Qui, lo vedi, bisogna correre a tutta velocità
per restare sempre nello stesso punto (L. Carroll).
Che cos’è la paura? si chiede Giorgio Agamben, e il noto filosofo prova a rispondere attingendo dalla sua notevolissima conoscenza del materiale concettuale prodotto dalla filosofia e dalla psicoanalisi. Certamente egli (come del resto Martin Heidegger a cui si richiama) mutua da Sigmund Freud il concetto di angoscia come una paura priva di oggetto, una paura che perdendo il contatto con qualcosa di concreto (un animale, un evento, una relazione), e come tale potenzialmente gestibile sul piano razionale ed emotivo, si autoalimenta e si espande in modo da comprendere come proprio impalpabile oggetto l’intero mondo: per il soggetto paranoico ogni cosa può trasformarsi in una potenziale minaccia, in una fonte di pericolo.
A dire il vero, Freud distingue tra un’«angoscia “reale”» e un’«angoscia “nevrotica”», e in un primo momento egli sembra intendere con la prima definizione qualcosa che si approssima molto al concetto di paura, anche se lascia intendere che le cose non stanno proprio così. In ogni caso le cose “stanno” fra esse in un modo che legittima una certa perplessità circa la loro esatta distinzione e interpretazione. E ciò accade sempre quando ci troviamo dinanzi a un processo “dialettico” che non si lascia descrivere in termini deterministici. Scrive Freud: «Di essa [dell’angoscia “nevrotica”] affermeremo che è la reazione alla percezione di un pericolo esterno, cioè di un danno atteso, previsto; che è collegata al riflesso della “fuga”, e che può essere considerata un’espressione di autoconservazione. […] Evito di addentrarmi più a fondo nel quesito se il nostro uso linguistico intenda designare con “angoscia”, “paura”, “spavento” la stessa cosa o cose chiaramente differenti. Penso solo che “angoscia” si riferisce allo stato e prescinde dall’oggetto, mentre “paura” richiama l’attenzione proprio sull’oggetto» (1). L’angoscia è uno stato soggettivo, una condizione emotivamente rilevante che ci mette in allerta, in attesa di qualcosa che può colpirci (in senso proprio e in senso figurato), mentre la paura per oggettivarsi ha bisogno, appunto, di un oggetto: a quel punto lo stato d’angoscia si trasforma in paura e attiva i meccanismi somatici e psicologici dell’autodifesa. Per il “padre della psicoanalisi” «l’angoscia è un segnale che annuncia una situazione di pericolo» che per non scivolare nella nevrosi non deve perdere mai il suo legame con la paura e con lo spavento, i quali in qualche modo la tengono ancorata a una situazione reale, oggettiva, e quindi alla portata della nostra razionalità.
Capita spesso che la paura non sia correlata all’angoscia, ad esempio quando l’oggetto (la cosa, l’evento) minaccia di colpirci o ci colpisce all’improvviso, trovandoci impreparati: in questo caso è la paura che “si fa” spavento, il quale «sembra mettere in risalto l’effetto di un pericolo che non viene accolto in uno stato di preparazione all’angoscia. Cosicché si potrebbe dire che l’uomo si protegge dallo spavento con l’angoscia» (Freud). Per non correre il rischio dello spavento, si vive in una condizione di angoscia permanente: una strategia di sopravvivenza abbastanza dolorosa e molto onerosa dal punto di vista dell’economia psichica – e/o libidica, per dirla sempre con Freud. «L’uomo s’illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto. Ciò determina il corso della demitizzazione. […] L’illuminismo è l’angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica, che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell’angoscia» (2). Il problema è che l’essenza del processo sociale che rende possibile la nostra stessa nuda vita è fuori dal nostro controllo, fuori dalla nostra razionalità, fuori dalle nostre umane capacità.
La paura era un fattore così centrale nella strategia di sopravvivenza delle società tribali dell’Australia e della Nuova Guinea studiate da Jared Diamond, da indurre il celebre studioso americano a coniare il concetto, da lui stesso considerato ossimòrico, di paranoia costruttiva (3). Ciò che all’occhio dell’osservatore occidentale poteva apparire un comportamento paranoico, dettato da un’eccessiva quanto infondata paura nei confronti della foresta, che pure offriva a quelle società quanto serviva per vivere, in realtà era un atteggiamento orientato dal principio di massima precauzione che nelle reali condizioni dei «popoli della foresta» mostrava di essere del tutto fondato, razionale e, soprattutto, efficace. C’è da chiedersi quanto quell’aureo principio possa conciliarsi con la moderna società capitalistica.
In un film un attore osserva che «la paura è nostra amica», e lo scienziato di scuola evoluzionista non può che concordare con questa saggia tesi: «Il dolore e la paura sono utili, e le persone che non li provano sono fortemente svantaggiate. Come abbiamo già detto, i pochi individui che non percepiscono il dolore muoiono quasi tutti prima dei trent’anni. Se qualcuno nascesse senza la capacità di provare paura, lo troveremmo spesso e volentieri al pronto soccorso, se non all’obitorio. Abbiamo bisogno del dolore e della paura; sono difese che ci mettono in guardia dal pericolo. Il dolore è un segnale: indica che i tessuti stanno per essere danneggiati. La paura ci avverte che la situazione potrebbe essere pericolosa, che potrebbe provocare un certo tipo di perdita o di danno e che è opportuno fuggire» (4). Qui il campo d’azione del dolore e della paura è ben definito: si tratta del corpo umano esposto alle molteplici insidie del mondo esterno. Il dolore e la paura sono per così dire posti al servizio della nostra sopravvivenza fisica, attraverso un complesso processo di adattamento evolutivo che ha molto a che fare anche con l’esperienza accumulata nel tempo dagli uomini e che coinvolge, direttamente o attraverso un qualche tipo di mediazione, ogni singola cellula del nostro corpo.
«La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo». Cos’è la modernità? Se non definiamo la natura storica e sociale della modernità di cui parliamo, ci sfugge anche il significato della «cosalità senza scampo», locuzione che suona bene come gergo filosofico orientato in senso esistenzialista, ma che non ci permette di afferrare la sostanza del problema, della cosa. Molti intellettuali oggi rimangono impigliati nel concetto generico di modernità, così come un tempo, chiamato della “Guerra Fredda”, altrettanti intellettuali rimanevano aggrovigliati nel concetto, sommamente generico, di società industriale, per mezzo del quale essi cercavano di dar conto dell’esistenza di una struttura economico-sociale che sembrava essere molto simile nei due mondi che allora si fronteggiavano: quello capitalista, capeggiato dagli Stati Uniti, e quello “socialista”, dominato dall’Unione Sovietica. In realtà si trattava di un solo mondo: quello capitalista/imperialista, perché ciò che ancora oggi viene chiamato “socialismo reale” altro non fu che un reale capitalismo – di Stato, sussidiato da una importante “economia informale”, cioè “privata”. Definire nei giusti termini storici e sociali la modernità rende possibile l’individuazione di una via di fuga in avanti da essa, perché le vie che portano all’indietro, sempre posto che ciò sia oggettivamente possibile (oltre che augurabile!), ci condurrebbero sempre ai presupposti della modernità capitalistica, cioè alle condizioni che l’hanno resa possibile. È della modernità capitalistica, dunque, che stiamo parlando.
Allo stesso modo dobbiamo parlare, sempre all’avviso di chi scrive, non di una generica, astratta e astorica Civiltà, ma della Civiltà capitalistica, la Civiltà promossa dal rapporto sociale capitalistico, la quale ha oggi le dimensioni dell’intero pianeta. Anche quando parliamo di «crisi della democrazia», di «svolta autoritaria», di «deriva securitaria» degli Stati occidentali, per farlo correttamente dobbiamo innanzitutto porci dalla prospettiva critica che ci rivela la natura di classe della democrazia (capitalistica), a cominciare da quella italiana, che difatti la Costituzione confessa trattarsi di una democrazia fondata sul lavoro – salariato, cioè venduto, comprato, sfruttato. Criticare «lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (Agamben), senza mettere in questione la società capitalistica in quanto tale, al di là degli assetti politico-istituzionale contingenti che ci governano, e anzi perorare la causa di un «ritorno alla Costituzione» (capitalistica), significa non aver afferrato concettualmente la radicalità del Male che ci espone, impotenti, a ogni genere di offesa, con ciò che ne segue anche in termini di stato d’angoscia permanete.
È insomma in questa concreta dimensione storico-sociale che dobbiamo “calare” il discorso sulla paura, sull’angoscia, sul dolore e quant’altro. La “cosalità” capitalistica è senza scampo fino a quando le classi subalterne, e tutti gli individui ostili alla società disumana, non decidono di trafiggere il cuore della Cosa e di costruire una Comunità autenticamente umana. In quel genere di Comunità non ci sarà più spazio per la paura? Non scherziamo! Diciamo piuttosto che ci sarà una paura conforme alla natura di quell’organizzazione sociale, e della quale non possiamo parlare senza correre il rischio di proiettarvi la nostra cattiva condizione sociale. Umanizzare la paura, anche la paura della morte (5) e delle malattie: a mio avviso ciò rientra “organicamente” nel progetto di emancipazione sociale degli individui. Il processo di umanizzazione della vita degli individui non lascia niente fuori dal suo virtuosissimo (almeno all’avviso di chi scrive) trattamento: dal lavoro all’amore, dalla scienza alla sessualità, dalla salute alla creatività artistica, e così via.
Non c’è dubbio: sto facendo dell’utopia, sto cioè parlando di una straordinaria possibilità oggi negata nel modo più radicale dalla prassi sociale; sto parlando di una Comunità che ancora non c’è – e che forse non ci sarà mai, oppure sì: chi può dirlo? Personalmente non sono così presuntuoso, e così povero di immaginazione, di fantasia, da negare ciò che il futuro potrebbe riservare agli uomini quando io non ci sarò più. Lo scopriranno solo i viventi! Il mio anticapitalismo non si fonda sull’idea – o illusione – che io possa sperimentare, non dico il comunismo immaginato da Karl Marx, ma anche “solo” il suo necessario presupposto: la rivoluzione sociale anticapitalistica. Questo anticapitalismo si basa in primo luogo sul mio incoercibile odio nei confronti di rapporti sociali che rendono la vita degli uomini indegna di venir considerata umana. Questo dato “autobiografico” è offerto a chi legge per meglio comprendere la “concezione del mondo” che informa il mio ragionamento.
A proposito di civiltà, ecco cosa scrive Bernard-Henri Levy, l’intellettuale francese devoto all’europeismo “senza se e senza ma” che confessa di essere «stato raggelato dall’epidemia di paura» scatenata dalla pandemia: «Cito il padre dell’anatomia patologica Rudolf Virchow, che disse: “Un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”. Dal punto di vista sociale, ciò di cui mi occupo, abbiamo rischiato molto. Un mondo in cui non ci stringiamo più la mano, in cui non seppelliamo più i morti, in cui diffidiamo l’uno dell’altro, va verso una regressione della civiltà» (6). Nel mio infinitamente piccolo, anch’io ho cercato di mettere bene in luce il carattere essenzialmente sociale della pandemia e della crisi sanitaria che ne è scaturita; da sempre le epidemie hanno avuto un forte contenuto sociale nella loro genesi, nella loro diffusione e nelle loro molteplici conseguenze; oggi questo loro carattere sociale è di gran lunga quello più importante tra le sue diverse “componenti” (quelle che chiamano in causa la natura, la biologia, ecc.), e costituisce il filo nero che a mio avviso bisogna tirare per capire con che cosa abbiamo a che fare quando parliamo di crisi sanitaria, di paura, di lockdown, di stato d’eccezione, di quarantena e quant’altro. Non ho aderito alle tesi “negazioniste” circa la gravità della cosiddetta crisi sanitaria, tutt’altro, ma ne ho piuttosto rimarcato, appunto, la natura squisitamente sociale (in questo senso parlo di “cosiddetta” crisi sanitaria), attribuendone per intero la responsabilità alla società fondata sulla ricerca del profitto e informata da una razionalizzazione dei problemi sociali declinata in chiave ossessivamente economicista: di qui, tra l’altro, la decennale “ristrutturazione” dei sistemi sanitari nazionali e la delocalizzazione delle fabbriche che producono presidi sanitari nei Paesi che sfruttano forza lavoro a basso e bassissimo prezzo. Oggi anche la produzione di mascherine pare rientrare nel settore rubricato “di interesse strategico nazionale”.
Apro una piccolissima ma importante parentesi: oggi “scopriamo” che una buona parte delle mascherine che la Cina ha venduto a mezzo mondo, con tanto schiamazzo propagandistico, sono state prodotte nei campi di concentramento (chiamati eufemisticamente dal regime “campi di rieducazione e lavoro”) situati nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale che è un vero e proprio carcere a cielo aperto controllato dallo Stato grazie all’ausilio delle più moderne e “intelligenti” tecnologie. Questo sempre a proposito di civiltà capitalistica, sebbene con caratteristiche cinesi. Chiudo la parentesi – soprattutto in faccia ai miserabili tifosi italiani del “socialismo con caratteristiche cinesi”.
Nei miei scritti degli ultimi mesi ho anche affermato l’idea che il processo sociale in atto su scala planetaria in questo sciaguratissimo 2020 ha accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Pandemia come occasione, non come scusa, non come arbitrario pretesto per un ulteriore giro di vite autoritario e repressivo. Ma occasioni di questo genere la vigente società ne produce continuamente, a prescindere dalla stessa volontà di chi ci amministra.
Relativizzo o sottovaluto la «regressione della civiltà»? No, la storicizzo e la valuto dal punto di vista anticapitalista. Se vogliamo discutere seriamente di «regressione della civiltà», per capirne la natura, la dinamica e la fenomenologia, dobbiamo insomma preliminarmente chiarire di che civiltà stiamo parlando: per quanto mi riguarda si tratta della civiltà capitalistica fondata su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento; della civiltà che ha dato corpo a un mondo che per l’essenziale non controlliamo e che anzi ci controlla in guisa di una potenza cieca, ostile, disumana, nonostante siamo noi stessi a renderla possibile, giorno dopo giorno, con le nostre molteplici attività e assistiti da una strumentazione tecnologica sempre più potente e sofisticata. Non è Il virus che rende folli, per citare il titolo dell’ultimo saggio dell’intellettuale francese, ma questa folle – irrazionale, disumana, mostruosa – società. Naturalmente per capire esattamente cosa intendo dire bisogna prima abbandonare l’idea che la civiltà occidentale abbia creato il migliore dei mondi possibili, o semplicemente il solo mondo realisticamente praticabile e sempre perfettibile: uno sforzo che certo sarebbe ingenuo chiedere a un signore che tifa, del tutto legittimamente, per la coppia Merkel-Macron.
«Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha»: così canta Vasco Rossi. E un senso a un’esistenza umana che appare francamente insensata e immersa in una dimensione di assoluta irrazionalità vuole trovarlo anche Gianluca Veneziani: «Non c’era una logica oggettiva per cui si veniva contagiati o meno, si contraeva il virus in modo più o meno grave, si sopravviveva o si crepava. Il discrimine tra la salute e la malattia, il contagio e l’immunità, tra la vita e la morte spesso non era dettato dall’efficacia delle cure, dalla tempestività dell’intervento medico, dall’imprudenza o dall’avvedutezza personale, ma da un unico aspetto: la Fortuna. Dipendeva da una botta di culo il fatto di ritrovarsi tra i sommersi o i salvati» (7). Tuttavia abbiamo visto come la Sfiga si sia accanita soprattutto tra le classi più povere del pianeta; ma non intendo fare del facile “populismo”! Riprendo il filo del ragionamento di Veneziani, il quale tocca “problematiche” etico-filosofiche meritevoli di una qualche attenzione (non faccio dell’ironia!): «Le cronache recenti ci hanno raccontato episodi che hanno fatto incrinare ulteriormente la nostra convinzione in un piano razionale della realtà. […] In questi casi fatichi a individuare i pilastri ai quali si affida chi crede nell’esistenza di un ordine logico. Non vedi la Libertà, l’arbitrio umano di scegliere e indirizzare la propria sorte; non vedi un Destino, una volontà divina che piega le cose in una direzione, possibilmente a fin di bene; né vedi la forza della Necessità, il meccanismo deterministico in base al quale le cose non fanno che obbedire a regole certe. No, appare solo l’imperversare del Caso, il dominio dell’Imponderabile, se non addirittura dell’Assurdo. E vedi soprattutto una profonda mancanza di senso. A noi esseri in cerca continuamente di risposte viene naturale chiedersi: Perché loro? Perché così? Chi ha voluto ciò?» Già, chi l’ha voluto? C’è forse qualcuno o qualcosa che malignamente complotta ai nostri danni? Ecco che ci arriva in soccorso la scienza, ed è sempre Veneziani che ce ne dà contezza: «Un recente e interessante libro, I dadi giocano a Dio? del matematico Ian Stewart, dimostra che l’incertezza è la fibra stessa della realtà, non una falla in un sistema per il resto ordinato e razionale. Stewart ci ricorda che “l’universo è intrinsecamente imprevedibile” e che “l’incertezza non è solo un segno di ignoranza umana; è ciò di cui è fatto il mondo”». Ma di che mondo stiamo parlando? Dell’universo, della natura come appare nel macrocosmo e nel microcosmo («dominio per eccellenza dell’Irrazionale: vedi gli approdi della meccanica quantistica»): dalle galassie agli atomi, dagli ammassi di galassie alle particelle subatomiche: ovunque regna l’incertezza e la probabilità. Ora, mi chiedo, ha un qualche senso leggere la realtà umana, la realtà sociale, ciò che ci accade in ogni ambito delle nostre attività e delle nostre relazioni, alla luce delle leggi e degli schemi concettuali con cui la scienza cerca di spiegare la realtà dell’universo? L’Irrazionale che dominerebbe nel microcosmo ha un qualche legame, anche solo mediato, con l’Irrazionale che domina nel cosmo umano? Qui la scienza è chiamata a giustificare un’irrazionalità e un’incertezza che si spiegano solo prendendo in considerazione la natura storico-sociale delle nostre attività e delle nostre relazioni.
Se «l’uomo si è ritrovato sospeso sull’orlo del Nulla», ciò non è dipeso dalla scienza che ha messo in crisi ogni certezza, a partire da quella relativa all’esistenza di Dio («la morte di Dio»), come sostiene Veneziani, ma perché per un verso ogni idea circa l’inevitabilità delle magnifiche sorti e progressive della società borghese ha fatto bancarotta; e per altro verso perché il Nulla umano tende a impadronirsi dell’intero spazio esistenziale degli individui, ridotti quasi a nulla dalla totalità sociale come si dà nel moderno capitalismo. È il rapporto sociale capitalistico che gioca a Dio!
A proposito di Dio, e di ciò che incute terrore: sono state finalmente pubblicate le Linee guida per il ministero dell’esorcismo: se ne sentiva davvero la mancanza! Occorreva una sistemazione dottrinaria (stavo per scrivere scientifica!) nel caotico mondo dell’esorcismo fai da te. «Il libro “Linee guida per il ministero dell’esorcismo”, pubblicato inizialmente in forma riservata per i membri dell’Associazione Internazionale Esorcisti, è ora disponibile in un volume pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova. Il testo, curato dall’Associazione Internazionale Esorcisti, fornisce anzitutto ai sacerdoti esorcisti gli elementi fondamentali per esercitare il loro servizio. Come ha rilevato il cardinale Bassetti, presidente della CEI, “esistono nel mondo delle periferie esistenziali dove è sempre inverno, dove l’aria è impregnata di paura. Il boss di queste periferie è il maligno che, come ricorda papa Francesco, non è un mito, una rappresentazione, ma un essere personale che ci tormenta e riguardo al quale Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno di essere liberati “perché il suo potere non ci domini”» (8). Egregio cardinale, Santissimo padre, avrei una domanda da porvi umilmente: il demonio sarà pure il boss delle «periferie esistenziali» di cui parlate, ma chi ne è l’artefice, chi le ha create? Anche l’anticapitalista, esattamente come il maligno che vi fa tanta paura, pesca e nuota in quelle «periferie esistenziali», si aggira in esse con fare guardingo per annunciare ai diseredati che un mondo autenticamente umano è possibile, basta costruirlo demolendo dalle fondamenta il pessimo mondo capitalistico; ma della loro esistenza egli non ha certo colpa.
Ma ritorniamo a Giorgio Agamben. Sulla scorta dell’Heidegger di Essere e tempo, dove si trova «una trattazione esemplare della paura come tonalità emotiva», Agamben giunge a questa “esistenzialistica” conclusione: «Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti. L’unica possibilità di recidere la “cosa” dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria – il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo – può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La “cosa” che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani – come quest’albero, questo torrente, quest’uomo – aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo – e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano – detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà». Si capisce che «la “cosa” che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo», evocata dal filosofo altro non è che il Coronavirus, un essere vivente estremamente elementare che segue con cieca determinazione un solo incoercibile principio: sopravvivere e moltiplicarsi. La vita vuole vivere, diceva un filosofo incline alla tautologia.
Come noi, anche il virus è in fondo «gettato nel mondo»; anch’esso condivide il nostro destino di esseri per e nel mondo, non è insomma una cosa aliena ma una realtà di questo mondo con la quale dobbiamo imparare a convivere, avendone timore, si capisce, ma senza tuttavia cadere in uno stato d’angoscia permanente che ci renderebbe impotenti e, soprattutto, facili prede del potere politico che è ben felice di assumersi l’incarico di difenderci da ciò che minaccia la nostra sicurezza. Detto in altri termini, dobbiamo impedire che la cosa concreta (il virus, ad esempio) diventi un’astratta cosalità che ci sovrasta come una mostruosa quanto impalpabile potenza impossibile da governare, anche emotivamente, se non delegando appunto al potere politico (oltre che alla medicina e alla farmacopea) questo ingrato ma essenziale compito. Ora, a mio avviso Agamben situa il suo discorso sulla paura proprio in quell’astratta dimensione esistenziale di cui prima ho parlato, e questo tra l’altro lo porta a fare l’apologia delle «regole che garantivano la [nostra] libertà»: ma una “libertà” interamente confinata nella dimensione del dominio di classe e impotente dinanzi ai grandi processi sociali che configurano sempre di nuovo e fin nei minimi dettagli la nostra esistenza può ancora venir chiamata “libertà”? Io non credo proprio, salvo non si abbia nella testa un ben misero concetto di “libertà” – e di civiltà, di progresso, di umanità, e così via. Non si dà vera libertà, né vera umanità, nella società dominata in modo sempre più totalitario dagli interessi (economici, geopolitici, politici, ecc.) che nulla hanno a che fare con la felicità degli individui e che anzi la negano sempre di nuovo. Chi ragiona di libertà e di democrazia (9) non dovrebbe sottovalutare il carattere totalitario del processo sociale capitalistico colto nella sua globalità.
Bisogna certo avere paura, molta paura; ma paura di questa società, di questo capitalistico mondo che alle vecchie potenziali catastrofi ne aggiunge di nuove, esponendoci come individui impotenti non solo alla malattia, alla sofferenza e alla morte prematura, ma anche a ciò che il Leviatano, bontà sua, organizza per “proteggerci”, ossia, detto con più verità, per difendere la continuità del dominio sociale capitalistico – e non di un generico “Sistema”, per usare il poco immaginifico linguaggio dei complottisti. È di questa maligna dialettica («Ti difendo dalle offese e dalle minacce generate dalla società che io difendo») che dobbiamo avere paura. Per quel che posso, do il mio contributo affinché questa paura possa trovare sul suo cammino l’idea che questo mondo non è il solo mondo possibile. Scrive Donatella Di Cesare: «Il coronavirus è un virus sovrano che aggira i muri patriottici, le boriose frontiere dei sovranisti. E rivela in tutta la sua terribile crudezza la logica immunitaria che esclude i più deboli. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così sfrontata. Il virus ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l’impossibilità di salvarsi, se non con l’aiuto reciproco, costringendo a pensare un nuovo modo di coabitare» (10). Ecco, appunto!
(1) S. Freud, L’angoscia, in Introduzione alla psicoanalisi, pp. 355-356, Boringhieri, 1985.
(2) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 23, Einaudi, 2000.
(3) J. Diamond, Il mondo fino a ieri, Einaudi, 2013.
(4) R. M. Nesse, G. C. Williams, Perché ci ammaliamo, p. 85, Einaudi, 1994.
(5) «Il problema centrale [di Lev Tolstoj] si rivolgeva in misura crescente alla questione se la morte fosse un fenomeno dotato di senso oppure no. E la sua risposta è che per l’uomo civilizzato non lo è. E non lo è perché la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita nel “progresso”, nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è sempre ancora un progresso ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita” poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì “stanco della vita”, ma non sazio della vita. Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua «progressività» priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque, nei suoi ultimi romanzi, quest’idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj» (M. Weber, La scienza come professione, 1917, in La scienza come professione, La politica come professione, p. 27, Einaudi, 2004).
(6) Intervista al Venerdì di Repubblica.
(7) Libero Quotidiano.
(8) La Stampa.
(9) «La democrazia consente (se non altro tramite una fictio) di realizzare l’aspirazione a che nessuno possa essere sottoposto a leggi che non abbia concorso ad approvare, e dunque a subire vincoli che non abbia volontariamente accettato» (D. De Lungo, Liberalismo, democrazia, pandemia, IBL). La democrazia (capitalistica) come «fictio»: non c’è dubbio!
(10) D. Di Cesare,Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, 2020. Sovrano, in senso forte e direi senz’altro totalitario, è il Capitale, sempre inteso in primo luogo come peculiare rapporto sociale di produzione.