DRAGHI, AFFARI E GEOPOLITICA

Sul Manifesto Roberto Prinzi riassume con asciutto realismo geopolitico i termini della questione: «”È un momento unico per ricostruire un’antica amicizia e una vicinanza che non hanno mai conosciuto interruzioni”. Le parole di Mario Draghi pronunciate ieri a Tripoli al premier del Governo transitorio di unità nazionale libico Dabaiba non lasciano spazio a dubbi: l’Italia vuole giocare la parte da leone nella ricostruzione della “nuova” Libia, riportando le lancette dell’orologio (dirà in seguito Dabaiba) al Trattato di amicizia italo-libico del 2008. Allora a Palazzo Chigi c’era Berlusconi mentre a reggere le sorti del paese nordafricano il rais Gheddafi, allora grande amico di Roma scopertosi nemico solo tre anni dopo al punto da essere deposto dalle bombe della Nato […] Affinché ciò accada, ha spiegato il premier italiano, è necessario però che regga il cessate il fuoco. Ma su questo punto ha ostentato sicurezza: “Mi sono state date rassicurazioni durante il nostro incontro straordinariamente soddisfacente, caloroso e ricco di contenuti”. La lista di aggettivi positivi non è apparsa affettata: Roma si sfrega le mani pensando a come la “stabilità libica” potrà tradursi favorevolmente sia nel contrasto all’immigrazione (incubo dell’intera Europa), ma anche per le aziende nostrane. La diplomazia economica italiana lavora per la transizione energetica della Libia che darà più spazio alle energie rinnovabili».

Draghi sprizza ottimismo da tutti i pori: «C’è voglia di fare, c’è voglia di futuro, voglia di ripartire e in fretta».  Certo, l’Italia dovrà vedersela con l’agguerrita concorrenza russa, turca, egiziana, francese e inglese, ma il Presidente del Consiglio ostenta sicurezza circa le capacità del nostro Paese di riconquistare e consolidare le importanti posizioni economiche e strategiche perse in Libia negli ultimi anni. Per il presidente di Federpetroli Italia Michele Marsiglia «gli argomenti all’ordine del giorni non vertono solo sull’energia ma sul piano operativo ci sono temi come infrastrutture e flussi migratori nonché la tanto chiacchierata Autostrada della Pace. E questo vuol dire che la missione di oggi vuol portare l’Italia ad essere sempre più presente nel paese con un ruolo decisivo nelle politiche del Mediterraneo». Secondo Sandro Fratini, presidente di ILBDA (Italian Libyan Business Development Association), «le aziende italiane possono e devono avere un ruolo centrale nell’accompagnare [quanto siamo gentili!] i libici verso la costruzione di uno Stato moderno ed avanzato. In Libia, si sta aprendo un ventaglio di opportunità per tantissimi giovani. Non solo nel settore petrolifero ed energetico, ma anche per chi opera nei settori dell’edilizia, commercio, comunicazione, tecnologia, aviazione, scienza, farmaceutica, fino alla ristorazione. I libici ci chiedono materiali e prodotti italiani, ma hanno anche bisogno di ingegneri ed architetti per completare i progetti architettonici ed infrastrutturali in stallo da anni». Insomma, c’è una grassa fetta di torta che il capitalismo italiano deve intercettare con assoluta necessità e rapidità, perché di certo la concorrenza di “amici” e nemici dichiarati non starà a guardare senza coltivare il “nostro” stesso ambizioso disegno economico e geopolitico. Il fatto che Mario Draghi abbia scelto la Libia per la sua prima missione all’estero dal suo insediamento la dice lunga sull’importanza che il “Sistema-Italia” attribuisce alla presenza italiana nel Paese africano che in larga misura è una “nostra” creazione.

«Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi. Nello stesso tempo aiutiamo e assistiamo la Libia. Il problema non è solo geopolitico, è anche umanitario. Da questo punto di vista l’Italia è forse l’unico Paese che continua a tenere attivi i corridoi umanitari» (M. Draghi). E che fa la Libia per i salvataggi? È presto detto: la cosiddetta Guardia Costiera libica, che l’Italia finanzia e arma, intercetta i disperati che cercano di arrivare sulle coste siciliane e li riaccompagna, per così dire, nei lager libici «dove le donne vengono violentate, le famiglie depredate di tutto, gli uomini torturati, seviziati e persino uccisi» (Notizie Geopolitiche, febbraio 2020). Peraltro, molti libici che lavorano per la Guardia Costiera libica organizzano i viaggi della disperazione. Altro che «corridoi umanitari», signor Presidente del Consiglio!

Molti progressisti hanno espresso un’indignata riprovazione per l’elogio della cattura e della tortura confezionato da Draghi per ingraziarsi la controparte libica. Leggo da qualche parte su Facebook: «Draghi esprime soddisfazione alla Libia per i salvataggi. Forse era una barzelletta. I migranti vengono uccisi o messi in lager. I diritti umani sono sottozero. Si vergogni per quello che ha pronunciato. In quanto volontaria impegnata al servizio degli umili e fragili nativi e stranieri, non posso che sentirmi tradita da un governo che mi umilia!!!». Ecco, io non mi sento in alcun modo tradito, offeso e umiliato da un governo che ovviamente lavora per conto del capitalismo e dell’imperialismo tricolore, non certo per difendere e promuovere i cosiddetti «diritti umani», né per sostenere la causa degli umili, nativi o stranieri che siano. Mi piacerebbe molto che l’indignazione delle persone umanamente sensibili sposasse un punto di vista radicalmente anticapitalista.

Com’è noto, l’inchiesta della procura di Trapani nella quale sono state ascoltate le conversazioni di numerosi giornalisti e avvocati hanno avuto l’input dell’ex Ministro dell’Interno Marco Minniti (*). «L’ordine di indagare sulle Ong partì dal Viminale. Il 12 dicembre del 2016, all’esordio del governo Gentiloni, Angelino Alfano lascia il Ministero dell’Interno passando il testimone a Marco Minniti.Lo stesso giorno parte una lunga informativa. Dopo avere indicato le Ong come “fattore di attrazione”, viene precisato che è stata avviata “un’attività di raccolta informazioni circa le modalità di salvataggio dei migranti in mare, svolte dalle navi di proprietà delle Ong”. Nell’informativa vengono segnalati quattro casi di sconfinamento nelle acque libiche, da parte di alcune organizzazioni umanitarie: Moas e Medici senza frontiere» (Domani). Come scriveva qualche giorno fa Luigi Ferrarella sul Corriere della Sera, si trattò (e si tratta) della «prosecuzione di una guerra (politica) con altri mezzi (giudiziari)». Si trattava di controllare e screditare chiunque denunciasse la criminale gestione dei flussi migratori affidata dal governo italiano alla Guardia Costiera libica. «Intercettateci tutti!», amano dire i manettari che, dicono, non hanno nulla da nascondere. E lo Stato è ben contento di accontentarli. Con escrementizia coerenza, il principe dei giustizialisti duri e puri, colui che sprizza manette da tutti i pori, insomma Marco Travaglio, direttore del Fascio Quotidiano, difende “senza se e senza ma”, e sulla scorta della Sacra Costituzione Italiana, la strategia investigativa della procura Trapani. Escrementizia coerenza, appunto.

(*) «Domenico (Marco) Minniti, ministro dell’Interno tutto rigore e sicurezza. Il controllo dell’immigrazione diventa una questione di vita o di morte per il dirigente dem. L’intero mandato di Minniti al Viminale è incentrato sull’argomento. Fin dal primo giorno, quando comincia a lavorare sul “Memorandum di intesa tra Italia e Libia” mentre Angelino Alfano non ha ancora portato le sue cose alla Farnesina, dove è stato spostato dal nuovo premier Paolo Gentiloni. L’esponente del Pd ha già tutto in mente e a due mesi dal suo insediamento è già pronto l’accordo con i libici per bloccare i migranti alla fonte. Poco importa come. L’importante è la firma di Fayez al Serraj, primo ministro del governo di unità nazionale di Tripoli, sul documento controfirmato dal presidente del Consiglio italiano. Obiettivo prioritario del Memorandum: “Arginare i flussi di migranti illegali e affrontare le conseguenze da essi derivanti”. In cambio l’Italia avrebbe fornito “supporto tecnico e tecnologico agli organismi libici incaricati della lotta contro l’immigrazione clandestina”. In altre parole: addestramento, mezzi e attrezzature alla forza di sicurezza comunemente definita Guardia costiera libica, formata da un ambiguo coacervo di milizie dismesse e trafficanti. Senza parlare dei campi dove i migranti vengono trattenuti, considerati da tutte le organizzazioni internazioni per i diritti umani come dei veri e propri centri di tortura, dove i “prigionieri” subiscono violenze di ogni tipo. Del resto, Minniti è persona abituata a ragionare secondo la neutra logica dei costi/benefici. Perché per perseguire un obiettivo ci vuole disciplina e un certo pelo sullo stomaco. Per raggiungere uno scopo non bisogna fermarsi, come gli avrà probabilmente insegnato Francesco Cossiga, l’amico con cui nel 2009 dà vita ad Icsa (Intelligence culture and strategic analysis) una fondazione dedicata all’analisi dei principali fenomeni connessi alla sicurezza nazionale. E Minniti non si ferma mai» (Il Dubbio).

Aggiunta dell’8 aprile 2021

 «Da quando il governo italiano guidato da Paolo Gentiloni, con ministro dell’Interno Marco Minniti, ha firmato nel febbraio 2017 il Memorandum con il governo di Tripoli, le industrie aerospaziali e di armamenti hanno fatto affari d’oro con i ministeri degli stati membri e con Frontex.  Aziende come Airbus, le israeliane Iai e Ebit e l’italiana Leonardo Finmeccanica hanno ottenuto commesse per milioni di euro. Minniti ora è entrato in Leonardo, nominato poche settimane fa a capo della fondazione MedOr, nuovo soggetto creato dalla ex Finmeccanica che si occuperà anche di Libia. Dell’accordo ha beneficiato anche l’Agenzia Frontex, diventata uno degli organismi più finanziati dell’Unione, con un budget attuale di 500 milioni e di oltre un miliardo nei prossimi sei anni. […] A febbraio scorso Minniti è stato nominato nella fondazione MedOr di Leonardo. Di cosa si occupa MedOr? “Permetterà in particolare di consolidare le relazioni con gli stakeholder dei paesi di interesse, al fine di qualificare Leonardo come un partner tecnologico innovativo nei settori dell’aerospazio, della difesa e della sicurezza”. Settore di investimento, quest’ultimo, che ha risentito positivamente dell’accordo Italia-Libia firmato dall’ex ministro. Minniti, contattato, esclude che si possa parlare di conflitto di interesse: “Da ministro non trattavo appalti e non ho avuto alcun ruolo nei contratti di cui parlate”. Poi ci tiene a precisare che la fondazione di Leonardo non ha scopi di business: “Ha altre finalità, costruire un punto di vista comune su aree strategiche per l’Italia, come può essere il Mediterraneo, come del resto fanno molti altri paesi da tempi lontanissimi”» (Domani). Non c’è dubbio.

L’onesto Minniti, degnissimo discendente dell’italico “comunismo” (leggi stalinismo con caratteristiche togliattiane), ha illustrato una prassi sintetizzabile con un “vecchio” concetto: IMPERIALISMO. E anche l’Italia “nel suo piccolo”…

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Limes

Aggiunta dell’11 Aprile 2021

La scottante frase draghiana ormai è arcinota: «Con questi dittatori, di cui uno ha bisogno, bisogna essere pronti a cooperare». Altrettanto noto è che la realpolitik di Mario Draghi ha potuto brillantemente esercitarsi anche con la Libia: «Esprimiamo soddisfazione per quello che la Libia fa per i salvataggi». Ormai abbiamo capito: ci sono dittatori e aguzzini «di cui uno ha bisogno» e con cui «bisogna essere pronti a cooperare». Molti si sono indignati dinanzi al cinico realismo del Presidente del Consiglio, ma si tratta di un’indignazione che non spiega niente e che testimonia piuttosto quanto chi la esprime comprenda pochissimo il mondo che ci tocca subire.

Scrive Francesca Sforza (La Stampa): «Oltre agli americani, tradizionalmente su questa posizione, il premier Draghi incontra il sostegno dell’opinione pubblica e dell’intero arco parlamentare italiano – ostile alla Turchia in chiave anti-islamica a destra e filo-curda a sinistra». Qui urge una mia precisazione, se non altro in quanto componente «dell’opinione pubblica» (dell’«arco parlamentare italiano» non dico niente per non destare l’attenzione di qualche zelante Procura della Repubblica): dal mio punto di vista il democratico Premier italiano e l’autoritario Presidente turco pari sono sotto ogni punto di vista. Mi correggo: in quanto anticapitalista italiano la mia ostilità politica è esercitata soprattutto nei confronti del Presidente del Consiglio italiano. A casa mia l’orgoglio nazionale è messo malissimo.

Il ministro turco dell’industria Mustafa Varank ha dichiarato che la Turchia non può prendere lezioni da un Paese che «ha inventato il fascismo» (vero!) e che «lascia morire i richiedenti asilo» (verissimo!).  «Il portavoce dell’Akp, il partito di Ergogan, ha usato parole durissime: “Hanno chiamato il nostro presidente dittatore e poi hanno aggiunto che devono collaborare con noi sull’immigrazione. È il massimo dell’ ipocrisi [giustissimo!]. Queste persone che trattano i migranti in maniera dittatoriale e immorale [verissimo!], pensano di doverci dare lezione di democrazia”» (La Repubblica). Diciamo pure, con il poeta, che la più pulita di «queste persone», italiane o turche che siano, ha la rogna.

Perché l’Italia ha bisogno del dittatore turco? In primo luogo per una ragione di interscambio economico: ci sono in ballo 17/20 miliardi di euro l’anno. Buttali via, soprattutto in tempi di crisi! Ambienti politici vicini a Leonardo hanno subito temuto per la commessa in ballo con la Turchia. Non a torto: «La prima a finire nel mirino è stata Leonardo, la holding tecnologica a controllo statale. Dopo due anni di trattative, proprio in questi giorni era prevista la firma del contratto per l’acquisto di dieci elicotteri d’addestramento AW169. Una commessa del valore di oltre 70 milioni di euro, che doveva essere la prima trance di un accordo per sostituire i vecchi Agusta-Bell 206 della scuola delle forze armate turche: l’importo complessivo per l’azienda italiana potrebbe superare i 150 milioni. Dopo le parole di Draghi i turchi hanno fatto sapere che “al momento” l’operazione è sospesa. Avvisi simili sono stati recapitati anche ad altre compagnie nazionali attive in Anatolia. Tra loro ci sono almeno due società private e Ansaldo Energia, proprietaria del 40 per cento di un gruppo che da un anno sta negoziando con banche e autorità turche la gestione dei debiti per centinaia di milioni accumulati dalla centrale elettrica di Gebze, nella zona industriale di Istanbul. È chiaro che Ankara intende far valere la rilevanza delle relazioni economiche tra i due Paesi. Prima del Covid, l’interscambio era arrivato a toccare 17 miliardi l’anno con quasi 1500 società italiane impegnate in Turchia: una delle più importanti è Ferrero, che produce lì una parte consistente delle nocciole con un business da centinaia di milioni l’anno» (La Repubblica).

L’esperta diplomazia italiana è al lavoro per chiudere la crisi politica con la Turchia e assicurare all’Italia la continuità delle relazioni economiche con quel Paese, il quale peraltro è attraversato da una grave crisi economica che minaccia di destabilizzare il già fragile quadro politico-sociale turco. La continua svalutazione della lira turca è un termometro di questa pessima situazione. L’altro termometro è squisitamente politico-sociale, e registra un’azione sempre più repressiva da parte dello Stato turco nei confronti di tutte le opposizioni sociali e politiche del Paese. Questo sempre a proposito di “fascismo” e di “democrazia”.

Come sappiamo la Turchia è per l’Italia (ma anche per la Francia) sia un partner economico e geopolitico, sia un avversario geopolitico e, soprattutto in prospettiva, economico. Discorso diverso si deve fare per la Germania, che non ha alcun interesse nel pestare i calli al dittatore turco, il quale oltretutto assicura la stabilità nell’area del Mediterraneo  Orientale, anche per quanto riguarda i flussi migratori che partono da quell’area. Ormai da decenni le relazioni tra la Germania e la Turchia hanno una connotazione davvero “speciale” – anche per la forte presenza dei lavoratori turchi nel Paese leader dell’Unione Europea. Nel Mediterraneo Orientale e in Nord’Africa gli interessi economici e geopolitici di Italia, Francia, Grecia e Turchia entrano in reciproca frizione, e qualche scintilla diplomatica (e non solo: vedi l’esercitazione navale greco-cipriota dell’agosto 2020 chiamata Eunomia) si è pure vista nei mesi scorsi. Non a caso la Grecia e Cipro, che con l’Italia stanno cercando di arginare l’aggressiva proiezione turca nel Mediterraneo Orientale, hanno subito mostrato “comprensione” per il premier italiano.

D’altra parte non bisogna sottovalutare il nuovo pensiero strategico adottato dalla Turchia e sintetizzato nel concetto, elaborato fin dal 2006 dagli ammiragli turchi, di Patria blu: «Siamo orgogliosi di proteggere il nostro vessillo glorioso in tutte le acque. Siamo pronti a proteggere con forza ogni fascia dei nostri 462 mila chilometri quadrati di Patria blu» (R. T. Erdoğan). È sufficiente guardare la carta geografica del Mediterraneo Orientale per farsi un’idea della posizione strategica che la Turchia occupa in quell’area sempre più importante anche dal punto di vista energetico – produzione e distribuzione di petrolio e di gas. In questo contesto, «Ogni scintilla può portare alla catastrofe», come disse usando un’immagine perfetta il ministro degli Esteri Heiko Maas nell’agosto del 2020, nel pieno della crisi greco-turca. Allora la ministra della Difesa Florence Parly dichiarò: «Il nostro messaggio è semplice: priorità al dialogo, alla cooperazione e alla diplomazia affinché il Mediterraneo orientale sia uno spazio di stabilità e di rispetto del diritto internazionale e non un terreno di giochi di potenza»: per gli imperialisti europei i cattivoni sono sempre gli altri, i “dittatori” della concorrenza.

La posta in gioco descritta da Angelo Panebianco: «In Libia Draghi è stato tre giorni fa. Allo scopo di riannodare i legami (spezzati o, quanto meno, assai logorati) fra l’Italia e un Paese le cui sorti hanno uno stretto legame con il nostro interesse nazionale: si tratti di rifornimenti energetici, della presenza in Libia delle nostre imprese, di flussi migratori, di contrasto al terrorismo o di sicurezza militare. Una Libia che è oggi spartita fra russi e turchi. Gli uni e gli altri ritengono di essersi conquistati sul terreno il diritto di essere lì, avendo partecipato, su fronti opposti, alla guerra fra la Tripolitania e la Cirenaica. L’Italia è impegnata ad appoggiare gli sforzi dell’attuale governo libico di riconquistare l’unità del Paese. Se coronati da successo danneggerebbero gli interessi sia di Erdogan che di Putin. La Libia non potrà essere davvero riunita se l’esercito turco e i mercenari russi non se ne andranno. Quello italiano è un tentativo necessario ma difficile. Puntiamo sui rapporti economici per ricostituire i nostri legami con la Libia. Ma può la capacità di offrire cooperazione economica sconfiggere le posizioni di forza di coloro (come appunto Erdogan) che hanno soldati e armi sul terreno? I precedenti storici non sono incoraggianti. In ogni caso, il governo Draghi è impegnato, in Libia, in una partita i cui esiti saranno assai importanti per l’Italia. In sintesi: di quanta sicurezza disporremmo (non solo noi, anche il resto dell’Europa), se il Mediterraneo diventasse stabilmente un mare russo/turco? Alzare il tiro della polemica con Erdogan, serve forse a perseguire diversi obiettivi. È un messaggio implicito alla Nato (di cui la Turchia fa tuttora parte), un messaggio che dice: non possiamo più trattare Erdogan con i guanti, come se la Turchia fosse ancora l’alleato di un tempo. È un richiamo agli Stati Uniti, è la richiesta di un loro rinnovato impegno nel Mediterraneo. Potrebbe essere anche un messaggio alla Germania: lo scambio denaro contro controllo delle frontiere forse dovrebbe essere rinegoziato in modo più favorevole per l’Europa. È infine, certamente, un messaggio indirizzato agli italiani: non possiamo evitare di cooperare col dittatore di turno quando ciò serva a tutelare certi nostri vitali interessi ma dobbiamo anche essere consapevoli del fatto che ci sono grandi differenze fra noi e il suddetto dittatore, dobbiamo monitorare con attenzione le conseguenze spiacevoli che da queste differenze possono in ogni momento derivare» (Il Corriere della Sera).

«Conseguenze spiacevoli»: che linguaggio felpato! E poi, «spiacevoli» fino a che punto? Lo scopriremo solo… Intanto, godiamoci l’orgasmo patriottico di Massimo Giannini: «Mettiamo in fila i fatti degli ultimi dieci giorni. Il capo del governo ha prima lanciato un segnale chiaro a Putin, facendo arrestare una spia che vendeva segreti a Mosca. Poi è volato a Tripoli a dare sostegno al governo provvisorio di Dbeiba e a supportare la presenza dell’Eni (anche se ha commesso il grave errore di “ringraziare” la Guardia Costiera libica per i salvataggi, mentre avrebbe dovuto denunciarne i misfatti) [sic!]. Infine ha sferrato il colpo a freddo su Erdogan. Tre atti che sembrano uniti da una sola trama: dimostrare ai russi e ai turchi che in Libia, e non solo in Libia, l’Italia c’è e vuole giocare la sua partita (La Stampa). Sia chiaro, io tifo contro!

L’ALBUM DI FAMIGLIA DI MARCO MINNITI
GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA
PER UNA STRETTA DI MANO…
SULLA GUERRA PER LA SPARTIZIONE DELLA LIBIA
È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!
DUE PAROLE SUL PERICOLOSISSIMO INTRIGO LIBICO
LIBIA E CONTINUITÀ STORICA
A TRIPOLI, A TRIPOLI!
L’IMPERIALISMO ITALIANO NEL“PARADOSSO AFRICANO”
IL PROFITTO È GRANDE, E L’IMPERIALISMO È IL SUO PROFETA!
TU CHIAMALO SE VUOI, IMPERIALISMO

MAURIZIO LANDINI E IL NUOVO RINASCIMENTO ITALIANO…

Per il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, «La mossa del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è stata una mossa di grande intelligenza e responsabilità che ha spiazzato le forze politiche. Mai come adesso abbiamo la necessità di fare sistema». Fare sistema, cioè a dire sostenere questa escrementizia società che non solo sfrutta i lavoratori e se ne libera tutte le volte che ne ha la convenienza/necessità, ma che li espone anche al rischio della malattia e della morte, come accade in questi tempi particolarmente malsani. Non c’è che dire, i lavoratori italiani sono in ottime mani.

Ancora il “simpatico” Landini: «Abbiamo bisogno al più presto di un governo nel pieno della sue funzioni e di un coinvolgimento delle parti sociali molto più forte. E questo non vuole dire sostituirsi alla politica o al governo ma di dire la nostra ed essere coinvolti nella progettazione del futuro». Dal leader del sindacalismo collaborazionista e parastatale non ci si può aspettare che una politica collaborazionista, appunto.

«Sicuramente Draghi è una persona autorevole, e sicuramente può essere una persona utile»: su questo Landini ha ragione da vendere, per così dire. Si tratta piuttosto di capire utile a chi, a che cosa. Non certo alle classi subalterne: dire questo sarà poco ma quantomeno è sicuro. «Non vorrei si stesse pensando alle poltrone [sic!] anziché a cosa fare per il bene del Paese». Quando si parla del «bene del Paese» quasi mi commuovo. Quasi. A proposito! Si scrive “Paese” ma si legge società capitalistica, ovviamente.

I sinistrati sono divisi: c’è chi appoggia Draghi («È il male minore!») e c’è chi rimpiange Conte («È il male minore!»). Della serie: Miserabilandia – comunque vada a finire l’ennesima farsa italiota. C’è la farsa e purtroppo c’è anche la tragedia: l’esistenza di un enorme gregge umano ancora disposto a seguire i vecchi e i nuovi padroni.

“CONTRO LA BARBARIE DELL’OBBLIGO VACCINALE”

Come un gregge addestrato, gli uomini restano
seduti tranquilli e in infinita pazienza (E. Canetti).

L’infinita pazienza è il cibo dei perdenti.

Oggi Giuliano Ferrara si schiera apertamente «Contro la barbarie dell’obbligo vaccinale». «Trattare le masse come fossero pecore destinate all’immunità di gregge è oltranzismo positivista che rischia di esasperare menti già di per sé confuse. Invece serve pazienza per persuadere le minoranze riottose. Ma come si permettono? L’obbligo politico, comunitario, è una cosa seria. Non c’è bisogno di essere libertari radicali per sapere che la sola idea di un obbligo vaccinale è barbarica. Fa parte di quelle cupe idiozie da cui siamo circondati» (Il Foglio). Con le «minoranze riottose» bisogna usare la carota della persuasione, non il bastone dell’obbligo, dice il giornalista di peso e di spessore. Contro l’«oltranzismo positivista» Ferrara si trova, a mio modesto avviso, dalla parte della ragione – soprattutto di quella “borghese”. Infatti, perché apparecchiare adesso una dura crociata vaccinica, che peraltro odora tanto di guerra ideologica, quando l’obbligo quasi certamente si affermerà col tempo nei fatti, oggettivamente, almeno se la gente vorrà lavorare, studiare, viaggiare, andare al cinema, entrare in un Ospedale e quant’altro. Più che di immunità di gregge, immunità del gregge.

In ogni caso il gregge è pregato di non creare problemi e di attenersi scrupolosamente alle istruzioni che riceverà dai governanti, assistiti come sempre dai preziosi consigli del Comitato Tecnicoscientifico. Il tutto ovviamente in vista del bene comune, il quale deve sempre prevalere sul bene individuale. Non c’è dubbio: in pace come in guerra, viviamo nel migliore dei mondi possibili! Forse…

Sulla questione rimando a un mio post del 14 giugno 2020:
OBBLIGO VACCINALE E ALTRO ANCORA
Leggi anche: Il Virus e la nudità del Dominio

CONTAMINAZIONI…

Quello che oggi vediamo saltare in diretta televisiva è solo l’anello più debole della catena sociale, e annuncia quello che potrebbe verificarsi tra qualche giorno o tra qualche settimana se la crisi sociale in corso dovesse acuirsi ulteriormente in termini economici, sanitari, psicologici, “esistenziali”, in una sola parola: sociali. In questi giorni si stanno facendo sentire i soggetti economici e sociali che vivono perlopiù di ristorazione, di servizi alla persona, di traffici più o meno legali (dal punto di vista dello Stato e dei governanti, s’intende), di lavori più o meno “neri” e “abusivi” (gli esperti parlano eufemisticamente di “economia informale”); ma si tratta solo dell’avanguardia della disperazione, della punta di un gigantesco iceberg che galleggia su un mare di preoccupazioni, di frustrazioni e  di bisogni insoddisfatti che forse preannuncia l’arrivo di una tempesta sociale d’altri tempi. Che poi sono esattamente i nostri tempi. Certo, forse; niente è certo in questi cupi tempi, salvo la vigenza di un dominio sociale che getta con cieca e ottusa determinazione gli individui nel tritacarne delle compatibilità economiche, con quel che necessariamente ne segue in ogni aspetto della nostra vita quotidiana.

In ogni caso, quello che è successo e sta succedendo in molte città italiane è già più che sufficiente per allarmare la classe dirigente di questo Paese – sindacati “responsabili” inclusi. «È stato un attacco eversivo», ha dichiarato ad esempio il democratico ed ex Ministro degli Interni Marco Minniti: «Quando dei gruppi organizzati assaltano proditoriamente le forze di polizia è già in sé drammatico. Se poi questo avviene in una fase di emergenza estrema c’è una sola parola per descrivere l’accaduto: eversione» (La Repubblica). Minniti forse non è un esempio probante, visto che il “simpatico” personaggio vede atti “eversivi” anche nei bambini che per gioco si rincorrono dentro un parco; non c’è dubbio però che le sue parole danno voce alle preoccupazioni che serpeggiano nella classe dirigente. Al suo compare di partito Graziano Delrio preoccupa invece, e più intelligentemente, «la rabbia degli uomini miti», cioè la massa dei cittadini non abituati a scendere in piazza ma che adesso potrebbero farlo loro malgrado perché spinti da una condizione sociale (non solo economica) non più sostenibile. In molti bravi cittadini cova anche una certa delusione: «Ma come, non eravamo il modello che tutto il mondo ci invidiava? Da mesi non si parla d’altro che di “seconda ondata”, e adesso che l’ondata è arrivata non abbiamo nemmeno i salvagenti per tenerci a galla? Che cosa ha fatto il governo in tutti questi mesi mentre parlava di “seconda ondata”?». Roberto Saviano dà voce alla frustrazione dei bravi cittadini (e quindi non sto parlando di me): «A Conte, il primo ministro che ha avuto forse più potere negli ultimi decenni, tutto quel che sta accadendo ha finito per dare una sorta di “intoccabilità”: tutti ci raccogliamo attorno al capo. Un capo che non ci sta proteggendo» (La Stampa). Al gregge manca dunque un buon pastore?

A proposito di gregge, Andrea Macciò ha scritto qualche giorno fa un interessante articolo sul «virus del vittimismo»: «Sentirsi vittime bisognose di protezione, eternamente infantilizzate, senza diventare mai adulti responsabili delle proprie scelte, porta a lasciarsi governare dalla paura e con la paura. La paura resta un metodo efficacissimo di governo. La paura di morire o essere intubati. Nulla è più irrazionale e prepolitico della paura di morire» (BlogLeoni). Non c’è dubbio. Ma, come si legge su alcuni cartelli portati nelle piazze italiane in questi giorni, non si muore solo di Coronavirus ma anche di estrema indigenza e di mancanza di prospettive. Massimo Cacciari, dall’alto della sua prospettiva filosofica, conferma: «Non esiste solo il coronavirus. Esistono decine di altre cause di morte, compresa la fame. Dunque, o ci sono gli aiuti o mi pare inevitabile che la rabbia esploda» (Libero Quotidiano). E se lo dice lui…

Come sempre accade in casi simili, i politici e i media nazionali denunciano i mestatori che approfittano del disagio sociale, «che è reale e che va rispettato e ascoltato» (bontà loro!), per destabilizzare l’ordine sociale e compromettere la coesione nazionale. «Camorristi, mafiosi e professionisti della ribellione, di destra e di sinistra, stanno cercando di cavalcare l’onda della paura e della disperazione per perseguire i loro criminali obiettivi». Camorristi, mafiosi, “ribelli” di varia tendenza politico-ideologica e “professionisti del caos” sono messi dunque nello stesso sacco criminale, tutti ugualmente additati all’opinione pubblica come il male da cui guardarsi. In ogni caso, «l’onda della paura e della disperazione» esiste, è un fatto oggettivo che si presta a diverse interpretazioni e a differenti (anche opposti, si spera) atteggiamenti politici.

La natura composita della stratificazione sociale di questa “opposizione dal basso” ai provvedimenti governativi, come la sua completa estraneità a una posizione radicalmente antagonista, credo non debbano consigliare l’anticapitalista “senza se e senza ma” a sottovalutarne quantomeno la natura sintomatica, cosa che certamente non fa la classe dirigente, per ovvi motivi. E non bisogna certo essere un Roberto Saviano (sempre lui!) per capire che nella prima manifestazione napoletana «c’era la disperazione del Sud che sta scoppiando», e che «è ovvio che nelle confuse manifestazioni di rabbia popolare finisca per entrare di tutto». Ma adesso il “virus della protesta” minaccia anche il Nord del Paese (vedi Milano e Torino), dove è più facile che si realizzi una saldatura tra la classe operaia “tradizionale” e la massa dei lavoratori precari impiegati perlopiù nei servizi. Tu chiamale se vuoi, contaminazioni…

Come ben sappiamo, molte cosiddette “partita iva” non sono che lavoratori sotto mentite spoglie dal punto di vista fiscale. C’è anche da dire che molti lavoratori “in nero” che prima arrotondavano il loro bilancio con il Reddito di Cittadinanza, a ottobre non percepiranno il sussidio (perché di questo si tratta: altro che “politiche attive del lavoro”!) e non sanno se la loro richiesta di rinnovarlo sarà accettata dall’INPS.

Per adesso i titolari delle attività economiche messe in ginocchio dagli ultimi provvedimenti governativi scendono in strada insieme ai loro dipendenti, molti dei quali peraltro lavorano “in nero”, ma non è detto che la situazione non possa cambiare, che questa solidarietà “interclassista” non possa spezzarsi o evolvere in qualche cosa d’altro, sempre posto che il movimento di lotta non abbia una vita effimera.

Il Presidente della Repubblica ci ricorda continuamente che «il nemico di tutti è il virus», e che quindi contro questo nemico tutti dobbiamo stringerci a coorte: ma tutti chi? In ogni caso io mi chiamo fuori dall’unità nazionale, come proletario, come anticapitalista e come individuo che subisce l’irrazionalità di una società che pure vanta il controllo teorico e pratico dell’atomo e la capacità di guardare negli occhi, per così dire, il Big Bang. Eppure questa stessa società trova, ad esempio, più conveniente investire in sofisticatissimi sistemi d’arma piuttosto che in forniture mediche, e così mentre gli Stati e le imprese finanziano guerre attuali e potenziali, gli ospedali non sono attrezzati per gestire una crisi sanitaria che solo a certe condizioni (le abbiamo sperimentate e continuiamo purtroppo a farlo) poteva diventare una catastrofe sociale. Ma sulla vera identità del nostro nemico rinvio ai miei precedenti post dedicati alla crisi sociale chiamata Pandemia.

LA DITTATURA È SOCIALE, NON SANITARIA

Da più parti, ma soprattutto negli ambienti politico-culturali della “destra” e tra i cosiddetti “negazionisti”, si parla sempre più spesso di dittatura sanitaria, cioè di un regime autoritario imposto ai cittadini dal governo con la scusa della crisi sanitaria, e con l’attivo supporto degli “esperti”: virologi, infettivologi, medici, statistici, scienziati di varia natura. Non pochi in Occidente considerano il Covid una bufala pianificata a tavolino dal “sistema” (o dai “poteri forti”) per dare un’ulteriore stretta alle nostre già anoressiche e boccheggianti libertà individuali: la mascherina come metafora e simbolo di un bavaglio politico, ideologico, esistenziale. La paura del contagio come strumento di controllo e di governo: Foucault parlava di disciplinamento dei corpi e, quindi, delle menti.

Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica francese ha dichiarato a proposito della “crisi sanitaria” che in Francia ha subito un’inaspettata escalation: «È vero, stiamo comprimendo la vostra libertà in aspetti molto importanti della vostra vita, ma siamo costretti a farlo per tutelare la vostra salute». Prendiamo per buona l’intenzione di Macron e riflettiamo sul contenuto “oggettivo” di quella dichiarazione: che realtà sociale ne viene fuori?

La dittatura di cui intendo parlare qui è in primo luogo un fatto, ossia una realtà che prescinde da qualsivoglia intenzione, da qualsiasi progettualità politica, da qualsiasi tipo di volontà; e come sempre al fatto segue il diritto, ossia la formalizzazione politica e giuridica di ciò cha ha prodotto la società. Naturalmente la politica cerca di approfittare in termini di potere e di consenso (due facce della stessa medaglia) della situazione, ma questo è l’aspetto che appare ai miei occhi il meno interessante, almeno in questa sede, anche perché esso mostra la superficie di un fenomeno, si muove nella contingenza, mentre ciò che ha significato è la radice, la dinamica e la tendenza dei fenomeni sociali.

«Siamo in una dittatura sanitaria? È un discorso che non sta in piedi. Con il virus non si po’ fare una trattative, né politica né sindacale»: affermando questo l’ormai noto infettivologo Massimo Galli dà voce a quello che mi piace definire, lo ammetto con scarsa originalità di pensiero, feticismo virale. Attribuire al virus una “crisi sanitaria” che ha una natura squisitamente sociale. Condizioni sociali considerate su scala planetaria hanno trasformato un virus in un vettore di malattie, di sofferenze, di contraddizioni sociali, ecc. Credere insomma che il problema sia il Virus, e non la società che l’ha trasformato in una fonte di malattia, di sofferenze e di crisi sociale (che coinvolge l’economica, la sanità, la politica, le istituzioni, la salute psicosomatica delle persone): ecco spiegato in estrema sintesi il concetto di feticismo virale. Pensare che la nostra vita sia minacciata da un invisibile organismo vivente, il quale avrebbe il potere di tenere sotto scacco l’economia e le istituzioni di interi Paesi: ebbene questa assurda idea la dice lunga sulla nostra impotenza sociale, sulla nostra incapacità di dominare con la testa e con le mani fenomeni che nulla o poco hanno a che fare con la natura, mentre hanno moltissimo a che fare con la prassi sociale capitalistica. Nella nostra società l’apprendista stregone lavora senza sosta, H24.

È vero, verissimo: la potenza che ci tiene sotto scacco è invisibile, e in un certo senso la sua natura può benissimo essere considerata come virale, ma in un’accezione particolarissima che non ha nulla a che vedere con la natura. Si tratta, infatti, degli impalpabili (ma quanto concreti!) rapporti sociali capitalistici, i quali realizzano un mondo che noi per l’essenziale non controlliamo e che subiamo come se fosse un’intangibile e immodificabile realtà naturale.

«Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella»: così ha scritto Papa Francesco nella sua ultima Enciclica Fratelli tutti. Oggi ciò che connette tutto e tutti sono appunto i rapporti sociali di produzione capitalistici, i quali fanno del Capitale un Moloch che domina sulle nostre vite e sulla natura. Siamo tutti fratelli sottoposti alle disumane leggi della dittatura capitalistica. Si tratta di una dittatura sociale, oggettiva, sistemica, che si realizza giorno dopo giorno in grazia delle nostre molteplici attività sottoposte al dominio del calcolo economico.

Apro una piccola parentesi. Come ormai abbiamo imparato in questi mesi, se nella gestione della “crisi sanitaria” va tutto bene è merito del governo, se qualcosa invece va male, è colpa di quei cittadini irresponsabili che sono più inclini ai piaceri della movida che alla salute della comunità. Non solo siamo costretti a subire le conseguenze di una prassi sociale che non sbagliamo affatto a considerare complessivamente irrazionale proprio perché è informata dalle logiche economiche (capitalistiche), e non dal calcolo umano; ma chi ci amministra è pronto a infliggerci multe, punizioni di vario genere e una colata di stigma sociale e di sensi di colpa se nostro malgrado infrangiamo le ultime disposizioni governative in materia di sicurezza e di distanziamento asociale e dovessimo trasformarci, non sia mai, in “untori”! Non solo il danno, ma anche la beffa! Per favore, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?» Sono affari miei! Chiudo la parentesi.

Il Papa ovviamente non va oltre il solito (banale?) e ingenuo discorso intorno all’uomo astrattamente considerato che pretende di farsi Dio non avendone le capacità, ed essendo piuttosto vittima della demoniaca brama di profitti, mentre bisognerebbe «sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale». Il “neoliberista” scuote la testa, il “progressista” applaude come da copione. Massimo Cacciari, dall’alto della sua filosofia katechontica, nicchia: «Il discorso di Bergoglio è un grande appello alla fraternità universale che resterà, lo sappiamo, purtroppo inascoltato. Egli sviluppa temi ormai classici nelle encicliche della Chiesa. Insomma è naturale che Bergoglio parli delle tragedie del mondo in questi termini» (La repubblica). Io invece penso che il mondo creato dal capitalismo non possa che essere disumano e disumanizzante, e che per questo esso non debba conoscere altra “riforma” che non sia la sua radicale distruzione in vista di un assetto autenticamente umano della Comunità dei fratelli e delle sorelle – finalmente affrancati dalla divisione classista. Ma questa è solo una mia bizzarra opinione che impallidisce al cospetto del buon samaritano di cui parla il Santissimo Padre nella sua Enciclica dedicata «alla fraternità e all’amicizia sociale».

La nostra minorità politica in quanto cittadini, così ben esemplificata dall’affermazione macroniana di cui sopra (vi amministriamo per il vostro bene), si può a mio avviso comprendere in tutta la sua tragica portata solo se considerata alla luce della dittatura sociale che qui mi sono limitato a richiamare all’attenzione di chi legge, e sul cui fondamento è possibile ogni tipo di “involuzione autoritaria”. Inclusa quella dei nostri giorni, di queste ore.

«Con il virus non si può fare una trattativa, né politica né sindacale», ci dice il saggio Galli pensando di infilzare con la sua “pungente ironia” i teorici del “negazionismo” (no virus, no mask, no vaccino); e infatti non si tratta di raggiungere un compromesso di qualche tipo con il virus: si tratta (si tratterebbe!) di farla finita una buona volta con una società che ci espone a ogni genere di rischio (da quello pandemico a quello idrogeologico, da quello ecologico a quello bellico, da quello economico a…, fate un po’ voi), a ogni sorta di preoccupazioni e sofferenze.

«Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà» (Fratelli tutti). È quello che ho detto!

LA MELA MARCIA

A mio avviso, tutti dovrebbero avere paura di finire, per un qualche motivo (spesso per “errore”), in una caserma dei carabinieri, in una stazione di polizia o in una cella carceraria: qualcosa potrebbe sempre andare storto, per così dire. Ma se per sfortuna appartieni alla “categoria” dei negracci, dei tossici, delle puttane, dei transessuali, dei barboni, dei matti o a qualche altra “categoria” di cui è composta la feccia indegna di umana considerazione e di diritti, stai pur sicuro che le probabilità di uscire ammaccato dai luoghi in cui si esercita il monopolio della violenza per conto dello Stato democratico aumentano esponenzialmente. Non lo dico io: è “l’evidenza statistica” che parla forte e chiaro. Ma ciò che deve maggiormente inquietare lo sfigato, è che buona parte della cosiddetta opinione pubblica è disposta a chiudere un occhio, spesso entrambi, quando il malcapitato di turno alle prese con le amorevoli cure dei tutori dell’ordine fa una brutta fine : «Qualcosa avrà sicuramente fatto. Di certo se l’è cercata! In ogni caso bisogna sempre stare dalla parte della polizia e dei carabinieri. E poi, poche mele marce non devono infangare l’onore dei nostri uomini in divisa». Poche mele marce: ancora con questa risibile fandonia!

Per come la vedo io, marcia fino all’osso è questa società disumana e violenta; una società dominata dal Dio Denaro, la cui semplice esistenza (soprattutto per ciò che esso presuppone: il lavoro venduto e acquistato come merce), spiega ogni sorta di “aberrazione sociale” e di cattiveria toccata in sorte agli individui. Più che di «catena gerarchica di comando», dovremmo piuttosto parlare di catena capitalistica, quella che ci tiene immobilizzati dinanzi al Moloch sociale che ogni giorno reclame le sue vittime. Bisogna avere paura, molto paura, di questa società, il cui pugno d’acciaio (e non alludo solo ai tutori dell’ordine) può colpirci in ogni momento, con cieca e sconvolgente casualità.

Post scriptum

Cosa intendo dire con «dobbiamo avere paura»? Intendo questo: non dobbiamo sottovalutare la natura radicalmente disumana di questa società, sottovalutarne la mostruosità (e il mostro incute paura), nutrire su di essa illusioni di stampo progressista. Nella mia prospettiva avere paura di questa società significa mettersi nelle migliori condizioni di comprenderla e di combatterla. La paura di cui parlo non spinge alla fuga, alla resa, all’impotenza: tutto il contrario! Essa spinge (almeno è quanto mi auguro) alla consapevolezza, alla solidarietà (insieme si è più coraggiosi) e alla lotta. In questo senso, come diceva l’attore, «la paura è nostra amica».

 

È QUESTA LA VERITÀ SU REGENI!

«La verità su Regeni è il Sistema Mondiale del Terrore (o società capitalistica mondiale che dir si voglia), di cui fanno parte a pieno titolo l’Italia e l’Egitto» (Tutto il male del mondo. Quale verità per Giulio Regeni?).

«C’è anche l’ok del consiglio dei ministri e a questo punto la vendita delle navi da guerra all’Egitto è solo una formalità. Manca l’ultima firma di un ambasciatore, ma quel che conta è l’assenso al termine di un’informativa di Giuseppe Conte. Con il regime di Al-Sisi ha prevalso la logica dell’appeasement e non quella dei pugni sul tavolo. Carmelo Miceli (PD), responsabile nazionale per le Politiche della sicurezza, ribatteva già ieri mattina che la vendita delle navi è ottima e anzi indispensabile. “È inaccettabile – affermaMiceli – la vulgata che vuole che con questa commessa si paga il silenzio su Regeni. Considerare questo rapporto commerciale con Egitto come una “mancetta” per l’acquisto del silenzio è scorretta. In questo momento non possiamo perdere un posizionamento geopolitico in Egitto. L’Italia ha perduto il suo ruolo di riferimento in Tripolitania a vantaggio della Turchia e la nostra relazione con l’Egitto può essere il viatico per una ricollocazione dell’Italia tra i Paesi che contano in ottica pacifista. Questa commessa non è solo un affare commerciale. Dietro la fornitura di armamenti c’è un reciproco affidamento di carattere politico e geopolitico che può essere d’aiuto alla ricerca di verità su Giulio Regeni» (La Stampa). «Ottica pacifista»: datemi un martello! «Che cosa ci vuoi fare?» Lo so io!

«Sulla notizia della vendita di due fregate di Fincantieri all’Egitto promesse in precedenza alla Marina militare italiana è lecito sospendere il giudizio in attesa di conoscere maggiori dettagli sull’operazione. Dopo l’appalto ottenuto in Qatar, Roma riesce a infliggere un altro smacco a Parigi nel mercato delle forniture navali. L’Egitto era dal 2014 un acquirente privilegiato di navi da guerra francesi di superficie, con sette moderne unità ricevute fra navi d’assalto anfibio, fregate e corvette. Fincantieri ottiene invece l’ennesimo riconoscimento alle sue eccellenti capacità produttive in ambito militare, tanto più che la pandemia ha inflitto un colpo durissimo al settore civile e da crociera. Fin qui le buone notizie. Nel complesso la dinamica dell’accordo non ci è ancora completamente favorevole. Bisognerà sciogliere alcuni importanti nodi. Nell’immediato la spina dorsale della flotta italiana verrà privata delle due navi tecnologicamente più avanzate, lo Spartaco Schergat e l’Emilio Bianchi, realizzate grazie all’esperienza e alle lezioni acquisite nell’ultimo decennio con le precedenti otto unità. Non è chiaro se queste fregate saranno rimpiazzate, né in che modo: con altrettante Fremm, magari allestite in modalità antisottomarino, oppure con nuovi pattugliatori polivalenti d’altura, unità che possono surrogare soltanto in parte ai compiti delle più potenti fregate? La mancata compensazione alla Marina italiana può indebolirci in maniera oggettiva proprio mentre nel Mediterraneo è in corso il veloce riarmo navale dei vicini. Per questo va assolutamente evitata. Lo stesso Egitto – che di questo risiko è parte integrante – di certo non si trasforma magicamente in un nostro nuovo e amichevole partner solo in virtù dell’affare. Basti solo guardare alla Libia, dove il suo approccio è opposto a quello italiano. Inoltre, in assenza di un riequilibrio l’accordo sulle fregate favorisce indirettamente l’avversario turco: se da una parte indebolisce la superiore flotta italiana, dall’altra diluisce ulteriormente l’ossatura di una linea da battaglia egiziana che già non brilla per omogeneità. A riprova del fatto che la politica di acquisizione degli armamenti del Cairo risulti ancora pesantemente inficiata da considerazioni di utilità diplomatica ancor prima che militare. L’intera operazione acquisirà senso soltanto quando verranno confermate le indiscrezioni che legano la vendita delle fregate di Fincantieri ai contratti multimiliardari fra Italia ed Egitto in ambito militare anticipati nelle ultime settimane. Il Cairo sarebbe pronto a rivolgersi ai campioni industriali della Difesa italiana per acquisire altre quattro fregate, 20 pattugliatori d’altura, 24 caccia Typhoon, 24 addestratori M346 e persino un satellite. Commesse semplicemente da capogiro, che però sono ancora ben lungi dal diventare realtà. E privilegiare la pecunia non è certo una risposta ai fortissimi bisogni geostrategici che attanagliano il nostro paese. Specie nel Mediterraneo» (Limes).

Scriveva due giorni fa Il Manifesto, il noto quotidiano “comunista”: «Alla faccia della verità per Giulio Regeni e della libertà per Patrick Zaki e per altre centinaia di militanti sociali e sindacali seppelliti nelle carceri egiziane». Ma la verità su Giulio Regeni è proprio questa; quella che si manifesta da ultimo con la famigerata commessa militare di cui si parla. Comunque vada a finire la vicenda legata a questa importante operazione commerciale e militare, non dobbiamo perdere l’occasione che la situazione ci offre di guardare in faccia la realtà nella sua disumana verità. Scrivevo su un post di tre anni fa (Per tutti i Regeni del mondo):

«La terribile – ma tutt’altro che eccezionale – vicenda toccata in sorte a Giulio Regeni è insomma finita nel tritacarne degli interessi economici, geopolitici e politici. Com’era d’altra parte inevitabile che accadesse, come nel mio infinitamente piccolo ho cercato di dire fin dall’inizio: “In ogni caso, personalmente non ho bisogno di vedere i volti – veri o presunti – di chi ha materialmente massacrato «il nostro ragazzo» per condannare senza appello il vero colpevole dell’odioso crimine: il Sistema Mondiale del Terrore (o società capitalistica mondiale che dir si voglia), di cui fanno parte a pieno titolo l’Italia e l’Egitto. Il resto è ricerca del capro espiatorio di turno, cinico accomodamento diplomatico, gestione del potere, propaganda, geopolitica, business, giustizia amministrata per conto dello status quo sociale. Tutto il male del mondo che la madre di Giulio ha visto sul volto martirizzato del figlio è esattamente il vero volto di quel Sistema. Chiedere ‘giustizia’ per Giulio e per tutte le vittime del Moloch può avere dunque, per chi scrive, un solo significato umano e politico: rompere con la logica e con la retorica ‘del mio Paese’ e della ‘dignità nazionale’. Tanto per cominciare. Impostato il problema nei suoi corretti termini, la stessa richiesta di una ‘Verità per Giulio’ assumerebbe il pregnante significato di una denuncia del regime italiano e del regime egiziano, in particolare, e del regime internazionale delle relazioni interimperialistiche in generale. Dinanzi agli interessi del Capitale e degli Stati la vita umana appare del tutto sacrificabile: lo chiamano ‘effetto collaterale’. Un movimento d’opinione orientato in quel senso non sarebbe un obiettivo politico disprezzabile, mi sembra. Lo so benissimo, la cosa appare quantomeno ‘problematica’, e tuttavia…” (Tutto il male del mondo. Quale verità per Giulio Regeni?)».

CATTIVISSIMI PENSIERI

Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi (Frankie HI-NRG MC).

Oggi è difficile concepire una forma di bestialità o di follia, di oppressione o di improvvisa devastazione che non possa essere credibile, che non possa rapidamente trovar posto nella realtà dei fatti. Moralmente e psicologicamente è terribile essere così poco inclini allo stupore. Inevitabilmente il nuovo realismo cospira con tutto ciò che è o dovrebbe essere meno accettabile nella realtà. Eppure, al tempo stesso, il nostro progresso materiale è immenso, evidentissimo. I miracoli della tecnica, della medicina e della ricerca scientifica sono appunto tali. Ma la realtà si ritorce contro di noi, si fa gioco di noi. Le conquiste della tecnica, grandiose in sé, si realizzano dialetticamente e parallelamente come male, come rottura degli equilibri non ricostituibili tra società e natura, come distruzione dei sistemi viventi primari e degli ecosistemi. Oggi possiamo concepire un’utopia tecnocratica e igienica operante in un vuoto di possibilità umane (G. Steiner, Nel castello di Barbablù, 1971).

 

Un infettivologo consulente del Governo: «Il virus lo veicoliamo noi, le misure di distanziamento sociale nei prossimi mesi saranno di aiuto per la salute di tutti noi e per gli anziani e fragili. Purtroppo ancora niente baci e abbracci, manifestazioni di affetto in famiglia. La curva epidemica dipende da noi».

Un sindaco: «Adesso però tutto dipende da noi e dai nostri comportamenti ed occorre quindi tenere alta la tensione e l’attenzione».

Questo maledetto e odioso mantra del “Tutto dipende da noi” ci perseguita ormai da due mesi. Personalmente non ne posso più! Quando un funzionario al servizio di questa escrementizia società, di questa società che ci sta esponendo tutti i giorni al rischio della malattia e della morte, di questa società che sta rendendo ancora più difficile e precaria la nostra condizione sociale/esistenziale; ebbene quando un simile odioso personaggio ci dice che «tutto dipende da noi», dai nostri comportamenti, mi viene l’irrefrenabile voglia di bastonarlo a sangue. E forse tutto sommato questo scatto d’ira non è poi un cattivo segnale, almeno per me. Forse uscirò persino migliorato da questa crisi. Una volta tanto voglio essere ottimista!

Non solo questa società ci rende difficile la vita anche nelle attività più elementari, ma i suoi funzionari (politici, esperti, intellettuali, artisti, ecc.) ci vogliono inoculare il virus del senso di colpa: «Stai a casa, non mettere a rischio la vita dei bambini e degli anziani. Segui comportamenti responsabili, perché la curva epidemica dipende da te». Dipende da me? Ma io afferro un bastone! Metaforico, signori tutori dell’ordine, metaforico.

Un deputato del PD ha detto l’altro ieri alla Camera che la famiglia italiana è stata eroica, perché ha dimostrato una responsabilità, una pazienza e una resilienza [sic!] che nessuno prima della crisi sanitaria immaginava possibile. Naturalmente per il deputato piddino eroi sono stati e sono soprattutto i medici e gli infermieri che hanno rischiato e che continuano a rischiare la vita tutti i giorni pur di salvare i cittadini contagiati. «Dobbiamo andar fieri di questo Paese!». Di merda! Mi è scappato e mi scuso! Ma dopo 153 medici morti, 34 infermieri, 18 operatori sociosanitari e 13 farmacisti morti…. E gli oltre 27mila morti per Coronavirus vanno messi tutti sulla “coscienza” di questa società, uno dopo l’altro. Ho detto società, non sul conto di questo o quel governo, di questa o quella regione, di questo o quel Paese (la Cina, ad esempio), ma della società capitalistica complessivamente e globalmente considerata.

Questa pandemia è stata ampiamente prevista e annunciata, ma prevenirla avrebbe avuto costi incompatibili con la società che fa del calcolo economico la sua ossessione. Nella società capitalistica deve necessariamente dominare il calcolo economico, al quale è tutto subordinato, a iniziare dall’uomo. Oggi in tutto il mondo deve dominare la “sacra legge del profitto”, non la legge dell’uomo: qualcuno lo faccia sapere anche a Sua Santità (e agli altri progressisti laici che lo venerano), le cui prediche “antiliberiste” diventano di giorno in giorno sempre più stucchevoli e infantili.

Massimo Cacciari: «Non c’è dubbio che la crisi del Coronavirus abbia portato alle estreme conseguenze tendenze già in atto da tempo. Si è rivelata come un formidabile acceleratore della trasformazione del lavoro e della sostituzione delle attività umane più “meccaniche” con la tecnologia. È come nella Grande Crisi del 1929, solo che stavolta stiamo assistendo a un cambiamento profondo dei rapporti di forza all’interno del capitalismo e tra Capitale e Lavoro. Ci sono settori distrutti e altri, come il sistema dei Big Data e l’e-commerce, che stanno realizzando guadagni strepitosi. Il gioco prevede vincitori e vinti» (La Stampa). Di certo da questa ennesima rivoluzione capitalistica il «Lavoro» (salariato, cioè sfruttato) uscirà con le ossa ancora più rotte. «Stiamo assistendo in corpore vivi a un esperimento di scomposizione totale dell’organizzazione del lavoro», continua il noto filosofo prestato alla politica – o viceversa. Soluzioni? «La politica deve mettersi gli stivaloni magici del gatto e dobbiamo tutti sperare che si metta a correre davvero. Perché, se non ce la fa, sarebbe l’infarto delle democrazie liberali e già si vedono i modelli che riscuotono più consenso: la Cina e la Russia sono davanti a noi. La sfanghiamo se tutti i leader europei diventano consapevoli del rischio». Contrapporre al modello autoritario-totalitario russo-cinese il modello democratico-liberale europeo: una prospettiva davvero affascinante e piena di promesse per l’umanità. Si scherza per non brandire il metaforico bastone. Quando le classi subalterne metteranno «gli stivaloni magici (leggi: rivoluzionari) del gatto»? Lo scopriremo solo vivendo? Mah! Anche perché nei tempi lunghi…

Mancano i più elementari presidi igienico-sanitari (personalmente solo da pochi giorni sono riuscito a trovare in farmacia due mascherine, che ho acquistato al modico prezzo di 8 euro!), e ci dicono che «tutto dipende da noi»! Negli anni hanno ridotto la spesa sanitaria, e ci vengono a dire che «tutto dipende da noi»! Ci sequestrano in casa perché non sanno che fare («State a casa e lavatevi spesso le mani»: e fin qui ci arrivavo pure io!), e ci dicono che «tutto dipende da noi!» Hanno trasformato ospedali e case di riposo in incubatori del Coronavirus, e ci dicono che «tutto dipende da noi»! Questa Società-Mondo ha distrutto gli ecosistemi scatenando contro gli animali e contro gli umani una vera e propria guerra batteriologica, e ci dicono che «tutto dipende da noi»! Ma i servitori di questo regime a chi vogliono prendere in giro? Come diceva il Sommo Artista, ogni limite ha una pazienza…

E qui arriviamo al vero punto dolente – e tragico – della questione. Il problema, almeno per come la vedo io, non è che i funzionari al servizio del Moloch provino, più o meno “oggettivamente”, a prenderci in giro con repellenti discorsi demagogici, ma che noi, noi come insieme di individui maltrattati dal “sistema” (capitalistico), ci lasciamo prendere in giro, siamo incapaci di opporre al discorso del Dominio una efficace e produttiva (cioè feconda di un nuovo mondo, di nuove e più umane possibilità) resistenza. Quel discorso penetra nelle nostre coscienze come una lama d’acciaio nel burro. Per quanto tempo ancora?

Ferruccio De Bortoli: «Al governo rimprovero la mancanza di chiarezza e l’eccessiva enfasi sulla responsabilità dei cittadini italiani, che in questi mesi sono stati bravissimi. Dobbiamo trattarli come persone adulte, non come adolescenti». Siamo stati «bravissimi»: ecco, appunto! Per quanto tempo ancora? Tutte le decisioni che riguardano fin nei minimi dettagli la nostra vita, sono prese da altri ed esse passano completamente sopra la nostra testa e alle nostre spalle. Abbiamo solo il “potere” della pazienza, della “responsabilità” e della “resilienza”, ossia dell’obbedienza. Ci trattano non «come persone adulte» ma «come adolescenti», ed è esattamente questo che siamo dal punto di vista sociale. Anche quando nell’ultimo post ho parlato di “gregge”, non si è trattato di un giudizio di valore astrattamente etico inteso a offendere la massa degli individui atomizzati, ma piuttosto di una critica politica a un dato di fatto, a un oggettivo comportamento sociale visto da una prospettiva che non lascia agli uomini la sola falsa alternativa tra il meno peggio e il peggio. È su questo terreno che si radica l’etica della responsabilità come la concepisco io: socialmente responsabile è accettare il rischio della rivoluzione anticapitalistica per farla finita con una società che ci espone a ogni sorta di pericolo e che fa degli individui e della natura risorse economicamente “sensibili”.

«Ho voluto rappresentare un uomo in ginocchiato perché credo che, mai come ora, ci sentiamo impotenti di fronte a quello che sta accadendo», confessa a Repubblica l’artista Sergio Furnari, autore di «una statua genuflessa nel cuore di Times Square con le mani rivolte al cielo, diventata il simbolo della lotta alla pandemia». Ma non sarebbe ora di alzarsi e di camminare, come Lazzaro, verso una nuova vita?

Enzo Soresi, chirurgo specializzato in oncologia polmonare e autore del bestseller Il cervello anarchico (Utet, 2005): «Se l’isolamento durasse troppo a lungo pagheremmo danni neurobiologici importanti per la mancanza di relazioni, per l’impossibilità di abbracciarci, di toccarci, di scambiare informazioni: noi viviamo di emozioni, sostenute da una serie di algoritmi nel cervello, che vanno rispettati e, se le perdiamo, siamo penalizzati a livello biologico». E questo potevo dirlo perfino io, che di «algoritmi nel cervello» ne conto davvero pochi. «Nell’uomo c’è una capacità di adattamento affascinante, come racconta Sacks in Un antropologo su Marte, a proposito di quel cieco che, dopo che la moglie gli ha fatto fare tanti interventi per riacquistare la vista, alla fine diventa un disadattato…» (Il Giornale). E se fosse proprio questa poco affascinante capacità di adattamento a fregarci? Vallo a sapere! In ogni caso la metafora proposta dal dottor Soresi ben si presta a evocare la tragedia dei nostri tempi, ossia la cecità che colpisce gli uomini proprio nel momento in cui essi sono – “oggettivamente” – a un passo dalla liberazione. «Le situazioni di dolore del corpo sono spesso legate a conflitti emotivi non liberati. Le sofferenze possono aumentare in un momento come quello che stiamo vivendo ed è per questo che dobbiamo fare attività fisica, per liberarci». Va bene, per adesso accontentiamoci di questa liberazione, bisogna essere realisti – diciamo così.

Ultimo pensiero cattivissimo. Dice il poeta: Scintilla, scintilla delle mie brame, dai fuoco a tutto il reame! Anche perché così uccidiamo una volta per sempre il maledetto Virus: altro che la calura estiva!

SI – PUÒ – FARE!

La cosiddetta “Fase 2” conferma sostanzialmente lo Stato di polizia confezionato brillantemente dal Governo italiano durante la cosiddetta “Fase 1”. L’esperimento sociale in atto da circa due mesi sta dimostrando che il gregge segue alla perfezione gli ordini impartiti dal Pastore e imposti capillarmente dai suoi cani da guardia. Salvo le solite eccezioni (del resto le pecore nere non mancano mai, ma non creano troppi disturbi all’economia della Sovranità), gli italiani hanno dato prova di possedere una capacità di sopportazione e di disciplina (chiamata anche “senso di responsabilità”, “senso civico” ecc.) che ha spiazzato non pochi osservatori politici e diversi intellettuali, di “destra” e di “sinistra”.

Questi personaggi sono stati sorpresi soprattutto dalla facilità con cui è stato possibile transitare da uno stato di “normalità” a uno di “eccezione” (1), anzi di Lockdown (2). Certo, la paura del virus, l’angoscia di morte ecc. hanno lavorato in profondità, hanno quasi azzerato la già indebolita “capacità di resistenza critica” delle persone; tuttavia il Moloch si è mosso su un terreno già preparato da tempo: un terreno continuamente arato, fertilizzato, seminato e innaffiato. Che bei frutti stiamo raccogliendo! La metaforica rana di Chomsky è da un pezzo che si lascia lentamente riscaldare dal “sistema”, e adesso che l’acqua inizia a bollire… «Ahi! Che succede?» Che peccato, si stava così bene al calduccio!

No, questa crisi sociale non sta inventando nulla che non fosse già presente nella società quantomeno sotto forma di tendenza, mentre essa accelera, frena e devia processi sociali in corso da molto tempo.

L’esperimento sta dunque riuscendo, almeno fino a questo momento; come diceva il dottor Frederick Frankenstein, «Si- può- fare!» Il Moloch ne prende nota, per la prossima emergenza. Giordano Bruno Guerri parla di «scintilla del possibile che si annida nel grigiore della quarantena»; si tratta di capire la natura di questa scintilla: quale incendio ci aspetta? Sempre che si tratti di un incendio, beninteso.

Forse è utile ripetere un concetto che ho cercato di esprimere nei miei post dedicati a questa crisi sociale: qui non si tratta di capire se siamo dinanzi a un complotto fabbricato dal Moloch (cioè dal dominio sociale capitalistico) o da una qualche “Entità” non ancora meglio identificata, oppure alla pessima volontà (o all’incapacità) dei decisori politici. Si tratta piuttosto di prendere atto di un fatto, di un risultato, di un processo sociale che realizza oggettivamente un ulteriore giro di vite esistenziale ai danni degli individui, in generale, e delle classi subalterne in particolare.

(1) «Il virus sta già cambiando il nostro modo di vivere e di pensare, anzi lo ha già fatto, è sotto gli occhi di tutti, e ci cambia apparentemente in peggio. Aumenta la diffidenza, cresce la lontananza fisica tra le persone. Non sarà facile tornare indietro. La scintilla del possibile si annida nel grigiore della quarantena. La possibilità più cupa che temo di più è quella del potere, il quale appena sente l’odore del sangue ci si affeziona. Il Coronavirus è stato il battesimo del sangue per tanti aspiranti autocrati. Ma ciò che mi ha più stupito non è il fatto che ci provini, ma la facilità con cui la gente è stata privata della libertà e si è lasciata privare della libertà. Questa è stata la scoperta più brutta di questi mesi. Ma altri mostri incombono; ad esempio il braccialetto elettronico, il controllo dei dati sensibili. Se ci pensate, agli aspiranti emuli del Grande Fratello mancava solo l’ultima frontiera: il controllo fisico, quello sulla mobilità delle persone. Ci siamo arrivati. Il controllo poliziesco mi spaventa anche quando diventa una necessità. Bisogna avere consapevolezza del rischio che corriamo» (G. B. Guerri, La Verità).

(2) «Lockdown è sulla bocca di tutti e viene usato per indicare l’isolamento e la chiusura forzata per l’emergenza sanitaria. In realtà – sostiene Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca – ci sono due parole equivalenti nella nostra lingua: “Confinamento” e “segregazione”. Il significato in inglese di “lockdown”, anzi in americano perché il termine non viene da Oxford, ha infatti origine dal linguaggio carcerario: vuol dire confinamento dei detenuti nelle loro celle durante una rivolta, misura che nel Nord America è in vigore dal 1983. Per estensione, poi, la parola ha assunto anche il significato di stato di isolamento o di restrizione per motivi di sicurezza. “Seppure i provvedimenti di lockdown siano stati presi molto tardi proprio dagli americani e dagli inglesi – prosegue – in Italia abbiamo sentito il bisogno di usare un’espressione loro, forse perché suonava meno spaventosa del più crudo “segregazione”, o forse si è messo in atto il solito procedimento: attribuire a una parola straniera assolutamente ignota agli italiani un significato tecnico molto specifico, e poi far circolare questa parola al posto delle nostre, chiare e trasparenti» (La Stampa). Come diceva quello, «Le parole sono importanti».

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ANDRÀ COME DEVE ANDARE…

La preghiera quotidiana

Walter Ricciardi, «consigliere del ministro della Salute Speranza ed esperto di sanità pubblica di fama internazionale»: «Uno studio presentato il 24 aprile dal sottosegretario alla sicurezza interna Usa alla Casa Bianca mostrerebbe che il virus soffre il caldo umido. Al chiuso, con 24° e 20% di umidità può resistere su una superficie per 18 ore, con 35°e un tasso di umidità dell’ 80% la sua permanenza non supera l’ ora. Se poi si è al sole bastano 24° e lo stesso livello di umidità perché scompaia in due minuti» (La Stampa). Amen!

«Nella nostra epoca, in cui gli scrittori e gli scienziati hanno così stranamente usurpato il ruolo dei sacerdoti, l’opinione pubblica, con una compiacenza che non ha un fondamento razionale, pensa che le facoltà artistiche e scientifiche siano sacre. […]L’opinione degli specialisti esercita un potere pressoché sovrano su ciascuno di noi» (Simone Weil, La persona è sacra?).

Come si cambia, per non morire…

«Non essendo un giurista, non so se questi decreti siano incostituzionali. A occhio, mi pare di sì. Il punto però non è questo. Il punto è l’ abitudine all’ illibertà. All’ emergenza permanente. Da due mesi stiamo vivendo un esperimento sociale disumano. Non abbiamo più vita sociale, di lavoro, un contatto con il mondo esterno. Siamo chiusi dentro quelle che a volte sono capsule, perché la stragrande maggioranza della gente non vive in delle regge. Molta gente comincia a pensare: “Che fortuna che arrivino le forze dell’ ordine a beccare uno che sta prendendo il sole in spiaggia!”. “Ah, maledetti runner!”. “Ah, maledetti bambini!”.”Ah, maledetti cani!”» (P. Battista, La Verità).

Anche io ieri, sull’autobus, ho odiato un tizio, salito a bordo con tanto di mascherina d’ordinanza e di guanti igienici, che ha iniziato a tossire. L’ho fulminato con uno sguardo pieno di disprezzo, come se il poverino fosse salito sull’autobus per attaccarmi il maledetto Virus, come se ce l’avesse personalmente con me. Di certo io non uscirò migliorato da questa catastrofe umana.

PRENDERE LA SPESA O PRENDERE IL POTERE? Una breve – e semiseria – riflessione sulla “spesa proletaria”

Per la psicologia sociale la domanda si pone in questi termini: non si chiede perché l’affamato ruba o perché lo sfruttato sciopera, ma il motivo per cui la maggior parte degli affamati non ruba e perché la maggior parte degli sfruttati non sciopera (W. Reich, Psicologia di massa del fascismo).

Prendere la spesa o prendere il potere? Per iniziare, i nullatenenti che non hanno più uno straccio di reddito su cui contare per tirare avanti incominciano a prendersi la spesa, poi si vedrà. Come si dice, l’appetito vien mangiando. Un’altra genialata “dottrinaria”: meglio la spese oggi che il potere domani! Scherzo, cerco di sdrammatizzare il clima, anche se immersi come siamo in questa plumbea e pesante situazione, niente invita alla risata.

Sono ancora poche le famiglie proletarie, soprattutto del Mezzogiorno, che fiaccate oltremodo dalla crisi sociale in atto a livello planetario sono tentate di bypassare il problema dell’esaurita “liquidità” ponendosi apertamente sul terreno dell’appropriazione indebita (legge alla mano!) di generi alimentari e di quanto serve per l’igiene personale e per la pulizia della casa. Sono stati costretti a farlo da uno stato di necessità di cui queste famiglie certamente non portano alcuna responsabilità, essendone invece le prime vittime.

L’altro ieri a Palermo un gruppo di persone ha cercato di assaltare un supermercato; oggi i più grandi supermercati della città siciliana sono presidiati dalle forze dell’ordine. «Gli investigatori guardano dentro al gruppo “Rivoluzione nazionale” per comprendere chi ha promosso l’idea di assaltare il supermercato Lidl e ha anche lanciato la proposta di organizzare altri raid per rubare la spesa. […] Al gruppo Facebook “Rivoluzione nazionale” dove c’era chi invitava pure alla violenza contro gli “sbirri” sono iscritti in oltre 2.500 e ci sarebbero anche i nomi di diversi pregiudicati della città» (La Repubblica). Il carattere “nazionale” della minacciata “Rivoluzione” certamente non allarga il cuore, ma qui ciò che interessa è la sintomatologia sociale. Anche a Catania sono comparsi sul Web analoghi gruppi di quartiere orientati a organizzare una spesa collettiva gratuita, diciamo così. Si sono anche registrati casi (a Napoli e altrove) di “scippi di spesa”, secondo uno scenario di tutti contro tutti davvero inquietante.

E certamente il dilagante disagio sociale inquieta il governo, peraltro sensibilizzato dai pennivendoli di regime che sollecitano lo Stato a “tenere alta la guardia”, ventilando la possibilità che mafiosi e non meglio precisati “sobillatori” possano avvantaggiarsi del malessere che sta toccando una parte tutt’altro che piccola della popolazione italiana. Affettando la solita italica ipocrisia, oggi in tanti “scoprono” l’esistenza di un vastissimo “mercato del lavoro nero”, che non comparendo nei radar dello Stato lascia i lavoratori “in nero” completamente privi di qualsivoglia tutela sociale. Lo stesso reddito di cittadinanza (leggi sudditanza) ha poco impatto se non si somma con un salario percepito “in nero”. Che grande scoperta!

«Il Sud è una polveriera. Non ci sono soltanto i lavoratori forzati alla cassa integrazione dalla chiusura delle fabbriche che ancora non hanno ricevuto i soldi. Il fuoco che cova sotto la cenere della segregazione domiciliare è un altro. E potenzialmente esplosivo. Sono i lavoratori di quella che l’’Istat definisce con un eufemismo “l’economia non osservata”. I lavoratori irregolari, quelli totalmente in nero, quelli che vivono di illegalità. L’ultimo rapporto dell’Istituto di statistica spiega che ci sono 3,7 milioni di persone impiegate nel sommerso e nel mondo di sotto» (Il Messaggero). Ma nel capitalismo è l’intero mondo che è messo sottosopra!

A proposito di reddito di sudditanza e di mercato del lavoro! Dopo settimane di imbarazzato letargo, il noto scienziato sociale Beppe Grillo si è infine svegliato per regalarci la perla che segue: «È arrivato il momento di mettere l’uomo al centro e non più il mercato del lavoro. Una società evoluta è quella che permette agli individui di svilupparsi in modo libero, creativo, generando al tempo stesso il proprio sviluppo» (dal suo famigerato Blog). Quasi quasi ci credo. Quasi quasi abbocco. Quasi… La stessa esistenza di simili personaggi ci dice quanto l’umanità sia abissalmente lontana da una «società evoluta».

Scriveva ieri Maurizio Molinari sulla Stampa: «Sanità, economia e ordine pubblico: la pandemia Covid-19 ha innescato tre diverse crisi che, sovrapponendosi, mettono a serio rischio la tenuta del Paese imponendo al governo Conte di dimostrare in fretta la leadership necessaria per trovare soluzioni rapide ed efficienti. […] Corriamo  il rischio strategico di pesanti danni al sistema economico e gli allarmi sullo scontento sociale nel Sud ne esce il ritratto di un Paese pericolosamente in bilico, che ha bisogno di azioni coraggiose e rapide da parte dei propri leader di governo. Perché il tempo non gioca in nostro favore». La paura fa 90, si dice dalle nostre parti. Ma a favore di chi gioca il tempo? Vallo a sapere! Personalmente posso dire che, come umanità in generale e come nullatenenti (oggi più che mai!) in particolare, siamo immersi nella cacca più di ieri e molto probabilmente meno di domani.

«”Potenziale pericolo di rivolte e ribellioni, spontanee o organizzate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia dove l’economia sommersa e la capillare presenza della criminalità organizzata sono due dei principali fattori di rischio”. L’intelligence con un report riservato indirizzato alla Presidenza del Consiglio ha messo in guardia il Governo sulla possibilità che la crisi economica e le serrate di diverse attività commerciali a causa dell’ epidemia del Coronavirus possano scatenare disordini sociali» (Il Mattino). «La capillare presenza della criminalità organizzata»: l’alibi repressivo è già confezionato!

Negli anni Settanta del secolo scorso andava di moda il cosiddetto “esproprio proletario”, ma si trattò più che altro, e salvo le solite rare eccezioni, di un’indicazione sloganistica fortemente caratterizzata sul piano politico-ideologico, e non di un’effettiva pratica sociale diffusa. Personalmente ho visto praticare “espropri proletari” e “autoriduzioni” più da studenti politicizzati di estrazione medio-alto borghese, che da disoccupati e da proletari in genere. La “politica attraverso l’esempio” in ogni caso non attecchì presso gli strati sociali proletari cui era indirizzata, mentre non pochi giovani studenti “espropriatori” dovettero vedersela con la Giustizia – anche perché i partiti di allora, segnatamente il PCI e la DC, legiferarono nel senso di una criminalizzazione estesa all’intero movimento di opposizione sociale, assimilato anche dalla maggior parte dei pennivendoli italioti a serbatoio di “fiancheggiatori del terrorismo”.

Anche dopo la crisi economica del 2008 si segnalarono in Italia alcuni casi isolati di “spesa proletaria” (o “esproprio solidale”), ma anche allora si trattò soprattutto di un fenomeno più politico-ideologico che sociale, e cioè dell’iniziativa dei giovani “disobbedienti” dei centri sociali. Il riscontro sociale di quell’iniziativa non fu molto incoraggiante, diciamo così, per i “disobbedienti”, anche se questo non depone a loro completo demerito. Oggi stiamo parlando di tutt’altra cosa, come dimostra anche l’attivismo “solidaristico” delle autorità governative nazionali e locali, che stanno reagendo all’assai scottante “problematica” agendo sulle due classiche leve: sussidi (o carità sociale che dir si voglia) e incremento della militarizzazione del territorio. Per oggi è tutto dal mio personale fronte della quarantena. Gli obblighi della sopravvivenza mi chiamano: devo andare a fare la spesa. Ho detto spesa, Maresciallo Gargiulo, non esproprio!

Aggiunta pomeridiana

Sul Fascio Quotidiano di oggi il noto manettaro Marco Travaglio, uno dei più prestigiosi (insieme a Giuliano Ferrara) lecchini dell’attuale governo, si chiede: «Possibile che, dopo un mese scarso di quarantena, siamo già tutti alla fame?» Tutti magari no, signor manettaro, ma molti sì; molti pensano a come sopravvivere, insieme ai loro cari, il prossimo mese, e forse anche il mese successivo. «Cari dirigenti dell’Unione sindacale di base, ma che vi dice il cervello quando postate su Fb “Reddito o rivolta”? Ma lo sapete che vuol dire “rivolta”? E contro chi? […] I gruppi Facebook che minacciano rivolte, jacquerie, grand guignol, assalti ai forni e ai supermercati fissano tutti il D-Day al 3 aprile. Evitiamo per il nostro bene, e per motivi di ordine pubblico, di alimentare quest’attesa messianica del 3 aprile. Si dice che chi gioca col fuoco fa la fine del pollo arrosto». Capito il messaggio, cari “irresponsabili”? «In questo momento di tutto abbiamo bisogno, fuorché di irresponsabili [è quello che dicevo!] che soffino sulla cenere che cova nelle case di molti italiani ai domiciliari [finalmente tutti in galera, come da sempre auspica il “filosofo” di riferimento dei manettari, il giudice Piercamillo Davigo], senza lavoro né stipendio, terrorizzati dal contagio e dal futuro, in cerca di un colpevole visibile su cui scaricare la rabbia, essendo il virus invisibile e inadatto alla bisogna». E individuare nel rapporto sociale capitalistico il «colpevole invisibile su cui scaricare la rabbia» può essere adatto alla bisogna? «In galera, in galera!» Non avevo dubbi! Forse è meglio procrastinare sine die la messianica data: la scienza ci dice che in giro per il mondo ci sono altri 1300 virus nuovi di zecca che ci attendono al varco. Senza contare la resilienza batterica. Che tempi!

PROVE TECNICHE DI TOTALITARISMO?

No, nessun complotto, nessun progetto malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto, nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie.

Ciò che qui evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e quant’altro. Per il South China Morning «Quando lo Stato si espande per affrontare una crisi, poi rimane nelle nuove dimensioni anche dopo che la crisi è scomparsa»: niente di più vero! Il Moloch si avvantaggia sempre degli stati d’eccezione, i quali peraltro non fanno che confermare la regola del Dominio. Oggi più di ieri i quotidiani italiani sono pieni di metafore belliche e di invocazioni autoritarie; per molti politici, intellettuali e commentatori politici, forse è finalmente arrivata l’occasione per raddrizzare la schiena etica degli italiani, per farne dei cittadini responsabili e civili: è il sogno che a suo tempo accarezzò anche Benito Mussolini, prima di arrendersi dinanzi a un “materiale umano” che alla fine egli giudicò troppo scadente e ormai irrimediabilmente malato: «Governare gli italiani non è difficile, è inutile».

Oggi Giuliano Ferrara, forse il più convinto sostenitore dei «pieni poteri» in capo al governo, scrive che la ribellione contro «l’irregimentamento totalitario in forme diverse ma convergenti, [come si verifica] nel mondo nazifascista e in quello comunista» è sempre eticamente e politicamente giustificata, mentre non lo è mai se prende di mira le decisioni assunte dalle istituzioni, centrali e periferiche, che compongono lo Stato democratico. «Ribellarsi è sempre stato un gesto di libertà e in certi casi di responsabilità. Disobbedire agli ordini criminali un atto di eroismo. Insubordinarsi contro le angherie, le prepotenze, nel pubblico e nel privato, una benedizione». Ma oggi non si tratta di questo: «La disobbedienza non è più una virtù». Di più: oggi la disobbedienza è un crimine contro l’umanità, letteralmente; criminali sono tutti i cittadini che non volendo attenersi alle regole sanitarie imposte per decreto dal governo, mettono a rischio la vita di molte persone. Se Ferrara ha bisogno di scomodare concetti così forti per difendere l’operato del governo, significa che davvero stiamo vivendo una fase storica importante, per diversi aspetti eccezionale, e certamente tutt’altro che banale.

Giunti a questo punto è forse il caso di ricordare, in modo assai sintetico, quale concetto ho cercato di esprimere in questi giorni virali. Con l’emergenza epidemica (o pandemica) segnata dal Coronavirus (che genera la malattia chiamata Covid-19) siamo dinanzi a una vera e propria crisi sociale, e non semplicemente sanitaria. Sociale non solo nelle sue conseguenze, come tutti sono disposti a concedere, ma anche nella sua genesi e intima natura. Ciò che ci ha esposti e ci espone al rischio della malattia e della morte non è infatti la cieca potenza della natura, sotto la subdola forma del virus, ma la cieca e disumana potenza sociale che tiene in ostaggio (in quarantena?) l’intera umanità, e ormai da moltissimo (troppo!) tempo. Marxianamente parlando, non controlliamo ciò che noi stessi creiamo, e non possiamo farlo perché le relazioni sociali che informano le nostre più significative pratiche sociali, a cominciare da quelle connesse con la produzione di ciò che ci permette di esistere fisicamente, non sono orientate verso la soddisfazione dei nostri bisogni e la nostra felicità, come invece proclama l’ideologia dominante, ma verso la soddisfazione di stringenti (dittatoriali, totalitari) requisiti economici: le aziende che non generano profitti devono licenziare o dichiarare fallimento; i governi devono fare i conti con la sostenibilità finanziaria del welfare e con la produttività generale dell’economia, che poi è quella che in ultima analisi finanzia lo Stato attraverso le tasse, e così via. È evidente che una simile organizzazione sociale deve necessariamente generare contraddizioni d’ogni tipo, sempre di nuovo, e questo appunto a prescindere dalla volontà di capitalisti, politici e di chi a vario titolo amministra la nostra vita per conto della conservazione sociale, ossia delle classi dominanti.

In queste condizioni, credere che possiamo stabilire una relazione razionale e umana con la natura significa davvero pretendere l’impossibile. Ecco perché sulla base di questa società; sul fondamento della società capitalistica mondiale, ogni genere di catastrofe sociale (inclusa quella che erroneamente rubrichiamo come “naturale”: terremoto, alluvione, tempesta, ecc.) è altamente probabile: è la realtà che si incarica di dimostrare la dolorosa verità di questa tesi, che il modestissimo pensiero di chi scrive si limita a esprimere senza avvertire il bisogno di addolcire l’amara pillola. «Ribellarsi è sempre stato un gesto di libertà e in certi casi di responsabilità», scrive il noto Elefante: e lo è anche in questo caso, soprattutto in questo caso!

Ma la ribellione a cui oggi chiamo chi legge queste poche righe non è quella che si sostanzia nell’uscire di casa senza mascherina e di abbracciare e sbaciucchiare amici e parenti, di stringere mani e abbracciare la prima persona che passa solo per dimostrarle umana amicizia e comprensione ( non fatelo: si commette un grave reato!); no, si tratta di una ribellione “concettuale”, che già sarebbe a mio avviso moltissimo, di questi pessimi tempi. Si tratta appunto di capire che tutto quello che stiamo vivendo in questi giorni non ha nulla a che fare né con la natura, né col caso né con gli imprevisti della vita: è la società del capitale, del profitto, della merce e del denaro che ci infligge sofferenze e preoccupazioni d’ogni tipo. È allo spirito della solidarietà nazionale, del “siamo tutti sulla stessa barca” (capitalistica!) che dobbiamo – dovremmo – ribellarci.

Pensare che veniamo trattati da chi ci governa (per il nostro bene, è chiaro!) da minorati sociali bisognosi di paterne cure, e che noi glielo permettiamo come fosse la cosa più normale di questo mondo («Non li paghiamo per questo, per prendersi cura di noi?»), ebbene questo pensiero mi fa arrabbiare moltissimo, e per quel che vale ci tengo a dichiarare al Moloch che oggi  subisco le sue imposizioni come lo schiavo che non ha la forza di ribellarsi, ma non faccia affidamento sul mio consenso né, tanto meno, sulla mia comprensione. Approfitto dell’occasione per rinnovargli la mia più radicale inimicizia.

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GROSSI GUAI NEL NOSTRO CORTILE DI CASA

Scrive Lucio Caracciolo: «L’eventuale presa di Tripoli da parte del generale Haftar non avrebbe conseguenze definitive, ma comunque i segnali in arrivo dall’ex colonia italiana sono allarmanti. Il rischio di uno scontro indiretto tra Russia e Turchia nel nostro cortile di casa». In effetti gli interessi in gioco per l’Italia nella partita libica sono a dir poco cospicui, e di molteplice natura: economici (leggi: petrolio, gas, infrastrutture), geopolitici, strategici – inclusa la sicurezza del Paese e la sua politica dei flussi migratori. Ma ciò che volevo far notare qui è la schiettezza che esibiscono i migliori servitori degli interessi (imperialistici) del nostro Paese: la partita libica si gioca interamente «nel nostro cortile di casa», ossia in una riserva di caccia che la geopolitica (incrocio tra storia, rapporti di forza tra le Potenze e la dislocazione geografica di un Paese) ha da molto tempo assegnato all’Italia. Un’area che include, oltre la sponda africana, una parte non piccola dei Balcani.

Soprattutto gli “amici” francesi e britannici non perdono di cogliere una sola occasione che possa in qualche modo ostacolare l’iniziativa italiana «nel nostro cortile di casa», e in questo la concorrenza è avvantaggiata, e di molto, dalla sua non disprezzabile dotazione militare. Soprattutto la Gran Bretagna, fresca di Brexit, sta investendo molto nella costruzione di nuove portaerei. Abbiamo visto all’opera il “vantaggio competitivo” anglo-francese nei confronti dell’Italia nel 2011, quando Parigi e Londra decisero di far saltare in aria il vespaio libico per decenni tenuto sotto stretto e violento controllo da Gheddafi, fino ad allora assai coccolato e “assistito” finanziariamente da tutti i governi italiani che si sono succeduti dal 1969 in poi, anno di ascesa al potere dell’ex dittatore di Tripoli – il quale non a torto si vantava di aver contribuito alla salvezza dell’italianissima Fiat nella seconda metà degli anni Settanta. «E adesso anche l’amico Silvio mi lascia nelle mani del nemico che vuole sgozzarmi!». Com’è noto, l’amico Silvio (Berlusconi, si capisce) fu costretto ad accettare obtorto collo (insomma, a subire) l’intervento “umanitario” anglo-francese.

«L’Italia ha perso terreno in Libia, non possiamo negarlo. Ma ora deve riprendersi il ruolo naturale di principale interlocutore, da sempre amico del popolo libico». Questo ha dichiarato il Ministro degli Esteri Luigi Di Maio di rientro da una missione-lampo a Tripoli, Bengasi e Tobruk – a dimostrazione che come sempre Roma pratica la tradizionale politica estera italiana che consiste nel giocare di sponda con tutti gli attori in campo, per saltare sul carro del vincitore al momento opportuno; una strategia molto disprezzata dagli “amici” europei e che non sempre sortisce gli effetti desiderati dai furbi di casa nostra: a furia di infornare il pane della diplomazia in tutti i forni aperti (o che sembrano tali), Roma rischia di ritrovarsi senza petrolio, senza gas e senza un effettivo controllo politico-militare su quanto avviene nel suo immediato cortile di casa: una vera e propria sciagura nazionale.

Negli ultimi tre anni l’attivismo della Turchia nel suo ampio cortile di casa ha subito una notevole accelerazione, e a farne le spese potrebbero essere anche gli interessi “energetici” italiani: «Al centro delle tensioni tra la Turchia e l’Italia, come anche con altri paesi dell’Unione Europea tra cui Francia, Grecia e Germania, vi è lo sfruttamento dei giacimenti di gas nelle acque territoriali di Cipro: Ankara considera da sempre la parte meridionale dell’isola come secessionista, ma l’Eni italiana ha ottenuto da Nicosia concessioni per lo sfruttamento dei fondali. Già nel febbraio dello scorso anno la Turchia aveva bloccato nelle acque di Cipro la nave esplorativa italiana Saipem 12000, che non potendo lì operare era stata poi trasferita in Marocco. Da lì a poco erano giunte nell’area navi esplorative turche. In seguito le autorità di Ankara avevano disposto imponenti esercitazioni navali in prossimità delle acque di Cipro, e “Scopo dell’esercitazione – aveva spiegato il ministro della Difesa Hulusi Akar – è quello di mostrare la determinazione e la preparazione al fine di garantire la sicurezza, la sovranità e i diritti marittimi della Turchia”. […] Per dare seguito ai propri diritti di sfruttamento Roma ha inviato in questi giorni nell’area la fregata Federico Martinengo, classe Fremm, insieme ad altre nove unità navali al fine di dimostrare di essere in grado di tutelare i propri interessi, un esempio che a breve potrebbe essere seguito dai francesi e non solo» (G. Eddaly, Notizie Geopolitiche). La crisi cipriota rischia di saldarsi a quella libica con effetti imprevedibili e certamente non orientati alla “pace e prosperità”.

Da Limes

«A parole, Russia e Turchia sembrano voler appoggiare la ripresa di un dialogo, ma nei fatti danno supporto sul terreno a Haftar e Sarraj, forse col progetto di “spartirsi” poi la Libia, come avvenuto per la Siria» (L’Avvenire). I Paesi dell’Unione Europea lamentano la latitanza di Washington nella crisi libica, mentre gli americani non intendono fare il lavoro sporco se non sono sicuri di poter portare a casa un successo. «Non vogliamo più sacrificare uomini e dollari per conto degli interessi europei, magari per sentirci poi dire dagli stessi alleati della Nato che siamo i soliti imperialisti a cui piace recitare il ruolo dei poliziotti del mondo»: è la “filosofia” che ispira la politica estera americana negli ultimi trent’anni, e che si è delineata con maggiore nettezza già con la Presidenza Obama.

E in questo contesto assai “problematico”, che rischia di innescare avventure belliche di grandi dimensioni, ben oltre lo schema delle “guerre per procura”, cosa fa l’ONU? «L’ONU, poveretta, quando il conflitto si allarga non conta più niente» (Romano Prodi). Lo avevo sospettato! Nel «covo di briganti» (Lenin) chiamato ONU non si muove foglia che l’Imperialismo non voglia. E quando parlo di Imperialismo, alludo ovviamente in primo luogo alle Potenze mondiali più grandi: Stati Uniti, Cina e Russia, con l’Unione Europea che con affanno e tra mille contraddizioni cerca di darsi una consistenza politico-militare in grado di reggere il confronto con quei tre Paesi. La Gran Bretagna è costretta, almeno in questa fase, a consolidare la sua storica “relazione speciale” con gli Stati Uniti.

Monitorare la partita libica mi pare oggi più che mai importante per chi ha in odio una Società-Mondo che produce sempre di nuovo sfruttamento, oppressione e guerre, e per quel poco che vale annuncio che in caso di “precipitazioni belliche” offrirò alla Patria il mio più totale disfattismo, la mia più totale avversione nei confronti dei suoi interessi più o meno vitali.