SULLA CATASTROFE LIBANESE

 

Chi chiama in causa la “tragica fatalità”, l’incidente, l’incuria e la negligenza per spiegare la catastrofica esplosione che il 4 agosto ha devastato Beirut, non solo confessa un’assoluta ignoranza circa la realtà sociale, politica e geopolitica del Libano, ma si rende artefice di un cinismo che definire odioso sarebbe ancora troppo poco. Lo stesso primo ministro libanese, Hassan Diab, ha dovuto ammettere solo alcune ore dopo il micidiale evento, che l’esplosione era stata causata da «sostanze chimiche pericolose» (quasi 3.000 tonnellate di nitrato di ammonio, utilizzato per i fertilizzanti ma anche per costruire bombe) che erano state immagazzinate nel porto della capitale libanese negli ultimi sei anni, e che lì sono rimaste nonostante i numerosi (almeno sei!) avvertimenti degli ufficiali portuali sull’estremo pericolo rappresentato da quel materiale, conservato male e probabilmente manipolato anche da forze paramilitari interessate . «Vi prometto che questa catastrofe non passerà senza responsabilità. I responsabili pagheranno un caro prezzo», ha dichiarato il premier libanese alla televisione. Già, chi sono i veri responsabili della tragedia? Intanto i capri espiatori cui addossare la responsabilità della carneficina per placare una popolazione a dir poco esasperata sono già stati individuati e consegnati alla “giustizia”; paradossalmente, se di paradosso si può seriamente parlare alla luce della caotica situazione libanese, chi negli anni aveva dato l’allarme, oggi si ritrova a un passo da una dura condanna. Tuttavia non si escludono nei prossimi giorni sviluppi ancora “più eclatanti”, anche perché i fatti del 4 agosto possono accelerare una resa dei conti finale interna al regime libanese risalente nel tempo e dagli esiti davvero imprevedibili. Come giustamente ammonisce Albero Negri, «se la casa del tuo vicino brucia, prima o poi le fiamme arriveranno nella tua casa» (Il Manifesto).

«Una violenta protesta antigovernativa è scoppiata ieri notte a Beirut nella zona del Parlamento: lo scrive la Bbc online, che riporta scontri tra decine di dimostranti e forze dell’ordine. La polizia ha lanciato gas lacrimogeni per disperdere i manifestanti scesi in strada per denunciare il malgoverno in seguito all’esplosione di martedì che ha provocato almeno 137 morti e 5.000 feriti» (Ansa, 6 agosto). Anche il Presidente francese sta cercando di cavalcare il malessere sociale della popolazione libanese per rafforzare la presenza della Francia nel “Paese dei cedri” e cogliere di sorpresa la concorrenza imperialistica – Italia e Turchia, in primis. «Il Libano non è solo», ha dichiarato Emmanuel Macron: «Sono venuto a portare un messaggio di sostegno, di amicizia, di solidarietà». Com’è umano, signor Presidente! «La Francia, considerata una seconda patria da molti libanesi per i forti legami storici, coglie ora l’occasione per completare una complessa azione diplomatica iniziata in autunno, con l’esplosione delle proteste, e bloccata in una impasse» (Il Sole 24 Ore). Ah, ecco. Che ingenuo sono stato a concedere un minimo di credito umanitario a Macron! Il problema è che l’ingenuità ha contagiato anche la disperata popolazione libanese, che infatti ha accolto Macron come una specie di liberatore dei diseredati. Anche questo rientra nel concetto di catastrofe, che peraltro in questa peculiare accezione (impotenza delle classi subalterne) non riguarda solo il Libano, come ben sappiamo noi occidentali.

Dalla Libia al Libano è tutto un groviglio di molteplici e contrastanti interessi economici, energetici e geopolitici coltivati e difesi da potenze regionali e mondiali; inutile dire che l’Italia è, “nel suo piccolo”, parte molto attiva di questo scenario, come attesta d’altra parte la sua forte presenza economica in Libia e la sua significativa presenza militare in Libano. A proposito di Libia, è noto che da anni l’Italia finanzia e supporta in diversi modi il sistema concentrazionario di quel Paese avente il compito di arrestare il flusso degli immigrati che scappano dalla fame e da altri flagelli sociali, e che per questo sono disposti ad affrontare ogni sorta di pericolo. Si tratta di una «catastrofe umanitaria» che gran parte dell’opinione pubblica italiana finge di non vedere perché per molti la vita di quei disperati non vale niente – se non il misero salario che alcuni di loro ricevono come lavoratori “in nero”. Italia brave gente, come no!

Da decenni si parla del Libano nei termini di una polveriera, e purtroppo non si è mai trattato di una metafora. Circa 120mila libanesi sono morti, ad esempio, nel corso della lunga guerra civile (1975-1990) che ha visto soprattutto Israele, l’Iran e l’Iraq disputarsi il controllo del Paese anche attraverso i numerosi gruppi settari nazionali. Scriveva Lorenzo Trombetta prima della tragica esplosione di tre giorni fa: «Sullo sfondo del rapido impoverimento di una società senza prospettive gravano timori di guerre interne e regionali, allarmi di carestie, incremento di suicidi e criminalità. L’estate libanese potrebbe essere l’ultima di un sistema ormai al collasso. Cento anni dopo la sua nascita e trenta dopo la fine formale della guerra civile, stanno crollando una dopo l’altra le certezze che lo hanno tenuto in piedi. E che, per lunghi tratti della sua storia, lo hanno mostrato al mondo e ai libanesi stessi come luogo di incontro e negoziazione. Dove fare affari e arricchirsi, ma anche nascondersi dalla legge, riciclare e riciclarsi, per poi riapparire puliti e vincenti. Come neve al sole si sta sciogliendo di fronte ai nostri occhi quel che rimaneva della patina di normalità che rendeva ancora il Libano un luogo accettabile, presentabile se visto dal buco della serratura. Il Libano è un giocattolo rotto e irreparabile» (Limes). Il 4 agosto il «giocattolo» è andato in mille pezzi, e nessuno oggi può dire come reagirà una popolazione già stremata dalla crisi economica e sempre più astiosa nei confronti dell’intera compagine politica del Paese, asserragliata nel bunker di una “partitocrazia settaria” (soprattutto in rappresentanza di cristiani, sciiti e sunniti) che risponde agli interessi delle varie e assai bellicose fazioni borghesi, nonché delle potenze regionali che, come già detto, da sempre si disputano il controllo del Libano (1), una pedina assai importante dello scacchiere mediorientale (2).

Scrive Alberto Negri: «Le sanzioni Usa all’Iran e alla Siria hanno affondato ancora di più le economie regionali come quella libanese. In tutto questo il maggiore alleato americano, Israele, si è annesso ufficialmente parti di questi Paesi, come il Golan siriano e Gerusalemme, sfoderando i piani di annessione della Cisgiordania palestinese. Un esempio imitato dal Sultano atlantico Erdogan a spese di curdi nel Nord della Siria e nella Tripolitania libica: un’annessione ne nasconde spesso un’altra. Ogni giorno Israele bombarda la Siria, il vicino del Libano, dove ha colpito Hezbollah e pasdaran iraniani: c’è da meravigliarsi se sulla linea del cessate il fuoco, dove è di stanza l’Unifil con 1500 soldati italiani, la tensione sia perenne?» (Il Manifesto). No di certo. Concludo, per adesso, la riflessione evocando un concetto che secondo me ha molto a che fare anche con ciò che è accaduto e accadrà in Libano (e non solo) in termini di carneficina e di miseria: Sistema Mondiale del Terrore – o società capitalistica mondiale che dir si voglia. Certo, anche il concetto di Imperialismo Unitario (ma non unico, tutt’altro!) (3) va benissimo, concettualmente e politicamente: via l’esercito italiano dal Libano! Tanto per cominciare.

 

(1) Il Libano è uno Stato artificiale, come tantissimi altri Stati in Asia e in Africa, disegnati sulla carta geografica in modo da corrispondere agli interessi e ai conflitti interni delle Potenze coloniali, e ciò con sovrano disprezzo per le reali condizioni storiche e sociali delle regioni sottoposte alla manipolazione geopolitica. Il nucleo originario dell’attuale Stato libanese è la zona cristiano-maronita del Monte del Libano, poco a nord di Beirut, ma tutta la zona per secoli ha fatto parte della Siria («Grande Siria»). Dopo la Prima guerra mondiale, le potenze coloniali europee hanno approfittato della decomposizione dell’Impero ottomano per insediarsi in tutta l’area mediorientale, contrastandone ogni fermento di indipendenza nazionale. Nel 1920 la Francia ottiene il mandato sul Libano, e annette all’antico nucleo cristiano i circostanti territori musulmani. Contro i movimenti nazionalisti che sventolavano la bandiera della Nazione Araba, Parigi adottò la ben nota politica del divide et impera, intesa a mettere in reciproca contrapposizione le diverse etnie e i diversi gruppi sociali che abitavano il territorio controllato dalla Francia, la quale cercò di favorire i cristiani a scapito dei musulmani, realizzando le condizioni del “conflitto settario” che dura tuttora. Scrive Paolo Maltese: «Il potere francese, invece di giocare come gli inglesi la carta dell’unità araba appoggiandosi sulla borghesia urbana, badò, infatti, a garantire l’autonomia di ognuno degli elementi che facevano parte di questo impasto di arabi, turchi, curdi, drusi, armeni, alauiti, le cui divisioni erano ancor più precisate dalle differenze confessionali» (Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico, 1798-1992, p. 106, Mursia, 1992). L’indipendenza del Libano ottenuta nel 1945 non cambiò di molto la situazione del Paese, soprattutto per ciò che riguardava la sua collocazione geopolitica: esso fu costretto a orbitare nell’area di influenza francese. Col tempo però la Francia dovrà lasciare campo libero agli Stati Uniti, pur mantenendo con il Libano robusti legami economici e politici. La guerra civile libanese iniziata nel 1957 aprì il lungo e sanguinoso ciclo delle “guerre per procura” che conobbe a metà degli anni Settanta un picco soprattutto a causa delle iniziative belliche di Siria e Israele, entrambi interessati a controllare direttamente almeno una parte del Libano.  «La guerra cristiano-palestinese del 1975-1976 porterà all’intervento iniziale siriano in difesa della falange e dei e dei cristiani maroniti e al truce massacro del campo palestinese di Tal el Zaatar. […] Nel giugno 1982 l’esercito israeliano dava inizio all’operazione “Pace in Galilea”, penetrando in Libano per scacciare i palestinesi con la tacita tolleranza siriana, ma non con quella di Washington, come talvolta è stato affermato da chi, in ogni mossa di Israele, ha voluto vedere la complicità americana. […] Gli israeliani arrivarono sino a Beirut – coi siriani fermi a nord – accolti a braccia aperte dai cristiani e salutati con benevola neutralità da buona parte della popolazione araba, ostile, a sua volta, ai palestinesi, alla cui responsabilità imputava buona parte del disastro. A settembre, dopo tre mesi di assedio, i guerriglieri e la dirigenza dell’OLP furono costretti a lasciare Beirut per rifugiarsi a Tripoli del Libano. In quello stesso periodo, gli israeliani si ritiravano nel sud del Libano, allontanandosi da Beirut all’indomani del massacro di Sabra e Chatila» (Ivi, p. 243).
(2) «Il Libano sta attraversando uno dei periodi più bui della sua storia. I conti pubblici, gravati dal secondo debito più alto al mondo, non hanno retto più. Le manifestazioni oceaniche dello scorso autunno hanno sì portato ad un cambio di governo, ma anche il nuovo esecutivo non è riuscito a trovare una soluzione efficace. E così il 9 marzo, quando il coronavirus cominciava a farsi strada anche nel Paese dei Cedri, il nuovo governo non ha pagato un Eurobond da 1,2 miliardi di euro in scadenza, dichiarando peraltro l’impossibilità di pagare tutti gli altri a venire. Da allora è entrato ufficialmente in default. E pensare che questo piccolo Paese di neanche sette milioni di abitanti negli anni 70 era chiamato la Svizzera del Medio Oriente. E che fino a qualche anno fa veniva definito il regno delle Banche, un Paese dollarizzato, con una valuta locale forte ancorata da oltre 20 anni al biglietto verde. Ancora nel 2018 i depositi superavano di tre volte il Pil e gli istituti di credito macinavano profitti. In pochi anni è sprofondato nel club dei Paesi poveri. In settembre, dopo un anno di grave crisi, il 33% per cento della popolazione era precipitato sotto la soglia relativa di povertà. In marzo sotto la soglia relativa di povertà si trovava quasi metà della popolazione, il 45%, di cui il 22% in estrema povertà. Da allora, complice anche la pandemia di Covid19, le cose non hanno fatto altro che peggiorare. Tutti i servizi si base sono allo sfascio. Le principali vie e le piazze restano al buio per mancanza di energia elettrica. La parabola della società elettrica libanese, in rosso cronico, inghiottita dalla corruzione, ha fatto sì che i blackout martoriassero la capitale. Chi può si arrangia con i generatori privati, ammesso e non concesso che trovi il carburante per farli funzionare. Gli altri si devono adattare. […] Il Libano è vittima di un gioco più grande di lui, di una regione in fiamme, di cui è stato investito. Ma soprattutto è vittima di una corruzione dilagante e di un élite composta da grandi famiglie storiche che si spartisce su base confessionale il potere. » (R. Bongiorni, Il Sole 24 Ore).
(3) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporto con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

È COME LA FINE DEL MONDO

Ieri notte è ripartita in grande stile l’offensiva russo-siriana nel Nord-Ovest della Siria contro la Turchia e i suoi alleati dell’opposizione armata siriana. Negli ultimi tre mesi nella provincia di Idlib oltre 900 mila persone sono state costrette a lasciare le loro case. «È un popolo stremato in fuga dalla guerra, da bombe che hanno distrutto abitazioni, scuole e ospedali. È un fiume umano, con almeno 500 mila bambini che cercano di sopravvivere in campi sovraffollati, tra la morsa del gelo e della malnutrizione, davanti ad un unico orizzonte che si infrange con una frontiera chiusa, quella tra Siria e Turchia» (Vaticannews). Lo sfollamento di massa non è un semplice “effetto collaterale” della guerra che oppone la Turchia alla Russia e alla Siria, ma un obiettivo scientemente ricercato e pianificato dai macellai russo-siriani. Inutile dire che il regime turco collabora attivamente alla “catastrofe umanitaria” in corso ormai da molto tempo. Per l’Imperialismo Unitario (ne fanno parte grandi e piccole potenze, grandi e piccole nazioni, imperialismi globali e regionali) gli interessi sono tutto, la vita delle persone niente; esso è unitario in questo peculiare significato: si pone unitariamente contro gli interessi dell’umanità in generale, e delle classi subalterne, in particolare. Al suo interno questo Imperialismo è invece altamente conflittuale.

«È come la fine del mondo», ha affermato Fouad Sayed Issa, il fondatore di Violet, un’organizzazione umanitaria siriana “senza scopo di lucro”; «anche se hai soldi, non troverai nulla da affittare o acquistare. Le tende sono piene e non ci sono più campi» (New York Times). «“Questa regione sta per diventare il più grande cumulo di macerie del mondo, disseminata di cadaveri di un milione di bambini”: a dirlo è il coordinatore delle Nazioni Unite per le emergenze umanitarie, Mark Lowcock, che non trova più superlativi per descrivere l’orrore che stanno vivendo gli abitanti della regione di Idlib, vittime della guerra totale lanciata dal regime siriano per riconquistarla a qualsiasi costo. Chi sono le vittime? Perché la situazione a Idlib è cosi apocalittica? La Turchia ha accolto finora circa 3,5 milioni di rifugiati siriani, ma dal 2015 ha chiuso la frontiera. Un’inchiesta del giornale libanese l’Orient le jour sui trafficanti di esseri umani spiega che la Turchia non teme di sparare sui disperati che cercano di passare il confine e che il costo di un passaggio di contrabbando, che fino al 2016 era di cento dollari, oggi può arrivare a tremila. Dall’altra parte c’è l’offensiva del regime di Bashar al Assad appoggiata dalle forze russe. Oggi, a parte la paura delle bombe, nessuna delle persone che vive nella zona pensa di potersi ritrovare di nuovo sotto il regime di Assad dopo quello che hanno vissuto» (Internazionale).

Papa Francesco ha lanciato da Bari l’ennesimo appello «agli uomini di buona volontà» (sic!): «Cari fratelli e sorelle, mentre siamo riuniti qui a pregare e a riflettere sulla pace e sulle sorti dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, sull’altra sponda di questo mare, in particolare nel nord-ovest della Siria, si consuma un’immane tragedia. Dai nostri cuori di pastori si eleva un forte appello agli attori coinvolti e alla comunità internazionale, perché taccia il frastuono delle armi e si ascolti il pianto dei piccoli e degli indifesi; perché si mettano da parte i calcoli e gli interessi per salvaguardare le vite dei civili e dei tanti bambini innocenti che ne pagano le conseguenze. Preghiamo il Signore affinché muova i cuori e tutti possano superare la logica dello scontro, dell’odio e della vendetta per riscoprirsi fratelli, figli di un solo Padre, che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi». Un Papa ovviamente non può che dire questo. Chi scrive, che notoriamente Papa non è, purtroppo è invece costretto a prendere atto dell’ennesima carneficina prodotta dalla logica del potere (economico, politico, ideologico, in una sola parola: sistemico), la quale non si lascia commuovere da nessuna preghiera, da nessun pianto di bimbo, di vecchio, di donna e di uomo. Non c’è niente da fare: se l’uomo non esiste, tutto il male concepibile è anche possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

Aggiunta del 29 febbraio 2020

«Erdogan ha fatto annunciare che la sua guardia costiera e l’esercito non fermeranno più i profughi siriani che proveranno ad attraversare l’Anatolia per dirigersi verso la Grecia e l’Europa» (La Repubblica). La Turchia, più interessata a massacrare i curdi e a presidiare un’area che giudica di suo vitale interesse strategico, che a salvare vite umane, continua a usare i profughi siriani come arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei, i quali da anni pagano Ankara per gestire la scottante questione. Gli europei amano delegare ad altri il pur necessario “lavoro sporco”. Intanto l’offensiva russo-siriana continua, con la scusa della lotta al terrorismo: «Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha fatto sapere a Ginevra l’intenzione di Mosca di non sospendere le ostilità perché “significherebbe capitolare di fronte ai terroristi, e persino ricompensarli per le loro attività in violazione dei trattati internazionali e di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Fatto sta che nel nord della Siria è emergenza umanitaria su scala biblica, con un milione di persone in fuga dai bombardamenti accalcate in prossimità del confine turco da quale passano solo le armi e i beni logistici diretti a sud» (Notizie Geopolitiche). L’Onu? Nient’altro che «un covo di briganti»!

Centinaia di migliaia di persone sono insomma stritolate nella micidiale morsa di contrapposti interessi che hanno una sola logica: quella del Potere – economico, politico, ideologico. Inutile dire che ci toccherà assistere al vomitevole rimpallo delle responsabilità da parte di tutti i Paesi (compresi quelli europei) coinvolti nella vicenda, perché la colpa per il sangue versato e per le sofferenze inflitte agli inermi ricade sempre sulla testa degli altri – dei nemici.

IRAN. ORRORE UMANO

Dopo una serie di ridicoli quanto cinici tentativi intesi a negare le proprie dirette responsabilità, «L’Iran ammette di aver abbattuto l’aereo di linea ucraino, per un errore umano» (Ansa). Il cosiddetto «errore umano» ha fatto 176 vittime, a ulteriore dimostrazione che nelle guerre moderne sono i “civili” i più esposti alla carneficina organizzata dalle classi dominanti. «Scusandosi e porgendo le condoglianze alle famiglie delle vittime dell’aereo ucraino abbattuto dopo il decollo da Teheran, il Quartier generale delle Forze armate iraniane afferma in un comunicato che metterà in atto “riforme essenziali nei processi operativi per evitare simili errori in futuro” e che perseguirà legalmente “coloro che hanno commesso l’errore”». Traduzione: il sanguinario regime iraniano impiccherà qualche militare per saziare la “fame di giustizia” dell’opinione pubblica interna e internazionale e chiudere senza troppe perdite l’imbarazzante (faccio della triste ironia) caso. Ovviamente il regime ha rigirato la scottante frittata in chiave antiamericana: «Il ministro degli Affari esteri iraniano Mohammad Javad Zarif afferma che “l’errore umano” dietro all’abbattimento dell’aereo di linea ucraino da parte delle forze armate dell’Iran è accaduto nel “momento di crisi causato dall’avventurismo degli Usa”». In realtà il massacro avvenuto nei cieli di Teheran è ascrivibile, a mio avviso, all’«avventurismo» dei due Paesi coinvolti direttamente nell’attuale crisi mediorientale: Stati Uniti e Iran. La guerra moderna, con il suo altissimo potenziale distruttivo, mette sempre in conto le “vittime collaterali” provocate dagli “errori umani”.

Intanto «La Resistenza Iraniana ha reso noto che il numero di persone uccise dalle forze di sicurezza durante le proteste in Iran ha superato i 1.500. Almeno 4.000 sono stati i feriti e almeno 12.000 le persone arrestate. Il 23 dicembre 2019, citando fonti all’interno del regime, Reuters ha confermato che 1.500 persone erano state uccise in Iran durante meno di due settimane di disordini iniziati il 15 novembre. A Reuters è stato detto che circa 400 donne e 17 adolescenti erano tra le vittime. I funzionari iraniani che hanno fornito i dati a Reuters hanno affermato di essersi basati su informazioni raccolte da forze di sicurezza, obitori, ospedali e uffici del coroner. Reuters ha affermato che l’ordine di Khamenei di “fare tutto il possibile per fermarli (i manifestanti)” è stato confermato da tre fonti vicine alla cerchia interna del Leader Supremo» (Nessuno tocchi Caino). Com’è noto, il Generale Qassem Soleimani, recentemente “terminato” dai macellai di Washington, ha contribuito non poco a “fermare” i manifestanti: «Che Allah l’abbia in gloria» (Diego Fusaro).

CONTRO L’IMPERIALISMO ITALIANO! CONTRO L’IMPERIALISMO EUROPEO! CONTRO L’IMPERIALISMO STATUNITENSE! CONTRO IL SISTEMA IMPERIALISTA MONDIALE!

«Si chiama “Soleimani martire” la risposta dell’Iran all’uccisione con un drone, ordinata da Donald Trump, del noto generale comandante della Brigata al-Quds dei Pasdaran» (Notizie Geopolitiche). Ci sarà modo di parlarne nei prossimi giorni, se non nelle prossime ore; qui mi limito a registrare la possibile micidiale saldatura delle due crisi in corso nel cosiddetto Medio Oriente allargato: quella irachena/iraniana e quella libica. Di seguito “socializzo” alcune riflessioni abbozzate nei giorni scorsi.

In Iraq, in Libia, in Libano e altrove i militari italiani non rischiano la pelle a causa dell’altrui bellicismo, ma semplicemente perché l’Italia, nel suo “piccolo”, è parte organica del Sistema Imperialista Mondiale. La presenza militare e civile (tipo ospedali da campo, ecc.) del nostro Paese in diversi teatri “caldi” della mappa geopolitica risponde alle sue necessità di media potenza, e questo vale soprattutto per quanto accade in Libia in queste ore. Lo sbandierato “pacifismo” italiano ed europeo è solo fumo propagandistico venduto all’opinione pubblica dai governi di Roma e degli altri Paesi dell’Unione Europea in attesa che la situazione diventi più chiara così che si possa vedere il cavallo su cui è più opportuno puntare. Ed è esattamente questa politica “opportunista” che più irrita gli “alleati” americani, i quali non ne possono più del peloso e ipocrita “pacifismo” europeo.

Maurizio Molinari ha sintetizzato nei termini che seguono i noti fatti occorsi a Bagdad lo scorso 2 gennaio: «L’eliminazione di Qassem Soleimani da parte dei droni del Pentagono è un tassello della sfida strategica che vede la regione del Grande Medio Oriente – dal Maghreb all’Afghanistan – contesa fra quattro potenze portatrici di interessi rivali: l’Iran di Ali Khamenei, la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, la Russia di Vladimir Putin e gli Stati Uniti di Donald Trump. È uno scenario che contrappone leader, armamenti, risorse ed alleati in un mosaico di conflitti di dimensioni e intensità variabili ma con una costante: la determinazione di ognuno dei quattro rivali ad imporsi sugli altri. Nell’evidente assenza di protagonisti europei per le lacerazioni interne all’Ue e l’incapacità di chi tenta di agire da solo – come la Francia in Maghreb – di ottenere risultati capaci di essere durevoli» (La Stampa). In effetti, l’assalto di massa attuato il 31 dicembre dalle milizie sciite-irachene Katib Hezbollah contro l’ambasciata americana di Baghdad è uno di quelle azioni che l’imperialismo Usa non può subire senza un’adeguata risposta. Quello che ha sorpreso gli analisti è piuttosto il livello della risposta confezionata da Washington, che appare ai più fin troppo sproporzionata, oltre che gravida di importanti conseguenze di vario genere. I giorni a venire ci diranno se quella sorprendente risposta, che di certo ha sorpreso lo stesso Soleimani (il quale pure vantava una fama di raffinato stratega) nonché l’intelligence iraniana e irachena, registra un salto di qualità nella strategia di “contenimento” elaborata dagli americani. In ogni caso i nemici degli Stati Uniti hanno commesso un grave errore di sottovalutazione, tanto più in considerazione del fatto che la strategia del caos controllato che Washington sta seguendo ai tempi di Trump dovrebbe indurre i suoi avversari a un supplemento di cautela.

Scriveva Nopasdaran del 10 ottobre 2019: «Parlando il 7 ottobre ad una conferenza con comandanti Pasdaran – trasmessa dalla TV iraniana – il Generale Qassem Soleimani ha spavaldamente affermato che le Guardie Rivoluzionarie hanno esteso la resistenza islamica dai 2000 km del Libano, a mezzo milione di chilometri quadrati in tutto il Medioriente. Ovviamente, con queste parole, il capo della Forza Qods intendeva riferirsi alla diffusione ormai ovunque di milizie sciite paramilitari al servizio di Teheran. Dalla sola Hezbollah in Libano, infatti, ora siamo passati a decine e decine di gruppi armati jihadisti sciiti, sparsi tra Siria, Iraq e lo stesso Yemen. Non a caso, in un secondo passaggio del suo discorso, Soleimani parla direttamente del fatto che la Repubblica Islamica ha creato una “continuità territoriale della resistenza” – tradotto, dei gruppi armati terroristici filo-iraniani – che connette Iran, Iraq, Siria e Libano. […] L’imperialismo iraniano, infatti, non potrà che esacerbare gli scontri regionali, con effetti diretti (contro Israele e arabi sunniti) e indiretti (con la Turchia e la Russia), davvero imprevedibili. Nessuno infatti, ufficialmente o non ufficialmente, permetterà che sia Teheran il solo master della regione e, in questo contesto, l’instabile Iraq rischia davvero di diventare il centro definitivo dello scontro per fermare l’avanzata iraniana». Come si vede, quello che si sta sviluppando sotto i nostri occhi è uno spettacolo tutt’altro che inatteso.

Negli anni scorsi gli “alleati” europei degli Stati Uniti lamentavano il progressivo ritiro dell’imperialismo americano dai centri nevralgici dell’agone geopolitico, disimpegno che secondo loro stava favorendo l’iniziativa politico-militare della Russia, dell’Iran, della Turchia e dell’Arabia Saudita; l’isolazionismo americano indebolisce l’intero Occidente, piagnucolavano francesi, tedeschi e italiani. In realtà gli americani non si sono mai ritirati dall’area mediorientale, ma hanno piuttosto “rimodulato” e ristrutturato la loro presenza in quella regione, aggiornandola ai nuovi scenari internazionali e regionali, e soprattutto calibrandola più di prima sugli esclusivi interessi di Washington. Come e più che ai tempi dell’invasione dell’Iraq del 2003, gli Stati Uniti hanno bisogno di sapere su quali Paesi europei possono contare nella loro strategia di contenimento/indebolimento nei confronti della Cina, della Russia e dell’Iran.

Non c’è dubbio che l’eliminazione del Generale Soleimani risponde anche a un calcolo di politica interna americana, ma sarebbe oltremodo ridicolo ricondurre quell’operazione a esigenze puramente propagandistiche (elettorali: è la democrazia capitalistica, bellezza!) ed elusive, come sostengono i leader democratici, i quali strumentalmente accusano Trump di aver calpestato il diritto internazionale: l’uccisione di Soleimani si configurerebbe infatti non come un legittimo atto di guerra, ma come una vera e propria azione terroristica. Un’analoga stucchevole quanto ipocrita polemica divampò ai tempi dell’eliminazione di Osama Ben Laden nel 2011; «Giustizia è stata fatta», disse allora il pacifista e progressista Obama, suscitando l’indignazione di chi predica la “guerra giusta”, nel senso di “politicamente corretta”. «Ancora una volta appare vero che la storia del diritto internazionale è una storia del concetto di guerra» (Carl Schmitt). Della guerra imperialistica, per l’esattezza.

In ogni caso il “fattore interno” gioca assai più in Paesi come l’Iran e l’Iraq, attraversati da fortissime tensioni sociali che Teheran e Bagdad stanno cercando di incanalare nel tradizionale alveo nazionalista e “antimperialista”. Nel breve termine la crisi provocata dall’evaporazione di Soleimani avrà come effetto, peraltro abbastanza scontato, quello di cementare il “popolo” attorno alla bandiera della dignità nazionale e di mettere la sordina ai movimenti di protesta che nelle scorse settimane hanno creato più di un problema a quei due Paesi; ma già nel medio periodo le previsioni si complicano, anche perché a quanto pare in Iran e in Iraq non tutti hanno pianto la scomparsa del «Che Guevara del Medio Oriente»…

Scrive Daniele Ranieri: «Il generale iraniano Qassem Soleimani voleva nominare il primo ministro dell’Iraq, faceva uccidere soldati iracheni nelle loro basi (bombardate dalle sue milizie) e faceva rapire e uccidere manifestanti iracheni di vent’anni. E questo soltanto nei suoi ultimi tre mesi di attività. Era la definizione da manuale di militare macellaio e di arroganza imperialista» (Il Foglio). Tutto giusto. Ma «la definizione da manuale di militare macellaio e di arroganza imperialista» si attaglia benissimo anche ai responsabili della sua eliminazione. Di solito non uso brindare quando un macellaio uccide un altro macellaio. Grido “Evviva!” solo quando le classi subalterne e tutti i maltrattati da questa disumana società (mondiale) trovano la forza e il coraggio di lottare contro i macellai di ogni nazione,di ogni colore, di ogni religione, di ogni ideologia.

Leggo da qualche parte la seguente incredibile frase: «Soleimani [va] inteso come sineddoche dei mille Soleimani del mondo che si oppongono all’imperialismo occidentale». Ci sarebbe di che sghignazzare, se non stessimo parlando di cose serie e dolorosissime, come l’oppressione, lo sfruttamento e la morte che i «Soleimani del mondo» infliggono alle classi subalterne.

Il noto comico Diego Fusaro, sempre più invasato e delirante nel suo primatismo nazionale, se n’è uscito con la barzelletta che segue: «L’Iran non è uno Stato totalitario, canaglia, pericoloso per la pace nel mondo. Tale è, invece, la civiltà dell’hamburger, che semina guerra per il mondo ed esporta democrazia missilistica, imperialismo etico e bombardamenti umanitari. Lo stesso Soleimani, ucciso vigliaccamente, con vigliacca approvazione dello stesso nostrano Salvini, non era un terrorista, ma un eroico patriota. Lottava contro il terrorismo dell’Isis e in nome dell’Iran sovrano e libero dal neobarbarico colonialismo di Washington. Che Allah l’abbia in gloria. Quanto a me, io non legittimo la guerra di resistenza dei popoli oppressi dall’imperialismo Usa: la esalto. L’aggredito ha sempre il diritto di difendersi, in tutti i modi. La sola guerra legittima è quella di difesa dall’invasore. Se vi sarà la guerra, occorrerà stare, senza se e senza ma, con l’Iran e non con gli Usa, come dicono i vili sovranisti nostrani, che sono solo codardi avvezzi a servire il padrone a stelle e strisce. La speranza è che la Russia di Putin sostenga l’Iran e che ugualmente agiscano altre potenze non allineate, in primis la Cina. Lo scopriremo presto». Il comico che si atteggia a filosofo dichiara dunque guerra all’imperialismo americano e si schiera, «senza se e senza ma», con chi ne ostacola le neobarbariche scorribande. Sarebbe del tutto inutile ricordare al fine dialettico che i nemici di Washington sono imperialisti esattamente come lo sono gli odiati Stati Uniti d’America, cuore pulsante della demoniaca (lo dice anche Allah!) «civiltà dell’hamburger» – e la Coca Cola dove la mettiamo?

Il fatto è che il cosiddetto “Campo Antimperialista” conosce un solo Imperialismo: quello occidentale egemonizzato dagli Stati Uniti. In questo modo tale “Campo” non fa che muoversi lungo il solco tracciato a suo tempo dallo stalinismo, il quale chiamava le “larghe masse popolari” di tutto il mondo a schierarsi dalla parte della “Patria socialista”, la quale era ostacolata dal perfido Occidente guidato dagli americani nella sua umanissima missione di pace, di progresso e di libertà. Per giustificare “teoricamente” la loro ultraborghese (e quindi ultrareazionaria) posizione di sostegno ai nemici degli Stati Uniti, gli esponenti “campisti” cercano di fare entrare l’attuale conflitto interimperialistico nello schema delle lotte anticoloniali sostenute in un’altra epoca storica da Marx, Engels, Lenin, Trotsky e da tutti i comunisti degni di quella qualifica – e quindi non sto parlando dei “comunisti” con caratteristiche “sovietiche”. Ricondurre l’iniziativa delle potenze regionali (vedi ad esempio l’Iran) nell’alveo della «lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale» significa esibire una concezione del processo sociale capitalistico che non solo non ha nulla a che fare con la teoria e con la prassi dell’emancipazione delle classi subalterne (e dell’intera umanità), ma rappresenta piuttosto l’opposto di una teoria e di una politica orientate in senso anticapitalistico. Il solo parlare di «lotta dei popoli oppressi per l’unificazione nazionale e l’indipendenza nazionale» a proposito di Paesi come l’Iran significa non aver maturato, non dico una concezione materialistica della storia (da taluni non è lecito pretendere la comprensione delle più elementari nozioni di quella concezione), ma una visione del processo sociale in grado quantomeno di mantenersi all’altezza dei fatti concreti. Invece i campisti non conoscono altro ragionamento che non sia ideologico all’ennesima potenza: è il reale processo sociale che deve entrare negli schemini “dottrinari” da loro fissati in astratto, riscaldando la vecchia e rancida sbobba “antimperialista” cucinata ai tempi di Stalin – e poi di Mao.

Detto altrimenti, personalmente considero il cosiddetto “Campo Antimperialista” come un’entità politico-ideologica organicamente interna alla dinamica della competizione interimperialistica, e il suo richiamarsi, del tutto abusivamente e ridicolmente (la prima volta come tragedia, la seconda come macchietta) ai “testi sacri” del marxismo, lo fanno apparire ai miei occhi particolarmente odioso, anche perché so bene che qualche giovane desideroso di lottare contro questa società escrementizia potrebbe farsi catturare dalla fraseologia “antimperialista” (in realtà solo antioccidentale) degli amici della Cina, della Russia, del Venezuela, della Siria, dell’Iran e degli altri Paesi “antimperialisti”.

Come si arriva a mettere in uno stesso sacco tutti i protagonisti del Sistema Imperialista Mondiale? Partendo dalla definizione di quel Sistema: si tratta dell’insieme delle grandi, medie e piccole Potenze (Stati, nazioni) che competono tra loro su tutti i fronti della guerra capitalistica: sul fronte economico come su quello geopolitico, su quello diplomatico come su quello militare, su quello tecnoscientifico come su quello ideologico. Si tratta appunto di una guerra sistemica, di un conflitto cioè che ha per obiettivo l’acquisizione del massimo potere possibile. Si tratta dunque di un Sistema tanto compatto, violento e disumano, quanto dinamico, contraddittorio e conflittuale al suo interno. Ogni suggestione “superimperialista” è qui bandita e ridicolizzata.

Le prime vittime del Sistema Imperialista Mondiale sono naturalmente le classi subalterne del pianeta, le cui esistenze sono sacrificate sull’altare del Moloch capitalistico, il cui concetto ingloba anche lo Stato (a prescindere dal suo contingente assetto politico-istituzionale: democratico, autoritario, totalitario) posto a difesa dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. A chi per vivere è costretto a vendersi sul mercato del lavoro, a «vendere se stesso e la propria umanità» (K. Marx), la società chiede il massimo di energia (fisica e intellettuale) e di dedizione in ogni fase della guerra sistemica: quando si combatte producendo merci (materiali e immateriali) e quando si combatte producendo morti, feriti, dolore e distruzione – ovviamente nel nome degli «interessi superiori» della Patria, della Libertà, della Pace, dei Diritti Umani, della Democrazia e chi più ne ha, più ne metta, a proprio piacimento. Per irretire le classi subalterne e legarle al carro della conservazione sociale, le classi dominanti da sempre ricorrono a un potentissimo veleno ideologico chiamato nazionalismo. Come scrisse una volta Karl Kraus, «Il nazionalismo è un fiotto di sangue in cui ogni altro pensiero annega». A proposito di nazionalismo mi piace citare spesso anche Schopenhauer: «Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale. […] Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze». Ancora oggi l’orgoglio nazionale è il più potente strumento politico-ideologico su cui le classi dominanti possono contare per imbrigliare, deviare e strumentalizzare il “disagio sociale” che accompagna la vita dei subalterni, e questo è ancora più vero nei momenti di più acuta crisi sociale. Ecco perché per l’anticapitalista la critica più radicale del nazionalismo, comunque “declinato” e giustificato, non rappresenta affatto un mero dato identitario da sbandierare per affermare la propria irriducibile diversità, ma essa si configura piuttosto come un essenziale asset politico.

È possibile applicare la griglia concettuale qui appena abbozzata all’odierno conflitto mediorientale? A mio avviso sì, e comunque è esattamente dalla prospettiva che essa delinea che approccio l’analisi puntuale di quel conflitto, la quale per molti aspetti è perfettamente sovrapponibile a quella elaborata da diversi analisti geopolitici e si avvantaggia della loro superiore competenza specifica. Più in dettaglio, concordo con gli analisti che considerano quasi obbligata la risposta che gli Stati Uniti stanno dando alla forte spinta espansionistica dell’Iran in tutta l’area mediorientale – e non solo: la sua proiezione in alcune regioni dell’Africa è già più che un’ipotesi. E per adesso metto un punto.

LA TRAGEDIA DEL POPOLO CURDO. E LA NOSTRA

Qualche giorno fa Adriano Sofri ricordava sul Foglio un vecchio proverbio curdo: «Solo le montagne sono amiche dei curdi». A giudicare dalla storia, passata e recente, del popolo curdo (un popolo disperso, com’è noto, in ben quattro nazioni: Turchia, Siria, Iraq e Iran) (*) quel proverbio si limita a registrare un’amara verità.

Mi permetto di sintetizzare la secolare tragedia del popolo curdo nei termini brutali che seguono: per sopravvivere esso è stato costretto a stringere alleanze con Potenze mondiali e regionali, secondo l’antica massima che sentenzia: «Il nemico del mio nemico è mio amico»; salvo poi subire dolorosi “tradimenti” da parte delle nazioni che lo hanno prima usato, anche come esercito nelle cosiddette guerre per procura, e poi abbandonato al suo destino di popolo indesiderato e pericoloso – anche per le idee democratiche e progressiste che animano la sua lotta per l’autodeterminazione nazionale (**). Minacciati dal macellaio di Ankara, alleato degli imperialisti americani ed europei, oggi i curdi sono costretti ad allearsi con il nemico di ieri, cioè con il macellaio di Damasco sostenuto dall’imperialismo russo e dagli iraniani. Il fatto che nei giorni scorsi i leader curdi abbiano implorato gli americani di non ritirarsi dal confine turco-siriano e poi, a “tradimento” statunitense consumato, gli europei a sostituirli prontamente nell’opera di “pacificazione”, la dice lunga sul carattere tragico della vicenda curda. Tra l’altro ciò testimonia come sia risibile parlare di “sovranità nazionale” nel XXI secolo, e non alludo solo alla sovranità nazionale ancora oggi negata ai curdi.

«Donald Trump ha di fatto abbandonato al proprio destino le milizie curde che sono state il principale alleato degli Usa nella lotta contro i terroristi dell’ Isis. Così facendo ha posto Putin nelle vesti di arbitro tra il regime siriano e i curdi, costretti a bussare alla porta di Damasco per non essere schiacciati dalla macchina bellica turca. L’accordo favorisce prima di tutto Putin. Senza il sostegno del Cremlino Assad probabilmente non sarebbe neanche più al potere e le aree controllate da Damasco di fatto lo sono anche da Mosca. Assieme ai soldati siriani potrebbero infatti entrare a Kobane anche quelli russi. D’altronde Putin è però in ottimi rapporti pure con il leader turco Erdogan e l’asse Mosca-Ankara non può che uscire ulteriormente rafforzato da questa complessa situazione. Turchia e Russia stanno dalla parte opposta del fronte, ma assieme all’Iran (altro alleato di ferro di Damasco) formano il trio di Astana e da tempo trattano amichevolmente per spartirsi le zone di influenza in Siria. Non è un caso che Erdogan abbia telefonato a Putin poco prima di aprire il fuoco» (G. Agliastro, La Stampa). Ovviamente a pagare a carissimo prezzo questa complessa partita a scacchi geopolitica è la popolazione civile, massacrata e cacciata di casa, colpita in tutti i modi nel contesto di una condizione già molto difficile e precaria. Un abisso politico e umano mi separa da chi oggi versa lacrime sulla “ritirata”, sull’”impotenza”, sulla “vigliaccheria” e sul “tradimento” dell’Occidente mentre assiste al – momentaneo – successo delle Potenze considerate “politicamente scorrette” nei salotti buoni della politica e della cultura occidentali. Per quanto mi riguarda, divido il mondo solo in dominanti e dominati, sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi; tutto il resto è squallida propaganda al servizio dello status quo sociale (da non confondersi con quello geopolitico) nazionale e mondiale. Ciò che mi preoccupa è piuttosto la perdurante impotenza delle classi subalterne, incapaci di un pensiero indipendente e di una iniziativa autonoma, e ciò è anche dimostrato dal consenso che l’operazione Fonte di Pace (notare il cinismo orwelliano) sta ottenendo in Turchia, a dimostrazione che il veleno nazionalista non smette di svolgere la sua odiosa funzione. Il macellaio Recep Tayyp Erdogan, fino a qualche settimana fa in declino nei sondaggi, oggi sembra essere in netta ripresa, tanto più che l’opposizione parlamentare (non legata ai curdi) ha di fatto accettato l’intervento militare in Siria.

Il “tradimento” da parte di qualche Potenza internazionale o regionale è dunque un concetto che i curdi conoscono benissimo e da molto tempo. È sufficiente leggere un solo articolo pubblicato in questi giorni sull’invasione turca della Siria per rendersi conto dei tanti “tradimenti” che il popolo curdo ha dovuto subire nell’ultimo secolo, a partire dal Trattato di Sèvres del 1920 che ridefiniva i confini della Turchia dopo lo sfaldamento dell’impero ottomano. Allora i curdi non solo non ottennero l’agognato Stato nazionale promesso loro da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, i padroni del mondo uscito dalla Prima carneficina mondiale; ma dal 1923 (Trattato di Losanna) essi dovettero subire i rigori  nazionalistici dei quattro Paesi (Turchia, Iran, Iraq e Siria) individuati dalla “comunità internazionale” come legittimi padroni dell’area rivendicata dai curdi. In un secolo quell’area ha conosciuto una “sofisticata” opera di ingegneria etnica che si è sostanziata  in deportazioni e pulizie etniche realizzate sulla pelle dei curdi e di altri popoli privati di patria e di diritti.

Scrive Elena Zacchetti (Il Post): «La situazione in Siria si complicò alla fine del 2014. Il governo statunitense, allora guidato da Barack Obama, non voleva impegnarsi con le proprie truppe di terra e aveva bisogno di alleati che combattessero al posto suo. I curdi siriani si erano dimostrati molto abili in battaglia ed erano interessati a recuperare i territori del nord della Siria abitati in prevalenza da curdi, e in quel momento sotto il controllo dell’ISIS. Speravano inoltre che avere l’appoggio di un paese così potente e importante li potesse aiutare nella loro causa per la creazione di uno stato curdo, o per lo meno di un territorio in Siria con grande autonomia dal governo centrale. […] Soltanto ad agosto [2019] Stati Uniti e Turchia avevano firmato un accordo per “stabilizzare” il confine meridionale turco, che prevedeva la creazione di una “safe zone”, una “zona cuscinetto”, che avrebbe dovuto dividere le forze turche da quelle curde. Tra le altre cose, l’accordo prevedeva che i curdi siriani si ritirassero dagli avamposti di confine, di fatto rinunciando a un’importante linea di difesa in caso di attacco turco. In cambio, il governo statunitense avrebbe garantito ai curdi protezione e sicurezza. Alla fine di agosto i curdi avevano iniziato a ritirarsi. Il problema è che, dopo avere garantito sicurezza e protezione ai curdi siriani, e dopo che i curdi siriani di conseguenza si sono ritirati, gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro». Mai fidarsi degli imperialisti! «Gli americani ci avevano garantito la loro protezione, e invece ci hanno abbandonati con la loro ingiusta decisione di ritirare le loro truppe alla frontiera turca»: mai fidarsi delle garanzie offerte dagli imperialisti (americani, europei, russi o cinesi che siano)!

Lo so, la mia è una facile battuta che non tiene conto dei reali rapporti di forza che insistono sul terreno; ma essa intende solo illuminare il quadro della situazione, nel cui seno i curdi possono ritagliarsi un margine di manovra assai ristretto, e sempre contando sul sostegno di qualche Potenza “amica”. Non dimentichiamo che nel 1991, alla fine della Prima Guerra del Golfo, gli Stati Uniti di George Bush lasciarono nelle mani di Saddam Hussein non meno di due milioni di curdi che li avevano sostenuti nella guerra sperando in un’autodeterminazione che arriverà solo nel 2003, con la formazione del Kurdistan iracheno. Si trattò di una vera ecatombe, con migliaia di persone, in maggioranza vecchi e bambini, uccisi ogni giorno dall’esercito iracheno. Nel 1988 questo esercito massacrò non meno di 100mila curdi con un attacco chimico a Halabja; allora gli europei fecero finta di niente, perché l’Iraq era impegnato in una sanguinosissima guerra contro l’Iran komeinista.

Ma ritorniamo alla guerra di questi giorni. Come accade sempre in questi casi la cosiddetta opinione pubblica internazionale lamenta l’impotenza dell’Onu. Ma l’Onu non è affatto impotente: essa è esattamente quello che deve essere, e cioè uno strumento politico-ideologico al servizio degli interessi di grandi, medie e piccole potenze, le quali se ne servono quando occorre per meglio perseguire i loro obiettivi nel quadro della contesa sistemica (economica, scientifica, militare, ideologica) planetaria. Nell’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo non voglia! Naturalmente sono le Potenze maggiori a determinare l’azione (o inazione) di quella escrementizia entità politico-diplomatica, la quale è a tutti gli effetti «un covo di briganti» (Lenin). Secondo Macron l’offensiva di Ankara in Siria può scatenare «conseguenze umanitarie drammatiche». Invece quella scatenata dalla Francia (e dall’Inghilterra) in Libia nel febbraio 2011 ha portato pace, serenità e prosperità per tutti…

Scriveva Alberto Negri sul Manifesto di qualche giorno fa: «Il cartello del Rojava, “fabbrica democratica” al confine turco-siriano, adesso dice: “Chiuso per tradimento americano”». Mi chiedo fino a che punto si possa legittimamente parlare di “tradimento” nell’ambito del “grande gioco geopolitico”, ossia in riferimento alla contesa interimperialistica. Forse non bisognerebbe usare certe categorie morali in contesti dominati dal principio degli interessi e della potenza.

La tragedia dei curdi siriani nelle parole di Lorenzo Cremonesi (Il Corriere della Sera), inviato a Derek: «Stanno qualche ora in fila, attendono pazienti. Salvo poi venire ricacciati indietro con i bambini, le valigie troppo grandi, le mogli troppo coperte che sudano copiosamente sotto il sole ancora caldo di metà ottobre, l’aria secca, le sporte di vestiti pesanti. “Partono adesso quelli di noi che in passato hanno combattuto contro il regime di Bashar Assad, oppure i giovani renitenti alla leva. Non vogliono essere costretti nelle unità di punizione dell’esercito nazionale siriano, mandate subito a combattere e morire in prima linea contro i turchi”, confida un quarantenne dall’aria distinta. Lascia capire di essere un alto esponente dell’intelligence di Rojava. […]  In realtà, sul campo si notano cambiamenti importanti. L’altra sera a Qamishli erano sparite le consuete pattuglie curde che si muovono nei quartieri controllati dai fedeli al regime di Bashar. Damasco ha sempre negato qualsiasi forma di autonomia curda e nulla lascia credere abbia cambiato politica. Tutt’altro. Per la prima volta dal ritiro dopo lo scoppio delle rivolte nel 2011, i suoi soldati tornano a marciare per le strade del Nordest siriano. Nulla lascia credere che smetteranno di farlo. Uno degli articoli in discussione nell’accordo contempla che le unità curde vengano assorbite in quelle dell’esercito regolare. Inoltre su tutti gli edifici pubblici dell’intera Rojava dovrà sventolare la bandiera nazionale. Una mossa non solo simbolica. Il regime espande la sovranità. Non sono pochi adesso i curdi che iniziano a mettere in dubbio il valore del tributo di sangue pagato dalle loro forze armate nella guerra contro Isis: oltre 11.000 morti e quasi il doppio di feriti. Un numero enorme, specie se si pensa che Rojava conta in tutto meno di 60.000 effettivi tra combattenti uomini e donne. “Valeva la pena perdere tanti soldati alla luce del tradimento americano?”, si chiedeva ieri un giovane giornalista della televisione locale. Lo smarrimento è palpabile. Il futuro un’incognita inquietante. Rispondeva disilluso un suo collega: “Possiamo dire che abbiamo vissuto otto anni inebrianti di libertà, almeno saranno un punto fermo nei libri della storia del popolo curdo. Ma li stiamo perdendo”».

Quando la Nazione va in guerra, la Nazionale saluta militarmente. Questi sì che sono autentici patrioti! Altro che pezzi di mErdogan! O no?

(*) «Se il Kurdistan fosse unito politicamente potrebbe essere lo Stato più ricco del Medio Oriente, considerate le materie prime di cui dispone – dal petrolio alle risorse idriche. Il petrolio infatti viene estratto in tutti e quattro i paesi “curdi”. […] Sempre con riguardo al petrolio, l’area curda è coinvolta nel “grande gioco” in atto nelle repubbliche centrasiatiche. Con l’implosione dell’ex Urss è salita alla ribalta geopolitica l’Asia centrale, soprattutto per i ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale del Mar Caspio. In gioco c’è lo sfruttamento degli stessi da parte delle grandi multinazionali, ma soprattutto lo sfruttamento dei diritti di passaggio degli oleodotti e dei gasdotti» (M. Franza, Limes, 1999).
(**) In uno scritto del 2014 esprimevo tutto il mio apprezzamento e il mio sostegno politico (peraltro non richiesto da nessuno…) alla lotta democratico-nazionale del popolo curdo, allora soprattutto alle prese con i tagliagole del cosiddetto Califfato Islamico. Ciò naturalmente non mi impediva di prendere una posizione critica nei confronti di chi in Europa straparlava “da sinistra” circa «un nuovo modello socialista» a proposito del Rojava. Sul Manifesto Alberto Negri ha definito l’azione dei progressisti curdi a Rojava come «l’unico esperimento di governo della regione che ricordi uno stato laico europeo»: non c’è dubbio. Cosa abbia però a che fare il “socialismo” con la lotta democratico-nazionale dei curdi è qualcosa che può avere un senso solo nella testa dei teorici del “Socialismo del XXI secolo”, i quali sono sempre alla ricerca di “socialismi originali”, forse per mitigare la nostalgia nei confronti dei “socialismi realizzati”.

 

Aggiunta del 16/10/2019

IL MADE IN ITALY CHE UCCIDE I CURDI

Da Nexquotidiano:

«Agusta A129 Mangusta: l’elicottero italiano che guida l’offensiva della Turchia in Siria. C’è anche un po’ di “orgoglio” italiano nell’offensiva della Turchia in Siria. E riguarda gli elicotteri da combattimento prodotti in patria ma creazioni del made in Italy: la versione avanzata dell’Agusta A129 Mangusta prodotto da Leonardo, che i nostri militari hanno usato in Somalia, Iraq e Afghanistan».

Scrive Gianluca Di Feo su Repubblica:

«Sono macchine micidiali. Piccole, veloci, robuste ma zeppe di apparati hi-tech. Scoprono gli obiettivi con un radar e un sistema infrarossi, a cui non sfugge nulla neppure di notte, nemmeno nei boschi. Hanno una torretta con un cannone a tre canne rotanti: per puntarlo basta che il pilota guardi il bersaglio, l’arma segue il suo occhio e spara 500 colpi in meno di un secondo. Possono lanciare 76 razzi che trasformano il terreno in un inferno. O guidare missili che sbriciolano i bunker. Cabina, motori e trasmissioni sono blindati – un Mangusta italiano in Afghanistan ha incassato cento pallottole senza problemi – e c’è un congegno per deviare i rari missili terra-aria dei guerriglieri. Per i curdi fermarli è quasi impossibile».

PER UNA STRETTA DI MANO…

In fondo il (cosiddetto?) Premier italiano ieri, nella conferenza stampa di fine Conferenza, è stato sincero, e ha peraltro usato un espediente retorico che davvero rappresenta un minimo sindacale di autodifesa politica e di diplomazia: «Se la misura del successo è di dire che oggi a Palermo abbiamo trovato la soluzione a tutti i problemi della Libia, la Conferenza è un insuccesso». Ma chi poteva pretendere dal meeting di Palermo «la soluzione a tutti i problemi della Libia»? Solo uno sciocco, è evidente. I risultati vanno insomma commisurati con le aspettative, le quali devono essere sempre realistiche, soprattutto quando si tratta di problemi connessi con la geopolitica, in generale, e con la Libia in particolare. Questo, credo, sia il succo concettuale della dichiarazione di Conte.

Quali obiettivi si proponeva dunque di centrare il Governo italiano organizzando l’ambiziosa Conferenza di Palermo sulla Libia? In primo luogo si trattava quantomeno di pareggiare i conti con la Francia, la quale negli ultimi anni ha fatto di tutto per creare problemi all’imperialismo concorrente in Libia (e non solo), cioè all’Italia, che da parte sua ha sempre rivendicato per sé un ruolo, economico e geopolitico, di primissimo piano in quel disgraziato Paese, peraltro in gran parte una creazione artificiale di Roma – attraverso l’accorpamento di tre “macro-regioni”: Cirenaica, Tripolitania, Fezzan.

La volontà dell’Italia di segnare il goal del pareggio con la Francia si è materializzata con l’ormai “mitica” foto che racconta la stretta di mano tra Khalifa Haftar, “l’uomo forte della Cirenaica”, e il suo concorrente Fayez al-Serraj, l’uomo debole di Tripoli, alla presenza del sempre sorridente (pare su suggerimento dell’inquietante Rocco Casalino) Giuseppe Conte. Il generale Haftar ha giocato una partita tutta sua, spregiudicata al limite della sfacciataggine e della provocazione (in continuità del resto con la trazione libica: vedi l’ex rais Gheddafi, “il pazzo di Tripoli”). Non partecipando alla Conferenza («Non parteciperemo alla conferenza neanche se durasse cento anni. Non ho nulla a che fare con tutto questo») ma incontrandosi con le rappresentanze politico-diplomatiche dei Paesi che lo sostengono (Russia ed Egitto, in primis), e accreditandosi come soggetto chiave e imprescindibile nell’intrigo libico, Haftar ha certamente vinto la sua “personale” partita, cosa che costituisce di fatto,  “oggettivamente”, una sconfitta per al-Serraj, il quale ha dovuto anche subire il chiaro avvertimento lanciatogli dal rivale cirenaico: «Non si cambia il cavallo mentre si attraversa il fiume», dichiarazione che equivale a una dichiarazione di guerra differita nel tempo – si parla dell’aprile del prossimo anno. Per adesso rimani in sella, domani si vedrà! Il tempo sembra infatti giocare a favore di Haftar, che controlla con pugno di ferro la Cirenaica grazie al sostegno di russi, egiziani e francesi.

L’indebolimento di al-Serraj si può leggere anche seguendo il comportamento della Turchia, la quale ha abbandonato la scena della foto-opportunity finale per segnalare il suo “rammarico” e la sua “delusione” per come sono andate le cose a Palermo. Com’è noto, la Turchia sostiene attivamente l’uomo debole di Tripoli, anche attraverso quella Fratellanza Musulmana che invece è fortemente invisa all’Egitto, che appoggia Haftar, il quale a sua volta considera appunto la Fratellanza come un covo di terroristi al pari di al-Qaida. Per Stefano Stefanini (La Stampa) «sono i fratelli musulmani  il nuovo ostacolo alla stabilità della Libia». La verità è che dal 2011 la crisi libica crea “ostacoli” in quantità industriali ovunque e comunque la si guardi.

«La crisi libica», ha dichiarato il vicepresidente turco Fuat Oktay abbandonando il meeting palermitano, «non si risolverà se pochi continuano a tenere in ostaggio il processo politico per i loro interessi. Coloro che hanno creato le attuali condizioni in Libia non possono essere quelli che salvano il Paese». Verissimo. Solo che tra quei «pochi» bisogna menzionare la stessa Turchia, i suoi interessi geopolitici che si scontrano con quelli dell’Egitto e della Russia. Già da anni gli analisti geopolitici parlano di una riedizione dello storico scontro tra Impero Russo e Impero Ottomano. I tempi cambiano, le aspirazioni imperiali (oggi imperialistiche) dei Paesi rimangono e si rafforzano. D’altra parte è regola universalmente valida quella che vede il rappresentante degli interessi di un dato Paese vedere e denunciare solo gli interessi dei Paesi concorrenti, per cui il “vittimismo” del rappresentante turco non deve stupire.

La Russia conferma il suo ruolo di protagonista fondamentale nel grande gioco che coinvolge l’area del Medio Oriente e del Nord’Africa, e gli ammiccamenti di Roma rivolti alla numerosissima delegazione russa convenuta nel capoluogo siciliano vanno letti anche come segnali rivolti alla Francia e alla Germania, segnali intesi a comunicare a quei Paesi che l’Italia oggi può contare sul sostegno di Mosca, e non solo sulla Libia. Per Piero Ignazi (La Repubblica) «L’Italia all’estero gioca da sola», e sconta il suo ricercato isolamento da Bruxelles; l’esigenza di trovare delle sponde credibili nello scacchiere internazionale è dunque molto forte, e ciò espone il Paese al rischio di stringere alleanze molto pericolose.  La verità è che come sempre Roma cerca di giocare su diversi tavoli, e ciò è tanto più vero oggi, nel momento in cui lo scenario internazionale appare quanto mai fluido, confuso, di difficile interpretazione, se non per il breve (o brevissimo!) periodo. I tempi della geopolitica si sono fatti «interessanti», per dirla con il Presidente degli Stati Uniti, il quale ultimamente se l’è presa con Macron: «Il presidente francese Macron ha appena suggerito che l’Europa costruisca un suo esercito per proteggersi dagli Stati Uniti, dalla Cina e dalla Russia. Si tratta di un insulto. Forse l’Europa dovrebbe prima pagare la sua giusta quota alla Nato, che gli Stati Uniti sovvenzionano in gran parte!». Non c’è dubbio, si tratta davvero di tempi molto “interessanti”…

In conclusione, per gli interessi italiani la Conferenza di Palermo sulla Libia ha avuto successo o no? il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? La parola al Premier italiano: «A me spetta fare il Primo Ministro, non il notista politico. Lascio a voi valutare liberamente se la Conferenza è stato un successo o meno. È un incontro che ha fatto emergere un’analisi largamente condivisa da parte dei libici delle sfide da affrontare, le abbiamo messe a fuoco insieme, ne è nata un’analisi condivisa sui problemi e un’ampia condivisione da parte della comunità internazionale». Tradotto: l’esito della Conferenza va scoperto solo vivendo.

Aggiunta del 15 novembre 2018

Prime verifiche

Nuovi disordini a Tripoli. La Settima brigata occupa lo scalo internazionale. Per Francesco Semprini (La Stampa) «dietro l’azione alle porte della capitale, c’è la delusione per i risultati della Conferenza di Palermo». «Chiusi i lavori della conferenza di Palermo, la Libia torna protagonista in casa propria con una serie di azioni e reazioni corollario dei deboli teoremi formulati al vertice siciliano. È la Settima brigata a farsi sentire di nuovo dopo mesi di quiete seguita agli scontri che hanno travolto la capitale tra la fine di agosto e i primi di settembre. Si tratta dei cosiddetti “insorti” di Tarhuna», un gruppo sponsorizzato dalla Turchia. «Secondo alcune fonti i miliziani sarebbero appoggiati dalla brigata di Salah Badi, un deputato di Misurata diventato capo milizia, considerato da mesi un “cane sciolto” ma molto vicino agli islamisti armati e soprattutto vicinissimo alla Turchia. […] Una interpretazione che gira fra alcuni analisti libici è che però l’attacco della Settima Brigata (composta per buona parte anche da ex gheddafiani) possa essere stata una reazione al fatto che alla riunione di ieri mattina fra Haftar e Serraj erano presenti Egitto e Russia, ma non il Qatar. Secondo un analista “questa è la vera protesta della Turchia: hanno visto che Haftar stava guadagnando terreno politicamente, sostenuto dai loro avversari egiziani e con la copertura della Russia e dell’Italia. I turchi possono tranquillamente aver favorito chi ha voluto lanciare un segnale militare sul terreno”» (Rivista Africa).

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di usura e di baratti; e poi lo maledicevano
come usurajo e barattiere (Carlo Cattaneo).

«All’inizio del suo discorso Abu Mazen ha fatto riferimento al Sionismo e alla ‎creazione dello Stato per gli ebrei come a un progetto coloniale. Su questo il ‎dibattito storico in effetti è aperto da lungo tempo. Persino alcuni accademici ‎israeliani ebrei di fama internazionale, come Ilan Pappè, affermano che il Sionismo ‎fu un movimento coloniale e non solo nazionalista come invece, per decenni, ha ‎ripetuto la storiografia ufficiale. Poi Abu Mazen ha dato a chi lo ascoltava quella ‎che ha descritto come una «lezione di storia» affermando che lo sterminio degli ‎ebrei, l’Olocausto, non fu causato dall’antisemitismo di Hitler e dei nazisti ma dalla ‎‎«funzione sociale‎» degli ebrei legata alle loro professioni che riguardavano il ‎prestito di denaro e le banche‏.‏‎ Un classico stereotipo antisemita che ha scatenato ‎reazioni a raffica, in Israele e in Occidente. […] Il primo ministro israeliano Netanyahu, invitato a nozze, lo ha fatto a pezzi. ‎”A ‎quanto pare il negazionista dell’Olocausto è ancora un negazionista dell’Olocausto. ‎Invito la comunità internazionale a condannare il grave antisemitismo di Mahmoud ‎Abbas (Abu Mazen). Con un picco di ignoranza e faccia tosta, ha dichiarato che gli ‎ebrei d’Europa non son stati perseguitati perché ebrei, ma perché prestavano denaro ‎su interesse”, ha detto Netanyahu, che sa bene che anche per questi temi passa la ‎demolizione dei diritti dei palestinesi. Qualche anno fa Netanyahu definì il mufti ‎islamico di Gerusalemme Hajj Amin al Husseini, un accanito oppositore della ‎fondazione di Israele, l’ispiratore della “soluzione finale”, lo sterminio del popolo ‎ebraico messo in atto da Hitler. Una tesi smentita da storici israeliani ed ebrei ma ‎che ha lasciato il segno» (M. Giorgio, Il Manifesto, 3/05/2018).

Il popolo palestinese, oppresso socialmente, nazionalmente e ideologicamente (su questo aspetto da tutte le parti in causa, come vediamo), non poteva “vantare” leader peggiori. E intanto una guerra totale tra Iran e Israele diventa sempre meno improbabile, con quel che ciò implica già oggi per i palestinesi in termini di ulteriore peggioramento della loro tragica condizione.

«Un documento riemerso dalla National Library di Israele getta nuova luce sui rapporti fra la Germania nazista e il Grand Muftì di Gerusalemme Amin al-Husseini. E consolida in qualche modo la tesi del premier Benjamin Netanyahu che il religioso abbia giocato un ruolo nell’incitare allo sterminio degli ebrei. È un telegramma spedito dal capo delle Ss Heinrich Himmler a Husseini, il 2 novembre 1943, nel ventiseiesimo anniversario della Dichiarazione di Balfour. Himmler ricorda che la Grande Germania è stata una “strenua sostenitrice” della battaglia “degli arabi in cerca di libertà, in particolare in Palestina, contro gli ebrei invasori”. Il nemico in comune, continua, “sta creando una solida base per l’unità fra la Germania e gli arabi nel mondo. In questo spirito, vi auguro, nell’anniversario della Dichiarazione di Balfour, di continuare la lotta fino alla grande vittoria”. Il documento originale, ingiallito ma in perfetto stato di conservazione, è stato pubblicato sul giornale Haaretz. E naturalmente si è riaccesa la discussione sulle frasi di una anno e mezzo fa di Netanyahu, quando aveva accusato il Gran Muftì di aver suggerito a Hitler di “bruciare” gli ebrei, il loro sterminio. Poi il premier aveva fatto marcia indietro in mancanza di prove storiche. Il telegramma non prova che quella conversazione abbia veramente avuto luogo ma conferma i rapporti “calorosi” fra i nazisti e il leader religioso. L’incontro fra Hitler e il Gran Muftì è però del novembre 1941, due anni prima del telegramma di Himmler. Lo sterminio degli ebrei, come conferma Dina Porat del Museo dell’Olocausto Yad Vashem, sempre citato da Haaretz, “era già cominciato da un pezzo” e i nazisti stavano già uccidendo gli ebrei “e avevano già abbandonato l’idea che l’emigrazione forzata e l’espulsione fossero una soluzione”. Il telegramma ribadisce comunque l’esistenza di un’alleanza ideologica fra nazisti e il Muftì in quel preciso momento storico» (G. Stabile, La Stampa, 30/03/2017)».

Della serie: il nemico del mio nemico è mio amico.

«Abu Mazen, pur senza prendere pubblicamente le distanze, si è mostrato perplesso sulle iniziative prese a Gaza. Poi, però, per rimettersi in sintonia con i tempi che si annunciano, si lascia andare a considerazioni antiebraiche davvero strabilianti: parlando a Ramallah al cospetto del Consiglio palestinese, in un discorso di novanta minuti ripreso integralmente dalla tv, Abu Mazen ha detto che gli ebrei la Shoah se la sono cercata. Secondo lui quel che accadde agli israeliti ai tempi del nazismo non va ricondotto alla loro fede religiosa o appartenenza etnica (tra l’altro, a suo giudizio, gli ebrei ashkenaziti non sarebbero nemmeno semiti), bensì alle loro “funzioni sociali”, vale a dire “usura, attività bancaria e simili”» (P. Mieli, Il Corriere della Sera, 3/05/2018). Evidentemente la carta antisemita, spesso nascosta sotto quella meno ripugnante e storicamente più presentabile dell’antisionismo, può ancora svolgere il suo odioso ufficio sul tavolo del risentimento e del disagio sociale. Questo anche a proposito di “populismo”.

«È scattata oggi la mobilitazione della comunità ebraica romana dopo l’approvazione della legge che vieta di accusare la Polonia di complicità nell’Olocausto e di riferirsi ai campi di concentramento nazisti in Polonia come “polacchi”. […] “Non possiamo non essere preoccupati per quello che accade anche in Ungheria e in Austria, ma anche in alcune zone della Germania”, ha dichiarato Ruth Dureghello, presidente della comunità ebraica di Roma» (Globalist, 8/02/2018). Si segnalano diffuse manifestazioni di antisemitismo anche in Bulgaria, Ucraina e Croazia. Scrive Fabio Nicolucci: «La negazione della Shoah si inscrive in un discorso più vasto e complesso, sintetizzabile nelle “teorie cospirative”: nell’idea di un confitto mortale con i poteri forti ed occulti nelle mani della “internazionale ebraica”». Vedi George Soros, il finanziere ebreo-ungherese «accusato di favorire l’immigrazione dall’Africa e dall’Asia in Europa con lo scopo di una vera e propria sostituzione etnica ai danni degli europei. Ora persino Benyamin Netanyahu è infuriato con lui perché finanzia tutti i movimenti palestinesi e israeliani che contrastano la politica del governo del Likud» (Affaritaliani.it). «È questo il filo nero che unisce, nella storia contemporanea, il prima (I protocolli dei savi di Sion, il fortunato falso della polizia zarista) e il dopo, la Shoah. Il negazionismo, o la giustificazione (Abu Mazen), si annida oggi in molti discorsi pubblici nei quali l’ antisemitismo riesce, in forme variegate, quasi sempre a fare capolino: lo strapotere delle banche, i poteri forti, la solidarietà verso regimi terroristici nemici mortali di Israele, etc.» (F. Nicolucci, Il Mattino, 4/05/2018).  Abu Mazen, conclude Nicolucci, ha forse inteso fare «una strizzatina d’occhio» alla pancia insofferente dell’Europa e dell’Occidente, se non apertamente utilizzarla per i suoi obiettivi politici.

Da Carlo Cattaneo e le interdizioni imposte agli ebrei:

Attilio Milano, autore di un’apprezzabile Storia degli ebrei in Italia (1962), definì Cattaneo «il più solido e agguerrito paladino della risoluzione integrale del problema ebraico»; un secolo dopo, altri personaggi si cimenteranno, con ben altra “radicalità” e con opposta intenzione, nella soluzione finale del problema ebraico. C’è mancato davvero poco, pochissimo, che questa impresa non si realizzasse completamente, al 100 per 100. C’è da dire che, come ricorda Paolo Maltese, «in Germania l’ostilità avrebbe preso a svilupparsi dopo la grande crisi finanziaria del 1873, che avrebbe rovinato parecchi appartenenti alla classe media. Crisi che finì, infatti, per fare degli ebrei – visti come potenza economica – il capro espiatorio della situazione. […] Nel 1881, Karl Eugen Dühring, insegnante di economia e filosofia all’università di Berlino, nel suo Die Judenfrage als Rassen, Sitten und Kullturfrage, dipingeva, a sua volta, ai propri studenti gli ebrei come una razza il cui stesso sangue era maledetto». Ed era esattamente in questa accezione che negli anni Settanta del secolo scorso, mia madre, una proletaria completamente digiuna di storia e di politica, e che sicuramente non avrebbe nemmeno saputo indicare l’ubicazione geografica di Israele (né di qualche altra nazione, per la verità), mi dava dell’ebreo tutte le volte che intendeva sottolineare il mio malsano comportamento. Probabilmente è anche per questo che ho sempre nutrito una forte simpatia e ammirazione nei confronti degli ebrei. Scherzo. Naturalmente la cara donna usava quello che nella sua testa suonava come una sanguinosa offesa solo per sentito dire, e come sinonimo, appunto, di persona cattiva, egoista, priva di scrupoli e di sentimenti positivi nei confronti del prossimo. Ho aperto questa brevissima parentesi biografica non in odio a mia madre, che in realtà amo, ma solo per dire quanto radicato sia rimasto il pregiudizio antiebraico soprattutto presso gli strati sociali che occupano i gradini più bassi della scala sociale, che difatti sono i più esposti alla sirena razzista: «Gli africani ci rubano il lavoro, sporcano le strade e insidiano le nostre donne: cacciamoli!». Perché gli ebrei sono diventati «il capro espiatorio della situazione» per eccellenza? È questo il rognoso problema che Cattaneo affronta. […] Come scrivevano Horkheimer e Adorno (Elementi dell’antisemitismo), «Gli ebrei non furono i soli ad occupare la sfera della circolazione. Ma sono stati rinchiusi in essa troppo a lungo per non riflettere, nella loro natura, l’odio di cui sono stati sempre oggetto. Ad essi, a differenza dei loro colleghi ariani, era precluso, in larga misura, l’accesso alla fonte del plusvalore. Solo tardi e con difficoltà hanno potuto accedere alla proprietà dei mezzi di produzione. […] Il commercio non era la loro professione, ma il loro destino».  Un destino che agli ebrei fu imposto dal processo storico-sociale, non da loro particolari caratteristiche innate di qualche tipo.

La tesi centrale del saggio (Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, Vallecchi, 2017) di Cattaneo pubblicato nel 1837, peraltro già ampiamente anticipata sopra, è abbastanza semplice, e provo a riassumerla in poche battute. Gli ebrei furono messi nelle condizioni di accumulare immensi patrimoni finanziari da quello stesso mondo ostile che nel corso dei secoli aveva congiurato per eliminarli dalla faccia della terra, e poi ne subiranno le tragiche conseguenze come se si fosse trattato di un loro libero orientamento, e non, appunto, delle conseguenze inattese di altrui comportamenti. Quel mondo fece di tutto, nei fatti (“oggettivamente”), per conservarli e, al contempo (e in piena coscienza), per annientarli. Questa dialettica è ben visibile nelle pagine del saggio, e ne costituisce anzi un importante filo conduttore. «La depressione civile degli Ebrei era per altra parte ancora un fomento alla loro opulenza». Non volendoli assorbire e sciogliere nel processo storico; tenendoli lontani dalle attività produttive (dall’agricoltura, in primis) e dalla vita civile (dalla politica, dalla cultura, dalla scienza, dalla moda), il mondo cristiano li ha conservati in guisa di comunità chiusa, facendone, loro malgrado, una perfetta macchina per accumulare tesori, salvo poi incolpare di questo gli stessi ebrei, cioè le vittime delle sue interdizioni!

ASPETTANDO I MISSILI…


Tieniti pronta Russia, i missili
arriveranno (Donald Trump).

Come diceva quello, la situazione è assai confusa, ma in compenso non è – mi si consenta una piccola variante – eccellente, tutt’altro, almeno se considerata dal punto di vista di chi è costretto a subire un processo sociale mondiale fondato su interessi che nulla a che fare hanno con il benessere, la libertà e la felicità degli individui. E difatti la sola certezza che mi sento di poter esternare in questo momento, mentre in tutto il mondo si parla di guerra economica (vedi la controversia sui dazi) e di guerra militare (vedi la Siria), riguarda l’irriducibile e irriformabile natura disumana di questa società mondiale, una società che trasuda violenza, odio e precarietà esistenziale da tutti i suoi pori. Ieri ho scritto un post sulla crisi siriana per dire la mia sulla vicenda, e che solo adesso ho la possibilità di pubblicare. Ciò che però adesso m’importa dire, per quel che vale, è che al di là delle analisi più o meno puntuali e intelligenti (e quindi non sto parlando delle mie “analisi”!) intese a penetrare nella complessità e contraddittorietà delle questioni geopolitiche, politiche, militari e quant’altro, ciò che davvero ha senso è conquistare questo semplice concetto: dal punto di vista umano e delle classi subalterne non esiste una sola ragione valida per schierarsi con questa o quella Potenza, con questa o quella Nazione (soprattutto con la propria!), con questa o quella fazione capitalistica, con questo o quel partito, di governo o di opposizione. Oggi, come sempre, in gioco ci sono solo interessi di potere (economico, politico, militare ecc.), e dal mio punto di vista quegli interessi non valgono un solo capello – uno solo dico! – cresciuto sulla testa di un solo individuo.

***

Ultim’ora! Mentre scrivo aerei militari da ricognizione degli Stati Uniti sono decollati dalla base americana di Sigonella per raggiungere la regione Mediorientale. Il Premier turco ha dichiarato che, «gas o non gas, Assad se ne deve andare per consentire una soluzione politica della crisi. Assad ha massacrato un milione di civili siriani, e ciò non è accettabile». È invece accettabile il massacro dei curdi da parte della Turchia. Mi viene in mente la favola raccontata da Platone (Fedro): «Un lupo, vedendo un pastore che mangiava carne di pecora, disse: “solleveresti un gran clamore se lo facessi io”». Non so chi legge, ma io vedo in azione solo lupi affamati di bottino. E mi scuso con i lupi in carne ed ossa per l’odiosa analogia! Intanto Israele minaccia il regime siriano: «Cancelleremo la Siria dalle carte geografiche se permetterà all’Iran di attaccarci». Dalla Casa Bianca trapela quanto segue: «Gli Stati Uniti stanno ancora valutando ciò che è avvenuto a Douma. Niente è ancora stato deciso ma il Pentagono ha offerto al Presidente una serie di opzioni militari». Come colpire duramente, molto più che in passato, Bashar al Assad senza scontrarsi direttamente con l’esercito russo? Pare che al Pentagono non sia stata ancora trovata la soluzione a un problema che, com’è facile capire, non è di poco momento. Le “destre unite” del nostro Paese si dichiarano indisponibili a votare un intervento militare italiano contro la Siria e contro la Russia; «Il senatore di Forza Italia, Paolo Romani, esorta il centrodestra ad “alzare la voce sull’assurda minaccia di rappresaglia rispetto al presunto utilizzo di armi chimiche in Siria e chieda al governo di dissociarsi da tali inopportune eventuali azioni. Non è possibile – prosegue – immaginare che Assad nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere abbia utilizzato armi chimiche che avrebbero scatenato la reazione internazionale. Oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida. Auspico, pertanto, che il governo si dissoci”» (il Giornale.it). Forse nemmeno su Contropiano si leggono difese così accorate e puntuali del regime di Damasco!

Il Premier Gentiloni, non ancora scaduto, dice che l’uso dei gas contro la popolazione da parte del regime di Damasco va certamente condannato e duramente sanzionato dal diritto internazionale, e che tuttavia «dobbiamo lavorare per la pace»: che sant’uomo! Il Partito Democratico accusa Matteo Salvini e «l’ammucchiata di destra» di voler portare l’Italia fuori dal tradizionale quadro di alleanze internazionali: sarà il compagno Salvini a guidare il “Nuovo Movimento per la Pace”? Certo è che per la Mummia Sicula ospitata al Quirinale la crisi siriana è un forte argomento da far valere nelle prossime consultazioni politiche con i partiti in vista della formazione del nuovo governo.

***

Come spiegare l’improvvisa accelerazione della crisi siriana? Ciò che mi sento di dire con una certa sicurezza è che l’ipotizzato uso di gas da parte del macellaio di Damasco non c’entra niente.

Per gli Stati Uniti si tratta di rintuzzare l’espansione geopolitica della Russia in un’area strategicamente importante come rimane indubbiamente il Medio Oriente; una Russia che, come dimostra il suo attivismo in Europa (vedi la crisi ucraina ma non solo), non vuole retrocedere dal rango di potenza mondiale conquistato nella sua precedenza configurazione politico-istituzionale – naturalmente alludo all’Unione Sovietica, crollata miseramente alla fine degli anni Ottanta inizio anni Novanta. In questa legittima aspirazione il Paese oggi condotto con mano ferma da Vladimir Putin, un faro politico-ideologico per il fronte sovranista europeo (ieri Salvini ha dichiarato che non si fanno le guerre sulla base di un presunto uso di armi chimiche), è spalleggiato dalla Cina, ossia dalla potenza che contende agli americani il primato assoluto nella competizione capitalistica mondiale. Le merci e i capitali Made in Cina ormai dilagano dappertutto e ciò non può non irritare Washington, che difatti sta reagendo all’ascesa imperialistica di quel Paese mettendo in atto una serie di misure economiche e politiche il cui impatto potremo valutare nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Oggi colpire la Russia significa per gli Usa colpire anche la Cina, e viceversa. Con ciò non voglio affatto dire che gli interessi della Russia coincidono perfettamente e strategicamente con quelli della Cina; qui è il breve/medio periodo che importa prendere in considerazione.

Detto questo, non possiamo d’altra parte dimenticare che solo qualche settimana fa Trump aveva dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero presto abbandonato la regione siriana presidiata dal loro esercito (oltre duemila soldati), abbandonando così i curdi al loro triste destino, come peraltro sta dimostrando la campagna turca di sistematico annientamento dei curdi chiamata cinicamente ramoscello di ulivo. Certamente l’annunciato disimpegno americano ha irritato non poco l’Arabia Saudita, impegnata in un duro confronto con l’Iran nello Yemen, e Israele, la quale teme più di ogni altra cosa che Trump possa rinverdire la politica di appeasement con il regime iraniano di obamiana memoria. Non sono insomma da escludersi pressioni su Washington da parte degli alleati regionali, impauriti dalla prospettiva di perdere il sostegno militare statunitense.

Per Israele si tratta di reagire a una sfida esistenziale che ha nell’Iran la sua punta più affilata; com’è noto, Teheran si serve degli Hezbollah libanesi e dei palestinesi di Hamas, attivi nella striscia di Gaza, per controllare, colpire e logorare il regime israeliano, il cui “pacifismo” si sta peraltro esercitando in questi giorni anche sui palestinesi inermi. Come dimostra la “guerra dimenticata” nello Yemen, l’Iran è senz’altro la potenza regionale in ascesa nel quadrante Mediorientale, a spese soprattutto dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, della Turchia e, appunto, di Israele.

Secondo molti analisti basati in Medio Oriente, Mosca avrebbe consentito l’uso da parte dell’esercito regolare siriano di cloro o di agenti chimici ancora più potenti per accelerare la resa dei “ribelli” ancora presenti a Douma. Si tratta di «gruppi islamisti sostenuti dall’Arabia Saudita quali i qaedisti di Jabat Fatah al-Sham e soprattutto di Jaish al-Islam (“Esercito dell’Islam”), i quali hanno respinto gli accordi dei giorni scorsi, accettati da altri gruppi, di essere accompagnati con le loro famiglie in autobus nella provincia di Idlib, com’è stato per i combattenti della battaglia di Aleppo, ed anzi, hanno continuato a bombardare Damasco con i mortai» (Notizie Geopolitiche). È comunque un fatto che i “ribelli” di Douma hanno accettato di trasferirsi con le loro famiglie nel Nord del Paese: «Gradualmente la Siria mostra un nuovo assetto, certamente seguito all’incontro del 4 aprile ad Ankara tra il presidente russo Vladimir Putin, quello iraniano Hassan Rohai e quello turco Recep Tayyp Erdogan: a nord e per tutta la provincia di Idlib vi sarebbero gli oppositori con le popolazioni turcomanne, mentre i curdi sono respinti dall’esercito turco a est e il resto del paese sarebbe sotto il controllo di Damasco». Come sempre, è la violenza degli eserciti che disegna sul terreno le mappe geopolitiche, e le classi subalterne non possono far altro che subire gli interessi delle Potenze, grandi o piccole che siano, e i loro mutevoli rapporti di forza.

Non possono far altro, beninteso, fin quando esse rimarranno inchiodate politicamente, ideologicamente e psicologicamente al carro del Dominio. La tragedia planetaria che viviamo non ha nulla a che fare con il destino cinico e baro, ed è spiegabile perfettamente in termini di interessi e di violenza di classe.

Leggo da qualche parte: «L’attacco chimico di Ghūṭa è un episodio occorso la mattina del 21 agosto 2013 durante la guerra civile siriana in cui alcune aree controllate dai ribelli nei sobborghi orientali e meridionali di Damasco, sono state colpite da missili superficie-superficie contenenti l’agente chimico sarin. Ribelli e governo siriano si accusano a vicenda di aver perpetrato l’attacco». È quindi dall’estate del 2013 che in Siria i diversi contendenti di una guerra sempre più feroce e internazionale usano “agenti chimici” per annientarsi a vicenda, senza mostrare alcun interesse per l’impatto che le armi “non convenzionali” hanno sui civili. In sette anni di guerra si contano circa 85 attacchi con armi chimiche. Del resto, le armi cosiddette convenzionali non sono affatto meno terribili di quelle dichiarate illegali dal diritto internazionale, che poi altro non è se non il diritto dei più forti di stabilire le regole del gioco. Un “gioco” che, come anche i bambini ormai sanno, ha il nome di contesa per il potere sistemico: economico, politico, militare, ideologico, psicologico. Con o senza l’uso di armi chimiche di qualche tipo, in Siria sono morti oltre quattrocentomila civili, e dunque perché indignarsi solo quando i media ci mostrano le conseguenze sulla popolazione civile di quelle armi?

A proposito di Diritto Internazionale, in un post del 2015 dedicato alle Barrel Bombs usate dal famigerato perito chimico di Damasco (parlo di Assad, ovviamente), mi chiedevo retoricamente: «Non sarà che all’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo (a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia?». Leninianamente parlando definivo l’Onu come «un covo di briganti». «Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica». Così scriveva tre anni fa Lucio Caracciolo su Limes, in un articolo che auspicava «una nuova Yalta», la sola che potrebbe mettere un po’ di ordine al tanto caos che “sgoverna” il Nuovo Ordine Mondiale post Guerra Fredda: «Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. L’obiettivo di qualsiasi ordinamento: la riduzione della complessità. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopolitica».

Naturalmente tutti i protagonisti del Sistema Mondiale del Terrore sostengono che «il dialogo è la sola via», ma intanto preparano o fanno la guerra, direttamente o per “procura”, con le armi che hanno a disposizione: dal gas nervino alla Massive ordnance air blast; dalle tecnologicamente arretrate (ma quanto efficaci!) barrel bombs ai più sofisticati e “intelligenti” Tomahawk. Mikhail Gorbaciov, l’ex statista odiato dai nostalgici dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda, si è detto «enormemente angosciato» per i recenti sviluppi negativi nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia, e dopo aver evocato la crisi dei missili a Cuba del 1962, ha caldeggiato un immediato incontro “pacificatore” tra Putin e Trump.  Intanto il Presidente americano si diverte a “bullizzare” il Presidente russo: «La Russia minaccia di abbattere tutti i missili sparati verso la Siria. Tieniti pronta Russia, perché stanno per arrivare, belli, nuovi e “intelligenti”! Non dovreste essere alleati di un animale assassino che uccide la sua gente con il gas e si diverte! Le nostre relazioni con la Russia sono peggiori di quanto non lo siano mai state, compresa la Guerra Fredda. Non c’è ragione per questo». E se si trattasse di una ragione chiamata Potere Mondiale? Avanzo una mera ipotesi, sia chiaro.

Insomma, osservo con disgusto estremo l’ennesima ipocrisia politico-diplomatica-mediatica intorno all’ennesimo massacro di civili siriani ottenuto con l’uso di gas. Da parte di chi? Da parte dell’«animale assassino» di Damasco, che si regge in piedi solo grazie all’appoggio della Russia e dell’Iran, e che in passato ha fatto largo uso delle citate Barrel Bombs, o dei suoi oppositori interni, appoggiati (con alterne vicende) dagli Stati Uniti, da Israele, dalla Turchia e dall’Arabia Saudita? Alle mie orecchie questa domanda suona del tutto priva di senso, sotto tutti i punti di vista. Non solo la guerra non è, in generale e notoriamente, un “pranzo di gale” e i nemici si combattono fra loro usando tutti i mezzi a loro disposizione, spessissimo prendendo scientemente di mira i civili per conseguire nel modo più rapido e “economico” possibile obiettivi strategici di grande importanza (lo abbiamo visto su una scala gigantesca in Europa e poi in Giappone nel corso del Secondo Macello Mondiale definito dai vincitori “Guerra di Liberazione”); ma in questa guerra c’è in gioco solo il Potere sistemico cui ho accennato sopra, e non un solo “valore” che sorrida alla vita delle classi subalterne. Non uno.

«I governi terroristi di Israele e degli USA sono un pericolo terribile per tutti noi e vanno fermati nel nome del futuro dell’umanità». Così ha scritto l’altro ieri Carlo Formenti, esponente di punta di Potere al popolo, sempre a proposito della “sporca guerra” siriana. Sottoscrivo! Ma un momento! Qualcosa non mi torna: e il regime siriano, dove lo mettiamo? E la Russia di Vladimir Putin? E l’Iran di Hassan Rohani? E la Turchia di Recep Tayyip Erdogan? Senza contare la Francia di Emmanuel Macron che sta cercando in tutti i modi di incunearsi fra le contraddizioni degli “alleati” della Siria per acciuffare qualcosa in termini di posizionamento geopolitico nella delicatissima regione Mediorientale. Per come la vedo io, terroristi e nemici dell’umanità sono tutti i carnefici in campo, comprese le forze che si contrappongono militarmente al regime di Assad solo per sostituirlo con un regime altrettanto reazionario. Inutile dire che si tratta di un terrorismo messo al servizio di enormi interessi economici, strategici, militari, politici. Certamente, il concetto di imperialismo sintetizza benissimo la questione.

Per taluni sedicenti antimperialisti esiste un solo imperialismo, quello americano-israeliano (sai la novità: è dai tempi di Stalin che la cosa va avanti!), mentre gli imperialisti concorrenti vanno in qualche modo sostenuti per rafforzare la lotta delle classi subalterne contro l’imperialismo. Che geniale astuzia dialettica! Ma non si tratta di “contraddizioni in seno al popolo”; non si tratta di “compagni che sbagliano”: si tratta piuttosto di personaggi orientati politicamente da un punto di vista ultrareazionario, ossia filo-capitalistico e filo-imperialista. Questi personaggi hanno sposato la causa del capitalismo (vedi il Venezuela di Maduro, ad esempio) e dell’imperialismo di certi Paesi (vedi Russia, Cina, Iran*) perché sono attratti da regimi forti e autoritari (purché ostili agli Usa e a Israele), meglio se fondati su un capitalismo di stampo statalista, che poi essi vendono al mondo e a se stessi, in tutta buona fede, come «Socialismo del XXI secolo». Purtroppo è il solo “socialismo” che questi sinistri personaggi conoscono e comprendono. Molte volte ho avuto modo di polemizzare con qualcuno di loro; c’è chi crede in buona fede di partecipare alla “lotta di classe concreta” come si dà nel XXI secolo, mentre in realtà si muove sul terreno della geopolitica, ossia dello scontro interimperialistico, e così si schiera con una fazione del Sistema Mondiale del Terrore in odio all’altra.

* Il fascio-stalinista Diego Fusaro, sempre più ridicola caricatura di se stesso, è arrivato a definire l’Iran «uno Stato eroicamente resistente al mondialismo imperialistico, e che, come tale, già da tempo è stato designato come bersaglio privilegiato da parte della monarchia del dollaro e delle sue colonie asservite (Italia in primis, ovviamente). […] La Sinistra del Costume, dal canto suo, anziché resistere e opporsi a queste pratiche in nome della leniniana lotta contro l’imperialismo, le legittima in nome dei diritti umani con bombardamento etico incorporato e della democrazia missilistica d’asporto. Dov’è finita, in effetti, la sinistra? Perché non lotta contro l’imperialismo, come fece Lenin? Perché non difende gli Stati resistenti al mondialismo capitalistico e anzi si adopera perché vengano invasi militarmente?». Lenin arruolato, si spera suo malgrado, nello scontro interimperialistico e nelle risibili beghe tra i diversi spezzoni della sempre più confusa, miserabile ed evanescente (speriamo!) sinistra italiana. Sinistra Sovranista e Populista, la quale assimila Lenin al virile Putin, ad Assad, a Rohani e ad altri “eroi dell’imperialismo” di simile escrementizio conio, versus «Sinistra dei Costumi», che ha sposato i valori della «Destra del Danaro»  e che «confonde l’internazionalismo con l’europeismo e il cosmopolitismo», che lotta «contro il burka e per la minigonna»: una bella partita, non c’è dubbio. Il fatto che la lettura che «l’ultimo marxista» (strasic!) Diego Fusaro fa del mondo sia perfettamente sovrapponibile a quella di Massimo Fini, ciò non solo non è paradossale o sorprendente, almeno per chi non si lascia abbacinare dalla fraseologia pseudomarxista del primo, ma è perfettamente coerente con la “concezione del mondo” (ultrareazionaria) dei due personaggi. Se mi occupo, sempre più controvoglia, di queste ridicole e miserabili cose è solo perché spero (mi illudo?) di poter convincere anche un solo militante della “sinistra”, più o meno estrema/radicale, che da quella parte c’è solo conservazione sociale, esattamente come a destra.

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IRAN. OGGI E IERI

1. Oggi

«Negli ultimi anni, i caffè sono nati anche in abbinamento a librerie e a gallerie d’arte. L’aspetto è moderno, tant’è che potrebbero essere a Parigi o in qualsiasi metropoli occidentale. Ci si accorge di essere a Teheran solo per i codici di comportamento, soprattutto nel vestiario. Mi è capitato di assistere in uno di questi posti a uno shooting fotografico, con una modella, truccatissima e con il foulard, che sfilava. La gente guardava con indifferenza: è uno spettacolo usuale. Eppure, la modella, la pubblicità, il consumismo erano quanto la Rivoluzione Islamica voleva combattere. Questo è un tratto tipico degli iraniani: sanno adattarsi, rielaborare e fare proprio qualcosa che viene da fuori secondo i propri canoni. A proposito, in quel caffè ho bevuto un mojito. Naturalmente reinventato dagli iraniani senza alcol!» (A. Vanzan). Naturalmente. D’altra parte la “rivisitazione” dei rapporti sociali capitalistici in chiave locale (regionale, nazionale, continentale) è un fenomeno che riguarda tutti i Paesi del mondo: dalla Cina al Giappone, dall’India al Brasile. Soprattutto nel settore dell’abbigliamento e dell’alimentazione il Capitale si avvantaggia delle specificità culturali e “antropologiche” dei vari Paesi: merci e servizi per tutti i gusti e per tutte le sensibilità – nazionali, etniche, religiose, sessuali e quant’altro. Il Capitale ama la “libertà” e la “creatività”. Mi fanno ridere, per non dire altro, gli intellettuali occidentali di diverso orientamento ideologico (ma di identica militanza sociale al servizio della conservazione) che paventano una «deriva consumistica» della società iraniana (e magari anche di quella nordcoreana!), i cui giovani si troverebbero esposti alla demoniaca influenza dei social media che li invitano a partecipare alla luccicante ed eterna festa della globalizzazione capitalistica. Questi intellettuali possono anche accettare, bontà loro, l’economia di mercato, purché ben temperata e attenta ai bisogni del “capitale umano”, ma insieme al Santissimo Papa Francesco e alla Guida Suprema Ali Khamenei essi gridano un forte e irremovibile NO alla società di mercato: si può essere così intellettualmente indigenti?

«Un’altra parte degli Iraniani, quella dei sobborghi, che ha come uniche certezze nella vita la religione e la povertà, è soggiogata dalla propaganda religiosa. Le moschee attirano giovani per arruolarli sin da piccoli nelle milizie irregolari con i loro bastoni da hooligan. Due facce così diverse dello stesso paese dove, per un giovane, non ci sono alternative ad un modello edonista e decadente oppure ad uno estremista e violento» (L. Tavi). Lo sviluppo ineguale del Capitalismo (su scala mondiale, nazionale e regionale) si presenta con aspetti particolarmente contraddittori, e persino paradossali, nei Paesi storicamente “ritardatari” che hanno alle spalle un lungo periodo di sfruttamento coloniale e imperialistico.

«Proibire l’inglese alle elementari, e magari anche gli hamburger e la coca cola. La reazione dei conservatori alle proteste di piazza si manifesta anche così, ma riapre la spaccatura fra ultrà e riformisti, con il presidente Hassan Rohani contrario alla nuova stretta e che anzi invita a capire i giovani, perché «pensano in maniera diversa» (G. Stabile, La Stampa). Anche la pizza, ci fa sapere Stabile, è stata “attenzionata” dai puristi iraniani, benché la nota prelibatezza italiana sia stata “reinventata” in salsa iraniana. Secondo il “moderato” e “riformista” Rohani l’inglese invece serve ai giovani iraniani per «trovare lavoro»: «Il governo accoglie le critiche e credo che tutti dovrebbero essere criticati, persino Maometto ha permesso alle persone di criticare. Il problema è la distanza tra noi e le nuove generazioni. La pensano diversamente sul mondo e sulla vita». Se non è un invito a bombardare il quartier generale, poco ci manca, e comunque la presa di posizione del Presidente iraniano ci dice quanto dura sia diventata la più che decennale lotta di potere al vertice del regime. E qui arriviamo agli eventi di questi giorni.

Violenta oppressione politica, ideologica e culturale (che tocca in primo luogo le donne e le minoranze religiose), alta disoccupazione giovanile (oltre il 26%), crescente inflazione (12,5%), carovita, crisi in alcuni comparti industriali, crescenti e vistosissime (soprattutto nei grandi centri urbani) diseguaglianze sociali, piccoli imprenditori e piccoli risparmiatori gettati sul lastrico dal fallimento di alcune finanziarie, oppressione etnica (azeri, curdi, armeni), centri urbani elefantiaci e zone rurali spopolate, una spesa militare sempre crescente in grado di supportare le aspirazioni di grande potenza regionale coltivate dal Paese (a discapito ovviamente delle condizioni di vita delle classi subalterne: «Occupatevi di noi, non della Siria!», gridano i manifestanti), un Capitalismo, gestito in gran parte dalla “casta” degli ayatollah e dai vertici dei Pasdaran, sempre più inefficiente e aperto alla corruzione sociale (una parte dello stesso proletariato iraniano è interessato al mantenimento della greppia clerico-statalista: il “clientelismo” non è un fenomeno esclusivo dell’Italia!), alto inquinamento in molte zone del Paese, e molto altro ancora: gli ingredienti della crisi sociale esplosiva in Iran ci sono tutti. E non si tratta certo di una condizione sociale prodottasi negli ultimi mesi o negli ultimi anni, tutt’altro. Né la crisi sociale in quel sensibilissimo quadrante geopolitico attraversa solo l’Iran, come ben dimostra il movimentismo politico che da parecchi mesi si segnala in Arabia Saudita, il nemico/concorrente numero.[1] Per non parlare della cosiddetta Primavera Araba del 2011. Le proteste contro il carovita che si stanno sviluppando in Tunisia in questi giorni certamente non sono di buon auspicio per i due regimi diversamente islamici.

«Il consenso verso il regime è, per molti versi, oggetto di uno scambio: finché gli ayatollah garantiscono buone condizioni di vita, i cittadini accettano obtorto collo di rinunciare alla propria libertà e adeguarsi alle censure del clero. Ma quando la borsa è vuota, il regime clericale viene messo in discussione. Le attuali proteste potrebbero quindi rivelarsi molto pericolose per il regime. […] Se la Rivoluzione verde del 2009 mirava a una svolta moderata del regime, ma non ad abbatterlo, queste proteste hanno un carattere maggiormente anti-establishment. Meno politicizzate e più spontanee delle precedenti, sembrano mancare nel proporre un’alternativa al regime, ma il loro carattere anarchico le rende imprevedibili. Il dissenso è un fenomeno carsico e tacitarlo per alcuni giorni, mesi, persino anni, non significa averlo sconfitto. Al di là del loro esito, queste proteste hanno segnato un passaggio di mentalità: se le immagini della guida suprema possono essere fatte a pezzi, vuol dire che anche il regime può cadere. Come ricordato da Kader Abdollah, scrittore e oppositore del regime, gli iraniani hanno compreso che il potere degli ayatollah non è eterno né inevitabile. Se vorrà conservarsi alla guida del paese, il clero dovrà andare incontro alle esigenze dei cittadini. La repressione e la censura autoritaria non sono più opzioni possibili» (East Journal). In ogni caso, il regime continua come e più di prima a usare il pugno di ferro, e sono quasi quattromila i manifestanti finiti in galera, per non parlare dei morti e dei feriti. Già si registrano diversi casi di “suicidio” (assistito?) nelle carceri, notoriamente luoghi di tortura, oltre che di infinito dolore.

È ovvio che nel mare della crisi sociale nuotano e prosperano i nemici interni ed esterni della Repubblica Islamica, ma non è certo con la chiave interpretativa dei nemici esterni (americani, sauditi, israeliani) che possiamo capire ciò che accade – e non da oggi – in quel Paese decisivo per gli assetti interimperialistici del Medio Oriente, e non solo di quell’area. A scadenza quasi decennale, i giovani iraniani scendono in strada per rivendicare la fine dell’oppressione esercitata sull’intera società dal regime dei mullah e migliori condizioni di vita, e puntualmente il regime risponde con la ben nota tattica che prevede l’uso della carota (vedi il “partito delle riforme”) e del bastone. Promesse e carcere. Ammiccamenti politici e pallottole “vaganti”. Celebrazione di “libere” elezioni e impiccagioni: anche chi è accusato di offendere in qualche modo Allah è meritevole di morte per «atti ostili contro Dio» (moharebeh). Il regime può anche contare sulla massa d’urto repressiva mobilitata dai Pasdaran (Basji) composta perlopiù da sottoproletari che per un tozzo di pane sono disposti a massacrare di botte chi gli capita a tiro durante le manifestazioni di piazza. «Dai Pasdaran dipendono i Bassij, una diramazione paramilitare molto numerosa nata negli anni 80 durante la guerra contro l’Iraq; si stima che il numero dei Bassij si aggiri intorno ai dieci milioni di iraniani sparsi su tutto il territorio nazionale. Per il reclutamento dei membri lo stato iraniano spende ogni anno centinaia di migliaia di dollari, certo di poter trovare adepti negli strati più poveri della popolazione, incentivati da offerte finanziarie e benefici, in cambio dell’arruolamento. I Bassij sono costituiti per lo più da giovani e il loro ruolo è quello di sopprimere e arginare il più possibile e dal basso, qualsiasi forma di rivolta nei confronti del regime; un altro importante ruolo che gli viene affidato è quello della propaganda e della conservazione di tutti quei valori religiosi e ideologici che fanno capo ai capisaldi del regime dei mullah» (East Journal). Dal loro canto, i Pasdaran oltre a rappresentare «da più di vent’anni la più grande forza economica iraniana, sono in prima linea per impedire che lavoratori e studenti possano riunirsi e discutere dei diritti che li riguardano e reprimono con violenza ogni minimo tentativo di dissenso nei confronti del regime» (E. J.). Tra l’altro, i pii e misericordiosi Guardiani della Rivoluzione gestiscono il traffico illegale dei prodotti di lusso occidentale che entrano di nascosto nel Paese e il cui giro d’affari pare ammontare a una cifra gigantesca: tre volte più grande della ricchezza generata dalle fondazioni legali. La massiccia violenza che i Pasdaran dispiegano contro i “nemici di Dio e dell’Iran” è adeguata agli interessi economici che essi difendono. Sarò pure un materialista volgare e determinista, ma io la penso così!

All’inizio delle proteste il “pragmatico” Presidente iraniano dichiarò che «le persone per le strade non chiedono pane e acqua, ma più libertà», rendendo così palese la guerra intestina che, come detto, da decenni travaglia il regime di Teheran. In realtà, oltre a «più libertà» i manifestanti chiedevano più generi di prima necessità e a più basso costo, e non a caso le manifestazioni sono comparse all’inizio (28 dicembre 2017) nelle aree economicamente più depresse del Paese, dove peraltro più forte è la presenza degli attivisti ultraconservatori. Pare che gli uomini legati all’ex Presidente Mahmoud Ahmadinejad, colui che voleva cancellare Israele dalla carta geografica del Medio Oriente nonché acerrimo nemico dell’attuale Presidente, abbiano in qualche modo favorito la protesta, per evidenti fini strumentali, salvo poi esserne scavalcati. In ogni caso, Teheran li ha subito “attenzionati”, e lo stesso Ahmadinejad è finito definitivamente in disgrazia, seppellito sotto infamanti accuse di corruzione e abusi d’ogni tipo – non ancora di stampo sessuale: questo tipo di calunnie applicate al “pio” Ahmadinejad non sarebbero forse credibili.

Con il consueto tweet, il Presidente americano ha voluto sferrare un facilissimo attacco politico, non solo al regime iraniano, ma anche, se non soprattutto, agli “alleati” europei che intendono proseguire sulla strada del “negoziato diplomatico” tracciata dall’ex Presidente Obama nel 2015 (accordo di Losanna): «Il grande popolo iraniano è stato represso per molti anni, ha fame di cibo e libertà; insieme ai diritti umani, viene saccheggiata la ricchezza dell’Iran!». Anche dalle nostre parti c’è stato qualche idiota che ha caricato la responsabilità dei manifestanti uccisi in Iran solo sulla testa di Donald Trump, reo di essersi sfilato dall’accordo sul nucleare sottoscritto dal cosiddetto 5+1 sotto l’egida dell’Onu. Ovviamente Trump, nella sua qualità di Presidente della prima potenza imperialistica del mondo, ha tutto l’interesse nel gettare benzina sul fuoco del malcontento popolare che attraversa l’Iran, e ciò tanto più dopo il relativo insuccesso americano registrato in Iraq e in Siria, dove la Russia e appunto l’Iran hanno invece riscosso un indubbio successo politico-militare.

Ieri il Financial Times e il New York Times invitano il Presidente americano a una maggiore prudenza nelle sue esternazioni sui fatti iraniani, perché le sue invettive via Twitter potrebbero ricompattare il regime; e gli consigliano anche di non sfilarsi dall’accordo sul nucleare iraniano, per rendere evidente agli occhi dell’opinione pubblica iraniana il fatto che la moratoria sulle sanzioni non dà alcun beneficio al popolo iraniano, mentre facilita l’investimento del regime in costosi armamenti. «Cinquantadue tra ufficiali militari statunitensi in pensione, membri del Congresso degli Stati Uniti, ex ambasciatori statunitensi, esperti statunitensi della sicurezza nazionale hanno firmato una lettera per sollecitare Trump a non mettere a repentaglio l’accordo con l’Iran» (NYT). Abbaiare furiosamente o tessere intorno al regime di Teheran una fitta rete diplomatica aspettando che la classe media iraniana prepari una seria alternativa in vista dell’auspicato regime change: qual è la tattica più produttiva per gli Stati Uniti? Certo non sarò io a dare buoni consigli! «Il capo della Casa Bianca vorrebbe uscire dall’accordo, in linea con le obiezioni avanzate anche da Israele, e le proteste iraniane dei giorni scorsi lo hanno incoraggiato a farlo; il segretario di Stato Tillerson, quello alla Difesa Mattis, e il consigliere per la Sicurezza nazionale McMaster ritengono che convenga salvarlo» (P. Mastrolilli, La Stampa). È probabile che alla fine anche Trump sarà della partita diplomatica, ma dopo aver chiarito che la Casa Bianca non dà nulla per scontato e che si aspetta dai negoziati risultati concreti – ovviamente dal punto di vista degli interessi americani, i quali sempre più spesso divergono dagli interessi degli “alleati” occidentali, e questo a prescindere da chi pro tempore veste la carica di Presidente degli Stati Uniti.

Il costo finanziario dei successi militari e politici di Russia e Iran è stato molto alto per entrambi i Paesi, e solo la relativa stabilità del prezzo del petrolio (intorno ai 50 dollari il barile) e del gas ha permesso, anche se solo in parte, di tamponare le falle finanziarie che si sono aperte nelle loro casse. L’Iran è impegnato pesantemente anche in Yemen, in una guerra sanguinosissima che ormai si protrae da molti anni e che, com’è noto, è alimentata anche dalle armi fabbricate in Italia: un fatturato tutt’altro che disprezzabile! Non bisogna poi sottovalutare il sostegno che Teheran offre a Hezbollah, «che è una milizia costosa, perché i miliziani Hezbollah sono pagati due volte di più di quanto Israele paga i beduini che lavorano per l’esercito; poi hanno tutta la struttura industriale militare, i missili balistici, ad esempio non li fabbricano, ma li importano dalla Corea del Nord; poi hanno la massa impiegatizia dei clerici ed anche loro sono molto costosi» (E. Luttwak, Notizie geopolitiche). Si segnala anche un crescente attivismo dell’Iran in Afghanistan, cosa che sta mettendo in allarme i pakistani e gli americani.[2]

Può, si chiede il citato Luttwak, un Paese che campa sostanzialmente di rendita petrolifera sostenere un così forte impegno militare e geopolitico? In effetti, un’economia ancora fortemente centrata sull’estrazione e la vendita di petrolio e gas rappresenta, al contempo, il punto di forza e il punto di debolezza dell’ambiziosissima potenza persiana.

L’innegabile sviluppo dell’industria metallurgica, dell’industria tessile e dell’edilizia che si è registrato negli ultimi tre decenni non è stato comunque tale da mutare la struttura del capitalismo iraniano, con ciò che ne segue sul piano degli equilibri politico-istituzionali del Paese. Secondo uno studio del Fondo Monetario Internazionale di qualche anno fa, il tasso di crescita del PIL iraniano si aggira intorno al 7,4%, ma al netto del settore petrolifero quel tasso precipita a un risicato 1%. Dati forniti dal Ministero degli Esteri del nostro Paese attestano questa struttura del PIL iraniano: «Il petrolio influisce per il 15% sul Prodotto Interno Lordo, il settore manifatturiero, quello edilizio e l’industria mineraria per il 23%, l’agricoltura per il 9%, mentre i servizi occupano il 53% del totale». Il maggiore importatore di prodotti iraniani è la Cina, ma per un valore totale molto modesto, soprattutto se posto in rapporto alle potenzialità industriali dell’Iran: appena 615 milioni di dollari. Proprio ieri l’Italia ha siglato un importante accordo con l’Iran: «Un’intesa che apre a garanzie sovrane da parte dell’Iran per finanziamenti fino a 5 miliardi di euro. I finanziamenti che seguiranno stanzieranno fondi per progetti e partnership in Iran, realizzati congiuntamente da imprese italiane ed iraniane, in settori di reciproco interesse, come ad esempio le infrastrutture e costruzioni, il settore petrolifero e del gas, la generazione di energia elettrica, le industrie chimica, petrolchimica e metallurgica. I due Ministeri [dell’economia] hanno sottolineato come l’accordo sia “un passo importante per il consolidamento della partnership economica e finanziaria tra i due Paesi, le cui origini vanno molto indietro nel tempo. L’obiettivo principale dell’accordo è quello di rafforzare il tessuto economico iraniano, in linea con gli obiettivi stabiliti dal Governo dell’Iran e con le legittime aspirazioni del popolo iraniano”» (La Repubblica). Le «legittime aspirazioni del popolo» sono costantemente in cima ai pensieri dei Governi di tutto il mondo! Troppo facile spiegare i rapporti tra gli Stati e gli affari tra le imprese dei vari Paesi del pianeta con la logica del potere sistemico e del profitto! Volevo fare dell’ironia: ci sono riuscito?

L’economia iraniana appare insomma sempre sul punto di decollare verso un grande boom (fattori di varia natura premono in quel senso)[3], ma diversi problemi strutturali e politici impediscono all’aereo di prendere il volo diretto ai piani alti del Capitalismo mondiale, una destinazione che pure sarebbe alla portata di un Paese che peraltro vanta un antichissimo e luminoso retaggio storico. Un punto molto debole di quell’economia è senz’altro la penuria di investimenti diretti esteri in Iran, che si spiega in larga parte con il ruolo di potenza regionale che il Paese vuole giocare a tutti i costi; una legittima aspirazione che lo porta sovente a cozzare contro gli interessi dell’imperialismo occidentale e dei suoi alleati regionali. Beninteso, all’avviso di chi scrive quell’aspirazione è legittima allo stesso titolo delle aspirazioni dei Paesi concorrenti: dal punto di vista antimperialistico tutte le vacche capitalistiche, piccole o grandi che siano, appaiono nere e meritevoli di finire al macello della rivoluzione sociale. La quale, ahimè, non ne vuole sapere di apparire sulla scena della tragedia.

Pur con tutti i limiti qui sommariamente evidenziati, l’economia iraniana è molto integrata nella divisione internazionale del lavoro, e una sua più piena partecipazione alle dinamiche del mercato mondiale appare ormai come prossima. Salvo devastanti crisi politico-sociali, le quali d’altra parte trovano terreno fertile nell’attuale struttura capitalistica dell’Iran e negli assetti di potere che sono venuti fuori dalla cosiddetta Rivoluzione Islamica.

Scriveva tre anni fa Eugenio Fatigante sull’Avvenire a proposito della struttura economica del Capitalismo iraniano: «C’era una volta la Rivoluzione. Islamica e, sulla carta, socialista.[4] Come tutte le rivoluzioni, però, dello spirito del ’79 è rimasto ben poco nell’Iran di oggi. All’epoca dello Scià un centinaio di famiglie cortigiane dei Pahlevi controllavano l’80% dell’economia locale. Oggi più o meno la stessa percentuale è in mano al lato oscuro degli ayatollah e dei fedeli Guardiani della rivoluzione. Si chiamano Bonyad e sono il vero prodotto doc iraniano, quanto il caviale: un coacervo di religione e pragmatismo affaristico che controlla le leve del potere e il 60% della capitalizzazione della Borsa di Teheran. È la cosiddetta Pasdaran Economy, basata su un labirinto di Fondazioni (come tali esentasse) che negli anni han fatto man bassa dei beni della corona imperiale e delle famiglie benestanti: oggi è divenuto il loro patrimonio, che utilizzano per nuovi affari e per una rete fittissima di donazioni, posti di lavoro e sussidi, necessari per mantenere il potere con metodi clientelari e con un anomalo Welfare state».[5] Questo incredibile intreccio di interessi economici e politici ci fa capire quale è la posta in gioco in Iran e come sia difficile sostituire l’attuale regime con un altro di diverso orientamento politico-ideologico. Per quanto mi riguarda, un regime (capitalistico) vale l’altro, in Iran come nel resto del mondo, e personalmente trovo risibile ogni discorso circa la necessità di sostenere in quel Paese una “rivoluzione democratica e popolare” in attesa che maturino le condizioni per una rivoluzione sociale “pura”. Lascio ai teorici delle “doppie rivoluzioni” questi insulsi discorsi. Tutto invece lascia supporre che le classi subalterne verseranno ancora molto sangue per combattere guerre volute dai loro nemici di classe per difendere e possibilmente ampliare un potere che, come abbiamo visto, si fonda su enormi interessi economici.

2. Ieri

Alla fine degli anni Settanta del secolo scorso vennero al pettine in Iran tutte le gigantesche contraddizioni e i fortissimi limiti di una “rivoluzione capitalistica dall’alto”, iniziata intorno al 1962 per impulso diretto del regime monarchico; una “Rivoluzione bianca” intesa a modernizzare il Paese a ritmi accelerati senza però troppo incrinare i vecchi assetti di potere (inclusa la preziosa funzione sociale svolta dal clero sciita, sebbene esso fosse stato pesantemente penalizzato sul terreno economico dalla riforma agraria) né mettere in discussione la collocazione geopolitica della moderna Persia, ormai da decenni saldamente ancorata all’Occidente.

Già negli anni Trenta lo Scià Reza Pahlavi aveva tentato una prima modernizzazione/laicizzazione forzata del Paese, espropriando le proprietà dei notabili Qajar e intaccando rapporti sociali feudali che arricchivano il clero sciita. Negli anni Cinquanta il Primo ministro Mohammad Mossadeq, il «nazionalista mistico», continuò l’opera di modernizzazione capitalistica attraverso la nazionalizzazione dell’industria petrolifera allora controllata dalla Anglo-Persian Oil Company, cosa che gli valse l’ostilità del Regno Unito e degli Stati Uniti. La produzione e l’esportazione di petrolio crollarono immediatamente. Altre riforme politiche e sociali privarono il governo di Mossadeq dell’appoggio del clero sciita e delle componenti politico-sociali che in precedenza lo avevano sostenuto ma che dopo la nazionalizzazione del maggio ‘51 temevano una modernizzazione troppo spinta del Paese. Come conseguenza di un fallito colpo di Stato tentato il 16 agosto 1953 lo Scià Mohammad Reza Pahlavi fu costretto a fuggire dal paese e a riparare a Roma. Un secondo colpo di Stato, attuato tre giorni dopo, ebbe invece successo e mise fine alla breve ma intensa stagione riformista di Mossadeq; il nuovo governo presieduto dal generale Zahedi sottoscrisse un accordo con le principali compagnie petrolifere del tempo (Consorzio delle Compagnie petrolifere: le mitiche Sette sorelle), accordo che sradicò il precedente monopolio della Anglo-Persian Oil Company. Lo Scià ritornò dall’esilio e affidò a uno Stato totalitario e potentemente centralizzato l’opera di svecchiamento definitivo del Paese. Entrambi i colpi di Stato del 1953 furono chiaramente voluti e sostenuti da Washington, che tra l’altro approfittò dell’”aiuto fraterno” offerto a Londra per prenderne il posto come prima potenza imperialista in Iran e in tutto il Medio Oriente. Mai fidarsi degli “aiuti fraterni”!

La società iraniana uscì letteralmente sconvolta dalla seconda “rivoluzione”, soprattutto a causa della riforma agraria varata nel 1963, la quale allontanò dalle campagne milioni di contadini poveri che si riversarono nei centri urbani del Paese per formarvi un esercito industriale a disposizione delle necessità dell’industrializzazione e della stessa urbanizzazione. Negli anni Cinquanta e Sessanta il 60% della popolazione viveva nella campagna iraniana. Il 15 giugno del ’63 l’esercito iraniano fece fuoco con obici e mitragliatrici sui manifestanti che chiedevano pane e lavoro, uccidendone più di 4.000.

Le città si riempirono a un ritmo vertiginoso di milioni di ex contadini, soprattutto giovani, che non riuscivano a trovare un impiego e che solo nelle “caritatevoli” organizzazioni religiose riuscivano a trovare un qualche conforto materiale e spirituale. Il controllo sociale, com’è noto, ha mille volti, compreso quello barbuto del Misericordioso Mullah. Inutile dire che l’ingerenza della “mano pubblica” nella sfera economica creò una diffusissima rete di corruzione sociale, la quale venne usata dai mullah per esacerbare il rancore degli strati più poveri del proletariato in chiave antimonarchica.

A capodanno del 1978 il Presidente americano Jimmy Carter ebbe l’ardire di dichiarare durante il tradizionale brindisi di fine anno offerto dallo Scià che l’Iran rappresentava un modello di stabilità per tutto il Medio Oriente. Chissà cosa pensò di quelle parole un Pavone ormai ampiamente spennacchiato e prossimo alla fuga più vergognosa. Nel febbraio del 1979, quando la radicalizzazione dello scontro sociale divenne inarrestabile (già ad agosto del ’78 lo Scià fu costretto a promettere «elezioni libere» per il giugno dell’anno successivo), anche i partiti laici, e persino l’Amministrazione americana, si convinsero che puntare sul cavallo chiamato Khomeini fosse la sola opzione possibile per tenere sotto controllo una società in preda a convulsioni e a tensioni di estrema gravità, tali da far temere alle forze antimonarchiche un esito autenticamente rivoluzionario della crisi. La fugace apparizione sulla scena politica del Paese di Sciapur Bakhtiar, dimessosi precipitosamente dal governo all’arrivo trionfale di Khomeini dall’esilio francese, dimostrò che non era possibile una soluzione “convenzionale” (di stampo occidentale) della crisi generale che investiva l’Iran. È anche bene ricordare come solo nel 1978, dinanzi al dilagare delle manifestazioni, l’alto clero sciita iniziò a staccarsi definitivamente dal regime monarchico, dopo averlo supportato più o meno apertamente per decenni e aver contribuito per secoli alla passività delle classi subalterne.

La cosiddetta “rivoluzione islamica” del febbraio 1979 parve insomma surrogare/prevenire una potenziale rivoluzione sociale – resa peraltro impossibile dall’assenza in Iran, come peraltro ovunque nel mondo, di soggetti politici autenticamente rivoluzionari in grado di avere una certa influenza almeno su una parte del proletariato urbano e dei contadini poveri, allora molto numerosi in quel Paese. Ben presto il clero sciita si autonomizzò nei confronti del blocco “laico-socialista” che si era illuso di poter governare il Paese senza la sua ingerenza politica, e prese nelle proprie mani tutte le leve del potere (economico, politico, ideologico), schiacciando brutalmente i partiti che per decenni avevano combattuto il regime di Reza Phalavi. «Khomeini non è un uomo politico: non ci sarà un partito di Khomeini, non ci sarà un governo di Khomeini. Khomeini è il punto di incontro di una volontà collettiva»: così si era espresso Michel Foucault. Sappiamo com’è andata a finire. Come recita il Corano, «L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità».[6] Verità che nel caso di specie si “declina” in termini rigorosamente classisti, al netto della fuffa ideologica dai contorni pseudo religiosi che l’avvolge. Che una repressione violentissima volta a ripristinare l’ordine sociale assuma l’aspetto di una “rivoluzione” (ancorché Islamica) è un falso paradosso che può stupire solo chi non ha chiara la natura sociale degli eventi che si dipanano sotto i suoi occhi. Noi italiani non parliamo forse, mutatis mutandis, di “Rivoluzione Fascista”?

Le organizzazioni di estrema sinistra presenti in Iran inquadrarono gli avvenimenti che scuotevano il Paese all’interno dello schema, ormai storicamente superato, della rivoluzione democratica e antimperialista, dimostrando così la loro estraneità a un’autentica posizione anticapitalista. Per quanto strutturalmente ancora debole e legato a doppio filo all’imperialismo occidentale, il capitalismo si era ormai radicato in profondità nel Paese, mettendo definitivamente in crisi i vecchi rapporti sociali basati sulla rendita fondiaria. L’Iran del 1979 non era la Russia del 1917, né la funzione dello Scià era assimilabile a quella dello Zar. Rimanendo nel quadro delle cose contingentemente possibili, in quel Paese non c’era all’ordine del giorno una rivoluzione democratico-nazionale, ma una modernizzazione capitalistica che permettesse al Paese di superare le vecchie e le nuove contraddizioni. Investire anche solo una parte della borghesia iraniana (e del clero sciita!) di una seppur residuale «missione storica progressiva» non solo era infondato sul piano dell’analisi storica, ma soprattutto creava le premesse per una totale subordinazione delle presunte forze rivoluzionarie agli interessi dello status quo sociale. Scenario che infatti si realizzò. La sanguinosa repressione che colpì quelle forze rese evidente la loro incapacità di analisi, incapacità che aveva creato in esse illusioni davvero risibili ma pienamente conformi alla loro ideologia piccolo borghese.

È un fatto che le preziose energie che il proletariato iraniano seppe dispiegare nel biennio 78-79 non ottennero l’effetto di creare un terreno fertile all’autonomia di classe, con la formazione di organismi politici, sindacali e culturali legati agli interessi immediati e strategici delle classi subalterne. Quelle energie andarono disperse o, peggio ancora, furono usate dalle forze della conservazione sociale, non importa se in guisa laica o clericale. Ma ciò testimoniò anche, se non soprattutto, la debolezza politica e sociale del proletariato mondiale, completamente assente sulla scena storica grazie soprattutto al nefasto lavoro dello stalinismo internazionale.

Dal canto loro i partiti antimonarchici che si contendevano la leadership politica del Paese cercarono di usare i “rivoluzionari” come massa d’urto da lanciare contro il vecchio regime ma badando che il movimento sociale rimanesse sui binari di un mero cambiamento di regime politico, che alla fine ci fu. Insomma, solo il clero sciita si dimostrò all’altezza della situazione, dimostrando ancora una volta come la necessità storica spesso lavori con grande creatività politica e ideologica.

Sviluppo “ordinato” dell’economia, forte e capillare controllo sociale, proiezione del Paese nello scenario internazionale, conquista della leadership in Medio Oriente: dalla fine della guerra con l’Iraq (1980-1988) la “democrazia confessionale” degli ayatollah ha cercato di perseguire tutti questi obiettivi. Lungi dal ripristinare i vecchi rapporti sociali, impresa d’altra parte impossibile, il clero sciita si è posto al servizio dello sviluppo capitalistico del Paese, nei modi più conformi al suo nuovo assetto politico-istituzionale e alla sua nuova collocazione nello scacchiere imperialistico. C’è da dire, per concludere, che cacciati dal Paese gli assistenti americani, l’industria petrolifera iraniana si rivolse soprattutto al Giappone, alla Germania e all’Italia per ricevere gli aiuti indispensabili per riavviare la produzione e riprendere le esportazioni di greggio. L’aiuto arrivò, e ciò mise l’Iran nelle condizioni di portare avanti la lunga e sanguinosissima guerra contro l’Iraq, Paese sostenuto dall’Arabia Saudita e dall’Egitto. Detto en passant, la guerra Iran-Iraq favorì la strana alleanza di fatto tra Iran e Israele, entrambi interessati a frenare le ambizioni del blocco sunnita.

[1] «Oggi per la prima volta le donne saranno ammesse negli stadi in Arabia Saudita. La notizia viene riportata da Arab News» (Ansa). Una notizia davvero epocale! Ho la pelle d’oca! Scherzo, ovviamente. D’altra parte tutto è relativo, come diceva quello. «La decisione era stata annunciata lo scorso 29 ottobre, nell’ambito del processo di riforme avviate dal giovane principe ereditario Muhammad ben Salman».
[2] «L’obiettivo dell’Iran in Afghanistan, sostengono diversi analisti, è contare sempre di più, mantenendo il governo afghano debole, in due modi: aumentando la sua influenza nelle province occidentali afghane, vicine al suo confine, come Farah e Herat; e sostenendo i talebani, che si oppongono anche alla presenza in Afghanistan degli americani e dello Stato Islamico, entrambi nemici dell’Iran. In questo senso è difficile dire se e quanto l’uccisione di Mansour abbia indebolito gli interessi iraniani in Afghanistan. Certamente l’Iran ha perso un importante interlocutore, ma il successore di Mansour, Hibatullah Akhundzada, non ha mostrato finora di avere intenzione di rompere i legami con il governo iraniano. Di certo c’è che l’atteggiamento futuro del Pakistan verso i talebani, e la collaborazione tra il governo pakistano e americano, saranno elementi che condizioneranno il tentativo dell’Iran di farsi largo in Afghanistan» (Il Post).
[3] «La composizione demografica della popolazione, l’alto livello di alfabetizzazione e istruzione (più del 60% degli abitanti ha meno di 30 anni), la posizione geografica strategica (crocevia tra oriente e occidente), e la presenza di una rete sufficientemente sviluppata di infrastrutture, trasporti e telecomunicazioni, sono ulteriori punti di forza del contesto economico iraniano» (Ministero degli Esteri Italiano).
[4] Ovviamente Fatigante quando scrive «socialismo» intende in realtà parlare del Capitalismo di Stato in salsa iraniana promesso quarant’anni fa dal misericordioso clero sciita alle masse diseredate del Paese. Sul “socialismo islamico” avevano nutrito molte – e pietose – illusioni anche gli stalinisti del Tudeh prima che finissero sotto il tallone di ferro della Repubblica Islamica. Ecco ad esempio ciò che dichiarò a un settimane statunitense un dirigente di quel partito per spiegare l’appoggio accordato dai “comunisti” iraniani all’idea avanzata da Khomeini di creare un Consiglio della rivoluzione islamica:  «La religione sciita ha radici democratiche ed è sempre stata legata alle forze popolari nazionali anti-imperialiste. Credo che non ci sia differenza fondamentale tra il socialismo scientifico e il contenuto sociale dell’Islam. Al contrario ci sono molti punti comuni». Ricordo che nelle tempestose giornate del ’79 iraniano anche molti “comunisti” italiani si produssero in stravaganti ipotesi circa la possibilità di mettere insieme l’islamismo sciita (la «religione degli oppressi») e il “marxismo” (la “coscienza degli oppressi”). C’è anche da dire che nei confronti della parola consiglio (Soviet della rivoluzione islamica!) molti “comunisti” manifestano un alto tasso di feticismo, confermando la tesi di chi sostiene la natura magica di certe parole per certe persone.
[5] Un’inchiesta del 2013 della Reuters ha fatto luce sulla Setad, il mega-colosso finanziario iraniano, controllato direttamente dalla Guida Suprema dell’Iran, l’Ayatollah Ali Khamenei. «L’immagine al Paese e al mondo è quella sobria, ma la Guida suprema della Repubblica Islamica controlla un impero economico da 95 miliardi di dollari, oltre 70 miliardi di euro, una cifra ben superiore alle esportazioni petrolifere annuali dell’Iran. Nata per fini caritatevoli, nel corso del tempo la società Setad avrebbe cambiato volto, diventando il braccio armato dei vertici dell’Iran e gonfiandosi di partecipazioni private e pubbliche nei settori più delicati anche dal punto di vista geopolitico» (formiche.net).
[6] Allora avevo diciassette anni e le notizie che venivano dall’Iran mi riempivano di entusiasmo “rivoluzionario”; quando poi Khomeini ordinò alle milizie sciite di regolare i conti con gli ex alleati appartenenti alle diverse tendenze politiche antimonarchiche ci rimasi davvero male. Ricordo che un giorno il mio professore di religione, peraltro persona simpaticissima (in pagella mi dava il massimo dei voti!), mi avvicinò lentamente come un serpente per sussurrarmi all’orecchio la seguente velenosa frase: «Sebastiano, devi rassegnarti, le rivoluzioni vanno a finire tutte così, cioè male». Non seppi come replicare e mi nascosi dietro un sorriso di circostanza. Solo qualche mese dopo fui comunque in grado di impartirgli una circostanziata ricostruzione storico-politica degli eventi iraniani che metteva in luce la vera natura sociale della cosiddetta Rivoluzione Islamica. «Sebastiano», obiettò il prete professore, «non mi hai affatto convinto». E mi prestò un libro il cui autore cercava di mettere insieme religione e marxismo. «Dimmi che ne pensi». Lo lessi e scoprii la fulminante frase che mi portò sul campo del “marxismo”: «Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità». Grazie, Padre Papotto!

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PER TUTTI I REGENI DEL MONDO

Leggo su l’Huffington Post: «Un mare di sospetti. Affari e geopolitica. Armi e petrolio. Pugnalate alle spalle dei “fratelli coltelli” europei e di gole profonde di oltre Oceano. Interviste “sospette”, pilotate per chiudere il caso, e raìs senza scrupoli che in cambio del contenimento dei migranti chiedono miliardi di dollari oltre che il silenzio assoluto sui crimini interni. Libia ed Egitto. Lager e Regeni». Su Affari Internazionali il concetto appena delineato si chiarisce in tutta la sua cinica pregnanza: «C’è un convitato di pietra, a cui ogni tanto si accenna quando si parla dell’assassinio di Giulio Regeni. È una parola all’apparenza rassicurante, e allo stesso tempo saggia. Stabilità. È la stabilità dell’Egitto alla quale dobbiamo guardare con estrema attenzione, nel nostro delicato ruolo politico nel Mediterraneo. È la stabilità dell’Egitto che ci proteggerà dall’attacco dell’autoproclamatosi “stato islamico”. È la stabilità del più importante Paese della costa settentrionale dell’Africa che dobbiamo proteggere, per tutte le ragioni politiche, economiche, strategiche che toccano l’Italia: la crisi libica, le migrazioni, il contenimento dell’integralismo di marca islamista. La stabilità è la nostra trincea e per mantenerla dobbiamo ingoiare bocconi amari. La Realpolitik è razionale, seria. La ricerca di verità e giustizia sul caso Regeni è carica di troppo idealismo». È, mutatis mutandis, la stessa stabilità politico-sociale che la Cina vorrebbe imporre in Venezuela e in tutti i Paesi dell’America Latina per creare un ambiente meno “volatile” e precario per i suoi cospicui investimenti colà indirizzati. Il valore della stabilità non sarà mai apprezzato nel modo corretto dagli “idealisti”, ai quali sfugge la realtà degli interessi e dei rapporti di forza.

Anche Fulvio Scaglione spezza una lancia a favore della realpolitik: «Al resto del mondo del “caso Regeni” non importa nulla. Ce lo dimostrò, nelle settimane successive alla morte di Giulio, il buon François Hollande, socialista francese, che corse al soccorso di Al Sisi con prestiti e nuovi trattati commerciali, ansioso di prendere il posto dell’Italia nei rapporti bilaterali. Nel caso dell’Egitto occorre purtroppo conciliare il dramma e lo sdegno della famiglia Regeni e di tutti coloro che hanno sete di giustizia con l’interesse dell’intero Paese. E questo non può non valutare l’influenza del regime di Al Sisi sulla situazione della Libia (l’Egitto è un grande sponsor del generale Al-Haftar), migranti compresi, e le relazioni economiche tra i due Paesi. A partire magari dal settore energetico e dalla scoperta in acque egiziane, due anni fa, da parte dell’Eni, del più grande giacimento di gas del mondo» (Linkiesta). Chi analizza e riflette ciò che accade nel vasto e capitalistico mondo dal punto di vista degli interessi nazionali (o “del Paese”) non può che condividere questa realistica impostazione.

Gianandrea Gaiani (Analisi Difesa) augura all’Italia un tonificante bagno pragmatico  e avanza il sospetto dell’odioso complotto ai danni del nostro Paese: «In un paese come l’Egitto dove la tortura è legale e centinaia di oppositori scompaiono nel nulla chi aveva interesse a far ritrovare il corpo di Regeni con addosso i segni inequivocabili della tortura nella rotonda più trafficata del Cairo? Solo chi avesse voluto creare un muro nei rapporti tra Italia ed Egitto. […] Chiudere le relazioni diplomatiche con l’Egitto non ci ha dato la verità su Regeni ma ha svantaggiato l’Italia su tutti i fronti in cui i rapporti con al-Sisi hanno un valore strategico, dall’energia alla crisi libica. Meglio non dimenticare che l’Eni ha scoperto al largo di Alessandria un gigantesco giacimento di gas. Non a caso i nostri “alleati/competitor” europei hanno approfittato della crisi con l’Egitto per accaparrarsi un po’ di contratti. Incluso il settore delle armi per le forze egiziane dove l’Italia sembrava in pole position dopo gli incontri tra Renzi e al-Sisi, prima dell’omicidio Regeni e invece il business è andato a francesi e russi». Gaiani ricorda poi che altri cittadini europei sono finiti nella rete dei servizi segreti egiziani: «il caso più importante è forse quello del francese Eric Lang morto all’interno di un commissariato di polizia egiziano. Parigi ha più volte protestato e chiesto giustizia ma senza mai interrompere i contatti col Cairo che dalla Francia ha comprato negli ultimi anni (solo nel settore militare) navi da guerra e cacciabombardieri per 6 miliardi di euro. Non si tratta di accettare violenze, soprusi e omicidi di connazionali in cambio di affari ma di affrontare la questione con pragmatismo e sono in molti a non voler il ritorno di ottimi rapporti tra Roma e Il Cairo, specie a Parigi». Un po’ di sano pragmatismo insomma non guasterebbe, anche perché un eccesso di idealismo rischia di compromettere seriamente e per molto tempo i nostri interessi nazionali avvantaggiando quelli dei nostri «alleati/competitor». Urge chiudere in qualche modo il “caso Regeni”!

Paolo Mastrolilli (La Stampa) illumina un altro aspetto della vicenda: «Una seconda fonte del settore d’intelligence è convinta che Regeni sia stato vittima di una “turf war” fra gli apparati egiziani, in sostanza una guerra interna tra i vari servizi di sicurezza. In questo quadro, la morte di Giulio è stata usata da qualcuno per “scoring points”, cioè segnare punti a danno dei suoi avversari. Al Sisi voleva dare una lezione, e l’arresto del ricercatore italiano rientrava in questo obiettivo. Invece il suo omicidio, e poi l’abbandono del cadavere in strada allo scopo evidente di farlo ritrovare, sono serviti ai responsabili per rendere pubblica la sua tragedia e farne ricadere la colpa sui rivali. Il governo degli Stati Uniti aveva ottenuto le prove “humint” di questa verità, cioè intelligence umana. In altre parole, rivelazioni ricevute da informatori interni agli apparati egiziani, considerati credibili e affidabili. […] Di sicuro l’allora segretario di Stato Kerry era a conoscenza dei dettagli, e li rinfacciò direttamente al collega egiziano Sameh Shoukry, durante un incontro molto teso avvenuto nell’aprile del 2016, a margine del vertice nucleare che gli Usa avevano ospitato a Washington. Il capo della diplomazia americana disse al collega che il caso Regeni era diventato una seria complicazione nei rapporti bilaterali, perché gli Stati Uniti non potevano accettare che i civili di paesi alleati fossero trattati in questa maniera. Davanti alle obiezioni e le smentite di Shoukry, Kerry aveva risposto che l’intelligence americana aveva le prove inconfutabili della responsabilità dei servizi egiziani nell’uccisione di Giulio. Quindi aveva detto che l’unica soluzione accettabile per gli Usa era l’arresto e la punizione dei colpevoli. Questo non è mai accaduto, ma le fonti americane restano convinte che gli egiziani possano farlo». È davvero commovente osservare la prima potenza imperialista del pianeta ergersi a paladina della “verità” e della “giustizia”, sebbene orientate in senso geopolitico: Guantanamo, e non solo, insegna. Gli Stati Uniti non possono accettare che i civili di paesi alleati siano «trattati in questa maniera»: il destino dei civili nati sotto una diversa costellazione imperialistica non è cosa che possa riguardarli. Anche il “senso di umanità” deve dunque inchinarsi dinanzi alla geopolitica. Come sempre invito alla riflessione critica, non all’indignazione moralistica che sovente porta acqua al mulino di una delle parti in competizione, mentre si tratterebbe di far saltare in aria l’intero gioco.

La terribile – ma tutt’altro che eccezionale – vicenda toccata in sorte a Giulio Regeni è insomma finita nel tritacarne degli interessi economici, geopolitici e politici. Com’era d’altra parte inevitabile che accadesse, come nel mio infinitamente piccolo ho cercato di dire fin dall’inizio:

«In ogni caso, personalmente non ho bisogno di vedere i volti – veri o presunti – di chi ha materialmente massacrato «il nostro ragazzo» per condannare senza appello il vero colpevole dell’odioso crimine: il Sistema Mondiale del Terrore (o società capitalistica mondiale che dir si voglia), di cui fanno parte a pieno titolo l’Italia e l’Egitto. Il resto è ricerca del capro espiatorio di turno, cinico accomodamento diplomatico, gestione del potere, propaganda, geopolitica, business, giustizia amministrata per conto dello status quo sociale. Tutto il male del mondo che la madre di Giulio ha visto sul volto martirizzato del figlio è esattamente il vero volto di quel Sistema. Chiedere “giustizia” per Giulio e per tutte le vittime del Moloch può avere dunque, per chi scrive, un solo significato umano e politico: rompere con la logica e con la retorica “del mio Paese” e della “dignità nazionale”. Tanto per cominciare. Impostato il problema nei suoi corretti termini, la stessa richiesta di una “Verità per Giulio” assumerebbe il pregnante significato di una denuncia del regime italiano e del regime egiziano, in particolare, e del regime internazionale delle relazioni interimperialistiche in generale. Dinanzi agli interessi del Capitale e degli Stati la vita umana appare del tutto sacrificabile: lo chiamano “effetto collaterale”. Un movimento d’opinione orientato in quel senso non sarebbe un obiettivo politico disprezzabile, mi sembra. Lo so benissimo, la cosa appare quantomeno “problematica”, e tuttavia…» (Tutto il male del mondo. Quale verità per Giulio Regeni?). «Un massacro in più o in meno non può certo cambiare il mio giudizio su ciò che ho definito il Sistema Mondiale del Terrore (*), concetto che spiega anche la strage di San Pietroburgo. A suo tempo anche Giulio Regeni sperimentò la crudeltà di questo mostruoso sistema terroristico che sfrutta e uccide; tutti i Paesi del pianeta ne sono parte organica, sebbene a vario titolo e con diverso peso specifico» (Un’umanità gasata).

Per capire il mio approccio con il “caso Regeni” è indispensabile sapere che la nazionalità di Giulio mi lascia del tutto indifferente: la sua morte ai miei occhi non è “qualitativamente” diversa da quella di migliaia di giovani egiziani che nel corso degli anni sono “scomparsi” (magari dopo atroci torture) nella più totale indifferenza delle stesse persone che oggi reclamano per la sua terribile vicenda “verità” e “giustizia” solo perché c’è di mezzo l’onore e il prestigio del nostro Paese. Per me la morte di un italiano “pesa” esattamente quanto quella di un egiziano, o di un siriano, o di un libico, insomma di un Giulio Regeni qualsiasi nato in un luogo qualsiasi di questo mondo sempre più violento e disumano. Piango gli offesi, i torturati e gli assassinati senza prima controllare il loro colore della pelle, la loro fede religiosa, la loro nazionalità: mi basta e avanza sapere che degli esseri umani sono stati sacrificati sull’altare di interessi che nulla a che fare hanno con un assetto umano della nostra vita, oggi appunto negato nel modo più ottuso e nichilista. So benissimo che il punto di vista dei genitori di Giulio è completamente diverso dal mio; ma qui si tratta del mio punto di vista, non del loro.

Personalmente trovo rivoltante (ma non inaspettato!) il modo in cui l’Italia, i suoi “alleati” occidentali e mediorientali e i partiti di casa nostra stanno usando l’affaire Regeni per acquistare vantaggi e assestare colpi all’avversario, e di certo la legittima domanda di verità e giustizia deve necessariamente prestare il fianco alla strumentalizzazione da parte del Sistema Mondiale del Terrore se non tiene conto della natura sommamente disumana di questo Sistema.

* Ho elaborato questo concetto con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo. Rimando al post La radicalizzazione del Male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

MARCINELLE 1956, MEDITERRANEO 2017. UNA FACCIA, UNA DISGRAZIA

Ni chiens, ni italiens!

Né cani, né africani!

Né cani, né africani, né omosessuali!

Né cani, né africani, né omosessuali, né…

 

Com’è noto, nell’immediato dopoguerra l’Italia siglò con il Belgio un accordo che prevedeva quote di carbone estratto nelle miniere di quel Paese in cambio di manodopera italiana, a testimonianza del fatto che, come diceva l’uomo con la barba, nel Capitalismo «il lavoro-merce è una tremenda verità». Scriveva Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 16 agosto 2016: «Eravamo Poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce». Marxianamente parlando quest’ultima frase andrebbe riscritta come segue: uno scambio di uomini ridotti a merce con altra merce (materia prima); capitale/lavoro vivo (il mitico “capitale umano”) contro capitale/lavoro morto.

Leggo da qualche parte: «L’8 agosto 1956 nella miniera del Bois du Cazier, in Belgio un incendio causò la morte di 262 minatori di cui 136 italiani. La miniera di Marcinelle è diventata un simbolo e un santuario della memoria per tutti gli emigranti italiani che hanno perso la vita sul lavoro, spesso un lavoro duro, faticoso e pericoloso». La ricostruzione postbellica non fu esattamente un pranzo di gala, da nessuna parte. Ebbene, l’Italia ha fatto di quelle vittime del Capitale e degli interessi nazionali degli eroi, dei soldati-minatori caduti sul fronte del lavoro per mantenere alto l’onore e il prestigio della Nazione: «La memoria di questo tragico evento, che nel nostro Paese celebriamo come Giornata del Sacrificio del lavoro italiano nel mondo [che definizione fascistissima!], deve servire da guida per noi e per i nostri figli. Le nostre comunità all’estero non sono solo viste come destinatarie di servizi, ma anche e soprattutto come una componente essenziale della politica estera dell’Italia». Queste le dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario agli Affari Esteri, Vincenzo Amendola, nel corso della commemorazione delle vittime di Marcinelle. Per quanto mi riguarda la nazionalità di quei salariati uccisi dai rapporti sociali capitalistici non ha alcuna importanza; «Non dimenticare Marcinelle» per me non significa in alcun modo sostenere le politiche di chi cerca di gestire le contraddizioni sociali ai fini della difesa dello status quo sociale implementando una strategia “buonista” («Gli immigrati fanno i lavori che noi italiani non vogliamo più fare, frenano il calo demografico nel Paesi ricchi e ci pagano le pensioni!»); né significa, ovviamente, tessere l’elogio dell’immigrato italiano “buono” (come i macaronìs!) che sgobbava senza lamentarsi – mentre i negracci che purtroppo riescono a sopravvivere al deserto, ai carnefici dei lager libici e ai pesci del Mediterraneo non hanno voglia di fare nulla di costruttivo!

Il 61esimo anniversario della strage di Marcinelle, celebrato lo scorso 8 agosto, ha offerto ai “buonisti” e ai “cattivisti” che si disputano la scena politica nazionale un’eccellente occasione per esibirsi dinanzi al pubblico dei rispettivi tifosi e detrattori. Come abbiamo visto il fronte buonista ha avuto i suoi campioni nel Presidente della Repubblica Sergio Mattarella («Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione, hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza . È un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri Paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione Europea»), nel Ministro degli Esteri Angelino Alfano («La tragedia di Marcinelle ci dà ancora oggi la forza di lavorare per un’Europa più coesa e solidale, come l’avevano immaginata i padri fondatori. Un’Europa che trae origine e sostanza dal genuino spirito di fratellanza fra i suoi popoli. Mi riferisco in particolare al flusso continuo di migranti disperati che oggi, come allora, cadono troppo spesso vittime») e, dulcis in fundo (ma si fa solo per dire), nell’immancabile Presidente (o Presidenta? o Presidentessa?) della Camera Laura Boldrini: «L’anniversario della tragedia di Marcinelle ci ricorda quando i migranti eravamo noi. Oggi più che mai è nostro dovere non dimenticare». Non dimenticare cosa esattamente? E «noi» e «nostro» in che senso? Ad esempio, chi scrive cosa ha da spartire con i campioni del buonismo appena citati? La nazionalità? Non c’è dubbio; ma è, questo, un connotato anagrafico che sempre chi scrive respinge sul terreno della lotta (si fa quel che può!) anticapitalistica, la quale, come ho già accennato, dissolve ogni appartenenza nazionale, razziale, religiosa e quant’altro per porre al centro dell’attenzione la disumana prassi del Dominio, la maligna entità storico-sociale che rende possibile anche le carneficine, in tempo di guerra come in tempo di – cosiddetta – pace. È questo d’altra parte il filo nero che lega la Marcinelle del 1956 al Mediterraneo del 2017. Ovviamente e come sempre, mutatis mutandis.

Cambiando dunque l’ordine cronologico delle stragi, il colore della pelle degli sventurati e il contesto storico/geopolitico degli eventi qui evocati, il risultato non cambia. E si chiama Capitalismo, la cui dimensione oggi è mondiale. La spinta migratoria che origina soprattutto nell’Africa subsahariana ha moltissimo a che fare con le dimensioni e con la natura invasiva del Capitalismo, il quale genera “scompensi”, magagne e contraddizioni sia là dove esso per così dire abbonda (vedi il cosiddetto Nord del mondo), sia là dove invece esso è asfittico e tarda a decollare, e questo, nella fattispecie, soprattutto a cagione della prassi colonialista e imperialista che vide protagonisti alcuni Paesi europei già a partire dalla fine del XV secolo. L’ineguale sviluppo del Capitalismo ha sempre creato onde di pressione sociale che coinvolgono l’intero pianeta, e che possono manifestarsi anche sottoforma di migrazioni di massa, un fenomeno che, come impariamo fin dalle scuole elementari, se osservato dalla prospettiva storica non ha in sé nulla di eccezionale: il bisogno spinge i popoli a muoversi, da sempre. Oggi questo processo sociale si dispiega nell’epoca caratterizzata dal totalitario dominio dei rapporti sociali capitalistici, e questo connotato storico-sociale gli conferisce la peculiare fenomenologia che ci sta dinanzi.

Ma ritorniamo a Miserabilandia! Dei buonisti abbiamo già detto. Immediata è scattata la rappresaglia dei cattivisti, i quali si sono prodotti nel solito coro: «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». «Mattarella si vergogni», ha tuonato appunto il leader leghista Matteo Salvini. «È vergognoso – ha dichiarato Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda – che il presidente Mattarella nel ricordare la strage di Marcinelle paragoni gli italiani che andavano a sgobbare in Belgio o in altri Stati, dove lavoravano a testa bassa, dormendo in baracche e tuguri, senza creare problemi, agli immigrati richiedenti asilo che noi ospitiamo in alberghi [che invidia!], con cellulari, connessione internet [e io pago!], per farli bighellonare tutto il giorno e avere poi problemi di ordine pubblico, disordini, rivolte come quella avvenuta oggi nel napoletano dove otto immigrati minorenni hanno preso in ostaggio il responsabile della struttura che li ospita. Paragonando questi richiedenti asilo nullafacenti agli italiani morti a Marcinelle il presidente Mattarella infanga la memoria dei nostri connazionali. Si vergogni». Ecco appunto. Per il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato, «le parole di Matteo Salvini sono vergognose [ci risiamo!] perché offendono il Presidente Mattarella [e chi se ne frega!] e gli italiani»: nella mia qualità di disfattista rivoluzionario non mi sento offeso neanche un po’ dal vomito razzista che esce dalla bocca di Salvini e gentaglia simile. Questa è robaccia che può eccitare gli animi delle opposte tifoserie che siedono sugli spalti di Miserabilandia. Dal mio punto di vista buonisti e cattivisti pari sono, e rappresentano due opzioni interne all’esigenza di gestire i processi sociali e di controllare la società per garantire la continuità dello status quo sociale – sociale, non meramente politico-istituzionale.

Pare che anche qualche discendente delle vittime di Marcinelle si è sentito offeso dal buonismo presidenziale di Mattarella, da quello governativo di Alfano e da quello istituzionale della Boldrini: «Aldo Carcaci, figlio di un emigrato e oggi deputato belga, ha contattato IlGiornale.it dicendosi esterrefatto da quanto sentito in questa giornata di dolore. “Mi sento offeso dalle parole che ho sentito. Così come è offesa la memoria delle persone che hanno perso la vita nella miniera di Marcinelle. Paragonare quegli immigrati con quelli di oggi è sbagliato. Quando mio padre nel 1947 è andato in Belgio c’èrano degli accordi tra i due Paesi. C’era, da parte del Belgio, una richiesta di lavoratori. In Italia invece i giovani non hanno un impiego ed è quindi impensabile riuscire ad aiutare tutti i ragazzi africani che arrivano ogni giorno sulle nostre coste. Inoltre noi ci siamo integrati, abbiamo studiato, imparato la lingua e lavorato anche se subivamo episodi di razzismo”» (Il Giornale). Capito? Noi eravamo brava gente (e pure di pelle bianca, salvo qualche siciliano particolarmente abbronzato); loro invece…

Quanto escrementizia e risibile sia la disputa tra buonisti e cattivisti lo apprendiamo anche dalla discesa in campo dell’attore comico Jerry Calà («Capito?»): «Non paragoniamo i nostri emigrati per piacere! Loro chiusi in baracche da cui uscivano solo per lavorare e rientravano per farsi da mangiare. Mio zio è morto in Belgio nelle miniere per mantenere la famiglia italiana. Mi permetto di parlare perché ne sono parente e in quegli anni ci sono stato. In Svizzera, in Belgio, in Germania. Non facciamo paragoni assurdi per piacere! Gli emigranti italiani venivano trattati come animali da soma… pulitevi la bocca». Pare che l’indignazione dell’attore abbia riscosso un notevole apprezzamento in una non piccola parte di Miserabilandia.

Giustamente Francesco Cancellato (Linkiesta) considera «stucchevole e pedagogico sentirsi dire che dovremmo solidarizzare coi migranti perché un tempo lo siamo stati anche noi. Come se solo una pregressa condizione di sfruttati possa muoverci a pietà per una moltitudine di disperati in fuga dall’inferno. Come quando nei telegiornali una tragedia diventa tale solo se ci sono morti italiani». E soprattutto egli sottolinea le differenze che corrono tra la tragedia di Marcinelle e la strage continua dei «disperati in fuga dall’inferno», una differenza che, per così dire, porta acqua al mulino della moltitudine in fuga da guerre, fame, malattie, miserie d’ogni genere. Il paragone tra Marcinelle e il Mar Mediterraneo è tale da far impallidire i morti del 1956. Scrive Cancellato (il quale, beninteso, argomenta dal punto di vista degli interessi nazionali): «Nel 1956 eravamo alla vigilia di quello che oggi definiamo “miracolo economico italiano”, indotto dal Piano Marshall (sì, gli Stati Uniti ci aiutavano a casa nostra): nei quattro anni successivi, tra il 1957 e il 1960, per dire, la produzione industriale italiana crebbe del 31,4% e la crescita del Pil non scese mai sotto il 5,8%. Ritmi cinesi, insomma, per il quale c’era bisogno di materie prime come il carbone. Ed è proprio per quel carbone che fu firmato il protocollo Italo-Belga, dieci anni prima, nel 1946». In secondo luogo, «nel Canale di Sicilia, negli ultimi quindici anni, hanno perso la vita 30mila anime. Ripetetevelo nella mente: trentamila. Ci sono più cadaveri che pesci, in quel tratto di mare. Se vogliamo capire cosa provano quegli esseri umani che cercano di entrare in Europa – attraversando l’Italia – dal Canale di Sicilia, prendiamo la più grande tragedia della nostra stagione migratoria e moltiplichiamola per dieci, cento, mille, un milione. Magari servirà a farci capire a chi stiamo chiudendo le porte». In terzo luogo, «per convincere gli italiani a partire, nel 1946 l’Italia fu tappezzata di manifesti rosa che presentano i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore: salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato. Per quanto terribili fossero poi le loro condizioni di lavoro, una situazione un po’ diversa rispetto a quella delle migliaia di schiavi africani che ogni anno raccolgono pomodori e arance tra Puglia e Sicilia. Se pensate siano fenomeni imponderabili, sappiate che solo a raccogliere i pomodori, ogni anno, sono impiegati quasi 20mila braccianti, molti dei quali senza contratto, molti dei quali stranieri, molti dei quali irregolari». Su questo aspetto rinvio a due miei post: Rosarno e dintorni e Uomini, caporali e cappelli.

Scrive il “realista” Maurizio Molinari: «L’integrazione dei migranti è un test di crescita per ogni democrazia industriale, capace di rafforzarne la prosperità come di indebolirne la solidità, e l’Italia non fa eccezione. Ecco perché è opportuno affrontare senza perifrasi la sfida che abbiamo davanti, guardando oltre liti politiche interne e dispute internazionali. […] L’interesse dell’Italia è dotarsi di provvedimenti, leggi e politiche che rendano possibile [l’integrazione degli immigrati] sulla base di principi condivisi: non tutti i migranti che sbarcano possono rimanere perché una nazione sovrana non è una porta girevole, ma chi viene accolto deve poter intraprendere un cammino verso la cittadinanza che include l’integrazione nel sistema produttivo. Poiché coniugare integrazione e sovranità è una sfida nazionale per essere vinta necessita il coinvolgimento di tutte le forze politiche del Paese, che si trovino al governo o all’opposizione poco importa, e in ultima istanza il sostegno e l’attenzione di tutti i cittadini italiani, a prescindere dalle fedeltà di credo o di partito» (La Stampa). Un appello che ovviamente non può convincere (anzi!) chi lotta contro gli interessi nazionali (vedi anche il mio post sulla Libia) e per la costruzione dell’autonomia di classe, la quale è tale solo se prospetta a tutte le vittime del Capitale, a prescindere dal colore della loro pelle, dalla loro nazionalità, ecc., la necessità e l’urgenza di unirsi in un vasto fronte anticapitalista. Tutto il resto (“buonismo” e “cattivismo”) è miseria capitalistica.

Libia e continuità storica. Cambiando l’ordine cronologico dei regimi politico-istituzionali, il risultato non cambia. E si chiama IMPERIALISMO.

Cambiando l’ordine cronologico dei regimi politico-istituzionali, il risultato non cambia. E si chiama IMPERIALISMO.

 

Saranno pure prive di qualsivoglia fondamento e politicamente poco serie, come si è affrettato a liquidarle il Governo Gentiloni, ma le minacce scagliate contro l’Italia da quello che giornalisticamente passa come «l’uomo forte di Tobruk», ossia dal generale Kalifa Haftar, non è precisamente di quelle che si prestano a una diplomatica – e scaramantica! – alzata di spalle. D’altra parte l’opinione pubblica italiana, alle prese con il Generale Agosto che ordina ben altre operazioni di massa, andava prontamente rassicurata: fatto! Si tratta adesso di vedere se la buona sorte assisterà la “missione umanitaria” organizzata dal nostro Paese. In ogni caso vale la pena di ricordare le minacce che incombono sulla proverbiale inclinazione “pacifista” e “umanitaria” del nostro imperialismo: «Kalifa Haftar in tarda serata ha ordinato alle sue forze di bombardare le navi italiane, secondo quanto riporta in serata l’emittente panaraba Al Arabiya. Per Hatar la presenza di navi straniere rappresenterebbe una “violazione della sovranità nazionale” libica» (ANSA, 2 agosto 2017). E, com’è noto, non si sbaglia prevedendo il peggio – o il meglio, punti di vista – quando la posta in palio si chiama «sovranità nazionale», per quanto malmessa e declassata possa essere la nazione, o solo una parte di essa, che si sente minacciata dal nemico. Negli ambienti diplomatici italiani si sospetta e si sussurra che Parigi abbia, se non caldeggiato o suggerito la postura aggressiva assunta dal rais della Cirenaica nei confronti di Roma, certamente creato le condizioni politiche e “psicologiche” per un atteggiamento così esplicitamente avverso agli interessi italiani.

Intanto l’altro ieri il Qatar ha annunciato una commessa all’Italia per la fornitura di 7 navi da guerra, un contratto firmato con la Fincantieri (1) del valore di 5 miliardi di euro. «Lo ha annunciato da Doha, dov’è in visita, il ministro degli Esteri Angelino Alfano. Stando a indiscrezioni della stampa si tratterebbe di 4 corvette, una nave da sbarco anfibia e due incrociatori. Alfano dal canto suo ha affermato che “si tratta di una vera operazione di sistema, non solo di un contratto di vendita, ma di una collaborazione di lunga durata finalizzata, per i prossimi 15 anni, anche alla manutenzione, all’assistenza tecnologica e all’addestramento con il supporto, per quest’ultimo aspetto, del ministero italiano della Difesa”. L’operazione coinvolgerà mille lavoratori italiani» (G. Keller, Notizie Geopolitiche). Mille italianissimi posti di lavoro: buttali via di questi tempi! È il lato buono dell’Imperialismo! Si scherza, compagno internazionalista, si scherza.

Provo a sintetizzare un editoriale-video di Fabrizio Molinari (La Stampa): «In Libia è in corso una prova di forza fra potenze europee e Stati musulmani che ha in palio l’assetto del Maghreb e che vede in vantaggio la Francia perché è l’unica ad avere una strategia di dimensione regionale. In questo grande gioco il maggiore rivale dell’Eliseo è l’Italia, non solo per i suoi cospicui interessi economici in Tripolitania (2), ma perché attraverso una sapiente politica diplomatica il nostro Paese è riuscito ad affacciarsi sul Sahel (3), ed è proprio questa sua proiezione geopolitica che probabilmente ha messo in allarme la Francia. La sfida è comunque solo all’inizio». Una sfida che come abbiamo visto a proposito della cantieristica navale e del settore finanziario-assicurativo coinvolge diversi aspetti della competizione capitalistica tra imprese e tra sistemi-Paese.

Insomma, nel suo piccolo il cosiddetto imperialismo straccione di casa nostra non rinuncia a tessere, riparare e, all’occasione, estendere la propria rete commerciale, politica e militare nella sua storica riserva di caccia in Africa e in Medio Oriente (4). Cosa che necessariamente lo mette in diretta competizione con l’assai più esperto e robusto imperialismo d’Oltralpe, il quale non perde occasione di ricordare al cugino italiano il prestigiosissimo retaggio coloniale francese e, perché no?, l’esito della Seconda carneficina mondiale. Mentre Parigi esibisce la sua tradizionale e sempre meno credibile grandeur, zitta zitta Roma continua a praticare la sua politica internazionale che in termini puntualmente scientifici potremmo chiamare del chiagni e fotti. Certo, si può sempre fare meglio, come pretendono gli incontentabili del tipo di Alessandro Di Battista («il risultato della situazione in Libia è che i francesi si beccano il petrolio mentre l’Italia i barconi») e del Professore Galli della Loggia: «L’Italia è sola. Dalla questione dei migranti al contenzioso con la Francia è questo il referto che ci consegna la situazione internazionale. E così la solitudine diventa inevitabilmente subalternità e irrilevanza. In tutti gli scenari geopolitici caldi che ci circondano, dall’Ucraina/Russia alla Siria, all’Iraq, alla Turchia, appariamo di fatto a rimorchio degli altri» (Corriere della Sera). Ci vorrebbe un sussulto di dignità nazionale, come quello che vide protagonista Craxi nella mitica notte di Sigonella (ottobre 1985), un colpo di reni geopolitico che ci rimetta in piedi: «Nel Mediterraneo perfino su Malta — della quale pure, se ben ricordo, garantiamo l’indipendenza con un apposito trattato! — non riusciamo ad avere la minima influenza. Sul teatro libico, infine, subiamo da anni le conseguenze dello smacco inflittoci a suo tempo dall’iniziativa franco-inglese con relativi flussi migratori che ci si sono rovesciati addosso». È una vergogna! Mi scuso. È uscito il patriota che c’è in me. Non succederà più!

Fonte: Limes

Per Franco Venturini (Corriere della Sera), «È una missione di deterrenza, quella che la Marina e altre forze italiane svolgeranno davanti alla Tripolitania subito dopo l’approvazione parlamentare». C’è da chiedersi: «missione di deterrenza» nei confronti di chi? Nei confronti dei «trafficanti di carne umana» o dell’attivismo francese? «Criticata da noi stessi per la sua passività», continua Venturini, «la “politica libica” dell’Italia va questa volta elogiata per il suo coraggio. Un coraggio sulla carta superiore a quello dell’incontro Sarraj-Haftar di Parigi. Ma l’esito della nostra discesa in campo, come quello delle buone promesse patrocinate da Macron, resta appeso a un filo. Che è in mano ai libici». Allora possiamo stare tranquilli, diciamo…

Livio Caputo (Il Giornale) interpreta il sentimento di molti compatrioti che patiscono «lo sfrenato protagonismo di Macron»: «Cossiga amava dire che “ad atto di guerra si risponde con atto di guerra”, mentre Andreotti chiosava che “di guance ne abbiamo solo due e dopo il secondo schiaffo bisogna rispondere adeguatamente”. […] La partita è complessa, ma se vogliamo giocarcela con qualche possibilità di successo, non dobbiamo dimenticare che, se vogliamo mantenere un ruolo dì media potenza, non possiamo continuare a ridurre, di bilancio in bilancio, le spese per la politica estera e la difesa». E questo è vero. D’altra parte il debito pubblico italiano fa sentire il suo peso su diversi aspetti del Sistema-Italia, azzoppandone gravemente la capacità competitiva. Una magagna che certo non può togliermi né il sonno né l’appetito. E ho detto tutto!

L’«economista, politologo e saggista Edward N. Luttwak, esperto di strategia militare e di politica internazionale» non ha dubbi: l’Italia deve papparsi la Libia, e gestirla, mutatis mutandis, come ai bei vecchi tempi: «L’unico Stato al mondo che ha la conoscenza, la capacità e la necessità di organizzare la Libia è l’Italia. Gli italiani hanno creato la Libia. La Libia non è mai esistita nella storia fino a quando l’Italia non l’ha costruita. La Cirenaica e la Tripolitania erano divisi perfino all’epoca degli antichi romani: una era provincia greca, l’altra era una provincia che parlava latino. È stata l’Italia che poi ha aggiunto il sud, il Fezzan. L’unico Paese che può portare alla stabilizzazione della Libia è l’Italia e lo può fare molto facilmente perché è un Paese con oltre 60 milioni di abitanti, ha la perfetta capacità di reclutare un esercito sufficiente di 100 – 120 mila soldati. Non queste missioni dove si mandano 173 soldati in Asia, non cretinate di questo tipo, non con mezzi militari, io parlo di occupazione militare. Questa occupazione verrà immediatamente appoggiata da moltissimi libici. Questa cosa andava fatta dall’inizio. I francesi in Libia ci vanno ‘con la mano sinistra’, con lo scopo di mettere le mani su qualche affare: commercio petrolifero o la vendita di qualche aeroplano. I francesi non hanno alcun interesse alla riunificazione della Libia: avere la Francia in Libia, vuol dire avere un Paese non stabilizzato che continua a riversare i suoi problemi sull’Italia. Mentre le poche ciliegie e qualche torta, che ci sono, se le mangiano i francesi. L’Italia è di fronte alla Libia, l’ha creata, ha capacità di stabilizzare la sua ex colonia. In Italia ci sono moltissimi disoccupati che si arruolerebbero ben volentieri nelle forze armate». Riecco il lato buono dell’imperialismo! Non a caso il colonialismo italiano si sviluppò sotto la copertura ideologica sintetizzabile nel concetto, ripreso poi da Mussolini, di Nazione Proletaria.

(1) Ecco cosa ha dichiarato l’Onorevole Stefano Fassina nel corso del dibattuto parlamentare sullo scottante caso Fincantieri-Stx: «Quello che fino a ieri è stato il vostro campione di europeismo e di liberismo oggi riscopre un’antica e grande parola del movimento operaio: nazionalizzazione. Magari lo fa a scopo strumentale, in ogni caso egli dà lustro a una parola che voi avete abbandonato da trent’anni». Ecco la «vera sinistra» secondo Fassina, il quale da buon nipotino di Stalin associa il movimento operaio al Capitalismo di Stato. Merda!
(2) Scriveva Pietro Saccò su Avvenire del 27 marzo del 2011, nel momento in cui l’esito dell’operazione anglofrancese volta a destabilizzare gli interessi italiani in Libia appariva ancora incerto: «In Libia economia vuol dire petrolio. I calcoli del Fondo monetario internazionale dicono che l’attività di estrazione, trasporto e vendita di greggio e gas naturale vale il 92% del prodotto interno lordo libico. Alla fine dello scontro in corso nel Paese, che con 46,4 miliardi di barili di oro nero e 55mila miliardi di metri cubi di gas naturale ha le riserve di idrocarburi più vaste dell’Africa, chi avrà preso il controllo dei giacimenti e dei terminal dove il greggio viene caricato sulle petroliere delle multinazionali avrà l’economia libica nelle proprie mani. E le stime dicono che in Libica c’è ancora molto petrolio che ancora non è stato scoperto. […] Se si guarda al conflitto libico attraverso le lenti della guerra per il petrolio, allora anche l’interventismo del Regno Unito e della Francia ha un aspetto meno solidale e motivazioni più comprensibili, così come si spiegano la maggior cautela dell’Italia e tutte le perplessità della Germania (che con Wintershall è il secondo produttore di greggio nella terra di Gheddafi)». Questo semplicemente per dire che nessuno ha mai dato credito alla natura “umanitaria” e antitotalitaria dell’iniziativa anglofrancese del 2011.
(3) «Quella del Sahel è una guerra dimenticata. I francesi sono alla testa di un’operazione anti terrorismo dall’estate 2014 – il dispositivo Barkhane – che prevede la presenza di 3.000 soldati tra Mauritania, Niger, Burkina Faso, Mali e Ciad, quest’ultimo è l’alleato più importante di Parigi in Africa. I tedeschi hanno una presenza sempre maggiore in Mali, e per la logistica si appoggiano all’aeroporto di Niamey, capitale del Niger. I due alleati europei si muovono in stretto coordinamento con una presenza ormai sempre meno discreta: quella degli Stati Uniti, che hanno speso, secondo The Intercept, 100 mila dollari per l’apertura di una base per i droni Reaper e Predator ad Agadez, snodo di contrabbando di migranti, armi, droga e quant’altro nel cuore del Niger. La Francia ha annunciato nei mesi scorsi un investimento di 42 milioni di euro per l’addestramento delle forze armate di paesi del Sahel e ha inviato nei giorni scorsi tra 50 e 80 uomini delle sue Forze speciali in Niger, al confine con il Mali» (Il Foglio).
(4) «La Marina si ritrova immersa in uno scenario regionale fattosi più competitivo. Con il Mediterraneo nuovamente nell’occhio del ciclone e un arco di instabilità che corre dalle sabbie nordafricane fino alle profondità dell’Anatolia, il relativo disimpegno della flotta statunitense dal bacino offre nuove opportunità di manovra e altrettanti motivi di apprensione. Più dell’ampliamento della presenza russa fra Bosforo, Levante e Cirenaica o della comparsa delle prime unità da guerra cinesi a nord di Suez, preoccupano i piani di riarmo navale di ambiziosi attori regionali come Algeria, Egitto e Turchia, finalizzati a dotare le rispettive Marine di nuove capacità di proiezione del potere militare con cui puntellare la propria politica estera spesso assertiva. Episodi come la campagna anglo-francese di Libia del 2011, inoltre, ricordano come la competizione investa ormai anche i rapporti fra paesi alleati e possa assumere di colpo i tratti di aspri scontri diplomatico-commerciali come quello andato in scena fra Roma e Parigi per la megacommessa navale da quasi 5 miliardi di euro alla Marina del Qatar» (Citazione da La Marina prova a tornare grande, Limes).

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