano benissimo con la tradizione antiamericana che nel nostro Paese è stata forte tanto a “destra” quanto – certo, soprattutto – a “sinistra”. Ancora prima della Seconda guerra mondiale molti fascisti, stalinisti e cattolici polemizzavano con lo stile di vita americano, e individuavano negli USA il cuore di quel demoniaco capitalismo «liberista-selvaggio» che ben presto avrebbe provocato il tramonto definitivo dei tradizionali valori prodotti dalla Civiltà europea. Mutatis mutandis, per certi personaggi siamo ancora a questo punto.

Per quanto riguarda l’attuale mutismo del “Movimento Pacifista”, mi limito a ricordare che è dagli anni Cinquanta che esso subisce la cattiva egemonia di partiti (a cominciare dal PCI di Togliatti) e di gruppi politici (la cosiddetta “estrema sinistra”) che nel pessimo mondo vedevano in opera un solo imperialismo – inutile specificare quale.

Scrive Marco Santopadre su Contropiano: «Ovviamente, al di là delle dichiarazioni di circostanza dei governi siriano e russo, sono numerosi i civili rimasti uccisi nelle ultime settimane sotto le bombe sganciate dai caccia o i colpi di mortaio sparati dai cosiddetti ribelli che hanno tentato di ritardare la loro sconfitta rifugiandosi negli edifici, nelle scuole, negli ospedali e nelle moschee. Quella siriana, d’altronde, è una guerra civile atroce, combattuta casa per casa, strada per strada. In una guerra del genere che coinvolge grandi città, non è pensabile che la popolazione civile non venga massicciamente colpita». Si sa, la «guerra civile» non è un pranzo di gala, «non è pensabile che la popolazione civile non venga massicciamente colpita»: cerchiamo di essere realisti! «Non posso andarmene da Aleppo perché faccio parte del personale medico e questo vuol dire che agli occhi del regime sono un terrorista», racconta un infermiere al quotidiano britannico The Guardian. È la «guerra civile», bellezza! E poi, perché rilasciare simili dichiarazioni a un quotidiano occidentale che fa parte del mainstream mediatico venduto ai poteri forti occidentali?

«Ma salta agli occhi», continua Santopadre, «la intollerabile partigianeria delle versioni diffuse dai media e dalle classi politiche occidentali. Se le conseguenze sui civili degli attacchi e dei bombardamenti su Aleppo o prima su altre città da parte delle truppe siriane o delle forze russe vengono fedelmente riportate e spesso anche amplificate, le vittime degli analoghi raid compiuti dai caccia statunitensi o francesi o britannici o dalle artiglierie turche vengono sistematicamente ignorate, e scompaiono dalle cronache. […] Se è vero che una parte della popolazione di Aleppo ha reagito con terrore e preoccupazione all’ingresso nei quartieri orientali delle truppe siriane e degli alleati russi, iraniani e libanesi, temendo ritorsioni per aver collaborato con i jihadisti o aver apertamente parteggiato per loro, è altrettanto vero che una parte consistente degli abitanti della seconda città del paese è scesa in strada a festeggiare la tanto attesa liberazione. Perché sostiene il regime, perché ritiene il regime il male minore rispetto al terrore jihadista, perché spera semplicemente che la Siria possa tornare presto alla normalità dopo anni di scontri feroci, di morti, di distruzioni. Ancora: è possibile dar credito alla versione secondo cui i bombardamenti russi su Aleppo causino sempre vittime tra i civili mentre quelli statunitensi su Mosul o Raqqa si limitino a eliminare, “chirurgicamente”, i capi di Daesh senza colpire coloro di cui i jihadisti si sono circondati per ritardare l’avanzata dei nemici?». In buona sostanza, secondo Santopadre per combattere la propaganda dei «media mainstream occidentali», che «occultano sistematicamente le notizie non conformi», bisogna prendere per buona la propaganda orchestrata dal regime siriano e dalla Russia (*). Come non inchinarsi dinanzi a questa stringente logica “antimperialista”? O si sta da una parte della «guerra civile», o si sta dall’altra: l’autonomia di classe non è nemmeno concepita in linea di principio. E ciò non mi stupisce affatto conoscendo certi polli.

Tra l’altro il nostro “antimperialista” non fa nemmeno un accenno al ruolo decisivo che il regime di Assad ha avuto all’inizio della crisi siriana deflagrata nel marzo del 2011, e «da subito tramutatasi in scontro armato indiretto tra un numero consistente di potenze locali e internazionali». Da subito? Scriveva Francesco Tronci nella sua interessante lettera al Popolo della sinistra: «Non c’era Daesh in Siria, non c’erano le armi, non c’era la guerra, non c’era neanche la richiesta di rovesciare il regime: i manifestanti chiedevano delle riforme, e solo dopo mesi di brutale repressione passarono dalla richiesta di riforme al chiedere la caduta di Assad. Non c’era perciò alcun elemento su cui fondare quella subdola propaganda che in seguito avresti usato contro la rivoluzione siriana. Non c’era niente di tutto questo, ma guarda caso non c’eri nemmeno tu. […]  Era il 2012 quando i governi d’Europa e il governo degli Stati Uniti, coloro che avevano i mezzi per supportare le forze progressiste, decisero di lasciare che la Siria bruciasse. Per anni i siriani hanno combattuto per la libertà contro questi barbari, per anni hanno chiesto un aiuto di base per assicurarsi che la libertà inizialmente conquistata nel 2011 dal movimento popolare pacifico potesse essere goduta fuori dalla portata della barbarie: di Assad e dei suoi barili bomba, dei gas mortali e del napalm; dell’Iran, con i suoi squadroni della morte, le sue milizie ed il suo costante flusso di soldi e armi; della Russia e della sua aviazione, dei suoi missili, i carri armati, il fosforo bianco e una diplomazia imperialista che consente il genocidio. Non arrivò nessuno ad aiutarli, nessuna solidarietà giunse in maniera organica dalla sinistra mondiale e da parte tua, popolo della sinistra, neanche quando la rivoluzione non aveva ancora imbracciato le armi e i manifestanti pacifici venivano massacrati dal regime, incarcerati, torturati». Sperare che l’imperialismo occidentale (europeo e americano) potesse correre in aiuto della «rivoluzione siriana» mi sembra quantomeno frutto di un pensiero politicamente ingenuo, né penso si possa parlare, in generale, delle cosiddette Primavere arabe nei termini di «rivoluzioni», cosa che ovviamente non implica (non ne vedo i minimi presupposti) sostenere i regimi contestati nelle piazze arabe né imputare al solito complotto targato USA-ISRAELE il malessere sociale della popolazione mediorientale. Sulla natura sociale delle Primavere arabe rimando ai miei post dedicati al tema (ad esempio: Si fa presto a dire “rivoluzione”, Teoria e prassi della “rivoluzione”. A proposito della “Primavera Araba”).  La lettera di Tronci è interessante soprattutto perché l’autore si sente parte di quel «popolo della sinistra» che sta dando un pessimo spettacolo «agli occhi della storia»: «Questa lettera che ho deciso di scriverti nasce da un moto impetuoso di indignazione e sconcerto.  […] Per questa ragione, popolo della sinistra, dovremmo tutti vergognarci». Naturalmente l’invito non mi riguarda, non avendo io mai fatto parte del «popolo della sinistra». Almeno questa vergogna mi sia risparmiata!

Scriveva il già citato Declich: «Possiamo discutere quanto vogliamo del comportamento degli americani in Siria, in Medio Oriente e nel mondo. Possiamo fare una storia dell’imperialismo americano, costellata di fatti terribili e intollerabili. Tuttavia dobbiamo aprire un altro capitolo, avendo sempre in mente che l’infamia di uno non cancella quella di un altro, e che non esistono imperialismi migliori degli altri. Esempio: radendo al suolo la Cecenia a partire dalla metà degli anni Novanta, Putin non ha combattuto contro l’imperialismo americano. Anzi, quando dovette finire il lavoro, all’inizio del nuovo millennio, lo si poteva vedere andare a braccetto con gli americani: tutto il mondo – e quindi anche i russi – diceva di fare la “guerra al terrore”. E ai russi fu dato semaforo verde in Cecenia. C’è chi, però, fa un ragionamento definito “campista”: si immagina che esista questo “Grande Imperialista americano” da sconfiggere, e che quindi tutti gli altri – cioè il campo opposto – siano i “buoni”, o che comunque servano la causa e dunque vadano bene. Nella realtà, però, questi campi non esistono». In realtà esiste un solo grande (quanto il nostro pianeta) e disumano campo: quello degli interessi economici, politici e geopolitici che fanno capo alle classi dominanti e ai loro Stati nazionali, piccoli o grandi che siano. «Non c’è più patria; da un polo all’altro non vedo nient’altro che tiranni e schiavi» (Diderot).

Solo dei servi sciocchi possono scindere – nella loro testa – il campo imperialista in Paesi “buoni”, o comunque “meno cattivi”, e Paesi decisamente “cattivi”, e decidere di appoggiare “tatticamente” i primi contro i secondi, credendo che questo sia il solo realistico modo di “fare politica”. Non c’è dubbio, così si fa politica: la politica delle classi dominanti, degli Stati, delle Potenze, degli imperialismi, grandi o piccoli che siano. La politica di chi si oppone all’imperialismo unitario (il campo che “ospita” la contesa interimperialistica) è ovviamente enormemente più difficile, e oggi essa appare perfino irrealistica, talmente forti sono le classi dominanti in tutto il mondo e tragicamente deboli le classi subalterne.

Non ho dunque messaggi di speranza per un “pronto riscatto” da comunicare al mondo? Oggi no. A volte è meglio non mettere nemmeno un po’ di zucchero nell’amara bevanda offertaci gentilmente dalla vita, e apprezzare per intero la condizione di impotenza politico-sociale che caratterizza la nostra, pardon: la mia esistenza.  (Non voglio coinvolgere nessuno nel mio pessimismo). Lo so che a Natale si può dare di più, ma pure  l’autoinganno ha i suoi limiti. Per acquistare un po’ di speranza a basso costo ci si può sempre rivolgere a Papa Francesco, o, male che vada, al “Campo Antimperialista”. Sic!

(*) Un solo esempio: «Chi chiede una tregua in Siria vuole in realtà “dare una possibilità” ai miliziani di respirare ed essere riforniti di armi, ha accusato senza mezzi termini il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov sostenendo che il blitz di Daesh a Palmira sarebbe stato reso possibile dalla tregua de facto concessa dalla coalizione internazionale a guida statunitense ai jihadisti di Mosul. Ieri il portavoce del ministero della Difesa russo, generale Igor Konashenkov, aveva dichiarato che ad Aleppo “nelle zone orientali sono state tenute come scudi umani dai terroristi più di 100 mila persone. Tutte queste, nel più breve tempo possibile, sono state evacuate dalla zona e hanno raggiunto le zone controllate dal governo siriano, ottenendo aiuto reale e cibo”» (M. Santopadre). Che brava gente! Altro che imperialismo russo!

YEMEN E SIRIA. DUE PAESI, LA STESSA GUERRA

untitledMentre l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale è tutta concentrata sul macello siriano e sul tragico destino della popolazione civile rimasta intrappolata tra le macerie di Aleppo, nello Yemen si continua a morire: «Sanaa (Yemen), 9 ottobre 2016. È di 155 morti e oltre 500 feriti il bilancio ufficiale, seppur provvisorio, delle vittime del raid aereo compiuto oggi a Sanaa. Le bombe hanno colpito in pieno una sala dove era in corso un funerale del padre di un esponente di spicco dei ribelli sciiti Houthi (*). Nella sala c’erano circa 2 mila persone per partecipare ai funerali di Ali bin Al-Ruwaishan, padre del ministro dell’Interno del governo dei ribelli Houthi, Jalal al Ruwaishan. Tra gli esponenti di spicco dei ribelli sciiti yemeniti che hanno perso la vita in questo attacco c’è il sindaco di Sanaa, Abdel Qader Hilal. Il ministero degli Esteri iraniano ha condannato l’attacco così come il leader delle milizie sciite libanesi Hezbollah, che ha tenuto stasera un discorso pubblico in occasione delle celebrazioni di Ashurà a Beirut. Da parte sua la coalizione a guida saudita nega qualsiasi responsabilità per il raid sul funerale» (Quotidiano.net). Negare, negare sempre, anche contro ogni più bruciante evidenza: è, questa, una linea di difesa adottata con successo da tutti i criminali che possono vantare uno status di legittimità politica sul piano internazionale. Salvo inattesi rovesci sul fronte militare… La domanda che però dobbiamo farci per non rimanere vittime della guerra propagandistica degli Stati (di tutti gli Stati) è la seguente: chi giudica sulla legittimità etico-politica di un’azione bellica? La domanda può essere riformulata in questi altri e più generali termini: da quale prospettiva osserviamo il processo sociale (massacri bellici inclusi) mondiale?

Dopo l’ennesimo “incidente di percorso” in terra yemenita Ned Price, portavoce della Sicurezza nazionale USA, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sono «molto turbati da una serie di attacchi ai civili»: «Alla luce di ciò che è accaduto adesso abbiamo cominciato a rivedere il mostro già abbastanza ridotto sostegno alla Coalizione e lo renderemo compatibile con i principi, i valori e gli interessi degli Stati Uniti, tra cui vi è la fine immediata di questo conflitto. La cooperazione con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco». I principi, i valori e gli interessi che ispirano la politica estera della prima potenza imperialista del pianeta non sono compatibili con l’uso indiscriminato della forza militare, come peraltro attesta nel modo più evidente l’intera storia degli Stati Uniti. Scherzo per allentare la tensione. Inutile dire che l’altro imperialismo da sempre ispirato da principi, valori e interessi che stanno al vertice della scala etica (sì, alludo alla Russia) gongola dinanzi al “turbamento” dei competitori a stelle e strisce. Nelle conversazioni “da bar” si dice: «Il più pulito dei due ha la rogna». Discutibile sotto l’aspetto dottrinario, la battuta rende bene l’idea.

Com’è noto, la Coalizione a guida saudita, costituitasi a marzo dello scorso anno e sostenuta politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna, è composta da Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco e Sudan; il “fronte sciita” che sostiene gli Houthi è guidato dall’Iran, potenza regionale in forte ascesa. «La partita a scacchi che si sta svolgendo tra Iran e Arabia Saudita non è solamente in Siria ma anche nei paesi della Penisola Arabica come lo Yemen. La guerra civile yemenita tra i ribelli Houthi, sostenuti da Teheran (che però nega), e le forze sunnite del governo di Abd Rabbo Mansour Hadi, appoggiate dai sauditi, ha raggiunto livelli critici dopo l’intervento militare della coalizione della Lega Araba volto a sconfiggere gli Houthi. L’intervento, criticato dall’Iran, non ha avuto i risultati sperati visto la resistenza delle forze sciite e la loro capacità di muoversi nelle zone montagnose di confine con l’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi le forze Houthi hanno compiuto lanci di missili balistici verso e postazioni militari dei sauditi oltreconfine, che li hanno intercettati: i missili, secondo americani e sauditi, sono risultati di provenienza iraniana, cosa che constata l’esistenza di un supporto logistico di Teheran alle forze ribelli» (F. Cirillo, Notizie Geopolitiche). Sulla competizione fra “fronte sciita” e “fronte sunnita” rinvio al post Alcune considerazioni sul conflitto mediorientale.

Secondo Human Rights Watch, «Stati Uniti, Regno Unito, Francia, e altre nazioni occidentali dovrebbero sospendere tutte le vendite di armi all’Arabia Saudita, almeno fino a quando smetterà i suoi attacchi aerei illegali nello Yemen». I massacri causati dagli attacchi aerei “legali” vanno dunque bene? Lo so, si tratta di una domanda sciocca, tipica di chi irride l’aureo e umanissimo principio del “male minore”: la guerra è sempre brutta, si capisce, ma lo è di più se essa si dispiega in modo selvaggio, ossia se gli attori in campo non rispettano le leggi che il Diritto internazionale ha previsto anche per il conflitto armato fra gli Stati. Se tutti i Paesi si attenessero alle buone maniere prescritte dal Diritto internazionale, questo mondo sarebbe un luogo meno brutto e cattivo. Forse… Scusate, ma dinanzi a queste idiozie legaliste il mio piccolo cervello si rifiuta di funzionare, per cui mi tengo cara la sciocca ironia di cui sopra. A forza di ingoiare, anno dopo anno, pane e “male minore”, «stiamo creando nel mondo reale l’Inferno di Dante» (Tom Hanks). Io non sarei così ottimista…

Su un documento redatto lo scorso marzo dalle Nazioni Unite si legge che nello Yemen «gli attacchi sono avvenuti sui campi per sfollati interni e dei rifugiati; sui raduni civili, compresi i matrimoni; sui veicoli civili, sugli autobus, sulle strutture mediche, le scuole, le moschee, i mercati, le fabbriche e i magazzini di stoccaggio degli alimenti, sull’aeroporto di Sana’a, sul porto di Hudaydah e le vie di transito nazionali». Se uno Stato nazionale massacra la gente inerme, si tratta di una «legittima operazione bellica», o al più di un errore, di un effetto collaterale: dopo tutto, la guerra non è mai stata un pranzo di gala; se la stessa poco commendevole azione ha come protagonisti i cosiddetti “ribelli”, chiamati anche terroristi, ecco che magicamente ci troviamo dinanzi ad «inaccettabili azioni terroristiche». Due pesi e due misure? Esatto! Lo schema appena considerato naturalmente si ripete inalterato a diverse latitudini, come vediamo in Siria, in Turchia, in Israele, ovunque un “legittimo governo” è chiamato a tenere a bada dei “ribelli”, o “terroristi” che dir si voglia. All’Onu grandi e piccole Potenze si accapigliano intorno a queste distinzioni, le quali non hanno nulla a che fare con il cosiddetto Diritto internazionale astrattamente considerato (esattamente come quello interno alle singole nazioni, il Diritto internazionale non è che il diritto del più forte), mentre hanno molto a che vedere con interessi economici e geopolitici di grande peso, tale da schiacciare gli individui metaforicamente e, a volte, realmente. Per questo ho definito, con un trasparente intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo, Sistema Mondiale del Terrore la società che ci ospita, la cui violenza sistemica (economica, politica, ideologica, psicologica) non smette di crescere e di radicalizzarsi, con improvvise accelerazioni che sempre più spesso sono segnalate dallo scorrere del sangue, del sangue vero, e non solo da quello metaforico.

Anche il nostro “pacifico” Paese dà il suo non disprezzabile contributo alla carneficina di donne, bambini e vecchi che hanno la sventura di vivere nelle aree yemenite toccate dal conflitto. «L’Italia guarda con grande interesse al ruolo dell’Arabia Saudita, per la stabilità della regione, e al rafforzamento dei rapporti bilaterali tra i due paesi», ha dichiarato qualche giorno fa la Ministra della Difesa Pinotti, la quale il 4 ottobre si è recata in visita dagli alleati sauditi. «Al centro dei colloqui tra la ministra Pinotti e il re saudita ed in particolare il Vice principe ereditario e ministro della Difesa, Muhammad Bin Salman, vi sono stati nuovi “contratti navali”. “The talks are said to have focused on naval deals between both countries” – riporta testualmente il sito Tactical Report. Considerato che i colloqui erano tra ministri della Difesa non è difficile immaginare che si sia trattato di navi militari. Lo fa capire chiaramente l’agenzia di stampa saudita: “They discussed bilateral relations and ways to enhance them, especially in the defense field”. Non a caso, quindi, nella delegazione italiana era presente il Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti, il Generale di Squadra Aerea Carlo Magrassi. Per il ministero della Difesa il centro dei colloqui sarebbe invece stato “la formazione e l’addestramento militare”. “Durante il meeting si è parlato dello sviluppo della cooperazione bilaterale con un focus particolare sui settori della formazione e dell’addestramento militare” – riporta il comunicato ufficiale del Ministero. Di addestramento militare hanno sicuramente bisogno soprattutto gli avieri sauditi che da oltre un anno e mezzo stanno bombardando lo Yemen senza alcun mandato internazionale, ma sostenuti dall’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito» (Unimondo.Org). La spessa cortina di silenzio mediatico che ha coperto la missione italiana in Arabia Saudita dimostra che quando vuole il nostro Paese sa ben recitare il ruolo della piccola ma seria potenza regionale dalle grandi ambizioni – quantomeno adeguate ai suoi interessi economici e geopolitici, vivaddio! E già che ci siamo: Evviva l’Italia! Ops… Il nazionalista che c’è in me per un istante ha preso il sopravvento, come quando assisto a una partita di calcio degli Azzurri; basta distrarsi un attimo, ed è fatta. Chiedo scusa al lettore devoto all’internazionalismo proletario!

«Chiediamo alla coalizione a guida saudita e ai governi che la supportano, in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Francia, di garantire l’applicazione immediata di misure volte ad aumentare in modo sostanziale la protezione dei civili. Il fatto che staff medico e persone malate o ferite vengano uccise all’interno di un ospedale dice tutto sulla crudeltà e la disumanità di questa guerra». Così dichiarava Joan Tubau, direttore generale di Medici Senza Frontiere lo scorso 15 agosto, dopo il bombardamento aereo contro l’ospedale di Abs che provocò 19 morti e 24 feriti. Personalmente non ricordo nessuna guerra, lontana o vicina nel tempo, che non abbia avuto gli odiosi requisiti della crudeltà e della disumanità. Nessuna. Ma dai coraggiosi medici che corrono in soccorso delle vittime, non si può certo pretendere anche una concezione critico-rivoluzionaria del mondo; per come la vedo io, il problema non sta nella mancanza di “coscienza di classe” di Tubau e compagni, ma nell’impotenza sociale e politica delle classi subalterne del pianeta. La rituale marcia pacifista Perugia-Assisi si è svolta sotto gli auspici dello slogan francescano Vinci l’indifferenza; ma si tratta piuttosto di vincere l’impotenza, appunto.

A propositi di “concezione critico-rivoluzionaria” e di “coscienza di classe”! Scrive Piotr, un esponente del partito che combatte «l’egemonismo statunitense e il neoliberalismo» di stampo occidentale: «Il messaggio della Russia è chiaro: Signori (anzi “partner occidentali”), non ci spaventate. Odiamo la guerra ma siamo pronti a combatterla. E lo sapete bene. E sapete bene che quando la Russia deve difendersi può diventare brutale. Attenzione allora a due cose. Gli statunitensi pensano che sia possibile un’escalation, da uno stato di guerra circoscritto a uno generalizzato e nel frattempo vedere come reagisce l’avversario. Pensano ciò perché a parte la Guerra Civile hanno sempre combattuto le altre guerre al di fuori dai loro confini. I Russi invece avranno la guerra subito in casa. I missili della NATO stanno ora solo a 100 km da San Pietroburgo. La guerra per loro sarà per forza di cose da subito totale. Questo gli Europei lo capiscono (ci sono già passati), ma gli USA no. Ecco allora la seconda cosa a cui fare attenzione. Se gli USA, presi da disperazione e scelleratezza, arriveranno veramente a un passo dalla guerra con la Russia, la NATO si sfascerà. Basterà questo a salvarci? Ad Aleppo si gioca il destino del mondo». Personalmente non ho la stessa certezza di Piotr sull’assoluta importanza strategica di Aleppo, anche se ovviamente non sottovaluto (sarebbe davvero impossibile!) la dimensione geopolitica del conflitto che ha trasformato quella città in un abisso di violenze, di morte, di dolore. Ma non è sull’aspetto strategico e geopolitico della questione che intendo brevemente soffermarmi.

«Ad Aleppo si gioca il destino del mondo»: e sia! Ma di quale mondo si parla qui? Si tratta forse del mondo dominato dal Capitale, dagli Stati nazionali, dall’Imperialismo (mondiale e regionale, “occidentale” e “orientale”) e da ogni sorta di “brama di potere”? Non c’è dubbio. Ora, lungi dal condannare in blocco, “senza se e senza ma”, questo disumano mondo; il mondo appunto dello sfruttamento, dell’oppressione sociale e delle guerre, Piotr prende piuttosto posizione a favore di una cosca capitalista/imperialista: quella che riunisce tutte le nazioni nemiche degli Stati Uniti, a cominciare da quella Russia che «odia la guerra» ma non ne ha paura – a differenza del poco virile Occidente che preferisce lasciare ai suoi servi sciocchi mediorientali il lavoro sporco! La posizione qui presa di mira illustra perfettamente, e solo per questo ne faccio oggetto di critica sommaria, l’abisso che corre tra il punto di vista geopolitico (nel caso specifico orientato in senso antiamericano e filosovietico, pardon: filorusso) delle classi dominanti, espresso dai suoi intellettuali variamente orientati in senso ideologico (“realisti”, “idealisti”, “marxisti”, “liberisti”); e il punto di vista a esso antagonista che invita – ahimè inutilmente! – le classi subalterne di tutto il mondo a piantare un cuneo nel cuore del «drago dalle molteplici spire» (Sofocle), anziché sostenere una qualsiasi di quelle spire contro le altre.

Il 7 ottobre Piotr pubblica un altro articolo il cui titolo lascia davvero poco spazio all’immaginazione: L’ultima guerra. Leggiamo (e tocchiamo ferro, o qualche altro scaramantico articolo): «È col cuore grave che sono costretto a prendere atto che dal giorno 6 ottobre 2016 una guerra tra la Russia e gli USA è possibile in ogni momento. Una guerra che può avere devastanti effetti anche per noi. Per quanto sia orrendo e penoso parlarne, bisogna farlo, perché i grandi media nascondono questa serissima eventualità. Non ne parlano perché vogliono continuare a farci pensare a una guerra mondiale come a un videogioco e perché vogliono continuare a convincerci che lo Zio Sam alla fine prevarrà, perché è il più forte e perché è nel giusto, qualsiasi cosa faccia. […] L’unica possibilità di uscirne vivi è che l’impero si de-imperializzi, accetti un mondo multipolare e in quello negozi la propria nuova posizione. Il contrario della dottrina dei neocon. Noi, l’Italia e i Paesi europei, dobbiamo facilitare, promuovere questa inversione di marcia. Per farlo dobbiamo opporci alle politiche imperiali, non c’è altro da fare». Per il Nostro, come per molti altri “antimperialisti”, nel mondo esiste un solo vero polo imperialista: quello cosiddetto occidentale a guida statunitense. Le mosche cocchiere dell’”antimperialismo militante” lavorano notte e giorno, giorno e notte per dividere quel polo: «Occorre privilegiare i rapporti non coi settori disponibili a un olocausto nucleare ma con quelli disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Da questo punto di vista, è meglio tifare per l’”isolazionista” Trump o per l’”internazionalista” Clinton in vista delle prossime Presidenziali? Ardua risposta! Nel dubbio, il mio piccolo cervello mi invita (vedi il mio attuale stato di schizofrenia!) a mandarli entrambi a quel Paese, quello che piace tanto ai grillini.

cartina-moEcco dunque il mondo che piace a certi “antimperialisti” nostalgici della Guerra fredda: il «mondo multipolare», la “democrazia imperialista”, il pluralismo degli interessi nazionali. Ora, dal punto di vista delle classi dominate, si scorge forse qualche pur lieve differenza tra mondo unipolare, mondo bipolare e mondo multipolare? A me non pare; dalla mia prospettiva si tratta di tre differenti assetti geopolitici dello stesso disumano – o capitalistico – mondo. Ma Piotr non è d’accordo; egli vede agire nel mondo due opposte forze: quelle del Male, «disponibili a un olocausto nucleare» perché accecati da una demoniaca follia che si ribella anche agli interessi economici del Capitale e agli interessi politici degli Stati, e quelle del Bene, «disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Come si fa a non appoggiare le forze del Bene?! «Se, come penso, solo il potere politico è in grado di avere un progetto grandioso, occorre allora che negli USA riesca ad esprimersi un potere il cui grandioso progetto sia quello di non fare una guerra. Non sarebbe la fine dei problemi, perché l’inizio dei problemi è la cattiva infinità del processo di accumulazione. E quindi non è nemmeno la rivoluzione, ma non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Qui sottoscrivo, senza alcuna ironia (almeno ci provo!): «non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Prima dobbiamo conquistare la possibilità di rimanere in vita, e solo dopo, eventualmente, possiamo pensare di fare la rivoluzione. La logica di Piotr appare inattaccabile. Giungiamo alla conclusione: «È vero, spesso gli schemi si ripetono. Anche John Hobson all’inizio del secolo scorso implorava l’Impero Britannico di adeguarsi al nuovo mondo multipolare di allora per evitare una guerra mondiale. Ma l’Impero s’impuntò e così iniziò un lunghissimo conflitto armato segnato da due grandi battaglie. La prima fu chiamata I Guerra Mondiale e la successiva II Guerra Mondiale. L’Impero vinse nella conta finale dei morti, ma perse l’egemonia mondiale che passò agli USA. È vero, il genere umano c’è ancora, ma gli schemi non si ripetono nelle stesse condizioni. Mai. Le devastazioni della I Guerra Mondiale (che doveva essere l’ “ultima guerra”) superarono quelle di tutte le guerre precedenti, ma vennero ampiamente surclassate da quelle della II Guerra Mondiale (che doveva essere l’”ultima guerra”). Ma le devastazioni della III Guerra Mondiale non verranno superate da quelle seguenti perché non rimarrà più niente da devastare. Quella con molta probabilità sarà veramente l’ultima guerra». Come diceva il bravo cantante, lo scopriremo solo vivendo – o solo crepando, nella peggiore delle ipotesi, nel caso in cui dovessero prevalere, anche in grazia delle sciagurate posizioni qui espresse dal sottoscritto, le demoniache forze del Male.

Siccome mi sento inadeguato dinanzi alla stringente logica storica di Piotr, finisco questo modesto pezzo nascondendomi dietro l’autorità di un celebre antimperialista (senza le solite virgolette!): Herman Gorter, il quale nell’autunno 1914 scriveva quanto segue: «Causa di questa prima guerra mondiale è il capitalismo. Il capitalismo mondiale, che cerca di espandersi. Tutti gli Stati cercano piazze di smercio per i loro prodotti, cercano fonti di alti interessi pei loro capitali. L’imperialismo non vuole solo colonie, vuole anche sfere d’influenza per il commercio e un monopolio industriale e finanziario. […] Tutte le chiacchiere dei partiti borghesi e socialisti e dei loro organi, che si fa una guerra di difesa, e che si è stati costretti a farla perché si era aggrediti, non sono che un inganno, destinato a nascondere la propria colpa sotto una bella apparenza. Dire che la Germania o la Prussia o l’Inghilterra è la causa della guerra sarebbe tanto stolido e falso, quanto l’affermare che la crepa nata in un vulcano è la causa dell’eruzione. Da anni ed anni tutti gli Stati europei si armavano per questo conflitto. Tutti vogliono soddisfare la propria rapace avidità. Tutti sono egualmente colpevoli» (**). Tutti egualmente colpevoli, “aggressori” e “aggrediti”, perché tutti assoggettati alla Potenza sociale chiamata Capitale, un “Impero del Male” anonimo e dal carattere sempre più aggressivo – “a 360 gradi”: dalla sfera economica a quella politica e geopolitica, da quella culturale e ideologica a quella psicologica.

Più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti e rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali (non a caso spesso faccio riferimento all’esibita virilità dello “Zar” Vladimir) e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionale o/e imperialista – magari inseguendo l’”antimperialismo” (di nuovo le antipatiche virgolette!) a senso unico di certi ex filosovietici.

(*) «Il golpe degli houthi (sciiti), dietro al quale vi sarebbe l’Iran (che però nega), è arrivato nel gennaio 2015 dopo che per mesi avevano chiesto invano alcuni riconoscimenti come l’inserimento di 20mila appartenenti alla minoranza sciita nelle forze armate governative, l’assegnazione di 10 ministeri e l’inclusione nella regione di Azal, di Hajja e dei governatorati di al-Jaw. […] Si calcola che dall’inizio della guerra civile i morti siano già 7mila, di cui la maggioranza civili (G. Keller, Notizie Geopolitiche).(**) H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, pp. 51-52, Edizioni Avanti!, 1920.

MACELLO SIRIANO. C’ERA UNA VOLTA IL MOVIMENTO PACIFISTA…

colomba-medio-orienteUn morto è una tragedia, un milione di morti sono una statistica.

Fecero un deserto e lo chiamarono Pace.

«Pacifism won’t work», Il pacifismo non funziona: così titolava a tutta pagina il Catholic Herald nel numero uscito lo scorso 29 aprile. Come non essere d’accordo? Certo, si tratta poi di capire il senso ideologico e politico di questa mera constatazione dei fatti. L’articolo di Adriano Sofri pubblicato ieri dal Foglio può forse aiutarci a cogliere qualche aspetto significativo del problema messo sul tappeto dalla rivista cattolica, la quale, detto en passant, paventa una “deriva pacifista” da parte della Chiesa di Roma che la porterebbe a rinnegare il principio del «legittimo uso della forza nelle situazioni peggiori». Scrive Sofri:

«Esattamente nelle ore in cui il mattatoio di Aleppo culmina nei crimini di guerra di Putin e Assad contro inermi ostaggi del fanatismo jihadista, […] i nobili pacifisti – nobili davvero, ci credono davvero, quando si mobilitano per lasciare indisturbato il genocidio di Ninive e quando si mobilitavano per lasciare indisturbato il genocidio di Srebrenica – chiamano guerra il soccorso, e credono sinceramente di opporsi alla guerra quando si oppongono al soccorso. […] La Siria è l’esempio più perverso e colossale nella storia contemporanea dei disastri dell’omissione di soccorso. Cinque anni fa Assad scatenò una violenza ottusa e spietata contro i ragazzi delle sue scuole e i suoi sudditi che volevano farsi cittadini. Tre anni fa Assad violò provocatoriamente la solenne Linea Rossa fissata da un Obama renitente e illuso che non l’avrebbe mai davvero superata. Assad è un criminale all’ingrosso ma non è stupido: aveva capito bene Putin e aveva capito bene Obama. Forse avevano capito bene anche il pacifismo e il Papa. […] Che i curdi si battano e valorosamente e dalla parte giusta sono disposti più o meno volentieri ad ammetterlo tutti: ma anche i più incantati sostenitori del valore delle curde e dei curdi del Rojava parlano più volentieri del confederalismo democratico sperimentato colà che della combinazione fra il loro valore militare e l’apporto aereo degli americani e dei francesi. Senza il quale Kobane sarebbe ancora in mano all’Isis, più o meno come le città italiane di settant’anni fa in cui pure si battevano arditamente e immaginavano un mondo giusto i partigiani». Sofri conclude il suo articolo ribadendo la necessità «di invocare una polizia internazionale a protezione di chi soccombe, nel momento in cui soccombe».

Ora, non so se sia meno “utopista” la mia posizione radicalmente anticapitalista, che incita (peraltro inutilmente!) le classi ovunque oppresse, sfruttate e macellate a rispondere alla guerra dei padroni del mondo con la guerra di classe spinta fino alla rivoluzione sociale (campa cavallo!), o l’interventismo “umanitario” di Sofri, indicazione politica che peraltro è perfettamente organica al Sistema Mondiale del Terrore – un po’ come la Croce Rossa è da sempre organica al sistema della guerra. Quando parla di «polizia internazionale» egli certamente pensa ai mitici “caschi blu” dell’Onu («e ho detto tutto», come dicevano i fratelli Caponi); ma pensa anche all’imperialismo, pardon: all’internazionalismo democratico e progressista del Presidente Obama, il quale per molti suoi tifosi europei, oggi delusi, è rimasto vittima della sempre attiva sindrome di Monaco (correva l’anno 1938), mentre per sovramercato incombe sui destini del mondo la sinistra ombra isolazionista dell’inquietante Trump.

Certo è, che il silenzio emesso negli ultimi anni dal movimento pacifista, così reattivo e rumoroso tutte le volte che gli Stati Uniti hanno monopolizzato la scena bellica in qualche parte del pianeta (in Afghanistan e in Iraq, ad esempio), è davvero assordante, cosa che, a mio avviso, porta acqua al mulino delle tesi di chi ha sempre denunciato la sudditanza ideologica di quel movimento, o almeno della sua parte più organizzata e militante, nei confronti del vecchio antiamericanismo di matrice “comunista”, eccellente supporto politico-ideologico dei Paesi concorrenti della Potenza americana. Ma ovviamente non tutti la pensano così.

«Le fotografie dei bambini siriani feriti e morti nei bombardamenti indignano, ma non mobilitano. Nessuno si muove per mettere fine alle strage di Aleppo. Perché? Ne abbiamo parlato con Flavio Lotti, coordinatore della Tavola della Pace e tra i promotori della Marcia Perugia – Assisi. Cosa risponde a chi vi contesta di aver fatto grandi mobilitazioni quando la controparte erano gli Stati Uniti, per esempio al tempo di Bush? “No, non è cosi, queste sono solo le solite vecchie polemiche. Certo c’è stato negli anni chi si è mobilitato esclusivamente per quello (contro gli Stati Uniti, ndr), ma il movimento per la pace italiano ha radici antiche e ben altro spessore. E sono convinto che rinascerà”. Questo è un auspicio e nel frattempo? “Dobbiamo interrogarci, riflettere, senza scaricare le responsabilità su altri”» (P. Bosio, Radio Popolare, agosto 2016). Buona riflessione, dunque.

Nel frattempo le agenzie di tutto il mondo informano che «Le forze governative siriane, sostenute dall’aviazione russa, da militari iraniani e dagli Hezbollah libanesi, si preparano a un’offensiva di terra senza precedenti contro Aleppo Est». Pare che Putin stia valutando una soluzione di stampo ceceno per la martoriata città siriana: farne una tabula rasa, come accadde alla fine degli anni Novanta a Grozny. Della serie: Fecero un deserto e lo chiamarono Pace.

«Da venerdì, 96 bambini sono stati uccisi e 223 sono stati feriti dai bombardamenti effettuati sulla città di Aleppo. A riferirlo è l’Unicef, che ha definito “un incubo vivente” quello in cui sono “intrappolati” i piccoli siriani: “Non ci sono parole per descrivere le sofferenze che stanno patendo”» (TGcom 24). L’altro aspetto tragico dell’incubo vivente è che nessuno può dire oggi di non saperne niente: tutti sappiamo tutto in tempo reale: a colazione, a pranzo e a cena. E a questo punto i fratelli Caponi avrebbero saputo come ben chiosare. Rimane da dire che «Il segretario di Stato americano, John Kerry, ha minacciato di congelare la cooperazione con la Russia sulla Siria. Gli Stati Uniti stanno valutando inoltre “opzioni non diplomatiche” per far fronte alla crisi siriana». Il linguaggio politicamente corretto degli imperialisti “occidentali” è davvero comico: «opzioni non diplomatiche»! Ecco perché molti analisti geopolitici ascoltano più volentieri il rude e virile linguaggio di Putin.

A proposito del movimento pacifista, Francesca Borri la pensa in modo diverso da Flavio Lotti; in un articolo pubblicato qualche mese fa su Internazionale (Perché i pacifisti in occidente non manifestano contro Assad) scrive: «La solidarietà esiste, non è vero che il movimento pacifista non ha più capacità di mobilitazione. Il problema è che in Siria sta con Assad. Sta con l’uomo che ha usato ogni arma possibile contro i siriani, dai gas alla morte per fame, l’uomo che ha inventato i barili esplosivi, che per anni ha bombardato tutti tranne i jihadisti dello Stato islamico. L’uomo che ha finito per uccidere o ferire il 12 per cento della popolazione che sostiene di governare. Ma che è da molti considerato il male minore. Perché tutto è meglio dell’islam. E non importa che oltre la metà dei siriani, ormai, siano sfollati o rifugiati, non importa che quattro siriani su cinque siano sotto la soglia di povertà e che un milione di loro vivano mangiando erba e bevendo acqua piovana, e che secondo gli economisti ci vorranno 25 anni perché il paese torni a essere quello di prima della guerra, quando secondo le Nazioni Unite il 30 per cento dei siriani viveva già sotto la soglia di povertà. Non importa che Assad abbia demolito la Siria, non importa che abbia distrutto un’intera generazione, che abbia trasformato i siriani in un popolo di mendicanti, coperti di fango e stracci agli angoli delle nostre strade, annegati sulle nostre coste. Non importa che proprio come i suoi tanto criticati oppositori resista solo grazie al sostegno esterno, che non riesca a vincere questa guerra neanche con l’appoggio di Hezbollah, della Russia, dell’Iran e di centinaia di mercenari: non importa che stiamo mantenendo al potere uno che in realtà non ha potere. Non importa: perché Assad è laico. E questa, per noi, è l’unica cosa che conta».

Ma “noi” chi? Noi “occidentali”? noi “pacifisti”? In ogni caso, chi scrive è ovviamente schierato anche contro gli interessi dei Paesi “occidentali”, a cominciare da quelli italiani, che nell’area mediorientale non sono irrilevanti, tutt’altro – e non sempre in armonia con gli interessi degli “alleati” europei: vedi Libia. Quanto al pacifismo, no, decisamente non posso definirmi un pacifista. D’altra parte, la pace è un lusso che questo mondo disumano – perché fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – non può concedersi.

Leggi anche:

LA SIRIA E IL SISTEMA TERRORISTICO MONDIALE

LA RADICALIZZAZIONE DEL MALE. OVVERO: IL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE

Desolation

Presentazione

Ho raccolto nel PDF che invito il lettore a compulsare diversi articoli da me dedicati, più o meno direttamente, all’espandersi del cosiddetto «terrorismo di matrice islamica» nel Vicino/Medio Oriente e in Africa, e soprattutto alle sue ramificazioni nel fronte Nord Occidentale di quella che Papa Francesco ha definito, rivelando con ciò stesso una non trascurabile acutezza politica, «la Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti». Non ho fatto nessun lavoro di revisione dei testi; spero che la ripetizione di argomenti, di concetti e di singole frasi non disturbi oltremodo la pazienza del lettore.

Con il concetto di Sistema Mondiale del Terrore ho cercato, non dico di dar conto nei dettagli, ma quantomeno di evocare la complessa fenomenologia del Dominio, per coglierne alcuni suoi fondamentali modi di essere che vanno poi a costituire l’oggetto d’indagine di diverse scienze sociali: politologia, geopolitica, sociologia, psicologia e così via. Ciò a partire da un preciso – e abbastanza trasparente –  intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo, volto a mettere in chiaro la mia posizione sulla scottante “problematica” qui affrontata: terrorizzante e terroristica è la società mondiale vigente, la cui negazione dell’umano si radicalizza anno dopo anno. Questo anche a proposito di nichilismo.

Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Per quanto riguarda la mia posizione radicalmente “umanista”, consiglio invece la lettura di: Eutanasia del Dominio, L’Angelo Nero sfida il Dominio. Anche questi testi sono scaricabili in formato PDF.

Dice il Santissimo Padre: «Quando parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerre di religione». Ecco, spero che il mio sforzo di analisi e di critica non contraddica la serietà della Cosa, la cui essenza chiama in causa, a mio avviso, anche il concetto – e soprattutto la prassi – di Imperialismo.

Indice

Presentazione p. 4
La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore p. 5
Guerra e rivoluzione p. 21
Appunti dall’inferno p. 37
Tutto il male del mondo p. 48
Il punto sulla Siria e sul Sistema Mondiale del Terrore p. 54
Assediati e presi in ostaggio. A Madaya come a Istanbul, Parigi e ovunque p. 58
Alcune considerazioni sul conflitto Mediorientale p. 61
Sorridete! Gli spari sopra sono per noi! p. 72
La guerra secondo Libération p. 79
A che punto è la guerra? p. 82
Ostaggi e vittime del Sistema Mondiale del Terrore. Cioè tutti noi! p. 91
Riflessioni sui noti fatti parigini p. 101
Nessuno tocchi Allah! Né il suo Profeta preferito p. 108
Rojava mia bella p. 112
Sbadigliare, vomitare o mozzare teste? p. 119
L’alternativa del Dominio secondo Massimo Fini p. 125
Riflessioni agostane intorno al bellicoso mondo p. 127
Primavere, complotti e mosche cocchiere. Siria e dintorni p. 138

TUTTO IL MALE DEL MONDO

Quale verità per Giulio Regeni?

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«Il suo volto così come restituito dall’Egitto era diventato piccolo, piccolo, piccolo. Sul suo viso ho visto tutto il male del mondo che si è riversato su di lui» (Paola Regeni).

Ho appena finito di leggere un interessante e istruttivo articolo di Alberto Negri dedicato alla «storia ignobile di Giulio Regeni», pubblicato il 31 marzo dal Sole 24 Ore. Istruttivo soprattutto per quel che riguarda la “fenomenologia” politico-diplomatica dell’imperialismo nostrano. Eccone un’ampia sintesi:

«Regeni è stato ammazzato probabilmente dalla polizia egiziana, che fosse italiano è secondario: lavorava per un’istituzione accademica britannica, aspetto importante che però non è così decisivo. La polizia ha l’ordine di tenere d’occhio gli stranieri che ficcano il naso negli affari interni: per sostituire l’islamismo serve un nazionalismo ferreo, implacabile, anche stupido, esercitato in ogni direzione. Il sistema conta più delle persone o dobbiamo ricordare tutti i morti. L’Italia è stato il primo governo in Europa a sdoganare il generale golpista. Consegnando il corpo e facendo fuori quattro criminali da strapazzo, Al Sisi pensava di chiudere il caso: un “incidente” che ha coinvolto il cittadino di un Paese sempre pronto a corteggiarlo pur di fare affari, non diversamente peraltro da russi e francesi che vendono caccia e incrociatori. Loro, peraltro, sono anche suoi alleati in Cirenaica, in contrasto evidente con i nostri interessi in Tripolitania. I misteri? Ce ne sono ma non così fitti. Il più evidente è perché abbiano gettato il cadavere in un fosso quando anche i più stupidi tra “i bravi ragazzi” l’avrebbero occultato sotto tre metri di cemento. La scena è questa: Al Sisi avrà chiesto a un suo sottopancia perché un ministro italiano dell’Economia invece di parlare con lui solo di affari avesse chiesto dove fosse finito un suo connazionale. I raìs non gradiscono imprevisti. Il capo si è inferocito e scendendo per i rami gerarchici e dell’apparato di sicurezza gli autori dell’omicidio, impauriti, si sono liberati in giornata del cadavere pensando di simulare un incidente. Perché questa era la prima versione con cui speravano di cavarsela con il Capo, non con noi che per loro non contiamo nulla. Da qui è partita una sequela di errori e giustificazioni. Persino il Capo nell’intervista procurata a un giornale italiano cerca di accreditare la teoria del complotto: un sabotaggio agli affari dell’Eni. Musica per noi giornalisti che sulle dietrologie non ci batte nessuno. Ma questa è una storia sbagliata, dove la sorte terribile di una vittima ingigantisce l’infamia e la stupidità dei suoi assassini. E ora cerchiamo “soddisfazione” da chi non può darcela, tentando di montare un intrigo internazionale perché non sappiamo cosa fare. Fateci caso. I due marò, Regeni, la Libia di Gheddafi: siamo diventati i campioni delle fregature, noi, il Paese dei furbetti. Di Regeni in molti dissero, prima di correggere il tiro con la consueta eleganza, che forse non doveva ficcare il naso tra gli operai e i sindacati, ora è diventato un eroe “italiano”, la maschera sanguinante dove nascondere le nostre meschinità e indecisioni. È questa, come cantava Guccini, la piccola storia ignobile del nostro Paese e gli altri la conoscono bene. Cambiarla dipende da noi, non dal generale Al Sisi».

Cambiare la «piccola storia ignobile del nostro Paese»? Io mi chiamo fuori! Personalmente sono attratto da cambiamenti assai più epocali e utopistici: il realismo, come sa il lettore avvezzo a questo Blog, non è mai stato il mio forte e comunque lo lascio volentieri nelle mani di chi ama «il nostro Paese», non importa se “declinato” da “destra” o da “sinistra”. Il «nostro Paese» colleziona “brutte figure” in giro per il mondo? Benissimo! Mille di queste “brutte figure”! Faccio del disfattismo antinazionale? Mi pare oltremodo ovvio. «Vedremo se il governo Renzi, davanti a questo caso politico-diplomatico gravissimo, inalbererà l’orgoglio tricolore come per i due marò sotto processo in India, oppure si comporterà in maniera codarda col pretesto della “realpolitik”» (CampoAntimperialista). Ecco, il mio punto di vista antinazionale si colloca su un terreno “dottrinario” e politico affatto diverso, più precisamente: opposto da quello che ha fatto germogliare la perla “Antimperialista” appena citata. Nella mitica e fatidica “Notte di Sigonella”* Bettino Craxi mostrò coraggio dinanzi agli arroganti alleati americani, e gli “antimperialisti” dell’epoca si produssero in un miserabile (quanto non sorprendente) applauso di approvazione nei confronti di un Premier decisionista che era riuscito a inalberare l’orgoglio tricolore mille volte maltrattato; allora come oggi la natura “antimperialista” di certi “antimperialisti” è piuttosto sospetta, diciamo. A volte l’”antimperialismo” ama mostrarsi con il volto del nazionalismo più ottuso: misteri della “dialettica”!

C’è un modo rapido e “dignitoso” per venire fuori dal cul de sac politico-diplomatico nel quale si è cacciata la relazione speciale italo-egiziana? «Come può difendere la propria dignità un paese come l’Italia? Continuando a insistere per ottenere verità e giustizia, senza abbandonare i propri interessi» (Il Foglio). Dello stesso avviso è ovviamente Paolo Scaroni, vicepresidente della banca Rotschild ed ex amministratore delegato di Enel ed Eni, grande conoscitore del Medio Oriente e sostenitore della divisione della Libia nelle tre storiche “macroregioni” (Cirenaica, Tripolitania, Fezzan) poi accorpate violentemente dall’Italia fascista nel 1934 – naturalmente la Tripolitania dovrebbe essere di nostra competenza. «Faccio solo due osservazioni. Mi sembra un po’ presto per tirare le conclusioni della vicenda Regeni. Primo, dobbiamo essere vigili ed esser certi di non essere presi in giro, per rispetto della famiglia e per la nostra stessa dignità nazionale. Le conclusioni vanno tirate quando sarà chiaro se hanno voglia di darci una risposta seria o meno. Secondo, il maggior interesse al gas di Zohr non è dell’Eni o dell’Italia ma dell’Egitto stesso, che ne ha un bisogno disperato. Con lo sviluppo di quel giacimento, il Cairo tornerà infatti a essere autosufficiente. Per questo vanno valutate reazioni intempestive, che invece di punire il colpevole, finiscano per penalizzare la parte sbagliata» (Il Corriere della Sera).

Ora, per come la vedo io è proprio la logica «del nostro Paese», della «nostra dignità nazionale», degli «interessi nazionali» (logica da estendersi a tutti i Paesi del mondo) che ci tiene inchiodati ideologicamente e psicologicamente alla croce di questa ignobile società mondiale che ci espone a ogni sorta di trattamento disumano e a ogni tipo di pericolo: non siamo sicuri nemmeno quando aspettiamo o prendiamo un mezzo di trasporto, o quando ci concediamo un momento di relax secondo il nostro insuperabile “stile di vita” – oggi preso di mira dal “nichilismo islamico”. Ogni luogo di ritrovo è diventato parte del fronte bellico. Figuriamoci cosa può capitare a chi si mette in testa la bizzarra idea di «ficcare il naso tra gli operai e i sindacati» di un altro Paese!

Ieri il Premier Renzi ha ribadito un concetto che corrisponde agli interessi attuali e alle preoccupazioni** dell’imperialismo italiano: è sbagliato sostenere che siamo in guerra contro il Califfato Nero, perché la guerra la fanno gli Stati; si tratta piuttosto di una lotta al terrorismo che va approcciata secondo criteri adeguati alla natura del problema. Sulla guerra sistemica in corso rimando al mio ultimo post e agli altri post dedicati al tema. Il punto decisivo che ho cercato di mettere in luce in questi post è il carattere necessariamente aggressivo, competitivo, violento, terroristico, in una sola parola disumano della vigente società mondiale, e questo tanto in regime di “pace” quanto in regime di “guerra guerreggiata” – la quale rivela il vero volto del Moloch che ci sovrasta.

A parer mio, fino a quando le classi subalterne continueranno a ragionare secondo la logica delle classi dominanti (ossia in termini di «dignità nazionale», di «interessi del Paese» e via dicendo) non c’è nemmeno da ipotizzare la possibilità di un futuro assetto umano della nostra esistenza, e ogni ulteriore peggioramento della nostra condizione non è solo possibile, ma è altamente probabile. In ogni caso, personalmente non ho bisogno di vedere i volti – veri o presunti – di chi ha materialmente massacrato «il nostro ragazzo» per condannare senza appello il vero colpevole dell’odioso crimine: il Sistema Mondiale del Terrore (o società capitalistica mondiale che dir si voglia), di cui fanno parte a pieno titolo l’Italia e l’Egitto. Il resto è ricerca del capro espiatorio di turno, cinico accomodamento diplomatico, gestione del potere, propaganda, geopolitica, business, giustizia amministrata per conto dello status quo sociale. Tutto il male del mondo che la madre di Giulio ha visto sul volto martirizzato del figlio è esattamente il vero volto di quel Sistema.

Chiedere “giustizia” per Giulio e per tutte le vittime del Moloch può avere dunque, per chi scrive, un solo significato umano e politico: rompere con la logica e con la retorica «del mio Paese» e della «dignità nazionale». Tanto per cominciare.

Impostato il problema nei suoi corretti termini, la stessa richiesta di una “Verità per Giulio” assumerebbe il pregnante significato di una denuncia del regime italiano e del regime egiziano, in particolare, e del regime internazionale delle relazioni interimperialistiche in generale. Dinanzi agli interessi del Capitale e degli Stati la vita umana appare del tutto sacrificabile: chiamasi “effetto collaterale”. Un movimento d’opinione orientato in quel senso non sarebbe un obiettivo politico disprezzabile, mi sembra. Lo so benissimo, la cosa appare quantomeno “problematica”, e tuttavia…

 

* «Era ancora un’Italia che non si era scrollata completamente di dosso la ferita dell’8 settembre ‘43 quella che si presentava armata nella notte del 10 ottobre 1985 sulla pista della base Nato di Sigonella. Ma i carabinieri al comando del generale Bisognero (padre dell’attuale ambasciatore italiano a Washington) che presidiavano il Boeing egiziano con a bordo i dirottatori dell’Achille Lauro non si sarebbero opposti con tanta fermezza alla Delta Force americana senza una catena di comando unitaria e una guida politica inflessibile, quella di Bettino Craxi, che li guidò in quelle difficili ore restituendo quell’onore perso in guerra quarant’anni prima davanti agli occhi del mondo» (G. Pelosi, Il Sole 24 Ore, 16 ottobre 2015).

** «Il formidabile caos libico ci riguarda sempre più da vicino perché l’Italia nei mesi scorsi si era offerta per un ruolo guida che aveva perduto nell’ex colonia con la caduta di Gheddafi nel 2011. Fu la più grave e sostanziale débâcle della nostra politica estera dalla fine della seconda guerra mondiale. Adesso, come recuperare la Libia?» (Il sole 24 Ore, 2 aprile 2016). «Siamo tutti alleati qui in Occidente, ma definirci amici a volte è un po’ azzardato. In compenso siamo sicuramente concorrenti, al punto che in ogni vicenda oscura, a torto o a ragione, vediamo sullo sfondo, nell’ombra, l’artiglio di interessi economici inconfessabili: non è così anche per il caso Regeni?» (A. Negri, Il Sole 24 Ore, 3 aprile 2016).

IL PUNTO SULLA SIRIA E SUL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE

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La guerra contro il Califfato Nero è un mero pretesto politico, diplomatico e ideologico dietro il quale nascondere agli occhi della cosiddetta opinione pubblica internazionale la più classica delle competizioni interimperialistiche per il Potere: solo gli sciocchi e gli ingenui tardano a capire questa elementare verità che diventa sempre più evidente massacro dopo massacro, fallimento diplomatico dopo fallimento diplomatico – o gioco delle parti che dir si voglia.

«La Turchia si dice pronta ad affiancare l’Arabia Saudita in un’operazione di terra in Siria, se la Coalizione anti-Is appronterà questa strategia». Nel frattempo la stessa Turchia attacca i curdi, «che nell’area di Aleppo si battono contro l’Is», e, insieme all’Arabia Saudita, appoggia sempre più apertamente l’«opposizione democratica sunnita» che si batte contro il regime sanguinario di Assad. Mosca dichiara di voler intensificare, e di molto, i raid aerei per sradicare definitivamente lo Stato Islamico dalla Siria; lodevole – si fa per dire – intenzione che corrisponde in realtà a una promessa di morte consegnata all’opposizione armata siriana anti-Assad. Iraniani sul terreno e russi dal cielo: il macellaio di Damasco ha di che rallegrarsi, almeno per adesso. Bashar al-Assad sfoggia comunque il solito ottimismo: «Riconquisterò tutto il Paese ma potrebbe volerci molto tempo e un alto prezzo» – soprattutto in vite umane, si capisce.

Ancora più alto di quello già pagato dal disgraziato popolo siriano? Davvero il peggio non conosce limite. La martirizzata e inerme popolazione siriana è presa in mezzo dagli opposti interessi: c’è chi muore a causa di un raid aereo russo (ma anche le artigianali barrel bombs gettate sulla gente dagli elicotteri siriani fanno bene il loro sporco lavoro) o in seguito a una micidiale controffensiva terrestre dell’esercito “regolare” o delle milizie anti-Assad; c’è chi muore per fame, come gli internati nei campi di sterminio nazisti (Primo Levi lo aveva intuito: la radice del Male è ancora attiva; io dico: sempre più attiva), e ci sono le moltitudini che scappano dal teatro di guerra per andare a bussare alle porte della – cosiddetta – Fortezza Europa. Molti profughi, poi, sperimentano il mare d’inverno, o d’inferno, e muoiono in un macabro stillicidio che ormai non commuove più nessuno. La nostra soglia del dolore è molto adattabile alle circostanze, e l’etica deve fare i conti con la routine quotidiana.

obama-e-putin-in-siria-737216Intanto Washington continua a controllare la situazione a distanza di sicurezza (ma sempre più ravvicinata), lasciando agli alleati in loco il lavoro sporco; tuttavia un suo coinvolgimento diretto militare in Siria non è affatto scongiurato: «Il segretario di Stato Usa John Kerry in un’intervista a Orient Tv di Dubai avverte che se “il presidente siriano Assad non terrà fede agli impegni presi e l’Iran e la Russia non lo obbligheranno a fare quanto hanno promesso, la comunità internazionale non starà certamente ferma a guardare come degli scemi: è possibile che ci saranno truppe di terra aggiuntive». «Truppe di terra aggiuntive» a stelle e strisce? Il Presidente Obama assicura che non ci sarà un nuovo Iraq, ma sostiene anche che Putin e Assad devono smetterla di concentrare i loro sforzi nel tentativo, peraltro abbastanza riuscito, di annientare i «gruppi di opposizione legittimi». Ma su cosa si debba intendere per «gruppi di opposizione legittimi» e per «forze terroristiche» non c’è ovviamente comunanza di idee nei vari tavoli diplomatici e nelle Conferenze sulla “sicurezza e sulla pace”, le quali si esauriscano puntualmente in un nulla di fatto in attesa di poter ratificare i rapporti di forza creati sul campo. (Allora perché si tengono? Perché all’opinione pubblica e ai media bisogna pur vendere qualcosa: la propaganda non è un optional!). Come insegna la geopolitica di orientamento realista (la stessa che, ad esempio, in queste ore consiglia Roma a non polemizzare troppo con il Cairo), l’amico è per definizione legittimo, mentre il nemico facilmente viene rubricato come terrorista: il tutto si riduce dunque a questa realistica domanda: amico o nemico di chi?

Imminente sembra invece un intervento militare americano in Libia, in sinergia con gli alleati della Nato; l’operazione pare essere pronta fin nei dettagli e si tratterebbe solo di stabilire il momento più opportuno per renderla effettiva. Si parla comunque di pochi giorni. A quanto pare le aziende italiane presenti in Libia hanno già ricevuto l’ordine di rimpatriare il loro personale che si trova ancora presso i giacimenti. Per evitare discussioni con Roma, già scottata dall’intervento militare del 2011, all’Italia sarebbe chiesto solo l’uso logistico della base militare di Sigonella per i rifornimenti. Ma sul tipo di partecipazione militare dell’Italia nell’ambito di questa ennesima operazione “antiterroristica” rimangono diversi nodi da sciogliere. In ogni caso, il governo italiano rivendica un ruolo di primissimo piano nell’operazione, per i forti interessi economici che l’Italia vanta nel Paese africano, per la sua collocazione geopolitica e per il noto retaggio storico.

Il Premier russo Dmtri Medvedev ha dichiarato che le relazioni fra Russia e Occidente sono tornate al punto di «una nuova guerra fredda»; i leader dei Paesi dell’Est europeo un tempo “fraternamente” associati all’Imperialismo “sovietico” l’hanno subito corretto: dopo la Crimea e la Siria non si può più parlare di Guerra Fredda, ma piuttosto di Guerra Calda. Inutile dire che tutto questo parlare di nuova Guerra Fredda ha fatto venire i lucciconi agli occhi ai numerosi nostalgici del mondo precedente la caduta del Muro di Berlino: come sarebbe bello (per questi non invidiabili personaggi, s’intende) se il virile Vladimir si convertisse al “comunismo”!

«Siamo in una guerra perché il terrorismo ci combatte», ha detto il premier francese Manuel Valls dal pulpito della Conferenza di Monaco sulla Siria. No, siamo in guerra perché il Sistema Mondiale del Terrore da sempre terrorizza, sfrutta, saccheggia e massacra l’umanità e la natura. Come ho sostenuto altre volte, di questo sistema mortifero fanno parte tutte le nazioni, tutti gli Stati (eventualmente anche in guisa di Califfati Neri!), tutte le Potenze: grandi e piccole, globali e locali. Anche l’attivismo italiano in Africa e, ovviamente, in Libia deve essere letto alla luce di quanto appena scritto. Non dimentichiamo che i raid aerei francesi contro il regime di Gheddafi nel marzo 2011 ebbero come primo obiettivo gli interessi italiani in quel Paese che galleggia sul petrolio e sul gas, come peraltro non mancò di denunciare l’allora inascoltato e riluttante Premier Berlusconi, sbertucciato apertamente dalla Merkel e da Sarkozy. Ma allora i “pacifisti” osservarono il più assoluto silenzio, godendosi gli imbarazzi, le contraddizioni e le difficoltà del “puttaniere di Arcore”, amico dell’ex dittatore di Tripoli, oltre che di Putin.

Questo solo per dire che anche il Belpaese, nel suo piccolo, è parte organica del Sistema Mondiale del Terrore. Quando riflettiamo sul cosiddetto terrorismo di matrice islamica che viene a massacrarci in casa nostra, mentre beviamo una birra o ascoltiamo della musica, sforziamoci di allargare la nostra visuale fino ad abbracciare un terrorismo sistemico ben più grande, che lo comprende, e che ci dichiara guerra tutti i santi giorni.

«La minaccia», ha continuato il progressista Valls, «non diventerà minore. È mondiale. Ci saranno altri attacchi, attacchi su vasta scala, è una certezza. Questa fase di “iper-terrorismo” durerà a lungo, forse un’intera generazione, anche se dobbiamo combatterla con la massima determinazione». Di qui lo stato d’emergenza permanente dichiarato in Francia. Su questo punto rimando a un mio precedente post (Stato di diritto e democrazia). Ora, dal mio punto di vista ciò che appare più odioso non è tanto osservare i movimenti dei miei nemici (coloro che, a vario titolo, servono il Dominio), i quali dopo tutto fanno i loro interessi e il loro mestiere, secondo una logica del tutto comprensibile, sebbene spesse volte essa appare contorta nella sua fenomenologia politica; mi risulta assai più odioso constatare l’impotenza di chi subisce sulla propria pelle quegli interessi e quell’azione al servizio delle classi dominanti. Parlo della Siria, dell’Italia, della Francia, della Russia, della Cina: del mondo.

Il Manifesto l’altro ieri ha salutato Giulio Regeni con il solito invito, diventato ormai l’ennesimo luogo comune del politicamente corretto di marca sinistrorsa, a restare umani. Ma che “restiamo umani” d’Egitto! Piuttosto diventiamo umani. Devo essere sincero: la vedo brutta.

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONFLITTO MEDIORIENTALE

SIRIA-DEFINITIVALa lettura dell’escalation politico-militare in atto in Medio Oriente fornita da tutti gli analisti di geopolitica, soprattutto da quelli specializzati in “trame” mediorientali, è sostanzialmente univoca e, a mio avviso, sostanzialmente corretta – rimanendo, beninteso, sul puro terreno della dialettica geopolitica. Si tratta, in primo luogo, dell’acuirsi di una tensione direttamente connessa alla lotta egemonica fra le due maggiori potenze regionali da sempre in irriducibile contrasto: Arabia Saudita e Iran. Siria, Iraq, Yemen: sono almeno tre i conflitti in corso nella regione mediorientale che vedono contrapposti, in modo sempre più scoperto, l’Iran e l’Arabia Saudita.

«Precipita la situazione tra l’Iran e l’Arabia Saudita a seguito dell’esecuzione della condanna a morte dell’ayatollah Nimr al-Nimr: gli aerei di Riyad hanno bombardato l’ambasciata iraniana a Sanaa, nello Yemen, paese dilaniato dalla guerra dopo il golpe degli sciiti houthi che ha portato al rovesciamento del presidente Abd Rabbo Mansour Hadi. Per Rohani i sauditi “Non vogliono la stabilità e la pace nella regione per coprire i problemi interni e le politiche regionali fallimentari”. Difficilmente gli si potrebbe dare torto, se si pensa che dietro al conflitto siriano ci sono in primis le monarchie del Golfo, ma anche altri attori, che hanno tentato di strappare la zona di influenza ad Iran e Russia sostenendo anche economicamente non solo le opposizioni, ma anche i gruppi jihadisti cominciando da Jabat al-Nusra (diramazione di al-Qaeda in Siria) per arrivare all’Isis. Per lo Yemen la musica non cambia, salvo il fatto che lì le parti sono invertite, con le monarchie del Golfo in sostegno all’ancien régime, mentre gli iraniani stanno con gli insorti» (E. Oliari, Notizie geopolitiche).

La mattanza mandata in scena il 2 gennaio dal regime “moderato” saudita, aggravata dall’uccisione dell’ayatollah sciita Nimr Baqr al-Nimr, un «pio fedele» molto amato nel mondo sciita (è sciita il10-15% della popolazione saudita), ha certamente avuto il significato inequivocabile di una provocazione orchestrata da Riyadh contro gli alleati americani (in primis), gli europei (ai quali, come sempre, piace praticare anche in Medio oriente la politica dei “due – se non dei tre o quattro – forni”) e i russi, alleati di ferro di Teheran almeno dal crollo dell’ex unione Sovietica; ma si spiega anche con la necessità del regime di rafforzare il nazionalismo religioso saudita in un momento di acutissima, e potenzialmente devastante (per la monarchia regnante), crisi economica. Scrive Toby Matthiesen: «In tempi di crisi, la “minaccia sciita” viene usata per compattare attorno alla famiglia regnante il resto della popolazione, per la maggior parte composta da sunniti di diverse credenze» (Limes). Un classico nella gestione del conflitto sociale in ogni parte del mondo, a cominciare naturalmente dal civilissimo Occidente, il quale in fatto di intossicazione nazionalistica delle masse e di ricerca del capro espiatorio buono per l’occasione non ha mai avuto rivali. Il nazionalismo, a sfondo laico o religioso, è da sempre un veleno per le classi dominate e un’eccezionale riserva di stabilità sociale per le classi dominanti. «Fra tutte le forme di superbia», scriveva A. Schopenhauer, «quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale [o religioso, potremmo aggiungere]. Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione [o della religione] alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere πύξ κάì λάξ [a pugni e calci, con le unghie e coi denti] tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (Il giudizio degli altri, RCS).

Necessariamente lo scontro di enormi interessi strategici sopra evocato e lo stesso conflitto sociale interno ai Paesi del Medio e del Vicino Oriente devono assumere una parvenza religiosa, considerato il ruolo politico-ideologico che in tutta l’area geopolitica in questione ha da sempre giocato la religione. Ma non bisogna certo essere fan sfegatati di Carlo Marx per comprendere che la «guerra settaria» tra sunniti e sciiti da sempre esprime, copre, veicola e potenzia una lotta di potere “a 360 gradi”: dalla supremazia economica a quella politica, dall’egemonia ideologica a quella militare (vedi anche alla voce “guerre per procura”, con annesso  terrorismo)*. Scriveva Olivier Roy, studioso dell’Islam, dopo gli attentati terroristici di novembre a Parigi: «In breve, questa non è la “rivolta dell’islam” o dei “musulmani”, ma un problema preciso che concerne due categorie di giovani, in maggioranza originari dell’immigrazione ma anche francesi “di ceppo”. Non è la radicalizzazione dell’islam ma l’islamizzazione della radicalità» (La Repubblica). Della cieca “radicalità”, della “radicalità” che non ha coscienza della radice sociale del problema, mi permetto di aggiungere. Per questo altre volte ho scritto che la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che se ne fa.

Secondo quanto scriveva il generale Carlo Jean nel 2001, «L’obiettivo principale di bin Laden non è quello di colpire l’America in quanto tale o per punirla per i torti fatti all’islam o in Palestina […] L’obiettivo principale è quello di sfruttare le frustrazioni delle masse islamiche, escluse dal benessere e dal potere politico nei loro paesi, per farle rivoltare contro i loro governi, amici dell’Occidente e prenderne il posto» (Limes, n. 4/2001). Esattamente questo significa usare la religione, o qualsiasi altra ideologia, a fini di potere. È facile vendere il Paradiso (peraltro popolato, a quanto pare, da vergini bellissime) a giovani che non hanno da perdere nulla (se non le famose catene) e che vivono in una condizione di tale disperazione, che la loro stessa vita è sottoposta a un forte processo di svalutazione, al punto che molti di essi gridano di non aver paura della morte, al contrario di noi occidentali, così attaccati ai beni materiali: «Noi amiamo la morte così come voi amate la vita, ecco perché non temiamo di trasformarci in bombe umane per colpire i miscredenti. Se il misericordioso Allah vuole, la vittoria è certa». (Forse, aggiunge il miscredente occidentale, il cui “scetticismo cosmico” fa peraltro inorridire anche i cosiddetti atei devoti e i teorici della morte dell’Occidente – molti dei quali tifano per il virile Vladimir Putin). L’etica del kamikaze è radicata nella cieca disperazione. Scriveva Hosokawa Hachiro, uno dei pochi piloti giapponesi sopravvissuti del «gruppo speciale d’attacco» (tokkotai) creato nell’ottobre del 1944: «Si trattava di veri e propri atti di disperazione militare. In varie situazioni di guerra gli uomini compiono azioni eroiche e disperate, sperando di ribaltare le sorti del conflitto. Di solito però sono azioni individuali. Ecco, forse per la prima volta nella storia militare la disperazione è stata organizzata in gruppo». Com’è noto, circa quattromila giovanissimi piloti giapponesi partirono per un viaggio di sola andata su aerei spinti più dai «venti divini» che dal carburante. Le classi dominanti hanno imparato bene a organizzare anche sul piano militare la disperazione delle masse giovanili.

Storicamente per la Persia lo sciismo, diventato religione ufficiale nel XVI secolo con l’Impero dei Safavidi, ha espresso la volontà del Paese, invaso nel VII secolo dopo Cristo dagli arabi islamizzati, di mantenere la propria autonomia nei confronti del mondo arabo sunnita e della Turchia ottomana.  «L’elemento caratterizzante dell’era safavide va piuttosto ricercato nel risorgimento nazionale del concetto di Iran, e quindi nella formazione di uno Stato che grosso modo corrisponde ancor oggi alla “moderna” nazione persiana, connotato fin dal principio da una sua caratterizzazione religiosa specifica – quella sciita duodecimana – e in netta contrapposizione con altri grandi Stati che caratterizzeranno il mondo islamico orientale sino ad epoche molto recenti, a iniziare a Occidente con l’impero ottomano, sino a Oriente, dove gli Uzbechi in Transoxiana e i Moghul in India produssero anch’essi questa “definitiva” delimitazione del proprio ambito “nazionale” » (M. Bernardini, Storia del mondo islamico (VII-XVI): il mondo iranico e turco, Torino, Einaudi). Secondo Alberto Zanconato, «Il conflitto attuale parte dall’Iraq, il Paese che nel 1980, ai tempi del regime di Saddam Hussein, attaccò l’Iran dell’ayatollah Khomeini in quella che molti a Teheran videro come una seconda invasione araba dopo quella del VII secolo.  Proprio il ricompattarsi del Paese contro questa minaccia consentì al nuovo regime, insediatosi solo da un anno e mezzo, di consolidare la sua presa sul potere. E a partire dal 2003, grazie all’attacco anglo-americano che abbatté il regime di Saddam, l’Iran ha guadagnato una forte influenza nel Paese vicino, grazie alla vicinanza con i nuovi governi sciiti a Baghdad e l’istituzione di forze paramilitari sciite coordinate da Teheran. In questo modo, grazie a George W. Bush, la Repubblica islamica è stata in grado di realizzare un sogno secolare, quello di stabilire una continuità geografica tra forze sciite sue alleate dal proprio territorio fino al Libano, attraverso l’Iraq e la Siria. Uno scenario che non può che inquietare lo schieramento a guida saudita e nel quale sono nate le guerre che stanno sconvolgendo la regione» (Ansa.it). Non c’è dubbio.

Le ultime mosse di Riyadh sembrano davvero dettate da uno stato di estrema debolezza e insicurezza del Paese, tanto sul fronte esterno quanto su quello interno. Sul fronte esterno: la Russia incrementa la sua presenza in Siria e rafforza la sua alleanza con l’Iran, potenza regionale sempre più in ascesa, mentre gli americani, che dal 1945 puntellano in ogni modo il regime saudita (nonostante la propaganda ufficiale “antiamericana” della monarchia saudita a uso interno e regionale), sembrano praticare una politica di appeasement nei confronti dell’odiato nemico persiano, come si è visto a proposito del programma nucleare iraniano. Da parte sua, Washington non fa niente per nascondere la sua irritazione per il “terrorismo petrolifero” organizzato dell’Arabia Saudita allo scopo di affogare nel petrolio lo shale oil a stelle e strisce. «L’Arabia Saudita, infatti, ha continuato a pompare petrolio ferocemente. Lo scopo della strategia del cartello OPEC è, ovviamente, quello di fare guerra agli Stati Uniti, sperando che il crollo dei prezzi del petrolio spinga questi ultimi fuori dal mercato, in modo tale da recuperare le quote di mercato perdute. […] La strategia di Ryad sta costando parecchio al Paese mediorientale. Secondo quanto riportato da Il Sole 24 Ore,  “Soltanto nel 2015 con la guerra dei prezzi sono stati bruciati dal Paese 150 miliardi di dollari”. Il deficit di bilancio dell’Arabia Saudita è salito a 98 miliardi di dollari, secondo quanto riportato dalla BBC» (V. D’Onofrio, Notizie geopolitiche). Di qui, una spending review del bilancio statale saudita che rischia di mordere anche la media borghesia del Paese, peraltro piuttosto attiva nella timida “primavera” del 2011; allora il regime rispose somministrando agli oppositori l’esilio, il carcere e la pena di morte. Insomma, lo stesso trattamento che l’odiata Repubblica Islamica dell’Iran riserva ai suoi oppositori “terroristi”: tutto l’Islam è Paese, potremmo dire con un certo occidentalismo caro alle “destre” basate di qua e di là dell’Atlantico. Per non parlare del regime siriano, che nel marzo del 2011 decise di usare il pugno di ferro militare solo dopo alcune manifestazioni pacifiche di protesta, avviando una escalation di violenza che ha provocato circa 300 mila morti e milioni di profughi e sfollati. A tal riguardo, e solo en passant, occorre ricordare che il Califfato Nero, che nel 2010 appariva in ritirata sul fronte irakeno, approfittò proprio della violenza e del caos in Siria per riprendere l’iniziativa, sempre con il supporto finanziario e militare dell’Arabia saudita e del fronte sunnita nel suo complesso, Turchia compresa.

Scriveva Eleonora Ardemagni nel novembre 2013: «Le manifestazioni dei lavoratori stranieri in Arabia Saudita permettono di aprire una finestra su uno spaccato della Penisola arabica spesso trascurato: il rapporto fra i rentier-state e le comunità immigrate. […] La revisione della legge sul lavoro ha un obiettivo specifico: diminuire il tasso di disoccupazione fra i cittadini sauditi, stimato oggi al 12%. Nove dei 27 milioni di abitanti dell’Arabia Saudita sono infatti stranieri, soprattutto africani del Corno, yemeniti e asiatici (pachistani e indiani su tutti). Il tentativo di “saudizzazione del lavoro privato”, a fronte di un settore pubblico ormai saturo, va incontro, però, ad almeno tre ostacoli. Innanzitutto, la riformulazione della normativa sta già producendo l’aumento del costo del lavoro, perché un lavoratore saudita costa più di un asiatico o di un africano.

Le nuove politiche del lavoro di casa Al-Sa‘ud potrebbero avere pesanti ricadute regionali. Il provvedimento sta infatti irrigidendo i rapporti fra il regno e  il vicino Yemen: lavorano in Arabia Saudita tra gli 800 mila e il milione di yemeniti. Le rimesse dei lavoratori provenienti dalla repubblica arabica rappresentano un’ancora di salvezza per la fragile economia di Sana’a. Anche se vi sono dati discordanti, gli yemeniti toccati dal provvedimento si attesterebbero fra i 300 mila e i 500 mila; solo negli ultimi dieci giorni 30 mila persone avrebbero oltrepassato la frontiera tra i due paesi per fare ritorno in Yemen. Manifestazioni di protesta si sono svolte già quest’estate a Sana’a e in altre città yemenite» (ISPI). Il conflitto in corso in Yemen va visto anche da questa prospettiva.

Per valutare i movimenti nella politica interna ed estera dell’Arabia Saudita non bisogna nemmeno sottovalutare lo scontro tutto interno al Consiglio per la cooperazione del Golfo (Ccg), che comprende, oltre quel Paese, che ne costituisce il centro motore (un po’ come la Germania nei confronti dell’Unione europea), il Bahrain, l’Oman, il Qatar, gli Emirati Arabi Uniti e il Kuwait. Ebbene, il Qatar è sempre meno disposto ad accettare l’egemonia dell’Arabia Saudita, e la cosa si è manifestata da ultimo anche nella tempistica della rottura delle relazioni diplomatiche con l’Iran decisa Doha, ultima delle capitali del Consiglio a farlo. Gli attacchi di Riyadh ai «media ostili» stranieri (leggi Al-Jazeera) non si contano più. Scriveva la già citata Eleonora Ardemagni nel marzo 2014 (questa volta su Limes): «Il vincolo di solidarietà fra le monarchie della Penisola arretra dinanzi alla competizione per il rango politico, sia dentro l’organizzazione sia, più in generale, nella regione. I concetti di sovranità e di interesse nazionale tornano così in primo piano. Il tema della sovranità, oggi riproposto con forza dal Qatar, è in antitesi con il regionalismo monarchico a trazione saudita, che ha fin qui animato il processo decisionale del Ccg, inevitabilmente egemonizzato da Riyad. […] L’Arabia Saudita, con l’appoggio di Bahrein ed Emirati, ha avviato un’escalation diplomatica contro il Qatar, accusato di finanziare la Fratellanza Musulmana non solo in Egitto e Siria, ma anche all’interno della stessa Penisola».

L’Arabia Saudita è una monarchia assoluta governata dalla famiglia al-Saud, al potere dal 1932. Salman bin Abdul Aziz al-Saud è salito sul trono nel gennaio 2015, in seguito alla morte del fratello Abdullah. Il Paese è il maggiore produttore ed esportatore di greggio al mondo; le esportazioni petrolifere costituiscono l’80-90% delle entrate statali, il 48% del pil della nazione e l’85% dei proventi delle esportazioni. Come accade per gli altri Paesi legati alla rendita petrolifera (dal Venezuela alla Russia), anche in Arabia Saudita la spesa pubblica è pianificata sulle stime degli introiti petroliferi, soprattutto nel settore pubblico, che ancora oggi gestisce quasi in monopolio l’industria petrolifera – attraverso la Saudi Aramco, la più grande impresa del Paese. Per superare la debolezza strutturale derivante dalla dipendenza dal prezzo del petrolio sul mercato mondiale, il governo saudita da qualche anno sta cercando di attuare politiche di privatizzazione e di diversificazione economica, soprattutto in campo energetico: produzione dei cosiddetti idrocarburi non convenzionali (shale gas/oil), costruzione di centrali atomiche in cooperazione con società statunitensi e giapponesi, realizzazione di “campi” idonei a catturare l’energia solare. Si parla anche della costruzione delle «economic cities», di «città integrate» realizzate con le infrastrutture tecnologicamente più avanzate del pianeta che dovranno svolgere la funzione di poli di sviluppo per l’insieme del Paese. Naturalmente la «modernizzazione capitalistica» non è ben vista da una parte della classe dominante del Paese e da settori interni alla stessa monarchia saudita, ossia da tutti quelli che temono di perdere potere sociale a beneficio di una borghesia più dinamica e moderna. È una dialettica interna a tutti i Paesi arabi e in parte anche all’Iran. Dall’Egitto alla Siria, la cosiddetta Primavera Araba ha mosso i suoi primi passi quando la lenta transizione dell’area del medio e del Vicino Oriente verso un’economia meno statalista, meno parassitaria, meno infiltrata dalla corruzione e più aperta ai flussi capitalistici internazionali ha iniziato a dare i suoi primi frutti sul terreno politico (timide aperture in direzione di riforme istituzionali di stampo “democratico”) e su quello delle contraddizioni sociali – la “modernizzazione capitalistica” non è un pranzo di gala! Ma mentre i progetti per una “rivoluzione economica” rimangono in gran parte ancora da implementare, ciò che ha avuto modo di concretizzarsi, almeno negli ultimi cinque anni, è stato un forte aumento della spesa militare; con una spesa pari a circa il 9% del Pil, secondo l’International Institute for Strategic Studies l’Arabia Saudita è il quarto Paese al mondo per spesa militare. Solo nel 2010 gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita hanno sottoscritto un contratto per la fornitura di armi Made in Usa per un valore di oltre 60 miliardi. Anche Regno Unito e Francia fanno lucrosi affari con i “moderati” leader di Riyadh.

«Il Comitato No Guerra No Nato ricorda la guerra del Golfo di 25 anni fa, nel massimo spirito unitario e allo stesso tempo nella massima chiarezza sul significato di tale ricorrenza, chiamando a intensificare la campagna per l’uscita dell’Italia dalla Nato, per una Italia sovrana e neutrale, per la formazione del più ampio fronte interno e internazionale contro il sistema di guerra, per la piena sovranità e indipendenza dei popoli. Noi non mettiamo tutti sullo stesso piano. Questa guerra viene dall’Occidente. Il terrorismo viene dall’Occidente. La crisi mondiale viene dall’Occidente». Mi viene un malizioso sospetto leggendo una prosa che tanto ricorda la propaganda dei Partigiani della pace: per il Comitato di cui sopra la Russia e la Cina* (tanto per fare dei nomi) non fanno parte dell’odierno «sistema di guerra»? Per me sì. Che significa poi non mettere «tutti sullo stesso piano»? Per me, ad esempio, significa che, in quanto proletario italiano, debbo oppormi in primo luogo all’imperialismo italiano (trattasi dell’ABC in fatto di “internazionalismo proletario”, mi pare), cosa che ovviamente non mi impedisce di condannare tutti gli imperialismi del mondo, grandi, medi o piccoli che siano – vedi il concetto di imperialismo unitario**. Secondo Franco Venturini (vedi Il Corriere della Sera di oggi) l’orologio si è messo a correre sul fronte libico e l’Italia non deve perdere il treno, anche perché tutti i Paesi della coalizione anti-Isis le riconoscono una leadership naturale nell’ex colonia africana. Bisogna rendere operativa ed efficace questa leadership, prima che sia troppo tardi. Ne va, conclude Venturini, del successo o dell’insuccesso della politica estera italiana. Ecco, per me si tratta innanzitutto di opporsi agli interessi dell’imperialismo italiano in Libia e ovunque, ossia di contrastare la politica estera italiana – anche quella praticata da sempre dall’Eni.

Anche io sono contro la Nato (a tal riguardo posso “vantare” diverse manifestazioni e molti “campeggi antimilitaristi”, a partire da Comiso 1983), ma non certo nella prospettiva ultrareazionaria, quanto chimerica, di un’Italia «sovrana e indipendente» –  e magari pure “socialista”, come dicevano un tempo gli stalinisti d’ogni tendenza che egemonizzavano l’evocato movimento dei Partigiani della pace.

Scrive Fulvio Grimaldi: «Molte guerre vengono dimenticate: Jugoslavia, Afghanistan, Ucraina, le aggressioni israeliane a Libano e Gaza, addirittura qualcuno s’è scordato della Siria. La nonviolenza assurta a imperativo categorico e dogmatico getta indecenti ombre sulla resistenza di popolo in Siria, Iraq, ovunque si eserciti la criminalità imperialista». Anche qui è d’uopo la maliziosa domanda: Russia e Cina sono escluse dalla «criminalità imperialista»? E poi, che cosa si intende esattamente per resistenza del popolo siriano? Si allude forse al regime, supportato da Russia e Iran, del macellaio di Damasco, in arte Bashar al-Assad? In caso di risposta affermativa, l’allusione non sarebbe indecente ma escrementizia. A volte occorre abbandonare ogni eufemismo e ogni accortezza diplomatica.

* In questi giorni diventa operativa in Cina la “Legge Antiterrorista” emanata il 28 dicembre dall’Assemblea Popolare Nazionale, che prevede, fra l’altro, la possibilità per Pechino di inviare forze speciali in Siria per combattere lo Stato Islamico e le altre «organizzazioni terroristiche» (cioè tutti gli oppositori di al-Assad?). L’obiettivo è, secondo l’agenzia di regime Xinhua, quello di salvaguardare la sicurezza mondiale compromessa dai numerosi attentati in diverse parti del mondo. Non c’è dubbio: con L’esercito Popolare di Liberazione in giro per il mondo la “pace” è più sicura. Inutile dire che gli Stati Uniti non gradiscono nemmeno un poco l’attivismo “antiterroristico” cinese in Medio oriente: essi pretendono di operare in regime di monopolio in materia di “lotta al terrorismo”. Che pretese!

** Quando parlo di Imperialismo unitario intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964).