Ridiamo sull’abisso dell’orrore.
Walter Benjamin
Sghignazziamo sull’abisso di Miserabilandia.
Sebastiano Isaia
Nel suo libro Un Grillo qualunque Giuliano Santoro ha definito il Beppe nazionale, dominatore di mari e scalatore di montagne, come la prosecuzione di Berlusconi con altri media. Non mi sembra un giudizio infondato, tutt’altro. Naturalmente cambiando il non poco che c’è da cambiare nel confronto tra la “discesa in campo” dell’imprenditore milanese, nei primi anni Novanta, e quella recentissima del comico genovese.
Non va, infatti, dimenticato che Berlusconi non ha solo ereditato l’elettorato dei vecchi partiti rottamati per via giudiziaria (il “famigerato” Pentapartito a guida Forlani-Craxi), ma ne ha incorporato fin dall’inizio il personale politico, e questo ne ha di molto depotenziata la carica innovativa, fino a risucchiarlo nella tradizionale politica “compromissoria” italiana. Ancora oggi l’acciaccatissimo Silvio muore dalla voglia di sparigliare il quadro politico-istituzionale del Bel Paese, sacrificando a quest’impresa temeraria e «surreale», per dirla con Giuliano Ferrara, persino la sua stessa creatura partitica. Forse questa storia rappresenta un monito per Grillo, come lascerebbe pensare anche il suo rapido dietrofront a proposito dell’amico Di Pietro, oggi in rapida disgrazia.
Dal punto di vista elettorale il suo Movimento agisce come una camera di compenso, un polmone che recupera una parte dell’astensionismo, creato dalla crisi dei partiti tradizionali, delegittimati sul piano “morale” come su quello politico, e la reimmette nei normali circuiti istituzionali.
Vittorio Feltri, diventato un simpatizzante dichiarato dello «sfasciacarrozze» ligure, le cui provocazioni pare gli procurino veri e propri «orgasmi» (colpa del punto G?), ha dichiarato che ogni epoca ha il suo Berlusconi. Grillo, ovviamente, rifiuta qualsiasi indecente accostamento con lo «psiconano», nonostante si presenti a tutti gli effetti, al pari dell’ex premier, come il nuovo salvatore della patria: «Ringraziate che ci sono io, altrimenti ci sarebbero stati i neonazisti». La Grecia insegna. Certo, non è un giudizio lusinghiero per i suoi seguaci, ritenuti potenziali neonazisti, ma a Beppe, per adesso, essi concedono tutto, e il contrario di tutto, come accade fra innamorati.
Con altri media, per ritornare alla definizione di Santoro, fino a un certo punto, visto che la presenza di Grillo sui media mainstream è diventata davvero strabordante, sebbene il Capocomico affetti di disprezzare il «teatrino della politica» allestito nei talk show televisivi, soprattutto se orchestrati dai conduttori di “sinistra”, i quali evidentemente si sentono in dovere di azzopparne la galoppata politico-mediatica. Chissà poi perché…
D’altra parte, mandria elettronica e mandria televisiva calpestano lo stesso terreno “esistenziale” e si nutrono della stessa sostanza sociale, ragion per cui enfatizzarne le differenze, che pure ci sono, magari per mitizzare il supposto carattere necessariamente democratico e attivo della Rete, mi appare del tutto sbagliato. Un attivismo elettronico sordo e cieco dinanzi alla menzogna più disumana moltiplicherebbe per mille i vecchi pogrom. Ma ritorniamo al nostro amico.
Se Beppe non va alla televisione, la televisione va da Beppe, novello Profeta, che può così espandere enormemente la sua tecnica comunicativa basata sul monologo, la cui essenza risiede nella passività dell’ascoltatore sollecitato a reagire a comando. Ma non è che il tradizionale comizio funzioni con regole diverse: l’attesa passiva della parola o del gesto da parte del pubblico accomuna la performance del comico e quella del politico.
Mandria elettronica e mandria televisiva calpestano lo stesso terreno “esistenziale” e si nutrono della stessa sostanza sociale. Il comico genovese sfonda lo schermo, come dicono gli esperti, e, com’è noto, dove c’è il pubblico televisivo c’è l’investimento pubblicitario, e così quelli che vivono di industria televisiva sono diventati tutti pazzi per Grillo, il fustigatore della «Casta». Un circolo che si autoalimenta con la soddisfazione di tutti, anche degli spettatori. D’altra parte, come scriveva Horkheimer, «la popolarità consiste nella concordanza senza riserve degli uomini con tutto ciò che l’industria del divertimento giudica loro gradito» (Arte nuova e cultura di massa, 1941). E Adorno rincarava la dose: «L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. Essa gliele inculca, conducendosi come se fosse anch’essa un cliente» (Minima moralia).
Sul palco il Capo, protagonista di un comizio-spettacolo permanente, perché replicato su ogni media: web, televisione, radio, giornali; sotto il pubblico, più o meno pagante, assetato di “provocazioni politiche” e di battute comiche. Battute e risate: lo spettacolo può andare in onda, in teoria senza soluzione mediatica di continuità, anche perché il caro Beppe recita quasi sempre lo stesso copione, teatro dopo teatro, piazza dopo piazza, aggiornandolo “in tempo reale” con le ultime malefatte dell’odiata «Casta».
Come ho scritto altrove, il Programma politico di Grillo non è che un fritto misto messo insieme assemblando idee prese a “destra” e a “sinistra”: un po’ di liberismo “ben temperato”, un po’ di keynesismo non “fondamentalista”, molta meritocrazia, molta apologia del Capitalismo ecosostenibile, benecomunismo quanto basta, un luogocomunismo anti finanziario che fa tanto Occupy, sovranismo economico anti euro, moralismo giustizialista alla Travaglio-Di Pietro e via di seguito. Il tutto impastato sul palco con l’indiscutibile verve del comico genovese, che gli permette di calare impunemente sugli astanti le banalità più clamorose, i luoghi comuni più triviali in guisa di perle di saggezza. «Se l’ha detto Beppe, c’è da fidarsi!» «Hai sentito che ha detto Beppe?! Che forza!» Marco Pannella, forse invidioso dei successi “grillini”, sostiene che l’amico Beppe gli ha saccheggiato il Programma. Sarà vero? Ai politologi l’ardua sentenza!
D’altra parte, il fenomeno-Grillo appare significativo più dal punto di vista sociologico, che da quello politologico, e giustamente Santoro sostiene che «per non farsi ipnotizzare, bisogna guardare più alla forma che al merito del grillismo. In altre parole, se perdiamo troppo tempo passando in rassegna i vaghissimi e poco praticabili punti programmatici del partitino di Grillo, rischiamo di perdere di vista la sua vera natura, che risiede negli strumenti di costruzione del consenso, nei suoi archetipi retorici e nella sua struttura organizzativa» (Perché grillo rafforza la delega, Micromega 8 maggio 2012).
Nel frattempo il «partitino» sta scalando rapidamente la classifica elettorale, almeno nei sondaggi e in qualche elezione amministrativa, cosa che gli fa conquistare nuove simpatie, anche da parte di gente ritenuta solo qualche mese fa al di sopra di ogni sospetto, e che getta nel panico, letteralmente, i leader dei partiti e partitini tradizionali, “estreme” comprese.
Del tutto sbagliato, invece, mi sembra la riflessione di Santoro intorno al rapporto tra grillismo e berlusconismo: «Il problema è che abbiamo chiuso frettolosamente l’era berlusconiana, non abbiamo capito cosa abbia significato davvero, che scorie culturali abbia lasciato nel nostro paese. E quindi ci troviamo ad avere un oppositore che forse opera in modo diverso ma sicuramente si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”» (Intervista di G. Santoro a WM2, Giap, 8 novembre 2012). Sennonché, il «fottuto campo da gioco» di cui si parla non l’ha certo creato Berlusconi con l’antenna magica, essendo stato piuttosto il Cavaliere Nero di Arcore un agente economico, culturale e politico interamente radicato nelle condizioni “sistemiche” della società italiana. Il giudizio di cui sopra in parte si spiega con la relativa arretratezza in campo televisivo del bel Paese almeno fino alla fine degli anni Settanta, ai tempi dell’austero bianco e nero e del monopolio Rai, difesi allora soprattutto dai cattocomunisti, ostili alla «deriva americanista» dei media italiani. Il Drive in degli anni Ottanta come metafora di un mondo interamente sussunto alla logica della merce e del profitto. Ma la metafora rinvia alla realtà! «Si sente spesso affermare che i moderni mezzi di comunicazione di massa – cinema, radio, televisione ecc. – offrono a chiunque ne disponga la sicura possibilità di pervenire al dominio delle masse mediante manipolazioni tecniche: ma non sono i mezzi di comunicazione di per sé il pericolo sociale» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, 1954). L’attenzione va piuttosto posta sulla riduzione degli individui a massa, «la quale è un prodotto sociale … Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e unione ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza degli individui» (ivi).
Più in generale, Santoro si muove nell’ambito di quel pensiero progressista mondiale che negli ultimi vent’anni ha fatto di Berlusconi se non il male assoluto, qualcosa che c’è andato molto vicino. Molto. Dimmi chi è il tuo Nemico e ti dirò chi sei…
Per attirare un’attenzione malevola su di sé Grillo gioca a carte scoperte, scopertissime, con la tecnica della fascinazione demagogica, facendo il verso a Mussolini e persino a Goebbels, ma anche ai comunicatori settari, laici e religiosi, che fioriscono rigogliosamente soprattutto negli Stati Uniti. Il tutto secondo l’aurea regola della comunicazione moderna del purché se ne parli. Non importa se bene o male, perché il nemico del comunicatore è l’anonimato mediatico.
Affettando pose “caudilliche”, per così dire, o da Grande Timoniere, pescando istrionicamente nello sterminato repertorio storico disponibile ormai da decenni su ogni tipo di media (televisione in primis), il Nostro sa di irritare gli storici, i sociologi, gli intellettuali della cattedra, gli esperti in comunicazione e i politici tradizionali, stuzzicandone i tic e provocando le loro reazioni pavloviane, che non fanno che espandere il suo potere mediatico e il suo mercato elettorale. Basta leggere, ad esempio, gli stizziti commenti di Eugenio Scalfari al grillesco Italiani! (richiamo che, detto per inciso, ricorda più il fantastico Totò dell’Arrangiatevi! che il Duce del fatale balcone), molto più comici dei comizi del genovese, per capire come il pesce che crede di saperla assai lunga abbocchi puntualmente all’amo.
Il problema, inteso come fatto da investigare, è che Grillo, suo malgrado (?), mostra tutta la pregnanza e la forza di quella tecnica manipolatoria, confermando così che la tesi secondo cui «Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato» (Horkheimer e Adorno) continua a essere valida, soprattutto in tempi di crisi. Sotto questo aspetto il Capocomico appare come una sorta di apprendista stregone: egli testa per conto del Dominio le capacità critiche delle persone. Non lo sa, ma lo fa, e il risultato sorride, necessariamente, al Dominio. Ma non è certo il solo a farlo, non ha l’esclusiva del test, e non c’è luogo pubblico (stadi, teatri, cinema, piazze) che non si presti a questa funzione. Come sempre il problema non è la tecnica, né il tecnico, bensì le condizioni sociali che rendono possibile il materiale “umano” su cui egli lavora, il terreno su cui semina. Grillo è la regola, non l’eccezione.
Sul piano ideologico insiste la maligna pretesa, tipica del cieco moralismo d’ogni tempo, di poter rendere “virtuosi” gli individui, a cominciare da chi si candita a governare la “cosa pubblica”, sulla base della società classista e disumana. Di qui il tentativo di piegare con la violenza, virtuale o reale secondo le circostanze, la Moltitudine a comportamenti ritenuti appunto virtuosi in quanto rispettosi del “Bene Comune”. Servi e padroni affratellati da un comune destino di probità. L’autodafé 2.0 è dietro l’angolo. Forse è già in corso. Grillo o non Grillo.
Una linea politico-ideologica, questa, molto funzionale in tempo di crisi economica e di “marasma esistenziale”, per la sua capacità di fagocitare tensioni sociali, risentimenti, invidie e frustrazioni sociali. Salvo poi venir liquidata in tempi migliori come inspiegabile e insopportabile concessione alla demagogia del «Savonarola di turno».
La stessa cosiddetta “democrazia diretta” basata sulla piazza reale e virtuale non smentisce, ma anzi conferma questa analisi, perché la sudditanza al Dominio sociale s’impone naturalmente e spontaneamente sulla base dei rapporti sociali capitalistici, e difatti nessuna assemblea popolare e democratica delibererà mai il superamento di quei rapporti sociali senza l’irruzione sulla scena sociale dell’evento-Rivoluzione. E non sto parlando né di “rivoluzione culturale” né di “rivoluzione elettorale”, beninteso. Il padrone onesto, in linea con gli standard meritocratici e “socialmente responsabile” è il massimo di pensiero “rivoluzionario” cui può arrivare la Moltitudine non penetrata da quella che un tempo – penso al giovane Lukàcs, ad esempio – si chiamava coscienza di classe.
Solo a Carlo Formenti, «giornalista di formazione marxista, docente universitario di Teoria e tecnica dei nuovi media e firma della rivista Alfabeta 2, di fronte al modello Grillo» poteva venire «da pensare, per alcuni versi, “alla Comune di Parigi”: “Per esempio per quanto riguarda la responsabilità dell’eletto, la sua revocabilità” e la “retribuzione ridotta a livello di quella di un impiegato”. Tutte cose che, dice Formenti, “suonano familiari alle orecchie della sinistra classica”» (Marianna Rizzini, Il Foglio, 10 novembre 2012). D’altra parte, anche a Toni Negri il presente evoca la Comune di Parigi: osservando il movimento Occupy Wall Street. Segno che la «formazione marxista» induce al più ardito ottimismo della volontà… Chi scrive, si capisce, non ha mai avuto nulla a che fare con la «sinistra classica».