SE QUESTO CAPITALE È UMANO

Se, quindi, applico il nome di Capitale nella
convinzione che “semper aliquid haeret”,
ho dimostrato che l’esistenza del capitale è
un’eterna legge di natura della produzione
umana, e allo stesso modo potrei dimostrare
che Greci e Romani facevano la comunione
perché bevevano vino e mangiavano pane.
Karl Marx

La forza-lavoro di un uomo consiste
unicamente nella sua personalità vivente.
Karl Marx

Con questo scritto mi propongo di offrire un contributo alla critica dell’odioso concetto di “capitale umano”. Si tratta di un contributo particolare, occasionale, direi, perché nasce dal mio ennesimo studio della teoria del valore-lavoro. In effetti, non ho fatto che mettere insieme con un certo criterio, spero non del tutto… scriteriato, i miei appunti di studio per colpire criticamente il concetto e la miserabile “filosofia” del capitale umano. Purtroppo non ho avuto modo di rivederne la stesura e quindi mi scuso con i lettori per gli errori formali e sostanziali, nonché per le ripetizioni che certamente troveranno.

1.
Il “capitale umano” è oggi definito e misurato generalmente in due modi, secondo due diverse accezioni: come costo di produzione (formazione scolastica e professionale, spese sanitarie, ecc.) di ogni singola capacità lavorativa e come sua capacità di creare reddito nel corso della vita. La prima definizione/misurazione ci invita a riflettere sulle spese che una società deve affrontare per dotarsi di un “capitale umano” che sia in grado di contribuire alla formazione della ricchezza sociale e al benessere generale della “collettività”; la seconda orienta l’attenzione sul reale potenziale economico (sulla capacità di generare reddito) di ogni singola e particolare forza lavoro. Ovviamente i due punti di vista si intergrano perfettamente tra loro e insieme realizzano le facce di una stessa – e a mio avviso assai escrementizia – medaglia.

«Il Dipartimento of Economic Affaire delle Nazioni Unite (United Nations, 1953) definì investment in human capital l’investimento compiuto per accrescere la produttività della forza lavoro: la produzione futura di una paese può essere sviluppata non solo attraverso l’accrescimento degli stock fisici di capitale, ma anche attraverso investimenti in educazione, formazione professionale, politiche di immigrazione, acquisizione di conoscenza, miglioramento della salute dei lavoratori e degli altri fattori intangibili che accrescono la produttività del fattore lavoro (miglioramento degli standard sociali e familiari, sviluppo di politiche per l’immigrazione) (1). Qui siamo alla definizione del capitale umano secondo la prima accezione, ossia come costo di produzione della risorsa lavoro. Veniamo adesso alla seconda accezione.

Per stabilire orientativamente la misura del “capitale umano” individuale, il Progetto Human Capital dell’Ocse applica il calcolo del lifetime labour, il quale tiene conto dei seguenti parametri: salario netto orario di un individuo con un una certa istruzione di base, la sua età (e la sua “prospettiva di vita”), la sua «quota di tempo libero», il tempo che egli dedica alla «produzione familiare». Basandosi su un simile approccio, in uno studio di qualche anno fa dedicato al «valore monetario attribuibile allo stock del capitale umano», l’Istat stimò in 342mila euro il valore monetario annuo del «capitale umano di ciascun italiano» in età lavorativa (15-64 anni). Complessivamente «Il valore dello stock totale di capitale umano è di circa 13.475 miliardi di euro, cioè un valore quasi 2,5 volte superiore al capitale fisico netto del nostro Paese e oltre otto volte superiore al Pil» (2). A questo punto sorge abbastanza spontanea la domanda: come impatta concretamente sull’economia italiana questo enorme «valore dello stock totale di capitale umano»? A occhio, come si dice, c’è qualcosa che non quadra in tutto questo ragionamento sullo «stock del capitale umano». In ogni caso abbiamo visto che secondo la “scienza economica” il capitale umano ha un costo non indifferente e può, d’altra parte, rivelarsi come una fondamentale risorsa economica, e non solo economica, considerato che una continua “accumulazione” di capitale umano migliora l’ambiente sociale considerato nel suo insieme. Infatti, «È diffusa la convinzione che l’accumulazione di capitale umano sia oggi fondamentale per sostenere la crescita economica e per rafforzare la coesione sociale» (3).

L’investimento aziendale e sociale in capitale umano si configura insomma come un investimento altamente redditizio, e ciò si accorda perfettamente con la “logica” capitalistica della massima profittabilità.

2.
La “filosofia” che informa il discorso sul capitale umano mira a instillare in chi vive del proprio lavoro la convinzione che egli è un imprenditore di se stesso, un portatore di capacità professionali di cui deve aver cura con la stessa scrupolosa dedizione con cui un imprenditore si prende cura della sua azienda. Secondo questa “filosofia”, dal punto di vista concettuale non ci sarebbe alcuna differenza fondamentale tra chi detiene e investe il capitale umano, e chi ha il monopolio del capitale fisico delle imprese: sempre di un capitale da investire e da mettere a valore si tratterebbe. Il capitale umano non è una risorsa immutabile che il lavoratore può investire sempre allo stesso modo, e ciò vale soprattutto oggi, nell’epoca della rapidissima obsolescenza di prodotti, tecnologie, professioni e “abiti mentali”. Com’è noto, il concetto di “posto fisso” ha i secondi contati, e analogo discorso si può fare con quello di professione fissa. In effetti, oggi non è solo la struttura tecnico-organizzativa di un’impresa a dover fare i conti con un’obsolescenza sempre più rapida e precoce delle tecnologie, ma lo stesso destino capita in sorte al “capitale umano”, il cui «logorio morale» è tra le cause più importanti della debolezza politico-sociale dei lavoratori dei nostri tempi.

Lo “stock di capitale umano” va insomma rinnovato, accumulato e riprodotto sempre di nuovo, esattamente come lo stock di capitale che l’imprenditore investe nei fattori della produzione. Responsabilizzare il lavoratore intorno al “capitale umano” che egli incarna significa dunque farlo sentire partecipe tanto dei successi quanto degli insuccessi dell’impresa che oggi lo ha assunto e che domani potrebbe licenziarlo, magari proprio perché egli non è riuscito a valorizzare adeguatamente le sue capacità professionali o perché ha trascurato di aggiornarle. Lo Stato e le imprese investono sempre più risorse finanziarie nei programmi di formazione continua e permanente dei lavoratori, e la società si aspetta da essi la serietà che si deve alle attività costose e rivolte al “bene comune”.

Scrive l’economista Franco Debenedetti sul Corriere della Sera: «Tre anni dopo, il datore di lavoro avrà conoscenza più approfondita del suo “avventizio”, non necessariamente maggiore visibilità sulle future condizioni economiche della sua azienda, che gli potrebbero consentire l’assunzione a tempo indeterminato. Anche l’”avventizio” sa che alla fine del periodo di prova ci sarà uno scalino, che verrà presa una decisione sul suo futuro, dentro o fuori; per lui il periodo di prova sarà un periodo di incertezza, vivrà nel dubbio se investire il proprio capitale umano. Se questa non è precarietà, che cosa lo è?». Insomma il «datore di lavoro» e il suo «avventizio» vivrebbero la stessa condizione di precarietà, che si manifesta soprattutto come incertezza nell’investimento dei rispettivi capitali.

Sentenziava il Premio Nobel per l’Economia Gary Becker qualche anno fa: «Il successo e la crescita saranno in quei Paesi che sapranno investire nei propri cittadini. Perché il capitale umano è sempre più importante; perché non basta possedere petrolio e materie prime per prosperare; perché le persone e non le risorse o le macchine determinano già, ma lo faranno sempre di più, la nostra ricchezza. Questa è la mia visione dell’umanità: le persone sono importanti. […] Il XXI secolo segnerà la rivoluzione del capitale umano e la conoscenza sarà – è già – il fondamento di ogni aspetto della vita umana». Quanta umanità, signor Becker! Anche troppa, visto che stiamo parlando di Capitalismo, sempre che nel frattempo la «rivoluzione del capitale umano» non abbia mutato a mia insaputa il regime sociale mondiale. A occhio, sembra proprio di no. Ebbene, di pochissime cose sono certissimo, e fra queste spicca soprattutto quella che segue: la società capitalistica è intrinsecamente e necessariamente disumana, ed è per questo che la locuzione capitale umano mi appare come un odioso ossimoro che cela una condizione sociale/esistenziale degli individui che grida vendetta al cospetto della splendida possibilità di emancipazione che essi non riescono a vedere, sebbene essa abbia oggi le dimensioni di un intero mondo. È la tragedia dei nostri tempi.

A questo punto mi sembra quasi superfluo aggiungere che la “filosofia” del capitale umano trasuda menzogna e disumanità da tutti i pori.

3.
Ognuno investe il capitale di cui dispone: chi ha denaro investe denaro in una qualsiasi attività o affare per ricavarne un legittimo profitto, e chi è meno fortunato e possiede solo capacità lavorative di qualche tipo, investe questo particolare capitale per ricavarne un salario, uno stipendio, un reddito: che cosa c’è di sbagliato in questo più che realistico ragionamento?  Provo a rispondere con questa osservazione che ovviamente ricavo direttamente da Marx: il lavoratore non investe il proprio “capitale umano”, ma lo aliena (lo vende, lo scambia) contro denaro. Detto altrimenti, il lavoratore vende merce, non investe capitale – più o meno “umano”. Di più: è lo stesso lavoratore, e non solo il suo lavoro, ad assumere nella nostra società la forma (la natura) di merce. E questo lo avevano già capito gli economisti “classici” che dalla fine del XVII secolo in poi iniziarono a interrogarsi sulla natura della ricchezza sociale in regime capitalistico, un regime che nel frattempo ha assunto una connotazione economico-sociale che fa impallidire, quanto a dominio capitalistico, la società che conobbe la prima rivoluzione industriale. Dalla sottomissione formale del lavoro al Capitale siamo passati a quella reale di cui parlò Marx, e da questa ha poi preso corpo, come una mostruosa e gigantesca creatura, la sottomissione totale e totalitaria del lavoro e della natura al Capitale, la cui odierna dimensione mondiale fa sì che la sua realtà corrisponda esattamente, e marxianamente, al proprio concetto.

Ai tempi di William Petty (4), di François Quesnay, di Adam Smith e David Ricardo il grano era il bene di consumo di gran lunga più importante nella dieta delle classi subalterne («alimento della gente comune»), e quindi nel paniere dei cosiddetti beni-salario esso occupava un posto specialissimo: di qui l’interesse degli economisti “classici”, espressione teorica dei ceti borghesi in rapida ascesa, per il prezzo del grano, bene appunto di larghissimo consumo da essi assunto a rappresentare l’insieme dei prodotti agricoli. Un prezzo realisticamente basso del grano naturalmente realizzava le condizioni per disporre di una manodopera a buon prezzo. La creatura che mangia grano: questa definizione forse si attaglia bene all’idea che quegli economisti avevano del lavoratore. Scriveva Adam Smith: «La ricompensa reale del lavoro è la quantità di cose necessarie e comode della vita che essa può procurare al lavoratore.  Se i salari sono alti, troveremo che gli operai sono più attivi, diligenti e svegli di quando i salari sono bassi» (5).

In realtà furono i fisiocratici francesi, teorici della produzione agricola come unica fonte del «produit net» (o sovrappiù, insomma del profitto), a porsi il problema di come realizzare un «bon prix» per il grano; essi giunsero alla conclusione che bisognava liberalizzare il commercio del grano, aprendo il mercato nazionale all’importazione del grano, quantomeno tutte le volte che una cattiva annata nella produzione di quella merce ne alzava eccessivamente il prezzo, facendo con ciò stesso salire anche quello del lavoro, ossia il salario. Più che di una teoria del valore-lavoro, qui abbiamo a che fare con una teoria del grano-valore. In realtà la scuola fisiocratica (Mirabeau, Quesnay) non elaborò mai una teoria del valore, e questo semplicemente perché, considerando la ricchezza sociale sotto il suo aspetto puramente fisico, ossia come ammasso di prodotti del lavoro, essa non riuscì a trovare una misura omogenea del valore in grado di rendere commensurabili fra loro le diverse merci. I fisiocratici non si interessarono dunque della formazione genetica dei prezzi, della loro origine, ma si limitarono piuttosto a prendere empiricamente atto della loro esistenza sul mercato. Per loro il valore di una merce si identificava senz’altro con il loro prezzo di mercato, il quale costituiva il punto di partenza della loro riflessione sulla distribuzione del prodotto annuo del lavoro. Ciò premesso, non c’era spazio per una spiegazione teoricamente fondate circa la formazione del prodotto netto, ossia di quella parte del prodotto annuo che toccava ai proprietari terrieri e, attraverso la loro mediazione, ai fittavoli.

Oltre a liberalizzare il commercio estero del grano (bene di consumo ritenuto strategico anche ai fini della sicurezza nazionale: nutrire l’esercito in caso di guerra), i fisiocratici si schierarono contro la creazione dei monopoli nell’attività manifatturiera, attività che essi consideravano peraltro «sterile» ai fini della creazione del «prodotto netto», e quindi un mero costo di produzione che gravava sulla classe produttiva, ossia sui proprietari terrieri, sugli affittuari (conduttori capitalistici) e sui salariati agricoli.

4.
«Per la nostra azienda il capitale umano rappresenta la risorsa più preziosa da mettere a valore, e quindi investiamo molto nella formazione continua del nostro personale»: quante volte abbiamo letto o ascoltato questa commovente confessione? Certamente moltissime volte, perché l’apologia del cosiddetto capitale umano, esibita anche, se non soprattutto, dall’establishment  politico e culturale della società, è uno dei più importanti tratti distintivi della nostra epoca, la quale mentre mostra una crescente preoccupazione per ciò che riguarda l’«accumulazione del capitale umano», realizza  una svalutazione sempre più accelerata della nostra esistenza in quanto esseri – semplicemente e puramente – umani. Le due cose stanno insieme benissimo e, come abbiamo detto, in una necessaria relazione. Da una parte, dunque, l’apologia del capitale umano, dall’altra la negazione dell’umano – e la svalorizzazione del lavoro causata dalla “globalizzazione capitalistica” che mette in diretta concorrenza i nullatenenti di tutto il mondo.

In questo scritto la poco gratificante definizione di nullatenente è usata in un’accezione niente affatto moralistica ma schiettamente “scientifica”: il nullatenente è chi non avendo la proprietà dei mezzi di produzione, non possiede nemmeno la proprietà delle merci che gli occorrono per vivere. Ritornerò su questo fondamentale concetto.

«Considerando che la capacità di una società di produrre i beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni dipende dalla quantità, qualità e combinazione delle risorse a propria disposizione, il capitale umano viene sempre più frequentemente incluso tra le risorse economiche, insieme all’ambiente e al capitale fisico, soprattutto nelle analisi sulla sostenibilità dello sviluppo» (6).

Già parlare degli uomini in termini di risorse economicamente rilevanti, la dice lunga sulla natura di questa società, la cui logica ruota ossessivamente intorno all’imperativo categorico della massima profittabilità: di un’iniziativa, di un investimento, di un impegno, di un evento: di qualsiasi cosa, e quel concetto “gira” a meraviglia, a pieno regime, ben oltre il puro ambito economico, nel cui seno peraltro esso trova il suo più autentico e paradigmatico significato. Iniziamo ad avvicinarci al focus della questione osservando, sempre sulla scorta di Marx, che la società di cui qui si parla, cioè la società capitalistica, non produce generici «beni e servizi necessari a soddisfare i propri bisogni», ma merci prodotte esclusivamente per ricavare dalla loro vendita un profitto, e infatti la sola domanda di un bene che nella nostra società ha un significato economico (ha razionalità) è quella in grado di pagare: senza denaro i bisogni umani rimangono incapaci di soddisfazione. La forma-merce è il prodotto più caratteristico del Capitalismo, e il suo valore – o funzione – d’uso ha una sua rilevanza economica solo perché nel corpo della merce è contenuto un valore che attende di venir realizzato, ossia monetizzato attraverso lo scambio. Non i bisogni degli individui, ma la ricerca del profitto è il cuore pulsante della nostra società, tant’è vero che le crisi economiche sorgono non perché quei bisogni non sono stati soddisfatti, ma perché non sono state soddisfatte le condizioni che rendono profittevole la produzione di «beni e servizi». Come scriveva uno che se ne intendeva (sempre quello), «il processo lavorativo non è che mezzo al fine del processo di valorizzazione». Tutto ruota intorno al profitto, non ai bisogni del consumatore, come la scienza del marketing è così abile a far credere a un’opinione pubblica sempre più bisognosa di illusioni a buon mercato e di rassicurazioni d’ogni tipo.

5.
Il dizionario economico della Treccani dà la seguente definizione di capitale umano: «Insieme di capacità, competenze, conoscenze, abilità professionali e relazionali possedute in genere dall’individuo, acquisite non solo mediante l’istruzione scolastica, ma anche attraverso un lungo apprendimento o esperienza sul posto di lavoro e quindi non facilmente sostituibili in quanto intrinsecamente elaborate dal soggetto che le ha acquisite. Pur non potendo essere misurate univocamente, le componenti del c. u. determinano tuttavia la qualità della prestazione erogata dal detentore, concorrendo ad aumentare la produttività di un’impresa e a qualificarla, influenzandone i risultati».

Fin qui si tratta di una definizione abbastanza generica del concetto in questione, mentre molto più interessante, ai fini della nostra intenzione critica, appare quest’altra caratterizzazione, sempre presa dallo stesso testo: «Capitale umano come patrimonio dell’impresa. Investire in c. u. significa, da parte di un’azienda, curare la formazione professionale e tecnica dei propri dipendenti; così come disperdere, sprecare un rilevante c. u. corrisponde a una utilizzazione solo parziale, malaccorta o improduttiva delle conoscenze e competenze dei propri collaboratori. In questo senso, il c. u. si riferisce anche all’insieme di quelle capacità e abilità che consentono l’ottenimento di un reddito da parte dell’individuo che le possiede. Il reddito percepito dagli individui in cambio della prestazione dei loro servizi è pertanto interpretato come remunerazione del loro c. umano. Le spese destinate all’accrescimento delle conoscenze, capacità e abilità (per es., le spese destinate all’istruzione) degli individui sono investimenti in c. umano. Si stabilisce così una particolare analogia fra c. u. e c. non umano (attrezzature e impianti). Gli investimenti in c. u. sono destinati ad accrescere la capacità produttiva e i redditi degli individui; gli investimenti in c. non umano sono finalizzati all’incremento delle capacità produttive e dei redditi delle imprese. Resta tuttavia fondamentale la differenza, per quanto concerne i titoli di proprietà, di questi due tipi di capitale. Il c. u. può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita; il titolo di proprietà del c. non umano può essere invece oggetto di scambio sul mercato». Messe le cose e i concetti nei loro giusti termini, fino a che punto nei passi appena citati troviamo una descrizione sufficientemente adeguata del rapporto sociale capitalistico? Soprattutto invito a riflettere su questo passo: «Il c. u. può essere posseduto solo dall’individuo in cui esso è incorporato e non è alienabile tramite compravendita».

6.
Tutto questo discorso mi conduce, chissà poi perché, a ciò che Marx definì, polemizzando con l’«economia volgare» del suo tempo (cosa dovremmo dire noi, piccoli e modestissimi epigoni del XXI secolo?!), formula trinitaria, la quale «abbraccia tutti i misteri del processo di produzione sociale» (7). Di che si tratta?

Intanto occorre precisare che, in generale, quando parla di «processo di produzione sociale» Marx non intende riferirsi esclusivamente alla produzione immediata delle merci, ma anche alla loro circolazione sul mercato, alla realizzazione (monetizzazione) del loro valore mediante lo scambio, alla trasformazione della massa di denaro ottenuta attraverso le vendite in capitale investito in un nuovo ciclo produttivo e nei più disparati redditi idonei a soddisfare i bisogni delle diverse classi sociali. Tutto questo complesso processo, che si dà in una precisa dimensione spazio-temporale, non crea e realizza solo valori, ma soprattutto afferma e genera sempre di nuovo il rapporto sociale capitalistico: all’inizio e alla fine del processo troviamo sempre da un lato i detentori dei presupposti materiali della produzione/circolazione, che a questo titolo hanno diritto alla proprietà dell’intero prodotto del lavoro; e dall’altro i detentori di mere capacità lavorative, i quali si appropriano di una parte di quel prodotto attraverso la mediazione del salario. Detto in altri termini, da un lato troviamo i funzionari del Capitale, e dall’altra chi per vivere deve alienare giorno dopo giorno le proprie capacità lavorative. Per l’anticapitalista di Treviri la sfera economica è fondamentalmente il luogo nel quale si manifestano e si generano le condizioni oggettive della sottomissione del lavoro salariato al Capitale.

La «trinità economica» cui accennavo sopra occulta questa realtà, la cui rappresentazione sotto i suoi falsi presupposti assume una forma che è «a prima vista molto mistica».

Consideriamola, allora, e seppur rapidamente, questa benedetta formula trinitaria. Per semplificare al massimo le cose credo di poter scrivere queste elementari inferenze: Capitale → profitto (con incorporato interesse); Lavoro → salario; Terra → rendita fondiaria. Il Capitale “secerne” naturalmente il profitto, cioè il reddito dei capitalisti; il Lavoro “secerne” altrettanto naturalmente il salario, ossia il reddito dei lavoratori e, dulcis in fundo, la Terra dà come suo frutto più prezioso la rendita fondiaria, che costituisce il reddito dei proprietari terrieri. Naturalmente le cose non stanno affatto così, e la critica a questo modo di presentare il processo economico-sociale trova preziose pezze d’appoggio nella riflessione dello stesso Adam Smith, che pure, come vedremo,  in quella formula rimase gravemente impigliato.

In primo luogo, osserva Marx, la terra e il lavoro, storicamente considerati, non sempre “secernono” una rendita fondiaria e un salario, e gli stessi mezzi di produzione non sempre sono stati una fonte di profitto. Anzi, solo sotto peculiari condizioni storico-sociali la terra, il lavoro e il capitale possono venir considerati, con qualche rozza (e, come vedremo, fallace) approssimazione, tre fonti di reddito. Come ricorda Adam Smith, «Nella situazione originaria che precede sia l’appropriazione della terra sia l’accumulazione dei fondi [del capitale], tutto il prodotto del lavoro appartiene al lavoratore, che non ha né proprietario fondiario né padrone con cui spartirlo» (8). Se ne ricava che «nella situazione originaria» la comunità umana non ha nemmeno i concetti di profitto, salario e rendita fondiaria, pur conoscendo ovviamente gli strumenti di lavoro, il lavoro e la terra, nonché le “materie prime” da trasformare in beni di consumo in grazia, appunto, del lavoro, «ricambio organico fra uomo e natura» (Marx). È degno di rilievo, sia detto en passant, che il grande economista inglese facesse risalire la nascita del Diritto, inteso nella sua più vasta accezione, all’instaurazione della proprietà, regime economico-sociale che in origine si afferma appunto con l’appropriazione violenta della terra da parte di alcuni a spese degli interessi degli altri, degli espropriati, i quali per vivere si videro costretti a lavorare sotto un padrone. «Il governo civile, in quanto viene instaurato per la sicurezza della proprietà, viene in realtà instaurato per la difesa dei ricchi contro i poveri, cioè di coloro che hanno qualche proprietà contro coloro che non ne hanno alcuna» (9). Anche qui, da una parte i proprietari, dall’altra i nullatenenti. La grande visione storica dei processi economici consentì al moralista (nell’accezione etico-filosofica dell’aggettivo) Smith di afferrare la natura storica e sociale del «governo civile», la cui autentica funzione come cane da guardia dello status quo sociale è celata dalla classe dominante dietro l’ideologia pattizia (contrattualistica). Monopolio della forza (della violenza) e monopolio dei mezzi di produzione/circolazione sono le due facce della medaglia chiamata Dominio.

7.
Compra-vendita della forza-lavoro e suo consumo produttivo; processo lavorativo e processo di valorizzazione; lavoro concreto e lavoro astratto; lavoro oggettivato e lavoro vivo: tutte queste coppie concettuali esprimono, secondo Marx, il reale processo di produzione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, un processo costituito dall’inscindibile unità di produzione e circolazione. Anche la migliore scuola dell’economia politica (Smith e Ricardo, in primis) non fu in grado di cogliere queste fondamentali coppie concettuali, e questo soprattutto perché gli economisti, di ieri e di oggi, vedono solo l’aspetto immediatamente materiale (cosale) della ricchezza sociale e dei fattori che la generano, mentre ciò che davvero conta nella comprensione del meccanismo economico, cioè a dire il rapporto sociale che sta a suo fondamento, è da essi del tutto trascurato, anzi molto spesso negato, e si comprende bene perché. Scrive Marx: «Questa follia, che scambia un certo rapporto sociale di produzione che si presenta sotto forma di oggetti, di cose, per proprietà materiali, naturali di queste stesse cose […] è un metodo molto comodo per dimostrare l’eternità del modo di produzione capitalistico, o per mostrare il capitale come un elemento naturale immutabile della produzione umana » (10). In questo peculiare senso si potrebbe parlare di “capitale umano” in un’accezione ancora più vasta – e apologetica.

Per un verso è del tutto corretto assimilare la compra-vendita che ha come attori il capitalista («come capitale personificato») e il lavoratore («come pura personificazione della capacità lavorativa») a ogni altro atto di scambio che si verifica sul mercato; per altro verso questa assimilazione è del tutto falsa, o quantomeno estremamente superficiale e colpevolmente unilaterale, se si considera la natura particolarissima, si potrebbe dire eccezionale, dell’oggetto di scambio che occupa la scena del mercato del lavoro: la capacità lavorativa, la forza-lavoro. Infatti, si tratta della sola merce esistente in “natura” dal cui consumo l’acquirente si aspetta di ricavarne un plus di valore, un’eccedenza di valore rispetto a quello espresso dal denaro da egli corrisposto per comprarla e accostarla ai mezzi di produzione e alle materie prime da trasformare che già si trovano nel cosiddetto luogo di lavoro, il quale è a tutti gli effetti un luogo di sfruttamento, sia che il salario pagato ai lavoratori è “alto”, sia nel caso contrario. Il concetto stesso di lavoro salariato presuppone e pone sempre di nuovo chi sfrutta e chi viene sfruttato, e il livello salariale misura solo il grado di questo sfruttamento.

«Per dimostrare che il rapporto tra capitalista e operaio non è altro che un rapporto tra possessori di merci che si scambiano vicendevolmente denaro e merce con vantaggio reciproco e mediante un libero contratto, basta isolare il primo processo e pervenire al suo carattere formale. Questo semplice trucco non è stregoneria, ma rappresenta l’intero patrimonio di sapienza dell’economia volgare» (11).

8.
Il lavoro mette al centro la persona: in un certo, particolarissimo, senso questa tesi, che molto piace agli “uomini di buona volontà” di “destra”, di “centro” e di “sinistra”, coglie la verità del processo di produzione della ricchezza sociale.

Dicevamo che dal consumo del lavoro vivo sgorga il plusvalore: non si tratta di una stregoneria o di un arbitrio, ma è la conseguenza di un peculiare rapporto sociale che fa del lavoratore un nullatenente, un «non proprietario», per dirla con Marx; siamo al cospetto di una maledetta condizione sociale (esistenziale, direbbe il filosofo), la quale fa sì che «le condizioni del suo lavoro» gli si ergono dinanzi «come proprietà non sua». La merce alienata dal lavoratore in cambio di un salario non è un oggetto estraneo alla sua persona, ma è la sua stessa persona, la sua stessa soggettività. Premessa della compra-vendita della forza-lavoro è un rapporto sociale che avendo trasformato un essere umano in un nullatenente, lo costringe a vendersi per un tot di ore al giorno a chi è disposto a metterlo nelle condizioni di guadagnarsi da vivere: «sul mercato del lavoro il denaro gli si contrappone continuamente come forma monetaria del capitale» (12). Ecco perché «non è l’operaio che acquista mezzi di sussistenza», ma sono piuttosto questi ultimi che acquistano l’operaio, e possono farlo appunto perché essi non sono che la materializzazione del capitale monetario con cui il capitalista acquista e si porta a casa il lavoro vivo, la capacità lavorativa, insomma un essere umano nella sua peculiare determinazione di lavoratore salariato. «Questa appropriazione è mediata dallo scambio che si svolge sul mercato tra capitale variabile [salario] e capacità lavorativa, ma viene portata a compimento soltanto nel processo produttivo reale» (13). Consolido, per così dire, il concetto marxiano citando l’amico del cuore  Friedrich Engels: «Ciò che gli economisti avevano considerato come costo di produzione del “lavoro”, erano i costi di produzione non del lavoro, ma dello stesso operaio vivente. E ciò che questo operaio vendeva al capitalista non era il suo lavoro [ma] la sua forza-lavoro. Questa forza-lavoro è però unita insieme con la sua persona e inseparabile da essa. I suoi costi di produzione coincidono dunque con i costi di produzione dell’operaio» (14).

In altri termini, lo sguardo che si fissa sulla sfera della circolazione vede solo scambisti interessati ad avere, di volta in volta, chi merce (forza-lavoro), chi denaro (salario), mentre il processo produttivo visto nella sua inscindibile totalità ci mostra l’esistenza non di generici scambisti, ma di classi sociali aventi opposti interessi: classi sociali che sfruttano e classi sociali che vengono sfruttate. «È il capitale, dunque, che impiega l’operaio, non l’operaio il capitale e soltanto le cose che impiegano l’operaio, e perciò possiedono un’esistenza autonoma, una coscienza propria ed una propria volontà nel capitalista, sono capitale» (15). Ha dunque un senso, che non sia meramente ideologico, parlare di “capitale umano”?

Intanto fissiamo per l’ennesima volta e portiamo a casa un fondamentale, quanto maligno, concetto: «Ciò che l’operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista. […] Se fosse permesso all’uomo di vendere la sua forza-lavoro per un tempo illimitato, la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita» (16). Dai tempi di Marx la potenza disumana del Capitale ha enormemente ampliato la dimensione mercantile (mercificata) dell’esistenza umana, e non solo di quella del lavoratore; mi riferisco naturalmente all’ambiente economico-sociale reso possibile dalle tecnologie cosiddette intelligenti, le quali trasformano in preziose “merci virtuali” ogni nostro respiro emesso sul Web. Anche qui, il pensiero superficiale (reificato) si concentra feticisticamente sulla natura pervasiva e invasiva della cosiddetta Intelligenza Artificiale, mentre gli sfugge la natura sociale del problema: “intelligente” non è la cosa tecnologica ma il Capitale che la genera per forzare sempre di nuovo i limiti della profittabilità, per fare di qualsiasi attività umana, anche di quella che non sembra avere nulla a che fare con la prassi economica, in un’occasione di profitto. Molte persone professionalmente assai qualificate sono stipendiate dal Capitale per trovare nuove possibilità di mercificazione dello “spazio umano”, che infatti diventa sempre più disumano.

Scriveva Marx in un appunto del 1849 (praticamente nella preistoria!): «L’attività umana = merce. L’estrinsecazione della vita umana – l’attività vitale si presenta come semplice strumento; l’esistenza separata da questa attività come fine» (17). Ebbene, quelle parole che 170 anni fa potevano suonare esagerate all’orecchio della stragrande maggioranza della gente, aderiscono perfettamente al Capitalismo del XXI secolo, al punto da suonare al nostro capitalistico orecchio perfino banali: «Ma lo sanno tutti che ciò che davvero conta nella vita è il denaro, sai che novità!».

Lo stesso anno Marx scriveva: «La crescente concorrenza tra gli operai va perdendo il suo carattere locale. […] Il salario dipende sempre più dal mercato mondiale» (18). Già ai tempi dell’Ideologia tedesca (1845) il comunista di Treviri aveva capito che la dimensione geosociale adeguata al concetto di Capitale è il mondo intero. Non si tratta – solo – di genialità; si tratta soprattutto di una profonda comprensione del rapporto sociale capitalistico. «Notiamo marginalmente che, una volta afferrato il significato del rapporto tra capitale e lavoro, tutti i tentativi di compromesso appaiono in tutta la loro ridicolaggine» (19). Qui la lancia critica marxiana era puntata contro i riformatori sociali del passato – del presente e del futuro. Ma chiudiamo la breve parentesi “profetica” e riprendiamo il filo del discorso – sempre che questo discorso ne abbia uno!

9.
«L’apparenza ingannevole delle cose» che il mercato genera continuamente fa sì che chi osserva l’atto di compra-vendita tra lavoratore e capitalista è indotto a credere che tutto il lavoro erogato dal lavoratore verrà pagato, mentre le cose, come già siamo in grado di intuire, non stanno affatto così, e anzi in regime capitalistico non possono stare così, necessariamente. Ciò che infatti il capitalista paga con il salario è solo una parte della giornata lavorativa, un x di ore che corrisponde al valore oggettivato nei beni-salario di cui il lavoratore necessita per vivere e per rigenerarsi come tale; è la parte della giornata lavorativa che Marx chiama necessaria, ossia indispensabile alla vita del lavoratore. Alla fine di questa parte della giornata lavorativa inizia la parte che non riceve alcun pagamento da parte del capitalista, e che per questo Marx chiama superflua dal punto di vista del lavoratore. Ebbene, è proprio questa parte eccedente che crea il plusvalore, e infatti storicamente il Capitale cerca sempre di accorciare la parte necessaria della giornata lavorativa e di allungare quella superflua, a volte lo fa in modo assoluto, cioè allungando senz’altro la giornata lavorativa, altre volte lo fa in termini relativi, attraverso l’impiego di tecnologie e l’implementazione di forme organizzative che accrescono la produttività di ogni singolo lavoratore a parità di giornata lavorativa, o addirittura con una più corta giornata di lavoro, e ne svalorizzano il valore rendendo più a buon mercato i mezzi di sussistenza di cui egli ha bisogno.

Scrive Marx: «La parte pagata e la parte non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e la natura di tutto questo procedimento è completamente mascherato dall’intervento del contratto e dalla paga che ha luogo alla fine della settimana»(20), o del mese. Ovviamente nessuno sa quando (a che ora) finisce la parte pagata e quando (a che ora) inizia la parte non pagata della giornata lavorativa, e anzi né il lavoratore né il capitalista hanno la benché minima coscienza di questa “strana” distinzione temporale (anche se spesso entrambi si comportano come se intuissero qualcosa): il primo crede di ricevere un salario più o meno “giusto”, e il secondo crede giusto aggiungere un “onesto” profitto alle spese da lui sostenute per produrre un bene idoneo a soddisfare un bisogno dei consumatori.

In realtà accade che «una quantità minore di lavoro oggettivato [nei mezzi di sussistenza] viene scambiato contro una quantità maggiore di lavoro vivo, poiché ciò che il capitalista riceve realmente in cambio del salario è lavoro vivo» (21).

Lo scambio Capitale-Lavoro che si dà sul mercato del lavoro appare uno scambio come tutti gli altri perché anche nel caso della compra-vendita di capacità lavorative si scambiano equivalenti. Infatti, il salario che il lavoratore riceve dal capitalista equivale al valore di scambio oggettivato nelle merci che il primo consuma per rinnovare sempre di nuovo la propria capacità di lavoro. Detto più correttamente, il salario rappresenta la forma monetaria del valore di scambio oggettivato nei mezzi di sussistenza che il salariato consuma per vivere e riprodursi in quanto salariato. Il capitalista intasca un profitto non perché paga al suo lavoratore un salario inferiore al saggio medio salariale fissato magari da un Contratto Nazionale del Lavoro, ma semplicemente perché ne usa la capacità lavorativa, come d’altra parte appare ovvio che debba fare: nessuno compra una merce per poi gettarla! Pagandolo al disotto di quel saggio medio il capitalista può certamente sperare di intascare un profitto extra, che si aggiunge a quello “normale” (medio-sociale), ma questo non muta di un solo atomo la qualità del rapporto di scambio Capitale-Lavoro. Come già sappiamo, il concetto di sfruttamento è immanente al concetto stesso di lavoro salariato, e prescinde completamento dalla quantità di salario corrisposta al lavoratore, ed è per questo che gli adoratori del “mitico” Articolo 1 della Costituzione Italiana si rendono artefici di un’odiosa apologia di questo regime sociale fondato sulla sottomissione totale dei nullatenenti al Capitale. «Invece della parola d’ordine conservatrice: “Un equo salario per un’equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”» (22). Detto altrimenti, soppressione del rapporto sociale capitalistico, superamento rivoluzionario della Società-Mondo fondata su quel disumano rapporto sociale.

Scriveva Adam Smith: «I salari correnti del lavoro dipendono ovunque dal contratto che comunemente si conclude tra queste due parti i cui interessi non sono affatto gli stessi. Gli operai desiderano ricevere il più possibile, i padroni dare il meno possibile. I primi sono propensi a coalizzarsi per elevare il salario, i secondi per diminuirlo. Non è comunque difficile prevedere quale delle due parti in una situazione normale dovrà prevalere nella contesa, costringendo l’altra ad accettare le sue condizioni» (23). Secondo Smith «in una situazione normale» chi incassa profitti ha sempre la meglio su «coloro che vivono di salari». In ogni caso possiamo apprezzare la concezione smithiana della compra-vendita di capacità lavorative come una contesa «tra queste due parti i cui interessi non sono affatto gli stessi», e ciò tanto più in un’epoca –  la nostra – in cui il pensiero dominante non fa che venderci la menzogna del «siamo tutti nella stessa barca, e se la barca affonda crepiamo tutti». Non è affatto vero: se la barca capitalistica affonda l’umanità può benissimo costruire una nuova e più splendida barca. Volere è potere! Ma l’umanità non vuole: che peccato!

10.
Come abbiamo accennato, uno dei maggiori acquisti concettuali che la teoria del valore-lavoro fa con Ricardo è quello di aver sempre considerato la quantità di lavoro, misurata in termini di tempo dispiegato produttivamente dal lavoratore, e non il valore del lavoro incorporato nei beni-salario, come ciò che rende commensurabili e scambiabili fra loro le merci «a seconda che contengano più o meno di questa sostanza» (Marx). Tuttavia egli non approfondì oltre il significato di questa fondamentale acquisizione, perché il suo pur geniale pensiero scientifico rimase impigliato nella concezione che intende la merce solo nella sua realtà fisica (si tratta del materialismo volgare/borghese tanto disprezzato dal materialista storico-sociale di Treviri), e ciò ebbe come necessaria conseguenza la sua incomprensione circa «la connessione esistente fra questo lavoro e il denaro, né la necessità che il lavoro si rappresenti come denaro. […] Donde la sua falsa teoria del denaro» (24). Questo fondamentale limite concettuale è peraltro riscontrabile negli economisti e nei riformatori sociali attivi ai tempi di Marx (vedi Proudhon), i quali pensavano di poter abolire il “demoniaco” denaro senza minimamente toccare la forma merce, ossia la fonte “naturale” del denaro in regime capitalistico. Si può eliminare l’effetto senza eliminarne la causa? Ovviamente no, quantomeno in una dimensione non quantistica della realtà… Per dirla marxianamente, la merce trasuda denaro da tutti i pori.

Marx mostrò nella Miseria della filosofia (1847) e più compiutamente nella Critica dell’economia politica (1859) come attraverso complesse ma verificabili mediazioni reali e concettuali fosse possibile giungere alla definizione del denaro come la più compiuta espressione del lavoro astratto, o lavoro medio sociale che dir si voglia. Non è un caso che egli rimproverò a Ricardo (e ai suoi epigoni più o meno dichiarati e degni di cotanto maestro) un grave “deficit dialettico”, «perché salta termini medi necessari e tenta di mostrare in maniera immediata la concordanza delle categorie economiche» (25). Nella comprensione del processo capitalistico di produzione della ricchezza sociale le mediazioni, reali e concettuali, sono tutto: la loro presa d’atto da parte del pensiero fa la differenza tra una comprensione davvero profonda (radicale) del meccanismo sociale capitalistico e una sua conoscenza solo superficiale, e quindi suscettibile di smottamenti ideologici e di “volgarità”. Il più delle volte i critici di Marx saltano a errate conclusioni circa la sua teoria del valore proprio perché prescindono dal considerare i «termini medi necessari», la «grande quantità di termini medi», e preferiscono seguire la strada assai più comoda, quella «di mostrare in maniera immediata la concordanza delle categorie economiche».

Scrive Marx: «Ho già dimostrato che in tutti gli economisti fino ad oggi l’analisi della merce sulla base del “lavoro” è ambigua e incompleta. Non basta ridurre la merce a “lavoro”; bisogna ridurla a lavoro nella duplice forma in cui, da un lato, si presenta come lavoro concreto nel valore d’uso delle merci e, dall’altro, è calcolato come lavoro socialmente necessario nel valore di scambio» (26). Non concependo questa fondamentale distinzione, gli economisti di cui parla Marx non compresero che il processo lavorativo è essenzialmente un processo di valorizzazione che mentre conserva (e “rianima”) il valore passato, aggiunge al prodotto del lavoro un nuovo valore che va a costituire la base del profitto. «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merci, è essenzialmente produzione di plusvalore» (27).

Come lavoro concreto, più o meno qualificato, si tratta di un lavoro che realizza un valore (bene) d’uso anch’esso concreto, particolare: un computer, una lavatrice, un’automobile, un tavolo, insomma: «quel particolare articolo»; come lavoro astrattamente sociale, si tratta di un lavoro la cui sola qualità è la seguente: creare un valore di scambio. Come già detto, a causa del loro rozzo materialismo economico, i teorici del valore del periodo “classico” concepivano il lavoro come somma delle merci idonee a far vivere il lavoratore, somma che si manifestava come prezzo del lavoro, come salario. Nella riflessione economica la natura vivente di questo lavoro non era presa in considerazione.

Il corretto punto di partenza da cui muove la teoria del valore-lavoro non è il valore del lavoro che si esprime nel prezzo del lavoro e quindi nel salario, ma la quantità di lavoro, misurata come tempo di lavoro “erogato”, oggettivata nella merce. Infatti, è il tempo di lavoro che realizza il valore della merce, mentre il valore del lavoro deve a sua volta venir spiegato e misurato sempre in termini di quantità di lavoro oggettivata nelle merci che entrano nel consumo del lavoratore. Parlare di valore del lavoro, anziché del tempo di lavoro, porta a un circolo vizioso che cerca di spiegare il risultato (il valore delle merci) non con la sua premessa logica e reale (il tempo di lavoro), ma con il risultato: insomma, ci si avvita in una tautologia. «Il valore del lavoro non determina il valore delle merci, ma il valore delle merci che entrano nel consumo degli operai determina il valore del salario» (28). Solo partendo dal tempo di lavoro incorporato nella merce è possibile giungere alla genesi del profitto secondo la triade dello sfruttamento capitalistico pluslavoro-plusprodotto-plusvalore.

11.
Ritorno alla formula trinitaria citando Smith: «Come il prezzo o valore di scambio di ogni merce particolare si risolve nell’una o nell’altra o in tutte e tre queste parti, così quello di tutte le merci che compongono tutto il prodotto annuale di un paese preso complessivamente deve risolversi nelle stesse tre parti, ed essere spartito fra i vari abitanti del paese, o come salari del loro lavoro o come profitti dei loro fondi o come rendita della loro terra. […] Salario, profitto e rendita sono le tre fonti originarie di ogni reddito, così come di ogni valore di scambio»   (29). È da notare che nel calcolo del valore di scambio della merce Smith non prende in alcuna considerazione il valore oggettivato nei mezzi di produzione: macchine, materie prime, ecc; per lui tutto il prodotto sociale annuo si risolve nei tre canonici redditi: salario, profitto, rendita fondiaria. Egli ammette l’esistenza del «capitale costante» per ogni singolo atto produttivo, ma non ne tiene conto quando passa a considerare il processo produttivo nella sua dimensione sociale. Solo questa incredibile omissione gli permetteva di far quadrare i conti partendo da certe errate premesse. Fu David Ricardo (1817) a portare sulla scena della teoria del valore-lavoro ciò che Marx chiamerà appunto capitale costante: «Non è soltanto il lavoro direttamente impiegato nella produzione di una merce che ne determina il valore, ma anche il lavoro impiegato nella produzione degli strumenti, degli utensili e degli edifici che sostengono questo lavoro» (30). Qui si fa strada la fondamentale distinzione, poi elaborata compiutamente da Marx, tra lavoro vivo (attuale) e lavoro morto (passato). Giustamente Ricardo obiettò a Smith che non solo lo sviluppo economico non richiedeva affatto un superamento della “vecchia” teoria del valore-lavoro, che secondo Smith valeva in uno «stadio piuttosto rozzo della società» (che egli comunque non riusciva a concepire se non come società mercantile di tipo semplice) (31), ma che anzi solo la misura del valore secondo il tempo di lavoro riusciva a spiegare compiutamente e senza contraddizioni il valore contenuto nel prodotto annuo sociale, come la sua razionale distribuzione tra le varie classi che in qualche modo avevano concorso a realizzarlo. Il grande merito teorico di Ricardo fu appunto quello di aver generalizzato la teoria del valore-lavoro.

Dalla feconda teoria del valore-lavoro, che ebbe in William Petty (1679) il suo geniale precursore, Smith passa dunque alla mistica formula trinitaria. Quella smithiana diventa una teoria del valore-lavoro “a valle”, per così dire, centrata cioè non sulla quantità di lavoro oggettivato (contenuto, cristallizzato) nelle merci, ma sulla quantità di lavoro che il valore di queste merci possono comandare (labour commanded), mettere in movimento. «È necessario osservare che il valore reale di tutte le diverse parti componenti del prezzo è misurato dalla quantità di lavoro che ognuna di esse può comprare o comandare. Il lavoro misura il valore non solo della parte del prezzo che si risolve in lavoro [pagato con il salario], ma anche di quella che si risolve in rendita e di quella che si risolve in profitto» (32). Ma si tratta del lavoro oggettivato nella merce (lavoro “intrinseco”), oppure del lavoro comandato (lavoro “estrinseco”) dal valore di essa? Smith rimase malamente aggrovigliato in una concezione della ricchezza sociale concepita sostanzialmente come un gigantesco ammasso di cose prodotte dal lavoro, anch’esso considerato essenzialmente come somma di beni-salario, che non gli consentì di sciogliere l’ambiguità circa il significato del lavoro come misura del valore: si tratta del lavoro “a monte” (produzione del valore nella fabbrica) oppure “a valle” (acquisto di forza-lavoro sul mercato)? A volte sembra vera la prima modalità («concezione esoterica»), a volte la seconda («concezione essoterica»).

In ogni caso a Smith il valore del lavoro contenuto in una merce appariva sempre minore del valore del lavoro che essa poteva comandare (acquistare), anche se, come abbiamo visto, egli non riuscì a trarre la corretta conclusione da questa fondamentale osservazione. Non poteva. Come abbiamo visto, gli mancava il concetto di lavoro vivo, e difatti concepiva il lavoro alla stregua di una qualsiasi merce, il cui valore di scambio era formato dai mezzi di sussistenza che tenevano in vita il suo proprietario, il lavoratore. Ma acquistata la merce-lavoratore pagata al suo giusto prezzo di mercato, il capitalista la porta nella sua impresa per consumarla, ed è in questo consumo che la forza-lavoro rivela le sue straordinarie proprietà.

Smith concepiva il profitto come un costo, come un’aggiunta esterna rispetto al processo produttivo, e non come il derivato di un plus di valore che viene ad aggiungersi al valore cristallizzato nei fattori della produzione e che per il capitalista rappresenta effettivamente un costo di produzione. «Non ho fatto che aggiungere il profitto medio ai costi che ho sostenuto. Infatti, se avessi investito il mio capitale in un altro impiego, avrei realizzato il profitto medio»: è così che ragiona l’ingenuo capitalista smithiano. «Smith rappresenta le cose esattamente come appaiono al capitalista, e come il capitalista le immagina lascandosi, nella prassi, guidare da esse» (33).

Quindi per Smith i costi appartengono alla sfera della produzione («concezione esoterica»), mentre il profitto ha a che fare solo con la sfera della circolazione («concezione essoterica»), nel cui seno si forma l’agognato profitto medio. Appare evidente che questa concezione occulta la natura sociale del profitto (e quindi della rendita che ne deriva), il quale come già sappiamo ha come suo fondamento il plusvalore, e quindi lo sfruttamento del lavoratore. Nemmeno Ricardo «distingue il plusvalore dal profitto, e in genere, al pari degli atri economisti, procede in maniera rozza e inintelligente con le determinazioni formali» (34). Beninteso, Marx ci tenne sempre a sottolineare come il geniale economista inglese giganteggiasse al cospetto della «massa di cretini venuti post Ricardum».

Paradossalmente, Smith, che restrinse la legge del valore-lavoro a una fase precapitalistica della società (pur dotandola delle “eterne” categorie dell’economia capitalistica: merce, mercato, denaro, ecc.), riuscì nondimeno a cogliere la natura eccezionale del lavoro (vedi la distinzione fatta sopra tra lavoro oggettivato nei beni-salario e lavoro comandato); Ricardo, che invece quella legge estese e generalizzò al moderno Capitalismo, non fu tuttavia in grado di spiegare l’eccedenza di valore-lavoro individuata da Smith e che egli non metteva in discussione, a partire dalla legge del valore secondo il tempo di lavoro contenuto nelle merci. «Ricardo non ha affatto risolto il problema, il quale costituisce la ragione intima della contraddizione smithiana. Valore del lavoro e quantità del lavoro restano espressioni “equivalenti” finchè si tratta di lavoro oggettivato. Cessano di esserlo, appena vengono scambiati lavoro oggettivato [nei mezzi di sussistenza] e lavoro vivo. […] In che cosa la merce lavoro si differenzia dalle altre merci? L’una è lavoro vivo, le altre sono lavoro oggettivato» (35). Sia Smith sia Ricardo non furono in grado di afferrare questa distinzione che sta alla base del Capitalismo.

12.
La “filiera” delle mediazioni reali e concettuali è lunga, ma alla fine sempre al rapporto sociale capitalistico arriviamo: il Capitale sfrutta il lavoro per ricavarne un profitto. Quando maneggiamo denaro, “reale” o “virtuale” che sia, crediamo di avere a che fare solo con una cosa, con la cosa più straordinaria e ambita dal “genere umano”, ma in realtà abbiamo tra le mani un intero mondo intessuto di relazioni umane: si tratta del famigerato feticismo della merce di cui parlava Marx. Scriveva Engels nell’Introduzione del 1859 a Per la critica dell’economia politica: «L’economia non tratta di cose, ma di rapporti tra persone e, in ultima istanza, tra classi; questi rapporti sono però sempre legati a delle cose e appaiono come delle cose. Marx è il primo che ha scoperto il valore di questa connessine, […] e in questo modo ha reso i problemi più difficili così chiari e così semplici, che ormai perfino gli economisti borghesi possono capirli» (36). Forse l’amico eccedeva in ottimismo…

Il profitto (che comprende l’interesse di chi dà a prestito denaro e la rendita del proprietario terriero) non sgorga naturalmente, o magicamente avrebbe detto Marx, dal capitale investito in qualche attività produttiva di “beni e servizi”, ma prende corpo dall’uso del lavoratore nel processo produttivo, il quale è in primo luogo – in regime capitalistico, s’intende – processo produttivo di valore e plusvalore, ossia di un valore che corrisponde esattamente ai valori dei “fattori produttivi” (mezzi di lavoro, lavoratori, materie prime, ecc.: si tratta del costo di produzione) e un extravalore che il capitalista incassa a titolo gratuito. Non è dunque nello scambio capitale-lavoro che nasce il profitto, ma nell’uso che il capitalista fa della merce-lavoratore che egli ha comprato pagandola con un salario contrattato sul mercato del lavoro. La merce-lavoratore è la sola merce che crea un plus di valore, cioè un’eccedenza di valore rispetto al prezzo d’acquisto, nello stesso momento in cui viene usata. La forza-lavoro conserva il vecchio valore incorporato nei “fattori produttivi” e ne crea, allo stesso tempo, uno nuovo di zecca che fa la fortuna del capitalista. Solo il valore d’uso della bio-merce chiamata lavoratore ha questo straordinario (per il capitalista) e maledetto (indovinate per chi) potere, che gli deriva non dalle sue intrinseche qualità naturali ma da peculiari rapporti sociali. È questa disumana realtà che cela la formula trinitari: «la mistificazione del modo di produzione capitalistico, la materializzazione dei rapporti sociali, la diretta fusione dei rapporti di produzione materiali con la loro forma storico-sociale è completa: il mondo stregato, deformato e capovolto in cui si aggirano i fantasmi di Monsieur le Capital e Madame la Terre, come caratteri sociali e insieme direttamente come pure ne semplice cose» (37).

Non solo i tre redditi canonici dell’economia classica non derivano da tre fonti autonome, ma possono essere spiegati solo a partire dal processo lavorativo immediato, il quale dal punto di vista del capitale è fondamentalmente un processo di valorizzazione. Ecco, mutatis mutandis credo che un analogo ragionamento si possa applicare ai concetti di “capitale umano” e “capitale fisico”. Intanto abbiamo appreso da Marx che solo nel processo di valorizzazione la bio-merce chiamata lavoratore si trasforma in capitale: ditemi dunque se a questo capitale si possa applicare impunemente l’etichetta e il concetto di umano! Concepire e presentare il lavoro (salariato) come una qualsiasi fonte di reddito significa occultarne l’autentico significato storico-sociale, mistificare la sostanza capitalistica della sua esistenza, una sostanza che, occorre ripeterlo, trasuda disumanità da tutti i pori.

In estrema sintesi, mi sento di poter dire che l’odiosa fuffa ideologica intorno al “capitale umano” non è che un maldestro tentativo di celare la realtà dei nullatenenti che per vivere sono costretti a vendersi sul mercato. Infatti, «si capisce da sé che l’operaio che viene privato dei mezzi di produzione viene privato dei mezzi di sussistenza» (38), e viceversa. Chi detiene la proprietà dei mezzi di produzione/circolazione detiene il monopolio dell’intero prodotto del lavoro, una parte del quale va a costituire il cosiddetto fondo-salario; la natura giuridica di questa proprietà (statale, privata, “mista”, cooperativistica) non ha alcuna importanza ai fini della definizione di un’economia che si dà come sottomissione totale del lavoro da parte del Capitale.

(1) P. Lovaglio, G. Vittadini Il concetto di capitale umano e la sua stima, p. 121, PDF.
(2) Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia, p. 31, Istat, 2014, PDF.
(3) Fondamenti e sviluppi delle teorie del capitale umano, p. 3, Università degli studi Bergamo, 2011, PDF.
(4) «Il primo ad affrontare il problema della misurazione quantitativa del capitale umano fu William Petty, nel 1676. Per Petty nel calcolo della ricchezza nazionale di un Paese si doveva includere la capacità lavorativa degli uomini, intesa come attitudine a creare ricchezza. Petty adottò un un’impostazione prospettica: il reddito da lavoro di una persona rappresenta la rendita perpetua del capitale umano rapportata ad un determinato tasso di interesse» (Ivi, p. 5). Per Marx Sir William Petty fu «uno dei più geniali e originali indagatori dell’economia, è il fondatore dell’economia politica moderna. Nel suo Treatise on Taxes and Contributions del 1662 si trovano numerosi passi che sviluppano l’origine e la valutazione del plusvalore. […] In questo scritto egli determina in realtà il valore delle merci dalla quantità proporzionale di lavoro in esse contenuto» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, I, p. 15, Einaudi, 1954).
(5) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, 1776, p. 119, Newton, 1995.
(6) Il valore monetario dello stock di capitale umano in Italia, p. 8, Istat.
(7) K. Marx, Il Capitale, III, p. 927, Editori Riuniti, 1980.
(8) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 99.
(9) Ivi, p. 589.
(10) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito, p. 28, Newton, 1976.
(11) Ivi, p. 31.
(12) Ivi, p. 43.
(13) Ivi, p. 38,
(14) F. Engels, Introduzione (del 1891) a K. Marx, Lavoro salariato e capitale, 1849, p. 126, Newton, 1978.
(15) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito, p.  36.
(16) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, 1865,  p. 76, Newton, 1976.
(17) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p.83.
(18) Ivi, pp. 92-96.
(19) Ivi, p. 102.
(20) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 84.
(21) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito p. 46.
(22) K. Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 116.
(23) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 108.
(24) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 11, Einaudi, 1955.
(25) Ivi, p. 12.
(26) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito.
(27) K. Marx, Il Capitale, I, p. 556, Editori Riuniti, 1980.
(28) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 69.
(29) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 98.
(30) D. Ricardo, Principi dell’economia politica, cit. tratta da K. Marx, Storia  delle teorie economiche, II, p. 21.
(31) «In quello stadio primitivo e rozzo della società che precede l’accumulazione dei fondi e l’appropriazione della terra, il rapporto fra le quantità di lavoro necessarie a procurarsi diversi oggetti sembra sia la sola circostanza che possa offrire una qualche regola per scambiarli l’uno con l’altro» (A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 95). Non essendoci né profitto né rendita, il valore della merce è identico al valore del lavoro, e così il prezzo della prima è identico al prezzo del secondo, ossia al salario. Le cose cambiano completamente, dice sempre Smith, quando dallo «stadio piuttosto rozzo della società» si passa a una più matura e civile organizzazione sociale, dominata dalla feconda divisione sociale del lavoro. Qui il valore delle merci è dato, oltre che dal salario del lavoratore, anche dal profitto di chi investe capitale in un’impresa e dalla rendita fondiaria del proprietario terriero. Ai tempi di Smith la proprietà fondiaria godeva ancora di una certa autonomia rispetto al fittavolo capitalista che lo ripagava con una parte del profitto estorto ai lavoratori. Come osservò Marx, l’economista inglese per molti aspetti si mosse dentro schemi concettuali di chiara impronta fisiocratica, e ciò del resto si spiega con il grado di sviluppo, ancora relativamente modesto, del Capitalismo della sua epoca.
(32) A. Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 97.
(33) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p.   75.
(34) Ivi, p. 71.
(35) Ivi, pp. 108-109.
(36) F. Engels, Marx-Engels Opere, XVI p. 480, Editori Riuniti, 1983.
(37) K. Marx, Il Capitale, III, p. 943.
(38) K. Marx, Il Capitale, I, capitolo sesto inedito, p. 31.

ROSA LUXEMBURG. COSCIENZA, PASSIONE, AZIONE

Il marxismo non è una dozzina di persone che si
distribuiscono a vicenda il diritto alla “competenza”,
e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani
debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una
dottrina rivoluzionaria, che nulla aborre di più che
le formule valide una volta per tutte, e che mantiene
viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate
dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.
Rosa Luxemburg

Lo spirito di Rosa Luxemburg, l’ideale socialista,
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
 altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
 il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin

 

1. La militanza come coscienza di classe e passione rivoluzionaria

L’articolo di Maria Turchetto (1) sul libro di Rosa Luxemburg L’accumulazione del capitale (1912) ai miei occhi ha soprattutto il merito di ricordarci la figura politica e umana della grande rivoluzionaria polacca (naturalizzata tedesca) brutalmente assassinata nel 1919 dalla canaglia al servizio della controrivoluzione. «Operai! Operaie! Cose mostruose stanno avvenendo a Berlino da qualche giorno. […] Un mostruoso assassinio è stato commesso contro Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Non è vero che Karl Liebknecht sia stato abbattuto durante un tentativo di fuga. Testimoni obiettivi hanno stabilito all’obitorio che Karl Liebknecht è stato colpito a distanza ravvicinata e di fronte. Rosa Luxemburg è stata gettata a terra in modo bestiale da una banda di borghesi e quindi smembrata e trascinata via. E le truppe governative, che avrebbero dovuto arrestare e proteggere l’inerme prigioniera, non hanno impedito quest’azione vile e cannibalesca». Così scriveva Die Freiheit il 17 gennaio 1919. «Oggi a Berlino, la borghesia e i socialtraditori esultano; sono riusciti ad assassinare K. Liebknecht e R. Luxemburg. Ebert e Scheidemann, che per quattro anni hanno condotto gli operai al macello, in nome di interessi briganteschi, si sono assunti oggi la parte dei carnefici dei dirigenti proletari. L’esempio della rivoluzione tedesca ci persuade che la “democrazia” è solo una copertura della rapina borghese e della violenza più feroce. Morte ai Carnefici» (Lenin). Come sappiamo, l’auspicio leniniano non si realizzò, e anzi nuovi carnefici, diversi solo nelle divise e nei simboli, sostituiranno quelli vecchi.

In effetti, la responsabilità politica del massacro dei due rivoluzionari marxisti e di miglia di proletari rivoluzionari che lottarono sotto le insegne della neonata Lega di Spartaco faceva capo al governo socialdemocratico di Ebert, Scheidemann, Landsberg, Wissel e Noske. «Noske assume il comando supremo delle truppe per la guerra civile osservando: “bisogna pur che qualcuno sia il cane sanguinario ”» (2). In democrazia come in ogni altro tipo di regime politico-istituzionale la classe dominante trova sempre i suoi cani sanguinari da aizzare contro i sovvertitori dell’ordine sociale. Rosa Luxemburg sapeva benissimo che Ebert e Scheidemann sarebbero stati «spinti dalle circostanze alla dittatura con o senza stato d’assedio», e per questo nel suo Discorso sul Programma pronunciato a Berlino il 30 dicembre 1919, al Congresso di fondazione del Partito Comunista Tedesco (Lega di Spartaco), invitò il proletariato «ad affrontare la lotta fra rivoluzione e controrivoluzione senza illusioni, petto contro petto e occhio nell’occhio» (3). E sapeva bene, avendo alle spalle tanti anni di appassionata militanza politica spesa al servizio della causa rivoluzionaria, che il movimento operaio d’avanguardia tedesco a quel punto non aveva la forza sufficiente per coinvolgere nel processo rivoluzionario l’intero proletariato, la campagna tedesca e gli strati più impoveriti della piccola borghesia. Basta leggere i suoi ultimi articoli, scritti nel pieno della mattanza controrivoluzionaria e resistendo ai sempre più pressanti inviti dei compagni a sottrarsi con una fuga precipitosa all’imminente arresto e alla vendetta del nemico di classe, per rendersi conto di quanto lucida e poco incline all’ottimismo ideologico fosse l’analisi di Rosa Luxemburg alla vigilia del suo brutale quanto vigliacco assassinio. Per la comunista polacca si trattava, a quel punto, di come organizzare un’ordinata ritirata strategica delle forze ancora disposte a combattere fino alle estreme conseguenze, così da preparare su più solide basi politiche e organizzative una successiva ondata rivoluzionaria.

Ma la ritirata strategica, se non vuol trasformarsi in una catastrofica débâcle, deve prevedere momenti di attiva battaglia, singole iniziative di attacco, incoraggiamento delle truppe, così da rendere meno doloroso e più sicuro l’arretramento complessivo del fronte di lotta. La Luxemburg decise di mettersi alla testa, insieme agli altri compagni spartachisti, di questa complessa e rischiosissima impresa, anche per non alimentare nel proletariato d’avanguardia, già abbastanza demoralizzato, l’idea che nel momento del massimo sacrificio i capi della rivoluzione pensano solo a come salvare la pelle. Bisognava bere l’amaro calice della rivoluzione fino in fondo, essere rivoluzionari nella buona come nella cattiva sorte. In altri termini, una serie di valutazioni politiche ed etiche convinsero «la più geniale tra tutti i discepoli di Karl Marx» (F. Mehring) a rimanere sul campo di battaglia fino all’ultimo, condividendo la sorte di chi ancora non intendeva chinare la testa e consegnare le armi al nemico. Lotta rivoluzionaria e autocritica della rivoluzione: queste due impellenze ispirarono la condotta politica e umana (sempre che si possa fare questa distinzione nel caso di specie) della grande aquila nel famigerato gennaio 1919. «La rivoluzione è l’unica forma di “guerra” in cui la vittoria finale possa essere preparata solo attraverso una serie di “sconfitte”!»: così scrisse la rossa Rosa nel suo ultimo articolo, dal titolo tristemente emblematico e presago: L’ordine regna a Berlino. Un ordine borghese ripristinato con tutti i mezzi necessari (pacifici e violenti), e che ebbe come sua espressione più verace la Repubblica di Weimar, nata appunto sulle ceneri della rivoluzione sociale e tra fiumi di sangue. Ancora nel gennaio del 1920 «la polizia aveva sparato con le mitragliatrici sulla folla che manifestava davanti al Reichstag per i Consigli uccidendo 42 persone tra i dimostranti» (4). Scheda elettorale e mitraglia: è così che la democrazia capitalistica difende l’ordine sociale basato sullo sfruttamento dei lavoratori.

Scriveva György Lukács nel gennaio del 1921: «È un segno dell’unità tra teoria e praxis nell’opera di Rosa Luxemburg il fatto che quest’unità di vittoria e disfatta, di destino singolo e di processo totale abbia formato il filo conduttore della sua teoria e della sua condotta di vita. […] Il fatto che essa rimase accanto alle masse nonostante la sconfitta della rivolta di gennaio, da anni lucidamente prevista sul piano teorico e su quello tattico nel momento stesso dell’azione, è appunto la giusta conseguenza dell’unità tra teoria e praxis nella sua azione, così come l’odio mortale che ebbe a meritarsi dai suoi assassini: i socialdemocratici opportunisti» (5). Anche quando la teoria sviluppata dalla Luxemburg non fu sempre, a mio modestissimo avviso, all’altezza della sua incrollabile volontà rivoluzionaria, certamente si può rintracciare nella sua azione politica il fecondo tentativo di fondare la prassi su un solido e sicuro terreno teorico, in modo da conferirle un respiro che andasse al di là della mera contingenza, oltre le esigenze di una tattica pensata solamente per risolvere i problemi del momento e senza alcun legame con il programma strategico.

Per quanto riguarda il merito del libro di Rosa Luxemburg sintetizzato brillantemente da Maria Turchetto, devo “confessare” che da sempre (diciamo da quando l’ho studiato per la prima volta, cioè nella prima metà degli anni Ottanta) condivido le critiche a cui lo sottoposero Lenin, Anton Pannekoek e Henryk Grossmann. La lettura del bell’articolo in questione non mi ha fatto cambiare idea; mi ha però sollecitato a rileggere un’ennesima volta il testo luxemburghiano, una lettura che, per quel che vale, consiglio a chi vuole approfondire la conoscenza non solo della rivoluzionaria di Zamošć, ma anche del Capitale marxiano, nonché del Capitalismo e dell’Imperialismo colti nel loro movimento storico.. Come scrisse Paul M. Sweezy nella sua Introduzione del 1958 al libro di Rosa Luxemburg, «nonostante, malgrado, i suoi errori e le sue deficienze che non sono trascurabili, L’accumulazione del capitale è opera notevole di una grande rivoluzionaria» (6). Condivido pienamente questo giudizio, tanto più se rifletto sul fatto che quegli errori e quelle deficienze furono in parte dovuti alla fretta dell’autrice di assestare un duro colpo teorico e politico a personaggi che si autodefinivano socialisti e marxisti nello stesso momento in cui portavano acqua al mulino della conservazione sociale. Ai miei occhi gli errori e le deficienze della Luxemburg, palesati in ogni caso sul terreno della militanza rivoluzionaria, valgono infinitamente di più di qualche critica corretta sul piano astrattamente dottrinario che allora le arrivò da alcuni presunti “marxisti ortodossi” intenti a dimostrare la possibilità di transitare pacificamente e progressivamente dal Capitalismo al Socialismo alla vigilia della Prima carneficina mondiale. «Gli epigoni che nell’ultimo decennio hanno tenuto in mano la direzione teorica del movimento operaio in Germania, hanno fatto bancarotta al primo scoppio della crisi mondiale, hanno ceduto pacificamente il timone all’imperialismo» (7). È sotto questa sinistra e veritiera luce che bisogna guardare i “successi teorici” che quegli epigoni credettero di cogliere qualche anno prima ai danni dell’indomita rivoluzionaria. Come scriveva Paul Mattick, «L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg incontrò un rifiuto quasi generale tra i teorici della socialdemocrazia, non tanto perché osava criticare Marx o deduceva la realtà concreta dell’imperialismo dalle difficoltà di realizzazione dell’accumulazione, ma perché accennava alla fine inevitabile del capitalismo e indicava quindi una politica proletaria di lotta di classe, diametralmente opposta all’atteggiamento riformistico dominante» (8). Per una critica puntuale del testo luxemburghiano consiglio il libro di Grossmann Il crollo del capitalismo, dal quale cito i passi che seguono: «La concezione di Rosa Luxemburg si fonda del resto sulla supposizione di una fine meccanica del sistema capitalistico. Se si pensasse ad un esercizio soltanto capitalistico di tutta la produzione sulla terra, “l’impossibilità del capitalismo apparirebbe allora chiaramente”. Viene così anticipata sul piano teorico una situazione quale taluni rivoluzionari vogliono scorgere in ogni crisi, grazie alla quale si spera in “una distruzione automatica del capitalismo”. Lenin aveva gettato uno sguardo assai penetrante su questa connessione quando affermava: “talvolta i rivoluzionari si sono sforzati di dimostrare che la crisi è assolutamente senza via d’uscita. Non esistono situazioni che non presentino in assoluto alcuna via d’uscita”» (9). Ironia della sorte, anche Grossmann sarà a sua volta colpito, a torto, dall’accusa di essere un teorico del crollo inevitabile del Capitalismo, «di una fine meccanica del sistema capitalistico». Secondo i rispettivi critici, Rosa Luxemburg si sarebbe aspettata la «fine meccanica del sistema capitalistico» dal versante della realizzazione del plusvalore (sfera della circolazione), Henrik Grossmann da quello della valorizzazione del plusvalore (sfera della produzione). In realtà sia l’una che l’altro sapevano benissimo che senza rivoluzione sociale, senza il farsi classe per sé del proletariato, non esiste alcuna «fine meccanica del sistema capitalistico». Entrambi i presunti “crollisti” intesero piuttosto combattere le concezioni armoniciste e riformiste del loro tempo, ponendo l’accento su quelle tendenze oggettive e ineliminabili che minando il processo di accumulazione del capitale, provocano le devastanti crisi economiche e sociali che sono in  grado di scuotere dalle fondamenta l’ordine sociale e così creare le “condizioni oggettive” per una soluzione rivoluzionaria della catastrofe. Come insegna la storia dell’ultimo secolo, senza quella soluzione la catastrofe (o il crollo) può preparare una nuova rinascita del Capitalismo, magari passando attraverso il massacro degli individui e la distruzione di “capitale costante”.

L’einaudiano Giuseppe Russo qualche tempo fa cercava di spiegare ai suoi lettori i motivi del «fallimento» della previsione marxiana circa la fine del Capitalismo: «Quando Karl Marx formulò le sue previsioni sulla fine del capitalismo, aveva in mente la caduta tendenziale del tasso di profitto. […] C’è da domandarsi perché mai il capitale dovesse avere profitti (rendimenti) decrescenti e la risposta sta nel fatto che Marx pensava a mercati finiti, mentre l’ambizione di profitto dei capitalisti non lo è. Conquistato l’ultimo mercato da parte del capitale, si sarebbe verificato il collasso. Ci sono tre buone ragioni per cui, fino ad oggi, la previsione di Karl Marx non si è avverata. La prima è che i mercati sono finiti solo in teoria, ma nella pratica sono collegati ai bisogni delle persone. Le persone abitanti sul pianeta sono costantemente cresciute di numero, quindi quel limite non si è mai raggiunto, per ora. In secondo luogo, i bisogni delle persone non sono costanti, ma sono sia proporzionati al loro reddito (e quindi fino a che esistono paesi a basso reddito, ci sono mercati che devono crescere per soddisfare i bisogni futuri), sia sono dinamici e mutano nel tempo con la cultura e l’innovazione. Legata a questa seconda osservazione ve ne è una terza. L’innovazione crea e distrugge: l’industria dell’auto ha distrutto quella delle carrozze; l’industria informatica sostituirà il terziario che si occupava di informazioni strutturabili. Questa distruzione avviene di continuo ma può subire delle accelerazioni quando le innovazioni anziché essere ben distribuite si concentrano. […] Il capitalismo, in altri termini, non è arrivato alla crisi finale anche perché attraversa crisi periodiche nelle quali il capitale meno produttivo viene purgato e sostituito da capitale più produttivo. Alla fine di queste crisi, il rendimento medio del capitale che era prostrato risale e così l’incentivo a risparmiare, accumulare a investire non viene meno» (10).

Ora, non solo Marx non ha mai pensato a «mercati finiti» in termini assoluti, come sa chiunque abbia letto – non dico capito – le sue opere “economiche”, ma il suo concetto di capitale contraddice nel modo più evidente la tesi di un limite fisico assoluto per l’investimento capitalistico, raggiunto il quale il sistema basato sullo sfruttamento sempre più intensivo (scientifico) della capacità lavorativa deve necessariamente collare. Questa tesi si trova piuttosto in non pochi epigoni di Marx, ma di questo non si può certo accusare il comunista di Treviri, il quale peraltro fece in tempo a dichiarare la propria estraneità al “marxismo”. Se nei suoi scritti “economici” Marx sottolineò continuamente il carattere rivoluzionario del vigente modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale, e lo contrappose al carattere conservatore dei precedenti modi di produzione, è appunto perché egli comprese che la sopravvivenza del Capitale dipende da un continuo allargamento e rivoluzionamento della sfera economica, la quale non va in nessun caso concepita come uno spazio fisico, ma come una dimensione sociale (addirittura “esistenziale”: vedi il concetto di colonizzazione capitalistica delle anime) in continua e sempre più accelerata trasformazione. Detto en passant, fu lo stesso Marx che introdusse il concetto – se non la locuzione – di distruzione creatrice, poi ripreso e sviluppato in modo più o meno originale da Schumpeter; ed fu sempre lui che parlò della crisi economica generale nei termini di uno shock tanto socialmente gravido di conseguenze potenzialmente nefaste per l’ordine costituito (leggi alla voce Rivoluzione sociale), quanto salutare per un processo di accumulazione entrato in sofferenza. La produzione capitalistica non trova alcun limite assoluto nella produzione di “beni e servizi” perché in assoluto la capacità di consumo della società è illimitata, esattamente come la fame di profitto da parte del capitale. Scriveva Marx: «La tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come ostacolo da superare» (11). Ed è questa estrema tensione intesa a superare ogni limite che sta a fondamento reale e concettuale di ciò che chiamiamo Imperialismo.

L’analisi marxiana della merce scopre il vero limite dell’accumulazione capitalistica, un limite che il capitale è chiamato appunto a superare sempre di nuovo, in qualcosa di impalpabile. Di che si tratta? Lo vedremo tra poco, occupandoci del libro di Rosa Luxemburg. In realtà chi conosce quel testo ha già capito che la mia riflessione si sta già muovendo per intero sul terreno concettuale da esso ampiamente praticato.

A proposito di imperialismo, scrive la Turchetto: «Sono convinta che le indicazioni contenute in L’accumulazione del capitale risultino ancora preziose per illuminare l’imperialismo contemporaneo». Qui devo esternare a malincuore qualche dubbio, e tra poco chiarirò il perché. Riprendo la citazione: «Il termine “imperialismo” risulta oggi desueto, è scomparso anche dal vocabolario della sinistra rimpiazzato dal più asettico “globalizzazione” che sembra alludere a un processo naturale e pacifico di espansione dei mercati. Ma se la parola è in disuso, la realtà dell’imperialismo, inteso come intreccio aggressivo di politiche economiche e militari che acuisce le diseguaglianze del mondo, rimane». Qui invece la concordanza con il mio pensiero è totale, e lo dimostro citandomi: «La Cina del XXI secolo pratica un imperialismo che per molti e decisivi aspetti risponde quasi alla lettera alla caratterizzazione che dell’Imperialismo fece Lenin sulla scorta degli studi di J. A. Hobson, di R. Hilferding e di altri economisti borghesi che si misurarono con le profonde trasformazioni intervenute nel Capitalismo mondiale alla fine del XIX secolo e agli inizi del secolo successivo. L’imperialismo che caratterizza la nostra epoca storico-sociale ha la sua più forte e profonda radice, la sua più irresistibile motivazione e potente spinta propulsiva in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che per “mantenersi” in vita ha bisogno che la sfera economica si allarghi sempre di nuovo e si approfondisca in ogni direzione, compresa quella che alcuni filosofi chiamano “esistenziale” e taluni sociologi alla moda chiamano “biopolitica”. In altri termini, l’imperialismo moderno ha come sua base fondamentale la competizione capitalistica volta ad assicurare agli investitori pubblici e privati profitti, mercati, materie prime, infrastrutture e quant’altro. Questa spinta e questa proiezione economica, che ha nel capitale finanziario la sua più aggressiva e verace espressione, ha coinvolto sempre più gli Stati nazionali, chiamati a puntellare, proteggere e promuovere gli interessi del capitale nazionale, sempre più organizzato (in trust, monopoli, cartelli) e sempre meno rispondente all’ortodossia libero-scambiata – peraltro più frutto della mitologia liberista e antiliberista, che specchio di una concreta realtà economica. La creazione di “sfere di influenza” e di “spazi” vitali” risponde in primo luogo a processi di natura “strutturale” che non mancano di avere un loro puntuale riscontro politico, militare e ideologico. Ecco, la Cina dei nostri tempi sembra aderire perfettamente, e sempre cambiando quel che c’è da cambiare, al modello “classico” di imperialismo appena abbozzato, e quindi esporta e prepara, insieme ai suoi competitori, le condizioni oggettive dei conflitti bellici e sociali ovunque entrano in gioco i suoi interessi economici e strategici: in Asia, in Africa, in America Latina» (12). Naturalmente l’articolo citato faceva l’esempio della Cina solo perché di quel Paese esso si occupava. Per par condicio mi vedo costretto (sic!) a un’altra citazione: «Dopo la Seconda guerra mondiale il Giappone ha continuato la sua espansione economica nello spazio vitale che gli compete dal punto di vista storico e geopolitico. Anziché bruciare i tempi servendosi dello strumento militare come aveva cercato di fare negli anni Trenta, adesso il Giappone si serve dello strumento imperialistico per eccellenza: il Capitale, rivelando in tal modo la vera natura storico-sociale del moderno Imperialismo, la cui intima essenza è radicata nell’imperiosa (brutale, violenta, totalitaria) necessità del Capitale di espandere la propria sfera di dominio – socialmente, geograficamente, esistenzialmente, “antropologicamente”: è il solo concetto di globalizzazione capitalistica che a mio avviso ha senso e che proprio per questo si sottrae alle tradizionali e il più delle volte banali declinazioni di quella locuzione. Anziché esportare eserciti, il Giappone del Secondo dopoguerra ha iniziato a esportare merci, tecnologie, scienza e capitali a caccia di alti profitti e di ancora più cospicue e sicure rendite finanziarie. Mutatis mutandis, analogo discorso si può fare per la Germania e, in una forma molto più sfumata, per l’Italia: vedi la sua penetrazione mercantile, finanziaria e politica nei Balcani, nell’aria Danubiana e nelle ex colonie africane. Giappone, Germania e Italia; verrebbe da dire: guarda che combinazione!» (13). Scriveva Grossmann nel 1928: «Proprio questo carattere aggressivo del capitalismo odierno gli imprime il marchio specifico che noi concepiamo sotto il nome di “imperialismo”» (14).

In realtà tutte queste citazioni intendono realizzare un indiretto dialogo con L’Accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg. Tracce dei miei studi di quel testo si trovano in un mio scritto di molti anni fa, del quale pongo all’attenzione dei lettori alcuni brani. Naturalmente non si tratta, per me, di rispolverare vecchie polemiche, di stabilire torti e ragioni (e chi se ne frega!), ma piuttosto di contribuire in qualche modo alla comprensione del Capitalismo e dell’Imperialismo dei nostri giorni.

2. Rosa Luxemburg e l’accumulazione del capitale

È qui appena il caso di ricordare a grandi linee che alla fine del XIX secolo nel movimento operaio il concetto di crisi economica finì per saldarsi con quello di crollo del Capitalismo, concetto che accreditava un’inevitabile palingenesi sociale, più o meno fecondata dalla violenza rivoluzionaria delle classi subalterne. La fine del Capitalismo non fu solo ritenuta storicamente necessaria – come aveva affermato Marx – sul fondamento di una transitorietà che aveva riguardato i modi di produzione che lo avevano preceduto, bensì, in qualche modo, anche fatale. La temeraria saldatura concettuale di crisi e crollo spontaneo/inevitabile/definitivo aveva come proprio retroterra teorico una lettura tutta ideologica dei testi marxiani. In realtà essa servì da paravento dottrinario ad una prassi che – svincolata dall’assillo di dover costruire i presupposti soggettivi della rivoluzione, dato che il Capitalismo sarebbe appunto crollato automaticamente consegnando lo Stato borghese nelle mani del proletariato –  poteva abbandonarsi alla cura degli interessi immediati della classe lavoratrice, soprattutto di quel suo strato (definito aristocrazia operaia) che godeva di condizioni salariali migliori e di una collocazione nei settori più avanzati del sistema industriale e che pertanto possedeva maggiore forza contrattuale rispetto agli altri lavoratori, per non parlare dei disoccupati.

Più in generale, si venne a consolidare nella Socialdemocrazia tedesca l’idea, che Marx ed Engels avevano già combattuto scontrandosi soprattutto con i leader del movimento operaio inglese, secondo la quale una dura lotta sindacale contro i padroni e una lotta politica intesa a conquistare maggiori spazi di “agibilità democratica” per i lavoratori, bastassero da sole a caratterizzare in senso rivoluzionario un partito, soprattutto quando esso avesse assunto proporzioni “di massa”. Già nella sua Critica al programma di Gotha (1875), scritta contro i numerosi epigoni di Ferdinand Lassalle, Marx aveva denunciato la penetrazione nel movimento operaio di ideologie estranee al comunismo critico-rivoluzionario, e i successivi sviluppi teorici e politici di quel movimento, culminati nel famigerato agosto 1914, confermarono le preoccupazioni del comunista di Treviri, che non caso volle prendere le distanze da ogni tipo di “marxismo”.

L’ideologia crollista nacque “ufficialmente” in Germania come risposta alle tesi riformiste di Eduard Bernstein esposte in una serie di articoli e poi elaborate in un testo del 1896 che allora fece scalpore e che ebbe una duratura – quanto cattivissima – influenza sul movimento operaio: I presupposti del socialismo e i compiti della Socialdemocrazia. Nel testo di Rosa Luxemburg Riforma sociale o rivoluzione? (1899) si trova forse la critica più sprezzante, più radicale e più coerente allo “spirito marxiano” del riformismo “movimentista” («Lo scopo finale per me è nulla, il movimento è tutto») di Bernstein. «È bastato che l’opportunismo parlasse per mostre che non aveva niente da dire. E in ciò sta la particolare importanza del libro di Bernstein nella storia del partito» (15). Bernstein non aveva niente di nuovo da dire, semplicemente perché l’opportunismo di fatto aveva impregnato di sé la Socialdemocrazia quasi nella sua interezza e al netto degli equilibrismi centristi di cui Karl Kautsky, il “Papa Rosso”, fornì prova per un lungo periodo. Il libro di Bernstein (16) ebbe quantomeno il merito di suscitare nella Socialdemocrazia tedesca un rinnovato interesse per i testi marxiani riguardanti il processo di accumulazione, i limiti dello sviluppo capitalistico, le cause delle crisi economiche, e così via, e ciò alla luce degli straordinari mutamenti che avevano cambiato il volto del Capitalismo internazionale. Scriveva la Luxemburg: «Bernstein ha iniziato la sua revisione del programma socialdemocratico con l’abbandono della teoria del crollo del capitalismo. Ma dato che il crollo della società borghese è una pietra angolare del socialismo scientifico, Bernstein, per essersi allontanato da questo pilastro, doveva logicamente arrivare a far crollare tutta la concezione socialista» (17). Occorre chiedersi fino a che punto è corretto, dal punto di vista marxista, istituire un legame indissolubile tra la teoria del crollo e il «socialismo scientifico»; in altri termini occorre chiarire in che senso è legittimo parlare di crollo, parlarne cioè criticamente (“scientificamente”) e non ideologicamente, solo per esibire un’irriducibile – quanto poco fondata sul piano teorico e politico – avversione al dominio sociale capitalistico.

Con un articolo apparso sulla Neue Zeit del 1898, Heinrich Cunow sforna la prima teoria del crollo inteso come «crisi mortale» del sistema capitalistico, ossia come catastrofe inevitabile e definitiva che non può essere evitata perché procede secondo «ferree leggi di natura». Lo spunto, probabilmente, egli lo trasse forzando il significato di quanto Engels aveva scritto in una nota al Terzo libro del Capitale nell’edizione del 1894, nella quale segnalava i mutamenti intervenuti nella struttura del Capitalismo con la formazione dei trust e dei cartelli, per concludere che alle vecchie crisi generate da lunghi cicli espansivi, si stavano sostituendo lunghi momenti di «stagnazione cronica come condizione normale dell’industria moderna». In ogni caso, la fiaba del «crollo imminente» attestava l’incapacità degli epigoni di Marx di comprendere ciò che stava fiorendo nel Capitalismo giunto ormai nella sua fase “matura”, e in questo Bernstein non si era sbagliato.

Cunow legava Il crollo del capitalismo, come da titolo di una sua celebre opera, al sottoconsumo delle masse proletarie: mentre la capacità produttiva del Capitalismo si allargava a dismisura, la capacità di consumo dei lavoratori si restringeva a causa del declino dei loro salari, e ciò lasciava marcire, per così dire, il plusvalore contenuto in una gran massa di merci. Il mercato non può più estendersi al medesimo ritmo della produzione: questo vero e proprio mantra crollista verrà ripetuto, con qualche piccola variazione, da tutti i maggiori teorici “ortodossi” della socialdemocrazia tedesca, i quali rappresentavano un sicuro punto di riferimento per tutta la socialdemocrazia europea. La causa fondamentale del crollo inevitabile/definitivo/imminente veniva in ogni caso individuato da essi non nella sfera della valorizzazione del capitale, che per Marx costituisce il luogo centrale del processo capitalistico di produzione, il punto critico da cui partire per comprendere la dinamica capitalistica colta nella sua totalità, ma nella sfera della circolazione, nel cui seno il valore viene “semplicemente” realizzato. Anche Rosa Luxemburg individuò nella sfera della circolazione (nella realizzazione del valore) la magagna che aveva dato corpo all’imperialismo e che preparava la fine oggettiva del Capitalismo.

«Io esprimo i più seri dubbi che, in una società composta soltanto di capitalisti e lavoratori come quella che sta alla base degli schemi di Marx, l’accumulazione possa compiersi; esprimo il parere che lo sviluppo della produzione capitalistica nel suo insieme non possa essere racchiuso entro un rapporto schematico fra imprese puramente capitalistiche; e i “competenti” mi rispondono: ma certo che lo può! lo si dimostra brillantemente “in base alla tabella IV”, “lo mostrano appunto gli schemi”, cioè il fatto che la serie di cifre scelte a titolo di esemplificazione e chiarimento si lasciano, sulla carta, sommare e sottrarre a piacere» (18). In primo luogo non è affatto vero che «la serie di cifre scelte a titolo di esemplificazione e chiarimento [questo è corretto e qui la Luxemburg si limita a ripetere le avvertenze metodologiche marxiane che peraltro lei stessa mostra non di rado di sottovalutare e fraintendere] si lasciano, sulla carta, sommare e sottrarre a piacere»: le cifre marxiane non si lasciano affatto «sommare e sottrarre a piacere», arbitrariamente, semplicemente perché esse rispondono a una precisa logica e, soprattutto, a una precisa concezione del processo di accumulazione del capitale. E infatti  la più feroce nemica degli «epigoni di Marx» esprime   «i più seri dubbi che, in una società composta soltanto di capitalisti e lavoratori come quella che sta alla base degli schemi di Marx, l’accumulazione possa compiersi», che «lo sviluppo della produzione capitalistica nel suo insieme possa essere racchiuso entro un rapporto schematico fra imprese puramente capitalistiche». Il problema non è quindi stabilire se le cifre marxiane si lasciano o no sommare o sottrarre «sulla carta» (e dove se no?), ma quale concezione capitalistica ha informato la critica di Rosa Luxemburg.

Nonostante le avvertenze metodologiche dello stesso Marx (19) circa l’intenzionale astrattezza del suo modello di capitalismo («Qui non vi sono né commercianti né finanzieri né banchieri né classi solo consumatrici e non partecipi direttamente della produzione delle merci») (20), la Luxemburg accusò dunque il barbuto di Treviri di aver costruito un modello sociale troppo puro, troppo astratto, al punto da sganciarsi completamente dalla reale dinamica capitalistica. Così facendo la nostra critica della marxiana riproduzione allargata dimostrò di non aver compreso né il metodo analitico di Marx, ossia quel procedimento che aveva permesso all’autore del Capitale di penetrare criticamente le categorie fondamentali dell’economia politica per mettere in luce quello che «l’ingannevole apparenza delle cose» mostra come il riflesso di realtà autonome, non riconducibili ad alcun momento unitario; né il significato degli schemi marxiani, cosa Marx intese dimostrare con essi.

«L’ipotesi teorica di una società composta esclusivamente di capitalisti e lavoratori, perfettamente giustificata per determinati scopi d’indagine, mi parve insufficiente e perturbante nell’analisi dell’accumulazione del capitale sociale totale» (21). Invece a mio avviso l’ipotesi teorica marxiana raggiunge pienamente il suo scopo: 1. Fare luce sulla complessa dialettica tra valore d’uso (merci orientati al consumo produttivo, merci orientati al consumo improduttivo “primario” e di “lusso”) e valore di scambio che regola il processo di riproduzione sociale; 2. criticare in primo luogo la «stupefacente» concezione smithiana che non contemplava il capitale costante nella produzione sociale totale, ma solo il capitale variabile (salari) e il plusvalore (22); 3. criticare le altre teorie della riproduzione (come quella di Destutt de Tracy) che in un modo o nell’atro occultavano e mistificavano lo sfruttamento capitalistico dei lavoratori desumendo la genesi del profitto in cause estranea al processo di valorizzazione del capitale, che è appunto un processo di sfruttamento che prescinde, in linea di principio, dal livello (basso, alto, medio) di consumo dei capitalisti e dei lavoratori.

«Non c’è dubbio che Marx intese rappresentare il processo dell’accumulazione in una società composta esclusivamente di capitalisti e lavoratori, in regime di generale ed esclusivo dominio del modo di produzione capitalistico. Ma con tale premessa, il suo schema non permette altra deduzione che questa: la produzione per amore della produzione» (23). Qui l’incomprensione della Luxemburg circa le intenzioni analitiche di Marx appare evidente, soprattutto alla luce della lungimiranza marxiana che dalla prospettiva del XXI secolo risalta con particolare evidenza. «Il prodotto del processo di produzione capitalistico non è né un semplice prodotto (valore d’uso) né una semplice merce, cioè un prodotto che ha un valore di scambio; il suo prodotto specifico è il plusvalore. [… ] Che il fine della produzione capitalistica sia il prodotto netto, di fatto puramente nella forma del plusprodotto, in cui si rappresenta il plusvalore, deriva dal fatto che la produzione capitalistica è essenzialmente produzione di plusvalore» (24). L’ipotesi “purista” marxiana, avanzata per facilitare la comprensione di un oggetto di per sé molto complicato, in nulla contraddice a questa fondamentale tesi. L’opera marxiana va considerata nella sua totalità e tenendo conto delle indicazioni metodologiche che l’autore ha sempre cura di precisare e ripetere, a volte con eccessiva insistenza, anche perché buona parte dei suoi scritti non erano nemmeno destinati alla pubblicazione.

Secondo Sweezy, Rosa Luxemburg «negò insistentemente che lo schema – marxiano – fosse una fedele rappresentazione della realtà capitalistica» (XVIII). Ma il primo a negare che lo schema della riproduzione «fosse una fedele rappresentazione della realtà capitalistica» fu appunto Marx in persona! Se ne ricava che quella tesi luxemburghiana raggiunge il suo corretto obiettivo critico solo se è indirizzata esclusivamente contro quei “marxisti” che vollero leggere i noti – famigerati? – schemi di riproduzione in chiave armonicista e sviluppista. Scrive Guido Carandini: «Senza entrare nei dettagli della analisi marxiana si deve però almeno coglierne la problematica per intendere il senso vero di questa complessa indagine. Esso sta in fondo nella dimostrazione che il meccanismo di produzione capitalistico solo casualmente può trovarsi nelle condizioni per cui le esigenze produttive e di consumo siano effettivamente soddisfatte nello scambio generale fra i diversi settori. Il ché equivale a dire che normalmente ciò non avviene» (25).

Ma veniamo al punto dolente della questione, alla realizzazione del plusvalore. «Da dove si origina la domanda continuamente crescente che sta alla base del progressivo allargamento della produzione nello schema di Marx? Una prima cosa è chiara: ch’essa non può venire dagli stessi capitalisti. […] Fondamento dell’accumulazione è il non-consumo del plusvalore da parte dei capitalisti: per chi produce, dunque, quest’altra parte, questa parte accumulata di plusvalore? I lavoratori possono realizzare il plusvalore capitalistico ancor meno della classe capitalista. […] La realizzazione del plusvalore all’infuori delle due sole classi esistenti della società appare tanto necessaria quanto impossibile» (26). Ma il consumo di plusvalore da parte dei capitalisti non contraddice in alcun modo né la teoria marxiana né la prassi dell’accumulazione capitalistica. Secondo Marx il processo di accumulazione non esclude «affatto, anzi include da parte del capitalista un consumo che cresce con la grandezza del plusvalore. […] Esso vi è congiunto in quanto l’esistenza del capitale pone l’esistenza del capitalista, e quest’ultima è condizionata dal suo consumo di plusvalore. […] E se questo processo è allargato – ciò che implica allargato consumo produttivo dei mezzi di produzione – questa riproduzione del capitale può essere accompagnata da allargato consumo individuale (dunque domanda) dei lavoratori» (27). Ma ultimiamo la citazione luxemburghiana: «L’accumulazione del capitale è finita in un circolo vizioso: il libro II del Capitale non ci permette di uscirne. […] Essendo dunque impossibile trovare all’interno della società capitalistica gli acquirenti visibili delle merci in cui la parte accumulata del plusvalore si nasconde, non resta che una via d’uscita: il commercio estero. […] La realizzazione del plusvalore è a priori legata in quanto tale a produttori e consumatori non-capitalistici. L’esistenza di acquirenti non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il punto decisivo del problema dell’accumulazione del capitale» (28).

Per uscire fuori dal – presunto – circolo vizioso marxiano Rosa Luxemburg pensò bene di prendere la strada che porta dalla sfera della valorizzazione del capitale a quella della realizzazione del plusvalore, e a quel punto la rivoluzionaria perse ogni contatto con l’essenza della concezione marxiana dell’accumulazione capitalistica, cosa che indebolì anche la sua capacità di comprensione del processo sociale capitalistico colto nella sua dimensione mondiale – vedi il fenomeno “imperialismo”.

Sulla base dell’analisi marxiana dell’accumulazione capitalistica si comprende benissimo perché a un certo punto dello sviluppo capitalistico debba insorgere necessariamente la crisi che provoca l’arresto dell’accumulazione, e come, altrettanto necessariamente, alla crisi debba seguire una nuova fase espansiva. L’espandersi e il contrarsi del salario sono due fenomeni che vanno naturalmente connessi alle diverse fasi della congiuntura economica e che in qualche modo la influenzano in notevole misura, sia dal lato della valorizzazione del capitale (vedi saggio del plusvalore e saggio del profitto), sia da quello della realizzazione del valore. Lo sviluppo e la crisi non sono che due momenti necessari dell’economia capitalistica, ne caratterizzano per così dire il respiro; l’uno prepara l’altro, sempre di nuovo. Si tratta piuttosto di capire a quali condizioni il respiro dell’economia fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato, cioè sul profitto, può tramutarsi in un rantolo mortale. Condizioni che chiamano potentemente in causo il soggetto storico della rivoluzione, ossia il costituirsi del proletariato «in partito politico», per dirla con Marx. E su questo punto Rosa Luxemburg la sapeva infinitamente più lunga del modestissimo epigono di Marx che scrive le modestissime cose che ha l’ardire di sottoporre alla paziente e benevola – si spera! – attenzione dei lettori.

Teoria dello sviluppo capitalistico e teoria della crisi capitalistica sono incorporate, per così, nella più generale teoria della valorizzazione del capitale che in Marx coincide con la teoria dell’accumulazione capitalistica: la produzione sociale allargata sempre di nuovo in vista del profitto.

«Inoltre, non si vede perché tutti i mezzi di produzione e di consumo necessari debbano essere prodotti solo capitalisticamente. È vero che quest’ipotesi sta alla base dello schema marxiano della accumulazione, ma non corrisponde né alla prassi quotidiana e alla storia del capitalismo né allo specifico carattere di questo modo di produzione. […] Basta del resto pensare al ruolo che l’importazione del grano contadino e perciò prodotto in ambiente non capitalista gioca nell’alimentazione della massa dei lavoratori industriali dell’Europa (cioè come elemento del capitale variabile) per vedere come l’accumulazione del capitale sia legata nei suoi elementi materiali ad ambienti non-capitalistici» (29). Qui abbiamo la teorizzazione di una situazione storica contingente, destinata a cambiare profondamente nel tempo fino a convergere con l’ipotesi marxiana del capitalismo come unico modo di produzione presente sulla faccia della Terra. Proprio lo «specifico carattere di questo modo di produzione» tende a che «tutti i mezzi di produzione e di consumo necessari debbano essere prodotti solo capitalisticamente»: Marx lo aveva capito sviluppando il concetto stesso di capitale; la Luxemburg mostrava di non comprenderlo già in una fase notevolmente avanzata dello sviluppo capitalistico, almeno in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone. In ogni caso, la prassi capitalistica ha ampiamente confutato la teoria luxemburghiana dell’ambiente non-capitalistico come necessaria condizione dello sviluppo capitalistico e, quindi, come conditio sine qua non della sopravviveva della società capitalista.

Una contraddizione, sulle tante altre, emerge dunque con estremo vigore nell’argomentare di Rosa Luxemburg, contraddizione che ne rende evidente l’intima debolezza. Mentre giustificava le “incongruenze” di Marx con il limitato sviluppo capitalistico del suo tempo, dall’altro assumeva proprio le condizioni del Capitalismo nella sua fase iniziale a modus vivendi del Capitalismo in generale. Per la Luxemburg, cioè, l’ambiente precapitalistico non è più solo l’ovvio dato di partenza dello sviluppo capitalistico, il quale ha come propria “missione storica” la distruzione di ogni ostacolo che si oppone allo sviluppo delle forze produttive; ma diventa il presupposto della sua stessa condizione di esistenza, la sua forza e il suo insormontabile limite storico. Partendo dall’ovvia constatazione che «il capitalismo nasce e si sviluppa storicamente in un ambiente sociale non-capitalistico», Rosa Luxemburg giunge ad una conclusione che rappresenta non solo l’abbandono degli schemi del II libro del Capitale, ma l’abbandono della concezione marxiana dello sviluppo capitalistico: «Il capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e per il suo ulteriore sviluppo, di un ambiente costituito da forme di produzione non-capitalistiche».

«I marxisti “legali” russi hanno indubbiamente battuto i loro avversari populisti, ma hanno vinto troppo. Tutti e tre – Struve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij – hanno, nel fervore della battaglia, dimostrato più di quanto si doveva dimostrare. Il problema era: è il capitalismo in generale, e in particolare in Russia, suscettibile di sviluppo? E i suddetti marxisti hanno dimostrato così a fondo questa capacità di sviluppo, da dimostrare anche la possibilità teorica di un’esistenza eterna del capitalismo. È chiaro che, una volta ammessa l’illimitata accumulazione del capitale, si è anche provata la illimitata vitalità del capitale. […] la dimostrazione, partita dalla possibilità del capitalismo, sfocia nell’impossibilità del socialismo» (30). Nei testi di Lenin scritti contro il populismo russo e contro i “marxisti legali” (Le caratteristiche del romanticismo economico del 1897 e Lo sviluppo del capitalismo in Russia, scritto tra il 1896 e il 1898), troviamo una critica anticipata del libro della Luxemburg, e questo non a caso. Lenin infatti ebbe modo di affrontare teoricamente e praticamente tutti i problemi connessi con la genesi e lo sviluppo del Capitalismo in un Paese, la Russia appunto, che con quei problemi si stava misurando ormai da alcuni anni. Per il rivoluzionario russo l’accumulazione originaria del capitale, la formazione del mercato interno, la funzione del mercato estero (31), ecc. costituivano problemi di scottante attualità, e da questa prospettiva egli poteva verificare la bontà della teoria “economica” marxiana anche alla luce delle critiche che provenivano sia dal socialismo piccolo borghese (proudhoniani e sismondiani), peraltro già ampiamente “mazziato” da Marx, sia dai “marxisti sviluppisti”. I testi leniniani dimostrano come anche allora, senza cioè aspettare il gigantesco sviluppo capitalistico dell’ultimo secolo, fosse possibile criticare sviluppisti, armonicisti e riformisti d’ogni genere su un solido terreno rivoluzionario. Occorreva semplicemente sviluppare coerentemente e “dialetticamente” i lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica elaborati da Marx sempre a partire dal concetto stesso di capitale.

Ora, il problema della funzione del mercato estero nello sviluppo capitalistico compie con Rosa Luxemburg un clamoroso passo indietro concettuale, giacché essa non solo non pensa ad un mercato extranazionale negli stessi termini in cui lo concepiva Marx (e, come si è visto, Lenin): «il paese più avanzato mostra a quello meno sviluppato il proprio futuro», dal momento che la tendenza immanente dello sviluppo capitalistico è quello di dominare e di trasformare l’economia di tutti i paesi del mondo; ma fondamentalmente ella lo immagina diverso da come se lo prospettavano gli stessi populisti. Nella sua concezione, infatti, il problema del mercato estero come base del capitalismo nazionale si identifica con quello relativo alla presenza di un ambiente non-capitalistico accanto al capitalismo, ambiente che deve esistere sia all’interno dei singoli paesi sviluppati, sia al loro esterno. La Luxemburg non parla tanto di “mercato estero”, quanto di “mercato esterno”, esterno al Capitalismo.

Secondo la Luxemburg nella sua teoria della crisi Marx «esclude il profondo e fondamentale conflitto fra capacità produttiva e capacità di consumo della società capitalistica, originata appunto dall’accumulazione di capitale, che si traduce periodicamente in crisi e spinge il capitale ad un continuo allargamento del mercato» (32). Non sono d’accordo. Diciamo piuttosto che Marx, contro i sottoconsumisti, spiegava la crisi peculiare del Capitalismo non tanto con «il conflitto fra capacità produttiva e capacità di consumo della società», una “dialettica” che peraltro su basi capitalistiche si rinnova continuamente, ma in primo luogo con il conflitto che sempre di nuovo insorge nel processo di produzione del valore fra l’investimento capitalistico, sempre crescente (soprattutto nella sua parte “costante”, ossia per ciò che riguardo il capitale destinato all’acquisto di mezzi di produzione), e la sua valorizzazione, la quale solo sotto date condizioni dà piena soddisfazione al capitale. Ed è proprio la continua tensione che si stabilisce tra l’investimento produttivo di capitale e le condizioni della sua valorizzazione che genera i più importanti fenomeni sociali: ristrutturazioni tecnologiche, implementazione di nuovi modelli organizzativi, incremento dello sfruttamento, licenziamenti, allargamento dei mercati, esportazione di merci e di capitali, guerre commerciali e guerre militari e quant’altro. Scriveva Marx: «È pura tautologia dire che le crisi provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di consumatori in grado di pagare […] Il fatto che merci siano invendibili non significa altro se non che non si sono trovati per esse dei compratori in grado di pagare, cioè consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare una parvenza di maggior approfondimento col dire che la classe operaia riceve una parte troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi rimedio quando essa ne rice­vesse una parte più grande, e di conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il salario in generale cresce e la classe operaia realiter riceve una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinato al suo consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi cavalieri del sano e “semplice” buon senso – dovrebbe allontanare la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica compren­da delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva volontà, che solo momentaneamente consentono quella relativa pro­sperità della classe operaia, e sempre soltanto come procel­laria di una crisi» (33).

In realtà la produzione capitalistica non trova alcun limite assoluto nella vendita di “beni e servizi” perché in linea di principio la capacità di consumo della società è illimitata, esattamente come la fame di profitti del Moloch capitalistico. Tuttavia quella capacità, “naturalmente elastica”, in regime capitalistico deve fare i conti con la “bronzea legge del profitto”, e non a caso lo scambio tra chi offre e chi consuma è mediato dal denaro (34), «forma generale della ricchezza» (Marx) che in una forma assai mediata, e quindi difficile da cogliere sul piano empirico, riassume in sé il concetto di lavoro sociale astratto. Come ho già detto, l’analisi marxiana della merce scopre il vero limite di quella produzione, un limite che il capitale è chiamato a superare con ossessiva puntualità, in qualcosa di impalpabile, che sfugge all’analisi empirica del processo economico capitalistico colto nella sua totalità. Mi riferisco alla complessa dialettica che viene a stabilirsi tra produttività del lavoro (misurata dal saggio del plusvalore), produttività del capitale totale investito (misurato dal saggio del profitto) e struttura tecnologica dell’impresa (o «composizione organica del capitale», misurata in termini di valore nel rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione e quello investito in salari: c/v). Ma qui rinvio senz’altro al III libro del Capitale.

«Si può ben supporre che Rosa Luxemburg non avrebbe mai concepito la sua teoria della necessità delle aree non capitalistiche come condizione di esistenza del capitalismo, qualora avesse riconosciuto le conseguenze della legge del valore di Marx. Non c’è alcun dubbio che dalla lettura del Capitale di Marx risulta la condizione del crollo (35). I primi due decenni della critica marxiana furono dominati da questo pensiero. Alla svolta del secolo Tugan-Baranowsky fornì la sua presentazione di una possibilità di sviluppo illimitato del capitalismo in equilibrio armonico, privo di perturbazioni. Gli fecero eco presto Hilferding e Otto Bauer, infine Kautsky. Fu naturale così che Rosa Luxemburg difendesse la concezione fondamentale del crollo necessario del capitalismo contro le deformazioni degli epigoni» (36). Purtroppo la Luxemburg si convinse che i detrattori del crollo avevano in fondo qualche ragione quando proclamavano di sviluppare le loro tesi armoniciste in perfetta concordanza con la teoria marxiana dell’accumulazione capitalistica, almeno come essa appare sintetizzata (semplificata) negli schemi di riproduzione: un errore che la condusse su un terreno pieno di rovinose buche concettuali.

«Per quanto si possano più esattamente determinare le molle economiche interne dell’imperialismo, una cosa è intanto chiara e universalmente riconosciuta: la sua essenza consiste nell’espansione del dominio del capitale dai vecchi paesi capitalistici a territori nuovi, e nella concorrenza economica e politica fra quelli per la conquista di questi. Ma, come s’è visto, nel II libro Marx suppone che il mondo intero sia ormai “una nazione capitalistica”, che tutte le altre forme sociali ed economiche siano già scomparse. Come spiegare l’imperialismo in una società che non gli concede più spazio?» (37). Qui davvero viene in chiara luce il limite teorico di Rosa Luxemburg su tre punti teorici fondamentali: la comprensione del II libro del Capitale, la comprensione della natura del capitale, la comprensione della natura del fenomeno “imperialismo”. Questo grave limite è sempre connesso con la sua tesi secondo la quale il Capitalismo per esistere ha bisogno di un ambiente precapitalistico da assoggettare, sfruttare, vampirizzare, tesi che naturalmente si connette direttamente al problema della realizzazione del valore. Ora, lo sfruttamento colonialista dei Paesi precapitalistici e semicapitalistici costituì la fase d’infanzia dell’imperialismo capitalistico, non la sua condizione permanente di esistenza. Lungi dall’indebolirsi, l’imperialismo si rafforza enormemente con l’assoggettamento dell’intero pianeta al rapporto sociale capitalistico, con la trasformazione dei Paesi non-capitalisti in Paesi capitalisti. Lo sfruttamento imperialistico non solo permane nella relazione tra i Paesi capitalistici, ma proprio lì assume la sua più alta e peculiare espressione.

Oggi che il mondo è davvero diventato una sola «nazione capitalistica» o, ancor più precisamente, una sola società dominata dal rapporto sociale capitalistico (la Società-Mondo che ha nelle nazioni i suoi nodi locali), sappiamo che l’imperialismo non ha affatto bisogno di aree non-capitalistiche o precapitalistiche per conservarsi e rafforzarsi. Il Terzomondismo dei decenni passati vedeva solo la relazione antagonistica Nord-Sud, ossia tra i Paesi capitalisticamente avanzati e quelli capitalisticamente arretrati (peraltro definiti “socialisti” sulla scorta dell’ideologia allora trionfante, lo stalinismo nelle sue varianti nazionali: maoismo, castrismo e così via); esso trascurava invece di analizzare il fondamentale confronto imperialistico che si svolgeva nel seno del “Primo mondo”, centrato soprattutto sulla competizione economica, tecnologica e scientifica, ossia, è bene ripeterlo, sul fondamento stesso del moderno imperialismo.

Scriveva Grossmann: «Come si concilia l’esportazione di capitale con la teoria di Rosa Luxemburg circa il fatto che il plusvalore non può essere realizzato nel capitalismo? Rosa Luxemburg dedica a tale questione un apposito capitolo: “I prestiti internazionali”. Lungo quasi 30 pagine leggiamo come i paesi dell’Europa, capitalisti di lunga data, esportino il capitale in paesi non capitalistici, come vi fondino persino fabbriche e costruiscano il sistema capitalistico e attirino gradualmente nelle loro “sfere d’influenza” questi paesi. […] E che cosa viene dimostrato con tutte queste esposizioni? Viene forse mostrato che il plusvalore prodotto nei paesi capitalistici avanzati viene “realizzato” in quelli non capitalistici? Nemmeno per sogno! vediamo piuttosto che i fellah e gli altri popoli asiatici e africani ecc. devono lavorare a lungo e a buon mercato, appena che essi vengono attratti nella sfera capitalistica; vediamo in una parola non come venga realizzato il plusvalore prodotto nel capitalismo, ma come venga prodotto nei paesi non capitalistici con l’aiuto dell’esportazione di capitale un plusvalore addizionale e venga trasferito nei paesi a capitalismo avanzato. Il fatto dell’esportazione di capitale non solo non si lascia conciliare con la teoria di Rosa Luxemburg, ma si trova sempre con essa in diretta contraddizione. Essa non si trova in alcun nesso con la realizzazione del plusvalore, non rappresenta dunque un problema della sfera della circolazione, è piuttosto un problema della sfera della produzione, della produzione di plusvalore addizionale all’estero» (38). Tra l’atro Grossmann nota che «il più antico sostenitore della teoria che spiega il crollo del capitalismo con la mancanza di aree di sbocco non capitalistiche, è H. Cunow. […] La diagnosi marxiana delle tendenze di sviluppo del capitalismo – si dice nell’articolo di Cunow – era esatta; Marx s’ingannò soltanto in rapporto al tempo dello sviluppo, perché nella sua epoca aveva considerato come dati i mercati di sbocco esistenti» (39). Giustamente Grossmann osservava che quella aspettativa crollista era completamente infondata sulla base della concezione di Marx, il quale considerava la dimensione mondiale del Capitalismo come la dimensione più adeguata al concetto stesso di capitale. «Marx esamina bensì attentamente il processo dell’appropriazione di mezzi di produzione noncapitalistici e di trasformazione del contadiname in proletariato capitalistico. […] Ma, nel dare l’analisi teorica del processo di produzione e circolazione del capitale, Marx torna continuamente al suo presupposto di un predominio generale ed esclusivo della produzione capitalistica. Senonché, anche nella maturità piena, il capitalismo è legato in ogni suo rapporto all’esistenza di strati e società non-capitalistici» (40). Occorre ripeterlo: la prassi capitalistica dell’ultimo secolo ha dato ampiamente ragione ai presupposti teorici di Marx e torto ai presupposti teorici di Rosa Luxemburg. «Rosa Luxemburg con la sua ipotesi ausiliaria, costruita ad hoc circa la necessità dei paesi non capitalistici, pensava di prendere due piccioni con una fava, confutare i sogni fatti dai nuovi assertori dell’armonia e dell’equilibrio, mostrare la necessità economica della fine del capitalismo e spiegare contemporaneamente l’imperialismo» (41). Eccellenti le intenzioni, disastrosi i risultati teorici.

Cosa pensava dunque la Luxemburg dell’imperialismo? «L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro» (42). La tesi è ribadita nell’Anticritica: «L’attuale imperialismo […] è il periodo della lotta generale e acutizzata di concorrenza fra gli stati capitalistici per gli ultimi resti di ambiente non-capitalistico sopravvissuti nel mondo» (43). La sacrosanta battaglia contro chi (Kautsky, Hilferding, ecc.) vedeva nel moderno imperialismo una «malvagia» scelta che faceva capo a determinati gruppi industriali e finanziari sostenuti da movimenti politici particolarmente reazionari, e non invece «una necessità storica», venne puntellata teoricamente da Rosa Luxemburg con una concezione completamente sbagliata circa la genesi e la natura dell’imperialismo. Anche su questo punto la Luxemburg commise l’errore di teorizzare una data condizione del Capitalismo mondiale che, come sappiamo (vedi sviluppo capitalistico in Cina, India, ecc.), sarebbe radicalmente cambiata nel tempo senza avvicinare di un solo millimetro il Capitalismo alla tomba. «Quest’idea», scriveva Paul Mattick, «aveva una certa plausibilità per il fatto che realmente il capitalismo si diffondeva sul piano geografico e coinvolgeva sempre nuovi Paesi nell’economia mondiale. ma non aveva niente a che vedere con la teoria marxiana dell’accumulazione» (44). Infatti, l’imperialismo ha a che fare, e so di ripetermi, con il concetto di capitale e con la prassi del capitale, non con il restringimento del presunto spazio vitale costituito dall’ambiente non-capitalistico.

 

(1) M. Turchetto, Leggere L’accumulazione del capitale.
(2) P. Frolich , Rosa Luxemburg, p. 430, Rizzoli, 1987. Gli assassini materiali di Rosa Luxemburg, riconosciuti dal Tribunale di Berlino nelle persone di Runge e Vogel, se la caveranno con poco: il primo riceve una condanna di due anni e due settimane, il secondo di due anni e quattro mesi. Pochi giorni dopo Vogel verrà messo nelle condizioni di scappare in Olanda, e sarà poi amnistiato. I padroni sanno essere riconoscenti con i loro cani da guardia.
(3) R. Luxemburg, in Scritti politici, p. 621, Editori Riuniti,1967.
(4) E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente, p. 21, Dedalo, 1974.
(5) G. Lukács, Storia e coscienza di classe, pp. 56-57, Sugarco, 1988.
(6) P. M. Sweezy, Introduzione a R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, p. XXX, Einaudi, 1980.
(7) R. Luxemburg, Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica, in L’accumulazione del capitale, p. 588.
(8) P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, p. 103, Dedalo, 1979.
(9) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione е del crollo del sistema capitalistico p. 38, Jaca Book, 1977.
(10) G. Russo, Capitalismo, stagnazione secolare, e politica monetaria. Una critica, 26 ottobre 2015, Centro Einaudi.
(11) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, p. 9, La Nuova Italia, 1978
(12) La natura dell’imperialismo cinese.
(13) Dal secolo giapponese al tramonto del Sol Levante.
(14) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 255
(15) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, in Scritti politici, p. 207.
(16) Ecco come Bernstein sintetizzò, ridicolizzandola, la concezione dogmatica che si era fatta strada nella socialdemocrazia tedesca: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Così di una teoria che era essa stessa il prodotto della pratica concreta del movimento operaio e dello sviluppo delle correnti spirituali che l’accompagnavano, si è fatto una rivelazione divina, in sé conchiusa fin dal primo giorno e che era, è e sarà in eterno come al principio di tutte le cose. In tal modo però il marxismo viene diffuso come la saggezza definitiva, tanto che si danneggia il pensiero di Marx più di quanto gli si giovi, giacché si costringe la conoscenza che preme per farsi riconoscere la propria autorità a presentarsi in polemica con Marx» (cit. tratta da Storia del marxismo contemporaneo, I, Einaudi, 1978). Bernstein sembra dire ai “marxisti ortodossi”: «Siete voi che mi costringete a polemizzare con Marx, mentre io non faccio che essere fedele al suo spirito critico». Ma il problema vero è che il dogmatismo dei sacerdoti “marxisti” non solo non aveva nulla a che fare con il «Verbo» marxiano, ma ne era piuttosto una brutta caricatura, e ciò rendeva ancora più difficile cogliere la differenza tra la critica marxiana dell’economia politica e il marxismo ufficiale.
(17) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 199.
(18) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 498.
(19) Marx elaborò il suo schema della riproduzione semplice riprendendo il Tableau Economique del fisiocratico Quesnay. «Il Tableau économique di Quesnay mostra in pochi grandi tratti come un prodotto annuo della produzione nazionale, determinato nel valore, si ripartisce attraverso la circolazione così che, rimanendo invariate le altre circostanze, possa svolgersi la sua riproduzione semplice, cioè la riproduzione sulla stessa scala. In conformità con ciò, il raccolto dell’ultimo anno costituisce il punto di partenza del periodo di produzione. […] L’agricoltura viene esercitata capitalisticamente. […] Il carattere capitalistico del sistema fisiocratico provocò, già durante il suo periodo di fioritura, l’opposizione da un lato di Linguet e Mably, dall’altro dei difensori della libera piccola proprietà fondiaria. Il regresso di A. Smith nell’analisi del processo di riproduzione è tanto sorprendente, in quanto altrove egli elabora ulteriormente le giuste analisi di Quesnay» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 377-378). La prima versione del Tableau économique risale al 1758; la terza e ultima al 1759. «Il Tableau économique costituisce a tutt’oggi una delle più suggestive performances prodotte nel quadro di quella riflessione collettiva che nel corso del secolo XVIII, tra Francia e Inghilterra, ha tentato di costruire un’economia politica con statuto di scienza. Come tale, oltre a una serie di straordinari apprezzamenti, esso ha collezionato una sostanziosa lista di altrettanto considerevoli contestazioni» (G. Longhitano, Introduzione a F. Quesnay, Tableau économique, pp. 9-10, CUECM, 1992).

«Porremo a base della nostra indagine sulla riproduzione semplice lo schema seguente, in cui c = capitale costante, v = capitale variabile, pv = plusvalore e il rapporto di valorizzazione pv/v è supposto uguale al 100%. I numeri possono indicare milioni di marchi, di franchi o di sterline.

I. Produzione di mezzi di produzione
4000 c + 1000 v + 1000 pv = 6000

II. Produzione di mezzi di consumo
2000 c + 500 v + 500 pv = 3000

Ne deriva che il prodotto-merce complessivo annuo è
6000 c + 1500 v + 1500 pv = 9000» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 414).

Se il plusvalore realizzato dalla classe capitalista non viene interamente consumato ma in parte reinvestito in una nuova produzione, viene cioè accumulato, si ha la riproduzione su scala allargata. Nel caso della riproduzione semplice Marx fa l’ipotesi che tutto il plusvalore venga speso dai capitalisti come reddito, venga cioè consumato improduttivamente; nel caso della riproduzione allargata, Marx pone invece l’ipotesi che tutto il plusvalore venga accumulato, ossia consumato produttivamente nell’acquisto di nuovi mezzi di produzione e di nuova capacità lavorativa. Circa la realizzazione dei prodotti «la risposta la dà lo stesso schema nel modo più semplice, giacché tutti i prodotti vi trovano smercio. Acquirenti sono gli stessi capitalisti e lavoratori. […] Non esiste dunque problema da risolvere» (A. Pannekoek, cit. tratta da R. Luxemburg, Una anticritica, p.497
(20) «La produzione capitalistica in generale non esiste senza commercio estero. Ma se si presuppone una normale riproduzione annua su una scala data, si presuppone anche che il commercio estero si limiti a sostituire articoli locali con altri articoli di altra forma d’uso o altra forma naturale, senza toccare i rapporti di valore, e senza toccare quindi neppure i rapporti di valore in cui le due categorie, mezzi di produzione e mezzi di consumo, si scambiano reciprocamente, e nemmeno i rapporti tra capitale costante, capitale variabile e plusvalore., in cuiè scomponibile il valore del prodotto di ciascuna di queste categorie. L’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto può quindi creare soltanto della confusione, senza fornire nessun momento nuovo né del problema né della sua soluzione. Si deve quindi farne completa astrazione» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 488, Editori Riuniti, 1980).
(21) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 450.
(22) «Come il valore di ogni singola merce, così anche quello del prodotto complessivo annuo di ciascuna sezione si suddivide in c + v + pv. […] Abbiamo visto come, per Smith, il valore complessivo sociale dei prodotti si risolva in reddito, in v + pv, come dunque il valore capitale costante venga posto uguale a zero» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 415-493).
(23) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 325.
(24) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 30Newton, 1976.
(25) G. Carandini, Lavoro e capitale nella teoria di Marx, p. 160, Mondadori, 1979.
(26) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, pp. 118-122.
(27) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 70-71- 77.
(28) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale,  pp. 153-361.
(29) Ibidem, p. 351.
(30) Ibidem, p. 316.
(31) «Il problema della realizzazione è il seguente: come trovare per ogni parte del prodotto capitalistico, sia dal punto di vista del valore (capitale costante, capitale variabile e plusvalore), che da quello della sua forma materiale (mezzi di produzione, beni di consumo, e, in particolare, generi di prima necessità e articoli di lusso) un’altra parte del prodotto che la sostituisca al mercato? È chiaro che qui si deve fare astrazione dal mercato estero, giacché chiamando in causa quest’ultimo non si fa progredire di un millimetro la soluzione del problema: ci se ne allontana, anzi, trasferendo il problema da uno a più paesi. […] anche lo smercio del prodotto sul mercato estero richiede di essere spiegato; bisogna cioè trovare un equivalente per la parte della produzione messa in vendita, bisogna trovare un’altra produzione capitalistica capace di sostituire la prima. Ecco perché Marx dice appunto che nell’esame del problema della realizzazione “si deve fare completa astrazione” dal mercato estero, dal commercio estero, giacché “l’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto può creare soltanto della confusione, senza fornire nessun momento nuovo né del problema né della sua soluzione”» (Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Opere, III, pp. 22-23, Editori Riuniti, 1963).
(32) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale,  p. 340.
(33) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 429-430, Einaudi, 1980.
(34) «Nella produzione di merci, la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita, è conditio sine qua non. […] Con la separazione fra il processo di produzione immediato e il processo di circolazione è nuovamente e ulteriormente sviluppata la possibilità delle crisi, che si mostrava nella semplice metamorfosi della merce» K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I,  pp. 3-6, La Nuova Italia, 1978).
(35) Qui il concetto di crollo non ha nulla a che fare con la concezione ideologica definibile come crollista. Per crollo Grossmann intende una tendenza immanente al processo di valorizzazione del capitale che incontrando controtendenze di vario genere si manifesta in concreto come crisi economica. Il crollo marxiano cui fa riferimento Grossmann non è dunque definitivo/mortale/fatale, ma prepara anzi il terreno per una nuova ascesa capitalistica, in attesa di un successivo crollo, e così via. Salvo, beninteso, le sempre possibili e auspicabili soluzioni rivoluzionarie.
(36) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p 265.
(37) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 491.
(38) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, pp. 487-488.
(39) Ibidem, p. 55.
(40) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale,  p. 360.
(41) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 266.
(42) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale,  p. 447.
(43) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 585.
(44) P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, p. 102

A DIECI ANNI DALLA “GRANDE CRISI” (IV)

Crisi capitalistica formale o concettuale e crisi capitalistica peculiare

 Tutti gli economisti hanno ogni volta
ammesso come unica ragione della crisi
ciò che era l’occasione più manifesta della
crisi di quel momento (1).

Quando Smith spiega la caduta del saggio
di profitto con la sovrabbondanza di capitale,
con l’accumulazione di capitale, si tratta di un
effetto permanente, e ciò è falso. Invece la
sovrabbondanza transitoria di capitale, la
sovraproduzione, la crisi, sono cose differenti.
Non vi sono crisi permanenti (2).

 

Nei precedenti post sul decennale della Grande crisi ho cercato di abbozzare, attingendo a piene mani dalla generosa e preziosa miniera concettuale marxiana, una critica nei confronti della tesi “speculativo-finanziaria” circa le cause di fondo di quella crisi. Una tesi che si è largamente imposta anche in non pochi ambienti culturali e politici della cosiddetta sinistra radicale. A mio avviso, ho argomentato non si sa con quanta efficacia, si tratta piuttosto di spiegare il gonfiarsi delle «bolle di sapone» della speculazione a partire dalla cosiddetta economia reale, nel cui seno vanno ricercate le vere cause del processo di finanziarizzazione dell’economia e dell’insorgere delle crisi, compresa l’ultima crisi internazionale partita nell’estate del 2007 dal settore finanziario statunitense. In questo post cercherò di affrontare in termini ancora più generali (più astratti, e quindi più essenziali) il tema della crisi così come lo troviamo problematizzato nella vastissima opera marxiana. La “morale” del discorso è sempre quella (ed è possibile affermarla solo cogliendo l’essenza della vigente società): alla base del processo economico capitalistico colto nella sua inscindibile totalità, insiste un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. E infatti, come ho scritto altre volte, la teoria marxiana del valore-lavoro è in radice la teoria dello sfruttamento del lavoro salariato da parte del Capitale, un mostro che ha conquistato l’intero pianeta. Il Moloch capitalistico merita davvero la “c” maiuscola!

1. Crisi capitalistica formale o concettuale

Chi si arrestasse alla lettura del Terzo libro del Capitale, peraltro interamente “assemblato” tra mille difficoltà da Engels, potrebbe pensare che Marx avesse in testa una concezione sostanzialmente monocausale della crisi: la crisi come conseguenza della caduta relativa della massa del plusvalore (3). Ma le cose non stanno affatto così, e per capirlo è sufficiente compulsare, ad esempio, la Storia delle teorie economiche (o Teorie del plusvalore) un testo “assemblato” questa volta da Karl Kautsky, il futuro “rinnegato” di leniniana memoria, tra il 1904 e il 1910.

Nel secondo volume di quell’importante opera marxiana compare uno scritto (Accumulazione di capitale e crisi) dedicato nella sua ultima sezione appunto alle crisi (4). In queste pagine Marx mostra come la crisi capitalistica genericamente intesa (quella che, sempre rubacchiando dal ricchissimo scrigno teorico del comunista di Treviri, definisco formale) possa accendersi in uno qualsiasi dei momenti che costituiscono il processo di produzione e di circolazione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, e ciò a causa del concetto stesso di capitale. Il Capitale è una “sostanza sociale” altamente infiammabile a causa delle sue ineliminabili contraddizioni, già immanenti alla sua forma più semplice e più peculiare: la merce. Più peculiare perché la merce, come sanno i lettori del Primo libro del Capitale, non è una cosa; non è un generico prodotto (valore d’uso) del lavoro umano applicato a oggetti naturali e artificiali in vista della loro trasformazione in qualcosa di utile all’uomo, ma l’espressione dei rapporti sociali capitalistici. Come dico spesso, riprendendo uno slogan pubblicitario di qualche decennio fa, dove c’è merce, c’è Capitalismo. In effetti, con e nella merce il Capitale si sente a casa sua.

Come abbiamo detto, per Marx il Capitalismo è un sistema economico intrinsecamente e necessariamente disarmonico e contraddittorio, e la crisi, lungi dal perturbare una condizione di equilibrio, per un verso è l’espressione più verace della fisiologica e generale disarmonia capitalistica, e per altro verso cerca piuttosto di porre rimedio al caos e all’anarchia generali. Ciò che caratterizza l’accumulazione capitalistica è, scrive Marx, «la costante disproporzione»: sproporzione di capitali, di mezzi di produzione, di materie prime, di capacità lavorativa, e fino a un certo punto questa costante sovrabbondanza (di capitali, di mezzi di produzione, di forza-lavoro, ecc.) non causa eccessivi problemi al Capitale e anzi assicura il procedere dell’accumulazione a ritmi sempre più accelerati, e rende anche possibile l’apertura di nuove sfere produttive e la creazione di nuovi mercati. Qui il marketing dà il meglio di sé: esso è chiamato a creare sempre di nuovo impellenti bisogni “artificiali” da soddisfare in individui che per il Capitale rappresentano un biomercato praticamente inesauribile, una prateria che non conosce confini assoluti ma solo limes contingenti che esistono solo per venir oltrepassati. «L’essenza della produzione capitalistica implica dunque la produzione senza riguardo ai limiti del mercato» (5). L’oltremisura, lo smisurato: è la dimensione naturale del Moloch qui preso in esame. Dinanzi a questa mostruosa natura ogni tentativo di porre un argine alla sua vocazione mi appare, non solo illusorio e chimerico, ma senz’altro stupido e patetico. Il Mostro non può essere addomesticato, o umanizzato (sic!), mentre potrebbe conoscere la propria fine nella rivoluzione sociale anticapitalista. Qui è il concetto di utopia (6), non quello di chimera, che viene avanti!

Meglio l’abbondanza che la mancanza: è il motto del Capitale nei giorni della prosperità, quando tutto ciò che serve al pieno dispiegarsi dell’accumulazione deve essere sempre pronto, al posto giusto e al momento giusto, senza intoppi, senza frizioni di sorta. Inutile sottolineare il ruolo fondamentale che il credito ha in tutto ciò. Secondo Marx la condizione di equilibrio rappresenta una mera casualità, fa parte dei fenomeni accidentali, mentre la condizione di squilibrio costituisce la normalità, la fisiologia del processo di accumulazione. «La continuità di questo processo presuppone la costante disproporzione» (7). Più in generale, l’equilibrio armonico della e nella società borghese è da Marx escluso in linea di principio, non come astratta petizione ideologica, ma come espressione di una realtà colta nella sua essenza storica e sociale e nella sua concreta dinamica.

Ovviamente questa effervescente e “anarchica” fisiologia, qui sommariamente richiamata, espone l’investimento capitalistico (e la vita di ciascun individuo!) a molti rischi.

Ad esempio, un esempio assai più pregnante ai tempi di Marx che ai nostri tempi, se il ritmo dell’accumulazione in molte e importanti sfere produttive diventa così forsennato da superare la capacità produttiva delle imprese che le riforniscono di mezzi di produzione e di materie prime; se cioè la «produzione reale non può tenere il passo» di quell’accumulazione, «salgono i prezzi di tutte le merci che entrano nella formazione del capitale», e ciò può incidere fin troppo pesantemente sul saggio del profitto, al punto da provocare l’arresto della produzione nelle sfere produttive interessate dal fenomeno, con un effetto domino, sull’economia cosiddetta reale e su quella finanziaria, facilmente intuibile. Questa possibilità di crisi è immanente al concetto stesso di capitale. Ma in quel concetto è implicita anche la «metamorfosi della merce», ossia la trasformazione del valore di scambio in denaro, salto mortale che non sempre giunge a buon fine, con ciò che ne segue in termini di insuccesso per l’investimento produttivo. Scrive Marx: «Nella produzione di merci, la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita, è conditio sine qua non. […] Con la separazione fra il processo di produzione immediato e il processo di circolazione è nuovamente e ulteriormente sviluppata la possibilità delle crisi, che si mostrava nella semplice metamorfosi della merce» (8).

La possibilità formale della crisi deriva anche dal denaro nella sua qualità di mezzo di pagamento (cambiale, tratta, ecc.), proprietà che consente di dilazionare nel tempo il pagamento della merce (o del servizio) acquistata. Questo straordinario supporto all’economia capitalistica rende però possibile l’effetto domino (o, più volgarmente, catena di Sant’Antonio) delle insolvenze: «Qui già vediamo una connessione fra i crediti e le obbligazioni reciproche, fra gli acquisti e le vendite, dove la possibilità [della crisi] può svilupparsi a realtà» (9).

L’autonomizzarsi di ogni singolo momento interno alla prassi economica considerata nella sua totalità (produzione, scambio, credito, speculazione, investimento) genera continuamente e in ogni punto di quella totalità la possibilità astratta della crisi, la quale peraltro ha il significato di mostrare proprio l’impossibilità di quell’autonomizzazione. «Vi è una massa di momenti, di condizioni, di possibilità di crisi, che non possono essere esaminati se non considerando i rapporti concreti, specialmente la concorrenza dei capitali e il credito» (10). Estremizzando un po’ il discorso potremmo affermare che lo scandalo, per così dire, non è rappresentato dalla crisi economica, ma piuttosto dalla sua mancanza, visto che le sue premesse sono praticamente illimitate proprio perché derivano dal concetto stesso di capitale.  Il capitale, insomma, come monocausa della crisi.

La crisi, osserva Marx, può scaturire anche da un improvviso e cospicuo rincaro nel costo della materia prima trasformata in un’importante branca industriale: «»Se si deve spendere di più in materie prime, resta di meno per il lavoro. […] La riproduzione non può essere ripetuta al medesimo livello. Una parte del capitale fisso resta ferma, una parte degli operai viene gettata sul lastrico. Il saggio di profitto cade, perché il valore del capitale costante è salito rispetto a quello del capitale variabile impiegato. […] Quindi crisi. Crisi di lavoro e crisi di capitale» (11). Qui ci avviciniamo concettualmente alla forma capitalisticamente peculiare della crisi, perché l’innalzamento del prezzo della materia prima altera la composizione organica del capitale, incidendo sul saggio del profitto. Tuttavia in questo caso la variazione nella composizione organica non riflette un mutamento nella composizione tecnica del modo di produzione, dialettica che invece connota il capitalismo in generale, e il Capitalismo altamente sviluppato in particolare.

Scrive Marx: «[La] sovraproduzione [è] il fenomeno fondamentale della crisi» (12). Attenzione: qui Marx scrive «fenomeno fondamentale della crisi», non causa fondamentale della crisi. Che significa? Che ogni crisi generale si manifesta innanzitutto come sovrapproduzione di merci (e come sovrabbondanza di capitali), ma che la sovrapproduzione di merci non è la causa fondamentale di tutte le crisi. Abbiamo visto anzi che la sovrapproduzione di merci è, fino a un certo punto, una condizione fisiologica nell’ambito della produzione capitalistica, mentre essa diventa patologica con l’esplodere della crisi. È la crisi che trasforma in patologia ciò che rientra nella fisiologia del processo capitalistico di produzione. Ma c’è di più! C’è il fatto che «la parola sovraproduzione induce in sé in errore», il quale consiste nel dimenticare che la merce non è che una delle forme assunte dal Capitale nel suo ciclo di vita, e che dunque parlare di sovrapproduzione di merci equivale a parlare di sovrabbondanza (o «pletora») di capitali, il che ci riporta concettualmente dalla sfera della circolazione, ossia del mercato nel quale giacciono invendute le merci, alla sfera della valorizzazione capitalistica. Soprattutto, osserva Marx, «nel passaggio dall’espressione “sovraproduzione di merci” all’espressione “sovrabbondanza di capitale”» si rende esplicito il carattere sociale del problema, ossia il fatto che «i produttori non si contrappongono come semplici possessori di merci ma come capitalisti», vale a dire come sfruttatori di lavoro salariato (13). Di solito Marx usa il termine produttori per alludere ai lavoratori impegnati direttamente nella produzione, mentre qui con quel termine designa appunto i capitalisti, ossia i produttori considerati dal punto di vista dell’economia politica.

Ciò che nella crisi rimane invenduto; ciò che esubera le capacità di assorbimento del mercato non sono, in primo luogo, beni di consumo immediato, ma soprattutto beni durevoli, e fra questi spiccano quanto a massa di capitali i mezzi di produzione e le materie prime, cioè a dire i fattori oggettivi della produzione comprate con quella parte di capitale che Marx definisce costante. Questo ancora una volta ci riporta allo stato di sofferenza del processo di valorizzazione. Licenziamenti e decurtazioni del salario sono anch’essi fenomeni tipici che si presentano nelle crisi di una certa gravità. Cade insomma il potere d’acquisto di una notevole massa di proletari, ma anche un settore abbastanza largo di piccola borghesia vede ridursi la propria capacità di acquisto. La vendita di merci di largo consumo subisce una certa flessione, mentre quella dei beni durevoli (automobili, case, elettrodomestici) acquistati nei momenti di bonaccia (di alta congiuntura) facendo ricorso al credito subisce un vero e proprio tracollo. La flessione dei consumi non è dunque la causa della crisi ma ne è piuttosto la conseguenza e il sintomo forse più appariscente, anche se ovviamente la crisi di realizzazione aggrava la crisi di valorizzazione sottostante secondo un circolo vizioso che coinvolge pesantemente anche la sfera creditizia, come ben sappiamo anche grazie alla Grande crisi di dieci anni fa.

2. Crisi capitalistica peculiare

«Tutte le contraddizioni della produzione borghese si manifestano collettivamente nelle crisi mondiali generali, e solo in maniera dispersa, isolata, unilaterale nelle crisi particolari» (14). La crisi del mercato mondiale rappresenta dunque per Marx la crisi specifica, peculiare del vigente modo di produzione che ha nella ricerca del profitto la sua più potente ragion d’essere e nelle condizioni di profittabilità dell’investimento capitalistico la causa scatenante delle crisi, ciò che fa precipitare «l’astratta possibilità» delle crisi parziali latenti in ogni singolo momento della prassi economica in reali crisi. Nella crisi del mercato mondiale queste crisi parziali e momentanee convergono in un solo, generale e drammatico evento critico. «Nelle crisi del mercato mondiale erompono le contraddizioni e le antitesi della produzione borghese. Ora, invece di indagare in che cosa consistono gli elementi in conflitto, che nella catastrofe giungono all’esplosione, gli apologeti si accontentano di negare la catastrofe stessa, […], si ostinano a ripetere che se la produzione si regolasse secondo i manuali, non si arriverebbe mai alla crisi» (15). Appare chiaro che quando Marx parla di «mercato mondiale» intende riferirsi al processo capitalistico di accumulazione colto nella sua totalità (produzione, distribuzione, circolazione) e nella sua dimensione planetaria, una dimensione che è assai più vera oggi che ai tempi del nostro ubriacone tedesco, il quale non profetizzava (magari con l’aiutino di un buon bicchiere di vino) un bel niente, ma piuttosto analizzava il Capitale a partire dal suo stesso concetto, il quale postula appunto la dimensione mondiale del Capitale, dal momento che per sopravvivere esso deve espandersi sempre di nuovo spazialmente (in tutto il pianeta), socialmente (in tutta la società) e “esistenzialmente” (in tutte le manifestazioni della vita umana). Personalmente declino in questi termini i concetti di globalizzazione capitalistica e di totalitarismo capitalistico.

«La crisi reale può essere rappresentata solo dal movimento reale della produzione capitalistica, dalla concorrenza e dal credito» (16). Si tratta di tre momenti tra loro molto – intimamente – intrecciati che si influenzano reciprocamente. Ma il punto di partenza logico e fattuale del processo è dato naturalmente dalla creazione del valore (e del plusvalore), senza il quale non sarebbe possibile nessun movimento nell’economia e nella società in generale. Ovviamente parlo della vigente – e mondiale – società. Qui intendo sempre riferirmi alla creazione del valore sociale primario o basico, secondo la definizione già data nei precedenti post, ossia alla produzione di beni (valori d’uso) che incorporano valore di scambio che deve convertirsi in denaro, pena il fallimento dell’investimento capitalistico. Nel prezzo che vediamo appiccicato, idealmente o realmente, sul corpo della merce che giunge sul mercato per tentare il capitombolo di cui parlava Marx nel primo libro del Capitale (la metamorfosi della merce: dal valore di scambio alla forma denaro) è concentrato un processo (tecnico e sociale) che naturalmente si svolge interamente alle spalle dei consumatori, e che non è controllato dagli stessi produttori immediati (i lavoratori), né dai singoli capitalisti che pure beneficiano dell’avvenuta “metamorfosi”.

Come scriveva Marx, il processo di valorizzazione del capitale è, al contempo, processo tecnico (oggettivo) di produzione, fatto appunto di macchine, di materie prime e ausiliarie e di capacità lavorativa (fatto cioè di valori d’uso messi insieme dal capitale secondo un metodo razionale in vista di un prodotto), e processo di valorizzazione stricto sensu, in cui entrano in ballo non i valori d’uso dei diversi fattori produttivi, ma i loro valori di scambio, la loro essenza mercantile, il fatto cioè che macchine, materie prime e uomini sono stati comprati con denaro (salario, «capitale variabile») e vengono consumati non per produrre un generico bene, ma una merce. Merci che producono merci: è l’essenza – altamente disumana – del Capitalismo.

Come ho scritto altrove, la fenomenologia monetaria del processo di valorizzazione occulta la sostanza sociale del processo di valorizzazione, ossia il suo essere fondamentalmente un processo di sfruttamento di lavoro vivente, di uomini in carne ed ossa, attuato servendosi di mezzi tecnologici sempre più sofisticati. È qui che, tra l’altro, trova alimento la concezione feticistica dell’economia mercantile, la quale appare come «una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici». «Il capitale», scriveva Thomas Hodgskin nel 1825, «è una specie di parola cabalistica, come Chiesa o Stato, inventata da coloro che tosano la restante umanità allo scopo di nascondere la mano che impugna il coltello da tosare» (17).

Come ricordava Henrik Grossmann nella sua importante opera sulla crisi pubblicata con eccezionale tempismo nel 1929, «già Adam Smith scorge nella caduta del saggio di profitto un pericolo per il modo di produzione capitalistico, poiché il profitto del capitale è il motore della produzione. Però Smith fa scomparire il profitto con la crescente concorrenza del capitale. Ricardo tentò da parte sua di spiegare la legge della caduta del saggio di profitto come legge naturale, col fatto della diminuzione delle forze produttive della terra e con la conseguenza crescita del salario» (18). I limiti concettuali di Smith e Ricardo intorno alla caduta del saggio di profitto esprimevano soprattutto i limiti del Capitalismo del loro tempo, oltre che naturalmente quelli dell’impostazione teorica generale della loro economia politica. E tuttavia, già aver individuato chiaramente il problema ci dice quanto seria e intelligente fosse la loro ricerca e quanto intimamente connesso alla produzione capitalistica sia il fenomeno della caduta del saggio di profitto, già evidente in uno stadio ancora relativamente poco sviluppato del Capitalismo. «Nei discepoli di Ricardo, l’orrore per questa nefasta tendenza assume forme tragicomiche» (19).

A Smith Marx obietta che la sempre più accesa concorrenza intercapitalistica è piuttosto la conseguenza, e non la causa della sofferenza cui la valorizzazione del capitale va incontro a un certo punto del processo di accumulazione, e che quindi l’attenzione va posta su quel “certo punto”, ossia su ciò che innesca la svolta negativa nel processo di valorizzazione. A Ricardo Marx obietta invece la circostanza che vede il saggio di profitto diminuire nonostante la produttività generale del lavoro cresca, e che quindi va individuato il nesso che lega intimamente ciò che agli occhi dell’economia politica classica appariva nei termini di un’inspiegabile contraddizione: la caduta del saggio di profitto in presenza di una crescente produttività del lavoro, anche in agricoltura. Marx scopre che a un certo livello (alto) dell’accumulazione la massa del plusvalore «smunto» alla vacca del lavoro salariato non è più in grado di sostenere l’accumulazione né di valorizzare convenientemente il capitale investito. E questo senza smentire in alcun modo la legge del valore lavoro, e anzi in perfetta armonia con essa. Ricordo a me stesso il concetto marxiano di accumulazione: investire una parte del plusvalore estorto ai lavoratori in un nuovo ciclo produttivo, ingrandendo la massa del capitale messo in gioco nel processo di valorizzazione.

La spinta all’innovazione tecnologica e organizzativa (due aspetti della stessa cosa), che innesca una delicata dialettica nel cuore del processo di valorizzazione del capitale tra saggio del plusvalore, massa del plusvalore e saggio generale del profitto, rende sempre più aspra la concorrenza tra capitali, ossia la corsa alla spartizione del plusvalore sociale mondiale. Le imprese e i Paesi capitalisticamente più avanzati attingono al fondo comune del plusvalore mondiale (quello che Marx chiamava ironicamente «comunismo capitalistico») provvisti di cucchiai più grandi, ed è qui che bisogna individuare, tra l’altro, la radice sociale dell’Imperialismo, il quale prim’ancora d’essere un fenomeno politico (e quindi anche militare), è un fenomeno eminentemente “strutturale”, perché rimanda in modo diretto alla prassi economica e alle innovazioni tecnoscientifiche che essa promuove continuamente, con ciò che ne segue per ciò che concerne le istituzioni formative (scuola, Università, ecc.) di un Paese e così via. E questa dinamica non segna solo i rapporti tra Paesi avanzati e Paesi arretrati, o in via di sviluppo, come si diceva una volta; essa è tipica dei rapporti fra tutti i Paesi del mondo, anche tra quelli più avanzati, perché essere più avanzati o meno avanzati è cosa relativa, non assoluta, e le parti si possono invertire molto velocemente, come dimostra anche la storia delle relazioni interimperialistiche tra i Paesi del Primo mondo (l’area a egemonia statunitense, per intenderci) nel Secondo dopoguerra. Il primato capitalistico non è per sempre (la Gran Bretagna ne sa qualcosa), e comunque esso può essere mantenuto e consolidato solo con molti sforzi.

Scriveva Grossmann: «Proprio il vantaggio tecnico è l’unico mezzo per affermarsi sul mercato mondiale. Quanto più si acuiscono le lotte per il mercato mondiale, tanto più si è costretti al cambiamento della tecnica, e le pause intermedie con immutata base tecnica vengono accorciate» (20). Ovviamente la tecnologia cosiddetta intelligente ha esasperato questo fenomeno. In alcune sfere industriali (per tacere dei servizi) gli imprenditori rimandano l’innovazione tecnologica fino all’ultimo momento, perché temono di acquistare strumenti di produzione diventati già obsoleti solo poco tempo dopo il loro arrivo sul mercato. L’accelerazione tecnologica spiazza continuamente gli investitori del XXI secolo. naturalmente anche il cosiddetto «capitale umano» è esposto al rischio di una sempre più rapida obsolescenza: di qui l’odioso concetto di formazione continua e permanente che esprime la vigenza nel mondo di rapporti sociali odiosi. Attraverso la formazione professionale continua e permanente il Capitale “aiuta” la capacità lavorativa, senza il cui sfruttamento esso non potrebbe esistere, a non uscire dal mercato del lavoro a causa dei continui e sempre più veloci mutamenti nella struttura tecnologico-organizzativa della produzione. Il regno della filantropia capitalistica è davvero raccapricciante!

«Come all’interno del capitalismo pensato isolatamente gli imprenditori che si sono dotati di una tecnica progredita superiore alla media sociale e che vendono le loro merci a prezzi sociali medi, conseguono un extraprofitto, a spese di quegli imprenditori, la cui tecnica rimane al di sotto della media sociale, allo stesso modo sul mercato mondiale i paesi ad alto sviluppo tecnologico conseguiranno sovrapprofitti a spese di qui paesi il cui sviluppo tecnologico ed economico è arretrato» (21).

Per i capitali investiti nell’economia cosiddetta reale farsi concorrenza significa produrre la stessa merce a minor prezzo, cosa che si traduce in un continuo miglioramento nei mezzi di produzione e nell’organizzazione del lavoro. Come già sappiamo Marx chiamava composizione tecnica del capitale il rapporto tra mezzi di produzione e il lavoro vivo, e composizione organica del capitale questo stesso rapporto considerato però dal lato dei valori monetari in gioco.  Generalmente più è alta la composizione organica del capitale (si spende sempre più in mezzi di produzione e sempre meno, in termini relativi o assoluti, in lavoro vivo), e più tecnologicamente avanzata è un’impresa, così come più produttivo è il lavoro che essa impiega. Storicamente la tendenza va in questo senso, e la cosa oggi, nell’epoca in cui si parla, più o meno a sproposito, di «fine del lavoro» e di robotizzazione totale della produzione di beni e servizi, non necessita di esempi. Il credito facilita enormemente la produzione e il consumo (privato e industriale), che si alimentano a vicenda innescando un circolo virtuoso che sembra inarrestabile.

Non sempre la conquistata superiorità tecnologica si traduce per un’impresa industriale in un successo economico. Quando l’accresciuta produttività del lavoro non ha un immediato riscontro in un adeguato accrescimento del saggio del profitto, il cui livello, ad esempio, cessasse di giustificare una nuova capitalizzazione di parte dei profitti, il circolo virtuoso dell’accumulazione potrebbe spezzarsi da un momento all’altro, provocando la crisi dell’impresa non per scarsa efficienza, ma per eccessiva efficienza. Il paradosso si spiega facilmente se consideriamo l’aspetto qualitativo (“valoriale”) e non quantitativo (tecnologico e fisico: quantità delle merci prodotte in un tempo stabilito) del problema. Infatti, la produzione capitalistica è in primo luogo un processo di valorizzazione, il cui obiettivo vitale non è quello di offrire al mercato quanti più beni sia possibile produrre data una certa composizione tecnica, ma intascare il maggiore profitto possibile data una certa composizione organica.

È vero che le nuove macchine e il nuovo modello organizzativo rendono più produttiva ogni singola capacità lavorativa, cosa che si traduce in un aumento di quello che Marx chiamava saggio del plusvalore (o saggio di sfruttamento: rapporto tra il plusvalore e il salario), ma è anche vero che il plusvalore deve mettersi in rapporto con l’intera massa investita nella produzione, e non solo con la massa salariale. Marx chiamava saggio del profitto il rapporto tra il plusvalore e l’intero capitale investito in macchine, materie prime, forza-lavoro, ecc. Se l’incremento della massa di plusvalore non riesce a contrastare la tendenza a decrescere del saggio del profitto, il processo di valorizzazione del capitale entra in sofferenza. Se la sofferenza si protrae per più cicli produttivi, il processo di valorizzazione deve arrestarsi e i funzionari del Capitale devono trovare il modo di riattivare il circolo virtuoso dell’accumulazione/valorizzazione. Quasi sempre la soluzione si traduce in una nuova rivoluzione tecnologica e organizzativa (sempre più di respiro internazionale: vedi la cosiddetta «catena del valore mondiale» e la divisione mondiale del lavoro), la quale ripristina la congiuntura favorevole ma solo per spostare in avanti e più in alto il momento di una nuova crisi di valorizzazione: questo è il normale modo di procedere del Capitale.

Scrive Marx: «La progressiva tendenza alla diminuzione del saggio generale del profitto è dunque solo un’espressione peculiare al modo di produzione capitalistico per lo sviluppo progressivo della produttività sociale del lavoro. […] Data la grande importanza che questa legge ha per la produzione capitalistica, si può dire che essa costituisce il mistero a svelare il quale tutta l’economia politica si è adoperata dal tempo di Adam Smith» (22). In altri termini, nel modo capitalistico di produzione «lo sviluppo progressivo della produttività del lavoro», che in astratto dovrebbe arrecare solo enormi benefici al capitale e alla società nel suo complesso, genera invece tutta una serie di meccanismi interni al processo di valorizzazione che alla fine danno una risultante non sempre favorevole all’investimento capitalistico, con le ripercussioni sul corpo sociale che sappiamo. «Ciò non vuol dire», continua Marx, «che il saggio del profitto non possa temporaneamente diminuire per altre ragioni». È chiaro che quando le imprese industriali e commerciali entrano in crisi anche il credito ne risente fortemente (basti pensare alla catena di Sant’Antonio delle insolvenze!), ed «è appunto per questo che gli economisti amano far passare questa forma ovvia come la causa delle crisi» (23). La dinamica dei tassi di interesse è un po’ come un termometro che misura la temperatura generata da un organismo che si trova, ovviamente, al di là dello strumento di misura e che in ogni caso non si esaurisce in esso. La cosa appare meno ovvia agli occhi della scienza economica dominante, la quale spessissimo inverte i termini causali dei fenomeni, fino a scoprire che il termometro si è beccato un brutto raffreddore.

Come si vede, il processo di valorizzazione del capitale (conservare il vecchio valore del capitale e, al contempo, crearne uno nuovo di zecca: valore + plusvalore) è un meccanismo molto delicato.

Per spiegare la dialettica tra la massa del plusvalore e il ritmo sempre più accelerato dell’accumulazione, Grossmann offre al lettore un esempio “idraulico” di grande efficacia: «La massa del plusvalore può essere paragonata a una riserva d’acqua che riceve in un determinato periodo un aumenta d’acqua del 5 per cento, però contemporaneamente nello stesso periodo perde acqua in misura maggiore. È chiaro che alla lunga una tale situazione è insostenibile, che presto o tardi la riserva che ha da valorizzare il capitale accumulato deve esaurirsi» (24). Il cavallo dell’accumulazione beve così tanto liquido (plusvalore), da prosciugare periodicamente il serbatoio d’acqua: «Sotto tali condizioni la riserva di plusvalore si esaurisce sempre di più e il capitale accumulato può essere valorizzato soltanto ad un saggio progressivamente sfavorevole. […] La massa di plusvalore non può più fornire nella misura presupposta dall’accumulazione la massa di accumulazione annualmente necessaria» (25). Il lavoro di Grossmann è importante perché oltre a chiarire i meccanismi interni al processo di valorizzazione che incidono negativamente sul saggio del profitto, comprimendo il rendimento dell’investimento capitalistico, mostra i limiti oggettivi della stessa accumulazione capitalistica, la quale con il suo procedere fisiologico (normale) giunge a un punto in cui non può più procedere anche alla presenza di un rendimento (profitto) ridotto ai minimi termini. Non solo il cavallo prosciuga l’intero serbatoio, ma per placare la sua sete il funzionario del Capitale dovrebbe far ricorso al credito, alimentando l’accumulazione con una crescente perdita. Ovviamente il cavallo viene fermato molto prima che si raggiunga quel punto limite, ma Grossmann fa agire la tendenza distruttiva fino alle estreme conseguenze appunto per mostrare i limiti oggettivi, “fisici” del processo capitalistico di produzione, e ciò in polemica con chi sosteneva (anche da pulpiti che si autodefinivano “marxisti”) che una più razionale conduzione di quel processo avrebbe potuto evitare l’insorgere della crisi. Il «crollo assoluto» del Capitalismo di cui parlava Grossmann è un’ipotesi teorica intesa a chiarire i termini essenziali del problema, e questo i suoi detrattori che l’hanno accusato di determinismo crollista non l’hanno capito, e non potevano comprenderlo, invischiati com’erano nella rete della mera apparenza. Come scrisse una volta Marx, se tra il fenomeno indagato e la sua essenza vi fosse un’immediata identità, non ci sarebbe bisogno di scienza. Diciamo pure che lo studioso di Cracovia prese molto sul serio la lezione “filosofica” del comunista di Treviri.

Riassumendo (ma si fa per dire) possiamo sostenere che la crisi capitalistica soltanto formale nasce dal concetto stesso di capitale colto nelle sue diverse manifestazioni: denaro, mezzo di pagamento, merce, capitale monetario, mezzi di produzione, lavoro, ecc.; ogni figura del capitale ha la nefasta tendenza a rendersi autonoma dal tutto che ne garantisce l’esistenza, impresa che alla fine deve mostrare tutta la sua disastrosa velleità. La crisi capitalistica peculiare mette invece a nudo il cuore pulsante della valorizzazione del capitale, mostrandone la dinamica interna, la mostruosa (disumana) vitalità e i limiti.

Più che come causa unica, o come causa di ultima istanza, la caduta tendenziale del saggio medio – o sociale – del profitto va piuttosto considerata come lo sfondo problematico della scena economica, ma anche come la realtà che rende continuamente asfittica l’accumulazione capitalistica e che costringe sempre di nuovo il capitale “reale” a trovare nuove modalità nella sua valorizzazione (introduzione di nuove tecnologie e di nuove configurazioni organizzative, ecc.) e nuove opportunità di profitto al di là dello stretto (e troppo angusto!) ambiente industriale e commerciale. Dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso assistiamo a fasi espansive sempre più brevi, caratterizzate da un livello del saggio medio del profitto generalmente basso, soprattutto se confrontato con quello fatto registrare a partire dal Secondo dopoguerra. Ma compiuta la ricostruzione degli apparati produttivi e delle città nei Paesi distrutti dalla guerra, si è aperta per il Capitale mondiale una «nuova normalità», che alcuni definiscono crisi permanente del Capitalismo, della quale la crisi internazionale divampata nel 2008 non sarebbe che una nuova manifestazione.

Nuova normalità capitalistica o crisi permanente del Capitalismo? Io propendo per la prima definizione, soprattutto perché ho in forte antipatia l’ideologia crollista di chi, anno dopo anno, decennio dopo decennio, si consola osservando che se la rivoluzione se la passa male anche il nemico non può certo menar vanto di una società sempre in crisi. Questa consolatoria prospettiva non può in ogni caso eliminare gli ultimi 40 anni di prassi capitalistica mondiale, che ha fatto registrare non solo un eccezionale sviluppo capitalistico in vastissime aree del pianeta (Cina, India, ecc.), ma anche significative rivoluzioni tecnoscientifiche in ogni comparto della vigente economia, la quale, come sostenne il comunista di Treviri molto prima delle teorizzazioni “distruttive/creative” di Schumpeter,  può vivere appunto solo dando corpo a continue rivoluzioni tecnologiche e organizzative. E qui ancora una volta viene avanti la problematica condizione di profittabilità dell’investimento capitalistico, che genera una continua tensione nel processo allargato della produzione e una corsa permanente e sempre più accelerata alle innovazioni non solo nel campo direttamente produttivo (di valore e plusvalore), ma anche in quello creditizio e finanziario in generale. È in questa dialettica che si avvita il circolo virtuoso/vizioso della prassi capitalistica. In ogni caso, prendere i ritmi di crescita postbellici come punto di riferimento per stabilire lo stato di salute del Capitalismo di questo scorcio di XXI secolo non ha alcun senso, almeno a mio modo di vedere.

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(1) K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 135, Einaudi 1958.
(2) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 548, Einaudi 1955.
(3) Come scriveva Henrik Grossmann, la crisi va messa direttamente in connessione «non con il saggio di profitto, ma con la massa di profitto. […] La caduta del saggio di profitto è soltanto un indice che rinvia alla caduta relativa della massa di profitto» – o massa di plusvalore (H. Grossmann Il crollo del capitalismo, p. 193, Jaca Book, 1976). Questo perché il saggio del profitto esprime un rapporto tra grandezze (plusvalore/capitale investito, pv/C) e ci dà «un numero puro», un indice appunto che rinvia ad altro, mentre la massa del plusvalore (o del profitto, ponendo l’identità fattuale tra profitto e plusvalore) è una «grandezza reale». Partendo dalla caduta del saggio generale del profitto solo attraverso precise mediazioni concettuali si arriva al concetto di crisi del processo di valorizzazione del capitale. In effetti, anche a me capita spesso di saltare i passaggi logici che connettono la caduta del saggio generale alla crisi, per rendere più agevole la comprensione della questione; questo può forse ancora andare bene, a patto però che si sia consapevoli di operare una semplificazione.
(4) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 543, Einaudi, 1955.
(5) Ibidem, p. 576.
(6) Definisco utopia un luogo che ancora non esiste, ma che potrebbe esistere. Ovviamente non si tratta di una splendida, ancorché immaginaria, isola che già esiste da qualche parte e che va solo scoperta, ma di una splendida (o semplicemente umana) possibilità che per trasformarsi in realtà ha bisogno dell’opera dell’uomo. Quando parlo di “uomo”intendo sempre intendere “umanità”: non vorrei apparire “sessista”!
(7) Ivi. Una concezione radicalmente diversa da quella che verrà proposto da Tugan-Baranovskij nella sua opera principale, Studi sulla teoria e storia delle crisi commerciali in Inghilterra del 1896. Tugan-Baranovskij metteva in discussione le ipotesi che spiegano le crisi come dovute alla caduta del saggio del profitto, oppure alla limitata capacità di consumo degli operai e dei capitalisti, mentre ammetteva come loro causa principale il realizzarsi di una momentanea sproporzione fra i due settori fondamentali della produzione capitalistica: il settore dei mezzi di produzione e il settore dei mezzi di sussistenza. Ciò che egli intendeva mettere in rilievo, contro i pessimisti d’ogni specie, e contro i populisti russi in particolare, è la permanente possibilità di una produzione allargata, con un’accumulazione di capitale che non incontra sulla sua strada alcun limite che non sia quello legato alla capacità tecnica delle forze produttive. Le sperequazioni fra i diversi settori produttivi non sono, per Tugan-Baranovskij, un fatto necessario dello sviluppo capitalistico, quanto il risultato di una mancanza di pianificazione da parte dei capitalisti. In quella concezione cessava di esistere anche il carattere necessario della crisi, la quale potrebbe invece essere evitata risolvendo i problemi della pianificazione economica, con grande beneficio per la stessa classe operaia, il cui livello di vita può crescere progressivamente, seppure in modo limitato.
(8) Ibidem, p. 558.
(9) Ibidem, p. 562.
(10) Ibidem, pp. 588-589.
(11) Ibidem, pp. 566-567.
(12) Ibidem, p. 582.
(13) Ibidem, p. 551.
(14) Ibidem, p. 590.
(15) Ibidem, p. 552.
(16) Ibidem, p. 563.
(17) Cit. tratta da K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 290.
(18) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 268-269. Scriveva David Ricardo in un saggio del 1815: «Il profitto tende naturalmente a diminuire; infatti, col procedere della società e della ricchezza la maggior quantità di cibo occorrente è ottenuta col sacrificio di un numero di lavoratori sempre maggiore. Questa tendenza, questa gravitazione del profitto è fortunatamente arrestata, di tempo in tempo, dai perfezionamenti delle macchine legate alla produzione dei mezzi di sussistenza necessari, come pure dalle scoperte dell’agronomia, che consentono di fare a meno di una parte del lavoro di cui prima v’era bisogno, e quindi di abbassare il prezzo dei mezzi di sussistenza necessari» (la citazione si trova a p. 599 della marxiana Storia delle teorie economiche, II).
(19) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II p. 598.
(20) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 341.
(21) Ibidem, p. 403. «I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio di profitto più elevato soprattutto perché in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono prodotte da altri paesi a condizioni sfavorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti» (K. Marx, Il capitale, III, p. 289, Editori Riuniti, 1980). «La legge del valore subisce qui [nel mercato mondiale] modificazioni essenziali. Ovvero, le giornate lavorative di paesi differenti possono stare fra loro come all’interno di un paese il lavoro qualificato, il lavoro complicato sta al lavoro non qualificato, semplice. In questo caso il paese più ricco sfrutta quello più povero, anche se quest’ultimo con lo scambio guadagna» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 253). «Due nazioni possono scambiare in base in base alla legge del profitto in modo da ottenere entrambe un profitto, ma una viene sempre avvantaggiata. […] L’una può continuamente ad appropriarsi d’una parte del plusvalore dell’altra, in cambio della quale non dà nulla» (K. Marx, Lineamenti fondamentali, II, p. 633, Nuova Italia, 1978). Lo scambio ineguale tra Paesi si fonda soprattutto sulla loro differente potenza capitalistica – produttiva, organizzativa, tecnoscientifica. D’altra parte nel Capitalismo altamente sviluppato la stessa politica non è che una infrastruttura economica, com’è teorizzato anche da non pochi economisti e politici apologeti.
(22) K. Marx, Il capitale, III, p. 261.
(23) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 565.
(24) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 179.
(25) Ivi.

SUL CONCETTO DI SOCIALIZZAZIONE

L’esistenza di una classe che non possiede
null’altro che la capacità di lavorare, è una
premessa necessaria del capitale (K. Marx).

La Comunità non troverà pace, armonia e
felicità fin quando non ruoterà attorno
al sole dell’individuo che non conosce
classi sociali.

 

Socializzare il Capitale non è un’ipotesi come un’altra, ma una vera e propria sciocchezza concettuale, un’assurdità dottrinaria, un ossimoro che si giustifica solo con una profonda ignoranza circa il concetto di Capitale da parte di chi dovesse sostenere il carattere rivoluzionario di quel vero e proprio pastrocchio ideologico. Vediamo, in breve, perché.

Comincio affermando senza alcun tentennamento che un abisso ideale e reale separa il concetto di socializzazione dei presupposti materiali della produzione della ricchezza sociale (mezzi di produzione, materie prime, ecc.) dai concetti di nazionalizzazione e statizzazione (1) di questi stessi presupposti – che nelle sue opere “economiche” Marx definisce «condizioni oggettive di lavoro». La tesi appena enunciata rappresenta una delle pochissime acquisizioni teoriche fondamentali che il mio poco efficiente cervello è riuscito a conservare nel suo striminzito archivio neuronale nel corso degli anni. Questa formidabile conquista teorica, che dobbiamo al geniale pensiero critico marxiano, consente, tra l’altro, di tenersi alla larga dalla vulgata che concepisce il Capitalismo di Stato (vedi Unione Sovietica, Cina maoista, ecc., ecc.) come una forma di Socialismo: il «Socialismo di Stato», appunto. È sul fondamento di quella perla marxiana, che Engels adoperò nel suo celebre Antidühring per ridicolizzare il «Socialismo di Stato» dei cosiddetti socialisti bismarckiani (2), che ha potuto prendere corpo già alla fine degli anni Venti del secolo scorso un antistalinismo squisitamente critico-rivoluzionario, il solo in grado, tra l’altro, di salvare l’innocente, ancorché ubriacone e barbuto, fanciullino di Treviri dal bagno putrido, più che sporco, dello stalinismo, la cui intima natura storico-sociale può essere compresa, sempre al modesto avviso di chi scrive, solo sulla scorta della marxiana critica dell’economia politica – la quale, è sempre bene ricordarlo, è fondamentalmente una critica dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento.

Naturalmente quanto appena scritto presuppone una particolare accezione del termine socializzazione; si tratta dunque di delinearne e delimitarne i contorni, cosa che proverò a fare in modo assai stringato, rimandando i lettori ai miei scritti “economici” scaricabili dal blog per maggiori approfondimenti. Inizio a farlo anticipando il risultato a cui perverrò: il concetto di socializzazione ha come sua diretta e necessaria antitesi storica e sociale quello di monopolio, il quale a sua volta corrisponde nel modo più stringente al concetto stesso di Capitale. Vediamo per quali impervie strade giungo a questa conclusione.

Leggo sul dizionario del Corriere della Sera alla voce Socializzazione (nell’accezione economica del termine): «Rendere sociali o statali i mezzi di produzione o ciò che è privato, ad esempio le banche». La citazione vuole semplicemente mostrare quanta confusione si faccia intorno ai concetti qui richiamati: rendere sociali equivarrebbe a rendere statali «i mezzi di produzione o ciò che è privato». Intanto, in che senso è corretto in regime capitalistico parlare di “privato” e di “sociale”? Fino a che punto regge l’antitesi, così familiare per il pensiero comune, privato-sociale?

Soprattutto contro Proudhon e il «socialismo piccolo-borghese» Marx dimostrò al di là d’ogni ragionevole dubbio come il Capitale avesse dato corpo a una prassi economica eminentemente sociale, e come il Capitalismo fosse anzi il primo modo di produzione veramente sociale della storia. Questa concezione “sociale” dell’economia capitalistica gli consentì tra l’altro di scoprire quel profitto sociale medio che gli diede la possibilità di risolvere molte delle “incongruenze” dottrinarie che riscontrò nei pur geniali studi economici di Adam Smith e David Ricardo. Qui è solo il caso di accennare per titoli ai problemi circa lo scostamento del valore dal prezzo di produzione e alla distinzione tra plusvalore e profitto la cui soluzione ancora oggi permette di dar conto della reale dinamica capitalistica (3). Insomma, se guardato dal punto di vista strettamente – e superficialmente – economico, quello capitalistico è un modo di produzione pienamente socializzato, e questo carattere si estrinseca come dominio totalitario e mondiale dei rapporti sociali capitalistici sugli aspetti fondamentali della vita degli individui, tutti a diverso titolo assoggettati alla bronzea legge del profitto.

Non va poi dimenticato che lo stesso Fascismo volle civettare (4), a fine corsa e nel ridotto della Repubblica Sociale, con il termine socializzazione, dichiarando appunto la necessità di una «socializzazione fascista» dell’economia distrutta dalla guerra, e non è certo una bizzarria del destino se tra i massimi teorici di una simile “socializzazione” incontriamo l’ex militante del PC d’Italia Nicola Bombacci, a dimostrazione di un’intima vicinanza tra gli statalisti di “sinistra” (come quelli che alla fine degli anni venti saltarono sul carro del Fascismo trionfante), e quelli di “destra” (come quelli che dopo il’43 abbandonarono in fretta e furia Mussolini al suo tragico destino  per avvicinarsi al cavallo statalista allora vincente: Palmiro Togliatti). È noto come la «socializzazione fascista» non andasse oltre un’economia statalista e corporativistica del tipo di quella un tempo auspicata dalla cosiddetta sinistra fascista. Come sempre bisogna diffidare delle parole che si usano, e concentrarsi piuttosto sui concetti e sulla prassi a cui quelle parole sono appiccicate il più delle volte in modo del tutto arbitrario, tale da occultare la cosa che si cela dietro il nome.

A differenza di Stalin e dello stesso Trotsky (che non a caso rimase invischiato nella controrivoluzionaria teoria del Socialismo in un solo Paese, peraltro da egli stesso coraggiosamente combattuta sul piano politico), Lenin non attribuì mai un carattere economicamente socialista al monopolio statale delle imprese industriali sotto il regime della dittatura sovietica, preferendo adoperare il concetto che meglio corrispondeva alla cosa, quello di Capitalismo di Stato. Nelle condizioni storico-sociali della Russia sovietica, arretrata economicamente e devastata da anni di guerra imperialista e guerra civile, il passaggio al Capitalismo di Stato appariva agli occhi di Lenin un gigantesco passo in direzione del Socialismo. Nell’immediato si trattava, non di una transizione dal Capitalismo al Socialismo, come poi, a Lenin morto e imbalsamato (poverino!), diranno i teorici dello stalinismo, bensì di una transizione da un’economia capitalisticamente arretrata (Lenin parlava anche di «capitalismo piccolo-borghese») e ancora fortemente legata a modi di produzione precapitalistici (soprattutto nella sterminata campagna russa) a un moderno Capitalismo tanto nel settore industriale quanto in quello agricolo. Il leader bolscevico pensava al modello industriale tedesco e al modello agricolo statunitense, ossia al “miglior” Capitalismo dei suoi tempi.  «Il contadino, dopo aver pagato l’imposta in natura, ha il diritto di scambiare liberamente quel che gli rimane del suo grano. Questa libertà di scambio significa libertà per il capitalismo. Noi lo diciamo francamente e lo sottolineiamo. Non lo nascondiamo affatto. Le nostre cose andrebbero male se pensassimo di nasconderlo. Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero» (5).

Alla fine, Lenin, il suo partito e i Soviet dovranno cedere al rapporto sociale capitalistico non soltanto «molte cose», ma l’intera esperienza rivoluzionaria.

Per capire quanto fosse aleatorio parlare di socialismo e di comunismo nella Russia rivoluzionaria, lo dimostrò sempre Lenin, il quale alla fine della guerra civile e alla vigilia del varo della Nuova Politica Economica, invitò i suoi compagni a smetterla di pensare al cosiddetto Comunismo di Guerra nei termini di un’epoca d’oro della rivoluzione, perché di comunista durante la guerra civile c’era stata solo (si fa per dire!) la volontà politica del Bolscevismo di combattere con tutti i mezzi necessari la controrivoluzione interna e internazionale, mentre sul terreno economico-sociale la Russia di quegli anni non aveva prodotto nulla che andasse oltre un’economia di guerra. «Abbiamo parlato così tanto di comunismo di guerra che alla fine ci siamo convinti che si trattasse davvero di comunismo, che davvero stessimo saltando la fase capitalistica del nostro sviluppo, come avevano auspicato le teorie populiste un tempo da noi stessi derise, mentre si trattava di organizzare la resistenza a una catastrofe economico-sociale di spaventose proporzioni»: questa, in estrema ma non penso infondata sintesi, l’autocritica proposta da Lenin alla fine del 1920. Nell’opuscolo del maggio 1921 Sull’imposta in natura, Lenin cita i passi contenuti in un opuscolo del PCR del 1918: «Nessun comunista ha neppure negato, a quanto pare, che l’espressione “repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici (6).

È pur vero che non sempre Lenin tenne fede alla sua proverbiale chiarezza cristallina, e che qualche volte annoverò anche un supposto «socialismo», peraltro largamente minoritario, fra «i diversi tipi economico-sociali» allora presenti in Russia: «1) l’economia patriarcale, cioè in larga misura naturale e contadina, 2) la piccola produzione mercantile, (che comprende la maggioranza dei contadini che vendono il grano), 3) il capitalismo privato, 4) il capitalismo di Stato, 5) il socialismo» (7); ma a mio avviso sarebbe profondamente ingiusto, oltre che storicamente infondato, fare di lui il precursore del Socialismo in un solo Paese. Senza contare che mentre io scrivo dalla comoda posizione dello “storico”, avendo sotto i miei occhi l’intero quadro degli eventi e potendo avvantaggiarmi anche degli errori teorici e politici altrui, Lenin agiva e faceva la storia in un ambiente sociale altamente complesso e contraddittorio. Personalmente non mi sento di rinfacciare a Lenin gli errori che certamente commise (a cominciare dal suo pessimo rapporto con la sinistra comunista europea) e le illusioni (che a lui apparivano come fondate speranze) che certamente coltivò. Ovviamente questo non ha nulla a che vedere con una doverosa critica delle posizioni leniniane, che io stesso esercito senza remora alcuna nei limiti delle mie capacità. Su tutte queste cose rifletto in diversi scritti, ad esempio ne Lo scoglio e il mare e nel Grande Azzardo.

Rileggendo i testi marxiani che trattano il «fissarsi del sovraprofitto in rendita fondiaria», mi sono imbattuto in una serie di passi che, a mio avviso, illustrano molto bene l’abisso concettuale e reale di cui parlavo all’inizio. Riporto solo alcuni brani, i quali sebbene considerino un aspetto specifico della “problematica” capitalistica (la genesi della rendita fondiaria, la differenza tra produzione agricola stricto sensu e produzione industria, ecc.) hanno un significato teorico generale perché rinviano al cuore della teoria marxiana del plusvalore. Qui è sufficiente osservare che Marx concepisce la terra (e ogni risorsa a essa direttamente connessa: acqua, cascate, miniere, cave, ecc.) come un «essenzialissimo mezzo di produzione» e che egli considera altresì la rendita fondiaria (e ogni genere di rendita) come si configura in regime capitalistico «una forma particolare, caratteristica del plusvalore», o, ancora più precisamente, come quella aliquota di plusvalore che i proprietari terrieri intascano solo perché vantano nei confronti dell’affittuario capitalista un titolo di proprietà sulla terra che quest’ultimo adopera appunto come un mezzo di produzione. La terra non produce alcunché in termini di valore, mentre è il lavoro umano il solo “fattore produttivo” che conserva la ricchezza già prodotta nello stesso momento in cui  ne crea di nuova.

Scrive Marx: «Così come soltanto il monopolio del capitale permette al capitalista di estorcere pluslavoro all’operaio, il monopolio della proprietà fondiaria permette ai proprietari fondiari di estorcere al capitalista la parte del pluslavoro che formerebbe un costante sovraprofitto» (8). Non essendo questa la sede per approfondire la teoria marxiana della rendita fondiaria, la frase che qui ci interessa valutare è la seguente: «soltanto il monopolio del capitale permette al capitalista di estorcere pluslavoro all’operaio». In che senso qui Marx parla di monopolio? In un senso storico-sociale ben preciso, ben spiegato dai passi che seguono: «Questa concezione [del monopolio] si adatta più o meno, mutatis mutandis, a tutti i modi di produzione in cui gli operai e i possessori delle condizioni oggettive di lavoro formano classi differenti» (p. 263). Da un lato ci sono gli agenti del Capitale (o capitalisti), i quali detengono le «condizioni oggettive di lavoro», ossia i fattori materiali della produzione: macchine, materie prime e così via; dall’altra ci sono i lavoratori salariati, i quali hanno la sventura di possedere solo la capacità lavorativa che vendono agli agenti del Capitale in cambio appunto di salario. «Il modo capitalistico di produzione capitalistico presuppone in generale che i lavoratori siano espropriati delle condizioni di lavoro» (9); «Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda» (10). Essi cadranno, se cadranno, insieme, essendo le due facce di una stessa medaglia, due modi di essere dello stesso rapporto sociale, sintetizzato nel concetto di Capitale, che io di solito scrivo con la “c” maiuscola proprio per sottolinearne il carattere sociale e la dimensione mostruosa – da Moloch – sotto molteplici aspetti.

Appare dunque evidente come il concetto di monopolio qui illustrato abbia un valore storico-sociale generale che non ha nulla a che fare con quello meramente giuridico-economico di cui tratta la scienza sociale borghese. Infatti, ogni regime sociale che conosce la divisione classista degli individui si fonda sul dualismo appena individuato: a un polo troviamo sempre, anche nelle epoche precapitalistiche, il monopolio delle condizioni oggettive del lavoro, che garantisce il monopolio nel possesso dei prodotti del lavoro; al lato opposto troviamo i nullatenenti, ossia coloro che possiedono solo capacità lavorativa da mettere al servizio di un padrone (uno Stato, un Faraone, un monarca, un privato), obtorto collo, pena il morir di fame, né più, né meno. In questo senso preciso il regime salariale non è qualitativamente diverso dal sistema schiavistico, da quello servile o da quello corporativo: in tutti questi sistemi, infatti, chi non ha la fortuna di possedere i fattori materiali della produzione è costretto a vendere la propria capacità lavorativa, cosa che determina la sua intera esistenza. Lo stesso salario intascato dal moderno lavoratore non fa che confermarlo come tale, ossia come mero venditore di capacità lavorativa, e difatti produrre merci (“beni e servizi”) presuppone e pone sempre di nuovo i peculiari rapporti di dominazione di questa epoca storica. Il moderno lavoratore salariato non è schiavo o servo di un signore particolare, come avveniva per gli sfruttati nelle società precapitalistiche; egli conosce un solo Signore: il Capitale, e in quanto “libero cittadino” è sottoposto alle leggi emanate da quello Stato che si erge sopra gli individui come feroce cane da guardia dei vigenti rapporti sociali. È dentro i confini tracciati da questi rapporti sociali che si dispiega la nostra cosiddetta libertà, che difatti non ha nulla a che fare con un’autentica libertà, impossibile in una dimensione classista. Ma non allarghiamo troppo lo spettro tematico!

Ancora Marx: «Ricardo parte dalla bipartizione fra capitalista e operaio salariato e non fa entrare che più tardi il rentier fondiario come una speciale superfetazione, e ciò corrisponde perfettamente al punto di vista della produzione capitalistica. Lavoro oggettivato e lavoro vivo sono i due fattori, sulla cui contrapposizione si basa la produzione capitalistica. Capitalista e operaio salariato sono gli unici funzionari e fattori della produzione, la cui relazione e il cui contrapporsi scaturisce dall’essenza stessa del modo di produzione capitalistico. […] La produzione, come osserva James Mill, potrebbe continuare indisturbata anche se il rentier fondiario sparisse e al suo posto subentrasse lo Stato. Egli – il proprietario fondiario privato – non è un agente produttivo necessario per la produzione capitalistica, benché per questa sia necessario che la proprietà fondiaria appartenga a qualcuno, purché non sia l’operaio, per esempio allo Stato» (pp. 266-277). Analogamente, sul fondamento dei rapporti sociali capitalistici la produzione potrebbe continuare indisturbata se scomparisse il funzionario privato del Capitale, ossia il singolo capitalista che si confronta con la moltitudine dei capitalisti, e al suo posto subentrasse l’agente collettivo di esso, per esempio lo Stato. Come abbiamo visto, già Engels parlava dello «Stato capitalista [come] l’ideale capitalista complessivo».

Ciò che è essenziale, ai fini della continuità dello status quo sociale, è che i produttori diretti, cioè a dire i lavoratori salariati, siano tenuti lontani dal possesso «delle condizioni oggettive della produzione»: il Capitalismo si risolve in questa semplice condizione. Non importa se il plusvalore – o pluslavoro – venga «predato», «smunto», «estorto», «scroccato» ai lavoratori da molti capitalisti o da un solo capitalista (lo Stato, nel nostro esempio): ciò che conta, e che realizza la «differentia specifica» del modo di produzione capitalistico, è che i presupposti materiali della produzione non appartengano a chi li adopera per conto del Capitale, il quale evaporerebbe come un vampiro sottoposto ai raggi del sole se gli strumenti di lavoro, le materie prime e quant’altro fossero nella piena e libera disponibilità di tutti gli individui appartenenti alla Comunità. Qui appare chiarissimo come il Capitale non sia una categoria economica “oggettiva”, che si possa usare in un senso (capitalistico) o nel senso opposto (socialistico), come sosteneva ad esempio lo stalinismo internazionale, peraltro rimasticando la dottrina economica borghese fatta a pezzi da Marx; ma come esso sia in primo luogo, in radice e come già accennato, un rapporto sociale fra uomini divisi in classi sociali. È questo rapporto che fa di un robot industriale capitale, di una materia prima capitale, della stessa capacità lavorativa capitale – quel «capitale umano» esaltato dai politici e dagli intellettuali di “destra” e di “sinistra” come se fosse la cosa più bella e umana del mondo, mentre esso attesta nel modo più brutale la realtà della disumana condizione che ci tocca vivere. «È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto, nella sua semplicità, è personificazione delle cose e reificazione delle persone» (11). Come si vede, la natura economica del Capitale si può comprendere nella sua essenza solo partendo dalla sua natura storico-sociale, capendo cioè che dietro le macchine, le materie prime, le merci e i beni prodotti insistono delle relazioni fra gli uomini che danno anche un senso economico alle attività che generano la ricchezza sociale nella sua espressione fenomenologica di “beni e servizi”.  Checché ne dica il volgare materialismo della scienza economica borghese, abituata a ragionare in termini di input e output, di risorse materiali (tecnologie, materie prime, “capitale umano”) e finanziarie che si spostano vorticosamente da un punto all’atro della ciclopica sfera economica, il corpo dell’economia può essere compreso nella sua autentica essenza e nella sua complessa e contraddittoria dinamica solo a partire dalla sua anima sociale. Per questo accusare Marx di determinismo economico è semplicemente ridicolo, e semmai si potrebbe accusarlo di «eccesso di hegelismo», come in effetti hanno fatto non pochi suoi epigoni, o sedicenti tali (12), e i soliti detrattori, spiazzati dalla profondità dialettica del pensiero marxiano.

Ma chi detiene nelle proprie mani il monopolio della produzione detiene anche e necessariamente – e del tutto legittimamente sul piano storico – il monopolio della distribuzione, che giustamente Marx concepiva come un momento della stessa produzione della ricchezza sociale. La “bizzarra” idea di poter autonomizzare i rapporti di distribuzione dai rapporti di produzione su cui essi si fondano, per rendere “umanamente sostenibile” il Capitalismo, è tipica dei riformatori sociali, le cui chimeriche illusioni fanno impallidire ogni più sfrenata utopia di stampo “marxista”. Come scrive Marx, «La distribuzione degli oggetti di consumo è ogni volta soltanto conseguenza della distribuzione delle condizioni stesse di produzione» (13).

Chi non ha il possesso dei fattori oggettivi del lavoro non ha nemmeno il possesso dei prodotti del lavoro, e per accedere a una parte della ricchezza prodotta il nullatenente si vede costretto a lavorare “sotto padrone” per ricevere in cambio la forma più astratta – e più potente – di ricchezza, il denaro, il quale nelle sue mani non si trasformerà mai in capitale, ossia in denaro investito in vista di una qualsiasi attività imprenditoriale. Il salario-denaro consente al produttore diretto della ricchezza sociale di accedere a una minima parte, relativamente sempre più piccola se confrontata alla crescente produttività del suo lavoro, di quella ricchezza. Di qui, il concetto marxiano, ridicolmente frainteso soprattutto dal socialismo riformista, di miseria crescente.

Come racconta Marx nel suggestivo capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria), il punto di partenza dello svolgimento storico-sociale che porta alla moderna società borghese non è rappresentato dal denaro, dalla sua rivoluzionaria immissione in un ambiente economico altrimenti destinato a rimanere inchiodato a secolari prassi e tradizioni, ma dall’allontanamento violento (anche con l’ausilio del diritto borghese) dei produttori immediati (contadini e artigiani, in primis) dalla proprietà dei presupposti oggettivi della loro produzione e, dunque, dalla proprietà del loro prodotto: questa doppia proprietà, che realizza i nuovi rapporti sociali borghesi, si concentra nelle mani dei capitalisti.  In questo contesto il lavoro salariato si trova in una condizione di totale soggezione nei confronti del Capitale, in una condizione sociale di pura alienazione: gli strumenti di lavoro, la materia prima lavorata e il prodotto del lavoro si ergono come potenze estranee e ostili a chi lavora. Il lavoratore come oggetto della produzione; il Capitale come soggetto della produzione: un mondo invertito che oggi più di ieri genera irrazionalità d’ogni genere e continui mal di testa esistenziali, se così posso esprimermi.

Produrre per gli uomini non significa semplicemente manipolare prodotti naturali o artificiali in vista di un bene o di un servizio; produrre significa innanzitutto entrare «in relazioni e rapporti determinati gli uni con gli altri, e soltanto all’interno di queste relazioni e di questi rapporti sociali ha luogo il loro rapporto con la natura, ha luogo la produzione» (14). Sono queste relazioni e questi rapporti che determinano anche il modo di produrre (ad esempio, un modo rispettoso degli uomini e della natura, come non accade nel Capitalismo) e per molti e fondamentali aspetti anche il cosa produrre – ad esempio, soddisfare pienamente bisogni coltivati in un ambiente sociale umano, mentre oggi ciò che “fa premio” su ogni altro aspetto è il bisogno del Capitale di allargare continuamente il mercato dei bisogni in vista del profitto. Beninteso, non si tratta di contrapporre i supposti bisogni naturali ai cosiddetti bisogni artificiali, secondo una concezione ingenua e infantile della prassi sociale: i bisogni degli individui sono sempre, in larghissima parte, socialmente e storicamente determinati; si tratta piuttosto, per chi si pone il problema del superamento di questa società, di umanizzare l’intera esistenza degli individui, cosa che postula in modo assoluto il superamento della divisione classista degli individui: dove esistono le classi sociali non può esistere l’uomo in quanto uomo. Qui rinvio a due miei modesti contributi: Eutanasia del Dominio e La Comunità umana come opera d’arte.

Il monopolio di cui parla Marx è insomma il Capitale stesso, il cui concetto e la cui prassi sono profondamente radicati nel dualismo sociale menzionato sopra. Come si vede, e come già detto, qui siamo lontanissimi dal concetto di monopolio come viene fuori dall’economia politica e dal diritto borghese, concetto che rinvia alla distinzione tra economia concorrenziale ed economia monopolistica (15).

E se la scena economico-sociale vedesse protagonista solo lo Stato come agente unico del Capitale, cosa cambierebbe in termini storici e sociali? Lo abbiamo visto: per Marx, e assai più modestamente (c’è bisogno di precisarlo?) per chi scrive, assolutamente nulla. Ma repetita – forse – iuvant! E quindi diamo nuovamente la parola a Marx: «Il capitalista è il funzionario non solo necessario, ma dominante della produzione. Invece il proprietario fondiario è, in questo sistema di produzione, del tutto superfluo. Ciò che è necessario, è che la terra non sia proprietà comune, che essa si contrapponga alla classe lavoratrice come mezzo di produzione che non le appartiene, e questo scopo è completamente raggiunto quando essa diventa proprietà statale, e quindi lo Stato percepisce la rendita fondiaria. […] Il borghese radicale, che segretamente vagheggia la soppressione di tutte le altre imposte, arriva quindi teoreticamente alla negazione della proprietà fondiaria privata, di cui egli vorrebbe fare, sotto la forma di proprietà statale, la proprietà comune della classe borghese, del capitale» (16). Lo statalista radicale invece «segretamente vagheggia» la soppressione della proprietà privata capitalistica delle attività che producono “beni e servizi”, dimodoché l’intero plusvalore (oggi frantumato in varie rubriche dalla dialettica economica: profitto, rendita, interesse, ecc.) possa affluire interamente al Padrone Unico.

«Se lo Stato espropriasse la proprietà fondiaria, mantenendo la produzione capitalistica, la rendita sarebbe pagata allo Stato, ma la rendita in se stessa rimarrebbe. Se la proprietà fondiaria divenisse proprietà del popolo, cesserebbe di esistere in generale la base della produzione capitalistica, il fondamento su cui è basato il realizzarsi dell’indipendenza delle condizioni di lavoro rispetto all’operaio» (p. 249). Per evitare ogni fraintendimento “populista”dei passi marxiani, è appena il caso di ricordare che con «popolo» Marx intende il popolo lavoratore, la moltitudine dei lavoratori salariati, e non un’astratta entità interclassista che ricomprenda tutte le classi della società (o magari solo quelle impegnate nella cosiddetta “economia reale”), secondo il concetto borghese di popolo che da sempre hanno in testa i “populisti”. Che significato dà Marx al concetto di proprietà?  È presto detto: «La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l’antagonismo fra capitale e lavoro salariato» (17).

La natura giuridica della proprietà (privata, pubblica, “mista”, azionaria, cooperativistica, ecc.) non ci dice nulla circa la sostanza sociale della proprietà capitalistica, la quale si configura in primo luogo come un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Per mutuare i citati passi marxiani, se lo Stato espropriasse la proprietà privata delle imprese (industriali, commerciali, finanziarie e d’altro genere), mantenendo la produzione capitalistica, il profitto andrebbe allo Stato, ma il profitto in se stesso rimarrebbe, e dove c’è profitto deve necessariamente esservi un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento.

«Anzitutto, se la terra fosse a libera disposizione di tutti, mancherebbe uno degli elementi principali alla formazione del capitale. Questo essenzialissimo mezzo di produzione, il solo mezzo di produzione originale, oltre all’uomo e al suo lavoro stesso, non potrebbe essere né alienato né appropriato, e quindi non potrebbe contrapporsi al lavoratore come proprietà altrui e fare di lui un operaio salariato. La produttività del lavoro nel senso ricardiano, cioè nel senso capitalistico (18), il “produrre” di un lavoro altrui non pagato (19) diventerebbe allora impossibile. Sarebbe la fine della produzione capitalistica» (20).  Vade retro, socializzazione! Abolire il monopolio delle condizioni oggettive della produzione significa abolire il Capitalismo in ogni sua possibile configurazione economica.

Socializzare la produzione e la distribuzione dei valori d’uso (o beni) di cui i singoli individui e la Comunità considerata nel suo insieme necessitano, non significa, almeno per come la vedo io, che quella vitale prassi dovrà essere affidata alla direzione e al controllo dello Stato, fosse anche lo Stato (o come si vorrà chiamarlo) che le classi subalterne vorranno darsi per scardinare definitivamente la resistenza delle vecchie classi dominanti e incominciare la (per molti mitica) transizione dal Capitalismo alla Comunità umana; significa piuttosto che sarà l’intera compagine sociale che dovrà farsi carico della produzione e della distribuzione di quanto occorre alla vita degli individui e della comunità. Nessun centro di potere autonomo potrà surrogare questa fondamentale prassi, senza la quale l’umanità cadrebbe in qualche nuova forma di dominazione, fosse pure solo di natura “tecnica” ed esercitata da soggetti “umanamente ben disposti”. So bene che la cosa appare inconcepibile ai nostri miopi occhi, ma occorre considerare il fatto altamente “materialistico” che sulle nostre spalle pesano millenni di dominio, millenni di abitudine a delegare (divisione intellettuale del lavoro), millenni di sudditanza politica, ideologica e psicologica. Qui non è di noi che si parla, ma di una possibile umanità futura, quella che probabilmente troverà altrettanto incomprensibile (per non dire altro) il nostro modo di fare e di pensare.

Ciò che a noi compete, credo, è cogliere la natura oggettiva, storicamente fondata e perciò stesso realistica della socializzazione come ho cercato di tratteggiarla, e per questa via immaginare soluzioni politiche rivoluzionarie coerenti con il quadro teorico qui appunto solo schizzato, con l’unico obiettivo di mantenere vivo l’interesse, a cominciare da quello di chi scrive, per una questione a dir poco fondamentale, la quale invita il pensiero a pensare il presente in modo meno scontato e certamente meno in armonia con ciò che passa il convento. Prima di mettere un bel punto, sperando di poter riprendere al più presto la fondamentale “problematica” qui solo sfiorata, desidero esternare la seguente convinzione: nella sua eccezionale possibilità il processo sociale di transizione da un’economia fondata sul profitto, con ciò che necessariamente ne segue su tutti i piani della prassi sociale (da quello politico-istituzionale a quello psicologico), a un’economia (o come si converrà chiamarla) fondata sui bisogni (umani nell’accezione più profonda e “filosofica” del termine) oggi appare assai diverso (molto meno problematico e assai più rapido) da come si mostrava agli occhi di un Marx o di un Lenin – del Lenin alle prese con la Russia capitalisticamente arretrata del suo tempo. Mentre l’abbattimento rivoluzionario (non riesco a immaginare “abbattimenti” d’altro genere, salvo catastrofi naturali o “artificiali”) del Capitalismo mi appare tremendamente più difficile da come probabilmente la cosa si prospettava alla coscienza dei due rivoluzionari appena citati (e ciò, a quasi un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi e a un secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre, credo che abbia un qualche fondamento storico e non sia solo il frutto del mio congenito pessimismo), la transizione (21) mi appare all’opposto, e in grazia di quello stesso sviluppo capitalistico che ha reso così mostruoso l’edificio capitalistico, un’impresa sempre più “fattibile”, sempre più alla portata di un’umanità oggi instupidita dalla potenza ipnotica del Capitale.

(1) Concetti che si equivalgono dal punto di vista squisitamente sociale, rinviando entrambi al dominio capitalistico sulla società. «Si ha la nazionalizzazione delle imprese, non soltanto quando si attua la gestione provvisoria da parte dello stato di determinate aziende di interesse collettivo, in specie per fini bellici, ma soprattutto quando si compie il passaggio di proprietà di determinati mezzi di produzione dai privati alla collettività; una sottospecie è la municipalizzazione, ove la proprietà e la gestione delle aziende spettano ad una collettività più ristretta: quella comunale. Si ha la statizzazione quando il potere di gestione delle aziende nazionalizzate è attribuito direttamente allo Stato, cioè quando sono accentrate nelle mani dell’organo statale non soltanto la proprietà dei mezzi di produzione, ma anche la gestione delle aziende» (A. Anselmi, Enciclopedia italiana Treccani, Appendice, 1949).
(2) «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiaro senz’altro socialista. … Lo Stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato capitalista, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Avanti Edizioni, 19250).
(3) «Al prezzo di costo [C + V] di una merce viene aggiunto non il plusvalore che essa contiene, ma il profitto medio» (K. Marx, Il Capitale, III. p. 253). Sul fondamentale concetto di profitto medio, o «saggio generale del profitto», che tiene conto della produttività del lavoro colto nella sua dimensione sociale, si basa la marxiana trasformazione del valore della singola merce (C + V + pv) nel suo prezzo di produzione. In effetti, è nel mercato che si mostra il carattere pienamente sociale del Capitale, perché in esso hanno modo di confrontarsi tutti i singoli («individuali») capitali, ossia le concrete condizioni produttive (base tecnologica, produttività del lavoro ecc.) delle imprese che concorrono alla spartizione del plusvalore sociale. La concorrenza ripartisce tra i capitali la massa del plusvalore sociale (che ha una dimensione mondiale) secondo la loro grandezza e secondo la loro composizione organica, la quale determina in ultima analisi il grado di produttività del lavoro sfruttato in ogni singola impresa.
(4) Il 20 giugno 1944, ossia appena quattro mesi dopo il Decreto Legislativo del 12 febbraio emanato dalla Repubblica Sociale Italiana che rendeva operativa la «socializzazione» delle grandi imprese, il dirigente della federazione fascista degli impiegati del commercio, Anselmo Vaccari, in un rapporto diretto a Mussolini confessò che «I lavoratori considerano la socializzazione come uno specchio per le allodole, e si tengono lontano da noi e dallo specchio. Le masse ripudiano di ricevere alcunché da noi» (Rapporto Vaccari al Duce, cit. tratta da S. Peli, Storia della Resistenza in Italia, p. 69, Einaudi, 2006). Diciamo pure che c’è un limite a tutto, anche alla demagogia fascista, soprattutto se l’ex Duce degli italiani faceva pena in primo luogo a sé medesimo, come attesta peraltro l’istruttivo carteggio Mussolini-Petacci.
(5) Lenin, Rapporto sulla tattica del PCR, Opere, XXXII, pp. 465-466, Editori riuniti, 1967.
(6) Lenin, Sull’imposta in natura, Opere, XXXII, p. 310.
(7) Ivi.
(8) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 238, Einaudi, 1955.
(9)K. Marx, Il Capitale, III, p. 713, Editori Riuniti, 1980.
(10) K. Marx, Lavoro salariato e capitale 59, Newton, 1978.
(11) K. Marx, Il capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 82, Newton, 1976.
(12) Quando il socialdemocratico Eduard Bernstein, alla fine del XIX secolo, insinuò il velenoso sospetto che la dialettica esibita da Marx nel Capitale non fosse che un cattivo lascito della «fase hegeliana» del presunto maestro, egli affermò un punto di vista assai condiviso presso la gran parte degli intellettuali e dei dirigenti socialdemocratici.
(13) K. Marx, Critica del programma di Gotha, p. 43, Savelli, 1975.
(14) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 54.
(15) «Il monopolio è una forma di mercato non concorrenziale in cui un’unica impresa controlla l’offerta di un bene/servizio, mentre la domanda è suddivisa tra molteplici soggetti acquirenti. In un settore monopolistico esiste un’unica impresa che vende un determinato prodotto e non esistono beni sostituti. L’impresa monopolista è l’unico offerente del prodotto. L’ingresso nel mercato da parte di altre imprese è ostacolato dalla presenza di barriere tecnologiche, legali o naturali. A differenza delle imprese concorrenziali, l’impresa monopolistica è in grado di controllare sia il prezzo di vendita che la quantità offerta» (http://www.okpedia.it/monopolio).
(16) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 192.
(17) K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, p. 149, Einaudi, 1974.
(18) «Il senso capitalistico della parola produttivo: produttivo di plusvalore [non di prodotto]» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 257.
(19) Qui Marx allude al pluslavoro, fondamento oggettivo del plusvalore, ossia alla parte non retribuita della giornata lavorativa, la quale secondo Marx si compone di due parti distinte: quella retribuita con salario (ad esempio, 4 ore) e quella non pagata (ad esempio, 4 ore). Quest’ultima parte dà luogo alla filiera di valore che segue: pluslavoro → plusprodotto → plusvalore. Il profitto, a sua volta, è la parte di plusvalore che viene realizzato attraverso la vendita della merce al suo prezzo di produzione. «Il plusvalore non è altro che lavoro non pagato; il profitto medio o normale non è altro che il quantum di lavoro non pagato realizzato in media da ogni capitale di grandezza di valore data» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p.187).
(20) Ibidem, p. 191.
(21) Tratteggiata a grandi linee da Marx nella superba Critica del programma di Gotha del 1875 ed elaborata da Lenin nel suo celebre Stato e Rivoluzione del 1917. «Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere che la “dittatura rivoluzionaria del proletariato”» (K. Marx, Critica del programma di Gotha, pp. 52-53).

NOTRE ENNEMI, LE CAPITAL!

Per Carlo Lottieri il saggio di Jean-Claude Michéa Notre ennemi, le capital, uscito poche settimane fa per le edizioni Flammarion, «interpreta alla perfezione l’antiliberalismo di destra e sinistra che porta a esaltare qualunque filippica contro il profitto e a invocare ogni forma di nazionalismo economico e regolazione autoritaria». Non ho letto il libro di Michéa, ma a giudicare da quello che sono riuscito a trovare sul Web di e su lui, credo che il giudizio di Lottieri non sia poi così infondato, tutt’altro. Tra l’altro, la sua esibita simpatia per Jean Luc Mélenchon e Marine Le Pen («sono gli unici due candidati a distinguersi, ciascuno a loro modo, dal discorso mediatico ufficiale sui benefici della globalizzazione e del libero scambio») la dice lunga sulla sua concezione – ultrareazionaria! – della società, e conferma quanto vado dicendo a proposito del cosiddetto populismo di “destra” e di “sinistra”: gli estremi politici si toccano perché condividono lo stesso terreno di classe – borghese, nell’accezione storico-sociale del concetto. Per questo la sempre più stucchevole diatriba intorno al valore della vecchia divisione “novecentesca” sinistra-destra è del tutto priva di senso se intanto non si chiarisce il terreno su cui insiste (almeno come ipotesi) quella divisione, la quale dalla prospettiva autenticamente anticapitalistica appare interamente confinata dentro lo status quo sociale vigente in tutto il pianeta.

Definisco «prospettiva autenticamente anticapitalistica» la posizione teorico-politica che si batte 1. per l’eliminazione dei rapporti sociali capitalistici (e quindi per l’eliminazione del denaro, della merce, del lavoro salariato e di quant’altro presuppone e pone sempre di nuovo lo sfruttamento sempre più scientifico degli individui e della natura) e 2. per il superamento della dimensione classista della comunità umana – e quindi per il superamento dello Stato e della stessa politica come espressione degli antagonismi di classe. Lo so, sto riassumendo, malamente, il programma comunista di Marx, ma non ho mai detto di avere in testa un pensiero originale.

Ma qui non è di me né di Michéa che intendo parlare. Vorrei piuttosto commentare i seguenti passi di Lottieri: «Dopo le prediche in favore della decrescita di Serge Latouche e quelle sull’eguaglianza di Thomas Piketty, dalla Francia ci viene quindi l’invito a convogliare tutti i ceti popolari contro il comune nemico (il capitale), superando ogni distinzione tra progressisti e conservatori. Va subito detto, però, che si tratta di una lezione assai strampalata: fin dal titolo. Sostenere che il capitale è un nemico significa considerare intrinsecamente negativa la ricchezza e, in particolare, quel tipo di ricchezza non consumata immediatamente, poiché il suo impiego è differito al fine di realizzare in un secondo momento progetti di ampio respiro. Quale che sia la struttura giuridica ed economica che si vuole adottare (collettivista oppure no), una società che non voglia rinunciare alle risorse e neppure voglia vivere solo nell’istante, deve allora fare i conti con il capitale e valorizzarne la funzione». Questo è vero sulla base del Capitalismo, ed è un dogma di fede solo per chi non concepisce altra ricchezza sociale che non abbia le sembianze del denaro e della merce. L’orizzonte concettuale di Lottieri è confinato dentro il cerchio stregato – e feticistico – del Capitale: al di là della produzione e della distribuzione che esso rende possibile, nella sua forma liberista (che il Nostro predilige) oppure in quella statalista (che egli invece detesta e che maldestramente concepisce come “socialismo” o “collettivismo”) non può che esservi  la società in grado di «vivere solo nell’istante», e quindi destinata a estinguersi rapidamente, o comunque sempre a rischio di estinzione perché in balia delle circostanze più o meno avverse. Per dirla con Marx, il mondo di Lottieri deve necessariamente essere, per natura o in virtù di una non meglio individuata magagna antropologica, il mondo in cui il valore di scambio domina sul valore d’uso: che tristezza!

Che una Comunità umana possa generare ricchezza sociale (“beni e servizi”) senza l’ausilio del Capitale è cosa che agli «economisti borghesi» è sempre apparsa una bestemmia che può stare solo nella bocca di qualche utopista avvinazzato. E qui il pensiero corre nuovamente e come sempre in direzione dell’alcolista di Treviri, il quale spiegò a suo tempo in maniera semplice semplice (l’ho capito perfino io!) che il Capitale non è una cosa; non è una tecnologia economica socialmente neutra, ossia buona per tutte le epoche storiche e assolutamente indispensabile per una società che voglia godere di alti standard di civiltà: esso è in primo luogo l’espressione sintetica di un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. «È soltanto l’abitudine della vita quotidiana che fa apparire come cosa banale, come cosa ovvia, che un rapporto di produzione sociale assuma la forma di un oggetto, cosicché il rapporto fra le persone nel loro lavoro si presenti piuttosto come un rapporto reciproco fra cose e fra cose e persone». (K. Marx, Per la critica dell’economia politica).

Il pluslavoro e il conseguente plusprodotto solo nella società capitalistica generano plusvalore, fondamento del profitto (in ogni sua declinazione) e della rendita – fondiaria, finanziaria, ecc.; solo nel Capitalismo una parte del plusvalore che assume la forma di profitto industriale deve alimentare il motore dell’accumulazione, ossia della produzione su una base sempre più larga. Ma può benissimo esservi un plus di lavoro, dedicato ad esempio alla creazione di scorte, alla manutenzione ordinaria o straordinaria dei mezzi di produzione, ecc., che non assuma la natura di plusvalore, la cui esistenza, è bene precisarlo nuovamente, presuppone e pone rapporti di sfruttamento tra chi produce direttamente la ricchezza sociale (i lavoratori salariati, “manuali” o “intellettuali” che siano) e chi la incamera in quanto proprietario dei mezzi di produzione e distribuzione – che non sono altro che capitale in esercizio. Ovviamente il discorso non muta di un bosone se la proprietà capitalistica fa capo ai singoli o allo Stato, una tesi, questa, che lo statalista sinistrorso non capirà mai.

Perché una comunità organizzata umanamente dovrebbe produrre “beni e servizi”, ossia ricchezza sociale, solo in vista dei bisogni del giorno? Perché essa non dovrebbe o non potrebbe pensare, e poi agire di conseguenza, anche per il giorno successivo, o per il mese successivo e così via, secondo il razionale “calcolo” dei bisogni umani? Intanto diciamo che il “calcolo” dei bisogni umani diventa razionale non grazie all’ausilio della scienza e della tecnica, come ci insegna l’irrazionale economia capitalistica, ma solo nella misura in cui gli uomini riescono a padroneggiare l’intero processo di produzione e di distribuzione della ricchezza sociale, cosa che presuppone appunto il superamento della dimensione capitalistica della vigente produzione-distribuzione. Qui razionalità e umanità sono le facce di una (splendida) medaglia. Nella Comunità umana «Gli uomini sbrigheranno ogni cosa in modo assai semplice, senza l’intervento del famoso “valore”» (F. Engels, Antidühring). Solo chi attribuisce (di fatto!) proprietà magiche al Capitale è incapace di concepire come possibile, anche solo in linea teorica, una produzione/distribuzione di ricchezza sociale che non assuma le disumane sembianze del denaro e della merce. Si può invece benissimo ritenere possibile, se non proprio auspicabile (non è comunque il caso di chi scrive!), la produzione e la distribuzione di meri valori d’uso senza per questo nutrire il dubbio di aver concesso qualcosa al pensiero magico.

«Se si immagina la società non capitalista ma comunista, innanzi tutto cessa interamente il capitale monetario, dunque anche i travestimenti delle transazioni che per suo mezzo si introducono [si tratta del velo monetario che risulta impenetrabile alla vista degli economisti borghesi: vedi Lottieri!]. La cosa si riduce semplicemente a ciò, che la società deve calcolare in precedenza quanto lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza essa può adoperare, senza danno, in branche le quali, come la costruzione di ferrovie ad es., per un tempo piuttosto lungo, un anno o più, non forniscono né mezzi di produzione né mezzi di sussistenza, né un altro qualsiasi effetto utile, ma al contrario sottraggono alla produzione totale annua lavoro, mezzi di produzione e mezzi di sussistenza. Nella società capitalistica invece, in cui l’intelletto sociale si fa valere sempre e soltanto post festum, possono e devono così intervenire costantemente grandi perturbamenti» (K. Marx, Il Capitale, II). È sufficiente por mente solo per un istante alla straordinaria potenza dell’attuale tecnoscienza, oggi al servizio del Capitale (ossia di interessi disumani), per capire, o semplicemente intuire, quanto sarebbe a portata di mano il calcolo di cui parlava Marx già un secolo e mezzo fa. «Oggi il progresso verso l’utopia è arrestato dall’enorme sproporzione fra il peso dei prepotenti meccanismi del potere sociale e quello della masse atomizzate. Tutto il resto è un sintomo di questa sproporzione. […] Ora che la scienza ci ha aiutati a vincere il terrore dell’ignoto nella natura siamo schiavi di pressioni sociali che noi stessi abbiamo create» (M. Horkheimer, Eclisse della ragione). Ma chi crea può, volendo, anche distruggere: non siamo insomma vittime di un destino cinico e baro, ma di precisi rapporti sociali che produciamo sempre di nuovo “spontaneamente” e “liberamente”, semplicemente lavorando, consumando e, in generale, comportandoci da “onesti cittadini”.

Solo lo strapotere sociale che non ci lascia vivere umanamente ci impedisce di cogliere col pensiero le eccezionali possibilità di emancipazione che l’attualità del Dominio, al contempo, ci nega e ci offre. Come scrisse una volta qualcuno, oggi è più facile immaginare la fine del mondo che quella del Capitalismo. È ciò che chiamo tragedia dei nostri tempi, alla cui scrittura hanno concorso anche, se non soprattutto, i “comunisti” un tempo devoti a Stalin, a Mao e a qualche altro leader “comunista” impegnato a costruire da qualche parte il “paradiso terrestre”. Hanno costruito l’inferno e lo hanno chiamato paradiso! Non c’è, dunque, di che stupirsi nel constatare il disorientamento e l’impotenza politico-sociale che segnano la condizione dei dominanti.

È nel senso che ho cercato di precisare sinteticamente in questa breve nota che il Capitale è il nostro nemico, e non certo nel senso proposto da quegli “anticapitalisti” la cui idea più “rivoluzionaria” che riescono a concepire è il Capitalismo di Stato: nientemeno!

Scriveva qualche settimana fa Valentino Parlato sul Manifesto: «Dobbiamo capire che siamo a un passaggio d’epoca, direi un po’ come ai tempi di Marx quando il capitalismo diventava realtà. […] Non possiamo non tener conto di quel che sta cambiando: dobbiamo studiarlo e sforzarci di capire, sarà un lungo lavoro e non mancheranno gli errori, ma alla fine un qualche Carlo Marx arriverà». Un qualche Carlo Marx! Ecco, mentre aspettiamo il miracoloso compiersi del messianico Evento, le nuove generazioni non farebbero male, a mio modesto avviso, a compulsare il vecchio Marx per meglio comprendere l’attuale «passaggio d’epoca» – e magari per mettere in discussione certi luoghi comuni intorno al suo pensiero messi in circolazione dai suoi epigoni “statalisti” come dai suoi detrattori “liberisti”.

CAPITALISMO COGNITIVO E POSTCAPITALISMO. Qualunque cosa ciò possa significare.

robots-ap11«Come sulla fronte del popolo eletto stava
scritto ch’esso era proprietà di Geova», così
l’espansione totale e capillare del rapporto
sociale capitalistico imprime all’individuo
«un marchio che lo bolla a fuoco come
proprietà del capitale» (Marx).

Introduzione

La lettura del libro di Paul Mason Postcapitalismo. Una guida per il nostro futuro ha generato in me una serie di riflessioni e di suggestioni che proverò a mettere in ordine per poterle condividere con i lettori, ai quali chiedo preventivamente scusa per le ripetizioni di frasi e concetti che probabilmente troveranno nel testo che avranno la bontà di leggere, e che non sono riuscito a eliminare nella fase di correzione degli appunti.

Lo scritto che segue non vuole essere, e difatti non è, una recensione del libro di Mason ma, appunto, una “libera” – e spero non troppo confusa – riflessione sui temi affrontati o anche solo evocati dal suo autore. I frequentatori più assidui del Blog non avranno difficoltà a capire subito che si tratta di “problematiche” che non smetto di prendere di mira, cercando di approcciarle da prospettive sempre diverse. Non sempre, o meglio: solo raramente la cosa mi riesce, non ho motivo di negarlo, ma l’impegno c’è, e credo che, tutto sommato, esso vada nella giusta (radicale/umana) direzione. Certamente sbaglio, inciampo e cado di continuo, ma sempre su un terreno a me caro: l’anticapitalismo “senza se e senza ma”, in vista di «una più elevata situazione umana» (Goethe). Ed è appunto dalla prospettiva radicalmente anticapitalista che offro il mio piccolo contributo alla critica di ideologie che in guise sempre nuove (“postmoderne”, nella fattispecie) esprimono, in forma “critica” o apologetica, e difendono, in modo più o meno consapevole, rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che considerati da quella prospettiva appaiono sempre più vecchi e decrepiti. Come cercherò di argomentare, i teorici del «Capitalismo cognitivo» e del «Postcapitalismo» credono di rivoluzionare il pensiero economico e sociale dominante quando mettono sotto i riflettori della loro analisi la crescente potenza economico-sociale della scienza e della tecnica, mentre essi si limitano a registrare, spesse volte fraintendendone il significato e la direzione, fenomeni presupposti dal concetto stesso di Capitale.

Grazie alla tecnoscienza il Capitale realizza continuamente nuove condizioni di dominio sul lavoro, nuove opportunità di investimento e nuove occasioni di profitto; grazie ad essa la caccia al profitto coinvolge l’intero pianeta, l’intera società, l’intera esistenza di ogni singolo individuo. La tecnoscienza «si presenta come un mezzo di sfruttamento incivilito e raffinato» (1). Per questa sua eccezionale capacità polimorfe di cambiamento e di adattamento il Capitalismo rende poco significative definizioni come vetero-capitalismo, neo-capitalismo, post-capitalismo (e qui do già, implicitamente, un primo giudizio sul merito) e così via. A ben vedere, la stessa distinzione tra Capitalismo fordista e Capitalismo post-fordista ha un significato ben limitato (lo stesso che si deve attribuire allo sviluppo tecnologico e organizzativo che dal toyotismo approda all’ultima versione del Just in time), ed essa appare del tutto priva di dialettica e di respiro storico quando viene declinata dai “cognitivisti”. Detto in altri termini, il Capitalismo è, al contempo, sempre vecchio (quanto ai rapporti sociali che lo rendono possibile) e sempre nuovo – quanto a fenomenologia. Personalmente approccio lo straordinario dinamismo sociale di questa epoca storica a partire dalla griglia concettuale qui appena sommariamente delineata.

Secondo Erik Brynjolfsson (direttore del Mit Center for Digital Business) e Andrew McAfee (ricercatore capo del Mit Center for Digital Business), autori de La nuova rivoluzione delle macchine. Lavoro e prosperità nell’era della tecnologia trionfante (Feltrinelli, 2015), «Non c’è mai stato un momento peggiore per essere un lavoratore che ha da offrire soltanto capacità “ordinarie”, perché computer, robot e altre tecnologie digitali stanno acquisendo le medesime capacità e competenze a una velocità inimmaginabile». Detto che a trionfare non è semplicemente la tecnologia ma piuttosto la sua essenza capitalistica, ossia il Capitale; detto questo contro l’ennesima manifestazione di feticismo, personalmente penso che  «non c’è mai stato un momento peggiore per essere un lavoratore»: punto.

Per gran parte dei teorici del Postcapitalismo, qualunque cosa ciò possa significare, l’economia e il tessuto sociale che trascendono, per così dire, il vigente assetto economico-sociale non rappresentano solo una splendida opportunità resa possibile dallo stesso sviluppo capitalistico: essi sono piuttosto concepiti come una realtà che in qualche modo già esiste nel ventre del Capitalismo, in parte come effetto del suo stesso sviluppo scientifico e tecnologico, in parte come risposta alla sua crisi epocale e, a quanto pare, definitiva – l’ennesima! Anche questa tesi è tutt’altro che nuova, e soprattutto in Italia essa ha avuto declinazioni sia “riformiste” (vedi il cooperativismo socialista di fine Ottocento/inizio Novecento) che “radicali” (vedi alcuni segmenti dell’Autonomia Operaia). Ma è poi vero che il Capitalismo è sul punto di rendere l’anima?

Purtroppo la possibilità del nuovo non si trasforma deterministicamente (spontaneamente) nella sua concreta realtà. Proprio questa nuova (ennesima) crisi sistemica celebra i fasti del Capitalismo, il quale ha, per così dire, l’occasione di dimostrare all’intera umanità che non si dà alcuna realistica alternativa alla sua esistenza, nonostante le devastanti crisi che periodicamente lo scuotono fino a farlo barcollare sull’orlo di un abisso che sembra poterlo ingoiare da un momento all’altro. Due guerre mondiali hanno dimostrato che l’abisso spontaneamente genera solo la rinascita del Moloch precedentemente rantolante e dato ormai per spacciato (anche da non pochi intellettuali di “destra”), con rinvio sine die del funerale preconizzato a suo tempo dal fin troppo ottimista (ma solo se considerato dalla pessima prospettiva che ci offre il nostro tempo) comunista di Treviri.

La tensione dialettica a suo tempo individuata da Marx, con un tempismo che lascia ammirati i suoi lettori privi di preconcetti di sorta, tra le forze produttive sociali e le relazioni sociali che sequestrano quelle forze dentro l’angusta dimensione capitalistica (per il capitale esse sono solo mezzi per produrre valore «sulla sua base limitata»); questa contraddizione in processo, dicevo, ha nella crisi economico-sociale il suo più pregnante punto di caduta, nonché la condizione oggettiva «per far saltare in aria questa base» (2). Dopo oltre un secolo e mezzo di sviluppo capitalistico (qui faccio riferimento, e come si vedrà in seguito non casualmente, alla stesura dei Grundrisse) appare chiaro, oltre ogni ragionevole dubbio, come le condizioni oggettive che rendono possibile il superamento del Capitalismo da sole non siano sufficienti a realizzare il “salto qualitativo” che pure pulsa sempre più fortemente – esattamente come i processi che lo contrastano – come tendenza storica immanente allo stesso concetto di Capitale. Il risvolto dialettico insito nella crescente produttività sociale del Capitale, che nell’immediato equivale a un saggio sempre crescente di sfruttamento del lavoro vivo; quel risvolto è destinato a rimanere indefinitamente nella dimensione del possibile senza l’irruzione sulla scena sociale di un evento che sia in grado di accelerare processi e di attuare tendenze. «Il limite della produzione capitalista», amava ripetere Marx, «è il capitale stesso»; ebbene, quel limite è destinato a venir sempre di nuovo superato, anche se non potrà mai essere eliminato, senza il precipitare di fenomeni sociali che non sono immediatamente riconducibili ai meccanismi dell’accumulazione capitalistica. Ricordo a me stesso che il materialismo marxiano è «storico e dialettico», e non economico e determinista. Alla fine, è nella sfera politico-sociale che bisogna cercare la soluzione del problema: Hic Rhodus, hic salta! diceva quello.

Se per Postcapitalismo intendiamo riferirci alla società che verrà (o, più realisticamente, che potrebbe venire) dopo il Capitalismo, e non allo sviluppo capitalistico chiamato con un altro – mistificante – nome (un po’ com’è avvenuto con il cosiddetto “Socialismo reale”), ebbene chi scrive non riesce a concepire il superamento dell’attuale regime sociale se non come un processo sociale che abbia come cuore pulsante un soggetto rivoluzionario, ossia una volontà umanamente orientata. Non sto parlando solo del «Partito Comunista» evocato nel potente Manifesto del 1848, ma anche e soprattutto del farsi partito politico delle classi subalterne, sempre secondo le ben note tesi marxiane – e posta la profonda connessione dialettica tra i due momenti (il «partito» e il «farsi partito») che certo non sfugge nemmeno a chi scrive.

«L’emancipazione del proletariato deve essere opera dello stesso proletariato; organizzandosi in partito politico il proletariato si costituisce come classe autonoma, come classe per sé, e cessa di essere classe per il Capitale» (Marx). Come impostare e risolvere il problema appena posto sul tappeto, sempre con la preziosa mediazione del noto barbuto, a partire dalla Società-Mondo del XXI secolo? La ricerca della risposta esorbita dalle intenzioni, molto più circoscritte, del presente scritto – cosa che d’altra parte non mi impedisce di confessare la mia inadeguatezza politica dinanzi al famoso e decisivo Che fare?; e tuttavia in una riflessione dedicata al Postcapitalismo il problema non poteva non essere quantomeno evocato. Almeno a parere di chi scrive.

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123070-mdIndice

Introduzione
1. Come pensare la rivoluzione sociale oggi?
2. Riforma o rivoluzione sociale? Postcapitalismo!
3. Maledetto Frammento! Contro una lettura gradualista (“riformista”) e adialettica (infantile) del pensiero marxiano
4. Uso capitalistico della tecnologia e sua sostanza capitalistica
5. Quale paradigma per la società del XXI secolo?
6. Stagnazione secolare, crisi permanente o “Nuova normalità” capitalistica?
7. Verso lo zero economico critico?
8. Uscire dal Capitalismo. Ma per andare dove?

IL POTERE IN TASCA (IV)

Impigliati.

Impigliati.

Appunti di studio sulla teoria marxiana del denaro

Stirner prende il motto borghese: il tuo valore
è pari al denaro che hai, e lo capovolge così: tu
hai altrettanto denaro quanto è il tuo valore;
con ciò non cambia niente, ma è introdotta
l’apparenza del potere personale ed è espressa
la triviale illusione borghese secondo cui se uno
non ha denaro è colpa sua» (K. Marx).

«Il denaro, questa proprietà puramente sociale, priva di ogni carattere individuale. […] Nella potenza del denaro, nell’indipendenza assunta dal mezzo generale di scambio tanto nei confronti della società quanto nei confronti degli individui, si manifesta con la massima chiarezza l’indipendenza assunta dai rapporti di produzione e di scambio» (1). La creatura si impone sul suo creatore, il quale la riproduce sempre di nuovo, in una maledetta coazione a ripetere che forse non sbaglieremmo a definire, mutuando il ragno di Stoccarda, astuzia del Dominio. Infatti, creiamo tutti i giorni le condizioni della cattiva (disumana) società semplicemente riproducendo le condizioni più elementari della nostra esistenza. Come lo stolto guarda il dito, e non la luna che esso gli indica, così il “critico” dello «sterco del Demonio» guarda il denaro, e non il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che lo presuppone e lo pone in essere con una puntualità che toglie il fiato. Analogo discorso deve farsi per il “critico” del consumismo e dei cosiddetti «bisogni artificiali indotti», la cui mancanza di autentica capacità critica spesso lo espone al rischio di dare voce a ridicole posizioni passatiste («Si stava meglio quando si stava peggio!») e schiettamente conservatrici: «Ma dove andremo a finire di questo passo?» Per sopprimere il denaro, e con esso l’odiosa pratica del prestito in vista dell’interesse che tanto disturba la coscienza dei moralisti laici e religiosi, occorre sopprimere il modo di produzione basato sul valore di scambio, e dunque anche il lavoro salariato. Insomma, per superare la forma-denaro occorre superare l’odierna formazione storico-sociale: da questo circolo concettuale e reale non si scappa. Non si può scappare. Riformare la sfera della distribuzione della ricchezza sociale senza intaccare in profondità il rapporto sociale che informa la produzione di questa stessa ricchezza mi appare una chimera (peraltro vecchia almeno quanto la critica marxiana del proudhonismo), una mostruosità concettuale ancora più irrealistica di quanto non appaia la mia utopia. È questo, in sintesi, il filo rosso concettuale che lega gli appunti di studio sul denaro che sottopongo alla – spero indulgente – attenzione del lettore con una serie di post.

Come abbiamo visto nei precedenti post, il denaro e la merce, che nel moderno Capitalismo si presuppongono reciprocamente con assoluta necessità (insieme al lavoro pagato con il salario), non nascono sugli alberi, non sono cioè prodotti naturali ma creazioni della prassi sociale umana che hanno un preciso fondamento in una peculiare organizzazione della società, in un determinato modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale. Adesso si tratta di vedere il rapporto che stringe intimamente e indissolubilmente la merce al denaro, ed entrambi al lavoro salariato.

Il fatto che una particolare (sul piano storico) relazione sociale fra uomini che producono e scambiano “beni e servizi” non si dia immediatamente alla nostra coscienza per quel che è (un rapporto di dominio e di sfruttamento), ma ci appaia piuttosto in guisa di un rapporto socialmente “neutro” mediato da cose (merci, denaro, tecnologia), ebbene ciò si spiega con quel «feticismo» (della merce, del denaro, della tecnologia) che va trattato non come un mero difetto di coscienza, ma alla stregua di una realtà che è a tutti gli effetti strutturale in senso forte, un po’ come un oggetto “duro e pesante”, anche se la sua durezza e la sua gravità ineriscono a un dominio che non ha nulla a che fare con la natura. Questo dominio – qui inteso come campo di esistenza degli individui – è il peculiare campo d’indagine del «nuovo materialismo» inaugurato da Marx.

Scrive Domenico Tambasco: «Nel continuo ed incessante processo di estrazione di valore della merce-lavoro imposto dalle dottrine gestionali neoliberiste, un ruolo fondamentale rivestono le tecniche di “espulsione” dei soggetti che, considerati inadatti al processo di feroce selezione del sistema o giunti all’ultimo anello della catena di transazioni organizzativo-produttive, sono brutalmente allontanati dal “sistema” (spesso con il sigillo della legge), scarnificati di ogni umanità». È precisamente contro il genere di posizione politico-dottrinaria appena citata, la quale fa del fisiologico processo di sfruttamento capitalistico delle capacità lavorate degli individui una questione gestionale riconducibile essenzialmente a precise scelte politico-ideologiche (vedi le famigerate dottrine neoliberiste) che è rivolta la punta della mia critica. Come diceva l’uomo con la barba, nel Capitalismo (tout court, senza alcun’altra inutile specificazione) «Il lavoro-merce è una tremenda verità» (Miseria della filosofia), ed è questa «tremenda verità» che scarnifica di ogni umanità non solo i senza riserve che per vivere sono costretti a vendersi in cambio di salario (riproducendo così sempre di nuovo la propria maligna condizione), ma l’intera prassi sociale, la totalità della fitta rete relazionale che ci avvolge, e che avvolge l’intero pianeta. Parlare del lavoro (salariato) come di un «bene comune» significa fare l’apologia dello status quo sociale. All’avviso di chi scrive il lavoro (salariato) non va né “benecomunizzato” (magari con il paterno supporto del Leviatano) né “umanizzato” (quale ingenua illusione!), ma semplicemente superato – abolito. E qui veniamo al trittico (lavoro-merce-denaro) che spiega le modeste righe che presento al lettore.

***

Concludevo la precedente “puntata” chiedendomi cosa hanno in comune due prodotti del lavoro affatto diversi, ad esempio il ferro e la plastica, così da rendere possibile un loro reciproco scambio secondo un preciso rapporto quantitativo, nella fattispecie un quintale di ferro contro cento quintali di plastica. Oppure dieci chili di pane con un litro di vino. Ricordo che i rapporti quantitativi qui usati sono del tutto immaginari e valgono solo come esempi, ossia a titolo puramente indicativo e solo per centrare il concetto che intendo di volta in volta sviscerare.

Presi in se stessi, ossia sotto il rispetto della qualità (del valore o “funzione d’uso”), i prodotti oggetto di transazione qui evocati non sembrano poter giustificare una relazione del tipo a = b. La logica formale ci autorizza a dire semplicemente che il possessore di ferro A ha bisogno di plastica e che il possessore di plastica B ha bisogno di ferro, e che sulla scorta di questi bisogni essi scambiano. E questo è tutto. Bene! Ma sotto quali rapporti quantitativi A e B si scambiano il prodotto del loro lavoro? C’è forse una terza persona – o una terza cosa – chiamata a stabilire la giusta quantità di ferro e di plastica (o di pane e vino) da mettere in relazione affinché la transazione possa avere un esito positivo? Mistero! Eppure la prassi economica ci dice che mettere in relazione una determinata quantità di ferro con una determinata quantità di plastica ha una precisa e stringente logica economica. Si tratta appunto di capire cosa (o chi) rende possibile, ossia economicamente razionale (sensato), lo scambio tra due beni affatto diversi fra loro. Qual è dunque quella sostanza che può annullare tanto la differenza fra unità di misura (chili e litri) quanto la differenza fra valori d’uso (ferro e plastica, pane e vino)? Sto forse alludendo a una sorta di convertitore universale delle quantità e delle qualità? Il mistero si infittisce, il caso si ingrossa.

Chiediamo lumi al solito Marx: «Già Aristotele aveva intuito che ciò che rendeva possibile 5 letti = 1 casa doveva essere qualcosa di estraneo alla vera natura delle cose» (2). «Già Aristotele»: nientemeno! In effetti, il genio sa sempre ben teorizzare sulle cose osservate con attenzione, con scrupolo e cura, e soprattutto con un penetrante sguardo filosofico; e così, osserva oggi e osserva domani, il pensiero che si sforza di andare oltre «l’ingannevole apparenza delle cose» comprende, o quantomeno intuisce, la causalità che si cela nel caotico – e il più delle volte apparentemente casuale – fluire dei fatti umani. Aristotele «vede che il rapporto di valore al quale è inerente l’espressione di valore [5 letti valgono 1 casa, hanno lo stesso valore di una casa] implica, a sua volta, che la casa venga posta come qualitativamente eguale al letto, e vede che queste cose, differenti quanto ai sensi, non sarebbero riferibili l’una all’altra come grandezze commensurabili se nell’essenza non partecipassero di tale eguaglianza. Egli dice: “Lo scambio non può esserci senza l’eguaglianza, e l’eguaglianza non può esserci senza la commensurabilità”. Ma qui si ferma, e rinuncia all’ulteriore analisi della forma di valore» (3). Giunto a un passo dalla soluzione, avendo impostato correttamente il problema, il grande filosofo si lascia imbrigliare dal suo stesso rigore logico: «Ma è in verità impossibile che cose tanto diverse siano commensurabili»: due cose poste a confronto come possono essere, al contempo, qualitativamente diverse (letti, case) e qualitativamente uguali, ossia tali da rendere possibile l’assurda formula (attestata tuttavia dalla prassi sociale!) 5 letti = 1 casa? Giustamente Marx osserva che la geniale analisi aristotelica intorno allo scambio di prodotti del lavoro «si arena per la mancanza del concetto di valore. Che cos’è quell’uguale?». Naturalmente il limite concettuale di Aristotele si spiega in primo luogo con i limiti dell’economia mercantile del suo tempo, che pure era notevolmente sviluppata rispetto alle economie allora esistenti nel mondo civilizzato. Cerchiamo di rispondere alla domanda marxiana: «Che cos’è quell’uguale?».

Scriveva Georg Simmel: «Si dice che uno strumento di misura debba essere della stessa specie dell’oggetto misurato: una misura di lunghezza dev’essere lunga, una misura di peso dev’essere pesante, una misura di volume [liquidi, gas] dev’essere estesa nello spazio. Una misura di valori deve quindi avere un valore» (4). Come ricordava lo stesso Simmel, gli indigeni della Nuova Guinea usavano «come moneta delle conchiglie infilate su una corda, che chiamavano dewarra. Questa moneta viene utilizzata per l’acquisto misurandone la lunghezza, per esempio a braccia; per ogni pesce si dà una lunghezza in dewarra corrispondente alla lunghezza del pesce». Qui la ricerca dello strumento di misura più adeguato allo scambio di prodotti è oltremodo evidente, e assume delle forme che ci appaiono francamente ingenue. Ma quel tentativo che dall’alto della nostra Civiltà capitalistica deve necessariamente apparirci ingenuo e rozzo ci suggerisce tuttavia dei concetti che non sono affatto banali e che rivelano una struttura di pensiero, quella appunto degli indigeni della Nuova Guinea, tutt’altro che poco sofisticato e involuto.

Simmel parlava quindi di valore: si tratta forse del già considerato valore d’uso? Naturalmente no, anche perché se così fosse la logica aristotelica (ma anche quella marxiana!) andrebbe in frantumi, e chi scrive non desidera affatto quest’esito infausto, anche per difendere un pilastro della Civiltà occidentale. Alludo ad Aristotele, naturalmente. Mi vedo insomma costretto a dimostrare la razionalità della formula 5 letti = 1 casa. Più facile a dirsi!

A questo punto propongo al lettore un salto logico e storico; morto il vecchiaccio di Treviri nulla ci vieta di compierlo, questo salto, liberi peraltro dalla paura che i fulmini castigatori della divinità possano colpirci: atei siamo! Se Dio vuole… L’importante è comunque procedere con cautela, per non commettere troppi errori, e sempre fedeli alla massima aurea socratica circa la coscienza di essere ignoranti su quasi tutto, soprattutto sulle questioni essenziali della vita. E da questa granitica certezza – o excusatio non petita? Vallo a capire! – avanziamo timidamente.

Prendiamo in considerazione, sempre in ossequio al bevitore Tedesco e sempre col beneficio d’inventario, la formula 10 litri di vino x = 30 litri di birra y. Se ci rechiamo in un supermercato (ecco il salto mortale!), scopriamo che 10 litri di vino della qualità (o della marca) x costano 10 euro e che il costo di 30 litri di birra della qualità y è lo stesso: 10 euro. Se esprimiamo la formula presa in considerazione sopra in termini di prezzo, ci troviamo a riflettere sulla seguente tautologia: 10 euro = 10 euro. Che ci dice questa tautologia? Ci dice forse che nella transazione i nostri scambisti (Marx li chiama «soggetti di scambio») si regolano tenendo in considerazione i prezzi delle merci in gioco? Prima di rispondere facciamo un bel salto in avanti e osserviamo che il prezzo non è che l’espressione ideale monetaria del valore di scambio. Ideale perché il prezzo appiccicato alle merci (10 euro) non necessariamente si materializzerà in una reale esistenza monetaria: perché ciò accada, la merce deve compiere il marxiano «salto mortale», deve cioè realizzare il proprio valore di scambio attraverso la relazione M – D (vendita). Nella vendita l’idea di 10 euro (il prezzo, appunto) si trasforma in 10 euro in carne ed ossa. Monetizzare o realizzare un prezzo (e ciò che lo presuppone: un valore) sono due modi di esprimere lo stesso fenomeno, il quale rappresenta il fondamentale – vitale – punto di caduta dell’intero processo produttivo. A differenza del valore d’uso, il cui presupposto è radicato negli insopprimibili bisogni umani (nutrirsi, vestirsi, ripararsi, fabbricare strumenti, conoscere, creare forme d’arte, ecc.), il valore di scambio ha un’esistenza puramente economica connessa alla modalità dello scambio dei prodotti del lavoro, che poi è un altro modo di evocare i rapporti sociali dominanti in una data epoca storica. Come vedremo in seguito, insiste uno stretto e dialettico rapporto tra valore d’uso e valore di scambio. Ho introdotto il concetto di prezzo senza aver prima chiarito il concetto di valore di scambio che ne sta alla base: mi scuso con il lettore!

Detto tutto questo, introdotti diversi nuovi concetti e prestato il fianco a una sfilza di frecce critiche (illogicità, anacronismo, mancanza di rigore scientifico, ecc.), mi tocca ritornare al punto di partenza. Avanti e indietro! (5) Chiudiamo per un momento il supermercato, anche in ossequio alle “rivoluzionarie” teorizzazioni del guru a cinque stelle Gianroberto Casaleggio (nel suo mondo ideale, capitalistico esattamente quanto quello reale, «gli ipermercati sono stati rasi al suolo ovunque»), e riapriamo il baratto.

Già sappiamo che nel baratto il denaro, almeno nella forma in cui lo conosciamo noi, non svolge alcuna funzione. E questo ci riporta alla rognosa domanda: che cosa garantisce che un quintale di ferro ha lo stesso valore (economico) di cento quintali di plastica? Se escludiamo dalla transazione la forma-prezzo che, come abbiamo visto, rende evidente la misura dei valori in campo, i nostri scambisti A e B su quale unità di misura possono contare per non truffarsi reciprocamente scambiando a con b e b con a? A una misura che presuppone l’esistenza di qualcosa che accomuna non solo a e b ma tutti i prodotti del lavoro: si tratta appunto del lavoro umano. Non vedo altre risposte in grado di spiegare fondatamente (ossia dal punto di vista economico) lo scambio quantitativamente determinato (un quintale di ferro contro cento quintali di plastica, o dieci chili di pane contro un litro di vino) di prodotti qualitativamente diversi (ferro e plastica, pane e vino).

Portiamo a casa questa fondamentale acquisizione: ferro e plastica, pane e vino possono venir messi in una relazione di scambio in quanto essi hanno in comune il fatto di essere prodotti del lavoro umano. Polifemo, «il mostro dal pensiero illegale» (Omero) che non conosceva la civiltà del lavoro umano, non conosceva né pane né vino, e viveva dentro una grotta provvista di un giaciglio alquanto primitivo. Il che ci riporta ad Aristotele. Anche i letti e la casa di Aristotele avevano in comune il lavoro? Non c’è dubbio, e questo rendeva possibile l’assurdo, eppure praticato, scambio osservato con un certo sbigottimento dal filosofo greco. Ma com’è possibile fare del lavoro uno strumento di misura in grado di stabilire con una certa precisione quantità discrete di prodotti (cinque letti, una casa, un quintale di ferro, un litro di vino) che possono essere scambiati fra loro?

In effetti, non si tratta del lavoro colto nella sua concreta e immediata determinazione (falegnameria, edilizia, metallurgia, ecc.), ma piuttosto del tempo di lavoro. La sostanza del lavoro (l’attività che trasforma la materia) crea i valori d’uso, ossia i corpi dei beni destinati a soddisfare bisogni sociali e individuali; il fluire del tempo di lavoro crea invece il valore di scambio, cioè a dire l’anima economica di quei beni che adesso conviene chiamare merci proprio in considerazione di quel doppio valore. Come vedremo, nel Capitalismo l’immateriale domina sul materiale, l’anima sul corpo, la metafisica sul materialismo, il valore di scambio sul valore d’uso. In una sola parola: le – legittime ancorché disumane – necessità del Capitale dominano sui bisogni umani, i quali diventano per il Moloch mere occasioni di profitto. Ancora una fuga “filosofica” in avanti! Ritorno subito sui miei passi.

Il lavoro non è una cosa, ma un’attività peculiarmente umana che si svolge nel tempo e nello spazio: già sappiamo che i letti, la casa, il ferro, la plastica, il pane e il vino hanno in comune il fluire del tempo di lavoro che li ha creati: lo scorrere di ore, di giorni, di settimane ecc. Solo l’orologio può “acchiappare” quella impalpabile sostanza comune. «Poiché il lavoro è movimento, il tempo di lavoro è la sua misura naturale» (6). La sostanza comune a tutti i prodotti del lavoro e che, proprio per questo, li rende reciprocamente scambiabili in base a precisi rapporti quantitativi è dunque il lavoro umano. E, si badi bene, non si tratta solo del lavoro vivente, operante hic et nunc, del lavoro che interviene per dare forma (assemblando, mescolando, tagliando e così via) alle cose già prodotte, ma anche del lavoro per così dire passato (o «morto») che è servito a produrre ogni singolo oggetto dell’opera complessiva. Per fare un tavolo occorrono chiodi, legno, colla: ognuno di questi oggetti incorpora lavoro umano passato che il lavoro presente richiama in vita per realizzare un nuovo prodotto: il tavolo, appunto. Senza il lavoro messo in atto oggi dal falegname, il lavoro che ieri è servito a produrre chiodi, legno e colla rimarrebbe sordo all’antico a santissimo ordine: Lazzaro, alzati e cammina! Sulla differenza tra lavoro vivo (in atto) e lavoro morto (passato) l’economia politica “classica” ha pasticciato non poco.

Naturalmente c’è voluto del tempo per capire e affinare l’osservazione, ma alla fine i «soggetti di scambio» hanno imparato come scambiarsi reciprocamente i prodotti su una base di oggettiva equità – o equivalenza. Alla fine, regolare lo scambio dei prodotti in base al tempo di lavoro «cristallizzato» in essi è diventato una pratica così comune e quotidiana da apparire agli stessi “scambisti” qualcosa di naturale, e perciò non degna di riflessioni più o meno filosofiche. Forse essi si regolavano secondo il tempo di lavoro senza averne piena coscienza: non lo sapevano ma lo facevano. In effetti, l’abitudine, il retaggio, il rifarsi a ciò che il processo sociale ha creato nel tempo (ad esempio una precisa scala di valori afferenti ai prodotti più importanti e d’uso comune), tutto ciò molto spesso non permette di rintracciare il momento genetico di molte creazioni del pensiero e delle mani dell’uomo – sempre posta la fondatezza di una simile distinzione. Scriveva Engels: «Ma, in questo scambio regolato col metro della quantità di lavoro, come calcolare quest’ultima, sia pure in modo indiretto, relativo, per i prodotti che richiedono un lavoro lungo, interrotto da intervalli irregolari, di rendimento incerto, ad es. il grano, il bestiame? […] Che non si sia impiegato troppo tempo per stabilire con una certa approssimazione la grandezza relativa del valore di questi prodotti, lo dimostra il fatto che la merce per la quale questa determinazione appare più difficile, a causa del lungo tempo di produzione richiesto da ogni singola unità, il bestiame, fu la prima merce-denaro quasi universalmente riconosciuta. […]  Il progresso più importante e più radicale si ebbe con il passaggio alla moneta metallica, la cui conseguenza fu tuttavia da allora in poi che la determinazione del valore mediante il tempo di lavoro non apparve più visibilmente alla superficie dello scambio delle merci. […] Il denaro cominciò a rappresentare nella concezione popolare il valore assoluto» (7). Ecco introdotto di soppiatto il concetto di denaro come equivalente generale dei valori, di misura dei valori «cristallizzati» in tutte le merci.

I prodotti ritenuti socialmente più importanti tendevano a fungere da denaro nei punti di contatto tra le diverse comunità destinati allo scambio dei prodotti eccedenti; in questi punti di frontiera si formavano mercati più o meno sui generis e stabili.  «Lo scambio di merci comincia dove finiscono le comunità, ai loro punti di contatto con comunità estranee o con membri di comunità estranee. Ma, una volta le cose divenute merci nella vita esterna della comunità, esse diventano tali per reazione anche nella vita interna a essa. In un primo momento il loro rapporto quantitativo di scambio è completamente casuale. […] La continua ripetizione dello scambio fa di quest’ultimo un processo sociale regolare. Quindi nel corso del tempo per lo meno una parte dei prodotti del lavoro dev’essere prodotta con l’intenzione di farne scambio. Da questo momento in poi si consolida, da una parte, la separazione fra l’utilità delle cose per il bisogno immediato e la loro utilità per lo scambio. Il loro valore d’uso si separa dal loro valore di scambio. Dall’altra parte il rapporto quantitativo secondo il quale esse vengono scambiate diventa dipendente dalla loro produzione. L’abitudine le fissa come grandezze di valore» (8).

Adesso avviciniamoci a tempi a noi più consoni e vicini, al tempo in cui l’intera società «si presenta come una immane raccolta di merci», secondo la celebre, e soprattutto sempre più vera, definizione marxiana. Ma cos’è esattamente una merce? Tentiamo una prima approssimazione alla risposta più adeguata. Il prodotto realizzato non in vista del consumo immediato del produttore o dei suoi familiari, ma in vista della sua alienazione a un terzo in cambio di un altro prodotto di equivalente valore o di denaro (secondo un preciso rapporto quantitativo fissato nel suo prezzo) assume la forma di merce. Per il produttore il frutto del proprio lavoro ha un valore puramente quantitativo e strumentale, un valore che facciamo bene a definire economico, mentre per colui che lo acquista ciò che conta è in primo luogo il valore d’uso di questo bene mercificato. Già a questo elementare livello analitico possiamo rintracciare una tensione, concettuale e reale, immanente al concetto di merce, al suo essere, al contempo e senza soluzione di continuità, valore d’uso e valore di scambio. Notiamo anche che mentre il valore d’uso per così dire basta a se stesso (non ha alcun bisogno del valore di scambio) e corrisponde esattamente e completamente al prodotto del lavoro umano e ai bisogni umani (il panettiere sforna pane per sfamare il bisogno di pane), la stessa cosa non si può dire per il valore di scambio, il quale in nessun caso può rendersi del tutto autonomo dal corpo delle merci (cioè dal valore di scambio), che ne rappresenta piuttosto l’indispensabile sostrato “naturale”. Solo nel denaro immateriale (ossia del denaro nella sua forma simbolica di mezzo di circolazione e di mezzo di pagamento) il valore di scambio trova il modo di emanciparsi dal triviale corpo della merce (vedi, ad esempio, la merce-oro), compiendo quell’autonomizzazione dalla totalità del processo capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza sociale che è una tendenza immanente al concetto stesso di capitale e che possiamo osservare in tutte le sfere della vigente economia: ogni singolo momento della prassi economica (produzione, commercio, finanza) tende a rendersi autonomo dalla totalità di cui fa parte e senza la quale non esisterebbe neppure. Anche nel caso del denaro immateriale si tratta sempre di un’esistenza precaria, problematica, come dimostra, per citare un solo esempio, la corsa all’oro e agli altri tangibili «beni rifugio» che osserviamo in tempi di crisi economica, quando la metafisica speculativa (moltiplicare valori puramente virtuali, e altre analoghe chimere) deve cedere il passo al crasso materialismo del valore-lavoro.

«Quando una merce si scambia con un’altra merce, si scambiano eguali quantità di lavoro», scriveva Marx; che proseguiva come segue: «Quando invece si scambia contro lavoro, si scambiano ineguali quantità di lavoro; e la produzione capitalistica si basa sull’ineguaglianza di questo scambio» (9). Su questa dialettica, che sta alla base della marxiana teoria del valore (lo scambio ineguale tra Capitale e Lavoro salariato), ritorneremo dopo. Intanto possiamo fissare questo fondamentale concetto: il lavoro umano dà valore (economico) ai prodotti del lavoro. Attenzione: qui ho parlato di valore, non di valore di scambio; ho insomma introdotto di fatto la distinzione tra il primo (il valore colto nella sua essenza sociale, nella sua forma assoluta, come concetto in grado di spiegare il concreto dispiegarsi del valore) e il secondo (il valore colto nella sua determinazione concreta e relativa). Il valore di scambio è, sempre per scopiazzare Marx, la «forma fenomenica» del valore, il valore come si esprime nella forma-prezzo. La filiera genetica del valore si dà in questi termini: tempo di lavorovalorevalore di scambioprezzo.

Scrive Marx: «Il valore implica una sostanza comune, e la riduzione di tutte le differenze e proporzioni, a differenze e proporzioni puramente quantitative». (10) Il lavoro umano come sostanza di valore è un concetto che Marx ha ereditato dai fecondi pensatori che hanno calcato la scena del processo storico. «Uno dei primi economisti che, dopo William Petty, abbia penetrato la natura del valore, il celebre Franklin, dice: “Non essendo il commercio in generale altro che lo scambio di lavoro con lavoro, il valore di tutte le cose è esattissimamente stimato in lavoro”. Franklin non è consapevole del fatto che, stimando il valore di tutte le cose “in lavoro”, fa astrazione dalla differenza dei lavori scambiati – e così li riduce a lavoro umano uguale. Tuttavia lo dice, anche senza saperlo» (11). Come già sappiamo, la prassi sociale umana considerata nel suo complesso e nel suo dinamismo storico presenta la realtà di azioni che gli uomini compiono senza averne la minima coscienza. Benjamin Franklin, scriveva sempre Marx, è «il primo che consapevolmente, con chiarezza quasi banale, ha ridotto il valore di scambio a tempo di lavoro. […] Egli sostiene la necessità di cercare per i valori una misura diversa dai metalli preziosi. Questa misura sarebbe il lavoro. […] “Poiché – dice Franklin – il commercio non è altro che scambio di lavoro contro altro lavoro, il criterio più esatto per misurare il valore delle cose è basato sul lavoro”» (12). Dalla riflessione sui metalli preziosi che in fondo si limitano a esprimere il valore (economico) del prodotto, si passa a considerare il lavoro come fonte del valore di quel prodotto: si tratta di una vera e propria “rivoluzione copernicana”.

La mentalità economica comune ragiona ancora oggi in questo modo: un prodotto del lavoro ha un valore perché ha un prezzo, mentre le cose stanno esattamente al contrario: una merce ha un prezzo perché ha un valore, e questo valore è dato appunto dal lavoro incorporato nella merce. Noi cioè tendiamo a fare coincidere immediatamente i concetti di valore e di prezzo, a farne due modi diversi di riferirsi immediatamente alla stessa cosa. Niente di più sbagliato, e non si tratta di sottigliezze dottrinarie, ma della stessa sostanza del problema; problema che può essere risolto soltanto introducendo la mediazione tra valore e prezzo, ossia concependo il prezzo come una forma sviluppata – dispiegata – del valore.

Ritorniamo a Marx; qualche pagina prima egli aveva scritto: «La riduzione della merce a lavoro in duplice forma, del valore d’uso a lavoro reale, ossia attività produttiva rivolta a uno scopo, e del valore di scambio a tempo di lavoro, ossia lavoro sociale uguale, è il risultato critico a cui è giunta, in più di centocinquanta anni di ricerche, l’economia politica classica, che comincia in Inghilterra con William Petty e in Francia con Boisguillebert, e finisce in Inghilterra con Ricardo e in Francia con Sismondi» (13). Marx pone quindi in relazione il valore d’uso della merce con il lavoro reale, ossia con il lavoro concreto (falegnameria, metallurgia, sartoria, edilizia, ecc.), e il valore di scambio con il tempo di lavoro, cioè a dire con il lavoro astrattamente sociale. Il lavoro concreto ha, per così dire, un corpo: lo puoi toccare e vedere; il lavoro astrattamente sociale è invece una sostanza incorporea, impalpabile come l’anima, non si può né afferrarlo né misurarlo con i tradizionali strumenti offerti dalla scienza della natura. La sua gravità afferisce a una costellazione di concetti che rifuggono da ogni sforzo di riduzione quantitativa. Come vedremo, il peso specifico della merce non ha… peso.

Secondo Aristotele (ancora lui!) la formula «5 letti = 1 casa non si distingue da 5 letti = tanto e tanto denaro»; con ciò, osserva Marx, egli «enuncia chiaramente che la forma di denaro della merce è soltanto la figura ulteriormente sviluppata della forma semplice di valore, cioè l’espressione del valore di una merce in qualsiasi altra merce a scelta» (14). Questa geniale intuizione rimase del tutto estranea, ad esempio, a Proudhon, teorico di molte «acciarpature monetarie» puntualmente ridicolizzate dal nostro Tedesco.

Porre in una precisa relazione quantitativa differenti lavori significa ridurre le peculiari attività lavorative che creano specifici valori d’uso (letti e case, ferro e plastica, vino e birra) a una sola informe (o astratta) sostanza di lavoro, a un quantum di lavoro semplice, a una quantità discreta di generica energia lavorativa, per civettare indegnamente con la fisica moderna. Chiedo venia! In questo quadro, un lavoro altamente specializzato, che presuppone da parte del produttore vaste conoscenze tecniche e scientifiche, si differenzia da un lavoro a basso contenuto di capacità e di conoscenze tecniche solo dal punto di vista quantitativo: rispetto al secondo il primo ha un maggior valore di scambio (un prezzo più alto, un salario più alto). Alla fine, il tutto si riduce a quanto costa una capacità lavorativa, non importa se essa appartiene a un tecnico molto qualificato (a un “quasi scienziato”!) o all’ultimo degli operai (15). Un lavoratore altamente qualificato vale x quanti di lavoro semplice, espressi nel suo salario, un manovale invece y quanti di lavoro semplice, espressi sempre in un salario, che è l’espressione più adeguata della moderna schiavitù. Quanti salari di operai poco specializzati contiene il salario di un operaio altamente specializzato? Ecco come si presenta la “problematica” del lavoro «dopo essere stato ridotto a lavoro umano senza ulteriore qualificazione».

La capacità lavorativa ridotta a merce: «L’esperienza insegna che questa riduzione avviene costantemente [soprattutto alle spalle dei diretti interessati!]. Una merce può essere il prodotto del lavoro più complesso di tutti, ma il suo valore la equipara al prodotto di lavoro semplice e rappresenta quindi soltanto una determinata quantità di lavoro semplice» (16). Il concetto di lavoro semplice ha permesso a Marx di superare le gravi contraddizioni che segnano la teoria del valore di Smith e Ricardo, contraddizioni che verranno ereditate anche da Proudhon, il quale confondeva nel modo più ottuso il valore del lavoro con il valore basato sul tempo di lavoro. Mentre ad esempio in Smith si poteva osservare una feconda contraddizione, dal momento che egli «prende a misura del valore talvolta il tempo di lavoro necessario alla produzione di una merce, talvolta il valore del lavoro» (Marx), in Proudhon l’errore fatale si fisserà in una posizione che gli impedirà di capire la natura del Capitale colto nelle sue diverse forme: merce, denaro, salario, macchinario. «La moneta non è una cosa, è un rapporto sociale»: questo fondamentale concetto rimarrà completamente estraneo alla concezione proudhoniana dell’economia borghese, e le sue «acciarpature» dottrinarie e pratiche intorno alla moneta sono lì a testimoniarlo. Contro Proudhon, che poneva «come punto di partenza il valore costituito per costituire un nuovo mondo sociale a mezzo di questo valore», Marx afferma che «il valore misurato in base al tempo di lavoro è fatalmente la formula della schiavitù moderna dell’operaio» (17). Il tempo libero, non il tempo di lavoro, è la misura adeguata a un’umanità che si è lasciata alle spalle la maligna dimensione del dominio di classe.

Concludo questa “puntata” con una bellissima pagina marxiana che sintetizza bene la contrapposizione tra il tempo di lavoro come misura del valore (Capitalismo) e il tempo come «libero sviluppo delle individualità» (Comunità umana): «Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la sua misura, e quindi il valore di scambio deve cessare di essere la misura del valore d’uso. […] Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare pluslavoro, ma in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro superfluo; facendo quindi del tempo di lavoro superfluo – in misura crescente – la condizione (question de vie et de mort) di quello necessario. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore già creato. Le forze produttive e le relazioni sociali figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata. Ma in realtà essi sono le condizioni per far saltare in aria questa base. […] Il tempo di lavoro come misura della ricchezza pone la ricchezza stessa come fondata sulla povertà, ovvero tutto il tempo di un individuo è posto come tempo di lavoro, e l’individuo viene degradato perciò a mero operaio » (18). Dalla disumana legge del valore alla “legge” dei bisogni (umani e umanizzati): è, questo, un tema che cercherò di affrontare nel prossimo futuro.

Continua.

(1) K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, p. 409, Opere Marx-Engels, V, Editori Riuniti, 1972.
(2) K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 105, Editori Riuniti, 1963. Secondo Marx Aristotele fu il «grande indagatore che ha analizzato per la prima volta la forma di valore, come tante altre forme di pensiero, forme di società e forme naturali» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 91, Editori Riuniti, 1980).
(3) K. Marx, Il Capitale, I, p. 91.
(4) G. Simmel, Filosofia del denaro, 1900, seconda versione ampliata del 1907, p. 198, UTET, 1984.
(5) scrivevo nella precedente “puntata”: «Avverto il lettore che userò il “metodo”, non so dire quanto efficace e “scientificamente” corretto, dell’andare avanti e indietro, sempre di nuovo. Tra poco si capirà – si spera! – il significato di questo “originale” modo di approcciare e sviscerare il problema, il quale si è in pratica imposto da sé, “oggettivamente”, mentre cercavo di dare una forma minimamente intelligibile ai caotici appunti di studio che stanno alla base di questo scritto senza  tuttavia impegnarmi in un più lungo e laborioso lavoro di revisione. Il lettore avrà modo di verificare la bontà di questa autentica economia di pensiero – e qui è proprio il caso di dirlo, in tutti i sensi!
(6) K. Marx, p. 143, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica (Grundrisse), I, p. 143, Einaudi, 1983.
(7) F. Engels, Considerazioni supplementari al Libro terzo del (7) K. Marx, Il Capitale, 1894, Il Capitale, III, pp. 38-39, Editori Riuniti, 1980.
(8) K. Marx, Il Capitale, I, pp. 120-121.
(9) K. Marx, Storia delle teorie economiche,  III,  p. 188, Einaudi, 1958.
(10) K. Marx, Lineamenti, II, p. 596, La nuova Italia, 1978.
(11) K. Marx, Il Capitale, I, p. 83.
(12) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, pp. 70-71, Fratelli Melita, 1981.
(13) Ibidem, pp. 65-66.
(14) K. Marx, Il Capitale, I, p. 91.
(15) Della serie “Vita vissuta”: sulle navi il personale adibito alla conduzione e al controllo del propulsore principale e di ogni altro dispositivo tecnico è così preparato anche dal punto di vista delle conoscenze scientifiche, che non raramente esso affetta pose “scientifiche” e un atteggiamento di spocchiosa superiorità professionale nei confronti della cosiddetta “bassa forza”, per usare un vecchio termine del gergo marinaresco, ossia dei colleghi meno qualificati. Parlare con certi operai super qualificati di “quanti di lavoro semplice” sarebbe come bestemmiare in presenza dei preti. Essi sono “quanti di lavoro semplice”, ma non lo sanno. Ed è meglio non dirglielo…
(16) K. Marx, Il Capitale, I, p. 76. «Le stesse qualità superiori di lavoro vengono stimate in lavoro semplice. Ciò diventa immediatamente evidente quando si rifletta sul fatto che per esempio l’oro della California è il prodotto del lavoro semplice. Tuttavia con esso si paga ogni genere di lavoro. La differenza qualitativa è dunque soppressa» (K. Marx, Lineamenti, II, pp. 595-596).
(17) K. Marx, Miseria della filosofia, Opere Marx-Engels, VI, p. 126, Editori Riuniti, 1973.
(18) K. Marx, Lineamenti, II, pp. 401-402-405.

IL POTERE IN TASCA (III)

new-drachma-goldcoreAppunti di studio sulla teoria marxiana del denaro

Il capitalista sa che tutte le merci, per quanto
possano avere aspetto miserabile o per quanto
possano avere cattivo odore, sono in fede e
in verità denaro (1).

Per Pierangelo Dacrema, il nemico giurato dell’economia monetaria nonché teorico dell’«economia del dono» che abbiamo incontrato nella precedente puntata, «Il denaro è solo velocità, nulla di più. Qualsiasi definizione che tenti di spiegarlo al di là di questo dato rischia di essere verbosa, oltre che di perdersi in aspetti del tutto secondari della moneta». Dalla teoria del valore alla teoria della velocità? George Orwell aveva dunque ragione quando osservava che «Per vedere cosa c’è sotto il proprio naso occorre un grande sforzo»? A giudicare dalla tesi, peraltro tutt’altro che originale, appena esposta direi proprio di sì, e in ogni caso personalmente preferisco di gran lunga correre il rischio di essere verboso e di perdermi «in aspetti del tutto secondari della moneta» che accontentarmi di sintetiche definizioni che, a parere sindacabile di chi scrive, non definiscono  un bel nulla, e men che meno un peso massimo delle categorie economiche com’è indubbiamente il denaro. Ma riprendiamo l’interessante citazione bruscamente interrotta a causa di un trabocco di volontà polemica: «È con il denaro che ottengo immediatamente le sigarette dal tabaccaio, è con il denaro che modifico in un attimo le mie intenzioni di uomo [diciamo pure di consumatore]. […] Dire che il denaro è uno strumento di trasmissione del valore non aggiunge nulla al quadro [il valore? Quisquilie, pinzillacchere, robetta insomma]. Il punto centrale rimane la velocità. Si può immaginare che sarei comunque entrato in possesso di ciò che desideravo senza denaro, in virtù di qualche baratto o di chissà quali promesse [o minacce, perché no?]. Ma in ogni caso si presume che l’operazione sarebbe stata più lenta e farraginosa [in effetti, come scriveva Marx nel Capitalismo contano solo gli «acquirenti in grado di pagare», altrimenti detti, appunto, «consumatori»]. Né serve ricordare che il denaro è il mezzo principale di quantificazione del valore, e che si tratta perciò dell’elemento in forza del quale disponiamo dello strumento dei prezzi e della loro applicabilità sul piano pratico. Anche in tema di quantificazione, infatti, la variabile cruciale non cessa di essere la velocità [e perché mai? Mistero!]. Attenzione! Il denaro non è lo scambio, né potrà mai averne la forza concettuale e la potenza fattuale. Scambio e denaro continueranno a essere distinti, a esercitare la loro autonomia. Comunque lo si guardi, del denaro resta la nuda velocità» (2). Più leggo i riformatori (di “destra” o di “sinistra”) del capitalismo, e più mi convinco che la sindrome di Proudhon è sempre in agguato, anche perché è la stessa fenomenologia dell’economia fondata sullo sfruttamento del “capitale umano” che genera quel tipo di sindrome, la quale nell’essenza non si è di molto modificata dai tempi in cui il noto filosofo della miseria donava al mondo le sue «acciarpature monetarie». Adesso tocca al cane morto di Treviri subire la bastonatura critica, sempre per mano di Dacrema. Eccola!

«Marx ha sopravvalutato una parola, il capitale, dandole la dignità di un concetto, e ha sottovalutato un concetto, il lavoro, riducendolo a una parola. Quanti inconvenienti ne siano sorti è noto a tutti». Ogni riferimento alla lotta di classe qui è puramente voluto. Ovviamente contro Marx Dacrema fa pure valere i «Risultati fallimentari del marxismo applicato» nei Paesi del cosiddetto «Socialismo reale», i quali, come non mi stanco di ripetere fino alla noia (soprattutto a uso di nuovi lettori, mi auguro!), di reale avevano solo il Capitalismo (più o meno di Stato), un regime politico particolarmente oppressivo, l’Imperialismo (spacciato per “internazionalismo proletario”: e non pochi abboccavano!) e, dulcis in fundo, la negazione più brutale e volgare di quanto Marx ha scritto, detto e fatto nel corso della sua tribolata esistenza. «In realtà, l’unico nemico è il denaro, essendo il capitalista soltanto un uomo e il capitalismo nulla di più di una sovrastruttura culturale [sento che il mio granitico “materialismo storico” vacilla al cospetto di cotanta profondità economico-filosofica!]. Perché è un esercizio pericoloso quello che porta alla santificazione [sic!] degli sfruttati e all’esecrazione degli sfruttatori [risic! Occhio che adesso si ride]. Anche il più umile e il più onesto [!] dei lavoratori cederebbe alle lusinghe del denaro [ma va?]. Non basta la coscienza di classe a placare l’appetito scatenato del denaro [su questo, come si dice, non ci piove!]. Di fronte al quale gli uomini sono uguali, tutti ugualmente colpevoli, cioè tutti ugualmente innocenti [diciamo pure tutti in qualche modo posti al servizio del Moloch: Sua Maestà il Capitale]. È vano lanciare strali contro il capitalismo [d’accordissimo!]. […] Del capitalismo non è protagonista negativo il capitale, bensì il denaro. Dell’imperialismo economico non è generico fondamento il capitalismo, bensì il denaro» (pp. 70-73). Ora, ha un pur minimamente senso storico e sociale volere il capitale ma non il denaro? volere il Capitalismo ma non l’«imperialismo economico»? Rimango perplesso, diciamo.

Adesso arriva la Profezia lanciata contro lo sterco del Demonio: «Addio, denaro. La tua morte è inevitabile [come no!]. Nuovi valori e più moderne forme di contabilizzazione della ricchezza ci attendono» (p. 228). Speriamo! Tuttavia, vagliando i presupposti concettuali appena sviscerati mi viene il sospetto che l’auspicata «economia del dono» non sia che un altro modo di chiamare il Capitalismo. Comunque sia, più che per «moderne forme di contabilizzazione della ricchezza» chi scrive si batte (che parola grossa!) per la fuoriuscita dell’umanità dalla dimensione capitalistica della ricchezza, la quale trova nel denaro “solo” la sua più autentica e potente espressione. «L’unico nemico» non è il denaro, né è la brama di denaro che ossessiona necessariamente tutti: il nostro nemico si chiama rapporto sociale capitalistico – o Nessuno, per dirla con il noto racconto omerico.

«Il lavoro è il concetto centrale», scrive sempre Dacrema: come non essere d’accordo su questo punto? Ma subito il sospetto incalza: di che lavoro stiamo parlando? Marx, ad esempio, parla del lavoro salariato, ossia della capacità lavorativa che rappresenta il valore d’uso della merce-lavoratore, il cui valore di scambio è espresso nel prezzo di quella bio-merce davvero speciale, ossia nel salario. Per Dacrema le cose non stanno affatto così: per lui il lavoro ha una dimensione metastorica e metasociale (non è forse lavoro anche quello di chi sfrutta i lavoratori salariati?), e semmai chi rovina tanto i capitalisti quanto gli operai sono i cattivoni della finanza, veri sanguisuga che prosperano sulla pelle della buona e onesta società civile. Siamo all’ultrareazionaria ideologia dell’alleanza fra i «ceti produttivi», così cara al cattocomunismo dei vecchi tempi? Non c’è dubbio, e sempre con la clausola – di stile, il più delle volte – mutatis mutandis.

A distanza di quasi un secolo e mezzo dalla morte di Marx, il più modesto degli epigoni si vede costretto a sentirsi un genio del pensiero sociale al cospetto di chi vuole riformare radicalmente la sfera della circolazione (delle merci, del denaro, dei capitali, della ricchezza) conservando la produzione capitalistica. L’importante è non morire proudhoniani!

Tuttavia, il fatto stesso che in un libro dedicato al denaro l’autore senta il bisogno di parlare di lavoro e di criticare la teoria marxiana del plusvalore, pur non avendola compresa nei suoi termini essenziali, ebbene ciò conferma che non si può riflettere seriamente sul denaro senza quantomeno evocarne la filiera genetica: lavoro salariatovalorevalore di scambiodenaro. Avremo modo di riparlare di questa “strana” filiera. Questa incursione nel futuro degli appunti di studio qui sottoposti alla cortese attenzione del lettore mi permette di anticipare la fondamentale considerazione che segue.  La marxiana teoria della moneta è a tutti gli effetti parte organica della teoria generale del plusvalore elaborata da Marx come critica dell’economia politica; essa è una teoria particolare che può essere compresa solo alla luce della teoria generale dello sfruttamento della capacità lavorativa attraverso lo scambio ineguale Capitale-Lavoro. (Anche da ciò si capisce come sia del tutto infondato parlare del comunista tedesco nei termini di un continuatore, più o meno originale, dell’economia classica). Insomma, è impossibile parlare del denaro in termini marxiani senza in qualche modo riscrivere sinteticamente l’intero Capitale.

«Con metodo cartesiano», incalza Dacrema, «distinguiamo la res cogitans dalla res extensa, il pensiero, tipico degli uomini, dalla materia, ciò con cui essi sono tenuti a dialogare. […] Il metodo del denaro ha prevalso sul ragionamento cartesiano» (p. 221). Le cose stanno altrimenti, anche al netto del noto dualismo filosofico cartesiano: è il metodo del Capitale che ha prevalso su ogni aspetto della nostra vita, anche se noi facciamo tutti i giorni i conti con la sua più appariscente e potente incarnazione, con la sua più estrema e tagliente manifestazione. Il problema non è, in radice, il denaro ma ciò che storicamente e socialmente lo presuppone e lo crea sempre di nuovo a immagine e somiglianza della vigente società capitalistica. Se non vuoi il denaro, non devi innanzitutto volere la prassi sociale, oggi dalle dimensioni planetarie, che con assoluta necessità ne fa una tremenda Potenza. «Il sistema» non «è fondato sul denaro», come pensa Dacrema, ma sullo sfruttamento delle capacità lavorative da parte del Capitale. Anche se l’illusione monetaria ci suggerisce il contrario, il gigantesco e sempre più stratosferici edificio della finanza (trilioni di miliardi di capitale più o meno fittizio che alimenta quotidianamente il circuito finanziario, anche quello più speculativo) si regge sulla ristretta base del lavoro capitalisticamente produttivo, ossia sul lavoro dei salariati sfruttati in ogni angolo del pianeta. La «coscienza di classe», almeno per come la concepisco io, non serve a «placare l’appetito scatenato del denaro»: non siamo mica dei cattocomunisti, e le sempre più stucchevoli prediche pauperiste è meglio lasciarle nella bocca del Santissimo Padre, peraltro tutti i giorni alle prese con le insidie del Demonio; il punto di vista umano, per esprimermi a modo mio, “serve” per un verso a mettere i nullatenenti e gli umanamente sensibili d’ogni estrazione sociale nelle condizioni di capire per un verso che il Capitalismo non può che essere disumano, sempre più disumano e disumanizzante, sotto ogni rispetto e a prescindere dalla buona o dalla cattiva volontà degli individui (capitalisti compresi), e per altro verso che una comunità semplicemente umana (e quindi libera dal Capitale in ogni sua espressione: lavoro salariato, merce, denaro, ecc.) è – materialisticamente parlando – più possibile ora che ai tempi di Marx. Il fatto che a causa di diverse ragioni che adesso sarebbe eccessivo discutere, tale prospettiva appaia assurda, più che utopistica, ciò realizza la condizione tragica (la tragedia dei nostri tempi) che provo a tematizzare in questo modesto Blog.

Secondo Georg Simmel «il denaro risulta essere l’espressione adeguata del rapporto dell’uomo col mondo» (3). Condivido in pieno questa tesi, e mi limito a completarla come segue: del mondo capitalistico in particolare e del mondo che conosce il dominio e lo sfruttamento in generale, guardando cioè la cosa da una prospettiva storica che abbraccia lo sviluppo delle società classiste. Riscrivo dunque come segue quella tesi: il denaro risulta essere l’espressione adeguata del rapporto dell’uomo «che non è ancora un essere umano» (4) col mondo del Dominio. Per mutuare indegnamente Voltaire, si tratta di bruciare (magari dando fuoco  alla cartamoneta!) i nostri attuali rapporti sociali disumani e di crearne di nuovi, interamente umani. Tutto il resto è pia – e il più delle volte reazionaria – illusione.

Chi crea merci, crea – almeno in potenza – denaro. E, com’è ovvio, a sua volta la creazione di denaro spinge in avanti la produzione industriale e ogni altra attività economica: basti pensare al credito offerto alle industrie e al credito offerto al consumo da parte delle diverse istituzioni finanziarie. Creazione di merci e creazione di denaro realizzano quel circolo virtuoso che imprenditori, economisti, uomini politici e opinione pubblica guardano con tanta simpatia durante le fasi di prosperità economica, salvo parlarne nei termini di un demoniaco circolo vizioso quando sull’economia cala l’ombra della recessione (5). Ecco perché il dibattito intorno agli “eccessi” e agli “errori” del sistema economico che puntualmente si apre nel circolo politico-mediatico a ogni sussulto del ciclo economico è da considerarsi, perlopiù, alla stregua di una patetica farsa, una robaccia da scaraventare senz’altro nella pattumiera.

Sistemato, si fa per dire, un nemico del denaro passiamo adesso a considerare le riflessioni di un apologeta del denaro. Il tutto, beninteso, come introduzione al vero e proprio merito della questione.

Gli-adulatori-638x425Nell’aprile del 2007, alla vigilia della crisi finanziaria internazionale che, com’è noto, ebbe come suo epicentro gli Stati Uniti d’America, Carlo Lottieri si chiedeva: «Ma da dove proviene il denaro? Qual è la sua vera natura? Che funzione svolge? A lungo occupati a demonizzare la libertà di mercato e con essa il profitto, ipnotizzati dalle politiche di piano e da ogni forma di collettivismo, gli occidentali sembrano spesso aver perduto la capacità stessa di comprendere il denaro. Impegnati a imbrigliarlo e manipolarlo, a imputargli ogni nequizia e a vedere in esso la sorgente irrazionale di un dinamismo fuori controllo, abbiamo così finito per impedirci di avere con esso un rapporto fecondo. Mentre è importante ricordare che il denaro è un’invenzione umana, la quale non accompagna da sempre la vita dell’uomo. Al contrario, esso è uno dei momenti cruciali della costruzione della civiltà: un po’ come la scrittura o lo sviluppo della scienza» (6). Viene da chiedersi se l’autore avrebbe svolto il tema allo stesso modo qualora avesse scritto l’articolo in questione solo qualche mese dopo, nel momento in cui le «bolle di sapone di capitale monetario nominale» (Marx) iniziarono a scoppiare. Per rendersi conto dell’alto – e completamente falso – concetto che Lottieri ha del denaro è sufficiente leggere i passi che chiudono l’articolo: «Il denaro è un sofisticato artificio che tanto contribuisce a fare umano l’uomo. Cerchiamo di averne cura». La tesi di chi scrive è, invece, esattamente opposta: il denaro è l’espressione più adeguata della vigente società che nega sempre di nuovo tutto ciò che ha a che fare con una vita autenticamente umana. Attenzione: espressione, non causa! Soprattutto il denaro, prim’ancora di essere «un sofisticato artificio», è in primo luogo l’espressione sintetica di peculiari rapporti sociali. Non si insisterà mai a sufficienza su questo punto.

«Già nel diciassettesimo secolo», prosegue Lottieri, «John Locke (7) ebbe a rilevare come solo grazie all’introduzione della moneta sia diventata possibile un’occupazione illimitata delle terre vergini. Perché ci sia vera ricchezza, insomma, c’è bisogno dell’oro, perché è solo grazie alla moneta che i ricchi diventano davvero tali: e con piena legittimità. Mancando il denaro, chi avesse preteso di appropriarsi di molti ettari di campi anonimi non avrebbe avuto alcuna possibilità di lavorarli e, soprattutto, non sarebbe stato in grado di accumulare i frutti ottenuti. Nel Secondo trattato sul governo Locke evoca proprio la frutta di innumerevoli alberi, destinata a marcire inutilmente qualora – mancante il denaro – un solo individuo fosse proprietario di sterminate aree. Ma grazie all’avvento di un’economia monetaria diventa possibile assumere lavoratori al proprio servizio e anche trasformare in risorse durature i beni deperibili maturati nei campi. In questo senso, per sua natura e fin dall’inizio, il denaro è Capitale: qualcosa destinato a durare, a produrre risultati che permangono, a moltiplicare la nostra capacità d’incidere sul mondo». Nel racconto apologetico e ideologico («a testa in giù»!) di Lottieri la civiltà borghese inizia con «l’invenzione del denaro»; il secolare svolgimento storico-sociale che ha reso possibile l’apparizione e poi la diffusione in forma stabile dell’economia monetaria è semplicemente cancellato, non per motivi di sintesi ma a causa di un grave vizio concettuale, caratteristico di chi appunto capovolge il rapporto di causa ed effetto e vede all’opera solo la libera volontà di individui perfettamente razionali – cioè borghesi. Il Capitalismo come sistema di idee e di valori etici: su questo punto Dacrema e Lottieri concordano.

Ecco adesso l’avvento della moderna civiltà borghese considerata da un punto di vista critico-radicale: «Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata la servitù del lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di tale asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico. […] Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse di uomini vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. […] Quel che chiedeva il sistema capitalistico era una condizione servile della massa del popolo; la trasformazione di questa in mercenari, e la trasformazione dei suoi mezzi di lavoro in capitale» (8). In effetti «la cosiddetta accumulazione originaria» raccontata dal comunista di Treviri non assomiglia neanche un po’ a un idillio; essa suggerisce piuttosto l’idea di un inferno precipitato sulla Terra, di una sanguinosa guerra sociale dichiarata e condotta dai nuovi ceti sociali in ascesa contro le vecchie classi dominanti e contro le classi dominate in ogni tempo perché sprovviste di qualsivoglia potere economico.

Il punto di partenza dello svolgimento storico-sociale che portò alla moderna società borghese non è rappresentato dal denaro, dalla sua rivoluzionaria immissione in un ambiente economico altrimenti destinato a rimanere inchiodato a secolari prassi e tradizioni, ma dall’allontanamento violento dei produttori immediati (contadini e artigiani, in primis) dalla proprietà dei presupposti oggettivi della loro produzione e, dunque, dalla proprietà del loro prodotto: questa doppia proprietà, che realizza i nuovi rapporti sociali borghesi, si concentra nelle mani dei capitalisti.  Il lavoro salariato è l’attività lavorativa che si trova in una condizione di totale separazione tanto dai presupposti oggettivi della creazione della ricchezza sociale (mezzi di produzione, materie prime, ecc.) quanto dai risultati di questa produzione, ossia dal prodotto del lavoro: si tratta di una condizione sociale di pura alienazione, di puro asservimento nei confronti del Capitale.

La funzione di capitale del denaro è insomma un risultato storico, e non una qualità immanente al concetto di denaro, come forse crede Lottieri. Partire dal capitale, cioè a dire dall’ultima e più sviluppata forma del denaro, significa mettersi nelle condizioni di non comprenderne l’essenza storica e sociale, nonché l’intima dialettica che fa del denaro il Moloch che conosciamo. Naturalmente tutto questo discorso ha un senso solo per chi è in grado di apprezzare nel suo corretto significato la distinzione tra le diverse funzioni del denaro colto appunto nella sua dinamica storico-sociale: misura ideale del valore, mezzo di circolazione, mezzo di pagamento, moneta creditizia, moneta nazionale, moneta mondiale, capitale. Stabilire sul piano storico un rapporto di identità tra denaro e capitale, come se ci si trovasse dinanzi a due diversi nomi per la stessa cosa, significa commettere un errore teorico davvero… capitale!

Come si è già capito, contrariamente all’apologeta del denaro io penso, ed è una delle poche certezze che sento di poter difendere con assoluta convinzione, che dove è presente il denaro (e tutto ciò che lo presuppone) deve necessariamente mancare la presenza «dell’uomo in quanto uomo». Se vuoi l’uomo (non l’uomo perfetto, ma l’uomo senza alcun’altra aggettivazione), non puoi volere allo stesso tempo il denaro. Ma il denaro, come si diceva prima, non è una cosa (una tecnologia, uno strumento), e nemmeno una mera convenzione: il denaro è, in radice, «Un rapporto sociale di produzione [che] si manifesta dunque nella forma di un oggetto che esiste al di fuori degli individui, così come le determinate relazioni che essi hanno contratto nel processo di produzione della loro vita sociale si presentano come proprietà specifiche di una cosa, e questo è un rovesciamento, una mistificazione non immaginaria, bensì prosaicamente reale, che caratterizza tutte le forme sociali del lavoro produttore di valore di scambio. Solo che nel denaro il fenomeno appare in modo più vistoso che nella merce» (9). Quando un rapporto sociale prende l’aspetto di una cosa («prodotto dell’alienazione generale») che ci domina dall’esterno come una potenza sovraumana («I denari solo fanno i miracoli. Ahi, noialtri poveretti!»), l’essenza ontologica dell’uomo nel suo più alto e autentico concetto è negata in radice: su questo punto sono disposto a sfidare financo l’esistenzialismo di Heidegger! Mi sono lasciato prendere la mano. Mi scuso.

Inutile dire che Lottieri è lontano anni luce dalla mia concezione, come si vede benissimo dai passi che seguono: «Contrariamente a quello che credeva Karl Marx, il denaro è però ben lungi dall’essere “anonimo”. Non è una forza cieca, ma è invece un mezzo in mani umane. È soprattutto un servitore fedele, perché in definitiva è accumulabile solo grazie ad un progetto che ne posticipa il consumo (il risparmio) e diventa in grado di investire il mondo solo in virtù di un’iniziativa che immagina l’avvenire e specula intorno ad esso (l’investimento). La forza del denaro è nel suo incamerare lavoro: essere una potenza pura, ma sempre pronta a farsi attuale, costruendo fabbriche e cattedrali, fino a portare i sogni dal cielo in terra». Così Lottieri, il poeta del denaro.

Per Lottieri il presupposto della circolazione delle merci è il denaro; come abbiamo visto, e come vedremo meglio in seguito, per Marx il «presupposto della circolazione monetaria è la circolazione delle merci» (10): mentre per il Tedesco il denaro è il risultato della prassi sociale che rende possibile la creazione e la circolazione della ricchezza sociale nella sua forma capitalistica, per l’Italiano è il denaro che crea in origine questa prassi, e che poi la rende possibile sempre di nuovo. L’ingenuità e l’indigenza storica di una simile concezione si può apprezzare anche dai passi che seguono: «Uno dei più acuti teorici liberali, Benjamin Constant, ha opposto nettamente le logiche del denaro (e della pace) a quelle dello stato (e della guerra). Nel suo saggio sullo spirito di conquista e sull’usurpazione, del 1814, egli sottolinea come quando si cede denaro per avere un bene ciò che si afferma è il diritto stesso, che trionfa sulla forza. Così, quando si pone mano al portafoglio si cerca in fondo “di ottenere per mutuo accordo ciò che non si spera più di conquistare grazie alla violenza”. La pacificazione che accompagna l’avvento del denaro è tutt’uno con l’irrompere di un’economia finanziaria che finisce per intersecare e meticciare le differenti società, togliendo spazio alle pretese di controllo avanzate dal ceto politico-burocratico». Dopo una simile lettura, se chi scrive fosse un militante antiglobal e un nemico del «Capitalismo selvaggio/neoliberista/finanziario/debitocratico», e non un anticapitalista nudo e crudo, come si dice dalle mie parti, già avrebbe la pelle piena di pustole sovraniste, identitarie e politiciste («come la mettiamo con il primato della Politica?»). A prescindere da ogni altra considerazione, si comprende bene come all’autore sfugga completamente il rapporto causale che lega lo sviluppo del Capitale finanziario, che già alla fine del XIX secolo finisce per dominare tutte le sfere della prassi economica capitalistica, e la politica imperialista degli Stati chiamati a supportare le gigantesche esigenze dell’accumulazione capitalistica giunta a un alto grado di “maturazione”. Lottieri non comprende la natura eminentemente economica del moderno Imperialismo («Fase suprema del capitalismo»), cosa che invece apparve sufficientemente chiara, ad esempio, a John Atkinson Hobson, che pure scrisse il suo classico saggio oltre un secolo fa: «Fu chiaramente questa improvvisa domanda di mercati esteri per le merci e per gli investimenti la responsabile dell’adozione dell’imperialismo come politica e come pratica. […] Essi [gli imprenditori] avevano bisogno dell’imperialismo perché volevano usare le risorse nazionali del loro paese per trovare un utilizzo conveniente per il loro capitale che altrimenti sarebbe risultato superfluo. […] È ammesso da tutti gli uomini d’affari che la crescita della capacità produttiva nei loro paesi eccede l’aumento dei consumi che si possono vendere ad un prezzo profittevole, che esiste  più capitale di quanto può trovare un investimento remunerativo. È questa situazione che rappresenta la radice economica dell’imperialismo» (11).

Dai tempi di Constant il denaro (e tutto ciò che lo rende necessario e vitale) ne ha percorsa di strada!

denaro-390x233Nel precedente post ho aggrovigliato intorno al mio oggetto di riflessione (il denaro) fin troppi nodi concettuali; si tratta adesso, non dico di venire a capo dell’intera matassa, ma almeno di incominciare a sciogliere alcuni di quei nodi, quantomeno quelli più importanti fra i tanti finiti nel pettine. Avverto il lettore che userò il “metodo”, non so dire quanto efficace e “scientificamente” corretto, dell’andare avanti e indietro, sempre di nuovo. Tra poco si capirà – si spera! – il significato di questo “originale” modo di approcciare e sviscerare il problema, il quale si è in pratica imposto da sé, “oggettivamente”, mentre cercavo di dare una forma minimamente intelligibile ai caotici appunti di studio che stanno alla base di questo scritto senza  tuttavia impegnarmi in un più lungo e laborioso lavoro di revisione. Il lettore avrà modo di verificare la bontà di questa autentica economia di pensiero – e qui è proprio il caso di dirlo, in tutti i sensi! Basta cincischiare con questioni “metodologiche” e veniamo al merito della questione!

Consideriamo la forma Ma – Mb, scambio di merce (a) contro merce (b): si tratta del ben noto baratto, una vecchia e gloriosa prassi economica che trova nuovi sostenitori tutte le volte che il demoniaco denaro sembra mandare a scatafascio l’intero edificio economico: «Basta con l’economia monetaria! Il denaro è impazzito! Ritorniamo al vecchio e caro baratto!». La prassi economica, qui genericamente considerata, ci presenta come perfettamente razionale una semplice equazione che presa in sé non supererebbe l’esame della logica formale: 1 chilogrammo di prodotto X = 1 metro di prodotto Y. Ha un significato porre l’eguaglianza tra due oggetti di genere diverso?

Com’è noto nell’economia del baratto è possibile scambiare fra loro prodotti del lavoro (e questa locuzione non appaia banale né casuale al lettore) aventi un diverso valore d’uso: ad esempio un tavolo di legno con del formaggio. Tuttavia il presupposto economico (razionale) di questa transazione non sta nel valore d’uso degli oggetti scambiati, ma piuttosto nelle quantità di prodotto scambiato. Le quantità dei prodotti scambiati (ad esempio: un tot di grano contro un tot di zucchero, un tot di vino contro un tot di seta) nell’economia che fa a meno del denaro non sono mai, in linea generale (e sempre al netto della stupidità di alcuni e della furbizia di altri), arbitrarie, ma ubbidiscono invece a precise regole, senza le quali gli scambi sarebbero impossibili, o si risolverebbero appunto in truffe o in furti, con tanto di morti e feriti: non si scherza con i prodotti del lavoro! Invece la storia dell’economia ci dice che, salvo le immancabili eccezioni (e gli imbecilli di cui sopra), le transazioni non mediate dal denaro si sono svolte per un lungo tempo con regolarità e con la piena soddisfazione di tutti gli “scambisti”. La stretta di mano, la pacca sulla spalla e la bicchierata tra “amici” dopo un affare concluso sono gesti che hanno fatto giustamente epoca nella storia dell’economia non monetaria.

Che cosa rendeva dunque possibile scambiare, ad esempio (ovviamente qui si tratta di un esempio del tutto campato in aria), cento chili di farina con settanta litri di vino? Cosa garantiva agli scambisti che proprio quelle, e non altre, erano le giuste quantità di prodotto da mettere in reciproca relazione?  Ha una logica dire che un quintale di ferro è uguale a cento quintali di plastica? Intanto osserviamo che quando diciamo «è uguale» in realtà intendiamo dire ha lo stesso valore. Ebbene, di che valore si tratta? Che cosa hanno in comune il ferro e la plastica?

Continua (è probabile).

(1) K. Marx, Il Capitale, I, p. 187, Editori Riuniti, 1980.
(2) P. Dacrema, La morte del denaro, pp. 11-13, Christan Marinotti, 2003.
(3) G. Simmel, Filosofia del denaro, 1900, seconda versione ampliata del 1907, p. 194, UTET, 1984.
(4) K. Marx, La Questione ebraica, 1843, p. 73, Newton, 1975.
(5) «Non li abbiamo mica costretti noi ad accumulare mutui su mutui per la casa, la macchina e la barca, si giustificavano nel 2008 i maghi di Wall Street» (D. Giglioli, Tutti ai piedi del dio Denaro, Il Corriere della Sera, 11 settembre 2012). In Italia «Valgono 348 miliardi di euro i prestiti bancari non rimborsati da famiglie e imprese. […]I finanziamenti non rimborsati dalle imprese sono pari a oltre 288 miliardi, quelli dalle famiglie a quasi 60 miliardi» (Agi, 10 novembre 2015).
(6) C. Lottieri, Il denaro è una virtù. Apologia dello sterco del demonio, Il Foglio, 6 aprile 2007.
(7) «John Locke, il quale sosteneva la nuova borghesia in tutte le sue forme, gli industriali contro la classe operaia e i poveri, i commercianti contro gli usurai di vecchio stile, l’aristocrazia finanziaria contro i debitori di Stato, e che in una sua opera dimostrò perfino che l’intelligenza umana normale è quella della borghesia» (K. Marx, Per la critica dell’economia politica, 1859, p. 94,  Newton Compton editori, 1981).
(8) K. Marx, Il Capitale, I, pp. 779-784.
(9) K. Marx, Per la critica…,  p. 62.
(10) Ibidem, p. 123. «La circolazione essuda continuamente denaro» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 145).
(11) J. A. Hobson, L’imperialismo, 1902, pp. 109-111, Newton,1996. «Per il vecchio capitalismo [… ] era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo […] è diventata caratteristica l’esportazione di capitale» (Lenin, L’imperialismo, 1916, Opere, XXII, p. 241, ER, 1966).

IL POTERE IN TASCA

800px-GoldCalfAppunti di studio sulla teoria marxiana del denaro

Con il denaro posso portare in giro con me, in tasca,
il potere sociale universale, la connessione sociale
generale e la sostanza della società (K. Marx).

Nelle pagine che il lettore ha sotto gli occhi ho messo insieme alla meglio (cioè male!) gli appunti di studio (l’ennesimo: come diceva il filosofo, «So di non sapere!») sulla teoria marxiana del denaro. In altri termini, ho cercato di dare un minimo sindacale di forma a un qualcosa di informe e di caotico in modo da renderlo disponibile a chi ne fosse eventualmente interessato. Non sono riuscito tuttavia a eliminare ripetizioni e strafalcioni formali e sostanziali d’ogni genere, così come non sono riuscito a separare l’”economico” dal “filosofico”. Di queste non piccole pecche mi scuso con chi avrà la curiosità, e financo la bontà, di leggere il più che modesto lavoro che offro all’attenzione. (Lo so, il self marketing (1) non è il mio forte).

Scriveva il filosofo Pier Aldo Rovatti all’alba del nuovo millennio: «Occorre criticare il bisogno “feticista” dell’uomo di avere e costruirsi una “divinità”, un “dio denaro”, piuttosto che il “denaro” in sé» (2). A me pare che sia del tutto illusorio e ingenuo, oltre che infondato tanto sul piano economico quanto su quello filosofico, separare il denaro «in sé» dalla sua ricezione feticistica da parte dell’uomo. In altri termini, il «bisogno “feticista”» evocato dal filosofo a me pare necessariamente connesso alla natura sociale del denaro «in sé»; penso che il Denaro come divinità sia una cosa sola con il Denaro come potenza sociale.  Detto altrimenti, è la cosa stessa che si dà come feticcio. Ancora Rovatti: «L’economia mondiale si regge su un rapporto tra “ricchezza” e “povertà”, venendo meno il quale non si sa bene cosa potrà accadere. Ciò produce e in parte giustifica una serie di “resistenze” da parte dei Paesi “ricchi”. Credo che sia importante sottolineare che il “denaro” é anche causa delle “guerre”. Occorre allora smontare la “cultura attuale del denaro”, quella stessa cultura che vuole il “denaro” “onnipotente”». Si tratta allora, sempre secondo Rovatti, di «destrutturare» l’idea stessa si denaro, riconducendo quest’ultimo ai sui termini funzionali, così che il prodotto cessi di ergersi contro il suo produttore. Ora, a me pare che il denaro sia onnipotente in primo luogo nella realtà della prassi sociale, nella vita quotidiana di ogni individuo, ed è per questo che esso diventa onnipotente anche nella nostra testa. Più che di una cultura dovremmo piuttosto liberarci di un rapporto sociale!

Nelle pagine che seguono cercherò dunque di criticare il denaro in sé, con accluso «bisogno feticista», il quale si mostra ai miei occhi in guisa di parte organica della cosa, e non come una sua mera superfetazione ideologica. L’ideologia è, semmai, tutta dalla parte del filosofo citato, i cui scritti peraltro non mancano, in genere e a parere di chi scrive, di un certo interesse.

Attribuire alle cose qualità (proprietà, funzioni) che derivano loro soltanto in virtù di peculiari rapporti sociali: è la mistificazione ideologica che più spesso sorge sulla base della merce e del denaro – due determinazioni storico-sociali che, come vedremo, non possono essere separate l’una dall’altra né sul piano concettuale né sul piano della prassi economico-sociale. Marx concettualizzò questa mistificazione profondamente radicata nella realtà capitalistica col termine feticismo, un concetto che non a caso ricorre spesso nella storia delle religioni e nella psicoanalisi. Ed è proprio mutuando quest’ultima che mi piace parlare della marxiana critica dell’economia politica nei termini di un’analisi del profondo, a significare che lo psicanalista della merce nato a Treviri si sforzò di cogliere la natura del Capitalismo nella sua intima essenza, spezzandone la compatta superficie fenomenologica e orientando lo sguardo critico appunto verso le oscure profondità di quel modo storico di produrre e distribuire la ricchezza sociale.

Il denaro non crea valore, ma lo presuppone come proprio fondamento reale e concettuale; solo sul fondamento del valore il denaro può dunque esistere e svilupparsi sempre di nuovo nelle sue molteplici forme per assecondare ed esprimere nel modo più adeguato le trasformazioni che continuamente rivoluzionano la struttura economico-sociale del Capitalismo – qui pensato come totalità storico-sociale e non solo in quanto modo di produzione. «Il denaro», scriveva Marx, «non è che la forma in cui il valore delle merci appare nel processo di circolazione» (3). Il denaro rappresenta certamente «lo sviluppo autonomo del valore di scambio» (4); esso è senz’altro valore di scambio resosi autonomo dal mondo delle merci (qui è appena il caso di ricordare che nel Capitalismo tutti i prodotti del lavoro, materiali o immateriali che siano, assumono la forma e la sostanza della merce); ma la genesi e i limiti di questa autonomizzazione non possono essere compresi nella loro essenza se non a partire dalla produzione e dalla circolazione delle merci. È questo il filo rosso che invito il lettore a seguire per non perdersi nel labirinto abitato dal Moloch-Denaro – e da tutti noi!

Un esempio di mistificazione ideologica sul denaro ci è offerto anche da Pierangelo Dacrema, teorico del superamento del denaro a rapporti sociali capitalistici immutati: «Il denaro può rivestire i rapporti economici e sociali, ma non ne è la sostanza. Ciò significa che il denaro, anche se può influenzarli, non è alla radice di questi rapporti. Pensiamo a una buona cena, anche in assenza di denaro io sentirei la necessità di questo piatto di pasta o di questo bicchiere di vino o avrei, più prosaicamente, bisogno di un artigiano per un lavoro. Il denaro, semmai, è una modalità di movimento dell’economia, il ritmo del suo funzionamento, la sua velocità. […] Il sistema-denaro non è la qualità del fare, ma la quantità, il metro di giudizio. Ma l’economia, l’abbiamo detto, è l’attività propria di un animale che pensa, che agisce e che vuole, e che chiamiamo “uomo” proprio per questo. L’economia è fatta di gesti, non di numeri. Eppure, in ragione della nostra scarsa capacità di comprendere – demonizzando o adorando, a secondo dei casi – il denaro e la sua concretizzazione, la moneta, in questo scorcio di nuovo millennio ci ritroviamo schiacciati da numeri e cifre di ogni tipo, senza forze e senza tempo, e ci dimentichiamo che l’aritmetica più importante era e rimane quella della nostra esistenza. Dovremmo tornare alle cose, per riprendere l’immagine di Paul Auster, tornare al gesto, liberandolo. Fare economia, non numeri» (5). Uscire dalla dimensione dell’economia monetaria significa necessariamente superare la dimensione capitalistica, a cominciare dalla magagna suprema: il lavoro salariato, che poi è un altro modo di chiamare il Capitale: è questa la tesi che sosterrò nelle pagine che seguono. Andare alle cose stesse, per dirla anch’io in termini filosofici, non può avere altro significato che quello di andare oltre il Capitalismo, andare verso l’«uomo in quanto uomo».

In seguito vedremo come la logica formale e la logica economica non sempre né necessariamente coincidono, tutt’altro: analizzando criticamente la prassi economica in regime capitalistico si comprende, infatti, come la razionalità economica si dia necessaria mente in guisa di assoluta irrazionalità esistenziale, perché le relazioni umane, i prodotti del lavoro e così via tendono immancabilmente a rendersi autonomi dagli individui, al punto da oggettivarsi alla stregua di impalpabili «potenze estranee e ostili» agli stessi individui che pure realizzano con le proprie mani e con la propria testa ogni genere di cose e di rapporti. «Gli individui sono sussunti sotto la produzione sociale, la quale esiste come una fatalità esterna ad essi. […] Nulla può quindi essere più sbagliato e assurdo che presupporre, sulla base del valore di scambio, del denaro, il controllo degli individui associati sulla loro produzione complessiva» (6). A mio avviso ciò basta e avanza, come si dice dalle mie parti, per negare in radice la stessa possibilità di un’autentica esistenza umana e di una vera libertà: parlare di libero arbitrio e di etica della responsabilità individuale nella società borghese significa fare dell’ideologia apologetica (7). Solo riconoscendo questa disumana realtà; solo guardando in faccia il Moloch senza infingimenti e senza nutrire pietose illusioni rubricabili come “male minore” si conquista quel poco di libertà intellettuale e psicologica possibile all’interno della società vigente. È, questa, la sola etica che riesco a concepire al tempo del dominio totalitario del Capitale.

Quando il potere sociale sta nella tasca degli individui significa dunque che essi non hanno alcun potere reale su ciò che davvero conta e fa la differenza nella società capitalistica. E, si badi bene, anche chi ha molto denaro in tasca, per rimanere nella metafora marxiana, non ha il pieno controllo sulle proprie azioni e decisioni: è forse libero il capitalista, nella sua qualità di «capitale personificato», di fare ciò che vuole del suo denaro (qui considerato appunto nella forma di capitale)? Dipende forse dal suo libero arbitrio la decisione di assumere, licenziare, comprare un nuovo robot, cambiare fornitori, organizzare in modo diverso la produzione nella sua fabbrica, scegliere un mercato per i suoi prodotti e via dicendo? Anche il capitalista deve, in ultima analisi (a volte anche in primissima!), ubbidire a una logica superiore che sostanzialmente non è in suo potere determinare o semplicemente controllare: la nota (il Misericordioso Papa Francesco ne parla continuamente!) logica del profitto. Naturalmente lascio di buon grado al cosiddetto libero imprenditore la pia illusione di credersi davvero tale, ossia libero: contento lui…

Insomma, il denaro in tasca di cui parliamo qui va colto in tutta la sua vasta e complessa (rizomatica?) dimensione esistenziale e nella sua radicale determinazione storico-sociale. Ecco, questi pochi passi valgono come introduzione alla scottante questione che non smette di intrigare il mio debole pensiero. Chissà perché, poi! Certo è che posso dire con il noto barbuto di Germania che «Non credo che mai nessuno abbia scritto sul denaro con una tale assenza di denaro». Ma non è il momento di piangersi addosso!

Continua (forse).

(1) A proposito di autopromozione! Nel 2013 Lorenzo Cavalieri ha pubblicato un libro dedicato appunto alla «promozione di se stessi» il cui titolo è, come si dice, tutto un programma: Mi vendo (bene) ma non sono in vendita (Vallardi). E no: nel Capitalismo siamo tutti in vendita e l’autore del libro ha fatto benissimo a darci consigli su come venderci al meglio delle nostre capacità. Chapeau!

(2) P. A. Rovatti, L’ideologia del denaro, Rai educational, 31 maggio 2000.

(3) K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 179, Einaudi, 1958.

(4) K. Marx, Per la critica dell’economia politica, 1859, p. 168, Newton Editori, 1981.

(5) P. Dacrema, L’economia del gesto, Vita, n. 39, 7 ottobre 2011. Nel suo Marx & Keynes. Un romanzo economico (Jaca Book, 2014), Dacrema mette in bocca al povero Marx le tristi parole che seguono: «Non riconosco più le ragioni per cui ho demonizzato il capitale. Il mostro che fagocita tutto? Il Leviatano che succhia l’anima e il sangue dei lavoratori? Sconfesso quest’analisi. Il capitale è fatto dagli uomini, dalla loro intelligenza, dalla loro fantasia, dalle loro fatiche; è il risultato del lavoro, è ciò che gli uomini hanno fatto, è quanto di buono ci circonda e ci aiuta ad abitare il pianeta, a dominare una natura spesso ostile. Perciò è bene che chi ne è il detentore lo possa stabilmente possedere e ne tragga il giusto frutto» (p. 238). Un Marx così se lo sognano tutti i progressisti del mondo, evidentemente a disagio davanti alla genialità rivoluzionaria del comunista di Treviri.

(6) K. Marx, Scritti inediti di economia politica, p. 90, Editori Riuniti, 1963. Quando Marx parlava di produzione sociale e di produzione complessiva egli non si riferiva solo alla produzione specificamente materiale, alla produzione di «beni e servizi», con tutto quello che questa attività economica stricto sensu implica: egli intendeva riferirsi, a volte esplicitamente altre implicitamente, anche alla produzione dell’intera esistenza degli individui, alla produzione, per rimanere sempre nel gergo economico, di relazioni, di rapporti, di intelligenze, di emozioni e di tutto ciò che può venir rubricato sotto il titolo, filosoficamente pregnante (e forse per me compromettente…), di esistenza.

(7) Di qui il concetto di non-ancora-uomo, concetto che non ha niente a che vedere con le utopie antropologiche intorno alla possibilità di un uomo “perfetto”. Ne La questione ebraica Marx parlava, a proposito dell’individuo capitalistico, «dell’uomo nella sua esistenza accidentale, […] dell’uomo come si è ridotto sotto l’impero di rapporti ed elementi non umani: in una parola, dell’uomo che non è ancora un essere umano» (K. Marx, La Questione ebraica,1843, p. 73, Newton, 1975).

ELOGIO DELLA SCHIENA SPEZZATA

Dirck_van_Baburen_-_Prometheus_door_Vulcanus_geketend«Il capitale incatena l’operaio in maniera più salda che i cunei di Efesto non saldassero alla roccia Prometeo. […] L’accumulazione di ricchezza all’uno dei poli è dunque al tempo stesso accumulazione di miseria, tormento di lavoro, schiavitù, ignoranza, brutalizzazione e degradazione morale al polo opposto, ossia dalla parte della classe che produce il proprio prodotto come capitale» (K. Marx, Il Capitale, I).

Rubinetteria compresa…

Renzi_faccia_scompostaMatteo Renzi: «Mi dicono: vai alle rubinetterie e non ai grandi meeting? Sì, perché voglio andare da chi lavora e da chi si spacca la schiena».

Ora, dal mio punto di vista il problema non è tanto la miserabile demagogia del leader politico di turno, non importa se di “destra” o di “sinistra” (sotto questo aspetto Renzi offre il modello perfetto), quanto la tragica condizione sociale delle classi subalterne, degli strati sociali costretti a vendere capacità lavorativa in cambio di salario – vedi il santificato Art. 1 della Santissima Costituzione italiana. Il problema, per me, si compendia nella impotenza dei dominati, nella loro incapacità di spezzare la schiena al dominio sociale capitalistico.

Altro che le bolle – o balle – speculative di marca sinistrorsa gonfiate ieri da Alex Tsipras «nel ventre della bestia capitalista»! Sotto questo aspetto, l’elogio renziano del lavoro (salariato) che spacca la schiena appare persino meno disgustoso delle insulse ricette progressiste del leader di Syriza.

PSICOECONOMIA, DEFLAZIONE E ALTRO ANCORA

imagesV4NAZEUQCon gli allarmistici articoli dedicati alla deflazione («Incombe l’incubo della deflazione») questa estate abbiamo assistito al più classico dei processi di inversione di causa ed effetto. Un po’ come quando lo stolto attribuisce la causa della sua febbre al termometro, l’innocuo strumento che si limita a registrare l’effetto termico della malattia che tanto lo tormenta (1).

«Per ritrovare una fase depressiva così lunga sul fronte dei prezzi – scriveva Il Corriere della Sera del 12 agosto –, occorre andare indietro di oltre mezzo secolo. Oggi combattiamo contro una recessione recidiva, che sta sfibrando il tessuto produttivo. E perché il calo dei prezzi non è una buona notizia? Non è tanto per il fatto in sé quanto piuttosto per l’effetto che genera sulle aspettative del consumatore. Che aspettandosi ulteriori cali rinvia potenzialmente all’infinito gli acquisti in programma convinto che così facendo risparmierà ulteriormente. Un bel grattacapo per l’economia». Un grattacapo che da sempre ossessiona soprattutto quella che possiamo chiamare psicoeconomia, ossia l’economia politica che ha messo al centro della prassi economica le aspettative: dei consumatori, degli investitori, dei lavoratori, dei creditori e via discorrendo.

Lungi da me negare l’esistenza di moventi psicologici individuali e di massa nella sfera economica; il mio “materialismo” non è poi così volgare come forse crede qualche lettore dei miei modesti post. È però vero che a mio avviso ciò che domina l’intero processo capitalistico di produzione e distribuzione della ricchezza sociale è la legge del valore così come fu elaborata da Marx attraverso l’hegeliano superamento critico degli economisti “classici”. O, diciamo meglio, credo che la teoria marxiana del valore-lavoro rappresenti ancora oggi, ai tempi di Toni Negri e di Thomas Piketty, il miglior punto di partenza per chi voglia comprendere il Capitale del XXI secolo. È dentro la cornice oggettiva appena evocata che, ad esempio, colloco il sempre più seducente, ossessivo e feroce discorso del Capitale, che ha nello slogan pubblicitario Take the waiting out of wanting (2), usato alla fine degli anni Settanta per il lancio delle carte di credito negli Stati Uniti, forse la sua sintesi più efficace. Ma non è di questo che intendo trattare adesso.

Che l’inversione di causa ed effetto abbia radici teoriche e storiche molto profonde, lo capiamo, fra l’altro, leggendo alcune pagine dell’importante libro scritto da Henryk Grossmann alla vigilia della Grande Crisi del 1929 (Il crollo del capitalismo, Jaca Book, 1977), e anche per questo tanto più significativo, soprattutto se confrontato con le coeve opere dei pezzi grossi dell’economia politica del tempo – a cominciare da Keynes e Schumpeter. Detto en passant, è solo dopo aver letto i pesi massimi del pensiero economico del XX secolo (come appunto Keynes e Schumpeter) che ci si rende davvero conto della superiorità teorica di Marx nei confronti della moderna scienza economica, o «economia volgare», giusto per mutuare il lessico del vecchio ubriacone di Treviri. Un’esperienza che ho potuto rinnovare questa estate, dopo un’ennesima full immersion nella «merda economica». Ma il lettore non fugga schifato: ho avuto modo di ripulirmi tuffandomi in letture più limpide e certamente più feconde per lo Spirito, tipo Le storie di Giacobbe di Thomas Mann. Sperando che la cosa non risulti sgradita ai tagliatori di teste del Grande Califfato… Ma bando alle ciance!

Ecco alcuni passi tratti dalle pagine (91-93) dell’opera di Grossmann cui accennavo sopra. Buona lettura.

imagesCFNIO5PO«Che cosa occorre considerare come condizione caratteristica per il ciclo di riproduzione capitalistico, come condizione determinante per esso? Lederer  scorge questa condizione nel fatto della mutazione dei prezzi nel corso del ciclo congiunturale, nel fatto che tutti i prezzi delle merci e della forza-lavoro crescono durante il periodo di espansione mentre cadono poi nel periodo di crisi e in quello di depressione. La sua impostazione del problema è dunque questa: come può avvenire nel periodo di espansione una crescita generale dei prezzi? L’estendersi della dimensione produttiva, che è tipico del periodo congiunturale  favorevole, è possibile secondo Lederer in conseguenza dell’aumento dei prezzi. Occorre quindi prima di tutto spiegare questo fatto. Lederer individua l’impulso all’aumento dei prezzi soltanto nella creazione di credito addizionale; a questo dunque viene ascritto il ruolo principale nelle configurazioni del decorso congiunturale.

Diversamente si pronuncia Spiethoff. Egli osserva: “Il segno distintivo e il fattore determinante delle cause dell’espansione è la crescita degli investimenti di capitale. L’espansione suole durare parecchi anni. La sua caratteristica concettualmente determinante è il crescente investimento di capitale e l’aumento del consumo indiretto”. In questo caso non viene fatto alcun cenno all’aumento dei prezzi. Dalla ricca enumerazione di sintomi che ci offre lo schema congiunturale dell’istituto Harvard o un qualche altro schema, avremmo potuto con eguale giustificazione addurre molti altri segni come “tipici” e ciononostante non ci saremmo tuttavia avvicinati di un passo alla chiarificazione del problema.

Che gli aumenti dei prezzi di regola durante l’espansione si presentino effettivamente, questo non dice ancora che ne siano necessariamente connessi. L’impostazione del problema data da Lederer: come può accadere un aumento generale dei prezzi con cui è possibile l’espansione, è dunque falsa come la questione: come può essere provocato lo sviluppo di fumo con cui il proiettile viene sparato? Se si suppone che l’aumento dei prezzi sia un presupposto necessario all’espansione, ci si trova poi sprovveduti nei confronti di una situazione come quella dell’espansione degli Stati Uniti d’America, che presentava temporaneamente non soltanto nessun aumento ma al contrario persino una caduta dei prezzi (3).

L’erronea scelta del punto di partenza è evidente. Per gli imprenditori capitalisti tanto gli aumenti dei prezzi quanto l’estensione degli investimenti produttivi sono in sé equivalenti. Il processo di produzione capitalistica è infatti duplice: è un processo di lavoro per la produzione delle merci, dei prodotti; ed esso è contemporaneamente un processo di valorizzazione, per il conseguimento del profitto, del plusvalore. Ma solo quest’ultimo processo costituisce il fattore stimolante ed essenziale della produzione capitalistica, che decide della sua vita e della sua morte, mentre la produzione dei beni rappresenta per l’imprenditore soltanto un mezzo per lo scopo, un inevitabile malum necessariu (4). L’imprenditore proseguirà dunque la sua produzione e la estenderà soltanto se per mezzo di essa può aumentare il suo guadagno. L’estensione degli investimenti produttivi, l’accumulazione, è puramente una funzione della valorizzazione, della grandezza del guadagno. Anche il livello dei prezzi in sé è indifferente all’imprenditore. Non i prezzi in aumento determinano il suo comportamento, ma i guadagni. Questi risultano però dalla differenza  di due fattori: i prezzi e i costi. Anche con stabili o addirittura decrescenti i profitti possono crescere, se la riduzione dei costi è più grande del decrescere dei prezzi.

Già queste considerazioni mostrano che la questione dell’aumento dei prezzi, tanto per la teoria quanto per la prassi, è del tutto indifferente sul piano del principio. Con profitti crescenti la produzione viene estesa, con la scomparsa della valorizzazione viene invece sospesa. Tanto l’una situazione quanto l’altra può subentrare con prezzi costanti, o decrescenti e crescenti».

imagesSOF3RKHA(1) In generale, l’economia politica è avvezza a considerare come essenziali e dirimenti ai fini della comprensione del meccanismo economico capitalistico i fenomeni osservabili nella sfera della circolazione. Questo non solo perché tale approccio si presta a più facili, oserei dire comode, considerazioni, ma anche a motivo di ben più importanti ragioni d’ordine socio-politiche che toccano il cuore stesso della società borghese colta nella sua totalità. Il più delle volte queste ragioni passano sopra la testa degli stessi economisti, i quali credono di muoversi su un terreno rigorosamente scientifico, e perciò stesso neutrale quanto a preferenze politiche. Due soli esempi, peraltro paradigmatici, di approccio “rigorosamente scientifico” caduti nella corrosiva critica marxiana.

Scriveva Marx a proposito della “bronzea” legge della domanda e dell’offerta: «In breve, la concorrenza deve addossarsi il dovere di spiegare tutte le assurdità degli economisti, mentre al contrario sono gli economisti che dovrebbero spiegare la concorrenza» (K. Marx, Il capitale, III, p. 983, Editori Riuniti, 1980). Per il comunista germanico dietro «l’apparenza della concorrenza» si cela… Avete capito: la bronzea legge del profitto, ossia la valorizzazione dell’investimento attraverso l’uso intensivo della capacità lavorativa. Ecco l’altro esempio, che tocca la delicata funzione creditizia: «La superficialità dell’economia politica risulta fra l’altro nel fatto che essa fa dell’espansione e della contrazione del credito, che sono meri sintomi dei periodi alterni del ciclo industriale, la causa di quei periodi» (K. Marx, Il capitale, I, p. 693, Editori Riuniti, 1980). Nel momento in cui in tutto il mondo si praticano e si invocano politiche economiche basate sul quantitative and qualitative easing, mi sembra che il discorso marxiano assuma una particolare pregnanza empirica, oltre che teoretica.

Come sempre, le mie citazioni marxiane hanno l’intento di suscitare nel lettore una certa curiosità per l’opera marxiana, e quindi di rimandarlo alla fonte originaria.

(2) E, già che ci siamo, oltre all’attesa togliamo pure lo sforzo. E l’orgasmo, se il Capitale vuole, è servito:

«Siate oneste, donne: quante volte vi siete dovute fermare nel bel mezzo della masturbazione perché sentivate di sviluppare la sindrome del tunnel carpale? Se vi manca la destrezza di polso di un batterista di jazz, o se siete pigre, c’è qualcuno che vi darà letteralmente una mano: si chiama The Glov ed è il nuovo “sex toy” bionico che vi permetterà autoerotismo senza fatica.

Attualmente ogni oggetto di penetrazione sul mercato richiede un uso innaturale e forzato. Bisogna prenderlo alla base, inclinarlo a 90° e usare il braccio per dare il ritmo. The Glov affatica di meno e dà più soddisfazione. È un guanto che permette di controllare il vibratore con tre sole dita centrali, regolando la velocità da un comando sul dorso. Massima stimolazione e minimo sforzo, unito a un design tech» (Dailydot.com).

Permettetemi questa banalità di stampo psicopolitico che do via a saldi di fine stagione: il Capitale ci dà davvero una mano, ovunque. E pensare che c’è ancora qualcuno (l’attempato artigiano del sesso, il sudaticcio manovale dell’orgasmo, il  precapitalista “dentro” sordo a ogni discorso modernista) che ne parla male. «Massima stimolazione e minimo sforzo, unito a un design tech»: signori (e signore), con il discorso del Capitale non c’è proprio partita! Ed è un discorso che possono udire anche i sordi.

Occorre dunque appendere «la critica senza riguardi di tutto ciò che esiste» al metaforico chiodo? Non sto suggerendo questo suicidio intellettuale, e comunque ognuno si regoli come gli pare.   Qui mi sento solo di dare un modesto consiglio, questo: nessuno si azzardi a tentare l’astuzia di Odisseo ai danni delle Sirene. Sarebbe fatica sprecata. Una guerra perduta in partenza. Non ci rimane che alzare le mani e sventolare la bianca bandiera. Infatti, la Sirena che titilla con feroce insistenza un desiderio ridotto a servo sciocco della Potenza sociale vive dentro di noi. Di più: quella Sirena siamo noi. Verità ancora più tragica, buona per palati avvezzi a cibi filosoficamente più sofisticati: siamo fatti della stessa sostanza dell’evocato Moloch, ed è questo che ci rende socialmente impotenti, vittime di un desiderio che non conosce saturazione.

Prometeo si è fatto Sirena: è questo che cerco, un po’ subdolamente e vigliaccamente, di dire? Al momento non so rispondere. Ci rifletterò sopra, magari di notte, magari supportato da uno stimolante filosofico dall’eccellente design tech che mi metta almeno al passo coi tempi. Alludo forse ai sex toy per maschietti così ben reclamizzati sul Web? No, sono un consumatore a bassissima composizione organica.

Ma che tragedia non poter nemmeno dire, col poeta, «Di là navigammo avanti, sconvolti nel cuore»!

(3) Alla vigilia del grande crack cadeva anche il saggio d’interesse: «Perché», si chiedeva Grossmann polemizzando «con l’affermazione di Marshall secondo cui l’impiego di capitali cresce in modo proporzionale alla diminuzione del saggio d’interesse», «perché dunque nonostante il basso saggio d’interesse la produzione negli Stati Uniti non viene più estesa (il 1927 mostra piuttosto nelle più importanti industrie del paese già una rilevante limitazione della dimensione produttiva); perché nonostante la riduzione del saggio di interesse il capitale viene esportato, invece di essere investito negli Stati Uniti stessi? Se si risponde che all’estero la remunerazione del capitale a prestito è più alta che negli Stati Uniti, in questo modo il problema viene soltanto spostato. Perché negli Stati Uniti il saggio d’interesse decresce? Perché laggiù esiste una sovraofferta di capitali?» (Il Crollo, p. 30). Inutile insistere sulla scottante attualità della domanda posta allora da Grossmann intorno al rapporto fra saggio di interesse e investimenti produttivi.

(4) Keynes e Schumpeter misero invece proprio questo malum necessarium («Nel modo di produzione capitalistico – scriveva Marx – il processo di lavoro compare soltanto come mezzo per il processo di valorizzazione») al centro della loro concezione economica, e comunque ne fecero il punto di partenza della loro analisi dei fenomeni capitalistici. Scriveva ad esempio Schumpeter: «L’attività economica può avere qualsiasi motivazione ma il suo significato è sempre la soddisfazione dei bisogni. […] La produzione segue dunque i bisogni; è, per così dire, al loro rimorchio. La stessa cosa vale, mutatis mutandis, per l’economia di scambio […] L’utilità regola in ultima istanza sia la produzione tecnica che quella economica» (J. A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, pp. 9-10, Sansoni, 1971). Si noti la generalizzazione storico-sociale malamente impostata dall’economista austriaco. Il Capitalismo, dunque, come economia dei bisogni! In realtà sotto il regime capitalistico la produzione segue il profitto, è, per così dire, al suo rimorchio; essa ha necessariamente nella ricerca del massimo profitto il suo più verace significato e il suo più formidabile movente. È questa ricerca che «regola in ultima istanza sia la produzione tecnica che quella economica», come cercò di dimostrare Marx introducendo il fondamentale concetto di composizione organica del capitale.

ECONOMIA, ALZATI E CAMMINA! Riflessioni disarticolate intorno alla crisi economica.

iperinflazione_in_germania_639x290I capitalisti e gli economisti mainstream, soprattutto quelli di scuola keynesiana, sostengono che il calo dei prezzi può portare a una prolungata stagnazione economica, com’è avvenuto ad esempio in Giappone dalla seconda metà degli anni Novanta fino a qualche anno fa. Ora, non solo questo non è vero in termini assoluti, ma qui assistiamo a un vero e proprio capovolgimento dei termini della questione: l’effetto della crisi (la caduta del livello dei prezzi) viene posto come sua causa. Dal punto di vista marxiano questo rovesciamento è tipico dell’«economia borghese volgare», la quale rimane impigliata alla superficie dei fenomeni economici e sociali.

Anche Keynes fu un severo critico della deflazione, e ai fini di un armonioso processo di accumulazione (cosa che presupponeva la presenza discrezionale dello Stato nella sfera economica) egli riteneva adeguata una moderata e costante inflazione. Nella sua infinita filantropia, il celebre economista inglese sosteneva la necessità di un’inflazione tesa a salvaguardare il livello dei profitti perché «i vantaggi che ne traggono il progresso economico e l’accumulazione di ricchezza sopravanzano gli elementi di ingiustizia sociale» (Trattato sulla moneta). Ciò che più lo preoccupava era tuttavia l’instabilità nel livello dei prezzi, il loro continuo oscillare in alto e in basso, cosa che non permette agli investitori e ai risparmiatori di compiere quelle scelte razionali di lungo periodo che secondo Keynes costituiscono la premessa di una sana e consapevole economia capitalistica.

Se la caduta dei prezzi è considerata da gran parte degli economisti un fattore decisivo nella genesi delle crisi, il fenomeno opposto, ossia l’ascesa dei prezzi, è visto come il segnale più evidente dell’ottimo stato di salute dell’economia, o comunque di una sua ripresa dopo una fase regressiva. Peccato che la famosa evidenza dei fatti smentisca questo luogo comune economico. Infatti, la realtà del ciclo economico mostra periodi espansivi e inversioni di tendenza dalla crisi al boom economico tanto in presenza di prezzi calanti quanto nel caso opposto. Insomma, di per sé il livello dei prezzi non ci dice nulla di veramente essenziale sulle condizioni dell’economia genericamente intesa, salvo quando esso si impenna o va in picchiata in un modo che si possa definire parossistico. Ma in ogni caso il livello “patologico” dei prezzi non è mai la causa della crisi o della ripresa, quanto piuttosto un loro effetto, uno dei sintomi dello stato di salute (pessima o ottima) dell’economia. È evidente che poi l’effetto interagisce con la causa in modo che sul terreno dell’analisi si possa parlare del primo nei termini di una concausa. Analogamente, la crisi tipicamente capitalistica non ha come sua causa scatenante il sottoconsumo* (privato e produttivo), ma ovviamente la caduta della domanda generata dalla crisi (soprattutto attraverso lo “sciopero” degli investimenti produttivi, ma anche attraverso la riduzione dei salari, la precarizzazione del lavoro e i licenziamenti) retroagisce a sua volta sulla causa fondamentale alimentando un circolo vizioso che rende praticamente impossibile distinguere tra cause ed effetti.

Non è che la crisi viene superata perché i prezzi delle merci iniziano a salire, sorridendo ai profitti degli investitori; diciamo piuttosto che i prezzi possono salire perché è iniziata la ripresa, cosa che presuppone la ritrovata profittabilità degli investimenti produttivi. Di più: normalmente la virtuosa condizione di profittabilità incrocia un basso livello dei prezzi delle merci (si chiama concorrenza capitalistica), e ciò si connette direttamente all’aumentata produttività del lavoro (o, in termini meno “neutri”, intensificazione dello sfruttamento), ottenuta quasi sempre attraverso processi di ristrutturazione, riorganizzazione e razionalizzazione dei processi produttivi.

Quando l’accumulazione procede a pieno regime, e la domanda generata dall’espansione economica supera l’offerta, o quantomeno la porta a un apprezzabile grado di tensione, i prezzi cominciano a salire. Ma questo può anche non verificarsi. Su questo punto non esistono regole ferree. D’altra parete, se l’alto livello dei prezzi fosse il presupposto della ripresa economica, quest’ultima non avrebbe mai luogo, perché il momento di partenza di una nuova fase espansiva è quasi sempre caratterizzato da un basso livello dei prezzi, il quale cela una realtà fatta di fallimenti, di bancarotte, di fusioni, di concentrazione e di centralizzazione dei capitali, il tutto in armonia con il mondo hobbesiano e con la darwiniana sopravvivenza degli organismi più forti.

07Tra l’altro, nella misura in cui molte merci di largo consumo vanno a costituire il “paniere salariale” dei lavoratori, il loro deprezzamento sortisce l’effetto di svalorizzare l’esistenza dei lavoratori**, e dunque la loro capacità lavorativa, cosa che ha un impatto tonificante sul saggio del profitto. La formazione di un numeroso «esercito di riserva», che indebolisce la capacità di iniziativa dei lavoratori mentre accentua la loro reciproca concorrenza, sortisce lo stesso benefico effetto sulla redditività dell’investimento. Sotto questo duplice aspetto, l’ascesa nell’agone capitalistico mondiale di Paesi come la Cina e l’India, produttori di merci di largo consumo e di bassissimo prezzo e ricchi di un enorme giacimento “umano” a bassissimo costo, ha avuto sul salario dei lavoratori attivi nelle metropoli capitalistiche di vecchia tradizione un impatto davvero notevole, sicuramente tale da cambiare la struttura del mercato internazionale del lavoro e la stessa divisione internazionale del lavoro.

Scriveva Paul Mattick nel 1934: «L’inflazione come strumento di generale taglio dei salari e di eliminazione non solo della classe media, ma anche dell’azione di corrosione del profitto esercitata dalle banche, può in certi limiti stimolare la produzione potenziandone, nel breve periodo, la capacità di realizzo. Ma il profitto così realizzato è il risultato di un processo di impoverimento a carattere non solo relativo, ma assoluto» (La crisi permanente, in Capitalismo e fascismo verso la guerra, p. 21, La Nuova Italia, 1976). Mutatis mutandis, anche negli anni Settanta del secolo scorso il profitto “drogato” dall’inflazione alla lunga presentò un conto assai salato al Capitalismo internazionale, e comunque non impedì che alla fine le imprese imboccassero la via maestra delle ristrutturazioni tecniche e organizzative. Si passò così da una politica monetaria «espansiva» che favoriva l’inflazione tesa a salvaguardare i margini di profitto, a una politica monetaria di segno opposto, «restrittiva», in grado di portare a un livello più alto la capacità competitiva di un intero Sistema-Paese.

Negli anni Settanta economisti e politici concordavano nell’attribuire il rapido aumento dei prezzi alle seguenti cause principali: 1. l’impennata del prezzo delle materie prime, del petrolio in primis (si parlò di «inflazione importata», e per combatterla si fece anche appello al sentimento patriottico dei lavoratori, ai quali fu richiesta la solita «moderazione salariale»); 2. l’aumentata massa monetaria (soprattutto espressa in dollari) in circolazione a livello mondiale; 3. la crisi terminale del sistema monetario internazionale definito alla conferenza di Bretton Wood del 1944. Questo schema “causale” non riusciva tuttavia a spiegare adeguatamente la ragion d’essere delle tre cause qui elencate, ossia che cosa le avesse “in ultima analisi” determinate. La risposta probabilmente andava individuata nel lungo ciclo espansivo seguito alla (e reso possibile dalla) Seconda carneficina mondiale, che 1. aveva spinto in alto il prezzo delle materie prime, richieste come mai era avvenuto prima da un apparato produttivo in eccezionale espansione; che 2. aveva espanso il credito e tutte le funzioni finanziarie in un modo prima mai conosciuto; che 3. aveva messo in crisi il sistema dei cambi fissi, diventato obsoleto alla luce della gigantesca circolazione mondiale dei capitali e delle merci generata dallo sviluppo capitalistico; che 4. aveva esacerbato  la competizione capitalistica internazionale (nonché la lotta per la spartizione del plusvalore mondiale: vedi la richiesta di una maggiore rendita da parte dei Paesi produttori di materie prime), combattuta anche sul fronte delle politiche monetarie; e che 5. aveva profondamente modificato i rapporti di forza all’interno dell’area capitalisticamente più forte del pianeta, ossia quella egemonizzata dagli Stati Uniti.

Soprattutto in Italia l’inflazione giocò in quel periodo un ruolo molto importante, nel bene come nel male (dal punto di vista degli interessi capitalistici, beninteso), a causa della bassa produttività media del suo sistema capitalistico, e della presenza nella società italiana di un forte e diffuso parassitismo, molto coccolato dai partiti politici – soprattutto da quelli “di massa”: DC e PCI.

Scriveva Francesco Farina nel 1976: «A partire dal 1972, il Governatore della Banca d’Italia Guido Carli perseguì l’obiettivo di permettere alle imprese il più largo recupero dei margini di profitto attraverso l’inflazione, eliminando di fatto il vincolo della competitività sui mercati internazionali attraverso la svalutazione “nascosta” della lire» (L’accumulazione in Italia, 1959-1972, p. 177, De Donato, 1976). Si conseguì l’obiettivo attraverso una politica creditizia più permissiva che in passato, «utilizzando sia lo strumento della più larga creazione di moneta, sia quello di un diretto e costante controllo dei tassi d’interesse». All’aumento dei salari monetari faceva riscontro una riduzione dei salari reali, ossia un declino del loro potere d’acquisto. Come ricorderà Augusto Graziani nel 1985, «Negli anni ‘70 la grande industria italiana non si opponeva mai ad aumenti del salario monetario. Il famoso accordo sul punto unico di contingenza, nel ‘75, fu raggiunto con la benedizione della grande industria, proprio perché in termini monetari, data la continua spirale salari-prezzi-cambi esteri, tutto era diventato soltanto una questione di registrazioni» (Sulla politica economica e l’occupazione, Azimut n. 19 1985).

Solo alla fine degli anni Settanta, quando alla classe dirigente del Paese apparve chiaro che bisognava reagire al progressivo deperimento dell’apparato produttivo italiano, sempre meno in grado di tenere il passo di apparati produttivi più dinamici e tecnologicamente avanzati dei Paesi concorrenti (Germania e Giappone, in primis), si voltò pagina sul piano della politica monetaria «Quello che si voleva», continua Graziani, «era costringere gli imprenditori italiani in una sorta di morsa fra un cambio estero tendenzialmente stabile e un’inflazione interna minore di quella del decennio precedente, tale da obbligare gli imprenditori a una profonda, veloce e radicale manovra di ristrutturazione per aumentare la produttività del lavoro e riguadagnare, in termini di produttività, quello che gradualmente avrebbero perso in termini di competitività di prezzo». La ricerca di un «vincolo esterno» in grado di eliminare la facile tentazione offerta dalla svalutazione competitiva troverà nell’adesione alla moneta unica europea dell’Italia il suo momento conclusivo. Almeno in questa fase.

I famigerati «compiti a casa» troppo a lungo rinviati oggi devono fare i conti con gli interessi del Capitale più forte dell’Unione Europea: quello tedesco, ed è per questo che appare patetico, oltre che comico, un Renato Brunetta che, dall’alto della sua scienza economica, intima alla Germania di procedere rapidamente a una decisa «reflazione»: «La Germania deve reflazionare per cause di forza maggiore, cioè per rispondere alle segnalazioni ricevute dall’Europa a causa dell’eccessivo surplus della bilancia dei pagamenti, ossia di una netta prevalenza delle esportazioni sulle importazioni» (Libero, 7 luglio 2014). Ascoltato il “diktat” dello statista italiano, pare che la Cancelliera di Ferro, reduce peraltro dai successi economici e politici mietuti in Cina, gli abbia risposto: «Vai avanti tu, che a me scappa da ridere». Poi la virile Angela ha preparato i bagagli per il viaggio in Brasile, dove l’attendeva l’agognata coppa del mondo di calcio: che ingorda!

Tuttavia, il gigante della Scienza Economica di osservanza berlusconiana non è il solo a lamentare l’eccesso di potenza del Capitalismo tedesco; egli gode anzi di numerosa e rognosa compagnia.

A proposito del Giappone, menzionato in apertura di questo articolo, c’è da dire che hanno suscitato scalpore i dati sulla crescita del Pil giapponese nel primo trimestre di quest’anno, un risultato di proporzioni cinesi: 5,9 per cento su base annua. «L’economia giapponese supera ampiamente le aspettative e torna a cresce a un ritmo robusto in tandem con il ritorno dell’inflazione, proprio mentre una Europa anemica sente avvicinarsi lo spettro della deflazione che ha attanagliato per vent’anni il Sol levante» (Il Sole 24 Ore, 15 maggio 2014). Ma aspettate prima di innalzare monumenti alla Abe Economic (basata su un assai generoso «quantitative and qualitative easing»)! Infatti, la sorprendente performance giapponese «cela però un paradosso: il balzo del Pil nipponico si è verificato soprattutto per un’impennata dei consumi, a causa di una corsa agli acquisti di beni durevoli in anticipazione dell’aumento dell’Iva dal 5 all’8% scattato poi il primo aprile. Dopo una politica monetaria ultraespansiva e una serie di stimoli pubblici all’economia, insomma, è stato proprio il primo provvedimento di irrigidimento fiscale varato dal governo ad abbellire il Pil trimestrale. Il problema è che nel trimestre in corso i consumi sicuramente diminuiranno e l’economia è destinata quindi a una contrazione che vari economisti si attendono in un ordine tra il -4% e il -6% annualizzato. Per questo la Borsa non ha festeggiato e continua piuttosto ad attendere di vedere quanto incisivo sarà il piano di riforme di sistema che il premier Shinzo Abe annuncerà il mese prossimo». Insomma, i «compiti a casa» non finiscono mai anche nel pur competitivo (sempre nel periodo considerato le esportazioni hanno fatto registrare un più che decoroso +6 per cento) e produttivo (+4,9 per cento negli investimenti di capitale delle imprese) Capitalismo Made in Japan, a ulteriore conferma della natura altamente dinamica e aggressiva (ai danni degli individui e della natura) del modo di produzione fondato sulla ricerca del massimo profitto.

Inflation Geldscheine werden gewogenQuando, per concludere il ragionamento iniziato prima, agli inizi degli anni Ottanta, apparirà chiaro agli investitori internazionali che il basso livello del saggio del profitto (riflesso anche nel basso tasso di accumulazione) nelle imprese delle metropoli capitalistiche era diventato un dato strutturale del ciclo economico, qualcosa di permanente con cui fare i conti, l’ascesa della speculazione finanziaria e delle istituzioni finanziarie chiamate a supportarla non avrà più fine, tra alti e bassi, spettacolari successi e dolorose esplosioni di bolle***. La deregulation dei mercati finanziari, ancor prima di essere stata il frutto avvelenato della famigerata ideologia liberista (e della «controrivoluzione liberista»), fu in primo luogo la presa d’atto di un fatto non più gestibile con le vecchie regole pensate e applicate nel mondo uscito dalla Seconda guerra mondiale.

L’estensione del credito a fini speculativi, con la creazione di miracolosi prodotti finanziari cosiddetti derivati, e la progressiva espansione del debito pubblico e privato volto a rendere più appetibile l’investimento produttivo hanno caratterizzato l’economia dei capitalismi “maturi” (o “decotti”) negli ultimi venticinque anni. Senza con ciò voler sminuire l’importanza delle innovazioni tecnologiche che pure hanno segnato questo lungo periodo e che, detto en passant, sono alla base del falso paradosso cui stiamo assistendo in quei Paesi che sembrano essere usciti dal “tunnel” della crisi: la crescita economica senza incremento dell’occupazione. Già si parla in ambito accademico – e non solo – dell’alto livello di disoccupazione come di un dato anch’esso strutturale, con ciò che ne segue in termini di sostenibilità complessiva del sistema (basti pensare al welfare e al sistema pensionistico).

Dopo averla invocata per anni, maledicendo ogni santo giorno che il Capitale manda in terra l’«ottuso rigorismo» della Bundesbank, oggi economisti e politici di casa nostra scoprono con un certo sgomento che un’ondata di liquidità non è in grado, da sola, di rimettere in movimento la nave chiamata crescita economica. Infatti, ciò che consente a questa nave di galleggiare non è la liquidità declinata in termini monetari, ma, come già detto, la ritrovata profittabilità dell’investimento produttivo. Negli Stati Uniti, ad esempio, l’iniezione di liquidità pari a circa 3.700 miliardi di dollari (circa il doppio del Pil italiano) non ha avuto che un modestissimo impatto sull’«economia reale».

In effetti, se non vengono ripristinate le condizioni di  questa profittabilità, il credito offerto dalle banche a un tasso d’interesse mai così basso e financo negativo alimenta in gran parte il risparmio, la tesaurizzazione e, soprattutto nel Capitalismo altamente “maturo” del XXI secolo, la speculazione. «Quando il tasso d’interesse nominale è zero l’aumento dello stock di moneta fa precipitare l’economia in una trappola della liquidità», scrisse Keynes. Al celebre economista inglese sfuggiva una trappola assai più decisiva, quella che teneva sequestrata in una indigente condizione il saggio di profitto. Per non precipitare in questa trappola il capitale fugge nella più attraente sfera della finanza, nella quale si ha l’impressione di poter miracolosamente moltiplicare la ricchezza come fece una volta Quello con i pani e i pesci.

Allargare il credito, quando non ve ne sia una domanda a fini produttivi, non produce altro effetto sostanziale che incoraggiare le avventure speculative. Come dicevano i keynesiani, «È possibile portare un cammello all’abbeveratoio, ma non lo si può costringere a bere». Se il rendimento dell’investimento non è adeguatamente alto non c’è modo di costringere il cammello capitalistico a bere un liquido che lungi dal dissetarlo promette piuttosto di avvelenarlo. Per rimanere sempre in tema, è più facile che un cammello passi dalla cruna di un ago che il capitale entri in una sfera economica che dà bassi profitti.

* «Il fatto che le merci siano invendibili vuol dire solo che per esse non sono stati trovati acquirenti in grado di pagare, ovvero consumatori. Ma se a questa tautologia si vuol dare un’apparenza di maggiore attendibilità affermando che la classe operaia riceve una porzione troppo piccola del proprio prodotto, e che quindi si rimedierebbe al male qualora essa ne ottenesse una porzione maggiore, e perciò crescesse il suo salario, si deve notare solo che le crisi vengono sempre preparate proprio da un periodo in cui il salario in genere aumenta e la classe operaia “realiter” [effettivamente] riceve una porzione più grande della parte del prodotto annuo destinato al consumo. Quel periodo invece – secondo questi cavalieri del sano e “semplice” (!) buon senso – dovrebbe allontanare la crisi» (K. Marx, Il Capitale, III, p. 837, Newton, 2005).

** Con il salario il capitale non remunera il lavoro, come ci suggerisce l’apparenza dello scambio capitale-lavoro, ma compra l’esistenza del lavoratore, assicurandosi così il diritto di poterne usare la capacità lavorativa per un certo tempo. Ciò è stato storicamente possibile perché i produttori sono stati allontanati violentemente (anche con l’ausilio del diritto borghese) dai loro mezzi di produzione e dal loro prodotto.

La forza-lavoro è merce solo perché l’intera esistenza del lavoratore è precipitata nella maligna dimensione mercantile, la quale decide della sua vita e della sua morte. Con la capillare espansione del Capitalismo in ogni aspetto della prassi sociale questo destino di alienazione-reificazione ha finito per estendersi all’intero genere umano.

*** «L’ammontare di capitale di investimento in cerca di alti rendimenti è cresciuto enormemente: alla metà degli anni Novanta, fondi comuni di investimento, fondi pensione e simili ammontavano a 20.000 miliardi di dollari, dieci volte più che nel 1980. […] Le transazioni finanziarie internazionali, valutate nel 1997 a 360.000 miliardi di dollari(molto più dell’intera economia globale), hanno aumentato la complessità finanziaria e, come molti ritengono, anche l’instabilità finanziaria internazionale» (Robert, Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, pp. 133-134, Ed. Bocconi, 2001)

**** «La circolazione [monetaria] non ci permette di comprendere da dove provenga questa stasi [economica]: essa ci fa vedere solo il fenomeno. Alla intuizione popolare, che vede il denaro apparire e sparire, appare ovvio interpretare il fenomeno come insufficienza della quantità dei mezzi di circolazione» (K. Marx, Il Capitale, I,  p. 108, Newton).  Com’è noto, l’ovvietà è nemica della scienza intesa come analisi del profondo, per civettare indegnamente (anche) con la psicoanalisi.