Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa (Karl Marx, Lettere sul Capitale).
Cosa si nasconde dietro l’ennesima rognosa, a tratti davvero raccapricciante, diatriba intorno all’articolo 18 (peraltro già profondamente “riformato” dalla Fornero) dello Statuto dei lavoratori? È presto detto: l’ennesimo attacco alle condizioni di lavoro e di vita del proletariato di questo Paese. La domanda era fin troppo facile, lo ammetto.
Al di là delle fumisterie ideologiche alzate a “destra” e a “sinistra”, da parte dei detrattori e dei sostenitori del mitico Articolo, è questo il senso della questione in oggetto, come sanno benissimo in primo luogo i lavoratori (soprattutto quelli che non “cadono” nel regime previsto dall’articolo 18), i quali non hanno mai fatto grande affidamento allo Statuto dei lavoratori per conservare il posto di lavoro e per difendersi dagli attacchi del Capitale. Naturalmente il discorso va esteso a tutta la “riforma” del mercato del lavoro (Jobs Act) e, sotto questo aspetto, lo scontro sull’articolo 18 coglie anche l’obiettivo di sviare l’attenzione della cosiddetta opinione pubblica dal significato complessivo di quella “riforma” che non solo l’Europa «ci chiede», ma che giunti dinanzi all’ennesimo baratro sistemico «tutto il mondo ci chiede».
In un’intervista rilasciata oggi a Repubblica il Premier Renzi dichiara che «l’articolo 18 non difende quasi nessuno». Vero. Da un più alto pulpito, quantomeno spirituale, il Presidente della Cei Angelo Bagnasco rincara la dose (sempre a proposito di articolo 18): «Non ci sono dogmi di fede e non ci sono dogmi di nessun genere per quel che riguarda le prassi sociali». Verissimo! Non sto teorizzando l’inutilità di una lotta volta a difendere l’articolo 18; cerco solo di dare a questa auspicabile lotta un senso alternativo a quello proposto dal mainstream politico, sindacale e culturale di questo Paese.
Nella misura in cui il sindacato tradizionale, CGIL in testa, è da quel dì parte integrante del potere politico che garantisce lo status quo sociale in Italia, è appunto sul terreno politico, più che su quello che attiene gli interessi dei lavoratori, che occorre cercare la spiegazione del ritrovato attivismo antigovernativo della cosiddetta “sinistra sindacale”. Analogo discorso può farsi per quella parte dello stesso Partito Democratico che oggi denuncia la «deriva thatcheriana» di Renzi.
Il sindacato teme, a giusta ragione, di perdere peso politico nella gestione della politica economica del Paese e nella gestione del conflitto sociale: di qui i suoi lamenti sulla sempre più maltrattata «concertazione». Le sirene del corporativismo fascista non hanno smesso di nuotare nell’italico mare, anche a cagione del modello di welfare che la Repubblica fondata sul lavoro (salariato) ha ereditato quasi senza soluzione di continuità dal precedente regime politico. Il libro di Giovanni Perazzoli Contro la miseria. Viaggio nell’Europa del nuovo welfare (Laterza) è molto interessante a tal proposito. La «concertazione» in salsa italiana tra Stato e «parti sociali» in moltissimi aspetti incrocia l’ideologia che fu soprattutto della “sinistra fascista”.
Ecco la «concertazione» secondo il già citato alto prelato: «Bisogna percorrere in modo più concreto e incisivo la strada del dialogo, del parlarsi tra le diverse istituzioni e soggetti, non solo politici e amministrativi, ma anche imprenditoriali e sindacali perché insieme, con l’onestà dovuta e la competenza necessaria, si possono fare delle norme più concrete, a carte scoperte, e intravedere delle strade percorribili per la soluzione» (Il Secolo XIX, 28 settembre 2014). È precisamente la strada del dialogo sociale la via che conduce i lavoratori all’impotenza politica e sociale, semplicemente perché il tanto reclamizzato «bene comune», comunque declinato, non può che essere, fermo restanti gli attuali rapporti sociali, il bene del dominio sociale capitalistico. D’altra parte, la strada che mena all’inferno è sempre lastricata di eccellenti intenzioni.
Per quanto la riguarda, la “sinistra” del PD teme la definitiva “rottamazione” della tradizione cosiddetta “comunista”, che per molti quadri dirigenti (un tempo si chiamavano così) di quel partito significherebbe perdere una vecchia rendita di posizione, non solo politico-ideologica. Bersani e i compagni della «vecchia guardia» temono, a giustissima ragione, di venir “smacchiati” dall’ultimo arrivato, da un democristianone che peraltro ostenta molta sintonia con il Giaguaro di Arcore, ancora vivo nonostante trattamenti convenzionali e anticonvenzionali, anche di matrice internazionale.
Norma Rangeri (Il Manifesto, 21 settembre), dopo aver concesso che «responsabilità e limiti» vanno messi nel conto «di chi avrebbe dovuto capire i colossali cambiamenti prodotti dalla ristrutturazione capitalista e mettere in campo adeguate controffensive», e che «Il sindacato vive una crisi storica, ed è sempre meno rappresentativo», tuttavia ritiene che «qualunque nuova coalizione sociale volesse opporsi a questa nuova destra, politica e sociale, deve augurarsi che il sindacato torni a battere un colpo». Un classico del progressismo borghese che ama presentarsi in guisa “radicale”, se non addirittura “comunista”. Personalmente la penso in modo opposto. Penso cioè, come ho altre volte argomentato, che il sindacato collaborazionista (da Di Vittorio in poi, tanto per rimanere all’Italia degli ultimi settant’anni) sia, per i lavoratori e per tutti i proletari, parte del problema e non della sua soluzione.
Scrivevo nel 2012 commentando il Patto sulla produttività:
«Molti critici “da sinistra” del Patto mettono l’enfasi sullo spostamento della centralità dal CCNL alla contrattazione di secondo livello. Ora, puntare i riflettori sul contratto collettivo nazionale di lavoro, concepito come l’ultimo baluardo degli interessi operai e della cosiddetta “democrazia sindacale”, fa perdere di vista la vera questione oggi all’ordine del giorno per chi ha davvero a cuore le sorti dei lavoratori: la costruzione dell’autonomia di classe. Autonomia di classe significa iniziativa volta alla difesa degli interessi immediati dei lavoratori senza alcun riguardo per gli “interessi generali del Paese”, i quali necessariamente corrispondono agli interessi della classe dominante, o delle sue fazioni contingentemente vincenti. Va da sé che questa iniziativa di lotta oggi non può che avere un respiro internazionale, se vuole centrare il suo obiettivo con l’adeguata efficacia. Sulla base del sindacalismo collaborazionista (Cgil in testa) il CCNL sancisce l’impotenza dei lavoratori sottoscritta dalle organizzazioni padronali e ratificata dal Leviatano».
Per come la vedo io, impostare la lotta dei lavoratori sul terreno della pura difesa dei cosiddetti diritti acquisiti sarebbe un errore, anche perché molti di essi, e naturalmente i disoccupati, non sanno nemmeno cosa siano quei “diritti”. Lo stesso Statuto dei lavoratori è parte integrante di un’epoca della realtà sociale di questo Paese da gran tempo superata, e verso la quale non c’è da indulgere in miserrime nostalgie. Senza la combattività e l’organizzazione autonoma dei lavoratori i “diritti” sono scritti sul ghiaccio, per così dire. I diritti sono una questione di rapporti di forza: non lo dice la teoria, ma la prassi sociale ovunque nel mondo. Più che sulla precarietà dei “diritti acquisiti” il focus andrebbe dunque posto sulla perdurante logica della delega, su tutti gli aspetti della vita, che inchioda i nullatenenti alla croce del Dominio. È da questa prospettiva che approccio il problema di come difenderci dagli attacchi sempre più incalzanti che il Capitale e il suo Stato graziosamente ci lanciano.
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