PER LA SECESSIONE DEI POVERI!

Tranquilli amici e compagni: non mi sono convertito improvvisamente al meridionalismo più radicale, non intendo aderire alla Lega Sud prossima ventura, non intendo promuovere la secessione delle Regioni del Mezzogiorno dall’attuale architettura politico-istituzionale di questo Paese. Per secessione dei poveri alludo, con evidente riferimento polemico al rognosissimo dibattito che intorno alla “Questione meridionale” (vedi che novità!) si è acceso in questi giorni, al processo di autonomizzazione politica delle classi subalterne dal devastante punto di vista degli interessi nazionali comunque “declinati”. Devastante, beninteso, per gli interessi contingenti e, soprattutto, “strategici” di chi per vivere è costretto a vendere sul mercato capacità lavorativa manuale e intellettuale.

Chi oggi teme la “secessione dei ricchi”, oltre ad esprimere un punto di vista ultrareazionario sul terreno del conflitto di classe, ragiona in termini conservativi anche dal punto di vista degli interessi “nazionali-borghesi”, perché dà per scontato il fatto che non possa esserci alcuna alternativa positiva e praticabile all’attuale assetto politico-istituzionale, mentre si tratterebbe di distribuire in modo più “equo e solidale”, più “perequativo”, la ricchezza prodotta nel Paese. Naturalmente ci sono diversi motivi che inducono molte persone a ragionare in quei termini conservati. Ne menziono solo due: per un verso si teme di perdere posizioni economiche e/o politiche da un assetto più dinamico e competitivo dell’architettura “geopolitica” dell’Italia, e per altro verso si ha paura dei conflitti sociali che potrebbe innescare la transizione dalla vecchia alla nuova configurazione politico-istituzionale, la quale in ogni caso appare ai conservatori meno ospitale nei confronti delle tradizionali politiche di accomodamento compromissorio tra interessi e gruppi sociali diversi. Il conservatore teme insomma di perdere potere dal superamento del vecchio “equilibrio” consolidatosi nel corso dei decenni (per certi versi già a partire dal 1861) tra lo Stato centrale e le sue articolazioni periferiche, ed è disposto solo a piccole modifiche che non intacchino il quadro istituzionale complessivo.

La realtà del processo sociale ha dato torto marcio a questa impostazione conservativa della “Questione meridionale”, e infatti abbiamo visto l’emergere negli anni Ottanta del secolo scorso di una ben più dirompente “Questione settentrionale”, la quale ha avuto la sua espressione politica più pregnante nel cosiddetto leghismo, che molti politici e sociologi dell’epoca (soprattutto quelli di scuola “marxista”, particolarmente dotati nei ragionamenti “a testa in giù”) avevano rubricato come fenomeno folcloristico e passeggero: «Sono quattro poveri razzisti che non parlano bene neanche l’italiano, non contano nulla, non hanno futuro». Infatti…

Per Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, «Il vero spartiacque adesso è tra la modernità o l’essere conservatori, tra la visione di un paese federale moderno e innovativo o di un paese che continua a pensare al centralismo e all’assistenzialismo» (Verona Sera): sul terreno degli interessi squisitamente nazionali Zaia esprime una posizione quantomeno corroborata dai dati di fatto, contingenti e storici. Un parlamentare pentastellato ha dichiarato che «Per il M5S, sempre in direzione del rispetto della Costituzione, ogni percorso di autonomia non può prescindere dalla prioritaria individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni per evitare che ci siano cittadini di serie A e di serie B». Che ipocrisia! I «cittadini di serie A e di serie B» già ci sono, come tra l’altro testimonia la cosiddetta migrazione sanitaria (o «secessione della salute»), che vede molti cittadini meridionali cercare un miglior trattamento terapeutico negli ospedali del Nord.

La richiesta di autonomia rafforzata presentata da tre Regioni del Nord: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, come applicazione del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione (introdotto dal centrosinistra con la riforma del 2001 poi confermata da un Referendum) è fatta oggetto di aspre critiche che partono da due opposti versanti della politica nazionale.

I critici che fanno capo a una posizione che, tanto per intenderci, potremmo definire liberale (o “liberista”) non sono in linea di principio contrari all’autonomia rafforzata (o «regionalismo a geometria variabile») delle regioni che ne fanno richiesta, perché «se bene applicata» quell’autonomia potrebbe in effetti responsabilizzare il livello amministrativo regionale e potrebbe attivare una «dialettica democratica» più vivace e produttiva tra i decisori politici e i cittadini-elettori che potrebbero acquisire una maggiore capacità di controllo circa le spese dell’amministrazione regionale. Ma se l’autonomia rafforzata venisse «applicata male», si correrebbe il rischio di veder nascere nelle regioni autonome un centralismo su base regionale che con il tempo riprodurrebbe tutti i vizi generati dal centralismo statale: inefficienze, sprechi, clientelismo, assistenzialismo, intrusione della politica nella sfera economica («Proteggere le imprese del Nord non le renderebbe più forti, ma più assistite»), e così via. Una regione come la Lombardia, che oggi per molti aspetti rappresenta un modello di efficienza e di dinamismo economico-sociale che non ha niente da invidiare a quello esibito dalle regioni più ricche e moderne dell’Europa, potrebbe ricevere un grave danno da una «cattiva applicazione» dell’autonomia rafforzata.

Sull’altro versante troviamo il vastissimo fronte, che va da “destra” a “sinistra” (incluse le “estreme”), che teme appunto la «secessione dei ricchi» e rispolvera l’ormai ammuffita e maleodorante “Questione meridionale”. Molti sinistri sostengono che bisogna «costruire un largo movimento popolare di contrasto al federalismo per ricchi», ma nulla sulle vistosissime magagne economico-sociali prodotte dal centralismo statale. Dopo più di un secolo e mezzo dall’Unità d’Italia, siamo ancora qui a parlare di “Questione meridionale”, a dimostrazione che la cosiddetta «secessione dei ricchi» non è la causa della più che secolare arretratezza delle regioni meridionali, ma piuttosto uno dei “frutti avvelenati”, certamente quello politicamente più evidente ed esplosivo, di un assetto politico-istituzionale che fa acqua da tutte le parti non da oggi, non da qualche lustro, ma da decenni, e la cui inadeguatezza ha finito per produrre rilevanti conseguenze anche sul piano politico-istituzionale, come ho accennato poco sopra ricordando la nascita del fenomeno leghista.

Il divario economico-sociale tra le regioni del Nord e le regioni del Sud cresce sempre, quasi “per definizione”, come se la “dialettica” Nord-Sud fosse esposta a un’incoercibile legge di natura, e questo nonostante l’architettura sostanzialmente centralistica dello Stato Italiano dall’Unità in poi. Di più: la “Questione meridionale” nasce proprio insieme allo Stato unitario italiano, nel senso che nel 1861 lo scarto tra Nord e Sud era minimo, soprattutto nel campo della cantieristica navale, e che solo dopo il divario tra le due aree del Paese è cresciuto rapidamente fino a diventare un problema economico-sociale di prima grandezza (1). Le cause sono note, ed ebbero natura politica, economica e geopolitica. Con Cavour si affermò la linea dell’Indipendenza nazionale senza rivoluzione (2) e giocata in gran parte sullo scacchiere internazionale, in appoggio ora a questa, ora a quell’altra Potenza del tempo. Per accelerare lo sviluppo capitalistico del Paese, che avrebbe dovuto confrontarsi con potenze capitalistiche di prima grandezza come la Francia, la Germania, l’Austria e l’Inghilterra, la classe dirigente italiana preferì sacrificare l’ancora fragile industria meridionale e sostenere la più promettente struttura industriale del Nord, mentre attraverso la politica fiscale si realizzava un massiccio drenaggio di risorse finanziarie dal Sud al Nord. Nella divisione nazionale del lavoro al Mezzogiorno spettò soprattutto il compito di vacca finanziaria da smungere a piacimento, di fornitore di manodopera a basso costo, di fornitore di materie prime (soprattutto agricole) e di consumatore dei più “sofisticati” prodotti sfornati dall’industria settentrionale. In larga parte la cosiddetta epopea risorgimentale si configurò come una vera e propria annessione del Mezzogiorno italiano promossa dalla “Prussia italiana”, ossia dal Piemonte. La stessa Lombardia, per molti aspetti assai più progredita del Piemonte, si oppose a una soluzione centralista del problema politico-istituzionale, e il federalismo di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo per una brevissima stagione parve poter rappresentare un’alternativa praticabile. Non fu così. Scriveva Francesco Saverio Nitti nel 1900: «Il governo delle province, prefetti, intendenti di finanza, generali, ecc., è ancora adesso in grandissima parte nelle mani di funzionari del Nord. Non vi è nessun senso d’invidia in quanto diciamo. Ma vogliamo solo dire che se i governi fossero stati più onesti e non avessero voluto lavorare il Mezzogiorno, cioè corromperne ancor più le classi medie a scopi elettorali, molto si sarebbe potuto fare» (3).

Il brigantaggio (4) che si diffuse nelle campagne meridionali, e che l’Esercito Regio di marca Sabauda schiacciò con una violenza fino allora mai vista dalle “plebi” meridionali, fu il primo e certamente più vistoso sintomo di una “malattia” che accompagnerà il processo di modernizzazione capitalistica del Paese, e che, mutatis mutandis, è ancora attiva a oltre un secolo e mezzo dalla proclamazione dell’Unità nazionale.

Dal 1861 questo Paese ha assistito a uno sviluppo capitalistico incardinato su una struttura politico-istituzionale che ha fatto di tutto per depotenziare le contraddizioni sociali e rendere il meno conflittuale possibile il processo di modernizzazione del Paese. Di qui quel “compromesso storico” tra vecchie e nuove classi dirigenti politico-economiche che ha segnato la nascita di un “modello italiano” che, come si è detto, alla fine ha fatto bancarotta.

La “secessione dei ricchi” è in corso da decenni, e già all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso alla Fondazione Agnelli l’Italia appariva divisa in tre macroregioni: il Nord, economicamente e socialmente assai sviluppato, dinamico e competitivo, le cui performance capitalistiche erano di assoluto livello europeo e mondiale, al punto che soprattutto l’organizzazione a rete distrettuale del Nordest veniva assunta a modello da molti economisti tedeschi e giapponesi; il Centro, meno sviluppato e competitivo – se non sul terreno del «terziario avanzato» –, ma comunque ancora in grado di sostenere il confronto con la Francia (e poi con la Spagna), e infine il Mezzogiorno, con la sua secolare arretratezza socio-economica, la cui struttura economica era simile a quella del Portogallo e della Grecia. Scriveva l’economista Alberto De Bernardi nel 1991: «lo iato tra nord e sud non ha perso la sua drammaticità e pesa in termini enormi sulle potenzialità di sviluppo complessivo del paese» (5). La dissoluzione dei vecchi equilibri internazionali usciti dal Secondo conflitto mondiale hanno naturalmente accelerato processi lungamente maturati nel tempo.

La forza dell’economia, diceva il professor Gianfranco Miglio, il “teorico” del federalismo leghista, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», agglomerati economici e sociali, cioè, che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali “ottocenteschi“. «Ecco la radice del neofederalismo […]. È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato» (6). Anche gli eventi occorsi ultimamente in Spagna, con la crisi catalana, si spiegano in larga misura con le dinamiche economiche, politiche e geopolitiche di cui parlava Miglio ormai ventisei anni fa.

Troviamo in quella posizione, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si coglie la consapevolezza del sentiero estremamente contraddittorio lungo il quale tali dinamiche sono costrette a muoversi e a misurarsi con la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica. Il professore salutava come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica, ma sulla “benigna” forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista». A Miglio mancava evidentemente il concetto di Imperialismo come «fase suprema del Capitalismo», ma di questo si può “perdonarlo”, visto che non era un “marxista” – soprattutto del genere di quei “marxisti” che oggi difendono l’attuale assetto politico-istituzionale del Paese: «Difendere l’unità del nostro Paese è dunque indispensabile per recuperare in prospettiva pezzi di sovranità nazionale». Appunto, del vostro capitalistico Paese.

Com’è noto il progetto federalista dei primi anni Novanta non ebbe successo, e il berlusconismo in parte fu l’espressione di un nuovo compromesso tra le diverse dinamiche che mettevano (e che mettono) sotto sforzo l’assetto politico-istituzionale del Paese lungo l’asse Nord-Sud. Un compromesso che anche il Centro-sinistra accettò di buongrado, anche se per fini puramente politici (separare la Lega di Bossi da Berlusconi) seminò un elemento di potenziale destabilizzazione, aggiungendo con la riforma costituzionale del 2001 il comma 3 all’articolo 116, comma che prevede «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» anche per le regioni a statuto ordinario. Ricordiamoci che ancora nel 1996 l’allora ministro dell’economia del “Governo ombra Padano”, Giancarlo Pagliarini, sostenne la necessità di «due casse e due monete, il Nord con l’euro e il resto fuori come vuole la Germania, perché non è giusto che la Padania sia esclusa dall’euro per colpa di Roma e del Sud arretrato». Nel frattempo il divario tra la “Padania” e il Sud arretrato non è affatto diminuito, tutt’altro, e la Lega Nord è diventata la Lega anti-euro di Matteo Salvini, cosa che è dispiaciuta moltissimo a un leghista “duro e puro” come Pagliarini, il quale ricorda con nostalgia i vecchi tempi: «Dicevamo che i vecchi Stati-nazione, quelli responsabili delle guerre mondiali, non avevano più senso. Discutevamo dell’Europa dei popoli. Adesso, 20 anni dopo, vedo che si dice anche a Bruxelles che “l’Unione europea deve ripensare se stessa, e dovrà riorganizzarsi al di là dei confini dei vecchi  Stati-nazione, nel segno dell’organicità e dell’omogeneità”. Questo è il futuro. Torniamo alla “Lega di una volta”. In un’area geografica era (ed è) razionale adottare una moneta unica in presenza di due condizioni: 1) economie relativamente omogenee, e 2) mobilità interna. L’economia del Mezzogiorno non era assolutamente omogenea con l’economia delle Regioni del Nord, e la mobilità interna era in una sola direzione. La lira era una moneta forte che stava “uccidendo” il Mezzogiorno e l’Euro sarà una moneta forte, insostenibile per il Mezzogiorno. Aderire uniti alla moneta unica sarebbe stato un disastro. La situazione era irrazionale ed era agevole prevedere che sarebbe stato sempre peggio. Per pagare gli interessi passivi, per mantenere i trasferimenti di solidarietà, e non potendo (per fortuna!) massacrare i cittadini con la tassa dell’inflazione, con l’Euro la pressione fiscale sarebbe aumentata. In un mercato unico e con una moneta comune le imprese del Nord avrebbero investito meno dei loro concorrenti ed avrebbero avuto una pressione fiscale più alta: dunque  sarebbero state sempre meno competitive, e l’economia del Mezzogiorno non si sarebbe comunque sviluppata. Anzi! Conclusione: l’unica soluzione era il trattato di separazione consensuale. Il Nord sarebbe entrata subito nell’Unione Monetaria mentre il Mezzogiorno, che non era competitivo e che nell’Unione Monetaria sarebbe stato stritolato, restava provvisoriamente fuori, con questi risultati immediati: 1) le imprese delle Regioni del Nord avrebbero potuto fare investimenti in settori “capital intensive” per tutelare la loro competitività. 2) con la droga delle svalutazioni competitive il Mezzogiorno sarebbe stato enormemente facilitato per attirare capitali e turismo. Ed esportare. E generare lavoro. Insomma si trattava di dare la necessaria sveglia all’economia delle regioni del Mezzogiorno» (Lettera a Salvini, L’intraprendente, 2015).

Scriveva ieri Paolo Favilli sul Manifesto (“quotidiano comunista”: sic!): «Lo Stato nazione in cui vivono gli italiani ha il momento fondante nel Risorgimento. Lì si trovano le basi della loro storia in comune, almeno fino ad oggi». Non c’è dubbio. Sono le basi di una storia che si è dipanata sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici, i quali, lo ricordo solo per pignoleria, diciamo, sono rapporti sociali che attestano il dominio di classe dei detentori di capitali sulle classi nullatenenti che vivono di salario, ossia di lavoro mercificato – vedi Art. 1 della Costituzione Italiana. Dominanti e dominanti hanno in comune una storia di dominio e di sfruttamento, nel senso che i primi dominano e sfruttano i secondi: una gran bella storia, non c’è che dire. In quanto nullatenente a chi scrive questa storia fa schifo, e non poco! E poi, cosa c’entra il Risorgimento considerato come l’espressione di una rivoluzione nazionale-borghese, e quindi come un momento storicamente progressivo, con i nostri ultrareazionari tempi? Quando Mussolini aderì al Primo macello imperialistico mondiale straparlando di “Secondo Risorgimento”, o di “compimento del Risorgimento”, i marxisti dell’epoca lo spernacchiarono come traditore del Socialismo e ignorante dell’ABC del materialismo storico. Oltre un secolo dopo a “sinistra” c’è ancora gente che sventola il vessillo (l’ideologia) risorgimentale!

Scrive Massimo Villone, sempre sul noto “quotidiano comunista” (strasic!): «Siamo allo Stato che si dissolve»: ma magari! verrebbe da dire. Purtroppo non è così. Forse potrebbe dissolversi l’impalcatura politico-istituzionale che tanto piace ai sinistri più o meno “radicali”, soprattutto a quelli nostalgici della “Prima Repubblica”, quando ancora c’era il PCI e il Muro di Berlino. Ma ascoltiamo il lamento di Villone: «Un paese frantumato in un vestito di Arlecchino. Questa è l’Italia che alcuni vorrebbero per domani. È un’Italia in cui non ci riconosciamo. Non è quella che ci hanno consegnato i nostri padri, dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituente, passando per guerre, lutti e infiniti sacrifici». In quanto proletario anticapitalista io non mi sono mai riconosciuto in quest’Italia escrementizia, così come, ovviamente, non mi sono mai riconosciuto in alcun Paese del pianeta. Io nutro un invincibile odio nei confronti del “patriota” che rivendica «guerre, lutti e infiniti sacrifici». Abbasso l’Italia, centralista, regionalista o federalista che sia! Caspita, mi sono infervorato.

Per rasserenarmi leggo qualche passo tratto dal Testamento politico di Carlo Pisacane (24 giugno 1857), il celebre «rivoluzionario e patriota italiano» vicino alle correnti del socialismo europeo: «Nel momento d’intraprendere un’arrischiosa impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti» No, al rivoluzionario napoletano non si può appiccicare l’ignobile etichetta di “populista”. Ma riprendiamo la citazione: «I miei principi politici sono abbastanza noti; io credo che il dolo socialismo espresso nella formola “Libertà ed Associazione”, sia il solo avvenire non lontano della Italia, e forse dell’Europa. […] Per me dominio di casa Savoia o dominio di casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Francesco II. […] Sono convinto che il miglioramento dell’industria, la facilità del commercio, le macchine ecc., per una legge economica e fatale, finché il riparto del prodotto è frutto della concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani e immiseriscono la moltitudine; e perciò questo vantato progresso non è che regresso. Se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la sospingerà a una terribile rivoluzione, la quale cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è a profitto di pochi. […] Sono persuaso che se l’imprese riesce, avrò il plauso universale: se fallisce, il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento» (7). Com’è noto l’impresa non riuscì, e Pisacane cadde a Sanza (Salerno), per la gioia dei «molti che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri».

Leggo da qualche parte: «Difendere l’unità del nostro Paese è dunque indispensabile per recuperare in prospettiva pezzi di sovranità nazionale». Appunto, del vostro capitalistico Paese. Quanto alla «sovranità nazionale», giusto i sovranisti di “destra” e di “sinistra” possono ancora avere fede in questa gigantesca menzogna che si rivela tale ovunque nel mondo, a partire dal Venezuela, la cui “sovranità” si riduce alla scelta di quale Imperialismo deve sostenere il destino del Paese: Stati Uniti? Europa? Russia? Cina?

È vero che per le classi subalterne il peggio non ha fine, che per i nullatenenti il peggio è sempre dietro l’angolo, ma non è difendendo un assetto politico-istituzionale piuttosto che un altro che essi possono difendere i propri interessi immediati, senza parlare della possibilità di una loro emancipazione sociale, di un loro affrancamento dagli odierni rapporti sociali. Solo la costruzione dell’autonomia di classe può consentire alle classi subalterne di approntare gli strumenti idonei a rispondere a una condizione sociale che si fa sempre più dura e precaria: è la “secessione dei poveri” quella che ci vuole, contro tutti (centralisti, regionalisti, federalisti) i sostenitori dello status quo sociale.

Come proletario e anticapitalista nato in Sicilia ho sempre avuto nella massima antipatia il vittimismo meridionalista che si annida in ogni ambiente sociale del Mezzogiorno. Ci si approccia allo «sviluppo ineguale» della società italiana come a qualcosa di naturale e inevitabile, come a un destino cinico e baro, come a un complotto organizzato dai cattivi e ricchi settentrionali «che rubano il nostro lavoro e le nostre ricchezze». E poi naturalmente ci si acconcia a ogni tipo di assistenzialismo e di clientelismo: «È giusto che lo Stato pensi ai più bisognosi». Come no! E la lotta di classe? «Votare è più comodo e meno rischioso. E poi la lotta di classe è un concetto vecchio, mentre il reddito di cittadinanza rappresenta il nuovo». Già, il “nuovo” che avanza…

(1) «È ormai certo che, al momento dell’unificazione del Regno di Sardegna con il Regno delle due Sicilie, con la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo del 1861, le condizioni economiche del Nord e del Sud non fossero, poi, così distanti fra di loro. Un recente studio mette in evidenza proprio quest’aspetto, soprattutto attraverso l’analisi statistica del PIL pro capite. Se mai, si può tranquillamente affermare che fra Nord e Sud vi fossero delle differenze di ordine strutturale ed organizzativo in campo economico- produttivo. […] Il divario fra il Nord ed il Sud del Regno si cominciò a manifestare subito dopo l’Unità con l’introduzione della tariffa liberista che distrusse l’industria meridionale fortemente protetta.  […] Al colpo inferto all’industria meridionale con le tariffe liberiste postunitarie si aggiunse quello delle tariffe liberiste della metà degli anni ’80 per l’agricoltura. Era la rovina per l’economia del Mezzogiorno. […] L’avvio nel primo Novecento dell’industrializzazione italiana, seguì di poco, quindi, la rovina dell’economia meridionale. [… ] Nei primi anni del ‘900, dunque, il Nord si trova con una maggiore dotazione di infrastrutture e con una serie di iniziative imprenditoriali industriali, fattori che determinano il divario nelle condizioni economiche complessive con il sud. Nasce la questione meridionale» (G. Cantarella, A. Filocamo, Economia italiana e del Mezzogiorno, pp. 24-27, Università degli di Reggio Calabria, PDF, 2013).
Francesco Saverio Nitti, nel suo Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, scrisse che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote allo Stato unitario «minori debiti e più grande ricchezza pubblica», e ricordò che nel primo periodo si ebbe un notevole «esodo di ricchezza dal Sud al Nord»: «Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici» (La finanza italiana e l’Italia meridionale, 1912).
(2) «Barrington Moore e altri sociologi hanno indicato la rivoluzione agraria come uno dei principali agenti della modernizzazione di ina società industriale. Il fatto che in Italia questo fenomeno non si sia verificato non è quindi senza conseguenze. Il complesso rapporto tra città e campagna ha modellato infatti i rapporti tra le diverse classi dirigenti, determinando quel compromesso tra è élites tradizionali e élites industriali che ha inciso profondamente sulla lentezza dei processi di modernizzazione della società italiana. alla formazione di questo “blocco storico” ha infatti contribuito la persistenza di una proprietà fondiaria forte e indipendente, in grado di controllare i meccanismi del sistema politico e di presiedere alla selezione delle classi dirigenti» (A. De Bernardi, Città e campagna nella storia contemporanea, in AA. VV. Storia dell’economia italiana, III, p. 275, Einaudi, 1991).
(3) F. S. Nitti, Nord e Sud, p. 11, 1900, Casa Editrice Nazionale Roux Roux e Viarengo, 1900.
(4) «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori» (F. S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, p. 44, Laterza, 1958).
(5) A. De Bernardi, Città e campagna nella storia contemporanea.
(6) Ex uno Plures, su Limes 4/93
(7) Testamento politico di Carlo Pisacane consegnato il giorno prima di partire per l’impresa di Sapri alla giornalista inglese Jessie White.

SUL REDDITO DI SUDDITANZA

Una parte della borghesia desidera di portar
rimedio ai mali della società per assicurare
l’esistenza della società borghese (Marx-Engels).

Accetta un pasto e riceverai ordini (Lu Hsün).

Mentre con qualche ansia attendo di conoscere che ne sarà del cosiddetto reddito di cittadinanza, finito com’era prevedibile nelle sabbie mobili delle compatibilità economiche generali, intendo svolgere una breve riflessione sul significato sociale, politico e ideologico di quella misura altamente “innovativa” e “rivoluzionaria”.

Com’è noto, la richiesta di un reddito (di un sussidio, o come altro vogliamo chiamarlo) per i disoccupati non è nata “dal basso”, non è stata una rivendicazione avanzata dai proletari disoccupati nel corso di una lotta, ma si è sviluppata e precisata interamente sul terreno della contesa elettoralistica, come proposta demagogica e “populista”, avanzata soprattutto dal Movimento 5 Stelle, intesa 1. a catturare il consenso politico-elettorale di ampie fasce di proletariato meridionale e di piccola/media borghesia “proletarizzata”, e 2. a incanalare, controllare e stemperare la tensione sociale generata dalla crisi economica che imperversa in questo Paese ormai da dieci anni.

La richiesta peraltro ha avuto fin dall’inizio un preciso orientamento politico-ideologico, come attesta il concetto stesso di reddito di cittadinanza, di un sussidio cioè riconosciuto dallo Stato al disoccupato nella sua qualità di suddito (o cittadino) appartenente a una determinata nazione, quella italiana. L’impatto ideologico e psicologico sulle masse più povere del Paese è dunque chiaro: esse sono invitate a vedere nello Stato capitalistico non il Nemico da abbattere, ma la paterna e filantropica autorità che concede loro di vivere “dignitosamente”. Ciò sviluppa nei proletari sussidiati (potenzialmente a vita) un senso di ostilità nei confronti dei non cittadini (gli immigrati, ad esempio) (*) e di chiunque osasse remare contro lo Stato, criticarlo, combatterlo, e questo semplicemente perché lo Stato dà loro da vivere. Non si sputa sul piatto in cui si mangia! In Venezuela, ad esempio, i più agguerriti e feroci sostenitori del regime chávista sono quei proletari che vivono del sussidio statale basato sulla rendita petrolifera. «In questo momento è soprattutto il partito di Grillo & Casaleggio a essere molto interessato a spingere il pedale del “populismo socialmente orientato” perché intende crearsi un’ampia e durevole base di consenso clientelare-elettorale a cui attingere. Più che il modello “Prima Repubblica”, la cosa evoca ai miei occhi il modello chávista, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare: a cominciare dal fatto che il clientelismo “bolivariano” può contare sulla rendita petrolifera, mentre quello italiano può contare sulla fiscalità generale, come sa bene lo zoccolo duro dell’elettorato leghista: “Roma ladrona, la Lega non perdona!”» (Sovrano è il Capitale. Tutto il resto è illusione e menzogna).

Prima ho scritto «sussidiati potenzialmente a vita» perché una volta introdotta una misura di quel genere in un Paese come l’Italia, che ha una vasta area di capitalismo arretrato con relative magagne sociali, sarà difficilissimo poi toglierla senza suscitare violente reazioni da parte dei sussidiati, con ciò che ne segue anche in termini di consenso elettorale. In Italia ci vuole poco per passare dalla condizione di eroe osannato dalla folla ammassata sotto un balcone, a cadavere sbertucciato e calpestato dalla stessa folla. Faccio della facile metafora, si capisce.

Gran parte del debito pubblico italiano si spiega proprio con l’inerzia politica della “Prima” e della “Seconda Repubblica” nei confronti di un’organizzazione sociale sempre più insostenibile dal punto di vista economico e finanziario. Ad esempio, è facile parlare di spending review, se ne discute con insistenza dal 2012; molto più difficile è praticarla, perché si toccherebbero molti interessi, grandi e piccoli, e gli interessi, com’è noto, votano… È prevedibile che l’area capitalisticamente avanzata del Paese, che da sempre lamenta il parassitismo sociale di un Mezzogiorno che drena ricchezza senza crearne di nuova, cercherà di ostacolare in tutti i modi l’implementazione del reddito di cittadinanza, almeno nella sua versione integrale, cosa che già mette in allarme i leghisti, da sempre paladini degli interessi “nordisti” e che oggi, con le loro velleità nazionalistiche, rischiano di “meridionalizzarsi”.

Può il Paese con il più alto debito in Europa, la più bassa crescita economica e la più bassa produttività sistemica di tutto l’Occidente capitalisticamente avanzato distribuire milioni di “stipendi” senza ricevere nulla in cambio dai sussidiati? È questo il cruccio degli economisti e dei politici “più responsabili” di questo Paese, i quali inorridiscono solo al pensiero di un reddito di cittadinanza, che a pieno regime (è proprio il caso di dirlo) dovrebbe costare intorno ai 15 miliardi all’anno. Ma c’è chi ipotizza cifre molto più alte, tali da evocare l’inevitabilità di un “colpo di Stato” organizzato dai “poteri forti” nazionali e internazionali. Lo spread toccherà punte di inusitata altezza. E forse l’ex Cavaliere Nero, l’ex Male Assoluto di turno (quanti ne fabbrichiamo in Italia!), insomma Silvio Berlusconi potrà prendersi qualche rivincita: chi di spread colpisce… E poi, avvertono i “responsabili di cui sopra”,  «prima di trasferire ricchezza dall’alto verso il basso, bisogna crearla, questa benedetta ricchezza!» La socialdemocrazia svedese lo ha sempre insegnato: ingrassa la pecora e poi tosala un pochino, quanto basta a reggere la baracca capitalistica senza troppi affanni.

L’intenzione, ha detto Di Maio per rispondere alle obiezioni dei detrattori, «non è quello di dare soldi alle persone per stare sul divano»: chi riceverà un assegno mensile di circa 780 euro (il 60 percento del reddito medio della Repubblica) dovrà impegnarsi nella formazione e dovrà accettare le proposte di lavoro che gli verranno presentate dal Centro per l’impiego, come accade nei Paesi che da anni conoscono forme di sussidio statale simili al reddito di cittadinanza traendone un gran beneficio. C’è da dire che anche una parte del mondo imprenditoriale confida sull’effetto keynesiano sulla domanda di beni e servizi che la misura governativa potrebbe avere, con relativo aumento del gettito fiscale. Anche economisti liberisti come Milton Friedman e F. von Hayek ai loro tempi furono tutt’altro che contrari all’introduzione di un sussidio in denaro (non in beni di prima necessità e in servizi sociali) concesso dallo Stato ai “meno fortunati”, sia in vista dei virtuosi “effetti keynesiani” (virtuosi, beninteso, soprattutto per chi vive di profitti), sia come rafforzamento dell’ordine sociale in situazioni di alta disoccupazione.

Vedremo come nella situazione concreta italiana si tradurrà la misura governativa in questione, la quale per il movimento di Grillo e Casaleggio rappresenta una linea rossa invalicabile: o reddito o morte (del Governo Conte)! Per quanto mi riguarda la dubbia sostenibilità economica della proposta pentastellata non rappresenta un problema, non avendo io a cuore i sacri interessi nazionali, essendo un dichiarato irresponsabile. Tanto peggio tanto meglio? Magari!  Purtroppo il peggio (la bancarotta di una società, di un Paese) non genera spontaneamente il meglio (la coscienza, lo spirito di iniziativa, la speranza, la rivoluzione: «sì, campa cavallo!» Appunto).

Nella misura in cui il reddito di cittadinanza, in quanto reddito svinco­lato dall’attività lavorativa, è finanziato dallo Stato attingendo alla fiscalità generale, esso realizza di fatto una decurtazione più o meno pesante e diretta di salari e pensioni, comprese le pensioni degli ex lavoratori. Si tratta insomma di una “solidarietà” pelosa e rognosa che lo Stato chiede a tutti suoi sudditi per aiutare i fratelli d’Italia meno fortunati, più colpiti dalla globalizzazione capitalistica e dalle continue rivoluzioni tecnologiche, le quali creano una disoccupazione strutturale che la società non è in nessun modo in grado di eliminare, se non con mezzi malthusiani… Non dimentichiamo che il teorico di rifermento di Grillo su questo tema è sempre stato Jeremy Rifkin, forse il primo che ha parlato di «fine del lavoro».

I lavoratori che hanno la “fortuna” di generare plusvalore sono cordialmente invitati a produrne sempre di più per alimentare il fondo che finanzia il reddito non solo dei proletari disoccupati, ma di tutti quegli strati sociali (piccola e media borghesia) che sono precipitati nei piani bassi della scala sociale, cosa peraltro che accade sempre più spesso. Perché da qui non si scappa: solo il lavoro salariato produce la ricchezza che circola nella società nelle forme più disparate e nei modi più complessi, e proprio per questo difficilmente riconducibili alla fonte originaria. È su questa maledizione sociale che si basano tutte le forme di reddito (di cittadinanza, di esistenza, di inclusione) a carattere interclassista che circolano nel dibattito politico degli ultimi dieci anni. Una maledizione sociale che resta per l’essenziale incomprensibile soprattutto ai teorici del “Capitalismo cognitivo” (**).

Sempre più urgente appare la ripresa della “classica” lotta operaia per la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario (tenendo conto della complessa organizzazione capitalistica del XXI secolo), per migliori condizioni di lavoro (riduzione dei ritmi produttivi ecc.) e di vita: salute, casa, servizi sociali (welfare).

Insomma, sul piano ideologico il reddito di cittadinanza rappresenta una vera e propria apologia della conservazione sociale: chi chiede “solidarietà” nei confronti dei disoccupati e degli ultimi è quello stesso Leviatano che si pone a difesa dei rapporti sociali che creano sempre di nuovo sfruttamento, precarietà, disoccupazione, miseria sociale e ogni sorta di disumanità. Reddito di cittadinanza? Chiamiamolo almeno con il suo vero nome: reddito di regime (politico e sociale) ovvero di sudditanza. Non si tratta di battersi contro l’introduzione di quel sussidio, lotta che apparirebbe priva di senso e del tutto incomprensibile agli occhi dei disoccupati e dei precari; si tratta piuttosto di denunciarne il carattere fortemente reazionario sul piano politico e sociale. Non c’è alcuna dignità né nel lavoro salariato (vedi Art. 1 della Costituzione), che implica la mercificazione dell’intera esistenza dei lavoratori (una disumana condizione che poi si espande come la peste fino a coinvolgere l’intera società), né nel reddito di cittadinanza. Questo è bene dirlo contro chi avversa la proposta pentastellata perché mortificherebbe «il senso e il valore del lavoro». Solo la lotta di classe conferisce dignità, senso e valore alla pessima condizione sociale dei lavoratori, i quali in Italia hanno subito per decenni la cattiva ideologia “lavorista” in salsa cattocomunista.

Mi si può obiettare che, comunque stiano le cose sul terreno della “teoria critico-rivoluzionaria della società”, rimane il fatto che un Governo cerca di dare risposte concrete a dei problemi sociali, che dei disoccupati forse prenderanno un reddito e che dei pensionati forse percepiranno una pensione più alta (pensione di cittadinanza), tutti fatti che fanno impallidire ogni astratta riflessione politica. Questa obiezione è più che fondata, essa anzi coglie in pieno la sostanza del problema, almeno per come io inquadro tutta la faccenda; questo problema oggi appare irrisolvibile se affrontato dal punto di vista anticapitalistico, non faccio alcuna fatica a riconoscerlo. «La verità è rivoluzionaria», diceva quello: ecco, appunto, almeno in questo voglio essere coerente! Oggi non solo non c’è alle viste una rivoluzione che possa aggredire la “questione sociale” alla radice, ma non si osserva nelle classi subalterne alcuna capacità di iniziativa autonoma su vasta scala, e forse nemmeno su scala assai più ridotta. L’iniziativa è saldamente nelle mani delle classi dominanti e del loro personale politico, di “destra” e di “sinistra”.

Tuttavia, a ben guardare, il problema qui evidenziato non rappresenta una sciagura solo per l’anticapitalista (e chi se ne frega!), ma soprattutto per l’intera umanità, la quale oggi si vede negata la stessa astratta possibilità di un’esistenza degna di essere definita umana. Dinanzi a questa immane tragedia la piccola frustrazione dell’anticapitalista appare perfino ridicola.

(*) «Abbiamo corretto la proposta di legge iniziale sul reddito di cittadinanza. È chiaro che è impossibile, con i flussi immigratori irregolari, non restringere la platea e assegnare il reddito di cittadinanza ai cittadini italiani» (Luigi Di Maio, Corriere della sera, 21/9/2018).
(**) Un solo esempio: «Per quanto riguarda la sfera del lavoro, occorre riconoscere che nel capitalismo cognitivo la remunerazione del lavoro si traduce nella remunerazione di vita: di conseguenza ciò che nel fordismo era il salario oggi nel capitalismo cognitivo diventa reddito di esistenza (basic income) e il conflitto in fieri che si apre non è più la lotta per alti salari (per dirla i termini keynesiani) ma piuttosto la lotta per una continuità di reddito a prescindere dall’attività lavorativa certificata da un qualche rapporto di lavoro» (A. Fumagalli, Il reddito di base come remunerazione della vita produttiva, pubblicato su: Aa.Vv., Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, 2009). Su Fumagalli e gli altri teorici del “capitalismo cognito” rinvio ai miei diversi post dedicati al tema:

MALEDETTI REDDITIERI!

CRIPTO-MONETA DEL COMUNE E “ACCIARPATURE MONETARIE”

SUL REDDITO UNIVERSALE DI FUMAGALLI

LE SUPERSTIZIONI COMUNARDE DI TONI NEGRI

PROFITTO VERSUS RENDITA

ACCELERAZIONISMO E FETICISMO TECNOLOGICO 2.0

SUL CONCETTO DI MISERIA SOCIALE E SUI PROUDHONIANI 2.0

LA VALORIZZAZIONE CAPITALISTICA AI TEMPI DI TONI NEGRI
FUGGO DAI CERVELLI IN LOTTA!

Vedi anche il saggio Dacci oggi il pane quotidiano.

È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!

Ennesima intervista rilasciata alla stampa dall’uomo che sussurra alla ruspa, insomma da Matteo Salvini. A mio parere degna di una qualche riflessione politica è solo la risposta che il Ministro degli Interni dà in merito alla politica estera italiana in Africa. «Che fine ha fatto la missione italiana in Niger che i francesi hanno bloccato?», chiede Alessandro Farruggia (Quotidiano.net) al Ministro. Risposta: «Bella domanda. I francesi sono un problema, perché la loro è una strategia economica, non umanitaria». Com’è noto, la politica del leader leghista è invece incentrata su rigorosi presupposti etici: prima l’uomo in quanto uomo, poi ogni altro interesse. Si tratta del ben noto sovranismo umanitario estraneo alla volgare cultura materialista dei francesi, i quali pensano solo al vile denaro, all’argent. Ma riprendiamo la risposta: «Noi stiamo lavorando anche con diversi privati ad un piano di investimenti nel Sahel, nei paesi di partenza e di transito. Lo facciamo come Italia, perché come Europa mi fido fino a un certo punto». Bene! bravo! bis! Fidarsi di Bruxelles è bene, non fidarsi è meglio: l’asse franco-tedesco è sempre in agguato. Ecco la perla finale: «I francesi hanno un approccio imperialista e colonialista che non è apprezzato in Africa e quindi qualche paese è disponibile a ragionare di fronte a investimenti veri. Mi piacerebbe che il ministro Salvini, brutto, sporco, cattivo, razzista, fascista, fosse quello che investe seriamente in Africa. Per permettere a quei ragazzi di restare lì a lavorare». Com’è umano lei! E com’è ingiusto che qualcuno lo accusi di razzismo e di fascismo!

Si può però anche dire, volendo essere supercritici, che è facile accusare l’imperialismo e il colonialismo degli altri, tacendo bellamente sull’imperialismo di casa propria. Ma da uno come Salvini non ci si può aspettare altro che questo, ovviamente. Né d’altra parte bisogna pensare che le dichiarazioni del Ministro “populista”  rappresentino una innovazione in materia di politica estera, tutt’altro. È dalla fine della Seconda guerra mondiale che la penetrazione degli interessi economici e geopolitici dell’Italia nel suo tradizionale cortile di casa (Africa del Nord, Balcani) è affidata soprattutto al cosiddetto soft power, fatto non solo di investimenti (soprattutto nell’estrazione di gas e petrolio e nella costruzione di infrastrutture come ponti, porti e dighe) ma anche di “missioni umanitarie” affidate alle ONG. Ed è precisamente questa politica di penetrazione dal basso profilo politico-militare ma di grande efficacia che alla fine ha cozzato con gli interessi dei francesi in un’area che evidentemente essi considerano di loro esclusiva pertinenza. È comunque un fatto che gli interessi strategici italiani in Libia sono minacciati da più parti, come ha chiaramente dimostrato l’intervento “umanitario” internazionale del 2011 ai danni del regime di Gheddafi voluto soprattutto dalla Francia (con il pronto e “fattivo” sostegno della Gran Bretagna e dell’Arabia Saudita) per indebolire appunto la posizione dell’Italia in quel Paese e non solo.

Scrive Francesca Pierantozzi sulla vera natura del contenzioso franco-italiano in Africa: «Negli ultimi tempi tra Roma e Parigi volano parole grosse: irresponsabile e cinica l’Italia che chiude i porti per Macron, arrogante e ipocrita la Francia secondo Salvini. Ma dietro alle scaramucce diplomatiche, quanto pesano gli interessi economici? Quanto pesa il petrolio della Libia, l’Uranio del Niger, il gas del Fezzan, e poi l’oro, il cobalto, il manganese, il litio e le preziose terre rare del Sahel? Sono questi i famosi paesi “di origine e transito” dei flussi migratori che stanno spaccando l’Europa. In Libia, oltre alle idee di Macron e Salvini, si fronteggiano anche Eni e Total. La lotta è ancora impari e a netto vantaggio italiano. Nel 2018 Eni stima una produzione giornaliera di circa 320 mila barili/olio/equivalente (Boe). Nel 2017 la produzione della francese Total è stata di 31.500 barili al giorno. Anche se a marzo Total ha comprato la Marathon Oil Libya, che a sua volta detiene il 16,33 per cento delle concessioni di Waha per 450 milioni di dollari, la produzione dei francesi non supererà i 100 mila barili. La diplomazia di Macron, che per primo ha riconosciuto come interlocutore oltre al premier di Tripoli Serraj – il generale Haftar, signore della Cirenaica e ormai considerato anche signore del petrolio, arriva comunque in ritardo rispetto alle intenzioni di Eni. Il gruppo italiano sta infatti già guardando altrove. A marzo l’amministratore delegato Descalzi ha annunciato che Eni ridurrà la produzione di petrolio in Libia fino a 200mila barili al giorno entro il 2021. In compenso, gli italiani guardano con interesse all’ex francese Algeria, possibile futuro terreno di scontro economico: Descalzi ha firmato di recente una serie di accordi con la Sonatrach, la società di Stato algerina, di cui uno in particolare per l’ esplorazione nel bacino del Berkine. Tra Francia e Italia in Libia non c’è comunque solo il petrolio. Grossi interessi hanno anche Endesa (Enel) e Gdf-Suez, per non citare che i colossi. Senza contare, per l’Italia, il progetto di autostrada che Berlusconi promise a Gheddafi come “risarcimento” della politica coloniale, una litoranea per quasi un miliardo di euro attribuito a Salini Impregilo e di recente confermato, e il gasdotto libico-italiano Green Stream. Stesso tavolo di interessi comuni anche nel Sahel, dove la Francia è presente militarmente dal 2013, prima in Mali con l’operazione Serval, e poi anche in Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad con l’operazione Serval. Sono questi alcuni dei paesi in cui dovrebbero essere installati i famosi hot spot extra europei. Per ora l’Italia è stata estromessa dal dispositivo presente a Niamey, dove sono di stanza solo una quarantina di militari italiani. Il governo Gentiloni aveva parlato di “opportunità enormi per il nostro sistema manifatturiero”, ma per Parigi sono in gioco soprattutto i giacimenti di uranio in Niger (in particolare la miniera di Arlit) che forniscono ad Areva il 30 per cento di uranio utilizzato nelle centrali nucleari di Francia» (il Messaggero).

Insomma, le ragioni per una tensione crescente tra Roma e Parigi ci sono tutte e non appaiono di facile gestione diplomatica. Un “populista” alla Salvini ha quantomeno il merito di non usare sempre e solo l’affettato gergo diplomatico la cui comprensione è preclusa al popolo bue. C’è da dire, per concludere, che anche per quanto riguarda la politica sui migranti Salvini si muove in assoluta continuità con il suo predecessore al Viminale, con quel Marco Minniti che a sua volta fu accusato di praticare una politica fascista. Non c’è niente da fare: la postura politicamente “decisionista” in Italia deve sempre confrontarsi con l’uomo dalla mascella volitiva!

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MARCINELLE 1956, MEDITERRANEO 2017. UNA FACCIA, UNA DISGRAZIA

Ni chiens, ni italiens!

Né cani, né africani!

Né cani, né africani, né omosessuali!

Né cani, né africani, né omosessuali, né…

 

Com’è noto, nell’immediato dopoguerra l’Italia siglò con il Belgio un accordo che prevedeva quote di carbone estratto nelle miniere di quel Paese in cambio di manodopera italiana, a testimonianza del fatto che, come diceva l’uomo con la barba, nel Capitalismo «il lavoro-merce è una tremenda verità». Scriveva Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 16 agosto 2016: «Eravamo Poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce». Marxianamente parlando quest’ultima frase andrebbe riscritta come segue: uno scambio di uomini ridotti a merce con altra merce (materia prima); capitale/lavoro vivo (il mitico “capitale umano”) contro capitale/lavoro morto.

Leggo da qualche parte: «L’8 agosto 1956 nella miniera del Bois du Cazier, in Belgio un incendio causò la morte di 262 minatori di cui 136 italiani. La miniera di Marcinelle è diventata un simbolo e un santuario della memoria per tutti gli emigranti italiani che hanno perso la vita sul lavoro, spesso un lavoro duro, faticoso e pericoloso». La ricostruzione postbellica non fu esattamente un pranzo di gala, da nessuna parte. Ebbene, l’Italia ha fatto di quelle vittime del Capitale e degli interessi nazionali degli eroi, dei soldati-minatori caduti sul fronte del lavoro per mantenere alto l’onore e il prestigio della Nazione: «La memoria di questo tragico evento, che nel nostro Paese celebriamo come Giornata del Sacrificio del lavoro italiano nel mondo [che definizione fascistissima!], deve servire da guida per noi e per i nostri figli. Le nostre comunità all’estero non sono solo viste come destinatarie di servizi, ma anche e soprattutto come una componente essenziale della politica estera dell’Italia». Queste le dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario agli Affari Esteri, Vincenzo Amendola, nel corso della commemorazione delle vittime di Marcinelle. Per quanto mi riguarda la nazionalità di quei salariati uccisi dai rapporti sociali capitalistici non ha alcuna importanza; «Non dimenticare Marcinelle» per me non significa in alcun modo sostenere le politiche di chi cerca di gestire le contraddizioni sociali ai fini della difesa dello status quo sociale implementando una strategia “buonista” («Gli immigrati fanno i lavori che noi italiani non vogliamo più fare, frenano il calo demografico nel Paesi ricchi e ci pagano le pensioni!»); né significa, ovviamente, tessere l’elogio dell’immigrato italiano “buono” (come i macaronìs!) che sgobbava senza lamentarsi – mentre i negracci che purtroppo riescono a sopravvivere al deserto, ai carnefici dei lager libici e ai pesci del Mediterraneo non hanno voglia di fare nulla di costruttivo!

Il 61esimo anniversario della strage di Marcinelle, celebrato lo scorso 8 agosto, ha offerto ai “buonisti” e ai “cattivisti” che si disputano la scena politica nazionale un’eccellente occasione per esibirsi dinanzi al pubblico dei rispettivi tifosi e detrattori. Come abbiamo visto il fronte buonista ha avuto i suoi campioni nel Presidente della Repubblica Sergio Mattarella («Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione, hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza . È un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri Paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione Europea»), nel Ministro degli Esteri Angelino Alfano («La tragedia di Marcinelle ci dà ancora oggi la forza di lavorare per un’Europa più coesa e solidale, come l’avevano immaginata i padri fondatori. Un’Europa che trae origine e sostanza dal genuino spirito di fratellanza fra i suoi popoli. Mi riferisco in particolare al flusso continuo di migranti disperati che oggi, come allora, cadono troppo spesso vittime») e, dulcis in fundo (ma si fa solo per dire), nell’immancabile Presidente (o Presidenta? o Presidentessa?) della Camera Laura Boldrini: «L’anniversario della tragedia di Marcinelle ci ricorda quando i migranti eravamo noi. Oggi più che mai è nostro dovere non dimenticare». Non dimenticare cosa esattamente? E «noi» e «nostro» in che senso? Ad esempio, chi scrive cosa ha da spartire con i campioni del buonismo appena citati? La nazionalità? Non c’è dubbio; ma è, questo, un connotato anagrafico che sempre chi scrive respinge sul terreno della lotta (si fa quel che può!) anticapitalistica, la quale, come ho già accennato, dissolve ogni appartenenza nazionale, razziale, religiosa e quant’altro per porre al centro dell’attenzione la disumana prassi del Dominio, la maligna entità storico-sociale che rende possibile anche le carneficine, in tempo di guerra come in tempo di – cosiddetta – pace. È questo d’altra parte il filo nero che lega la Marcinelle del 1956 al Mediterraneo del 2017. Ovviamente e come sempre, mutatis mutandis.

Cambiando dunque l’ordine cronologico delle stragi, il colore della pelle degli sventurati e il contesto storico/geopolitico degli eventi qui evocati, il risultato non cambia. E si chiama Capitalismo, la cui dimensione oggi è mondiale. La spinta migratoria che origina soprattutto nell’Africa subsahariana ha moltissimo a che fare con le dimensioni e con la natura invasiva del Capitalismo, il quale genera “scompensi”, magagne e contraddizioni sia là dove esso per così dire abbonda (vedi il cosiddetto Nord del mondo), sia là dove invece esso è asfittico e tarda a decollare, e questo, nella fattispecie, soprattutto a cagione della prassi colonialista e imperialista che vide protagonisti alcuni Paesi europei già a partire dalla fine del XV secolo. L’ineguale sviluppo del Capitalismo ha sempre creato onde di pressione sociale che coinvolgono l’intero pianeta, e che possono manifestarsi anche sottoforma di migrazioni di massa, un fenomeno che, come impariamo fin dalle scuole elementari, se osservato dalla prospettiva storica non ha in sé nulla di eccezionale: il bisogno spinge i popoli a muoversi, da sempre. Oggi questo processo sociale si dispiega nell’epoca caratterizzata dal totalitario dominio dei rapporti sociali capitalistici, e questo connotato storico-sociale gli conferisce la peculiare fenomenologia che ci sta dinanzi.

Ma ritorniamo a Miserabilandia! Dei buonisti abbiamo già detto. Immediata è scattata la rappresaglia dei cattivisti, i quali si sono prodotti nel solito coro: «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». «Mattarella si vergogni», ha tuonato appunto il leader leghista Matteo Salvini. «È vergognoso – ha dichiarato Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda – che il presidente Mattarella nel ricordare la strage di Marcinelle paragoni gli italiani che andavano a sgobbare in Belgio o in altri Stati, dove lavoravano a testa bassa, dormendo in baracche e tuguri, senza creare problemi, agli immigrati richiedenti asilo che noi ospitiamo in alberghi [che invidia!], con cellulari, connessione internet [e io pago!], per farli bighellonare tutto il giorno e avere poi problemi di ordine pubblico, disordini, rivolte come quella avvenuta oggi nel napoletano dove otto immigrati minorenni hanno preso in ostaggio il responsabile della struttura che li ospita. Paragonando questi richiedenti asilo nullafacenti agli italiani morti a Marcinelle il presidente Mattarella infanga la memoria dei nostri connazionali. Si vergogni». Ecco appunto. Per il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato, «le parole di Matteo Salvini sono vergognose [ci risiamo!] perché offendono il Presidente Mattarella [e chi se ne frega!] e gli italiani»: nella mia qualità di disfattista rivoluzionario non mi sento offeso neanche un po’ dal vomito razzista che esce dalla bocca di Salvini e gentaglia simile. Questa è robaccia che può eccitare gli animi delle opposte tifoserie che siedono sugli spalti di Miserabilandia. Dal mio punto di vista buonisti e cattivisti pari sono, e rappresentano due opzioni interne all’esigenza di gestire i processi sociali e di controllare la società per garantire la continuità dello status quo sociale – sociale, non meramente politico-istituzionale.

Pare che anche qualche discendente delle vittime di Marcinelle si è sentito offeso dal buonismo presidenziale di Mattarella, da quello governativo di Alfano e da quello istituzionale della Boldrini: «Aldo Carcaci, figlio di un emigrato e oggi deputato belga, ha contattato IlGiornale.it dicendosi esterrefatto da quanto sentito in questa giornata di dolore. “Mi sento offeso dalle parole che ho sentito. Così come è offesa la memoria delle persone che hanno perso la vita nella miniera di Marcinelle. Paragonare quegli immigrati con quelli di oggi è sbagliato. Quando mio padre nel 1947 è andato in Belgio c’èrano degli accordi tra i due Paesi. C’era, da parte del Belgio, una richiesta di lavoratori. In Italia invece i giovani non hanno un impiego ed è quindi impensabile riuscire ad aiutare tutti i ragazzi africani che arrivano ogni giorno sulle nostre coste. Inoltre noi ci siamo integrati, abbiamo studiato, imparato la lingua e lavorato anche se subivamo episodi di razzismo”» (Il Giornale). Capito? Noi eravamo brava gente (e pure di pelle bianca, salvo qualche siciliano particolarmente abbronzato); loro invece…

Quanto escrementizia e risibile sia la disputa tra buonisti e cattivisti lo apprendiamo anche dalla discesa in campo dell’attore comico Jerry Calà («Capito?»): «Non paragoniamo i nostri emigrati per piacere! Loro chiusi in baracche da cui uscivano solo per lavorare e rientravano per farsi da mangiare. Mio zio è morto in Belgio nelle miniere per mantenere la famiglia italiana. Mi permetto di parlare perché ne sono parente e in quegli anni ci sono stato. In Svizzera, in Belgio, in Germania. Non facciamo paragoni assurdi per piacere! Gli emigranti italiani venivano trattati come animali da soma… pulitevi la bocca». Pare che l’indignazione dell’attore abbia riscosso un notevole apprezzamento in una non piccola parte di Miserabilandia.

Giustamente Francesco Cancellato (Linkiesta) considera «stucchevole e pedagogico sentirsi dire che dovremmo solidarizzare coi migranti perché un tempo lo siamo stati anche noi. Come se solo una pregressa condizione di sfruttati possa muoverci a pietà per una moltitudine di disperati in fuga dall’inferno. Come quando nei telegiornali una tragedia diventa tale solo se ci sono morti italiani». E soprattutto egli sottolinea le differenze che corrono tra la tragedia di Marcinelle e la strage continua dei «disperati in fuga dall’inferno», una differenza che, per così dire, porta acqua al mulino della moltitudine in fuga da guerre, fame, malattie, miserie d’ogni genere. Il paragone tra Marcinelle e il Mar Mediterraneo è tale da far impallidire i morti del 1956. Scrive Cancellato (il quale, beninteso, argomenta dal punto di vista degli interessi nazionali): «Nel 1956 eravamo alla vigilia di quello che oggi definiamo “miracolo economico italiano”, indotto dal Piano Marshall (sì, gli Stati Uniti ci aiutavano a casa nostra): nei quattro anni successivi, tra il 1957 e il 1960, per dire, la produzione industriale italiana crebbe del 31,4% e la crescita del Pil non scese mai sotto il 5,8%. Ritmi cinesi, insomma, per il quale c’era bisogno di materie prime come il carbone. Ed è proprio per quel carbone che fu firmato il protocollo Italo-Belga, dieci anni prima, nel 1946». In secondo luogo, «nel Canale di Sicilia, negli ultimi quindici anni, hanno perso la vita 30mila anime. Ripetetevelo nella mente: trentamila. Ci sono più cadaveri che pesci, in quel tratto di mare. Se vogliamo capire cosa provano quegli esseri umani che cercano di entrare in Europa – attraversando l’Italia – dal Canale di Sicilia, prendiamo la più grande tragedia della nostra stagione migratoria e moltiplichiamola per dieci, cento, mille, un milione. Magari servirà a farci capire a chi stiamo chiudendo le porte». In terzo luogo, «per convincere gli italiani a partire, nel 1946 l’Italia fu tappezzata di manifesti rosa che presentano i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore: salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato. Per quanto terribili fossero poi le loro condizioni di lavoro, una situazione un po’ diversa rispetto a quella delle migliaia di schiavi africani che ogni anno raccolgono pomodori e arance tra Puglia e Sicilia. Se pensate siano fenomeni imponderabili, sappiate che solo a raccogliere i pomodori, ogni anno, sono impiegati quasi 20mila braccianti, molti dei quali senza contratto, molti dei quali stranieri, molti dei quali irregolari». Su questo aspetto rinvio a due miei post: Rosarno e dintorni e Uomini, caporali e cappelli.

Scrive il “realista” Maurizio Molinari: «L’integrazione dei migranti è un test di crescita per ogni democrazia industriale, capace di rafforzarne la prosperità come di indebolirne la solidità, e l’Italia non fa eccezione. Ecco perché è opportuno affrontare senza perifrasi la sfida che abbiamo davanti, guardando oltre liti politiche interne e dispute internazionali. […] L’interesse dell’Italia è dotarsi di provvedimenti, leggi e politiche che rendano possibile [l’integrazione degli immigrati] sulla base di principi condivisi: non tutti i migranti che sbarcano possono rimanere perché una nazione sovrana non è una porta girevole, ma chi viene accolto deve poter intraprendere un cammino verso la cittadinanza che include l’integrazione nel sistema produttivo. Poiché coniugare integrazione e sovranità è una sfida nazionale per essere vinta necessita il coinvolgimento di tutte le forze politiche del Paese, che si trovino al governo o all’opposizione poco importa, e in ultima istanza il sostegno e l’attenzione di tutti i cittadini italiani, a prescindere dalle fedeltà di credo o di partito» (La Stampa). Un appello che ovviamente non può convincere (anzi!) chi lotta contro gli interessi nazionali (vedi anche il mio post sulla Libia) e per la costruzione dell’autonomia di classe, la quale è tale solo se prospetta a tutte le vittime del Capitale, a prescindere dal colore della loro pelle, dalla loro nazionalità, ecc., la necessità e l’urgenza di unirsi in un vasto fronte anticapitalista. Tutto il resto (“buonismo” e “cattivismo”) è miseria capitalistica.

QUEL CHE RESTA DEL REFERENDUM

alexangela Il pezzo che segue è stato scritto ieri. Oggi aggiungo solo che, come scrivono il Wall Street Journal e il Financial Times, la crisi borsistica cinese, sintomo di sofferenze strutturali che probabilmente non tarderanno a manifestarsi in modi socialmente più devastanti («Ora che la bolla è lì lì per scoppiare, i piccoli investitori cinesi rischiano di perdere tutto, e il governo teme le conseguenze» (Il Foglio, 8 luglio 2015); il collasso borsistico di questi giorni a Shanghai e Shenzhen, dicevo, rischia di far apparire una ben misera cosa la crisi greca, una magagna che ha come suo centro motore «un Paese la cui economia vale quanto quella del Bangladesh». D’altra parte è anche vero che il peso geopolitico della Grecia è tutt’altro che irrilevante, ed è esattamente questa scottante materia prima politica che Tsipras sta cercando di valorizzare al massimo nelle trattative con i “poteri forti”, come peraltro non ha mancato di rimproverargli ieri all’Europarlamento il Presidente del Consiglio UE Donald Tusk. Come agirà (se agirà) lo sgonfiamento della bolla speculativa cinese sulla crisi greca: da classico deus ex machina in grado di risolvere una vicenda che appare altrimenti senza via di uscita, o come goccia che fa traboccare l’altrettanto classico vaso (di Pandora, certo)? Forse questa domanda sarà balenata ieri nella testa di più di un leader europeo. Ma forse anche l’immagine della tempesta perfetta si è fatta strada in alcuni ambienti della leadership mondiale. Non lo sapremo mai. Comunque sia, Mario Draghi aveva visto giusto quando un mese fa ci mise in guardia: rischiamo di addentrarci in una terra incognita. Rischiamo?

Crisi greca e Questione Tedesca
«Non sono tra coloro che danno la colpa agli stranieri: per tantissimi anni i governi greci hanno creato uno Stato clientelare, hanno alimentato la corruzione tra politica e imprenditoria e arricchito solo una certa fetta del popolo. Ci sono distorsioni del passato che devono essere superate, come la questione delle pensioni. Vogliamo abolire le pensioni baby in un Paese che si trova in una situazione disastrosa. Servono le riforme, ma vogliamo tenerci il criterio di scelta su come suddividere il peso. […] Se avessi voluto trascinare la Grecia fuori dall’euro non avrei fatto le dichiarazioni dopo il referendum, io non ho un piano segreto per l’uscita dall’euro». Così parlò Alexis Tsipras all’Europarlamento, deludendo non poco gli europarlamentari sovranisti (lepenisti, grillini, leghisti, ecc.) che volevano usarlo come Cavallo di Troia per espugnare l’euro e mettere nell’angolo il Quarto Reich Tedesco di Angela Merkel.

La crisi greca, ha detto il Premier greco, «è un problema europeo e non solamente di Atene, quindi la soluzione [deve essere trovata] a livello europeo». A ben vedere, la crisi greca come si configura oggi non è che un capitolo della Questione Tedesca, la quale è a sua volta parte integrante e fondamentale della Questione Europea, ossia della necessità/possibilità di fare del Vecchio Continente un polo imperialistico in grado di confrontarsi alla pari con gli altri poli imperialistici globali: ieri USA e URSS, oggi USA, Cina e Russia.

Sulla Pravda del 28 luglio 1984 si poteva leggere, dopo un duro attacco contro l’attivismo economico-politico della RFT in direzione della DDR, quanto segue: «Il problema tedesco rappresenta un capitolo chiuso e in proposito la storia ha detto una parola definitiva». Come sappiamo, «definitiva» solo fino a un certo punto… Radomir Bogdanov, esperto sovietico in cose americane, dichiarò nel settembre dello stesso anno sul Time che «C’è solo un modo per modificare i risultati della seconda guerra mondiale, ed è la terza guerra mondiale». Bogdanov sottovalutava il peso dell’economia nella geopolitica: «Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dall’Economico e si avvicina al puro e astrattamente ideologico, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zigzag. Ma se Lei traccia l’asse mediana della curva troverà che quanto più lungo è il periodo in esame, quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse corre parallelo all’asse dell’evoluzione economica» (Lettera di Engels a W. Borgius, 25 gennaio 1894). Con ciò il vecchio Engels intendeva dire che mentre sarebbe oltremodo sbagliato mettere in un deterministico rapporto di causa-effetto ogni singola azione politica (interna ed estera) con l’economia (globalmente considerata), occorre tuttavia prendere atto che la totalità, il complesso delle azioni politiche di un Paese si comprende nella sua reale essenza (nella sua razionalità) solo alla luce dei grandi interessi economici nazionali e internazionali. Proprio la Questione Europea dimostra quanto corretto sia questo approccio “materialistico-dialettico” alla geopolitica.

Scrive Oscar Giannini commentando le misure adottate da Mario Draghi dopo il referendum (o plebiscito, come sostengono i “puristi” della democrazia tipo Emma Bonino?): «In tali condizioni la BCE non ha potuto far altro che avanzare le lancette del conto alla rovescia, verso il default bancario greco. È un messaggio lanciato a Tsipras, perché non rifaccia il furbo menando il can per l’aia. Ma è altresì un messaggio per l’intera euroarea. Di tempo ne rimane pochissimo. Bisogna avere idee chiare e non perdersi in fumisterie. Altrimenti, fuori dal sistema internazionale dei pagamenti e impossibilitata a usare quello domestico, la Grecia avvamperà in un’ulteriore ondata di furore nazionalista, che però non la salverà da amarissime conseguenze. Altro che no all’austerità, i greci se la ritroverebbero moltiplicata nell’immediato. E l’euroarea “irreversibile” diverrebbe un ricordo nel museo della politica inconsapevole di che cosa implichino i suoi impegni: misure straordinarie volte a risolvere anche l’impensabile, se si crede a un obiettivo comune» (Istituto Bruno Leoni, 7 luglio 2015). Ma il punto è sempre il solito: qual è il comune obiettivo? Creare un’Europa in grado di competere con i giganti dell’imperialismo globale? Controllare strettamente e imbrigliare la potenza sistemica tedesca? Usare la Germania, «gigante economico e nano politico», per tirare acqua economica e politica al proprio mulino nazionale? Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi il cosiddetto «sogno europeo» ha dovuto fare i conti con quella complessa trama di interessi contingenti e strategici, ed è per questo che personalmente trovo spassosissimi quei sinistrorsi che oggi scoprono il progetto europeista dei «padri fondatori»: «Ci vorrebbero i Monnet, gli Schuman, gli Adenauer, i De Gasperi, e invece abbiamo la Merkel, Hollande, Cameron, Renzi!», scriveva Barbara Spinelli giusto un anno fa.

«La galoppante deriva europea nasce da un equivoco», scrive Lucio Caracciolo: «Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie. Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. […] Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo – la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare. […] La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica. Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea» (Limes, 7 luglio 2015). Che dire? Auguri! Lo so, proferiti da un disfattista anticapitalista nonché antisovranista (sia che si tratti della sovranità europea che della sovranità nazionale) quegli auguri non sono molto credibili; è come se in realtà avessi scritto: condoglianze!

Ho l’impressione che i sostenitori della «responsabilità nazionale ed europea» dovranno ancora per diverso tempo (almeno fin che dura il successo del “modello tedesco”) fare i conti con la riluttanza tedesca di passare dall’egemonia “soft” sull’Europa fondata economicamente a un’egemonia politicamente più impegnativa, finanziariamente più dispendiosa e, soprattutto, più gravida di rischi geopolitici. Sotto quest’ultimo aspetto occorre dire che le due guerre imperialistiche del Novecento sono, sul piano storico, ancora “freschissime”. Rimproverare alla Germania (e al Giappone) il suo attuale «nazionalismo economico» è ridicolo, come gran parte dei rimproveri che oggi gli europeisti rivolgono alla Germania «potenza riluttante»: «Per favore», sembrano dire i tedeschi ai cugini europei (i quali non perdono mai l’occasione di ricordare ai teutonici quanto brutti e cattivi essi sono stati nel secolo scorso), «non svegliate il nazionalismo politico che c’è in noi. Lasciateci lavorare in santa pace!». («Che poi veniamo a trascorrere le ferie e a spendere i nostri soldini  in Grecia e in Magna Grecia!»).

Il “riformismo” possibile
«”Io accetto le vostre proposte con qualche modifica per venderle al Parlamento e all’opinione pubblica, però in pubblico diremo che voi avete accettato il mio piano con qualche limatura. Ho esaurito il tempo, tra due giorni le banche collassano e andiamo in default quindi sono politicamente debole, più di così non posso accettare ma se c’è qualcuno che ci vuole spingere fuori dall’euro non dipende più da me”. Sono circa le sette del pomeriggio. Quando Alexis Tsipras finisce di parlare nello stanzone del Consiglio europeo [di ieri] cala il silenzio». Non so se questa ricostruzione fatta da Alberto D’Argento per Repubblica è veritiera; di certo essa appare verosimile, e tutt’altro che smentita dal succo del discorso odierno di Tsipras all’Europarlamento.

Secondo Giorgio Arfaras, che su Limes non smette di ricordarci le magagne strutturali del malandato e vetusto Capitalismo ellenico, «Sul bilancio pubblico e sul debito il governo di Tsipras e i creditori internazionali erano più vicini di quanto sembrasse anche prima del referendum» (Limes, 6 luglio 2015). Anch’io sono di questa idea. Ma allora, come si spiega l’improvviso “voltafaccia” di Tsipras? Probabilmente il Premier greco aveva paura di spaccare il suo partito, che ha cercato di ricompattare attraverso la drammatizzazione dello scontro. «Uno degli uomini più fidati di Alexis Tsipras riassume, sorseggiando un caffè in un bar di Monastiraki: “Abbiamo vinto il referendum, ricompattato Syriza e messo a tacere l’opposizione, che ci appoggia in tutto» (Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 8 luglio 2015). Il clima da ultima spiaggia che si è creato in Grecia potrebbe anche far ingoiare al Paese il rospo dell’«inaccettabile diktat» rifiutato solo ieri, magari in cambio di un riconoscimento politico delle ragioni del “popolo greco”, cosa che peraltro anche il Super Falco Wolfgang Schäuble non ha mancato di fare con la consueta teutonica schiettezza: «Rispettiamo l’esito del referendum ma, nel quadro delle regole dell’Eurozona, senza un programma non è possibile aiutare la Grecia. È chiaro però che la Ue ha anche una certa responsabilità verso la Grecia. Tutto dipende dal governo greco». Anche la Cancelliera ha dichiarato che la Germania non ha da chiedere nulla alla Grecia, e che tocca al governo di Atene avanzare nuove, sperabilmente chiare e definitive proposte. Per i tedeschi la palla dei “compiti a casa” è sempre nella metà campo degli altri: inutile chiamare in soccorso americani, russi e cinesi!

«La Süddeutsche Zeitung, di centrosinistra, aveva un commento sul «perché la Grecia deve abbandonare l’euro» (perché è sì una scelta costosa ma è quella più pulita). L’idea che la Grexit possa fare bene sia alla Grecia sia all’Europa – perché la prima sarebbe libera di fare le sue scelte e l’area euro avrebbe chiaro che deve rivedere alla radice la sua architettura – in Germania è ormai piuttosto diffusa» (Danilo Taino, Corriere della Sera, 8 luglio 2015).

Grecia e Magna Grecia
La Germania vorrebbe ripetere con la Grecia (e con il Portogallo e la Spagna) il successo dell’unificazione tedesca, mentre ha in orrore, giustamente dal suo punto di vista, l’insuccesso nazionale italiano: insomma, non vuole fare del Mezzogiorno europeo una replica su scala continentale del Mezzogiorno italiano, in larga parte sussidiato attraverso la spesa pubblica, con relativi alto parassitismo sociale e alta tassazione. E questo non per un breve tempo, ma per decenni, per oltre un secolo nel caso di specie, al punto da trasformare la Questione Meridionale in una sorta di fenomeno naturale: a Sud fa caldo e c’è la depressione economica!

Gli stessi leader leghisti, che pure hanno tifato per il Tsipras referendario, appena un secondo dopo il trionfo “epocale” e “rivoluzionario” (scusate, ma qui il sic! è d’obbligo) del NO, si sono affrettati a precisare che la Lega è contraria a continuare a finanziare a fondo perduto la Grecia spendacciona, così come non vorrebbe più far galleggiare una Magna Grecia (leggi Sicilia) strafallita sul liquido prodotto al Nord. Per i leghisti (ma anche per i grillini e per i sovranisti d’ogni tendenza politico-ideologica) il Paese di Tsipras e Varoufakis dovrebbe prendere con coraggio e sollecitudine la strada del Grexit, così da implementare il seguente programma “rivoluzionario”: rifiutare definitivamente di pagare un debito peraltro impagabile, ritornare al vecchio conio nazionale, implementare svalutazioni competitive a raffica, versare patriottiche lacrime e sangue sull’altare del bene comune nazionale, e poi, ricostruito un più sostenibile assetto economico-sociale, riaffacciarsi con dignità sulla scena europea. Soffrire, certo, ma sovranamente e in vista della luce in fondo al tunnel: un programmino che personalmente respingo al mittente.

Dosi massicce di austerità e in tempi ristretti: è questa austerità concentrata che debbono attendersi i greci in caso di Grexit? Già sento il sovranista di turno: «Anche tu a fare del terrorismo psicologico!». No: terroristica è la realtà sociale del Pianeta, Grexit o non Grexit.

Come si può capire anche dal libro di Alessandro Albanese e Giampaolo Conte L’odissea del debito. Le crisi finanziarie in Grecia dal 1821 a oggi (In Edibus, 2015), la storia della Grecia moderna è la storia del suo costantemente obeso debito pubblico contratto dallo Stato ellenico, il più delle volte non allo scopo di finanziare la modernizzazione del Paese, come è accaduto nel XIX secolo in diversi Paesi europei capitalisticamente “ritardatari”, ma soprattutto per puntellare interessi sociali costituiti e comprare con la leva dell’assistenzialismo statale la pace sociale e il consenso politico.

«Abbiamo scoperto – scrivono i due autori – che la Grecia non solo era già fallita altre volte, ma che l’indebitamento di fine Ottocento, analogamente a quello di fine Novecento e primi anni Duemila, aveva condotto all’istituzione di una commissione internazionale per controllare le finanze elleniche».

Sotto questo aspetto istruttivo può anche essere un articolo di Luciano Commenta, dal significativo titolo La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale, dal quale cito i lunghi passi che seguono:

«La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece. L’intellettuale descrive la storia della Grecia moderna come un susseguirsi di ambiziosi progetti quasi raggiunti, seguiti da clamorosi tracolli. Alle grandi spinte a uscire da uno stato di minorità in cui i greci non si sentivano di dover stare per storia e rango, hanno corrisposto altrettanti schianti per la discrepanza tra ambizioni e realtà. La presenza di un apparato pubblico molto più grande di quello che il paese potesse permettersi era evidente già nel 1907, quando la Grecia aveva un impiegato pubblico per ogni 10 mila abitanti, sette volte di più dell’Impero britannico. Ma nella ricostruzione di Kalyvas le criticità presenti sin dall’inizio della complicata storia della Grecia moderna emergono e degenerano negli anni 80, con la salita al potere del Pasok, il Partito socialista di Andreas Papandreou. Il Pasok è modellato dal suo leader per essere una macchina del consenso alimentata con risorse pubbliche, occupa lo stato e domina, tranne qualche parentesi di centrodestra, la politica greca fino ai giorni nostri. Il socialismo panellenico di Papandreou è caratterizzato da un’elevata dose di demagogia e da una politica economica non riconducibile al “tax and spend” degli altri partiti socialisti occidentali, ma al “spend and don’t tax” dei movimenti populisti: elevata spesa pubblica, bassa pressione fiscale e la differenza tra entrate e uscite la si copre facendo debito e stampando moneta. Il tutto viene condito con retorica marxista, terzomondista e anti occidentale. Concretamente l’azione politica si manifesta con la continua espansione dello stato: assunzioni pubbliche, nazionalizzazioni di imprese private fallite, protezionismo, aumento di salari e pensioni. Dal 1981 al 1990, dopo due mandati a guida Papandreou, la spesa pubblica sale dal 35 al 50 per cento del pil, i dipendenti pubblici aumentano del 40 per cento, il debito pubblico passa dal 28 per cento del pil del 1979 al 120 per cento del 1990, le continue svalutazioni della dracma portano inflazione a doppia cifra e affossano la competitività del settore privato. Si diffondono corruzione, clientelismo (l’89 per cento dei tesserati del Pasok lavora per lo stato), calano gli investimenti privati e quelli esteri, la produttività stagna, l’export si riduce. Anche Nuova democrazia, il partito di centrodestra fondato su basi di maggiore responsabilità fiscale, diventa una brutta copia del Pasok e governando allo stesso modo porterà la Grecia al default. George Papandreou, figlio di Andreas, vince anche le elezioni del 2009 con un programma keynesiano, promettendo – in piena crisi e con un deficit al 15 per cento – aumenti di salari e pensioni e blocco delle privatizzazioni. Pochi anni dopo a vincere è la sinistra radicale di Alexis Tsipras con un mix di populismo e keynesismo di Papandreou padre e figlio, “more of the same”. […] I greci hanno pensato di votare No all’austerity, il rischio sempre più concreto è che siano costretti a farla fuori dall’Euro». È la “democratica e sovrana” scelta dell’albero a cui impiccarsi di cui ho scritto in diversi post dedicati all’odissea greca.

saved_tjeerd_royaardsStallo! Stallo!
L’aereo europeo rischia dunque di precipitare, con quel che ne segue in termini di morti e feriti (per il momento ancora metaforici) come prevede la sceneggiatura di ogni disastro che si rispetti. «La Grecia», scriveva Larry Elliott sul Guardian del 6 luglio, «ha messo in evidenza le debolezze strutturali dell’euro, un approccio uniforme che non conviene a paesi tanto diversi. Una soluzione potrebbe essere la creazione di un’unione fiscale accanto all’unione monetaria. […] Ma questo richiederebbe proprio quel tipo di solidarietà che è stata drammaticamente assente queste ultime settimane. Il progetto europeo è in stallo». Come far uscire dallo stallo il malmesso aeroplano della linea UE? È la domanda che in queste ore tormenta gli autentici europeisti, già da sette anni alle prese con una grave crisi depressiva.

Mi si consenta una breve riflessione: l’unione fiscale di cui parla Elliott presuppone un salto di qualità politico nella dimensione del “progetto europeo” che è esattamente quello che soprattutto i Paesi del Mezzogiorno europeo non vogliono compiere, perché ciò li costringerebbe a una politica di riforme strutturali ancora più severa di quella fin qui adottata. L’aereo europeo, per così dire, si morde la coda: per superare lo stallo ci vuole «più Europa», ma «più Europa» significa, al netto del politicamente corretto europeista (vedi Barbara Spinelli e “compagni”, ad esempio), convergere più rapidamente possibile verso lo standard dell’area tedesca, cosa che postula nei Paesi disallineati del Mezzogiorno quelle “riforme strutturali” difficili da implementare senza scuotere il loro tessuto sociale, con le implicazioni elettorali e di tenuta sociale che tutti possono immaginare. È un vero e proprio circolo vizioso sistemico, per uscire dal quale la leadership europea deve abbandonare rapidamente la vecchia strategia, fatta di accomodamenti, rinvii, compromessi, lenti progressi. La crisi economica ha drammaticamente diminuito la portanza sulle ali dell’aeroplano, e in assenza di spinte contrarie alla forza di gravità la catastrofe è pressoché assicurata.

In un saggio dell’anno scorso il Ministro Padoan sosteneva che la crisi dell’euro non è solo una «crisi di modelli nazionali di crescita, diventati insostenibili», ma anche «una crisi di sistema, che mette in evidenza le gravi lacune istituzionali della moneta unica. […] Che fare? Rinunciare a salvare l’euro, dando così ragione a chi negava che ci fosse spazio per la sua nascita, non essendo ritenuta l’Europa un’area valutaria ottimale, o cercare faticosamente di guidarlo, lasciando il tempestoso mare aperto, verso porti sicuri? Nei quali non sarà però facile trovare approdo se non si comprende appieno che la sua salvezza, indispensabile per il rafforzamento dell’unità europea, richiede soprattutto maggiore integrazione e nuove istituzioni, cosa che a sua volta presuppone cessioni di sovranità» (Diversità e uguaglianze: le due anime dell’unione, cit. tratta da Economia italiana, 2014/3). Vallo a dire ai leader di Francia, Italia e Spagna terrorizzati dalla concorrenza sovranista-populista!

Scrive Thomas Piketty: ««In effetti in Germania quelli che pensano di rifondare l’Europa in senso democratico sono in numero maggiore rispetto ai francesi in prevalenza legati all’idea di sovranità. Inoltre il nostro presidente continua a sentirsi prigioniero del referendum fallito del 2005 sulla costituzione europea. Hollande non capisce che la crisi finanziaria ha cambiato molte cose. Dobbiamo superare gli egoismi nazionali. […] Quelli che oggi vogliono cacciare la Grecia dall’eurozona finiranno nella pattumiera della storia. Se la cancelliera vuole garantirsi il suo posto nella storia, così come fece Kohl con la riunificazione, deve impegnarsi a trovare una posizione comune che risolva la questione greca e dare vita a una conferenza sul debito che ci permetta di ricominciare da zero. Ovviamente con una disciplina di bilancio assai più severa che in passato» (Intervista rilasciata a Die Zeit, 6 luglio 2015). Ma è proprio questo il punto di caduta (la posta in gioco) nella crisi greca: come sanno tutti gli analisti geopolitici ben’informati, il fumo del debito greco nasconde l’arrosto delle regole che la Germania vuole imporre agli altri Paesi dell’eurozona, senza le quali ogni discorso europeista è una pia illusione. O si converge verso la Germania, o l’aeroplano europeo continuerà a volare basso rischiando continuamente di precipitare, ovvero di schiantarsi contro la prima seria montagna che gli si parerà dinanzi.

Oggi sul Foglio Claudio Cerasa ridicolizza gli italici «cuginetti di Tsipras» che, a differenza del coerente «compagno Krugman» che invita la Grecia a prendere con urgenza e senza prestare il cuore a inutili nostalgie europeiste la strada della Grexit, pensano che un’altra euro sia possibile. Nichi Narrazione Vendola, ad esempio, si è detto favorevole non solo all’immediata convocazione di una conferenza europea sul debito e sui trattati, secondo un’indicazione ormai diffusa nell’establishment economico e politico del pianeta (dal compagno Obama al compagno Xi Jinping, oggi peraltro impelagato nelle magagne borsistiche del Celeste Capitalismo), ma anche alla trasformazione della BCE in «prestatore di ultima istanza». Ovviamente al narratore pugliese sfuggono le implicazioni sociali (leggi più sacrifici per i salariati, i pensionati e la piccola borghesia del Vecchio Continente), politiche e geopolitiche (leggi egemonia tedesca) di una simile trasformazione. Secondo l’ex rifondatore dello statalismo, «Bisogna passare dai debiti pubblici nazionali al debito pubblico europeo»: roba da far scoppiare la Terza Guerra Mondiale! Gli europeisti sinistrorsi vogliono la moglie ubriaca e la botte piena, ossia il Capitalismo ma non le sue necessarie disumanità e contraddizioni – che essi interpretano come il frutto di errori politici e di cattiva volontà. A una «solidarietà europeista» che prescinda dai reali rapporti di forza fra i Paesi dell’eurozona può credere solo l’intellighentia progressista che partecipa alla competizione sistemica intercapitalistica credendo di partecipare alla “lotta di classe”, se non alla “rivoluzione”. Questo per dire quale concetto di “lotta di classe” e di “rivoluzione” hanno in testa certi personaggi che, ad esempio, criticano le mie analisi sulla crisi greca perché mancherebbero di concretezza politica (cosa che è certamente vera), mentre si tratta di “declinare” sul piano teorico e politico questa concretezza: si tratta di una concretezza interamente spesa sul terreno dello scontro interborghese e interimperialistico, o di una concretezza da ricercarsi sul terreno della lotta di classe anticapitalista e, quindi, antisovranista?

Scrive Raffaele Sciortino a proposito del referendum di domenica: «Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente [costituente: una parola magica nel sofisticato gergo sinistrorso dei nostri tempi]: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. […] Bisogna farci i conti [con il populismo sovranista], e non solo: imparare a sporcarsi le mani con i fenomeni di territorializzazione ambivalente delle resistenze. Più tempo perderemo ad arricciare il naso, e più saremo tagliati fuori dalle dinamiche reali. […] Il “populismo” può essere curvato nel senso di classe, con tutti i rischi del caso, se guardiamo alle esperienze, mai pulite anzi costitutivamente spurie, dell’America Latina, a evitare così derive lepeniste o peggio». Come se il populismo di “sinistra” alla Chávez fosse preferibile al populismo di “destra” alla Le Pen! Tra l’altro, anche nella posizione appena considerata troviamo lo status quo definito in termini puramente borghesi, ossia riferito agli Stati e alle Potenze. Checché ne pensi Sciortino, l’ordine (capitalistico) regna ad Atene.

Norma Rangeri si era fatta delle illusioni perfino sul compagno (ormai qui tutti sono diventati compagni: da Tsipras a Papa Francesco!) Mario Draghi, dal quale la direttora del Manifesto si aspettava un’apertura di credito nei confronti dell’eroe di Atene. Invece, contro le pie/ridicole illusioni di certi amici del “popolo greco” il Presidente della BCE ha mantenuto la rotta fissata da tempo: «La Banca centrale europea di Mario Draghi ha deciso di non nascondersi dietro ai governi che oggi si riuniranno a Bruxelles. Ieri, ha mandato un messaggio chiarissimo al governo e al sistema finanziario greco: o la situazione si sblocca per qualche magia, e Atene avanza proposte serie per affrontare la sua drammatica crisi, oppure non ci saranno più spazi per tenere in piedi le sue banche: evento che farebbe scattare l’inizio della sostituzione dell’euro con qualcosa di diverso in Grecia» (Danilo Taino, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2015). Cosa aveva detto Draghi nel 2012, all’apice della crisi degli spread? «La Bce farà tutto quanto è necessario [per salvare l’euro]». Appunto! Naturalmente Draghi ha voluto mandare un chiaro segnale anche all’asse Parigi-Berlino (ma soprattutto a Berlino), sollecitato a prendere atto della natura politica (e geopolitica) della crisi in corso.

Finisco citando un brano di un mio post scritto nel maggio del 2012 perché lo trovo di una qualche attualità, soprattutto dal punto di vista dell’odierna “psicologia di massa” dei tedeschi.

Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se…
Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partner? «Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!»

Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo i conti con la dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni (a partire dalla sfera economica) rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni.

IL CRIMINE CONTRO L’UMANITÀ SECONDO MATTEO SALVINI

Salvini_foto«L’euro è un crimine contro l’umanità, ha fatto strage, peggio dei panzer nazisti»: con questa perentoria affermazione, elargita sabato pomeriggio in un albergo di Milano ai militanti leghisti, riunitisi per il lancio della campagna No Euro, il neo segretario Lumbard Matteo Salvini ha indubbiamente dato voce ai sovranisti politico-economici d’ogni tendenza politica e ideologica.

In quanto militante della campagna No Capitale, mi limito a ribadire il seguente – elementare? – concetto: i rapporti sociali capitalistici, oggi dominanti sull’intero pianeta, sono un vero e proprio crimine contro l’umanità. Di qui, l’urgenza di uscire dalla maligna dimensione del Dominio capitalistico, il quale annichilisce ogni umana “sovranità”, ossia ogni autentica libertà. La libertà, almeno quella vera, quella non inflazionata dall’ideologia dominante, presuppone rapporti sociali basati sui bisogni umani (a loro volta umanizzati), e non, come accade oggi,  fondati sulle necessità economiche: ricerca del profitto, competizione sistemica (tra imprese, tra Stati, tra Potenze, tra singoli individui), compatibilità finanziarie di vario tipo, ecc., ecc., ecc.

Com’è noto, queste necessità si fanno di giorno in giorno sempre più stringenti, sempre più totalitarie, sempre più ostili alla sola possibilità di un’esistenza autenticamente umana.

«Simili agli animali del Serengeti, gli individui e le aziende sono in lotta costante per l’esistenza, contendendosi risorse limitate»: ecco la società capitalistica secondo Niall Ferguson (Il Grande Declino, Mondadori, 2013). Egli ha perfettamente ragione: in effetti, siamo ancora, come concetto e, soprattutto, come prassi al mondo hobbesiano (borghese) del bellum omnium contra omnes.

A mio avviso sbaglia di grosso chi pensa che le due citate “campagne” (No Euro e No Capitale) non necessariamente collidano l’una con l’altra, ma all’opposto siano passibili di una “virtuosa ricomposizione dialettica”, o quantomeno di una “alleanza tattica”. L’anticapitalista che non vuole impiccarsi all’albero delle “alleanze tattiche” farebbe bene a prendere immediatamente le distanze da ogni forma di Sovranismo, che nella Società-Mondo del XXI secolo non può che arridere alle classi dominanti, o magari solo a una loro particolare fazione. Non si tratta di essere “puri”: si tratta piuttosto di conquistare un punto di vista critico-rivoluzionario su ogni aspetto della prassi sociale.

euro_panzer_1583005L’evocazione dei panzer nazisti da parte di Salvini, per un verso illumina il carattere essenzialmente economico della competizione globale tra gli Stati (la guerra armata come continuazione della guerra economica: il Capitalismo come perfetto mondo hobbesiano, come ha scoperto di recente perfino l’ottimo Emanuele Severino); e per altro verso la dice lunga sulla forza del nazionalismo (magari in guisa Socialsovranista) come cemento ideologico antiproletario, come veleno di facile preparazione e di sicuro effetto.

Urge antidoto. Più facile a dirsi che a farsi? Non c’è dubbio. Anzi, è ovvio. La stessa esistenza di un pensiero critico oggi è una forzatura. Ma, mi si permetta di dire parafrasando Quello, siamo qui non perché l’impresa è facile, ma perché l’impresa è difficile.

WU MING: È PROPRIO QUEST’ACQUA QUA!

L’acqua putrida e di fogna del Capitalismo.

L’acqua putrida e di fogna del Capitalismo.

Nell’invettiva scagliata ieri da Wu Ming contro «il Partito cosiddetto democratico», dalla quale si possono ricavare interessanti elementi di valutazione circa il rapporto (di odio/amore?) che lega il noto «collettivo di scrittori italiani» alla cosiddetta sinistra italiana, si può leggere, tra l’altro, quanto segue: sul razzismo «la Lega lombarda prima e la Lega nord poi hanno costruito un intero percorso politico […] Il razzismo è da secoli un modo di pensare funzionale al mantenimento di un sistema di sfruttamento e discriminazione» (Il partito del non senso, Internazionale, 15 luglio 2013). In poche parole, nell’articolo in questione Wu Ming, prendendo spunto dall’ultima battuta razzista di Calderoli sulla ministra Cécile Kyenge, rinfaccia al PD (e soprattutto all’ex segretario Bersani) un atteggiamento quantomeno contraddittorio nei confronti dei leghisti, dai “democratici” disprezzati o blanditi secondo le mutevoli convenienze politiche. I «sedicenti democratici potrebbero almeno risparmiarci lo spettacolo ipocrita della loro chiassosa indignazione per le battute dei razzisti che fino a ieri consideravano buoni interlocutori». Che indignazione!

Com’è noto, già Massimo D’Alema parlò del movimento capeggiato da Bossi come di «una costola della sinistra». Era il tempo in cui si consumava la congiura ai danni del primo governo Berlusconi. Anche allora molti sinistri si scandalizzarono, ma alla fine abbozzarono e, togliattianamente, si acconciarono a baciare il rospo Lamberto Dini secondo le direttive calate dalla Segreteria. Anche allora parecchi “comunisti” tirarono fuori la tattica del Presidente Mao sul «nemico principale», che dal 1994 si chiama, come sanno tutti, Berlusconi. Stranamente Wu Ming non ricorda quell’illuminante episodio, e concentra il suo fuoco sulla croce rossa, ossia su Bersani e compagni.

Vale la pena ricordare l’episodio del ’95, in seguito negato, o quantomeno reinterpretato, dal protagonista: «Nell’intervista al Manifesto D’Alema esprime un’altra convinzione a proposito di una forza politica che può essere “collegata” alla sinistra: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a che vedere con un blocco organico di destra”» (La Repubblica, 1 novembre 1995). Qui baffino mostrava di saperla più lunga, in materia di analisi politico-sociologica, di molti intellettuali schizzinosi appartenenti al suo stesso campo politico, i quali erano – e sono – avvezzi a pestare il mortaio pieno di schiuma, col risultato di creare una gigantesca poltiglia che impedisce loro di capire l’essenza dei problemi politici e sociali.

IL LEGHISMO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

«Il figliol prodigo è infine ritornato a casa dopo un lungo e tortuoso errare nel melmoso e insidioso Palazzo romano». Certamente questo avrà pensato il professor Miglio, già “teorico“ del movimento leghista, dopo aver udito pronunciare da Bossi, all’indomani delle elezioni politiche del 21 aprile ’96, la parola d’ordine della «secessione della Padania». Una parola d’ordine assolutamente coerente con i concetti e le prospettive politiche che il professore aveva da tempo elaborati e presentati, tradotti in “lumbard“ per il rude e «popolano» movimento leghista, al grande capo, del quale egli era stato l’eminenza grigia fino al giorno della caduta del governo Berlusconi. Cerchiamo di ricostruire, molto succintamente, il Miglio-pensiero sui problemi del federalismo e della secessione per poi entrare nel merito di una questione più generale che attiene la storia dello sviluppo capitalistico di questo paese. (1)

Mentre nella concezione del mondo risorgimentale, fascista e postfascista lo Stato e la Nazione vengono messi al centro della riflessione sui destini della storia umana, nel “miglismo“ il punto di partenza da cui muovere per giungere ad una corretta definizione della natura e del ruolo dello Stato nazionale si sostanzia nell’assunzione opposta, dal momento che per Miglio «lo Stato “nazionale“ è arrivato ormai alla conclusione della sua parabola storica»

Ciò che avrebbe messo in discussione questa vecchia – “ ottocentesca “ – forma storica è lo sviluppo impetuoso delle forze produttive verificatosi nell’ultimo mezzo secolo nelle principali aree capitalistiche del Vecchio Continente e del mondo.
«Nella vecchia logica dello Stato moderno si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia , la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale» (2)

In effetti, lo Stato nazionale moderno nasce in primo luogo per rispondere all’esigenza di unificazione del mercato lungo i confini di un’area geopolitica abbastanza omogenea per lingua, per tradizioni storiche, per interessi (primo fra tutti quello di coalizzarsi per resistere alle pressioni di un’altra e diversa area omogenea). Questo presupponeva l’abbattimento di tutte le barriere economiche, giuridiche e politiche che impedivano, o comunque ostacolavano grandemente, il realizzarsi di un’accumulazione capitalistica su scala “nazionale“. Venuta meno, in primo luogo in virtù dell’ulteriore sviluppo capitalistico, quella primaria necessità storica, ma non la forza propulsiva e attrattiva dell’economia (la quale si è piuttosto centuplicata), le linee di forza del processo di accumulazione tendono a far ruotare intorno a pochi centri geopolitici aree economiche omogenee, i cui confini (dinamici) attraversano diversi stati nazionali. Il fatto che la parte economicamente più sviluppata di un paese si senta attratta dall’insieme di paesi – o anche solo da aree regionali di essi – che gli sono più simili per struttura economica e per stratificazione sociale (e, in forza di ciò, per cultura); e che a ragione di ciò avverta come oppressivo il quadro di riferimento statuale-nazionale nel quale è inserita, non è affatto in contraddizione con la tendenza alla formazione di grandi sistemi multinazionali in competizioni tra loro, ma è anzi il portato delle stesse leggi dello sviluppo capitalistico che informa l’odierna globalizzazione dell’economia. Sotto questo aspetto, la formazione della piccola Padania non sarebbe affatto in contraddizione con l’esistenza della mostruosa “Triade“ (Europa, Americhe, Asia come sistemi multinazionali integrati e concorrenti). La dissoluzione dei vecchi equilibri internazionali ha semplicemente accelerato processi lungamente maturati nel tempo, oltre ad esserne stata la conseguenza più evidente, importante e gravida di conseguenze per il prossimi futuro.
La forza dell’economia, dice Miglio, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», agglomerati economici e sociali, cioè, che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali “ottocenteschi“. «Ecco la radice del neofederalismo – scrive Miglio – (…). È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato» (3)

Troviamo in queste frasi, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si coglie la consapevolezza del sentiero estremamente contraddittorio lungo il quale tali dinamiche sono costrette a muoversi e a misurarsi con la politica e la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica. Il professore saluta come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica – la cui massima espressione è quella che si esercita con l’uso dell’esercito -, ma sulla forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista» (4). Quest’ultima opinione ricalca esattamente il pensiero del tedesco Ernst Nolte, teorico del cosiddetto «revisionismo storico», secondo il quale non si deve aver paura della forza economica e politica della Germania perché essa se indubbiamente sente di poter giocare un ruolo importante per i destini del mondo, non nutre questa aspirazione in maniera esclusiva (e di fatti si pone alla testa dell’ unione economica e politica dell’Europa), e soprattutto non è più alla ricerca di una sua supremazia militare (5). Anche l’economista giapponese K. Ohmae ritiene che la morte dello Stato-nazione, e la sua sostituzione con lo «Stato-regione», avverrà spontaneamente, attraverso il libero dispiegamento dei mutamenti dell’economia mondiale che stanno ridisegnando la società-globale alle soglie del XXI secolo (6). Ci troviamo, insomma, di fronte a concezioni puerili e ingenue dello sviluppo capitalistico e delle sue molteplici conseguenze sociali e politiche; si individua, infatti, come fattore di armonia e di reciprocità nei rapporti tra i “cittadini“ e gli stati proprio il fattore fondamentale di ogni conflitto: la forza dell’economia.

Le tesi del professore ci introducono in una questione che puzza di muffa e che pertanto tratteremo in maniera assai sommaria, senza sviscerarne le origini economiche e sociali, giusto per aggiungere un altro tassello al mosaico della nostra concezione dello sviluppo capitalistico. Alludiamo alla cosiddetta «questione meridionale», la cui interpretazione più accreditata presso l’intellighenzia italiana si è saldata alla fine del secolo scorso con la tesi della «rivoluzione borghese interrotta», ovvero frenata, tradita, abortita, in una sola parola privata di quella radicalità sociale che aveva caratterizzato la rivoluzione inglese del XVII secolo e quella francese sul finire del XVIII secolo. Opinione, quest’ultima, del tutto legittima sul piano storiografico: come ebbe a scrivere Engels in una lettera a Turati del 26 gennaio 1894: «L’abile opportunismo della monarchia sabauda fece in modo che l’unificazione italiana dipendesse dalla politica internazionale. Gli antichi sentimenti repubblicani si trasformarono nel loro contrario e il Risorgimento politico dell’Italia perse completamente quel carattere ideale di un rinnovamento spirituale-morale di tutto il popolo che Mazzini aveva predicato, e si allontanò sempre di più da quei principi di giustizia sociale che furono l’onore e il vanto dei suoi precursori, di Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, di Carlo Pisacane. La borghesia italiana soffrì della sua stessa debolezza. L’esempio del rapido sviluppo delle nazioni vicine spinse agli estremi la sua cupidigia. Tuttavia lo sviluppo arretrato dell’agricoltura, il misero spiegamento della produzione capitalistica e l’arretratezza di tutta la vita economica concorrevano a far sì che per la borghesia il profitto si mantenesse basso sul terreno economico e la sfera del potere limitata nel terreno politico» (7).

Il portato sociale più vistoso e importante di questa mancata radicalità rivoluzionaria (simboleggiata dal ruolo preminente avuto da Cavour nel processo risorgimentale) fu senz’altro l’assenza, all’indomani dell’Unità, di una politica borghese tesa a riformare in profondità l’assetto dell’economia meridionale, dominato ancora dai grandi proprietari fondiari; scelta che diede vita a quel «blocco storico», caratterizzato dall’alleanza del grande capitale finanziario-industriale del Nord con i grandi proprietari terrieri del Sud, che impresse alla politica borghese nazionale nel suo complesso quei caratteri di moderatismo e di trasformismo assai noti e studiati. Com’è noto, solo negli anni ’50 di questo secolo fu varata una legge organica di riforma agraria; «ma le modalità della sua formulazione e della sua pratica attuazione, il momento storico in cui entrò in vigore (quando l’agricoltura dei paesi più avanzati aveva già avviato un’intensa opera di modernizzazione), nonché (…) l’esistenza di vaste estensioni di terreni marginali capaci di una resa ben povera, condussero alla formazione di una miriade di piccole proprietà di dimensione troppa esigua, arretrate e inefficienti, tanto è vero che di lì a poco iniziò un colossale e drammatico esodo dalle campagne che non può ancora dirsi terminato» (8).

Va detto, comunque, che quel «blocco storico» fu reso possibile dal terreno economico su cui l’Unità prese corpo, terreno che vedeva il Nord Italia assai più sviluppato rispetto al Mezzogiorno non solo dal punto di vista industriale, ma anche da quello agricolo, ovvero dal punto di vista che più riguardava quest’ultimo, essendo esso un’area del paese prevalentemente rurale, con grandi proprietà terriere (latifondi) divise in mille piccole gestioni (fittavoli o mezzadri). Il cospicuo risparmio meridionale si convertì in capitale, e abbandonò la sede d’origine, non solo per l’industria del Nord, ma anche per l’agricoltura del Nord, assai più moderna, produttiva, remunerativa e vicina agli importanti sbocchi del mercato europeo di quanto non lo fosse l’arretrata agricoltura del Sud. Né va dimenticato il fatto che dopo il grande movimento rivoluzionario del 1848, il quale aveva visto una parte consistente di masse proletarie dell’intero Vecchio Continente avanzare per la prima volta rivendicazioni sociali autonome rispetto al programma rivoluzionario borghese – con il proletariato parigino che insorge contro la borghesia -, la soluzione delle varie questioni nazionali ancora pendenti in Europa (e tra queste quella italiana e quella tedesca erano senz’altro le più importanti) fu di fatto affidata alle guerre tra gli stati, e ciò non poteva rimanere senza conseguenze sul carattere impresso alla nuova realtà statuale dalle classi dominanti italiane interessate alla formazione di uno Stato nazionale avente una estesa base territoriale. Solo cogliendo il contesto storico risorgimentale nel suo insieme è possibile collocare nel giusto posto il «blocco storico», rifuggendo da ogni sua interpretazione superficiale e ideologica.

Ma se quel giudizio storico sulla rivoluzione borghese «tradita» (che il meridionalismo salveminiano trasformò in un tormentone con la vocazione alla sconfitta) coglie indubbiamente nel segno, altrettanto non si può dire per la lettura complessiva del processo di unificazione politica ed economica del paese che a partire da esso ha preso corpo; ovvero per il giudizio sulla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Italia. Nelle analisi dei più autorevoli intellettuali italiani del Novecento (da Salvemini a Gramsci) la fotografia di un momento storico particolare funse da filo conduttore interpretativo di tutta la storia italiana post-unitaria, con implicazioni politiche assai deleterie per il movimento operaio di questo paese, dal momento che la propaganda sui compiti democratico-borghesi da portare – perennemente – a compimento farà capolino ogni volta che la società italiana attraverserà momenti di crisi di particolare acutezza (la storia italiana conosce molti «secondi risorgimenti»!), e non di rado ancora oggi intellettuali e politici fanno ricorso ai “miti risorgimentali“ per legittimare agli occhi delle masse questa o quella politica.

Vi è, poi, una lettura “marxista“ del gap fra Nord e Sud che stima irrecuperabile tale gap essendo esso considerato non il prodotto di una necessaria dinamica storica (fatta di intrecci economici, sociali, politici), ma il presupposto stesso della sopravvivenza – non solo della nascita e dello sviluppo – del capitalismo italiano. In una rivista di estrema sinistra – Vis-á-vis – si legge ad esempio quanto segue: «La seconda repubblica non farà che aggravare gli squilibri della prima, primo fra tutti il divario nord/sud: se questa divisione è il prodotto di una precisa dinamica che è quella del capitale che dappertutto si basa sul rapporto sviluppo/sottosviluppo, qualsiasi processo politico non potrà che prenderne atto, qualora rimanga nei limiti delle compatibilità esistenti (9)

Solo la rivoluzione comunista, insomma, può portare a soluzione l’annosa questione. Tesi, questa, non nuova. Già nel 1904 il socialista Ettore Ciccotti aveva espresso la convinzione che senza il passaggio al socialismo l’arretratezza delle regioni meridionali sarebbe rimasta tale e quale, forever: «È vano sperare risoluzione vera e completa della questione – egli scriveva – nel nostro ambiente economico. Il Mezzogiorno, più che tutto il resto d’Italia, soffre a un tempo delle sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo (…) Il suo destino perciò si decide dove si combatte la grande battaglia pel socialismo»(10). La posizione di Ciccotti certamente aveva una sua importanza politica, sia perché veniva ad attaccare le tesi liberiste, le quali affidavano la riduzione graduale del gap nei livelli produttivi tra le due grandi aree del paese al libero gioco delle forze economiche e sociali (tesi in parte ripresa da Luigi Einaudi nel ’60, quando si trattò di fare un primo bilancio dell’assai deludente intervento pubblico nel Mezzogiorno avviato negli anni Cinquanta, e che sta trovando nuovo lustro oggi, nel pieno della crisi generale del sistema-paese); e sia, soprattutto, perché cercava di sottrarre legittimità al nascente meridionalismo, il quale affogava la “questione sociale“ del Mezzogiorno in una indistinta – interclassista – rivoluzione democratica e morale tesa a ridare ossigeno alla sua vita economica, politica e civile. Quello di Ciccotti, insomma, si prospettava come un significativo contributo ad una lettura in chiave classista della «questione meridionale», e ancora oggi è giusto dire che le lotte delle classi subalterne delle regioni meridionali devono – dovrebbero! – essere viste ed inquadrate nel contesto della più generale lotta del proletariato italiano. Quello che non condividiamo è la concezione che vede il rapporto Nord-Sud nei termini di una realtà sostanzialmente fissa, immutabile, appunto perché Ciccotti lo lega indissolubilmente alla stessa sopravvivenza del capitalismo italiano (o internazionale). Noi non contestiamo la previsione contenuta in Vis-á-vis, né, ovviamente mettiamo in discussione l’esistenza di una «questione meridionale»: indubbiamente essa esiste, dal momento che il divario tra le due grandi aree del sistema-paese: quella delle regioni settentrionali, capitalisticamente assai sviluppate, e quella relativa alle regioni meridionale e alle due isole maggiori, i cui livelli di produttività e di competitività sono indiscutibilmente bassi (fatti salvi alcuni distretti pugliesi attivi sul versante dello sfruttamento dell’Albania) non solo nel corso dei centotrenta e passa anni che ci separano dall’Unità non ha conosciuto una riduzione, ma esso oggi appare come non mai foriero di terremoti politici impensabili fino a dieci anni fa. Contestiamo, invece, la concezione dello sviluppo capitalistico che irrigidisce l’analisi delle sue necessarie contraddizioni dentro uno schema che suppone sostanzialmente immutabile la storia capitalistica – e perciò politica – di un paese. Non dimentichiamo che ancora alla fine degli anni Settanta – di questo secolo! – l’Italia del Nord-Est, quella che oggi viene accreditata come l’area più dinamica del capitalismo italiano ed europeo, veniva considerata, insieme all’Italia centrale, una «formazione sociale periferica» del capitalismo italiano (11); né si può dire che il divario Nord-Sud si è presentato, nel corso dei decenni, sempre allo stesso modo, mentre è invece vero che esso ha seguito l’evoluzione del capitalismo italiano nel suo complesso, ed è stato influenzato dal tipo di intervento pubblico che i governi che si sono succeduti hanno implementato. Scriveva ad esempio vent’anni fa Domenico Novacco: «Il fatto che nel Sud, visto nel ’50 come area di redistribuzione di una popolazione fondamentalmente agricola e nel ’60 come area di innesto di forti concentrazioni industriali, si stia sviluppando invece nei nostri anni- fine anni Settanta – una società a prevalente carattere terziario, urbanizzata, sensibile a problemi e ad esigenze diverse da quelle a cui il precedente intervento -:pubblico – era stato finalizzato, comporta l’urgenza di un flessibile riadattamento dei criteri operativi e dei concetti con cui sono state progettate ed eseguite le opere di infrastruttura nel ventennio che ci stiamo lasciando alle spalle» (12).

La «questione meridionale», cioè, deve essere collocata nell’ambito del complessivo processo capitalistico di questo paese, e d’altra parte è stato così fin dalle origini dello Stato nazionale unitario, non fosse altro perché è stato grazie al drenaggio del risparmio che il Sud aveva accumulato (il Regno delle Due Sicilie nel 1860 poteva vantare, oltre che un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, segnalata da un debito pubblico ben saldo); è grazie alla forza-lavoro a basso costo che esso offriva alle industrie del Nord insieme a un privilegiato mercato di consumo per le loro merci, che il capitalismo italiano è riuscito a recuperare la distanza che al momento dell’Unità la separavano dagli altri capitalismi d’Europa e del mondo. Possibilità di sviluppo capitalistico che il Mezzogiorno in parte continua ad offrire in questo fine millennio. Questa consapevolezza si è fatta strada, a partire dagli anni Sessanta, anche nel mondo scientifico ufficiale; vasta eco, ad esempio, suscitò un articolo di Vera Lutz pubblicato sul Mondo Economico del ’60, intitolato Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia, con il quale l’autrice spostava i termini della questione dal tradizionale confronto tra il livello di sviluppo delle regioni del Nord e il livello di sviluppo delle regioni del Sud, al rapporto tra il livello di sviluppo del capitalismo italiano e quello degli altri paesi europei, nella prospettiva di una più accentuata integrazione del paese nell’ambito dell’Europa capitalisticamente forte. Questo mutamento concettuale rappresentò nient’altro che una presa d’atto della reale dinamica del processo di sviluppo capitalistico italiano nel quadro del più generale sviluppo capitalistico europeo e mondiale, nel senso che sottolineava le ragioni del sostegno al Nord del paese (anche attraverso una politica di migrazione interna tesa a portare in quell’area forza-lavoro a basso costo), capace di competere sul mercato internazionale, mentre affidava la soluzione definitiva dell’arretratezza del Mezzogiorno ai «tempi lunghi» di uno sviluppo che si estendesse a macchia d’olio dalle zone più forti e più vicine al mercato internazionale, alle regioni più deboli e più distanti da quest’ultimo (anche dal punto di vista geografico). La morte, per così dire, “ufficiale“ del meridionalismo può farsi risalire proprio agli inizi degli anni Sessanta.

Scriveva ancora Novacco: «La questione meridionale non si sollevò mai al rango, che le competeva di pieno diritto, di nodo capitale per lo sviluppo equilibrato dell’intero paese (…). In effetti due alternative sono in gioco: o il progresso equilibrato dell’intero paese entro gli istituti della democrazia, secondo il modello delle grandi società industrializzate o il ristagno dell’intero paese nel pantano del sottosviluppo (…) A meno che non venga addirittura a significare, terza infausta alternativa, l’anticamera del divorzio tra l’Italia dello sviluppo e l’Italia del sottosviluppo (13).

Vent’anni dopo, la «terza infausta alternativa» si sta ponendo all’ordine del giorno con una forza che lo stesso Novacco certamente non avrebbe potuto immaginare, anche perché lo scivolamento nel «pantano del sottosviluppo» è da sempre una delle ipotesi, per così dire, più in voga nel dibattito sulla «questione meridionale»; una ipotesi del tutto infondata, dal momento che il capitalismo italiano storicamente è venuto a collocarsi nell’area forte del capitalismo mondiale, nonostante le molteplici “magagne“ che ne hanno caratterizzato lo sviluppo. Novacco ha però posto un problema reale, e cioè la necessità per il capitalismo italiano di procedere lungo la strada di uno sviluppo complessivo, più organico e diffuso; uno sviluppo che finalmente investa in maniera forte anche le aree del paese che oggi si trovano tagliate fuori non solo dal mercato europeo, ma che non riescono a ritagliarsi uno spazio nemmeno nell’area del bacino mediterraneo. Il dualismo Nord/Sud sembra esser giunto al suo punto critico, e la nascita del fenomeno leghista ne è il sintomo più evidente: la contraddizione socio-economica ha generato una contraddizione politica che ha squassato l’assetto istituzionale venuto fuori dalla seconda guerra mondiale; di più: essa sembra spingere lo stesso Stato nazionale oltre le forme impresse dal processo storico risorgimentale (alludiamo, naturalmente, alla «questione federalista»). Mentre negli altri paesi capitalisticamente avanzati le istanze di ammodernamento e di ristrutturazione del vecchio “Stato sociale“ hanno trovato, a partire dai primi anni Ottanta, una sponda nei tradizionali soggetti politici (i conservatori in Inghilterra, i repubblicani negli Stati Uniti, i neogollisti in Francia), l’Italia ha dovuto attendere la nascita di un soggetto politico “eversivo“ per conoscere la salutare (per il sistema-paese, è chiaro) “rivoluzione dei ceti produttivi“. Ma la Lega e la “rivoluzione dei ceti produttivi“ non nascono spontaneamente: alle loro spalle si staglia il lungo lavoro svolto dal PSI craxiano, rimasto vittima degli stessi processi economici, politici e istituzionali che esso aveva contribuito a mettere in moto scontando una feroce opposizione anche da parte di coloro che oggi ne hanno raccolto il testimone. Le necessità dello sviluppo capitalistico costringono la politica borghese a continui paradossi!

Le due grandi “ondate“ di investimenti industriali, pubblici e privati, nel Mezzogiorno – la prima è del 1955 e la seconda del 1965 – non hanno intaccato, se non marginalmente, la natura dei rapporti economici tra Nord e Sud; rapporti che, come già ricordato, hanno visto il Mezzogiorno rappresentare per lo più un mercato privilegiato di sbocco per la produzione settentrionale, e un fornitore di forza-lavoro a buon mercato non solo per il settentrione, ma anche per altri paesi europei ed extraeuropei (con un ritorno in termini di rimesse al paese d’origine tutt’altro che disprezzabile, sia dal punto di vista della bilancia dei pagamenti, sia dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica). In questo contesto lo Stato è stato chiamato continuamente a sussidiare i redditi delle popolazioni meridionali, soprattutto attraverso la spesa pubblica, che ha significato un’espansione nel Mezzogiorno del lavoro improduttivo, il quale non solo ha reso particolarmente esplosiva quella crisi del vecchio modello di “Stato sociale“ che pure si riscontra in tutti i paesi avanzati; ma ha ristretto pericolosamente la stessa base su cui può contare l’accumulazione, il solo processo che può sostenere l’intero sistema-paese. Come scriveva Otto Bauer a proposito della crisi economica europea degli anni Trenta, «le masse popolari delle regioni industriali depresse debbono essere mantenute a spese delle altre regioni.»; questo oggi sembra non essere più possibile, e il fenomeno leghista sta tutto dentro queste contraddizioni.

Fattori vecchi e nuovi; interni e internazionali; politici ed economici impongono al paese la definizione di una nuova strategia, di una “nuova politica economica“ per il Mezzogiorno. Naturalmente anche nel nuovo contesto il dato di partenza caratterizzato dalla presenza di una forza-lavoro a buon mercato può costituire un eccellente volano per lo sviluppo di quell’area, e di fatti in questo decennio i governi stanno rispolverando la vecchia teoria anglosassone delle «aree depresse», con annesse “gabbie salariali“ volte a spingere i salari meridionali verso i minimi contrattuali (ma di fatto ancora più giù). Ma lo scenario entro cui tale volano si colloca e può agire è ben diverso da quello precedente, caratterizzato dalla possibilità di una migrazione interna e internazionale delle popolazioni meridionali, e dalla possibilità per lo Stato di “drogare“ con la spesa pubblica il processo di accumulazione. E a ciò si deve aggiungere l’entrata in grande stile nell’agone della competizione capitalistica mondiale di paesi che possono contare su un costo del lavoro risibile se confrontato con quello italiano o tedesco, o francese. L’imperialismo sembra essere una strada che l’Italia può imboccare con successo per contrastare la concorrenza dei paesi emergenti dell’Est asiatico e dell’America Latina, e non a caso. Agli inizi degli anni Novanta l’Istituto di Studio per lo Sviluppo Economico individuava nell’Albania una grande opportunità per lo sviluppo del Mezzogiorno: «In definitiva il commercio estero albanese ha un forte orientamento regionale, specie nella sua componente esportativa. L’Italia (e il Mezzogiorno in particolare) è un partner di sicuro rilievo, così come l’Albania è interessante quale potenziale trampolino verso il mercato “regionale“» (14). Nel solo triennio 88-91 la quota del Mezzogiorno sul totale nazionale è variata dall’11 al 50% per le importazioni dall’Albania e dal 9,8 al 33,4% per le esportazioni verso l’Albania (dati ISVE).Non è certo privo di significato il fatto che l’Italia abbia presentato come suo primo contributo alla realizzazione di una grande rete trans-europea il progetto per la costruzione dell’autostrada Bari-Brindisi-Otranto, per un costo indicativo di 1000 milioni di Ecu.

Secondo Gad Lerner «L’Albania è la nuova frontiera dell’economia italiana (…), destinata a modificare i connotati al capitalismo italiano» (15). Ma non è solo Tirana a cadere sotto l’influenza del capitale italiano: 9300 miliardi di investimenti esteri ufficialmente censiti hanno interessato nel corso del 1995 altre aree deboli del Vecchio Continente. «Intanto che a Roma il governo discute con sindacati e confindustria su come abbattere il 10-20% il costo del lavoro – scrive Lerner – nelle zone ad alta disoccupazione, partono a migliaia i Tir carichi di macchinari industriali trasferiti in Slovacchia, Romania, Ucraina e Albania dove quel costo si abbatte al 90%» (16). Il capitalismo italiano è costretto a trovare fuori dai confini geografici del paese il suo nuovo Mezzogiorno.

Per questo è ridicolo dire del leghismo quanto disse nel 1924 il nittiano Finocchiaro Aprile, futuro capo del separatismo siciliano nel ’43, a proposito del fascismo: «è l’esponente del capitalismo settentrionale», senza prendere in considerazione il quadro complessivo che abbiamo cercato di abbozzare. Ed è altrettanto ridicolo sia pensare che risolta in qualche modo la «questione meridionale», il capitalismo italiano cesserà di essere una realtà sociale contraddittoria, dal momento che la contraddizione fondamentale capitale-lavoro non solo non verrà eliminata, ma verrà posta su un piano più alto; sia pensare che una simile soluzione non è affatto possibile nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Come scrive Nicolò De Vecchi, sintetizzando il concetto marxiano di crisi economica, «la produzione capitalistica non si svolge per meccaniche trasformazioni di “disarmonie“ in armonie (proporzionalità tra i settori ecc.), ma in condizioni di continui mutamenti delle forze produttive (…) Il capitale, valorizzandosi, non elimina, ma “supera la continua sproporzione“ tra le produzioni settoriali, in quanto provoca lo sviluppo delle forze produttive là dove la sproporzione si manifesta» (17). Noi rivendichiamo questo tipo di concezione dello sviluppo capitalistico, al cui centro è posto il processo di valorizzazione del capitale, rispetto al quale nulla – tranne il sistema dello sfruttamento della forza-lavoro! – è immutabile.

Certamente noi non attribuiamo la nascita dell’imperialismo moderno solamente o meccanicamente all’esigenza dei paesi capitalisticamente avanzati di liberarsi del surplus di capitale che li soffoca, attraverso la loro esportazione laddove l’investimento appare più redditizio. Sappiamo che al suo sviluppo concorrono diversi fenomeni di vario ordine: economici, politici, sociali, ideologici.

I rapporti che si sono instaurati dal ’92 in poi tra lo Stato italiano e quello – fatiscente – dell’Albania, sono un esempio di come l’imperialismo sia innanzitutto un fenomeno oggettivo complesso che reclama adeguate iniziative politiche. Ma è fuor di dubbio che le esigenze mutevoli e molteplici del capitale giocano nella sua genesi e nel suo concreto manifestarsi un ruolo assolutamente determinante. Indagare le forme particolari in cui tutti i fattori dell’imperialismo agiscono e si adeguano alle nuove condizioni dello sviluppo capitalistico è un compito tanto difficile quanto prezioso.

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NOTE

1. Ex uno Plures, su Limes 4/93.

2. Ivi.

3. Ivi.

4. Ivi.

5. E. Nolte, Intervista sulla questione tedesca.

6. K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali.

7. cit. in E. Ragionieri, Il marxismo e l’Internazionale.

8. Romano, I fattori della produzione, in AA.VV., Storia dell’economia italiana, III.

9. Vis-á-vis, autunno ’93.

10. E. Ciccotti, Sulla questione meridionale – Scritti e discorsi.

11. Bagnasco, Le tre Italie.

12. D. Novacco, La questione meridionale ieri e oggi.

13 Ivi.

14. ISVE, Il Mezzogiorno nel processo di internalizzazione.

15. La Stampa, 1/10/96.

16. Ivi.

17. N. De Vecchi, Crisi.

ROSARNO E DINTORNI

I noti eventi di Rosarno offrono l’occasione per una riflessione sulla società italiana auspicabilmente non banale, non luogocomunista e, soprattutto, non irretita negli interessi e nella prospettiva delle classi dominanti di questo paese. Con queste pagine intendo dare il mio piccolo contributo allo sviluppo di una tale riflessione, magari in vista di una pratica politica adeguata alle sfide che il capitalismo del XXI secolo non smette di lanciare ai lavoratori e a tutti gli individui interessati al superamento della società disumana.

In questa brutta vicenda il razzismo e il coinvolgimento della mafia locale sono le ultime cose che dobbiamo prendere in considerazione. Si badi bene, non perché l’uno e l’altro non abbiano avuto alcun ruolo nello svolgersi dei fatti, o perché in generale non abbiano una loro reale consistenza, bensì perché porli al centro della riflessione non spiega un bel nulla e non ci aiuta a capire. E invece abbiamo un gran bisogno di capire, perché Rosarno è solo un sintomo di qualcosa di ben più grave. No, non si tratta affatto di una malattia, si tratta piuttosto della fisiologia della società basata sul profitto; si tratta di una micidiale normalità che si dà in modo differente nelle diverse aree del Paese e del mondo. Chi ragiona in termini di patologia sociale nasconde a sé e agli altri la «banalità del male», anzi la sua radicalità. Più che cause, il razzismo della popolazione di Rosarno e la presenza sulla scena del delitto della mafia autoctona rappresentano un epifenomeno, una concausa di secondo livello, ma certamente non la risposta dirimente, la quale va cercata nelle contraddizioni sociali complessive di questo Paese, ancora alle prese, anzi sempre più alle prese, con la rancida «questione meridionale». Ma la più fresca «questione settentrionale» ha cambiato le regole del gioco, ponendo su un terreno completamente nuovo gli annosi problemi posti allo sviluppo capitalistico italiano dal secolare dualismo macroregionale Nord-Sud. E quando parlo di sviluppo capitalistico non mi riferisco solo alla struttura economica del Paese, ma alla società italiana nel suo complesso, perché soprattutto nel XXI secolo la struttura sociale delle nazioni è un tutto sempre più unitario e integrato. Il principio che la unifica in un tutto integrato è il capitale, è la ricerca spasmodica del vitale profitto, è la necessità di trovarsi tra le mani, giorno dopo giorno, anno dopo anno fino alla morte, il vitale (altro che «vile»!) denaro. Sbaglia chi pensa che sto andando fuori tema, perché i fatti di Rosarno, al netto di tutte le balle che sono state dette e scritte, evocano a gran voce il Dio Profitto e il Dio Denaro. Eccome se li evocano! Ma evocano anche il pauroso baratro nel quale si è cacciata l’intera umanità. Ma non precorriamo i tempi.

Conviene partire proprio dall’epifenomeno, dal «razzismo del popolo di Rosarno», e chiederci come mai il razzismo alligna soprattutto presso gli strati inferiori del corpo sociale, e questo naturalmente non solo nell’amena cittadina calabrese, ma un po’ in tutto il Paese e in tutti i paesi del mondo. Intanto, di passata, mi sia consentito di dare un piccolo calcio al rassicurante luogo comune per cui gli italiani non sarebbero, nel loro più profondo «DNA», razzisti: come se il razzismo fosse una connotazione nazionale o, addirittura, «antropologica»: i tedeschi, tanto per citare un popolo a caso, sono forse razzisti «di loro»? Mi sembra che il gene del razzismo non sia stato ancora individuato, ma è anche vero che di biologia me ne intendo assai poco. «Italiani, brava gente». E chi può metterlo in discussione! Ne sanno qualcosa gli africani del secolo scorso, massacrati ai bei tempi dell’Italia liberale e poi fascista, e ne sanno qualcosa gli africani di questo secolo e di questi giorni. Anche i parenti degli albanesi finiti sott’acqua al largo di Otranto alla fine degli anni Novanta, ad opera di una democratica nave della Marina Militare Italiana (mi sembra sotto il governo di baffino D’Alema, sostenuto dai rifondatori stalinisti), ne sanno qualcosa. Ma chiudiamo l’antipatriottica divagazione, e ritorniamo alla domanda: perché il razzismo si diffonde con tanta facilità e rapidità soprattutto tra «gli ultimi»?

La risposta è tutt’altro che difficile, è anzi alla portata di tutti e infatti tutti la conoscono, ma solo pochissimi ne colgono il reale significato e la reale portata sociale, e non per l’ignoranza delle masse o per la malafede delle classi dominanti, ma in grazia dell’interesse (declinato in tutti i modi possibili e immaginabili), il più forte consigliere della storia. Non è difficile capire che chi sta ai piani alti dell’edificio sociale può permettersi il lusso dell’umana comprensione, della tolleranza, del cosmopolitismo e della filantropia (la forma borghese della vecchia carità cristiana), anche perché tali eccellenti disposizioni d’animo sono altrettanto olio lubrificante cosparso sui duri ingranaggi del meccanismo sociale, rappresentano il balsamo spalmato su un corpo sociale sempre più brutalizzato dagli interessi economici. Dove c’è un soldato che squarta, che brucia e che violenta, deve esserci pure qualcuno che si occupa dei morti e dei feriti; e insieme, Caino e Abele, la bestia assetata di sangue e la crocerossina devota a chi ha avuto la peggio nel duello, costituiscono il sistema della guerra. Insieme e da sempre lupo e agnello mandano avanti, ognuno a modo suo, la comune impresa.

A Rosarno, nelle calde giornate del furore bianconero (e non parlo di calcio…), non c’erano in giro solo malavitosi provocatori, cittadini in preda al panico e all’odio, orde di «negri» accecati di rabbia e forze dell’ordine in assetto di guerra; si aggiravano, tra i cassonetti dell’immondizia e le auto bruciate, anche alcuni uomini di «buona volontà» che facevano appello al buon senso «di tutti», e che aiutavano i feriti di entrambe le fazioni. Pochissimi, è vero, ma c’erano, in ossequio al motto antiumano che recita: anche in mezzo al peggio può esserci un po’ di bene. Amen! D’altra parte, al momento opportuno, quando le condizioni lo rendono possibile e necessario, l’agnello sa bene come usare il lupo, e non rare volte la storia ci ha presentato la stupefacente trasformazione del primo nel secondo: l’agnello perde il bianco pelo e acquista il vizio del lupo. In natura questo non sarebbe possibile, è evidente, ma nella società accadono cose misteriose che, come diceva il poeta, non sarebbero possibili in tutto il firmamento.

Ad esempio, e mi si scusi la piccola divagazione rispetto al tema, come spiegare altrimenti il nobel per la pace attribuito al presidente, ancorché «abbronzato», della prima potenza imperialistica mondiale? Mistero. Anzi: trattasi della solita velleitaria politica europea progressista. Giustamente Bush se la ride di gusto, e aspetta il cadavere del pacifista, che inutilmente lo ha contestato per quasi un decennio, galleggiare sulle acque del metaforico fiume dei perdenti. Il lupo Bush si prende la rivincita sull’agnello pacifista. Chiudo la parentesi.

Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno poetiche cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde.

Nei primi anni Novanta del secolo scorso, uno dei luoghi comuni più ripetuti dagli italici progressisti riguardava il «razzismo xenofobo» della Lega Nord. Prima che il grande statista coi baffi, l’ancor vivo e vegeto D’Alema, sdoganasse «da sinistra» il movimento bossista – avendone scoperto nientemeno che un’anima di sinistra: si tratta di vedere chi, tra gli ex stalinisti e i leghisti sono da considerarsi più «di sinistra»: davvero una bella gara! –, a «sinistra» il binomio Lega-Fascismo era dato come cosa certissima, e chi aveva l’ardire di metterlo in discussione in quanto insulso luogo comune, al meglio doveva aspettarsi dai progressisti l’epiteto di amico del giaguaro, magari solo sul terreno del comportamento «oggettivo», ma pur sempre amico, anzi: fiancheggiatore. Fascista, naturalmente, veniva considerato anche Berlusconi, il quale si era peraltro permesso di sdoganare il fascistissimo Fini, segretario del Partito dell’Ardente Fiamma Tricolore. Nel 2010 solo a Berlusconi non è stata revocata l’accusa di Cavaliere Nero (anzi!), mentre Fini rischia di ereditare il partito di D’Alema, «il migliore» dei progressisti italiani. Tanta è la confusione sotto il cielo della «sinistra» italiana, e la situazione per il suo «popolo» è tutt’altro che eccellente. Naturalmente la patente di «oggettivo fiancheggiatore del leghismo-berlusconismo» fu graziosamente concessa anche a me dai miei pochi interlocutori progressisti (si trattava più che altro di rifondatori stalinisti): «ancora con le solite menate veteromarxiste!» Eppure le mie analisi sul leghismo e sul berlusconismo non differivano molto, sul piano dell’oggettiva dialettica dei processi sociali, da quelle sfornate dai più accreditati centri studi attivi in Italia (ad esempio la Fondazione Agnelli, o quelli che fanno capo al Sole 24 Ore e alla Banca d’Italia). E cosa si leggeva negli studi curati dai più seri economisti e sociologi del Bel Paese? Che l’Italia era già divisa, e che la Lega Nord, lungi dall’essere la causa della sua disgregazione sociale-territoriale, ne era piuttosto il prodotto più genuino, e forse anche il rimedio. Ma come, i razzisti di Bossi possono risolvere la – rancida – «questione meridionale»? Questa possibilità esorbitava dalle capacità dei luogocomunisti.

All’inizio degli anni Novanta alla Fondazione Agnelli l’Italia appariva di fatto divisa in tre macroregioni: il Nord, economicamente e socialmente assai sviluppato, dinamico e competitivo, le cui performance capitalistiche erano di assoluto livello europeo e mondiale, al punto che soprattutto l’organizzazione a rete distrettuale del Nordest veniva assunta a modello da molti economisti tedeschi e giapponesi; il Centro, meno sviluppato e competitivo – se non sul terreno del «terziario avanzato» –, ma comunque ancora in grado di sostenere il confronto con la Francia (e poi con la Spagna), e infine il Mezzogiorno, con la sua secolare arretratezza socio-economica, la cui struttura economica era simile a quella del Portogallo e della Grecia. Scriveva l’economista Alberto De Bernardi nel 1991: «lo iato tra nord e sud non ha perso la sua drammaticità e pesa in termini enormi sulle potenzialità di sviluppo complessivo del paese» (Città e campagna nella storia contemporanea, in AA. VV. Storia dell’economia italiana, III, Einaudi). Alle soglie del XXI secolo la rancida «questione meridionale» appare dunque più viva che mai. Anzi, essa adesso si dà nei termini ultimativo dell’Aut-Aut: la sindrome Jugoslava è dietro l’angolo. Come scongiurarla?

Una situazione di questo tipo, venutasi a cristallizzare nell’arco di oltre un secolo, non poteva non produrre una serie di conseguenze anche sul piano politico, soprattutto dopo il crollo del muro di Berlino (sulle vuote zucche dei progressisti più “radicali”, che ancora se ne lamentano), la conseguente scomposizione e ristrutturazione delle vecchie alleanze politico-militari internazionali, e con l’ulteriore impetuosa accelerazione del processo di globalizzazione del capitalismo. E infatti il «risvolto sovrastrutturale» non si è fatto attendere: avanzamento del leghismo, fine della cosiddetta «Prima Repubblica» (ottenuta anche attraverso l’uso del manganello mediatico-giudiziario), ascesa del berlusconismo e altri fenomeni che ancora non hanno esaurito la loro ragion d’essere. Già ai tempi delle «picconate» di Cossiga Presidente della Repubblica apparve chiaro come tutti i nodi dell’ineguale sviluppo sociale del Paese fossero giunti dolorosamente al pettine, ma scioglierli non era – e non è – impresa facile, perché a ogni nodo corrispondeva – e corrisponde – un inestricabile groviglio di interessi economici, politici, istituzionale e quant’altro profondamente radicati nel tessuto sociale. Equilibri di potere e rendite di posizione cementatisi nell’arco di molti decenni non sono problemi che possono venir risolti in poco tempo e senza spargimento di «lacrime e sangue» (a volte anche in senso reale, e non solo metaforico), e non sempre la spada di Alessandro Magno è sulla scena. E’ un fatto che chi tocca i fili dell’annosa «Grande Riforma» muore fulminato, e lo stesso Cossiga rischiò di venir esautorato dalla sua alta funzione per motivi… psichiatrici… Non parliamo poi di Bettino Craxi, il cinghialone sacrificato sull’altare della miserabile e risibile «questione morale».

La Lega Nord nasce come risposta dell’area socialmente più avanzata del Paese a una dinamica distorta e contraddittoria diventata insostenibile nel contesto della nuova situazione europea e mondiale. Una risposta prima quasi istintiva e «spontanea», e poi sempre più cosciente e organizzata. Il movimento leghista dimostra come, prima o poi, più o meno confusamente e contraddittoriamente, la cosiddetta «società civile» (cioè a dire il regno degli interessi materiali e degli antagonismi) trova sempre il modo di darsi un adeguato strumento politico-ideologico per conseguire i suoi obiettivi. «Se non ci fosse stato, avremmo dovuto inventarlo»: questo sentivo dire di Bossi nel Nord del Bel Paese già alla fine degli anni Ottanta, e non solo dai pochi (allora!) e fanatici sostenitori del leader leghista. Alla fine, la «società civile» (o «incivile», per dirla coi progressisti, i quali non sono certo obbligati a pensarla come Hegel: «la società civile è il campo di battaglia dell’interesse privato individuale di tutti contro tutti», o come Marx: «è notevole la definizione della società civile come bellum omnium contra omnes») del Nord ha inventato il Senatur.

La Lega, quindi, come espressione degli interessi generali del Nord. Non solo degli interessi che fanno capo alle classi dominanti radicate in quell’area del Paese, ma anche di quelli afferenti a un settore non piccolo delle stesse classi dominate, le quali sono interessate a una «più equa» redistribuzione della ricchezza nazionale veicolata e mediata dallo Stato attraverso la potente leva fiscale. E’ verissimo che sul piano della storia – e soprattutto della «coscienza di classe» – capitale e lavoro non hanno alcun interesse in comune da condividere, ma è altrettanto e dolorosamente vero che sul piano degli interessi immediati (e in assenza non solo della «coscienza di classe», ma della stessa classe operaia nell’accezione marxiana, e non sociologico-politologica, del termine) i due «fattori della produzione» possono trovare un comune obiettivo, da far valere contro altri strati sociali (ad esempio contro i proletari e il ceto piccolo-borghese del Meridione, rei di incamerare risorse finanziarie che non hanno contribuito a produrre, e che sperperano grazie a un welfare assistenzialistico ormai fuori mercato). Croazia e Slovenia insegnano. Anche all’epoca della guerra nell’ex Jugoslavia si parlò di «razzismo xenofobo», rispettivamente dei Croati e degli sloveni ai danni della Serbia, del Montenegro e del Kosovo, e viceversa di questi ultimi, il «Mezzogiorno» jugoslavo, interessato al mantenimento dello status quo (soprattutto la Serbia del «fascista rosso» Milosevic), contro i primi, il «settentrione egoista», ormai deciso a separare il proprio destino dai «parassiti del Sud». Nel nuovo contesto internazionale le aree economicamente – e socialmente – più avanzate dei paesi europei tendono a entrare in «sinergia» tra di esse, e ciò produce in ogni singola nazione del Vecchio Continente una serie di conseguenze «strutturali» e «sovrastrutturali» (ma qui la distinzione è solo formale, per ciò che abbiamo detto appena sopra) che sono tanto più destabilizzanti del vecchio assetto geopolitico, quanto più forti e radicati sono gli squilibri economici, sociali e territoriali dei paesi coinvolti nel processo di integrazione «globale». E’ la cosiddetta dialettica «globale-locale» che si è affermata negli anni Novanta a livello nazionale, continentale e mondiale.

La «zavorra meridionale» non può non pesare (sempre attraverso il maledetto «drenaggio fiscale» da parte dello «Stato padrone») anche sulle condizioni materiali dei lavoratori del Nord più esposti alla concorrenza internazionale, oltre che su quelle delle piccole imprese e delle «partite iva», vale a dire sullo strato sociale che rappresenta la base elettorale di ultima istanza della Lega, il suo zoccolo duro politicamente e ideologicamente più motivato e risoluto. La recente iniziativa assunta da alcuni piccoli e medi imprenditori del Nordest di versare l’intero costo del lavoro sulle buste-paga dei loro dipendenti, sottraendosi in tal modo all’obbligo di tosare alla fonte (come veri e propri sostituti d’imposta) il reddito dei lavoratori per conto dello Stato, si inscrive nello scenario di lotta «interclassista» che ha permesso al partito di Bossi di incamerare, nelle ultime elezioni politiche, la gran parte dei consensi elettorali delle «tute blu» sfruttate nel Nord, e ciò naturalmente ha sconcertato gli italici progressisti, i quali pensavano di poter godere indefinitamente del monopolio elettorale sulla «classe operaia», che nel frattempo è andata all’inferno già da molti decenni a questa parte, grazie soprattutto ai progressisti attivi in politica, nella «cultura», nel sindacato, e via di seguito. Il paradiso può attendere.

Quando negli anni Novanta la Lega denunciava i rischi di una «globalizzazione affrettata e senza regole», e si scagliava soprattutto contro l’ingresso della Cina nel WTO, essa difendeva precisamente gli interessi del proprio elettorato, sebbene in una forma che agli antiglobal di sinistra non poteva non sembrare antipatica. Eppure, al di là della fenomenologia, il movimento di Bossi era in perfetta sintonia col cosiddetto movimento di Seattle, non a caso capeggiato, tra gli altri, dal ricco produttore di vino francese José Bové, il “diversamente capitalista”. Già, perché un nuovo capitalismo è possibile: più verde, più equo, più solidale e più sostenibile sotto ogni rispetto. A me questo capitalismo «dal volto umano» fa più angoscia di quello «selvaggio» contestato dai progressisti, ma i gusti son gusti… «Ma», si chiedono i progressisti, «dove andremo a finire se anche i lavoratori del Nord – e anche quelli di Rosarno… – votano Lega Nord?» Stiano pur tranquilli: finiremo nella stessa Repubblica democratica fondata sul lavoro (salariato, cioè sfruttato) che tanto piace al progressista partigiano della Sacra Costituzione Italiana, del Sacro Tricolore – minacciato un giorno da Bossi di certi usi igienici irriferibili: il progressista è lesto di querela! – e della Sacra Unità Nazionale: Viva l’Italia, cribbio!

Dicono i leghisti: come possono le nostre piccole e medie imprese, che non godono del sostegno della «mano pubblica», competere con i prodotti cinesi, o con quelli che adesso vengono dall’Europa Orientale, ossia con le merci che assorbono un costo del lavoro che è pari, rispettivamente, a uno a venti e a uno a dieci rispetto a quello italiano? Infatti, non possono. Allora, o quelle aziende chiudono, oppure devono comprimere il salario dei lavoratori fino a un limite impensabile fino a dieci anni fa, oltre che aumentarne la produttività, magari allungando la giornata lavorativa. L’impiego di manodopera straniera nelle aziende del Nord ha questo preciso significato: esso riduce in maniera diretta e indiretta il salario dei lavoratori: bianchi, neri, gialli, di ogni colore. Il capitale è daltonico, e riconosce solo il colore dei soldi.

E qui arriviamo a Rosarno. Da almeno venti anni non sentiamo che ripetere questa tiritera: gli stranieri fanno i mestieri che i nostri giovani, ammaliati da calciatori e veline, non vogliono più fare. Ergo, gli africani, i rumeni, i filippini e quant’altro non rubano il nostro lavoro. Non solo, ma i lavoratori extracomunitari sostengono il nostro Pil, pagano con le loro tasse le nostre pensioni, e fanno quei figli che le donne e gli uomini italiani non vogliono più mettere al mondo. Tutto vero. Però chi fa questo bel discorso – il solito progressista naturalmente è in prima linea – dimentica di aggiungere questo insignificante particolare: gli italiani non vogliono più fare determinati lavori all’attuale prezzo e alle attuali condizioni. Ma si trova in Europa Occidentale un lavoratore agricolo europeo disposto a lavorare dieci, dodici e a volte quattordici ore in cambio di un salario giornaliero di venticinque euro (quando va bene e al lordo del pizzo da pagare al caporale)? Domanda retorica, me ne rendo conto. Loro malgrado, i «negri» hanno gettato i «bianchi» fuori dal mercato del lavoro, e hanno permesso la via italiana, e soprattutto meridionale, alla competizione capitalistica internazionale nel settore (agricolo e manifatturiero) più esposto alla concorrenza dei prodotti made in Cina, piuttosto che made in Portogallo o Tunisia o Marocco (paesi nei quali, ad esempio, si è sviluppata una filiera di trasformazione del pescato davvero importante).

La recente crisi economica ha reso ancora più risibile la balla raccontata dagli uomini di buna volontà per dare una copertura politico-ideologica al supersfruttamento degli extracomunitari: infatti, non pochi meridionali disoccupati oggi accettano gli anoressici salari oggi pagati ai lavoratori stranieri. La crisi ha insomma risospinto i «bianchi» verso il nuovo mercato del lavoro precipitato al giusto livello competitivo grazie ai «neri», ai «gialli» e via di seguito. In prospettiva questo processo è destinato a creare non poche tensioni nel seno della classe dominata, soprattutto nei suoi strati più deboli e marginali (uno “status”, questo, in continua fluttuazione), sempre più potenzialmente ricettivi nei confronti di qualsiasi discorso che promettesse una soluzione definitiva («finale»…) dei loro problemi. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma non è affatto detto che la farsa di domani sarà meno violenta e sanguinosa della tragedia di ieri. Come scriveva Max Horkheimer, «di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (Lo Stato autoritario). Pessimismo cosmico? No, pessima è la realtà. Intanto, non pochi italiani di cultura ebraica, seguendo da casa gli eventi di Rosarno, hanno istintivamente portato la mano alla cintura, alla ricerca della metaforica pistola. A Rosarno, però, ha sparato un fucile vero, contro i «negri», i quali hanno avuto il cattivo gusto di arrabbiarsi, a casa d’altri!

Tutti: Stato, Regione, Comune, Magistratura, Sindacati, partiti politici, Chiesa, cosiddetti intellettuali, popolazione interessata, opinione pubblica; tutti hanno chiuso un occhio, anzi due, per amore dell’impresa italiana, soprattutto di quella meridionale, tradizionalmente cagionevole e bisognosa di tutele particolari, financo straordinarie. Nella competizione capitalistica internazionale non c’è posto per le anime belle, peraltro silenti fino alle esplosioni delle magagne, come ha ironicamente fatto osservare Vittorio Feltri, il quale almeno non affetta quell’aria perennemente indignata che rende ai miei occhi particolarmente antipatici i reazionari di «sinistra», i progressisti. Chi ha detto e scritto che in molte zone del Mezzogiorno «lo Stato non esiste» finge di non capire che il lasciar fare, il lasciare andare è stata una sapiente politica adottata dalle classi dirigenti di questo Paese dall’Unità d’Italia in poi; una società, quella venuta fuori dal Risorgimento, piena di contraddizioni già incancrenite da tempo, difficili da governare con gli standard politici, istituzionali e «morali» vigenti negli altri paesi occidentali. Ciò che all’occhio del superficiale e dell’amante dell’ordine appare come «assenza dello Stato», in realtà non è che una strategia politica di controllo sociale che le classi dirigenti hanno saputo mettere da parte tutte le volte che le magagne hanno superato il livello di guardia. Altro che mancanza dello Stato! Certo, per alcuni lo Stato non è mai abbastanza presente e repressivo, e certi tizi si dispiacciono di non poterselo portare anche a letto: che libidine… il manganello al letto…

Improvvisamente, un giorno di gennaio del 2010 tutti hanno “scoperto” l’esistenza del lavoro schiavistico nel XXI secolo, e in un Paese che nel suo piccolo rappresenta ancora la crema della civiltà Occidentale (leggi: capitalistica). Passi per la Cina, per l’India, per il Bangladesh; d’altra parte, occhio che non vede… E poi, per i cittadini più sensibili – e danarosi –, c’è sempre la possibilità dell’adozione a distanza dei bimbi dei diseredati, che fa tanto solidarietà – e, soprattutto, scarico di coscienza. Ma vedere quell’estremo sfruttamento in Italia! E tutti hanno improvvisamente “scoperto” che il nero popolo dell’abisso precipitato nell’inferno di Rosarno (provincia del mondo, non solo di Reggio Calabria) viveva in condizioni a dir poco rivoltanti. Al confronto, gli schiavi «classici» dell’antichità godevano, se così posso esprimermi, di uno status sociale più «dignitoso», se confrontato con quello degli schiavi salariati cacciati da Rosarno, non foss’altro per il fatto che i primi, a differenza dei secondi, costituivano un investimento prezioso per il proprietario terriero, uno strumento di lavoro da far durare il più a lungo possibile. Oggi lo schiavo salariato «negro» vale così poco sul mercato, che quando il capitale non sa più che farsene lo caccia senz’altro dalla gleba, allestendo nel giro di ventiquattrore pogrom postmoderni e deportazioni coi fiocchi, con tanto di giornalisti e cameraman al seguito. Anche il prossimo sterminio di massa finirà in prima serata? Già i massmediologi si interrogano, mentre il più pratico e solerte Bruno Vespa ha commissionato il plastico di una camera a gas; non si sa mai, la concorrenza mediatica è forte e non bisogna lasciarsi fregare dagli eventi.

Certo, gli schiavi dei nostri tempi godono di grande libertà, compresa quella di crepare di fame e di accettare salari sempre più infami, in attesa della prossima provocazione che li spingerà a mostrarsi al cinico occhio dell’opinione pubblica nazionale nei panni del solito branco di «negri» violenti, nonché sporchi, cattivi e ingrati (pure!), e perciò senz’altro meritevoli di venir deportati da un posto all’altro, da un inferno all’altro, fino al giorno della soluzione finale, che non necessariamente prevede l’uscita dei «negri» dai camini. Anche perché bisognerebbe fare i conti con l’impatto ambientale della faccenda; occorrono strategie socialmente più sostenibili. «Ma non sarebbe meglio, più giusto, più umano, aiutarli a casa loro?», domandano i «leghisti di fatto» di Rosarno. «Certo che è meglio!», risponde la leghista di diritto eletta a Lampedusa, nelle cui stupende acque non s’era mai vista tanta abbondanza di pesci. «Vuoi vedere che al pesce piace il negro?»: è una delle battute più gettonate nell’estrema propaggine del Bel Paese. Quanta cinica verità, in quelle odiose parole.

Come riemergere dall’abisso dentro il quale è precipitata l’intera umanità? Inutile coltivare facili illusioni, anche perché abbiamo imparato a sopravvivere in quell’abisso, al punto che non lo esperiamo più come tale. Abbiamo imparato a dare del «tu» persino all’orrore. Non ci sono soluzioni facili, purtroppo. Solo per non continuare a precipitare, per resistere a ulteriori sprofondamenti, i lavoratori d’ogni colore, sesso, religione e quant’altro dovrebbero coalizzarsi in nuovi organismi del tutto autonomi rispetto agli attuali sindacati nazionali, veri e propri strumenti di dominio nelle mani del capitale e dello Stato. E dovrebbero dichiarare subito guerra alla politica delle compatibilità. «Ma così il sistema delle imprese italiane andrebbe a quel paese!», rispondono tutte le persone che hanno a cuore l’interesse nazionale. E hanno perfettamente ragione. Infatti, si tratta di scegliere tra il Sacro interesse nazionale – che da sempre esprime l’interesse delle classi dominanti – e il più profano interesse delle classi dominate, le cui condizioni di lavoro e di vita peggiorano sempre di nuovo, compromesso dopo compromesso, «senso di responsabilità» dopo «senso di responsabilità», «compatibilità» dopo «compatibilità», avendo come loro limite inferiore l’esistenza dei «negri» e dei «gialli». E questo non a causa della cattiva volontà politica di qualcuno, come ci dicono i progressisti di tutto il mondo da circa un secolo a questa parte, ma in grazia dell’intima e incoercibile natura del dominio sociale vigente. E’ vero, «il pesce puzza dalla testa», come dicono i meridionali, ma qui la testa non è il Berlusconi di turno, ma il capitale, il vero soggetto attivo di questa epoca storica, il mostro che tutti i santi giorni ci ingiunge di guadagnarci in qualche modo la metaforica (ma per qualcuno ben reale!) pagnotta: chi sfruttando il lavoro degli altri, chi lavorando, chi rubando, chi trafficando in droga e armi, e così via, lungo la quasi infinita filiera del profitto e del denaro.

Le chiacchiere sulla «volontà politica» stanno a zero e hanno il solo significato di ingannare le classi dominate, le uniche che potrebbero rimettere in moto la storia. «Ma siamo tutti sulla stessa barca: se affonda il capitale affonda pure il lavoro!» Qui occorre fare una quasi insignificante precisazione: col capitale affonderebbe il lavoro salariato, il lavoro nella sua attuale forma di merce che valorizza altra merce, non il lavoro tout court, che è un dato inestinguibile della prassi sociale umana.

Non sono così ingenuo da pensare che la comunità dell’uomo in quanto uomo sia dietro l’angolo, e anzi so benissimo che l’attualità del dominio oggi annichilisce la possibilità della liberazione. Ma ho anche capito che «La smisurata dimensione del potere diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità» (M. Horkheimer). Invito a guardare da questa prospettiva anche il prezioso lavoro politico teso a diffondere presso i lavoratori la necessità e l’urgenza dell’autorganizzazione, contro la micidiale «logica» della delega e delle compatibilità. È, a mio modesto avviso, la sola prospettiva che può dare coerenza e forza a quell’impegno, che può renderlo fino a un certo punto immune alle astutissime strategie del dominio.