DIALETTICA DELLA PAURA

Qui, lo vedi, bisogna correre a tutta velocità
per restare sempre nello stesso punto (L. Carroll).

 

Che cos’è la paura? si chiede Giorgio Agamben, e il noto filosofo prova a rispondere attingendo dalla sua notevolissima conoscenza del materiale concettuale prodotto dalla filosofia e dalla psicoanalisi. Certamente egli (come del resto Martin Heidegger a cui si richiama) mutua da Sigmund Freud il concetto di angoscia come una paura priva di oggetto, una paura che perdendo il contatto con qualcosa di concreto (un animale, un evento, una relazione), e come tale potenzialmente gestibile sul piano razionale ed emotivo, si autoalimenta e si espande in modo da comprendere come proprio impalpabile oggetto l’intero mondo: per il soggetto paranoico ogni cosa può trasformarsi in una potenziale minaccia, in una fonte di pericolo.

A dire il vero, Freud distingue tra un’«angoscia “reale”» e un’«angoscia “nevrotica”», e in un primo momento egli sembra intendere con la prima definizione qualcosa che si approssima molto al concetto di paura, anche se lascia intendere che le cose non stanno proprio così. In ogni caso le cose “stanno” fra esse in un modo che legittima una certa perplessità circa la loro esatta distinzione e interpretazione. E ciò accade sempre quando ci troviamo dinanzi a un processo “dialettico” che non si lascia descrivere in termini deterministici. Scrive Freud: «Di essa [dell’angoscia “nevrotica”] affermeremo che è la reazione alla percezione di un pericolo esterno, cioè di un danno atteso, previsto; che è collegata al riflesso della “fuga”, e che può essere considerata un’espressione di autoconservazione. […] Evito di addentrarmi più a fondo nel quesito se il nostro uso linguistico intenda designare con “angoscia”, “paura”, “spavento” la stessa cosa o cose chiaramente differenti. Penso solo che “angoscia” si riferisce allo stato e prescinde dall’oggetto, mentre “paura” richiama l’attenzione proprio sull’oggetto» (1). L’angoscia è uno stato soggettivo, una condizione emotivamente rilevante che ci mette in allerta, in attesa di qualcosa che può colpirci (in senso proprio e in senso figurato), mentre la paura per oggettivarsi ha bisogno, appunto, di un oggetto: a quel punto lo stato d’angoscia si trasforma in paura e attiva i meccanismi somatici e psicologici dell’autodifesa. Per il “padre della psicoanalisi” «l’angoscia è un segnale che annuncia una situazione di pericolo» che per non scivolare nella nevrosi non deve perdere mai il suo legame con la paura e con lo spavento, i quali in qualche modo la tengono ancorata a una situazione reale, oggettiva, e quindi alla portata della nostra razionalità.

Capita spesso che la paura non sia correlata all’angoscia, ad esempio quando l’oggetto (la cosa, l’evento) minaccia di colpirci o ci colpisce all’improvviso, trovandoci impreparati: in questo caso è la paura che “si fa” spavento, il quale «sembra mettere in risalto l’effetto di un pericolo che non viene accolto in uno stato di preparazione all’angoscia. Cosicché si potrebbe dire che l’uomo si protegge dallo spavento con l’angoscia» (Freud). Per non correre il rischio dello spavento, si vive in una condizione di angoscia permanente: una strategia di sopravvivenza abbastanza dolorosa e molto onerosa dal punto di vista dell’economia psichica – e/o libidica, per dirla sempre con Freud. «L’uomo s’illude di essersi liberato dalla paura quando non c’è più nulla di ignoto. Ciò determina il corso della demitizzazione. […] L’illuminismo è l’angoscia mitica radicalizzata. La pura immanenza positivistica, che è il suo ultimo prodotto, non è che un tabù per così dire universale. Non ha da esserci più nulla fuori, poiché la semplice idea di un fuori è la fonte genuina dell’angoscia» (2). Il problema è che l’essenza del processo sociale che rende possibile la nostra stessa nuda vita è fuori dal nostro controllo, fuori dalla nostra razionalità, fuori dalle nostre umane capacità.

La paura era un fattore così centrale nella strategia di sopravvivenza delle società tribali dell’Australia e della Nuova Guinea studiate da Jared Diamond, da indurre il celebre studioso americano a coniare il concetto, da lui stesso considerato ossimòrico, di paranoia costruttiva (3). Ciò che all’occhio dell’osservatore occidentale poteva apparire un comportamento paranoico, dettato da un’eccessiva quanto infondata paura nei confronti della foresta, che pure offriva a quelle società quanto serviva per vivere, in realtà era un atteggiamento orientato dal principio di massima precauzione che nelle reali condizioni dei «popoli della foresta» mostrava di essere del tutto fondato, razionale e, soprattutto, efficace. C’è da chiedersi quanto quell’aureo principio possa conciliarsi con la moderna società capitalistica.

In un film un attore osserva che «la paura è nostra amica», e lo scienziato di scuola evoluzionista non può che concordare con questa saggia tesi: «Il dolore e la paura sono utili, e le persone che non li provano sono fortemente svantaggiate. Come abbiamo già detto, i pochi individui che non percepiscono il dolore muoiono quasi tutti prima dei trent’anni. Se qualcuno nascesse senza la capacità di provare paura, lo troveremmo spesso e volentieri al pronto soccorso, se non all’obitorio. Abbiamo bisogno del dolore e della paura; sono difese che ci mettono in guardia dal pericolo. Il dolore è un segnale: indica che i tessuti stanno per essere danneggiati. La paura ci avverte che la situazione potrebbe essere pericolosa, che potrebbe provocare un certo tipo di perdita o di danno e che è opportuno fuggire» (4). Qui il campo d’azione del dolore e della paura è ben definito: si tratta del corpo umano esposto alle molteplici insidie del mondo esterno. Il dolore e la paura sono per così dire posti al servizio della nostra sopravvivenza fisica, attraverso un complesso processo di adattamento evolutivo che ha molto a che fare anche con l’esperienza accumulata nel tempo dagli uomini e che coinvolge, direttamente o attraverso un qualche tipo di mediazione, ogni singola cellula del nostro corpo.

«La paura è la dimensione in cui cade l’umanità quando si trova consegnata, come avviene nella modernità, a una cosalità senza scampo». Cos’è la modernità? Se non definiamo la natura storica e sociale della modernità di cui parliamo, ci sfugge anche il significato della «cosalità senza scampo», locuzione che suona bene come gergo filosofico orientato in senso esistenzialista, ma che non ci permette di afferrare la sostanza del problema, della cosa. Molti intellettuali oggi rimangono impigliati nel concetto generico di modernità, così come un tempo, chiamato della “Guerra Fredda”, altrettanti intellettuali rimanevano aggrovigliati nel concetto, sommamente generico, di società industriale, per mezzo del quale essi cercavano di dar conto dell’esistenza di una struttura economico-sociale che sembrava essere molto simile nei due mondi che allora si fronteggiavano: quello capitalista, capeggiato dagli Stati Uniti, e quello “socialista”, dominato dall’Unione Sovietica. In realtà si trattava di un solo mondo: quello capitalista/imperialista, perché ciò che ancora oggi viene chiamato “socialismo reale” altro non fu che un reale capitalismo – di Stato, sussidiato da una importante “economia informale”, cioè “privata”. Definire nei giusti termini storici e sociali la modernità rende possibile l’individuazione di una via di fuga in avanti da essa, perché le vie che portano all’indietro, sempre posto che ciò sia oggettivamente possibile (oltre che augurabile!), ci condurrebbero sempre ai presupposti della modernità capitalistica, cioè alle condizioni che l’hanno resa possibile. È della modernità capitalistica, dunque, che stiamo parlando.

Allo stesso modo dobbiamo parlare, sempre all’avviso di chi scrive, non di una generica, astratta e astorica Civiltà, ma della Civiltà capitalistica, la Civiltà promossa dal rapporto sociale capitalistico, la quale ha oggi le dimensioni dell’intero pianeta. Anche quando parliamo di «crisi della democrazia», di «svolta autoritaria», di «deriva securitaria» degli Stati occidentali, per farlo correttamente dobbiamo innanzitutto porci dalla prospettiva critica che ci rivela la natura di classe della democrazia (capitalistica), a cominciare da quella italiana, che difatti la Costituzione confessa trattarsi di una democrazia fondata sul lavoro – salariato, cioè venduto, comprato, sfruttato. Criticare «lo stato di eccezione come paradigma normale di governo» (Agamben), senza mettere in questione la società capitalistica in quanto tale, al di là degli assetti politico-istituzionale contingenti che ci governano, e anzi perorare la causa di un «ritorno alla Costituzione» (capitalistica), significa non aver afferrato concettualmente la radicalità del Male che ci espone, impotenti, a ogni genere di offesa, con ciò che ne segue anche in termini di stato d’angoscia permanete.

È insomma in questa concreta dimensione storico-sociale che dobbiamo “calare” il discorso sulla paura, sull’angoscia, sul dolore e quant’altro. La “cosalità” capitalistica è senza scampo fino a quando le classi subalterne, e tutti gli individui ostili alla società disumana, non decidono di trafiggere il cuore della Cosa e di costruire una Comunità autenticamente umana. In quel genere di Comunità non ci sarà più spazio per la paura? Non scherziamo! Diciamo piuttosto che ci sarà una paura conforme alla natura di quell’organizzazione sociale, e della quale non possiamo parlare senza correre il rischio di proiettarvi la nostra cattiva condizione sociale. Umanizzare la paura, anche la paura della morte (5) e delle malattie: a mio avviso ciò rientra “organicamente” nel progetto di emancipazione sociale degli individui. Il processo di umanizzazione della vita degli individui non lascia niente fuori dal suo virtuosissimo (almeno all’avviso di chi scrive) trattamento: dal lavoro all’amore, dalla scienza alla sessualità, dalla salute alla creatività artistica, e così via.

Non c’è dubbio: sto facendo dell’utopia, sto cioè parlando di una straordinaria possibilità oggi negata nel modo più radicale dalla prassi sociale; sto parlando di una Comunità che ancora non c’è – e che forse non ci sarà mai, oppure sì: chi può dirlo? Personalmente non sono così presuntuoso, e così povero di immaginazione, di fantasia, da negare ciò che il futuro potrebbe riservare agli uomini quando io non ci sarò più. Lo scopriranno solo i viventi! Il mio anticapitalismo non si fonda sull’idea – o illusione – che io possa sperimentare, non dico il comunismo immaginato da Karl Marx, ma anche “solo” il suo necessario presupposto: la rivoluzione sociale anticapitalistica. Questo anticapitalismo si basa in primo luogo sul mio incoercibile odio nei confronti di rapporti sociali che rendono la vita degli uomini indegna di venir considerata umana. Questo dato “autobiografico” è offerto a chi legge per meglio comprendere la “concezione del mondo” che informa il mio ragionamento.

A proposito di civiltà, ecco cosa scrive Bernard-Henri Levy, l’intellettuale francese devoto all’europeismo “senza se e senza ma” che confessa di essere «stato raggelato dall’epidemia di paura» scatenata dalla pandemia: «Cito il padre dell’anatomia patologica Rudolf Virchow, che disse: “Un’epidemia è un fenomeno sociale che ha alcuni aspetti medici”. Dal punto di vista sociale, ciò di cui mi occupo, abbiamo rischiato molto. Un mondo in cui non ci stringiamo più la mano, in cui non seppelliamo più i morti, in cui diffidiamo l’uno dell’altro, va verso una regressione della civiltà» (6). Nel mio infinitamente piccolo, anch’io ho cercato di mettere bene in luce il carattere essenzialmente sociale della pandemia e della crisi sanitaria che ne è scaturita; da sempre le epidemie hanno avuto un forte contenuto sociale nella loro genesi, nella loro diffusione e nelle loro molteplici conseguenze; oggi questo loro carattere sociale è di gran lunga quello più importante tra le sue diverse “componenti” (quelle che chiamano in causa la natura, la biologia, ecc.), e costituisce il filo nero che a mio avviso bisogna tirare per capire con che cosa abbiamo a che fare quando parliamo di crisi sanitaria, di paura, di lockdown, di stato d’eccezione, di quarantena e quant’altro. Non ho aderito alle tesi “negazioniste” circa la gravità della cosiddetta crisi sanitaria, tutt’altro, ma ne ho piuttosto rimarcato, appunto, la natura squisitamente sociale (in questo senso parlo di “cosiddetta” crisi sanitaria), attribuendone per intero la responsabilità alla società fondata sulla ricerca del profitto e informata da una razionalizzazione dei problemi sociali declinata in chiave ossessivamente economicista: di qui, tra l’altro, la decennale “ristrutturazione” dei sistemi sanitari nazionali e la delocalizzazione delle fabbriche che producono presidi sanitari nei Paesi che sfruttano forza lavoro a basso e bassissimo prezzo. Oggi anche la produzione di mascherine pare rientrare nel settore rubricato “di interesse strategico nazionale”.

Apro una piccolissima ma importante parentesi: oggi “scopriamo” che una buona parte delle mascherine che la Cina ha venduto a mezzo mondo, con tanto schiamazzo propagandistico, sono state prodotte nei campi di concentramento (chiamati eufemisticamente dal regime “campi di rieducazione e lavoro”) situati nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale che è un vero e proprio carcere a cielo aperto controllato dallo Stato grazie all’ausilio delle più moderne e “intelligenti” tecnologie. Questo sempre a proposito di civiltà capitalistica, sebbene con caratteristiche cinesi. Chiudo la parentesi – soprattutto in faccia ai miserabili tifosi italiani del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

Nei miei scritti degli ultimi mesi ho anche affermato l’idea che il processo sociale in atto su scala planetaria in questo sciaguratissimo 2020 ha accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Pandemia come occasione, non come scusa, non come arbitrario pretesto per un ulteriore giro di vite autoritario e repressivo. Ma occasioni di questo genere la vigente società ne produce continuamente, a prescindere dalla stessa volontà di chi ci amministra.

Relativizzo o sottovaluto la «regressione della civiltà»? No, la storicizzo e la valuto dal punto di vista anticapitalista. Se vogliamo discutere seriamente di «regressione della civiltà», per capirne la natura, la dinamica e la fenomenologia, dobbiamo insomma preliminarmente chiarire di che civiltà stiamo parlando: per quanto mi riguarda si tratta della civiltà capitalistica fondata su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento; della civiltà che ha dato corpo a un mondo che per l’essenziale non controlliamo e che anzi ci controlla in guisa di una potenza cieca, ostile, disumana, nonostante siamo noi stessi a renderla possibile, giorno dopo giorno, con le nostre molteplici attività e assistiti da una strumentazione tecnologica sempre più potente e sofisticata. Non è Il virus che rende folli, per citare il titolo dell’ultimo saggio dell’intellettuale francese, ma questa folle – irrazionale, disumana, mostruosa – società. Naturalmente per capire esattamente cosa intendo dire bisogna prima abbandonare l’idea che la civiltà occidentale abbia creato il migliore dei mondi possibili, o semplicemente il solo mondo realisticamente praticabile e sempre perfettibile: uno sforzo che certo sarebbe ingenuo chiedere a un signore che tifa, del tutto legittimamente, per la coppia Merkel-Macron.

«Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha»: così canta Vasco Rossi. E un senso a un’esistenza umana che appare francamente insensata e immersa in una dimensione di assoluta irrazionalità vuole trovarlo anche Gianluca Veneziani: «Non c’era una logica oggettiva per cui si veniva contagiati o meno, si contraeva il virus in modo più o meno grave, si sopravviveva o si crepava. Il discrimine tra la salute e la malattia, il contagio e l’immunità, tra la vita e la morte spesso non era dettato dall’efficacia delle cure, dalla tempestività dell’intervento medico, dall’imprudenza o dall’avvedutezza personale, ma da un unico aspetto: la Fortuna. Dipendeva da una botta di culo il fatto di ritrovarsi tra i sommersi o i salvati» (7). Tuttavia abbiamo visto come la Sfiga si sia accanita soprattutto tra le classi più povere del pianeta; ma non intendo fare del facile “populismo”! Riprendo il filo del ragionamento di Veneziani, il quale tocca “problematiche” etico-filosofiche meritevoli di una qualche attenzione (non faccio dell’ironia!): «Le cronache recenti ci hanno raccontato episodi che hanno fatto incrinare ulteriormente la nostra convinzione in un piano razionale della realtà. […] In questi casi fatichi a individuare i pilastri ai quali si affida chi crede nell’esistenza di un ordine logico. Non vedi la Libertà, l’arbitrio umano di scegliere e indirizzare la propria sorte; non vedi un Destino, una volontà divina che piega le cose in una direzione, possibilmente a fin di bene; né vedi la forza della Necessità, il meccanismo deterministico in base al quale le cose non fanno che obbedire a regole certe. No, appare solo l’imperversare del Caso, il dominio dell’Imponderabile, se non addirittura dell’Assurdo. E vedi soprattutto una profonda mancanza di senso. A noi esseri in cerca continuamente di risposte viene naturale chiedersi: Perché loro? Perché così? Chi ha voluto ciò?» Già, chi l’ha voluto? C’è forse qualcuno o qualcosa che malignamente complotta ai nostri danni? Ecco che ci arriva in soccorso la scienza, ed è sempre Veneziani che ce ne dà contezza: «Un recente e interessante libro, I dadi giocano a Dio? del matematico Ian Stewart, dimostra che l’incertezza è la fibra stessa della realtà, non una falla in un sistema per il resto ordinato e razionale. Stewart ci ricorda che “l’universo è intrinsecamente imprevedibile” e che “l’incertezza non è solo un segno di ignoranza umana; è ciò di cui è fatto il mondo”». Ma di che mondo stiamo parlando? Dell’universo, della natura come appare nel macrocosmo e nel microcosmo («dominio per eccellenza dell’Irrazionale: vedi gli approdi della meccanica quantistica»): dalle galassie agli atomi, dagli ammassi di galassie alle particelle subatomiche: ovunque regna l’incertezza e la probabilità. Ora, mi chiedo, ha un qualche senso leggere la realtà umana, la realtà sociale, ciò che ci accade in ogni ambito delle nostre attività e delle nostre relazioni, alla luce delle leggi e degli schemi concettuali con cui la scienza cerca di spiegare la realtà dell’universo? L’Irrazionale che dominerebbe nel microcosmo ha un qualche legame, anche solo mediato, con l’Irrazionale che domina nel cosmo umano? Qui la scienza è chiamata a giustificare un’irrazionalità e un’incertezza che si spiegano solo prendendo in considerazione la natura storico-sociale delle nostre attività e delle nostre relazioni.

Se «l’uomo si è ritrovato sospeso sull’orlo del Nulla», ciò non è dipeso dalla scienza che ha messo in crisi ogni certezza, a partire da quella relativa all’esistenza di Dio («la morte di Dio»), come sostiene Veneziani, ma perché per un verso ogni idea circa l’inevitabilità delle magnifiche sorti e progressive della società borghese ha fatto bancarotta; e per altro verso perché il Nulla umano tende a impadronirsi dell’intero spazio esistenziale degli individui, ridotti quasi a nulla dalla totalità sociale come si dà nel moderno capitalismo. È il rapporto sociale capitalistico che gioca a Dio!

A proposito di Dio, e di ciò che incute terrore: sono state finalmente pubblicate le Linee guida per il ministero dell’esorcismo: se ne sentiva davvero la mancanza! Occorreva una sistemazione dottrinaria (stavo per scrivere scientifica!) nel caotico mondo dell’esorcismo fai da te. «Il libro “Linee guida per il ministero dell’esorcismo”, pubblicato inizialmente in forma riservata per i membri dell’Associazione Internazionale Esorcisti, è ora disponibile in un volume pubblicato dalle Edizioni Messaggero Padova. Il testo, curato dall’Associazione Internazionale Esorcisti, fornisce anzitutto ai sacerdoti esorcisti gli elementi fondamentali per esercitare il loro servizio. Come ha rilevato il cardinale Bassetti, presidente della CEI, “esistono nel mondo delle periferie esistenziali dove è sempre inverno, dove l’aria è impregnata di paura. Il boss di queste periferie è il maligno che, come ricorda papa Francesco, non è un mito, una rappresentazione, ma un essere personale che ci tormenta e riguardo al quale Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno di essere liberati “perché il suo potere non ci domini”» (8). Egregio cardinale, Santissimo padre, avrei una domanda da porvi umilmente: il demonio sarà pure il boss delle «periferie esistenziali» di cui parlate, ma chi ne è l’artefice, chi le ha create? Anche l’anticapitalista, esattamente come il maligno che vi fa tanta paura, pesca e nuota in quelle «periferie esistenziali», si aggira in esse con fare guardingo per annunciare ai diseredati che un mondo autenticamente umano è possibile, basta costruirlo demolendo dalle fondamenta il pessimo mondo capitalistico; ma della loro esistenza egli non ha certo colpa.

Ma ritorniamo a Giorgio Agamben. Sulla scorta dell’Heidegger di Essere e tempo, dove si trova «una trattazione esemplare della paura come tonalità emotiva», Agamben giunge a questa “esistenzialistica” conclusione: «Dato il carattere originario della paura, si potrebbe venirne a capo solo se fosse possibile accedere a una dimensione altrettanto originaria. Una tale dimensione esiste ed è la stessa apertura al mondo, nella quale soltanto le cose possono apparire e minacciarci. Le cose diventano spaventose perché dimentichiamo la loro coappartenenza al mondo che le trascende e, insieme, le rende presenti. L’unica possibilità di recidere la “cosa” dalla paura da cui sembra inseparabile è ricordarsi dell’apertura in cui essa è già sempre esposta e rivelata. Non il ragionamento, ma la memoria – il ricordarsi di sé e del nostro essere al mondo – può restituirci l’accesso a una cosalità libera dalla paura. La “cosa” che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo, è, come tutti gli altri enti intramondani – come quest’albero, questo torrente, quest’uomo – aperta nella sua pura esistenza. Solo perché io sono al mondo, le cose possono apparirmi e, eventualmente, farmi paura. Esse fanno parte del mio essere al mondo, e questo – e non una cosalità astrattamente separata e eretta indebitamente a sovrano – detta le regole etiche e politiche del mio comportamento. Certo, l’albero può spezzarsi e cadermi addosso, il torrente straripare e allagare il paese e quest’uomo improvvisamente colpirmi: se questa possibilità diventa improvvisamente reale, un giusto timore suggerisce le opportune cautele senza cadere nel panico e senza perdere la testa, lasciando che altri fondi il suo potere sulla mia paura e, trasformando l’emergenza in una stabile norma, decida a suo arbitrio quello che io posso o non posso fare e cancelli le regole che garantivano la mia libertà». Si capisce che «la “cosa” che mi atterrisce, per quanto invisibile allo sguardo», evocata dal filosofo altro non è che il Coronavirus, un essere vivente estremamente elementare che segue con cieca determinazione un solo incoercibile principio: sopravvivere e moltiplicarsi. La vita vuole vivere, diceva un filosofo incline alla tautologia.

Come noi, anche il virus è in fondo «gettato nel mondo»; anch’esso condivide il nostro destino di esseri per e nel mondo, non è insomma una cosa aliena ma una realtà di questo mondo con la quale dobbiamo imparare a convivere, avendone timore, si capisce, ma senza tuttavia cadere in uno stato d’angoscia permanente che ci renderebbe impotenti e, soprattutto, facili prede del potere politico che è ben felice di assumersi l’incarico di difenderci da ciò che minaccia la nostra sicurezza. Detto in altri termini, dobbiamo impedire che la cosa concreta (il virus, ad esempio) diventi un’astratta cosalità che ci sovrasta come una mostruosa quanto impalpabile potenza impossibile da governare, anche emotivamente, se non delegando appunto al potere politico (oltre che alla medicina e alla farmacopea) questo ingrato ma essenziale compito. Ora, a mio avviso Agamben situa il suo discorso sulla paura proprio in quell’astratta dimensione esistenziale di cui prima ho parlato, e questo tra l’altro lo porta a fare l’apologia delle «regole che garantivano la [nostra] libertà»: ma una “libertà” interamente confinata nella dimensione del dominio di classe e impotente dinanzi ai grandi processi sociali che configurano sempre di nuovo e fin nei minimi dettagli la nostra esistenza può ancora venir chiamata “libertà”? Io non credo proprio, salvo non si abbia nella testa un ben misero concetto di “libertà” – e di civiltà, di progresso, di umanità, e così via. Non si dà vera libertà, né vera umanità, nella società dominata in modo sempre più totalitario dagli interessi (economici, geopolitici, politici, ecc.) che nulla hanno a che fare con la felicità degli individui e che anzi la negano sempre di nuovo. Chi ragiona di libertà e di democrazia (9) non dovrebbe sottovalutare il carattere totalitario del processo sociale capitalistico colto nella sua globalità.

Bisogna certo avere paura, molta paura; ma paura di questa società, di questo capitalistico mondo che alle vecchie potenziali catastrofi ne aggiunge di nuove, esponendoci come individui impotenti non solo alla malattia, alla sofferenza e alla morte prematura, ma anche a ciò che il Leviatano, bontà sua, organizza per “proteggerci”, ossia, detto con più verità, per difendere la continuità del dominio sociale capitalistico – e non di un generico “Sistema”, per usare il poco immaginifico linguaggio dei complottisti. È di questa maligna dialettica («Ti difendo dalle offese e dalle minacce generate dalla società che io difendo») che dobbiamo avere paura. Per quel che posso, do il mio contributo affinché questa paura possa trovare sul suo cammino l’idea che questo mondo non è il solo mondo possibile.  Scrive Donatella Di Cesare: «Il coronavirus è un virus sovrano che aggira i muri patriottici, le boriose frontiere dei sovranisti. E rivela in tutta la sua terribile crudezza la logica immunitaria che esclude i più deboli. La disparità tra protetti e indifesi, che sfida ogni idea di giustizia, non è mai stata così sfrontata. Il virus ha messo allo scoperto la spietatezza del capitalismo e mostra l’impossibilità di salvarsi, se non con l’aiuto reciproco, costringendo a pensare un nuovo modo di coabitare» (10). Ecco, appunto!

 

(1) S. Freud, L’angoscia, in Introduzione alla psicoanalisi, pp. 355-356, Boringhieri, 1985.
(2) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 23, Einaudi, 2000.
(3) J. Diamond, Il mondo fino a ieri, Einaudi, 2013.
(4) R. M. Nesse, G. C. Williams, Perché ci ammaliamo, p. 85, Einaudi, 1994.
(5) «Il problema centrale [di Lev Tolstoj] si rivolgeva in misura crescente alla questione se la morte fosse un fenomeno dotato di senso oppure no. E la sua risposta è che per l’uomo civilizzato non lo è. E non lo è perché la vita individuale dell’uomo civilizzato, inserita nel “progresso”, nell’infinito, non potrebbe avere, per il suo senso immanente, alcun termine. Infatti c’è sempre ancora un progresso ulteriore da compiere dinanzi a chi c’è dentro; nessuno, morendo, è arrivato al culmine, che è posto all’infinito. Abramo o un qualsiasi contadino dei tempi antichi moriva “vecchio e sazio della vita” poiché si trovava nel ciclo organico della vita, poiché la sua vita, anche per quanto riguarda il suo senso, gli aveva portato alla sera del suo giorno ciò che poteva offrirgli, poiché per lui non rimanevano enigmi che desiderasse risolvere ed egli poteva perciò averne “abbastanza”. Ma un uomo civilizzato, il quale è inserito nel processo di progressivo arricchimento della civiltà in fatto di idee, di sapere, di problemi, può diventare sì “stanco della vita”, ma non sazio della vita. Di ciò che la vita dello spirito continuamente produce egli coglie soltanto la minima parte, e sempre soltanto qualcosa di provvisorio, mai di definitivo: perciò la morte è per lui un accadimento privo di senso. E poiché la morte è priva di senso, lo è anche la vita della cultura in quanto tale, che proprio in virtù della sua «progressività» priva di senso imprime alla morte un carattere di assurdità. Ovunque, nei suoi ultimi romanzi, quest’idea costituisce il motivo fondamentale dell’arte di Tolstoj» (M. Weber, La scienza come professione, 1917,  in La scienza come professione, La politica come professione, p. 27, Einaudi, 2004).
(6) Intervista al Venerdì di Repubblica.
(7) Libero Quotidiano.
(8) La Stampa.
(9) «La democrazia consente (se non altro tramite una fictio) di realizzare l’aspirazione a che nessuno possa essere sottoposto a leggi che non abbia concorso ad approvare, e dunque a subire vincoli che non abbia volontaria­mente accettato» (D. De Lungo, Liberalismo, democrazia, pandemia, IBL). La democrazia (capitalistica) come «fictio»: non c’è dubbio!
(10) D. Di Cesare,Virus sovrano? L’asfissia capitalistica, Bollati Boringhieri, 2020. Sovrano, in senso forte e direi senz’altro totalitario, è il Capitale, sempre inteso in primo luogo come peculiare rapporto sociale di produzione.

LA SFILATA DEI MORTI VIVENTI

Il morto afferra il vivo!

Scrive Liz Jones Diary del Mail On Sunday: «La critica in estasi: “Lo show della stagione! Monumentale!”, strombazza Vogue.com, a proposito della sfilata maschile parigina di Rick Owens per la primavera/estate 2018. La stella è un modello così scarno che le orecchie sembrano giganti, testa rasata, faccia emaciata, zigomi così affilati da grattugiarci il parmigiano, costole a vista. Sembra il sopravvissuto di un campo di concentramento. […] L’ossessione per i modelli magrissimi non è nuova, ma ora siamo andati oltre. Non vedono mai il sole, non fanno attività fisica, sembrano malati terminali. Si tratta, mi dicono gli interni, di giovani fieri di non stare in salute perché vivono virtualmente. E i loro stilisti pure, hanno abbandonato il mondo reale, sono virtuali, sono fantasmi. Non c’è nessuno che ne accorga? A parte l’organizzazione All Walks Beyond the Catwalk, che dichiara: “I modelli fanno fatica a riconoscere la loro vulnerabilità e tentano di mantenere il corpo alla moda. Sono sottopeso in modo scioccante, ma è un nuovo look per vendere più vestiti”. Sono cadaveri guidati dal commercio. Si notano e gli altri li copiano».

È il Capitalismo, bellezza! Insomma, bellezza per modo di dire…

«Un look che farebbe girare parecchio le palle a Primo Levi», ha commentato qualcuno sul mio profilo Facebook. Non c’è dubbio. D’altra parte Levi forse capì, o quantomeno intuì, che la radice del Male che aveva generato lo sterminio della guerra e dei campi di concentramento non fosse stata estirpata dai cosiddetti liberatori, e che anzi essa fosse più profonda e più viva che mai, nonostante le apparenze contrarie e la retorica intorno all’irripetibilità di quell’orrore. In ogni caso, non voglio sostenere che tra l’anoressico modello che sfila a Parigi e lo scheletrico prigioniero di Auschwitz non corra alcuna differenza; intendo piuttosto dire che entrambi, a loro modo e nelle circostanze date (insomma, mutatis mutandis), ci restituiscono l’immagine dello stesso mondo irrazionale, che è tale in grazia della sua radicale disumanità. La sostanza irrazionale e disumana di un mondo che ruota sempre più vorticosamente intorno al Sole-Denaro si manifesta in molteplici modi, e spesso tocca alla scienza medica (dalla psichiatria alla psicoanalisi, dalla chirurgia alla farmacologia) prenderne atto in modo del tutto empirico, senza altro obiettivo che non sia quello di riparare danni e metterci nelle condizioni di continuare la corsa. Ecco perché a mio avviso non è “blasfemo” né fuori luogo esclamare anche nel caso qui trattato: Se questo è un uomo! Con una semplice quanto essenziale avvertenza: qui si parla di noi, di tutti noi, non dell’eccezione che ci invita a spalancare gli occhi sulla cosiddetta normalità. 

SUPERSTIZIONI DI SECONDA E TERZA MANO. COMPLOTTISMI E AFFINI

the-cabinet-of-dr-caligari_imageOggi è il giorno in cui dovrà
manipolare abilmente le cose
dietro le quinte, per favorire
la Sua fortuna (G. E. Lessing).

A Pierluigi Battista l’ultima genialata complottista che ha avuto come protagonista una senatrice pentastellata non è proprio andata giù: «”La grande truffa dell’allunaggio”, l’11 settembre voluto dalla Cia, fino alla riduzione della magnitudo dei terremoti per contenere i rimborsi. È lunga la serie delle bufale. La senatrice Enza Blundo non ce l’ha proprio fatta, è stato più forte di lei, il crampo complottista è dilagato in lei senza argini. […] La sindrome cospirazionista non perdona, ti prende all’improvviso, d’istinto. Come quella che ha catturato un altro deputato grillino, e svariate migliaia di seguaci di un sito negazionista molto in voga, a proposito della “grande truffa dell’allunaggio”, che invece i complottisti ritengono essere stato una messinscena in uno studio anziché sulla vera Luna. Come quella di un altro deputato grillino, Carlo Sibilia, convinto che da una centrale oscura, da una Spectre malvagia, sia partito l’ordine di inquinare il Pianeta con le scie chimiche. O il complottismo dei microchip che la Cia avrebbe nottetempo introdotto nei corpi di milioni di cittadini ignari. […] Attraverso la senatrice Blundo, sinora quasi sconosciuta nelle cronache della politica, ha parlato dunque uno spirito del tempo molto diffuso e molto variegato, così persuasivo che quasi ci sarebbe da credere a un complotto che spiega tanta popolarità. Ma in questi giorni non fa ridere, mentre sull’Appennino le case crollano e la gente piange. […] Il complottismo, del resto, ha la forza che ha perché fornisce risposte semplici e coerenti a qualcosa che ancora appare misterioso e indecifrabile». In buona sostanza, e sintetizzando concetti che spesso amo impastare nei miei modesti scritti, il complottismo è la perfetta metafora di una totalità sociale che si dà alle spalle degli individui e contro la stessa possibilità di una loro esistenza autenticamente umana. Lo spirito del tempo di cui parla Battista è dunque lo spirito del Capitale? Certamente, almeno su questo punto nutro pochi dubbi. «Oggi ho visto lo spirito del mondo a cavallo», disse una volta Hegel evocando la straordinaria personalità storica di Napoleone; oggi questo spirito lo possiamo ammirare in guise molto meno eroiche, ovunque la miseria sociale dei nostri tempi ha modo di manifestarsi con particolare forza e ricchezza di contraddizioni – e non di rado con singolare bizzarria. Come sempre, in questi casi vale la tesi che ci suggerisce di vedere nel caso eccezionale la manifestazione dell’intima natura della cosiddetta normalità.

«Il complottismo ha la forza che ha perché fornisce risposte semplici e coerenti a qualcosa che ancora appare misterioso e indecifrabile»: su questo punto pare non vi siano dubbi in chi ha voluto cimentarsi con l’argomento qui trattato. Scrive ad esempio Michela Serra: «Morti gli ideali collettivi, il complottismo offre un comodo surrogato, magari da consumare davanti a un video nella propria stanzetta: il mondo è nelle mani di pochi burattinai cattivi, noi siamo solo la moltitudine dei burattini. È un’autoassoluzione; è la celebrazione definitiva della morte della politica; ed è anche la rinuncia a ragionare e confrontarsi. […] Il complottismo non è una risposta utile né lecita. È una parodia della verità. La verità è un traguardo durissimo, che quasi sempre ci sfugge davanti al naso dopo una rincorsa interminabile. Confezionare, ciascuno per sé, una verità tascabile, comoda, da sventolare in faccia al mondo facendo finta che noi abbiamo capito tutto e gli altri niente, non è una risposta al conformismo e alla morte della politica. Ne è, anzi, la perfetta conseguenza. Per questo non amo il complottismo: perché amo (amavo?) la politica». Anch’io non amo il complottismo, e anch’io nutro per la politica una forte passione: si tratta di vedere di quale “politica” andiamo cianciando io e Serra. Ho il sospetto che la politica di cui parla il noto intellettuale progressista ha molto a che fare con le cause che rendono così appetibile, così piena di fascino la merce complottista. E non intendo riferirmi solo, o essenzialmente, a cause di natura politico-ideologica, il che farebbe ristagnare la riflessione nella schiuma dei fatti, ma a processi sociali più profondi e strutturali, che peraltro lo stesso Serra evoca con una certa precisione: «Quella rete di rapporti – come, meglio di ogni altro, ha spiegato Marx – non è innocente o “neutrale”. È un campo di battaglia. È intrisa di violenza, di oppressione e di dominio. Sfruttatore e sfruttato, ricco e povero, padre padrone e famiglia sottomessa, il mondo pullula di ingiustizia e sopraffazione. Ma è una violenza – come dire – orizzontale e diffusa, che attraversa le nostre vite, il nostro lavoro, l’assetto sociale, il nostro modo di produrre e di consumare. Forse metterla in discussione è troppo faticoso (anche personalmente), perché implica un coinvolgimento di ognuno di noi negli eventi della storia». Probabilmente questo accade perché abbiamo imparato ad arredare così bene la cella esistenziale chiamata vita quotidiana, che facciamo fatica solo a concepire un diverso, e soprattutto migliore, modo di vivere: davvero la smisurata potenza del Dominio ci crea a sua immagine e somiglianza. L’identificazione dei dominati con i rapporti sociali di dominio è alla base di quegli atteggiamenti irrazionali, individuali e di massa, che anche la psicanalisi freudiana ha cercato di spiegare, non raramente con successo – ossia in modo fecondo, stimolante per chi intende capire le dinamiche interne al «campo di battaglia» chiamato società capitalistica.

La violenza sistemica di cui parla Serra, con una rassegnazione (travestita da “pensiero critico”) che esprime soprattutto la sua concezione del mondo e la sua funzione politica (entrambe al servizio dello status quo sociale), è un dato strutturale della nostra esistenza, e noi riusciamo a cogliere solo le sue brusche accelerazioni, le sue improvvise impennate, le scosse telluriche che ci portano a un livello più alto di disumanizzazione, al quale presto ci adattiamo, anche facendo ricorso a qualche “aiutino” chimico. E chi non riesce a “evolvere”? È pregato di accomodarsi nell’apposito contenitore dei rifiuti! «Hai parlato di “aiutino chimico”: insinui forse che le case farmaceutiche sono alla testa di una cospirazione economica? Io per la verità lo avevo sempre sospettato. Maledette multinazionali degli psicofarmaci!» Il complottista è sempre in agguato. Ciò non toglie il fatto che una cospicua fetta dell’economia prosperi grazie alle magagne che il “Sistema” dona con generosità alla gente. Il “Sistema” ci rende difficile la vita, è vero, ma ci dà anche i mezzi per affrontare meglio le difficoltà che esso stesso crea; basta pagare. Intere professioni vivono di magagne esistenziali, e il mercato del disagio sociale è in perenne espansione, è un mercato che non conosce crisi. Più che di complotto, parlerei di astuzia del Dominio. Un’astuzia che paghiamo a carissimo prezzo, in tutti i sensi.

A rischio di perdere qualche amicizia, devo confessare la mia personale antipatia nei confronti del “complottista”, qui inteso appunto come colui che rimane vittima delle teorie complottiste; il razionalista che c’è in me, infatti, è oltremodo restio a comprendere come delle persone mediamente intelligenti – e sicuramente più intelligenti del sottoscritto: lo so, ci vuole poco! – possano aggrapparsi con tale ferocia e con un fervore degno davvero di miglior causa a tesi e argomenti che susciterebbero la più crassa delle risate persino in un bambino, se solo egli avesse qualche minuto del suo preziosissimo tempo da perdere appresso alle farneticazioni esternate dai cacciatori di complotti. Per fortuna il razionalismo alberga in me in forma residuale; e tuttavia l’antipatia permane, forse come traccia emotiva di un atteggiamento mentale che considero comunque largamente superato. Il ragazzino ateo ha da tempo lasciato il posto a una più adulta personalità “filosofica”. Almeno lo spero!

Com’è noto è quasi impossibile convincere un “complottista” circa l’assurdità delle tesi che difende; i sostenitori del Grande Complotto amano ribattere ai loro denigratori: «Se parli con i mafiosi, ti diranno che la mafia non esiste». E la Massoneria potrà mai confessare al mondo di essere alla testa dei più grandi complotti dell’ultimo secolo? Infatti, come si legge su un blog “complottista”, almeno «dal 1969 [cioè dal preteso allunaggio] la bandiera della massoneria sventola su buona parte delle truffe mediatiche organizzate in danno dell’umanità». Per non parlare della famigerata lobby ebraica, la quale passerebbe volentieri attraverso i camini, piuttosto che confessare la verità sul millenario complotto giudaico orchestrato contro il mondo intero, oggetto delle perverse brame di potere e di ricchezza dei figli di Israele. Dagli anni Settanta del secolo scorso decine di scienziati sono all’opera, soprattutto negli Stati Uniti, per smontare tutte le teorie complottiste in circolazione, con scarsi risultati, a quanto pare. Per aiutare a valutare l’attendibilità (o l’infondatezza) di diverse note teorie del complotto, il fisico David Robert Grimes «ha elaborato un’equazione che dimostra quanto sarebbe difficile mantenere segrete cospirazioni su larga scala, se fossero vere. “Anche un complotto che coinvolge solo poche migliaia di persone sarebbe inevitabilmente smascherato nel giro di decenni. Nel caso in cui partecipassero centinaia di migliaia di persone, invece, avverrebbe in meno di cinque anni”, ha concluso Grimes. Brutte notizie per le teorie complottiste più longeve di internet». (Il Post). Siamo proprio sicuri? L’equazione anticomplottista mi appare piuttosto come l’ennesima prova di superstizione scientista, tanto più risibile, in quanto chiama in causa la feticistica potenza predittiva della matematica. Secondo la giornalista del Washington Post Caitlin Dewey (articolo del 18 dicembre 2015 dedicato alle «bufale su internet»), «Oggi la sfiducia verso le istituzioni è altissima, e i pregiudizi a livello cognitivo sono sempre molto forti: chi crede alle bufale online spesso è solo interessato a leggere informazioni che corrispondano alle sue idee, anche quando sono palesemente false». Chi accusa un malessere esistenziale di qualche tipo (cui la scienza medica non lesina definizioni e non manca di classificare, con un grado di puntualità tutto da verificare), non cerca la verità («Ma cos’è poi la verità?»), ma una qualche forma di consolazione immediata, di rapido effetto, qualcosa che dia soddisfazione omeopatica al veleno che ha in corpo. «Quando la società soffre – scrisse una volta Émile Durkheim – sente il bisogno di trovare qualcuno a cui attribuire il suo male, qualcuno su cui vendicarsi delle sue delusioni». Non c’è niente da fare: il demagogo, il populista, il complottista godrà sempre di un notevole vantaggio sul rivoluzionario: la società, infatti, lavora per i venditori di fumo.

Chi riceve sberle “esistenziali” da tutte le parti, e che spesso neanche fa in tempo a capire da quale direzione arrivano i ceffoni, e perché, facilmente accede all’idea che poteri occulti stiano effettivamente tramando contro la sua e l’altrui felicità, se non riesce a trovare spiegazioni razionali che siano in grado non solo di spiegargli le ragioni della sua triste condizione, ma anche – direi soprattutto – di appagarlo emotivamente, di procurargli una qualche forma di gioia, una ricompensa che almeno ne stemperi le pulsioni più distruttive – sovente autodistruttive. D’altra parte è la “modernità” che ha spinto gli individui verso un uso sempre più economico del pensiero, il quale è invitato dall’intera prassi sociale a cercare soluzioni “pragmatiche” (a portata di mano, usa e getta) ai problemi quotidiani, cosa che certamente non sviluppa le loro capacità critiche, né li sprona a cercare il «vero senso della vita» al di là delle pappe concettuali predigerite preparate dal “Sistema” per assistere il bravo cittadino dalla culla alla bara. Il kit di sopravvivenza esistenziale contiene ogni genere di roba, e francamente mi appare ozioso, oltre che testimonianza di un’assoluta incomprensione della situazione, discriminare fra la roba “buona” e quella “cattiva”: come diceva Totò, ognuno si arrangia come può! Ho complottato a favore della rima?

Contro la «sindrome del complotto» Umberto Eco escogitò la cosiddetta «prova del silenzio»: «Se la navicella americana non fosse arrivata sulla Luna c’era qualcuno che era in grado di controllarlo e aveva interesse a dirlo, ed erano i sovietici; se pertanto i sovietici sono rimasti zitti, ecco la prova che sulla Luna gli americani ci sono andati davvero. Punto e basta» (1). L’argomento addotto da Eco non fa una grinza, ma solo se considerato dal versante di chi è già convinto dell’avvenuto «grande passo per l’umanità», per chi già deride le panzane complottiste, mentre chi aderisce alla tesi cospirazionista della «grande truffa» rimane sulle sue posizioni, magari sostenendole con nuovi – e ancor più “bizzarri”, diciamo così – argomenti, tali da confermare quel noto detto: la realtà supera sempre l’immaginazione. E poi, il fallimento di una sola tesi complottista avrebbe come conseguenza il fallimento dell’intera “concezione” complottista, la rottura di tutta la catena dei complotti; come le ciliegie, una confutazione tira l’altra. Occorre dunque negare, negare sempre, chiudersi a riccio, alzare le difese, anche dinanzi alla prova più schiacciante, più evidente: soprattutto dinanzi a essa. «Io ci credo proprio perché la cosa sembra assurda, inverosimile»; d’altra parte chi orchestra complotti è bravo nel far passare per pazzi visionari i nemici del “Sistema” – qualsiasi senso il paranoico adoratore di complotti attribuisca a questa parola magica: “Sistema”. Per uno che riesce a saltar fuori  dal circolo vizioso cospirazionista (2), almeno dieci sono pronti a rimpiazzarlo nella lotta contro i Poteri Forti, contro le Versioni Ufficiali propalate dai media di regime.

Il “complottista”, dunque, raramente abbassa le difese psicologiche che lo tengono lontano dall’«evidenza scientifica», e chi ha bisogno dell’irrazionale per padroneggiare con la testa e con il cuore una realtà altamente irrazionale si rivolge senz’altro al mercato delle “bufale”, e le stesse pubblicazioni scientifiche tese a smascherare le bufale complottiste gli appaiono come la più evidente conferma del Grande Complotto orchestrato dal “Sistema” contro l’umanità in generale, e contro la sua persona, in particolare.

La stessa scienza, che sghignazza in faccia ai teorici del complotto, si mostra a sua volta impotente e meritevole di scherno dinanzi al processo sociale capitalistico, che per l’essenziale essa non è in grado di comprendere. Un solo esempio. «La tecnica è destinata al dominio perché il sottosuolo essenziale della filosofia degli ultimi due secoli mostra che l’unica verità possibile è il divenire del tutto, in cui viene travolta ogni altra verità e innanzitutto la verità della tradizione dell’Occidente, che pone limiti all’agire tecnico. [ …] Lo scopo dell’Apparato tecno-scientifico planetario non è il benessere cristiano, capitalistico, comunista, democratico dell’umanità, ma è l’aumento indefinito della potenza. […] Lo scopo dell’Apparato – ossia della forma suprema della volontà di potenza – non è l’”uomo”: l’”uomo” è mezzo per l’incremento della potenza; tuttavia, come il capitalismo, che prima ancora della tecnica ha già come scopo qualcosa di diverso dall’”uomo” [si tratta per caso del profitto?], riesce a dare a quest’ultimo un benessere superiore a quello dei movimenti che, come il socialismo reale, si propongono invece di avere l’”uomo” come fine, così, e anzi in misura essenzialmente superiore, accade nell’Apparato, dove ancora più radicalmente del capitalismo l’”uomo” non è assunto come fine». Così la pensa il filosofo Emanuele Severino, il quale fra l’altro si è specializzato nella “scoperta” di realtà già da tempo ampiamente denunciate – un solo esempio: «Assistiamo a una formidabile avanzata del Capitalismo. L’economia comanda la politica» (Il Fatto, 15/12/2013). Ma va?

L’idea fissa del complottista compulsivo, che vede cospirazioni dappertutto, è il “Sistema”; l’idea fissa di Severino è l’«Apparato». Entrambi sono vittime di una totalità sociale che l’umanità non controlla razionalmente, ma subisce come una Potenza estranea e ostile, come un tempo i nostri antenati subivano i “capricci” della Natura. Il feticismo tecnologico impedisce al noto filosofo di scorgere nell’«Apparato tecno-scientifico planetario» non più che la prassi sociale capitalistica dispiegata al suo più alto e verace livello, la reificazione dei rapporti sociali di dominio e sfruttamento che informano quella prassi. L’illuminismo scientista degrada verso forme primitive di concettualizzazione del mondo. Sull’inversione feticistica della realtà rimando ai miei post dedicati al tema – l’ultimo dei quali ha come titolo Capitalismo 4.0. Tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale.

Nel Capitalismo i fenomeni sociali non appaiono immediatamente nella loro nuda realtà, per quello che essi rappresentano veramente sul piano storico e sociale, ma quasi sempre si presentano al nostro sguardo in guise – o “veli” – che ne occultano appunto l’autentico significato. Ciò non a causa di complotti o della cattiva volontà di qualcuno, ma in grazia della stessa natura dei vigenti rapporti sociali. Ad esempio, sembra che nella compravendita di capacità lavorativa sia in questione un mero scambio fra chi vende il lavoro e chi lo acquista, e che il tutto si risolva in una più o meno equa retribuzione (denaro-salario) e in una più o meno sostenibile durata della giornata lavorativa. La realtà sottostante allo scambio ci dice invece che a prescindere – ma fino a un certo punto! – dal livello salariale e dal numero di ore lavorative pattuite contrattualmente, lo scambio lavoro-salario è in sé un rapporto di dominio (che trova nella sfera politico-istituzionale la sua più puntuale espressione nello Stato) e di sfruttamento, tant’è vero che il discorso sulla sostenibilità dell’accordo («un equo salario e un equo tempo di lavoro») cade quando il profitto non è più garantito. È dunque il profitto che regola la relazione di compravendita del lavoro e che informa l’uso di esso, cosa che giustifica anche l’«Apparato tecno-scientifico planetario» che tanto inquieta Severino. Di più: il rapporto capitale-lavoro non trasforma solo il lavoro vivo (“il capitale umano”) in una merce, ma l’intera esistenza del lavoratore è mercificata, visto che i suoi bisogni sono quantificabili in termini di somma dei prezzi dei beni e dei servizi necessari alla sua esistenza. La capacità lavorativa dunque non è che il valore d’uso (ciò che il capitale usa e consuma produttivamente) della merce-lavoratore, mentre il salario corrisponde al prezzo della vita del lavoratore, una vita abbassata dunque a valore di scambio. Dietro questo rapporto di sfruttamento, che aliena il lavoratore dal suo prodotto e ne reifica l’esistenza (il lavoratore come bio-merce), non c’è alcun complotto, nessuna malafede, nessun inganno, nessuna frode; c’è invece una peculiare struttura classista della società.

cabinetofcaligari2Anche la psicoanalisi ha imparato a leggere il fenomeno – qui inteso come ciò che appare immediatamente – come sintomo che rimanda ad altro, a una causa o a una costellazione di cause che bisogna cercare nelle strutture profonde delle esperienze, le quali non mancano mai di lasciare durevoli tracce – o cicatrici – in quella che chiamiamo comunemente psiche. Occorre «aprirsi un varco capace di farci accedere alle massime profondità», diceva Freud. Insomma, non bisogna arrestarsi a ciò che la società e gli individui pensano di se stessi, come insegnava Marx, ma bisogna appunto scavare nella dura crosta dell’apparenza se si vuole cogliere la vera natura dei problemi sociali e individuali (una distinzione che occorre prendere sempre con molta prudenza), comprenderne la dinamica interna e il loro rapporto con la totalità sociale/esistenziale.

Sospettare delle apparenze, non appagarsi della prima impressione, non dare per scontato ciò che così ama invece presentarsi agli occhi delle “masse” (il cui tasso di critica è notoriamente assai basso): è, credo, l’atteggiamento adeguato al mondo che ci ospita. Perché quasi niente è mai come sembra, e quasi mai la Cosa che ci sta dinanzi ci confessa spontaneamente la verità riguardo alla sua natura e alle sue relazioni – spesso molto “scabrose” – con il resto del mondo. Tutto questo ovviamente non ha nulla a che vedere con la diffidenza paranoica riscontrabile in gran parte dei complottisti. Scrive Gianfranco Morrai: «I diritti come mistificazioni di interessi (Marx), i valori come espressioni del risentimento (Nietzsche), la morale come sublimazione del sesso (Freud). I maestri del sospetto hanno lastricato la nostra civiltà della dietrologia: “io non ti credo, dimostramelo; perché ciò che tu chiami X, in realtà, guardato sotto e dietro, altro non è che Y”. Lo aveva capito l’intelligenza luciferina di Giulio Andreotti: “A pensar male si fa peccato, ma il più delle volte ci si indovina”» (Italia Oggi). Sciocchezze di simile volgare conio possono nascere solo nella testa di chi ha una conoscenze di terza o quarta mano delle opere di Marx, di Nietzsche e di Freud. La concezione critico-rivoluzionaria del “complottista” di Treviri non ha nulla a che fare con le “forze del Male” in lotta contro le “forze del Bene”, ma la millenaria storia delle società divise in dominanti e dominati. Per Marx il motore della storia è la lotta di classe; per il complottista il motore della storia è il complotto organizzato da pochi a danno dei molti.

Nel discorso marxiano il “complotto” (3) può avere una qualche legittimità solo come metafora della totalità sociale, la quale ci si dà come risultato di qualcosa che sfugge, per l’essenziale, al nostro controllo; noi non produciamo coscientemente quel risultato, ma piuttosto lo subiamo come se ci fosse stato imposto dall’esterno da qualcuno (non particolarmente compassionevole nei confronti dell’umano), nonostante nulla è esterno alla nostra prassi – a meno di non prendere in considerazione il Deus ex machina che tanto piace anche al complottista, il quale ha denti troppo deboli per poter masticare una fenomenologia sociale alquanto dura. Anche l’«Apparato tecno-scientifico» di cui straparla Severino ha a che fare con la complessa dialettica sociale qui solo abbozzata. Parafrasando il titolo di un bel film di Massimo Troisi: Pensavo fosse un complotto, e invece era il Capitale!

Una volta Adorno disse che «L’occultismo è la metafisica degli stupidi»: le persone attratte dal messaggio spiritistico dei medium «cercano nell’aldilà quello che hanno perduto in questo mondo, e vi trovano solo il proprio nulla» (Minima moralia). Penso che si possa dire qualcosa di analogo a proposito della dietrologia complottista: essa è la “teoria critica” dei poveri di spirito, per così dire. Le tesi e le argomentazioni complottiste mi procurano qualche minuto di divertimento, come quando ascolto una barzelletta o la battuta di un comico, ma il complottismo come fenomeno sociale credo sia invece un oggetto da indagare seriamente, e dialogare con il complottista, se non abbiamo nulla di meglio da fare per qualche minuto, ci offrirebbe quantomeno l’opportunità di capire meglio cosa è in grado di fare agli individui questa società disumana. Anziché prendere in giro le “teorie” complottiste, esibendo a nostra volta l’arrogante sicurezza che giustamente ridicolizziamo quando abbiamo a che fare con gli amanti del genere, dovremmo piuttosto riflettere su una società che rende possibile il successo di tali “teorie”. È la luna che va osservata, non dimentichiamolo mai, non il dito che la indica. Cosa hanno perso gli uomini in questo mondo, e perché? Perché ai loro occhi il nulla può spesso apparire in guisa di affascinante quanto ipnotica profondità (abissale, cosmica, storica, scientifica, esistenziale)?

Come scriveva sempre Adorno nel 1962 (Superstizione di seconda mano), «Nei tempi in cui incombe la minaccia della catastrofe sono mobilitati tratti paranoidi» della personalità degli individui. Di tutti gli individui che hanno la ventura di vivere in questa società, nella presente epoca storica. La fuoriuscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Il progetto illuminista non poteva non fallire, giacché esso affidava l’emancipazione universale degli individui a una rivoluzione antropologica (culturale, morale, etica) che lasciava intatta quella struttura classista che li sequestrava (e li sequestra) nella dimensione disumana del lavoro sfruttato, reificato e alienante, che li tiene inchiodati alla croce degli interessi (economici, politici, geopolitici) che nulla a che fare hanno con ciò che da sempre evoca la parola umanità. Insomma, dal mio punto di vista gli acchiappacomplottisti mi appaiono l’altra faccia di una moneta che andrebbe messa al più presto fuori corso.

cabinet_of_dr__caligari_by_h_magoria(1) U. Eco, Come vincere l’ossessione dei complotti fasulli, La Repubblica, 27 Giugno 2015.
(2) «Una volta ero anch’io un complottista. Sia chiaro: non uno di quei complottisti che credono ad ogni minima stupidaggine circoli in rete purché sotto ci sia scritto “Condividete prima che lo censurino” o “I media di regime questo non ve lo dicono”. No, io ero un complottista su un tema molto specifico: l’11 settembre, per l’appunto. Disgraziatamente, per un periodo della mia vita ho avuto troppo tempo libero a disposizione e troppi modi stupidi di utilizzarlo. Quando ancora sapevo molto poco della vicenda, se non gli aspetti più noti, mi capitò di imbattermi in uno dei tanti video cospirazionisti sul tema che circolano su YouTube. Come capita a molti, lo trovai interessante e pensai che la storia che raccontava avesse una sua logica ed una sua coerenza. A quei tempi ancora non lo sapevo, ma questo dipende in gran parte dal fatto che chi realizza questi video ed elabora queste teorie è particolarmente abile nel tessere una trama nella quale fatti veri ed assodati vengono mischiati ad altri fortemente distorti, per arrivare ad elementi inventati di sana pianta. Il prodotto di questa operazione è potenzialmente micidiale. Quando qualcuno non si crea problemi ad “aggiustare” le informazioni per fare in modo che ciò che viene detto aderisca perfettamente ad una tesi, il racconto che ne viene fuori appare perfettamente logico e coerente, quasi inattaccabile. In parte, questo è dovuto anche all’utilizzo di determinate parole in un determinato contesto, per far apparire normali cose che normali non sono e viceversa. Un perfetto esempio è quello dell’espressione “versione ufficiale”, utilizzata con molta nonchalance dai complottisti dell’11 settembre. […] Io so bene quanto sia appagante essere un complottista, per averlo vissuto in prima persona. So bene quanto sia gratificante la sensazione di essere riuscito ad arrivare ad un livello di conoscenza superiore, irraggiungibile dai “poveri idioti che si bevono le idiozie di regime”. Eppure, un giorno ho preferito iniziare a credere a quei fastidiosi dettagli chiamati “fatti”. E allora ho iniziato a fare le domande “giuste”: dove sono le prove? Dove sta scritto? Puoi dimostrarlo? Su cosa si basa questa congettura?» (Confessione di un complottista pentito). Si può sempre sperare che l’atteggiamento critico del “complottista pentito” si applichi su “fatti” un po’ più decisivi.
(3) Scriveva Karl Popper: «Vi è una concezione filosofica della vita molto influente, secondo cui tutte le volte che accade qualcosa di veramente negativo in questo mondo (o che non ci piace) vi deve essere qualcuno che lo ha fatto. Questa concezione è molto antica. […] Nel pensiero cristiano più tardo, il Diavolo è responsabile del male, nel marxismo volgare è il complotto di avidi capitalisti ad impedire l’avvento del socialismo e l’attuazione del paradiso in terra» (K. Popper, Come io vedo la filosofia e altri saggi, p. 29, Armando, 2005).
Ciò che l’apologeta del Capitalismo Ayn Rand fa dire a John Galt, il personaggio centrale del suo romanzo La Rivolta di Atlante (Leonardo Facco, 2002), illustra bene sia il significato di «marxismo volgare», come il concetto marxiano di feticismo («velo monetario») richiamato sopra: «E così tu pensi che il denaro sia alla radice di tutti i mali? Ti sei mai chiesto quali sono le radici del denaro? Il denaro è un mezzo di scambio, che non può esistere se non esistono le merci prodotte e gli uomini capaci di produrle. Il denaro è la forma materiale del principio che se gli uomini vogliono trattare l’uno con l’altro, devono trattare scambiando valore con valore. Il denaro non è lo strumento dei miserabili, che ti chiedono il tuo prodotto con le lacrime, né dei pescecani, che te lo tolgono con la forza. Il denaro è reso possibile solo dagli uomini che producono. È questo che tu chiami male?». Ma, direbbe Marx, il denaro è in primo luogo espressione di un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento! Il denaro è la creazione più sofisticata  di un processo economico-sociale che ha il lavoro salariato (e dunque la ricerca del profitto) come centro-motore. Cosa che tanto il “marxista volgare” che odia il potere demoniaco del Denaro mentre santifica il duro lavoro, quanto la liberista che nel Capitalismo vede solo «merci prodotte e uomini capaci di produrle» (ma non il rapporto sociale che dà senso storico-sociale a entrambi) non possono comprendere.
Ma concludiamo la citazione di Popper: «La teoria che vede nella guerra, nella povertà e nella disoccupazione il risultato di una cattiva intenzione, di qualche sinistro piano, aderisce al senso comune ma è acritica. Ho chiamato questa teoria acritica del senso comune la teoria cospiratoria della società. È largamente condivisa e sotto forma di ricerca di cospiratori ha ispirato molti conflitti. Lenin, sostenitore della teoria cospirativa, era un cospiratore come Mussolini e Hitler. Ma gli obiettivi di Lenin non furono realizzati in Russia, e nemmeno quelli di Mussolini in Italia o di Hitler in Germania. Tutti costoro erano cospiratori perché credevano acriticamente ad una teoria cospiratoria della società». Attribuire a Lenin concezioni cospirative e accostarlo senz’altro a Mussolini e a Hitler, questa sola operazione, che denota un tasso assai alto di superficialità storica e politica, è sufficiente a squalificare ai miei occhi il pensiero sociologico del filosofo viennese.

SORRIDETE! GLI SPARI SOPRA SONO PER NOI!

 

R900x__sniperSorridete, gli spari sopra sono per noi!
Sorridete, gli spari sopra sono per noi!

Nel precedente post sui noti fatti parigini ho reagito ai passi che seguono: «Non bisogna commettere l’errore di quelli che vogliono razionalizzare e sociologiazzare ad ogni costo il comportamento del nemico. Il fanatismo non è solo un fenomeno sociale. Ci sono delle cause autonome e intrinseche. Certo, il fanatismo approfitta delle ingiustizie della società, ma ubbidisce a una logica che spesso ci sfugge. Ben Laden non ha organizzato l’11 Settembre per lottare contro le diseguaglianze sociali: ha commesso quel crimine per promuovere il suo folle progetto di califfato mondiale» (Libération). Oggi continuo la riflessione.

È come voler spiegare la cosiddetta “Rivoluzione Khomeinista” del 1979 in Iran a partire dall’infatuazione del popolo iraniano nei confronti dell’islamismo radicale (che ovviamente sono lungi dal negare), e non spiegare questa stessa infatuazione con la crisi sociale di quel Paese, con la miserabile condizione di milioni di proletari, di sottoproletari e di contadini poveri, con la brutale oppressione poliziesca (chi non ricorda la famigerata Savak, la polizia dello Stato monarchico?) del regime sanguinario dello Scià Pahlevi sostenuto dagli Stati Uniti e, dulcis – si fa per dire – in fundo, anche con l’assenza di un’autentica alternativa “di classe” – cosa che il partito stalinista Tudeh e i Fedayn del popolo non erano. Allora molti in Occidente dissero che si trattava di un ritorno al Medioevo; quanto fosse sbagliata quella lettura, tutta focalizzata sugli aspetti “sovrastrutturali” della Repubblica Islamica, lo dimostra l’attuale capacità industriale e tecno-scientifica dell’Iran, il suo dinamismo geopolitico (vedi Siria!), la “modernità” di gran parte della popolazione giovanile (nonostante l’occhiuta e violenta vigilanza dei cosiddetti Guardiani della rivoluzione), gli stessi contrasti interni al regime fra “moderati” e “radicali”, “progressisti” e “conservatori” – contrasti che si spiegano sempre e puntualmente a partire dalla nozione di Potere.

È come voler spiegare la crisi sociale della Polonia stalinista, gli scioperi dei cantieri navali di Danzica agli inizi degli anni Ottanta e la stessa nascita di Solidarność («Sindacato autonomo dei lavoratori») con la tradizione cattolica di quel Paese e con l’interventismo “anticomunista” della Chiesa (che ovviamente ci fu), come pure fecero gli stalinisti basati in Occidente, i quali vedevano solo una moltitudine operaia che invece di inginocchiarsi e prostrarsi dinanzi ai sacri simboli del regime “socialista”, si inginocchiavano e pregavano dinanzi alla croce  e ai poster di Papa Wojtyla: che scandalo! «Altro che lotta di classe: qui ritorniamo al Medioevo!». Allora quanti ne ho conosciuti di questi…, beh, lasciamo perdere, per carità di Dio!

È come voler dar conto delle cause reali delle due guerre imperialiste del XX secolo sulla scorta della propaganda politico-ideologica con cui tutte le Potenze in guerra martellarono i cervelli delle vittime (non si vive di soli bombardamenti aerei!): guerra difensiva, guerra fatta per tutelare i valori della Civiltà Occidentale, guerra di liberazione nazionale, guerra in risposta ai “proditori e vigliacchi” attacchi altrui (com’è noto è sempre il nemico che porta la responsabilità di aver iniziato la carneficina), guerra contro il “comunismo internazionale”, guerra per il “socialismo”, guerra contro l’imperialismo (degli altri!) e così via nel lungo elenco delle menzogne propagandistiche.

È come voler spiegare la nascita del Fascismo con il carattere spregiudicato e volitivo di Mussolini o con la frustrazione di una parte della piccola borghesia italiana declassata (cose che ovviamente nessuno si sogna di negare), e non, in primo luogo, con le conseguenze complessive (anche di natura psicologica) della Grande Guerra, con la crisi sociale in genere che allora si produsse, con la crisi dello Stato liberale, con l’insorgenza rivoluzionaria di una parte del proletariato italiano (quello che voleva «fare come in Russia», per intenderci), con il riflusso di questa stessa insorgenza e con la reazione della classe dominante del Paese, appoggiata anche da gran parte del mondo politico liberale. Mi scuso se ho dimenticato di citare qualche altra causa “strutturale” o “sovrastrutturale”.

È come voler spiegare il Nazismo con la pazzia di Hitler e con la frustrazione professionale/esistenziale dei suoi più stretti collaboratori (in circolazione c’è sempre un “pazzo” o un “disadattato” che può tornar utile!), e non, fondamentalmente, con la catastrofica crisi sociale tedesca, peraltro maturata in un particolare contesto internazionale segnato dalla Grande Crisi del ’29, e con il riflusso del movimento operaio tedesco, colpito anche dalla controrivoluzione stalinista che ne prosciugò le residue energie rivoluzionarie – questo naturalmente in analogia con il movimento operaio degli altri Paesi, non solo occidentali. È sufficiente vedere i film “maledetti” sfornati in Germania negli anni Venti per rendersi conto della folle tempesta sociale (anche «emozionale», per dirla con Wilhelm Reich) che da anni si andava preparando in quel Paese, letteralmente squassato da una crisi non solo economica ma anche di natura morale e identitaria.  «Già da tempo abbiamo detto che è “l’angoscia sociale” che costituisce l’essenza di ciò che chiamiamo la coscienza morale» (1).

Come ho detto altre volte, più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria (tricolore o nera che sia), in questa o quella tifoseria nazionalista o/e imperialista.

La rabbia e l’odio delle classi dominate e di chiunque desidera ribellarsi contro uno status quo avvertito come non più tollerabile si armano con le ideologie che si trovano sul terreno, non importa se di antica o di recente fabbricazione, e in assenza di un’autentica soggettività rivoluzionaria, di un’autentica coscienza di classe, il più delle volte hanno la meglio quelle ideologie e quei partiti che per un verso confermano il “deplorevole” stato d’animo delle masse, e che per altro verso  promettono di dare a esso una efficace risposta politica. Chi vuole “fare la rivoluzione”; chi è accecato dall’odio, dalla frustrazione, dall’invidia di classe, dalla mancanza di prospettive e da altre magagne materiali e “psicosociali”; chi si sente in guerra con l’intero mondo: questo “tipo sociale” il più delle volte non si rivolge a ideologie e a soggetti politici che predicano «pace e amore», che consigliano “agli ultimi” di porgere l’altra guancia, bensì a ideologie e a soggetti politici che gli indichino un nemico preciso (leggi anche capro espiatorio) su cui poter scaricare, hic et nunc, la sua rabbia, e che gli vendano una spiegazione, facile da comprendere, capace di razionalizzare la sua esistenza nell’irrazionale mondo che lo ospita. E questo manganello ideale e materiale, che di volta in volta può  vestire i panni della religione o indossare una maschera laica se non laicista, anche in conformità con la storia dei Paesi, non manca mai all’appuntamento con il disagio sociale. Come dimostrano Mussolini, Hitler e tutti i demagoghi e i populisti di “destra” e di “sinistra”.

In questo senso ho sostenuto che le ideologie (religione inclusa) non spiegano un bel niente, se le consideriamo come il punto di partenza dell’analisi, mentre esse acquistano un significato preciso e possono aiutarci alla composizione del puzzle solo alla luce di processi e di contraddizioni sociali reali, di carattere materiale e d’ordine “spirituale”, di natura economica come di natura psicologica. La stessa psicologia delle masse, per usare un noto termine, dev’essere considerata, sempre a mio avviso, alla stregua di un fondamentale fattore “strutturale” da premettere senz’altro alla considerazione delle ideologie che entrano puntualmente in scena in una crisi sociale.

Da qualche parte ho letto che la spiegazione “sociologica” non spiega la deviazione jihadista di molti giovani musulmani: «Come si spiega che anche molti giovani benestanti si sono convertiti all’Islam radicale? Lo stesso Ben Laden era un miliardario». Ma è questa riflessione che sconta un grave limite sociologico, che mostra una concezione economicista, estremamente volgare del disagio sociale che in qualche modo attraversa l’intera stratificazione classista della società. Come se gli individui ricchi o benestanti non potessero avvertire appunto il disagio sociale, la miseria (non solo “materiale”), la disumanità, l’ingiustizia e la violenza che trasudano da ogni singolo poro della Società-mondo! Come se agli individui di estrazione sociale borghese fosse preclusa in linea di principio la strada che porta a maturare una coscienza rivoluzionaria del mondo! (Precisazione per gli sciocchi – e per i tutori dell’ordine democratico: non sto alludendo ai Misericordiosi Martiri di Allah! Per una lettura “rivoluzionaria/antimperialista” dello Stato Islamico bisogna rivolgersi a Loretta Napoleoni, non al sottoscritto!). E come si spiega che proprio un intellettuale borghese, un tale Marx, ha posto le basi di quella che una volta si chiamava «coscienza di classe»? Per non parlare del suo grande amico e compagno di lotta, Engels, il quale si guadagnava da vivere nell’azienda del padre. Paradossi che si spiegano benissimo con la stessa condizione materiale delle classi subalterne, a partire dalla «degradante divisione del lavoro in lavoro intellettuale e lavoro manuale» (Marx). Sto associando, anche solo alla lontana, come semplice paradosso, la barba di Marx ed Engels a quella di Ben Laden e degli altri pretendenti al Califfato Mondiale? Non mi ritengo responsabile della cretineria altrui!

Scriveva Simone Weil all’amica Albertine nel 1935: «Per me, personalmente, ecco cosa ha voluto dire lavorare in fabbrica: ha voluto dire che tutte le ragioni esterne (una volta avevo creduto trattarsi di ragioni interiori) sulle quali si fondavano, per me, la coscienza della mia dignità e il rispetto di me stessa sono state radicalmente spezzate in due o tre settimane sotto i colpi di una costrizione brutale quotidiana. E non credere che ne sia conseguito in me un qualche moto di rivolta. No; anzi, al contrario, quel che meno mi aspettavo da me stessa: la docilità. Una docilità di rassegnata bestia da soma. Mi pareva d’essere nata per aspettare, per ricevere, per eseguire ordini – di non aver mai fatto altro che questo – di non dover mai far altro che questo. Non sono fiera di confessarlo. È quel genere di sofferenza di cui non parla nessun operaio; fa troppo male solo a pensarci». E generalizzando: «Un’oppressione evidentemente inesorabile ed invincibile non genera come reazione immediata la rivolta, bensì la sottomissione» (2). Certo, anche la sottomissione alle ideologie dominanti (comprese quelle a “sfondo” religioso) in una data epoca e in una data parte del mondo. Ma qui si divaga! Forse.

Il miliardario Ben Laden poteva anche credere, in tutta buona fede, di essere stato investito personalmente dal suo Dio dell’altissima missione di creare il Califfato sulla Terra; ciò non toglie il fatto che la sua ideologia fu sempre messa al servizio di precisi quanto prosaici interessi materiali, politici e geopolitici (durante gli anni Ottanta anche al servizio del Grande Satana a stelle e strisce) sintetizzabili con il concetto di Potere sociale – o sistemico. Per questo dopo la strage parigina del 13 novembre ho scritto che siamo tutti (a Nord come a Sud, a Ovest come a Est, nel mondo cristiano come in quello musulmano, piuttosto che nel mondo buddhista, induista, scintoista, taoista, ateista, laicista) ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore, i cui pilastri portanti naturalmente sono rappresentati dalle grandi, dalle medie e dalle piccole Potenze. La Francia e l’Italia sono parte integrante di questo sistema che ci espone a qualsiasi tipo di pericolo, compreso quello terroristico che ci viene dal «nemico». Tanto per essere chiari: il mio nemico è il sistema mondiale del terrore preso in blocco, concepito come una sola compatta – e altamente contraddittoria/conflittuale: è la capitalistica guerra di tutti contro tutti! – totalità disumana. Credere che la gente possa condividere il punto di vista qui espresso sarebbe da ingenui, soprattutto nel momento in cui la macchina propagandistica e terroristica («Chi non si schiera dalla parte degli Stati attaccati dal terrorismo islamico è un fiancheggiatore del Califfato Nero!») gira a pieno regime – è proprio il caso di dirlo!

Mi sono sempre attenuto scrupolosamente alla massima marxiana che consiglia di giudicare le azioni delle persone – e delle “masse” – non sulla base di ciò che esse credono di essere (comunisti, fascisti, martiri per conto di Dio o di Allah) e di fare (la «società giusta», What else?), ma sulla scorta di ciò che esse sono e fanno realmente. Ho fatto questo non per spirito di parte o in acritico ossequio a una fede (non sono neanche un marxista!), ma perché il principio funziona abbastanza, almeno per come la vedo io, si capisce.

20151129_isL’invito a non aver paura che le autorità ci ripetono continuamente mi ricorda tanto l’analogo invito gridato dagli ufficiali, e dai graduati in genere, alla truppa nel corso di un’operazione militare: «Non abbiate paura del nemico, cazzo! Non siate vigliacchi! Andate avanti, cazzo, non arretrate di un millimetro, siamo i più forti!». Per essere più convincente l’invito è spesso accompagnato da una bella pistola puntata alla schiena. Siamo in guerra, ormai è assodato, ma dobbiamo andare avanti. Anche perché se cambiamo il nostro stile di vita, oltre a darla vinta «al nemico», danneggiamo pure l’economia, che è già abbastanza depressa di suo. Io do il mio piccolo contributo alla causa recandomi prima in un grande centro commerciale e poi in un cinema. Domani forse vado allo stadio, martedì volerò in aereo. Avanti! avanti! E che Allah o chi per lui me la mandi buona! Intanto, per darmi coraggio, canticchio: «Sorridete, gli spari sopra sono per noi! Sorridete, gli spari sopra sono per noi!».

(1) S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’io, p. 106, Newton, 1991.
(2) S. Weil, La condizione operaia, pp. 95-126-127, SE, 1994.

A CHE PUNTO È LA GUERRA?

original-13683-1431346763-11L’ipotesi secondo cui la morale perde
di forza coercitiva con l’aumentare della
distanza si fonda sull’idea che è soprattutto
il vivo ricordo del delitto a tenere desta la
coscienza. Se il criminale si allontana a
sufficienza dal luogo del delitto, i sentimenti
morali non hanno più di che alimentarsi.
Ritter, Sventura lontana, 2004.

Dobbiamo chiederci che cosa era successo nelle
masse perché seguissero un partito i cui obiettivi
erano diametralmente opposti, sia dal punto di
vista oggettivo che soggettivo, agli interessi delle
masse lavoratrici.
Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, 1933.

Riprendo alcuni punti già toccati nel precedente post.

1. La seducente propaganda del Califfato. Partire dalla religione per comprendere la natura dell’attuale conflitto mondiale è il modo migliore per mettersi nelle condizioni di non capirci niente di essenziale. È oltremodo sciocco, ad esempio, credere che lo jihadismo che tanto attrae migliaia di disperati e di diseredati (e non faccio della stucchevole retorica sociologica: vedere, ad esempio, i tantissimi giovani proletari e sottoproletari tunisini che si arruolano sotto le nere bandiere del Califfato per guadagnarsi il pane quotidiano) si spiega con un’errata («aberrante», «irrazionale», «infondata») interpretazione del Corano, come sostengono soprattutto gli intellettuali occidentali devoti ai Sacri Lumi. In questa vicenda, come nelle altre analoghe, la religione è l’ultima cosa che occorre prendere in considerazione. Come ho già scritto, con la religione si può spiegare tutto, e il suo contrario. L’ideologia jihadista è messa al servizio di interessi che non hanno nulla a che fare né con Allah, né con le numerose e bellissime vergini che attendono i martiri che si immolano nel suo Misericordioso nome. Nel solo 2015 quegli interessi hanno causato la morte di circa 23.000 musulmani: si tratta, infatti, soprattutto di un conflitto interno al mondo musulmano. Sciiti contro sunniti? Ci risiamo! Anche qui non dobbiamo rimanere impigliati nella fenomenologia ideologica (o religiosa) della vicenda. Si tratta in primo luogo di una guerra, combattuta il più delle volte “per procura”, per stabilire nuovi rapporti di forza nel Vicino e Medio oriente (schematizzando: Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Kuwait, da una parte; Iran, Siria e Libano dall’altra), così come in Nord Africa. La confessione religiosa, che ha una forte presa sulle masse, è indubbiamente un potente collante politico-ideologico-culturale, e come tale non va affatto sottovalutata; ma non è certo per affermare una certa lettura del Sacro Testo che, ad esempio, arabi e iraniani si sparano addosso – magari solo per interposte milizie armate. L’antagonismo confessionale cela insomma un antagonismo molto profano, diciamo così, sintetizzabile nel concetto di Potere: economico, politico, ideologico, psicologico, in una sola e più adeguata parola: sociale.

In un articolo apparso sul Courrier des Balkans del 9 giugno 2015, Jean-Arnault Dérens commentava la intelligente propaganda dello Stato Islamico rivolta ai giovani che vivono nei Paesi balcanici. «L’appello alla Jihad risuona nel deserto della interminabile transizione balcanica», scriveva Dérens. Un video di una ventina di minuti perfettamente girato, curato nei minimi particolari e costruito come un  video-gioco fa la storia dei Balcani; giovani dall’aspetto per nulla fanatico invitano altri giovani a seguirli sulla strada jihadista, e con un tono pacato suggeriscono ai coetanei ancora impigliati nella demoniaca cultura occidentale ad uccidere senz’altro «i miscredenti» ovunque essi si trovino e con ogni mezzo a disposizione: dalla bomba al veleno. Fate saltare automobili, avvelenate il cibo: Allah stesso lo vuole! Nel video lo Stato islamico viene rappresentato come un mondo pulito, dignitoso, privo di stress, attento ai bambini, ripresi a giocare in aree attrezzate. «Si presenta una nuova visione del mondo molto più allettante del sogno occidentale, un sostituto alle promesse di prosperità scomparse nel deserto dell’interminabile transizione balcanica, e allora si chiede giustamente ai moderati come rispondere a questo messaggio, come rispondere a chi non ha denaro, a chi non ha lavoro, a chi ha come alternativa il trafficare in droga o truccare automobili, oppure fare carriera in un partito politico corrotto o guadagnare qualche euro andando ad agitare le bandiere in qualche meeting politico; se questa è la realtà quello che propone il califfato può essere per molti giovani qualcosa che assomiglia alla vera vita, a una vita normale. Vivere velocemente e morire giovani non è molto nuovo come programma di vita; ci sono quelli che credono di guadagnarsi il paradiso ma anche quelli che hanno la convinzione che almeno avranno vissuto intensamente, di essere morti per una causa, e morire per una causa è sicuramente meglio che morire per niente, per una giovinezza senza prospettive, per un lavoro in nero senza documenti in Italia o in Germania, oppure finire in un centro di detenzione in Francia. Eppure questa vita tranquilla e degna che propone lo Stato islamico e le motivazioni economiche non sono quelle più importanti: chi ha vent’anni non è forse pronto a fare qualcosa per realizzare i propri sogni? Non è disposto a battersi per un ideale? E quali ideali restano nel triste deserto dell’interminabile transizione dei Balcani? Gli Imam possono naturalmente denunciare questa cattiva interpretazione del Jihad, i Governi possono cercare di fermare e arrestare chi vuole partire per andare a combattere all’estero, oppure arrestare coloro che delusi tornano a casa. Le anime belle possono indignarsi per il programma medievale dello Stato islamico ma questo continuerà a espandersi e attirare persone fino a quando non ci saranno dei nuovi sogni e nuovi progetti in grado di essere proposti ai giovani dei Balcani e non solo nei Balcani».

Molti giovani, scriveva Reich nel 1933, «erano fortemente impressionati dalla fisionomia esterna del partito di Hitler, dal suo carattere militare, dalla dimostrazione di forza, ecc. Fra i mezzi simbolici di cui si serviva la propaganda il più appariscente era senz’altro il simbolo della bandiera» (Psicologia di massa del fascismo). Diciamocelo: anche la bandiera del Califfato è un eccellente brand.

2. La natura della “Terza guerra mondiale combattuta a pezzi”.«La capitale francese, vittima di un attentato disumano che non ha nessun legame con la religione, paga un prezzo altissimo alle politiche portate avanti dall’Eliseo in Medio Oriente e Africa». Così Limes sintetizza la posizione di padre Giulio Albanese, da sempre assai critico nei confronti della ”Grand France” di Hollande, la quale «non fa sconti a nessuno!». Scrive padre Albanese: «Simile violenza richiama alla mente la lamentazione di Carlo Levi: “La sola ragione della guerra è di non aver ragione (ché, dove è ragione, non vi è guerra); che le guerre vere ed efficaci sono soltanto le guerre ingiuste; e che le vittime innocenti sono le più utili e di odor soave al nutrimento degli dèi”». Ieri io, assai più prosaicamente, parlavo di «concime gettato sul terreno per fertilizzare gli interessi economici e geopolitici di Potenze grandi, medie e piccole». E concludevo: «La verità è che se noi non ci occupiamo dell’imperialismo, l’imperialismo si occupa di noi. Siamo tutti ostaggi e vittime del sistema mondiale del terrore».

A mio avviso questa guerra, come tutte le guerre che l’hanno preceduta e che probabilmente la seguiranno, ha una solidissima quanto disumana ragione: quella che, appunto, fa capo agli interessi sistemici delle classi dominanti, interessi che trovano una puntuale sintesi nella politica interna ed estera (una distinzione peraltro sempre più labile e “problematica”) degli Stati, piccoli e grandi, “tradizionali” e di nuovo conio, “simmetrici” e “asimmetrici”. Questi Stati rappresentano un micidiale strumento di difesa e di promozione di quegli interessi: tutto il resto è cinica propaganda politico-ideologica tesa a ingannare la gente, la quale purtroppo oggi si lascia ingannare con una facilità che fa spavento, almeno agli occhi di chi crede sia possibile, oltre che auspicabile, la fuoriuscita dell’umanità dalla maligna dimensione del dominio di classe, fonte di ogni sofferenza, di ogni ingiustizia, di ogni orrore.

3. Psicologia di massa del Dominio. Leggo sul Manifesto: «Una migliore intelligence può valere molto più che una compressione generalizzata di diritti e libertà. Oggi e nel futuro, una risposta al terrorismo la sinistra deve saperla dare, se non vuole essere travolta dalla richiesta popolare di sicurezza. Nessun appeasement, nessuna tolleranza, ma con punti fermi. Che sulle garanzie di libertà e diritti non si facciano passi indietro. Che i poteri di qualunque autorità non siano mai sottratti a limiti e controlli. Che in particolare il controllo di costituzionalità e quello giudiziario siano salvaguardati nell’ampiezza e nell’incisività. Che si perseguano politiche inclusive e dialogo interculturale con la comunità di fede islamica, per rafforzarne gli anticorpi contro il veleno del terrorismo». Troppo comodo: se vuoi il fine, devi accettare anche i mezzi! Oggi Arturo Diaconale scrive che l’Italia non ha bisogno di leggi speciali perché la legislazione d’emergenza nel Belpaese è già stata fatta negli anni Settanta, ai tempi della lotta contro il terrorismo condotta soprattutto, com’è noto, dai “comunisti” e dai democristiani. Almeno per quanto riguarda la repressione il nostro Paese è all’avanguardia. «Sbaglia chi si allarma temendo che l’esempio francese faccia scuola anche in Italia e da un momento all’altro possa spuntare qualcuno a Palazzo Chigi deciso ad imitare Hollande ed a chiedere una serie di leggi e poteri speciali per combattere il terrorismo islamico. Chi nutre questa preoccupazione compie un serio errore. Non perché nel nostro Paese non possa venire fuori un qualche imitatore del socialista autoritario francese. Ma perché per combattere il terrorismo degli islamisti da noi non c’è alcun bisogno di emanare poteri e leggi speciali. Da noi le leggi emergenziali ci sono già da lungo tempo. Questa legislazione emergenziale è in vigore dagli anni Settanta. E, sia pure provocando distorsioni nello Stato di diritto, ha ottenuto sicuramente una serie di buoni risultati» (L’Opinione). Ma si può sempre migliorare, caro Diaconale! La frecciata finale di Arturo: «Per una volta i cugini sono stati anticipati. Purtroppo nella corsa verso la deriva autoritaria!». Questi destri liberali, sempre a cianciare di «deriva autoritaria»! Basta con questo falso garantismo: lo Stato democratico va difeso, costi quel che costi! Per non parlare del nostro stile di vita… A proposito, se scrivo Abbasso la République (bourgeoise)! sono passibile di estradizione verso la Patria dei droits de l’homme? Meglio saperle prima certe cose!

Sembra che recenti sondaggi mostrano che la popolazione francese accetta di buon grado di perdere in termini di libertà personale per conquistare una maggiore sicurezza. Il Leviatano prima ci espone alla ritorsione del “nemico” (colui che gli contende una fetta di torta economica e geopolitica), e poi ci fa la grazia di proteggerci: che padre coscienzioso abbiamo avuto in sorte! E noi, come bravi bambini, abbozziamo e ringraziamo chi, dopo averci messo in pericolo per fare i suoi legittimi (è il capitalismo-imperialismo, bellezza!) interessi, poi fa di tutto per “difenderci” dal micidiale meccanismo di cui esso stesso è parte organica. Anzi, pretendiamo più protezione dallo Stato: più polizia, l’esercito a presidiare gli “obiettivi sensibili”, maggiori controlli all’ingresso degli immigrati, insomma più ordine. Che capolavoro! E che impotenza sociale! Io la chiamo, con scarsa originalità, psicologia di massa del Dominio. Come disse a suo tempo Wilhelm Reich, dobbiamo chiederci cosa è successo e cosa succede sempre di nuovo alle classi subalterne in particolare, e a tutti gli individui che vivono su questo pianeta in generale.

4. Chi sono i rivoluzionari? Ho letto da qualche parte, forse ancora sul citato “Quotidiano comunista”, che «La Marsigliese è l’inno dei rivoluzionari». In effetti, pare che lo stesso Lenin non resistette alla tentazione di cantarla insieme ai compagni di viaggio sul mitico treno piombato, mentre faceva ritorno in Russia per tentarvi il noto Grande Azzardo. Non bisogna dimenticare che allora in Russia la rivoluzione borghese era un evento auspicato e appoggiato anche dal proletariato d’avanguardia, per certi versi soprattutto da esso, visto la pavidità della debole borghesia russa, la quale giustamente temeva una radicalizzazione del processo rivoluzionario. Previsione azzeccata: dopo La Marsigliese giunse il momento dell’Internazionale! Chiudo la breve parentesi “storica” e mi chiedo: chi sono oggi i “rivoluzionari”? Forse Loretta Napoleoni, autrice dell’interessante saggio Lo Stato del terrore (Feltrinelli, 2014), dedicato all’economia del Califfato, conosce la risposta. Infatti, l’economista parla della guerra dell’Isis nei termini di una guerra patriottica di liberazione: «Chi nega questa definizione, e si trincera dietro la favola delle schegge di terroristi, o è in malafede o è un ignorante. L’Isis non è uno stato ideologico, ma il frutto di una lotta patriottica che grazie alla sua popolarità non fa fatica a trovare i soldi necessari. [Si tratta] di una guerra rivoluzionaria, antimperialista e nazionalista. Una guerra con la quale dovremo a lungo fare i conti» (www.ilmattino.it). Una guerra rivoluzionaria, antimperialista e nazionalista: quando ho letto per la prima volta questa “bizzarra” tesi, credevo di non aver capito bene quel che leggevo. Invece avevo capito benissimo. Ma chi sono io per…, lasciamo perdere! Oggi anch’io voglio affettare un atteggiamento polemico politically correct.

Per chi scrive, trattasi invece di una guerra ultrareazionaria (la posta in gioco, come si sa, è altissima: economica, geopolitica, ecc.) da tutte le parti in conflitto, e le cui vittime sono in primo luogo le classi subalterne ovunque esse si trovino a subire il dominio di classe: a Nord come a Sud, a Est come a Ovest, nel mondo cristiano come in quello musulmano, o buddista, induista, laicista, ateista. Ovunque e comunque! Poi, si sa, la guerra è “democratica”, e la bomba, più o meno intelligente, non fa alcuna distinzione di classe quando esplode in uno stadio piuttosto che in un bistrò, su un aereo di linea oppure sul tetto di una casa, di un ospedale, di una scuola. Come si vede, la paventata «favola delle schegge di terroristi» dalle mie parti non riscuote alcun credito. Quanto alla malafede e all’ignoranza non spetta certo a me dare giudizi su quel che scrivo. Accetto di buon grado, diciamo, il giudizio del lettore – purché sia a me favorevole, beninteso!

5. Carnefici e Mandarini. Scrivono Carlo Freccero e Daniela Strumia: «La guerra di oggi è una materia che non può essere razionalizzata perché affonda le sue radici nel caos. Ecco, secondo noi, il nocciolo della cosa è che questo caos ha ben poco di casuale. Non è soltanto la somma di una serie di errori che ci sono sfuggiti di mano. È una ben precisa strategia bellica. Pensiamo ai “teocon” e alle loro pretese di instaurare un secolo americano basandosi sulla superiorità bellica dell’America. Questa strategia, in Iraq, è risultata fallimentare, come già a suo tempo l’invasione americana del Vietnam. Gli Usa hanno concepito allora una nuova strategia più economica: la strategia del caos. Disseminare i territori da conquistare di focolai di guerra e di resistenza. Armare la resistenza locale, fare la guerra con le vite degli altri. Una specie di strategia della tensione a livello mondiale. Da allora il mondo islamico si è rivelato nella sua profonda antidemocraticità. Si trattava di promuovere in modo più o meno occulto rivoluzioni locali in nome dei diritti umani: la Libia, le primavere arabe, la resistenza in Siria contro il crudele dittatore Assad. E poco importa se tutto questo veniva portato avanti con la collaborazione di alleati come l’Arabia Saudita o la Turchia che non eccellono sicuramente nella salvaguardia dei diritti umani. […] Viene sempre in mente una commedia che si intitola Un mandarino per Teo. Se dall’altra parte del pianeta, poteste decretare la morte di un mandarino, per ereditarne l’immensa eredità, voi cosa fareste? Tutti questi paesi governati antidemocraticamente hanno un elemento in comune: la presenza di risorse energetiche, gas, petrolio, altre materie prime. È normale schiacciare il bottone che ci permette di annetterci tutte queste risorse. Soprattutto se questa scelta avviene in nome di nobili valori. Tutto questo cessa di funzionare se il mandarino siamo noi. Su questo argomento circolano sul Net spiegazioni opposte. Da un lato la famosa affermazione di Hillary Clinton: “l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano”. Dall’altro, voci più maliziose insinuano, semplicemente, che sia giunta la nostra ora di sperimentare lo status di colonie statunitensi. In ogni caso vi invitiamo a riflettere. Se si applica la strategia del caos, come possiamo poi pretendere che questo caos non ci travolga?». (Il Manifesto). La riflessione qui proposta è interessante, non c’è che dire; peccato che sia anche un tantino limitata, diciamo così. Infatti, si ha l’impressione che Potenze sistemiche come la Cina e la Russia non abbiano avuto, e non hanno alcun ruolo nella contesa interimperialistica (concetto probabilmente sconosciuto agli autori dell’articolo), e che l’Europa non sia che una colonia degli Stati Uniti, tesi che non reggeva a un’analisi geopolitica seria già ai vecchi e “cari” (non pochi sinistri ne hanno nostalgia!) tempi del confronto bipolare USA-URSS. Nel suo piccolo, il movimentismo politico-militare francese in Africa (vedi l’attacco in Libia nel 2011) e in Medio Oriente non ha nulla a che fare con le evocate materie prime? «Da venerdì mattina l’aviazione francese sta martellando jihadisti e altri ribelli del Nord in avanzata verso la pur lontana capitale Bamako. In ballo ci sono il rango transalpino e l’accesso alle risorse strategiche»: questo, ad esempio, scriveva Lucio Caracciolo,  su La Repubblica del 13 gennaio 2013.

A mio modo di vedere l’attuale caos non è il risultato di una strategia pianificata a tavolino dagli Stati Uniti, i quali devono fronteggiare una reale caduta di potenza materiale e un reale indebolimento geopolitico (senza contare che la fiducia di Washington verso gli alleati non è granitica come prima), ma il prodotto altamente contraddittorio e conflittuale di tendenze sociali e geopolitiche già presenti nel vecchio mondo bipolare e che la fine della cosiddetta Guerra Fredda ha accelerato, mentre ne produceva di nuove.

Naturalmente questo discorso deve risultare incomprensibile a chi è abituato a ragionare dal punto di vista degli Stati, non importa se piccoli o grandi, se appartenenti a questa piuttosto che a quella “sfera di influenza”, se filoamericani o antiamericani, se filorussi o antirussi, ecc. Il punto di vista di classe mostra una geopolitica affatto diversa da come la immaginano gli intellettuali progressisti che fanno dell’antiamericanismo la loro bussola e il massimo di “radicalismo” concepibile e praticabile su questa Terra.

Vediamo l’atra faccia della medaglia: «Il mondo paga con il sangue le conseguenze della ritirata scellerata dell’occidente dai teatri di guerra. […] Oggi è chiaro che è il non intervento nei teatri di guerra che ha generato instabilità creando spesso le condizioni per la proliferazione del terrore. E si capisce bene dunque perché il Pacifista Collettivo preferisca fischiettare e fare un passo di lato per non ammettere che una forza politica che rinuncia alla difesa è una forza politica che rinuncia a difendere i suoi cittadini e dunque, cari Corbyn e Grillo, è una forza politica che, essendo in mutande, molto semplicemente è incapace di governare» (C. Cerasa, Il Foglio). Lascio queste beghe interborghesi ai difensori del vigente ordine sociale, non importa se “progressisti” o “conservatori”, liberali o statalisti, pacifisti o interventisti. A proposito: dov’è finito il «Pacifista collettivo?».

DIEGO FUSARO, VALENTINA NAPPI E L’ACEFALO PRINCIPIO DEL GODIMENTO

valentinaChe filosofi siete se vi vergognate della
vostra vita sessuale? Così cercate la verità?
(Valentina Nappi).

La cosa stessa brama l’intima penetrazione
del pensiero non pago dell’apparenza.
Confessare la verità, magari fra risa, pianti
e grida di dolore e di gioia, le dà il massimo
dei godimenti possibili in questo ingannevole mondo.
«Presto, presto, mettetemi a nudo!», grida la cosa.
(Sebastiano Isaia).

Nella sua epica polemica con Valentina Nappi (questa meravigliosa «merce seducente», questa «pura macchina di piacere senza dignità» verso la quale chi scrive deve confessare un’indicibile attrazione… intellettuale), il filosofo di successo Diego Fusaro inveisce contro gli «utili idioti al servizio di sua Maestà Le Capital». Non da oggi ritengo che lo stesso pensatore che passa (vai a capire poi il perché) come un brillante rinnovatore del “marxismo novecentesco” vada senz’altro rubricato a sua volta come utile idiota, nonché «vecchio anzitempo», come ho scritto in passato su qualche post dedicato alle sue posizioni politiche ultrareazionarie: fasciostaliniste, sovraniste e servili nei confronti degli Stati che entrano in rotta di collisione con l’imperialismo americano – e solo per questo ritenuti degni di ammirazione: vedi la Siria del macellaio e perito chimico Assad.

La risposta “definitiva” di Fusaro (La signorina Nappi e le orge del capitale) alla scollacciatissima «signorina Nappi» me ne dà ampia conferma.

La sua difesa dell’alta cultura borghese («Goethe e Mozart, Hegel e lo stesso Marx»), ultima trincea dalla quale esperire feconde pratiche catecontiche in attesa di tempi migliori, non appare infatti credibile, almeno ai miei occhi; essa si mostra in tutta la sua miserabile pregnanza soprattutto quando Fusaro afferma di voler frenare la «marcia trionfale del capitale», quando si tratta invece di superare il Capitalismo tout court; di voler conservare quel simulacro di sovranità nazionale che barcolla sempre più paurosamente sotto i colpi del rapporto sociale capitalistico (la cui dimensione geosociale “naturale” è il mondo, come aveva già capito il pornosofo di Treviri), quando si tratta per le classi subalterne di tutto il pianeta di riconoscersi come soggetti capaci di rivoluzione sociale: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!»; di voler uscire dall’euro (e ripristinare la liretta?), quando si tratta di uscire fuori dalla maligna (e non c’è esorcista che tenga, caro Francesco*) dimensione capitalistica.

Una dimensione che fa di ogni cosa, a cominciare dai corpi degli individui (non si parla forse di “capitale umano”?), un’occasione di profitto, una risorsa economica da sfruttare al 100 per cento, e anche oltre, come accade appunto per la bio-merce chiamata uomo/donna, una miniera praticamente inesauribile di occasioni di profitto.

Scriveva Ettore Gotti Tedeschi qualche anno fa: «Nel riflettere su cause, conseguenze e soluzioni di questa crisi economica, ritengo che non sia il capitalismo a dover avere i sensi di colpa bensì piuttosto il moralismo perduto. Ciò perché l’origine vera della crisi è di ordine morale. […] Essa risiede nel pensiero nichilista che ha confuso le ultime generazioni dissacrando l’uomo» (Il virus nichilista che contagia il capitalismo, Il Sole 24 ore, 13 febbraio 2010). Ma nichilista è innanzitutto il Capitalismo! Il Capitalismo tout court, senza altre inutili e ambigue definizioni che sortiscono l’esclusivo effetto di sviare l’attenzione dalla radicalità del male: il vigente rapporto sociale di dominio e sfruttamento. Hic Rhodus, hic salta! Tutto il resto è insulso moralismo, da Papa Francesco in giù. Ma sto divagando! O no?

imagesPLB5XUP7Lo ripeto, il pulpito “anticapitalista” di Fusaro non mi sembra quello dal quale poter scagliare frecce critiche né contro gli apologeti della «Destra del Denaro» né, tanto meno, contro la «”Sinistra del Costume” e i suoi utili idioti al servizio del re di Prussia che starnazzano dicendo che la famiglia è una forma borghese superata e che la precarietà è buona e giusta».

Corre un’abissale distanza fra chi (vedi ad esempio Theodor Adorno e Max Horkheimer) praticò la resistenza esistenziale (politica, concettuale, psicologica, umana) e persino il katechon ai tempi dello stalinismo e dell’americanismo trionfanti, e chi oggi affetta pose da intellettuale che la sa lunghissima intorno al discorso del Capitale (esattamente come Massimo Recalcati**), mentre trasuda reazione politico-ideologica da tutti i pori. La nostalgia di Fusaro del «capitalismo borghese», contrapposto al «capitalismo postborghese e finanziario» dei nostri pornografici giorni come solo i grandi pensatori dialettici possono fare, odora di muffa, anzi di putrefazione.

Sulle riflessioni politiche e filosofiche della «signorina Nappi» mi eserciterò un’altra volta, forse. Magari quando sarò riuscito a mettere a freno il mio pregiudizio positivo nei suoi confronti. Maledetto «acefalo principio del godimento»!

na1* «Papa Francesco, che alle tentazioni del demonio dedica spesso riferimenti ampi e espliciti nella sua predicazione, ha mandato un messaggio al congresso, in cui invita gli esorcisti, “in comunione con i propri vescovi”, a manifestare “l’amore e l’accoglienza della Chiesa verso quanti soffrono a causa dell’opera del maligno» (Il giornale, 29 ottobre 2014). L’espansionismo politico-ideologico della Chiesa progressista di Bergoglio non conosce tregua e penetra, come il coltello nel burro, in una società in crisi di valori (compresi quelli di scambio). Il 23 ottobre il Santissimo ha bacchettato il «populismo penale» dei manettari, ma anche scomunicato i corrotti che tradiscono il bene comune; il 27 ha poi proclamato la conciliabilità tra punto di vista creazionista e punto di vista evoluzionista, provocando il sarcasmo di Piergiorgio Odifreddi, il Papa dell’Ateismo che denuncia il goffo «e patetico tentativo da parte dei papi e della Chiesa di continuare ad arrampicarsi sugli specchi per conciliare Dio e la scienza». Per la verità si tratterebbe di riconciliare uomo in quanto uomo e società, ma questo è un altro discorso. Infine, Francesco ha ribadito di essere dalla parte dei poveri e delle loro lotte. Altro che “comunismo”!

** Scrivevo il 6 giugno di quest’anno (Sognando Berlinguer. Massimo Recalcati e i «falsi miti edonistici del capitalismo:

«”Da una parte c’era Deleuze che diceva che nel capitalismo c’è qualcosa di cui dobbiamo appropriarci: la politica dei flussi, la deterritorializzazione, i concatenamenti molteplici e infiniti del desiderio [ahi!]; dall’altra parte c’era Berlinguer che mostrava, direi oggi a ragione,  il rischio immanente a questo discorso, cioè la sua collusione fatale con la dimensione più dissipativa e irrazionale dell’iper edonismo del discorso del capitalista. È un fatto ai miei occhi chiaro: Berlinguer ha storicamente vinto su Deleuze. La sua questione morale è oggi ancora una alternativa etica al discorso del capitalista, mentre le macchine desideranti di Deleuze sono state fagocitate dal discorso del capitalista, hanno dato luogo a quella “mutazione antropologica”, per usare un’espressione di Pasolini, che ha trasformato l’uomo in una macchina impersonale di godimento” (M. Recalcati, Patria senza padri, p. 47, Minimun fax, 2013). Ora, non voglio diffondermi in un confronto tra Deleuze e Berlinguer, anche perché non sarei in grado di svolgerlo in modo appropriato; qui mi permetto solo di affermare, con la stessa sicumera di Recalcati, che a un Berlinguer anticapitalista, o quantomeno critico del “discorso del capitalista”, può credere giusto un indigente in fatto di coscienza critica. E purtroppo questo “tipo umano” abbonda. Eccome se abbonda!».
Su questi temi leggi La “rimozione” di Massimo Recalcati.

Leggi anche:

Nessuno tocchi Socrate! Pardon, Fusaro…
Le cattive analogie storiche dei post-stalinisti
Il Marx dei fasciostalinisti
Essere senza coscienza – di classe
Il katéchon “comunista” di Diego Fusaro
La resa incondizionata degli amici del macellaio di Damasco

SBADIGLIARE, VOMITARE O MOZZARE TESTE?

isib1One thing I can tell you is you’ve got to be free (Come Together, Beatles).

Secondo il filosofo, e opinionista assai popolare in Inghilterra, Roger Scruton «L’assassino di James Foley è il prodotto del multiculturalismo inglese. Tutto quello che il multiculturalismo ha ottenuto è distruggere una cultura pubblica condivisa, e al suo posto ci ha messo un vuoto che fa sbadigliare». E qui, vittima del noto contagio, devo un attimo interrompere la citazione, per sbadigliare appunto. Fatto! Continuo: «Il più grande bisogno umano non è la libertà, come pensano i liberal, ma l’obbedienza, come hanno capito i musulmani» (Sgozzati dal multiculturalismo, Il foglio, 26 agosto 2014). Una volta Kant formulò – l’apparente – paradosso che segue: «Ragionate quanto volete e su ciò che volete, ma ubbidite!». È su questo “paradosso” che intendo dire qualcosa.

Per un verso Scruton affonda il coltello nella burrosa, e sempre più screditata (nonché stucchevole), ideologia multiculturalista, la quale ama celare i reali contrasti e antagonismi sociali (d’ogni tipo: di classe, di genere, di razza, di religione) dietro una tolleranza, anch’essa ridotta a mera finzione ideologica*, che sempre più mostra la sua vera natura di strumento al servizio dello status quo sociale. Per altro verso egli, suo malgrado, tocca un nodo fondamentale della condizione disumana nell’epoca del dominio totalitario e planetario degli interessi economici (capitalistici): la reale mancanza di libertà di tutti gli individui. Oggi la «libera scelta» non solo è un inganno, un’ipocrisia (soprattutto quando si presenta in guisa elettoralistica), ma è anche un’odiosa arma di oppressione psicologica di massa: «Nessuno ti ha obbligato a scegliere quel lavoro, quella merce, quella persona, quel partito. Guarda il ben di Dio che ti offre il mercato (delle merci, della politica, delle idee, delle religioni, delle amicizie, dei desideri)! Oggi la società ti offre perfino la libertà di scegliere il sesso che meglio aderisce alla tua più intima personalità. Anziché lamentarti, impara dunque a usare meglio il tuo libero arbitrio».

Francamente non mi stupisco quando, dinanzi a tutto questo ben di Dio liberale, a tutta questa abbondanza di “libero arbitrio”, qualcuno decide di staccare la spina della “libera scelta”: «Basta, mi sono stancato di scegliere con la mia testa! Ditemi chi sono, e cosa devo pensare, fare, dire». Com’è noto, il disagio sociale, da solo, non genera nella mente del disagiato le giuste domande. Non parliamo poi delle giuste risposte! D’altra parte, in epoca di crisi dei valori tradizionali e di superamento delle vecchie contrapposizioni ideologiche (“comunismo” versus “liberismo”), darsi alla Jihad per molti giovani desiderosi di “fare qualcosa” può essere un eccellente modo per superare la noia – e forse anche La nausea: «Penso che siamo tutti qui a bere e a mangiare per conservare la nostra preziosa esistenza, e che non c’è niente, niente, nessuna ragione d’esistere» (Jean-Paul Sartre).

«È meglio sbadigliare, vomitare o tagliare qualche infedele testa?». Sono tempi amletici questi, non c’è il minimo dubbio.

A proposito: nella mia pessimistica (ma altri potrebbero dire fin troppo realistica, non spetta a me dirlo) concezione della vigente realtà sociale l’intera umanità (a cominciare da chi scrive ed escluso chi legge, s’intende) va rubricata come disagiata, a diverse gradazioni.

La banalità del Male

La banalità del Male

«Già da tempo abbiamo detto che è “l’angoscia sociale” che costituisce l’essenza di ciò che chiamiamo la coscienza morale» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’io, 1921, Newton). La coscienza morale del disagiato che soffre senza comprendere la radice del male che lo tormenta non ha una natura qualitativamente diversa nell’individuo “normale” (mediamente isterico, paranoico, frustrato e quant’altro) e in quello “patologico”, i cui parametri del disagio non sono più allineati alla soglia della normalità. Ciò che discrimina fra “normalità” e “patologia” è più una questione quantitativa, se così posso esprimermi, che qualitativa. È nei momenti di acuta crisi sociale, quando è la società nel suo complesso che sembra entrare in un patologico stato di convulsione, che questa tesi trova una drammatica conferma. Detto per inciso, la soglia della normalità non smette di innalzarsi, e molti riescono a “rimanere nei parametri” solo con l’ausilio della chimica farmaceutica.

Scriveva Slavoj Žižek nel 2007: «Nel profondo di se stessi, anche i terroristi fondamentalisti mancano di autentica convinzione: le loro esplosioni di violenza lo dimostrano. La fede di un musulmano deve essere ben fragile se si sente minacciata da una stupida caricatura apparsa su un quotidiano danese a scarsa diffusione. Il terrore islamico fondamentalista non si basa sulla convinzione dei terroristi della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare la propria identità culturale-religiosa dall’assalto della civiltà consumistica globale. Per i fondamentalisti, il problema non è il fatto che li consideriamo inferiori a noi, ma piuttosto che loro stessi si considerano segretamente inferiori. Ecco perché le sussiegose rassicurazioni politicamente corrette sul fatto che noi non proviamo alcun senso di superiorità nei loro confronti non fanno altro che renderli più furibondi e alimentare il loro risentimento. Il problema non è dato dalla differenza culturale (dal loro tentativo di conservare la propria identità) ma, all’esatto opposto, dal fatto che i fondamentalisti sono già come noi; dal fatto che, segretamente, hanno già interiorizzato i nostri modelli e criteri. Paradossalmente, quello che manca davvero ai fondamentalisti è una dose di autentica convinzione “razziale” della propria superiorità» (La violenza invisibile, Rizzoli). La cieca violenza come esibizione di una forza muscolare chiamata a celare una radicale debolezza esistenziale. Più ci sentiamo «segretamente» attratti da qualcosa che dobbiamo riprovare, osteggiare, odiare, e maggiori investimenti psichici e affettivi facciamo in atteggiamenti di riprovazione, ostilità e odio nei confronti di ciò che «segretamente» agogniamo. L’autoflagellazione del pio credente nel Signore Misericordioso la dice lunga sulle demoniache tentazioni che lo fanno schiumare di desiderio malato – il desiderio si ammala tutte le volte che la coscienza ne dichiara l’inesistenza: «Non è vero che amo la pornografia! Non è vero che i bambini mi attraggono! Non è vero che mi piace la musica rock! Non è vero che…».

La crisi della famiglia tradizionale, che una volta offriva agli individui almeno la parvenza di un rifugio di ultima istanza che li metteva al riparo dai rigori dell’ambiente esterno, rende ancora più evidente la solitudine dell’individuo atomizzato nel seno della società di massa assoggettata sempre più capillarmente e brutalmente alla bronzea legge dell’utilità economica.

Il bisogno di vedere un padrone in carne e ossa, un nodoso bastone oggettivo che ci minaccia dall’esterno, dandoci almeno la possibilità di razionalizzare un disagio altrimenti inspiegabile, esprime la realtà di una Potenza sociale impersonale che non riusciamo più a riconoscere per troppa prossimità. La presenza del Dominio nella nostra vita quotidiana ci è così familiare, che non riusciamo più ad apprezzarla per distinzione: «Dove finisce il Moloch, dove inizio io?». Difficile rispondere. Probabilmente impossibile. Difatti, noi stessi siamo fatti della stessa sostanza del mostro (della Potenza sociale), ed è per questo che la vecchia distinzione fra un “dentro” e un “fuori”, che poteva creare in un Max Stirner l’ingenua illusione di una fuga individuale dall’oppressiva universalità sociale, oggi non è più nemmeno concepibile, se non come fuga estrema, come suicidio. O come – illusorio – ritorno a civiltà e luoghi meno compromessi con il Capitalismo occidentale, come credono molti giovani immigrati di seconda e terza generazione, delusi da ciò che offre il convento del Primo Mondo.

Il «vuoto che fa sbadigliare» di cui parla Scruton è probabilmente una delle tante manifestazioni del pieno del Dominio.

art-torino-584661Come ho detto altre volte, più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali, e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionalista o/e imperialista.

Nella misura in cui, per mutuare abbastanza indegnamente il Ragno di Stoccarda, è il tutto che dà verità, struttura e funzione a ogni particolare condizione e relazione, non può darsi reale libertà nella società che vede gli individui di tutte le classi sociali venir assoggettati da un Moloch che essi non controllano e dal quale sono invece controllati, incalzati, minacciati. È questa radicale mancanza di libertà che fa degli individui degli eterni bambini alla ricerca di un’Autorità che dia loro un indirizzo preciso, una guida, un senso al complesso e il più delle volte incomprensibile (irrazionale) mondo. Come Freud capì bene, è qui che si radica quella mentalità passivamente gregaria che espone gli individui alle avventure politiche più disastrose e violente. Ma queste eccezionali eventi illuminano a giorno l’essenza della regola. Solo che per vederla occorrono occhi in grado di farlo. Come sanno il poeta e il filosofo, non basta guardare per vedere, soprattutto in tempi di miopia di massa.

E dove manca la libertà, nella sua accezione non puramente formale e ideologica (per intenderci, non la “libertà” che riempie i libri dei giuristi, dei politici e dei filosofi che sorvolano sulla struttura classista della società, o comunque non la pongono al centro della loro riflessione intorno alla “libertà”); dove manca la libertà, dicevo, deve necessariamente latitare anche l’umanità, che non sarebbe nemmeno concepibile senza la prima. «Finchè un uomo è nella miseria per la cattiva organizzazione sociale, l’identificazione con questo ordine in nome dell’umanità è un controsenso. L’adattamento pratico può essere inevitabile per l’individuo, ma l’occultamento dell’opposizione tra il concetto di uomo e la realtà capitalistica uccide il pensiero di ogni verità» (M. Horkheimer, Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, 1932, Savelli). Qui il concetto di miseria deve essere declinato in termini squisitamente sociali (esistenziali, direi), e non riduttivamente materiali (economici).

La fuoriuscita dell’uomo dalla minorità di cui egli stesso è l’artefice: in questo, secondo Kant, si compendia il significato ultimo dell’illuminismo. Il progetto illuminista non poteva non fallire, giacché esso affidava l’emancipazione universale degli individui a una rivoluzione antropologica (culturale, morale, etica) che lasciava intatta quella struttura classista che li sequestrava (e continua a sequestrarli) nella dimensione disumana del lavoro sfruttato, reificato e alienante. Dove c’è la divisione classista della società, con tutto ciò che tale divisione presuppone e pone sempre di nuovo (la prassi capitalistica riproduce ogni giorno la marxiana «accumulazione originaria»), non può esserci né libertà né umanità. Nell’epoca dello sfruttamento scientificamente progettato e praticato della natura e dell’individuo atomizzato ridotto a mera risorsa economica (a «capitale umano») il non-ancora-uomo è ancora (direi sempre più)in uno stato di tragica minorità. Ma, al contrario di quando accadeva nella tragedia greca, qui il Deus ex machina non siede nemmeno fra il pubblico.

«Il più grande bisogno» di cui parla Scruton non è «umano» ma disumano.

Ideologia

Ideologia

* Gli stessi rapporti sociali capitalistici, nella misura in cui si danno attraverso la mediazione del mercato (del lavoro, delle merci, del denaro, ecc.), acquisiscono una solida struttura ideologica. Infatti, la prassi contrattualistica del mercato mistifica oggettivamente un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento.

SOGNANDO BERLINGUER. Massimo Recalcati e i «falsi miti edonistici del capitalismo».

214-620x322A pagina 48 del saggio Patria senza padri (Minimun fax, 2013), Massimo Recalcati ci regala una confessione che, credo, spiega molto delle sue inclinazioni politiche e psicoanalitiche: «Sognavo spesso Berlinguer. Lo sognavo proprio negli anni infuocati della mia giovane militanza politica». Recalcati ci informa che alla fine degli anni Settanta questo sogno era condiviso, con un certo imbarazzo, da molti altri suoi compagni di militanza politica (area Lotta Continua, con simpatie per il Partito Radicale e per il mondo “libertario” che stava “a sinistra” del PCI e “a destra” dell’Autonomia Operaia), ma che solo pochi lo presero sul serio, e fra questi bisogna ovviamente annoverare lui.

Per il noto psicoanalista, «massimo esponente italiano della scuola di Lacan», Enrico Berlinguer rappresentò una sorta di principio d’ordine che riuscì a salvarlo dalla folle deriva edipica che allora trascinò un’intera generazione di giovani contestatori nel buco nero del terrorismo: «I terroristi assomigliano al mostro che volevano combattere. Il terrorismo è stato la rivolta dei figli contro i padri» (p. 47). Questa tesi potrei pure sottoscriverla, anzi la sottoscrivo senz’altro, una volta però che sia stata fatta chiarezza circa il punto di vista da cui la cosa mi appare plausibile: «tutta la partita edipica si gioca all’interno della famiglia del comunismo». Non c’è dubbio.

Chiarito, beninteso, che ciò che Recalcati definisce «famiglia del comunismo» per me non ha nulla a che fare con il comunismo di Marx, da me sempre concepito come movimento di lotta delle classi dominate teso a conquistare per tutti gli individui il Regno dell’Umanità. Più che di «famiglia del comunismo» bisogna piuttosto parlare di «famiglia dello stalinismo» (maoisti compresi), e comunque è così che iniziai a pensarla proprio negli stessi anni in cui il giovane Massimo sognava l’Onesto Enrico, da me considerato, come egli scrive con massima riprovazione, «il cane da guardia del sistema capitalista» (p. 46). E la penso ancora così, nonostante l’eccellente psicoanalista mi metta in guardia intorno al fatto che «l’odio edipico offusca, rende ciechi, ammorba». La cosa, come si dice, non mi tange neanche un poco, giacché non solo non ho mai fatto parte della «famiglia del comunismo», ma che anzi l’ho sempre combattuta, ritenendola il miglior strumento di conservazione sociale proprio perché essa ha fatto passare fra i dominati l’idea che il “comunismo realizzato” (in realtà un Capitalismo a conduzione statale) è ancora più miserabile e oppressivo del capitalismo.

Mentre il nostro amico folgorato sulla via del Padre sognava l’austero di Sassari, io, evidentemente già allora irretito nella «dimensione più dissipativa e irrazionale dell’iper edonismo del discorso del capitalista», sognavo l’avvinazzato di Treviri (e altri freudiani soggetti privi di barba che stuzzicavano il mio desiderio ingovernabile): signori, i gusti non si discutono…

99572_sfintii_mucenici_episcopi_din_chersonChi è invece Berlinguer per Recalcati? È presto detto: «Nel ’77 il padre non era tanto il padre-padrone, il padre-borghese, ma era diventato il PCI, era diventato il segretario del Partito Comunista e la politica di austerità e di sacrificio, di rinuncia pulsionale, che Berlinguer prospettava come uscita dai falsi miti edonistici del capitalismo [sic!]. Potremmo leggere anche il caso Moro con queste lenti. In fondo Moro ha provato a incarnare una figura mite di paternità». Trattengo una crassa, nonché delirante, risata e sulla berlingueriana politica di austerità e di sacrificio rimando a Berlinguer, il tristo profeta dei sacrifici. Sul binomio “paterno” Berlinguer-Moro rimando invece a La “rimozione” di Massimo Recalcati.

Ma continuiamo a seguire il ragionamento di Recalcati: «Da una parte c’era Deleuze che diceva che nel capitalismo c’è qualcosa di cui dobbiamo appropriarci: la politica dei flussi, la deterritorializzazione, i concatenamenti molteplici e infiniti del desiderio [ahi!]; dall’altra parte c’era Berlinguer che mostrava, direi oggi a ragione,  il rischio immanente a questo discorso, cioè la sua collusione fatale con la dimensione più dissipativa e irrazionale dell’iper edonismo del discorso del capitalista. È un fatto ai miei occhi chiaro: Berlinguer ha storicamente vinto su Deleuze. La sua questione morale è oggi ancora una alternativa etica al discorso del capitalista, mentre le macchine desideranti di Deleuze sono state fagocitate dal discorso del capitalista, hanno dato luogo a quella “mutazione antropologica”, per usare un’espressione di Pasolini, che ha trasformato l’uomo in una macchina impersonale di godimento» (p.47).

Ora, non voglio diffondermi in un confronto tra Deleuze e Berlinguer, anche perché non sarei in grado di svolgerlo in modo appropriato; qui mi permetto solo di affermare, con la stessa sicumera di Recalcati, che a un Berlinguer anticapitalista, o quantomeno critico del «discorso del capitalista», può credere giusto un indigente in fatto di coscienza critica. E purtroppo questo “tipo umano” abbonda. Eccome se abbonda!

Fino a quale segno l’ideologia dello psicoanalista sia apologetica, lo si ricava anche da quanto segue: mentre negli anni Settanta il «rifiuto del lavoro» poneva il desiderio in alternativa al lavoro, si trattava invece, sempre secondo il nostro berlingueriano, di dare un senso al desiderio attraverso il lavoro, concepito anche simbolicamente ed esistenzialisticamente (secondo la concezione esposta da Sartre ne L’esistenzialismo è un umanesimo) come sforzo e responsabilità. La natura capitalistica, e dunque necessariamente disumana, del lavoro sfugge completamente alla riflessione di Recalcati, nonostante tutto il suo gran parlare di «discorso del capitalista»*. Di qui, il suo viscerale amore per la Costituzione più bella della nostra galassia, la quale nel suo primo articolo santifica il lavoro salariato come fondamento della società capitalistica (o «Repubblica democratica» che dir si voglia); ma anche il suo altrettanto invincibile disgusto per «l’estremismo politico di Berlusconi» («L’oscenità berlusconiana manifesta il disprezzo per l’ordine simbolico e le sue leggi»), il quale considera la forma partito (incarnazione politica collettiva della virtuosa funzione paterna), «come, del resto, la Costituzione stessa, un residuo del passato dal quale è necessario liberarsi» (p. 49).

La sola considerazione intelligente – ancorché meritevole di approfondimento critico – del saggio in questione è, sempre all’avviso di chi scrive, quella che invita a «pensare la democrazia non in alternativa al totalitarismo ma come la sua faccia inconscia» (p. 61). Ma mentre Recalcati si riferisce soprattutto al «totalitarismo del godimento» (incarnato, c’è bisogno di dirlo?, dall’ex Sultano di Arcore), io invito a riflettere piuttosto sul totalitarismo sociale, ossia sulla disumana e sempre crescente potenza espansiva del rapporto sociale capitalistico, quella potenza che tende a trasformare ogni territorio esistenziale (a partire dal corpo degli individui) in una funzione economicamente sensibile. È per questo che se vogliamo liberarci davvero dal maligno «discorso del capitalista» dobbiamo archiviare il dominio del capitale, il cui rapporto sociale, oggi di dimensione planetaria, è la vera grammatica che consente a tutti noi di relazionarci (nell’accezione più vasta del concetto) col mondo – a partire da quello che ci è più vicino: noi stessi.

PIC78O* Berlusconi e il discorso del capitalista. Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare le riflessioni di Lidia Ravera e Massimo Recalcati sollecitate da Lilli Gruber, la “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, e mi si è rafforzata nella testolina un’idea che coltivo da sempre: la critica della società disumana che non è in grado di cogliere le radici storiche e sociali del grave disagio esistenziale che vive l’individuo dei nostri pessimi tempi, facilmente smotta verso una posizione reazionaria “a 360 gradi”: sul piano politico, su quello etico, filosofico e quant’altro. È un fatto che con oltre un decennio di ritardo, i due progressisti sono approdati sulle posizioni antisessantottine di Giuliano Ferrara, forse il più intelligente fra i reazionari (di “destra” e di “sinistra”) in circolazione nel Paese.

In particolare, Ravera e Recalcati non comprendono come «il godimento immediato e senza limiti», «la libertà che non conosce limiti né legge», che insieme danno corpo «a quello che in psicanalisi si chiama perversione», e, dulcis in fundo, «l’evaporazione del Padre» (ma anche la madre non sta messa bene, a quanto pare); come tutto ciò sia essenzialmente il prodotto di processi sociali che rispondono alla sola Legge che in questa epoca storica domina l’intera esistenza degli individui: la bronzea e sempre più totalitaria Legge del profitto.

È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale e residuale rispetto alle funzioni educative formali e informali riconducibili allo Stato, al «sociale privato» e al mercato. Quando il Moro di Treviri, con un certo anticipo su Schumpeter, definì strutturalmente rivoluzionario il Capitalismo, egli non intese riferirsi solo alla dimensione dell’economico, tutt’altro. Il «linguaggio della struttura», per dirla con Lacan, è il linguaggio della prassi sociale dominata dall’economia capitalistica. Dove qui per struttura occorre intendere il corpo sociale colto nella sua complessa, conflittuale e contraddittoria totalità.

Il lacaniano «discorso del Capitalista», che Recalcati cita continuamente soprattutto come corpo contundente antiberlusconiano, ha una pregnanza concettuale e una radicalità politica che egli nemmeno sospetta. In bocca a Recalcati, quel «discorso» non supera il livello dell’impotente lamentela intorno alla nota mercificazione dell’intera esistenza (dis)umana, fenomeno che se è inteso nella sua vera essenza, e non alla maniera, banale e superficiale, degli intrattenitori da salotto, condanna senza appello l’odierno regime sociale qualunque sia la contingente forma politico-ideologica delle sue istituzioni: democratica, dittatoriale, autoritaria. Infatti, come ho scritto altre volte, il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica deve essere messo al centro di ogni riflessione politica, sociologica, ecc.. Altro che «epoca del berlusconismo», secondo lo stanco mantra dei progressisti: il Cavaliere Nero non vale nemmeno come metafora o sintomo dei nostri mercantilistici tempi.

Per capirlo, basta leggere quanto scriveva Robert Paul Wolff, sintetizzando il pensiero di Emile Durkheim, nel remoto 1965: «L’allentarsi della presa che i valori tradizionali e di gruppo esercitano sugli individui crea in alcuni di loro una condizione di mancanza di ogni legge, un’assenza di limiti ai loro desideri ed ambizioni. E poiché non v’è alcun limite intrinseco alla quantità di soddisfazione che l’io può desiderare, ecco che esso si trova trascinato in una ricerca senza fine del piacere, che produce sull’io uno stato di frustrazione. L’infinità dell’universo oggettivo è inafferrabile per l’individuo che sia privo di freni sociali o soggettivi, e l’io si dissolve nel vuoto che cerca di riempire» (Al di là della tolleranza).

Più che ripristinare i vecchi valori, o di crearne di nuovi a regime sociale invariato, a mio avviso è l’intero spazio sociale che occorre umanizzare. E ciò presuppone il superamento della società che ha fatto dell’atomo sociale chiamato cittadino una «macchina desiderante», una perfetta merce (una biomerce, un biomercato), una creatura fatta a immagine e somiglianza di una sempre più bulimica, insaziabile, onnivora economia. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del desiderabile (leggi: acquistabile), fino a eliminare ogni confine, trascinando così l’intera società in un folle vortice che nessuno può controllare. Il dominio del godimento immediato di cui parla Recalcati, nostalgico o comunque ammiratore della Prima Repubblica di Moro e Berlinguer, cela in realtà il Dominio di un rapporto sociale altamente disumano (da Umiliati e offesi. I dolori del popolo antiberlusconiano, 19/01/2014).

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ESSERE VLADIMIR PUTIN

putinC’è una componente erotica, intesa freudianamente come investimento libidico, nel fascino che il virile Vladimir Putin esercita anche su tante persone che vivono in Occidente? A me pare che un’interpretazione in chiave psicoanalitica di quel fenomeno sia plausibile e perfino necessaria, e io stesso appiccicando spesso nei miei post al nome del «nuovo Zar» l’attributo di virile non intendo alludere ad altro. D’altra parte, il personaggio ama a tal segno affettare pose machiste, e si fa portatore di istanze politiche “machisticamente” orientate con tale esibita (muscolare) sfrontatezza, da lasciare supporre che egli sia del tutto cosciente circa la componente libidica del suo successo in larghe fasce dell’opinione pubblica nazionale e internazionale. Scriveva Il Giornale dell’amico Silvio nel 2011: «Il pubblico maschile russo, secondo i sociologi, ancora sogna una mano forte, lo zar insomma. Nel 2012 a salire al Cremlino sarà un macho o un sex symbol?». Sappiamo com’è andata a finire.

Più che sviscerare il problema, e tanto meno cercar di risolverlo (tanto non ci riuscirei lo stesso!), qui intendo solo porlo, magari per riprenderlo in seguito in modo meno rapsodico e disorganico.  Questo breve post potrebbe perciò funzionare da introduzione al tema. Do ovviamente per scontato che altri si siano già misurati con il problema, e con maggiore intelligenza e padronanza della materia di quanto possa riuscire a chi scrive. Ma provo lo stesso a cimentarmi con la scottante questione, non fosse altro che per affettare una certa… virilità intellettuale.

20140201_LDP001_0Che in Occidente a subire una sorta di attrazione fatale per Putin siano, eventualmente, assai più i maschi che le femmine (qui la terminologia non è casuale, tutt’altro), non solo non contraddice l’ipotesi di partenza, ma piuttosto la conferma, perché con l’uomo forte ama identificarsi soprattutto il maschio che si sente – ed è a tutti gli effetti – impotente sul piano delle grandi scelte, e a volte perfino di quelle piccole. Per dirla sempre con Freud, «il padre è ciò che si vorrebbe essere» (Psicologia collettiva e analisi dell’Io).  Forse non pochi sostenitori delle ragioni geopolitiche della Russia, ad esempio a proposito della Siria e dell’Ucraina, vorrebbero essere non come Putin, ma proprio Putin in persona, con tanto di padronanza nelle arti marziali, oltre che nella conduzione della contesa interimperialistica. Da Essere John Malkovich a Essere Vladimir Putin il passo è forse più breve di quanto non si pensi.

L’infatuazione femminile per l’uomo forte (il capo, il duce, il führer) segue, per così dire, un decorso libidico più lineare o quantomeno più comprensibile, almeno in apparenza. È comunque degno di nota il fatto che Mussolini, il quale di fascinazione ipnotica delle masse s’intendeva, definisse «femmina» la folla che accorreva “oceanicamente” sotto il noto balcone, ma in realtà ovunque egli si esibisse in qualità di Duce del Fascismo, della Nazione e dell’Impero. Scriveva un ingenuo Isaac Babel’ nel 1934: «A noi la sua consuetudine di paragonare il popolo a una donna fa l’effetto di un anacronismo senza senso. Mussolini dichiara: “I capi devono essere maschi, mentre la folla è fondamentalmente una femmina impressionabile, golosa di spettacoli che le lusinghino la vista”. Da questo tipo di dichiarazioni si evince che in Italia è rimasto un solo uomo, Mussolini, in più c’è Balbo, che è candidato alla carica di uomo» (da Israel & dintorni). Probabilmente il virile Vladimir pensa che con l’uscita di scena del Cavaliere Nero di Arcore, in Europa è rimasto un solo Uomo a tener testa ai «poteri forti» (lobby gay compresa, naturalmente): Lui.

L’«anacronismo senza senso» denunciato da Isaac Babel’ è una pistolettata critica andata a vuoto. Com’è noto, i dittatori la sanno più lunga degli illuministi, i quali si fanno guidare da una razionalità priva di profondità e di dialettica che non riesce a mettere in luce la complessa radice del Male – non parlo del Demonio ma del Dominio sociale. «Le difficoltà della filosofia razionalistica provengono dal fatto che l’universalità che si ascrive alla ragione, non è altro che ciò che l’accordo degli individui può significare finché la società è sempre divisa in classi […] Il rispetto della ragione presuppone che la società giusta sia data e che la Polis senza schiavi sia reale» (M. Horkheimer, Ragione e autoconservazione). Nella società che nega in radice la vera libertà e l’autentica razionalità, la libertà e la razionalità ricercate prescindendo dalla vigente struttura di classe hanno una funzione meramente ideologica e apologetica. Per questo l’intellettuale progressista non capirà mai i comportamenti «anacronistici» e irrazionali delle masse, che egli tenderà ad attribuire, di volta in volta, all’indigenza culturale in cui versano le classi subalterne a causa della colpevole politica di controllo sociale praticata dalle classi dirigenti, oppure alle particolari capacità ipnotiche del dittatore di turno, il quale peraltro trova terreno fertile a motivo della denunciata indigenza culturale delle masse.

eutanasia del dominio colNaturalmente il vero problema consiste nell’esistenza stessa di una massa, ossia nelle condizioni sociali che rendono possibile la trasformazione (meglio: la creazione, già in tenera età) degli individui in atomi sociali facilmente massificabili. L’identificazione con l’uomo forte da parte dei singoli «presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli […] L’identificazione, sia con il collettivo, sia con la figura strapotente del capo, offre all’individuo un surrogato psicologico per quel che gli manca nella realtà» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia). Come mi capita spesso di dire, nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. Pastore sarai tu il mio Signore!

Fine della prima puntata. La seconda non è garantita.

UMILIATI E OFFESI. I DOLORI DEL POPOLO ANTIBERLUSCONIANO

berlusconi-renzi-liberace-2883381. Pregiudicato!

I manettari del Fascio Quotidiano e i “comunisti” del Manifesto hanno voluto dare voce al «grave disagio», allo smarrimento e alla vera e propria indignazione che in queste tragiche ore attraversano il Popolo di Sinistra. «Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014?», chiedeva retoricamente ieri Marco Politi dal quotidiano che rappresenta forse l’ultima trincea dell’antiberlusconismo duro e puro. La risposta non poteva essere che questa: «Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale».  La parola chiave, qui, è pregiudicato. Notare anche l’accostamento, che la dice lunga sulla natura violenta e rancorosa dei manettari, tra il «professore pedofilo» e il «puttaniere» di Arcore – e nessuno si azzardi a paragonarlo al socialista Hollande!

Ora, e al di là delle tante considerazioni politiche – e psicoanalitiche – che si possono fare sulle opposte tifoserie di Miserabilandia, ditemi se uno che, come il sottoscritto, è da sempre un avversario irriducibile della legalità borghese (scusate l’arcaismo), e quindi del «sistema costituzionale» (scusate il sovversivismo delle classi subalterne), può “vivere” con disagio e insofferenza il “famigerato” incontro tra Renzi e Berlusconi. Renzi e Berlusconi hanno raggiunto un accordo? E chi se ne frega! Non lo hanno raggiunto? Idem!

Parlo in qualità di qualunquista? In un certo senso sì, perché a mio avviso qualunque sistema politico-istituzionale non è che uno strumento di oppressione, di controllo sociale, di difesa e di irrobustimento dello status quo. Certamente, in questa peculiare accezione mi si potrebbe pure definire un perfetto qualunquista: non mi offenderei neanche un po’.

E così ho sdoganato anche il qualunquismo!

Scrive oggi l’afflitta e umiliata Norma Rangeri: «A pen­sarci bene, che a deci­dere sul futuro del nostro Paese sia un pregiudicato non è umi­liante solo per un par­tito, ma per tutti». Naturalmente in questo «tutti» non bisogna considerare la mia modesta persona, poiché dal mio punto di vista semplicemente – rozzamente? – anticapitalistico, i nemici mortali del Cavaliere Nero, quelli che affettano un’odiosa quanto risibile superiorità antropologica nei suoi confronti, si trovano sul suo stesso terreno: la difesa della società capitalistica, che rimane escrementizia e nemica dell’uomo in generale, e dei proletari in particolare, anche se al governo ci fosse un Cavaliere Bianco. Possibilmente di sinistra!

berlusconi-lele-mora-2424522. Berlusconi e il discorso del capitalista

Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare le riflessioni di Lidia Ravera e Massimo Recalcati sollecitate da Lilli Gruber, la “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, e mi si è rafforzata nella testolina un’idea che coltivo da sempre: la critica della società disumana che non è in grado di cogliere le radici storiche e sociali del grave disagio esistenziale che vive l’individuo dei nostri pessimi tempi, facilmente smotta verso una posizione reazionaria “a 360 gradi”: sul piano politico, su quello etico, filosofico e quant’altro. È un fatto che con oltre un decennio di ritardo, i due progressisti sono approdati sulle posizioni antisessantottine di Giuliano Ferrara, forse il più intelligente fra i reazionari (di “destra” e di “sinistra”) in circolazione nel Paese.

In particolare, Ravera e Recalcati non comprendono come «il godimento immediato e senza limiti», «la libertà che non conosce limiti né legge», che insieme danno corpo «a quello che in psicanalisi si chiama perversione», e, dulcis in fundo, «l’evaporazione del Padre» (ma anche la madre non sta messa bene, a quanto pare); come tutto ciò sia essenzialmente il prodotto di processi sociali che rispondono alla sola Legge che in questa epoca storica domina l’intera esistenza degli individui: la bronzea e sempre più totalitaria Legge del profitto.

È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale e residuale rispetto alle funzioni educative formali e informali riconducibili allo Stato, al «sociale privato» e al mercato. Quando il Moro di Treviri, con un certo anticipo su Schumpeter, definì strutturalmente rivoluzionario il Capitalismo, egli non intese riferirsi solo alla dimensione dell’economico, tutt’altro. Il «linguaggio della struttura», per dirla con Lacan, è il linguaggio della prassi sociale dominata dall’economia capitalistica. Dove qui per struttura occorre intendere il corpo sociale colto nella sua complessa, conflittuale e contraddittoria totalità.

Il lacaniano «discorso del Capitalista», che Recalcati cita continuamente soprattutto come corpo contundente antiberlusconiano, ha una pregnanza concettuale e una radicalità politica che egli nemmeno sospetta. In bocca a Recalcati, quel «discorso» non supera il livello dell’impotente lamentela intorno alla nota mercificazione dell’intera esistenza (dis)umana, fenomeno che se è inteso nella sua vera essenza, e non alla maniera, banale e superficiale, degli intrattenitori da salotto, condanna senza appello l’odierno regime sociale qualunque sia la contingente forma politico-ideologica delle sue istituzioni: democratica, dittatoriale, autoritaria. Infatti, come ho scritto altre volte, il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica deve essere messo al centro di ogni riflessione politica, sociologica, ecc.. Altro che «epoca del berlusconismo», secondo lo stanco mantra dei progressisti: il Cavaliere Nero non vale nemmeno come metafora o sintomo dei nostri mercantilistici tempi.

Per capirlo, basta leggere quanto scriveva Robert Paul Wolff, sintetizzando il pensiero di Emile Durkheim, nel remoto 1965: «L’allentarsi della presa che i valori tradizionali e di gruppo esercitano sugli individui crea in alcuni di loro una condizione di mancanza di ogni legge, un’assenza di limiti ai loro desideri ed ambizioni. E poiché non v’è alcun limite intrinseco alla quantità di soddisfazione che l’io può desiderare, ecco che esso si trova trascinato in una ricerca senza fine del piacere, che produce sull’io uno stato di frustrazione. L’infinità dell’universo oggettivo è inafferrabile per l’individuo che sia privo di freni sociali o soggettivi, e l’io si dissolve nel vuoto che cerca di riempire» (Al di là della tolleranza).

Più che ripristinare i vecchi valori, o di crearne di nuovi a regime sociale invariato, a mio avviso è l’intero spazio sociale che occorre umanizzare. E ciò presuppone il superamento della società che ha fatto dell’atomo sociale chiamato cittadino una «macchina desiderante», una perfetta merce (una biomerce, un biomercato), una creatura fatta a immagine e somiglianza di una sempre più bulimica, insaziabile, onnivora economia. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del desiderabile (leggi: acquistabile), fino a eliminare ogni confine, trascinando così l’intera società in un folle vortice che nessuno può controllare. Il dominio del godimento immediato di cui parla Recalcati, nostalgico o comunque ammiratore della Prima
Repubblica di Moro e Berlinguer, cela in realtà il Dominio di un rapporto sociale altamente disumano.

LA “RIMOZIONE” DI MASSIMO RECALCATI

PROCESSO RUBY, A BERLUSCONI 7 ANNI E INTERDIZIONE PERPETUALe categorie e i concetti elaborati dal pensiero psicoanalitico vanno maneggiati con estrema cura, alla stregua di materiale esplosivo ad alto potenziale distruttivo. Questa regola appare tanto più sensata, quando quei concetti e quelle categorie vengono usati come griglie concettuali attraverso cui leggere la realtà sociale in generale, e la sfera del Politico in particolare. Facilmente lo psicoanalista si muove in questi ambiti come il metaforico elefante che, sognando di avere acquisito le fattezze di una splendida libellula, decide di danzare in una stanza piena di preziosi cristalli. Il disastro e pressoché inevitabile.

Insomma, sto parlando di Massimo Recalcati, noto psicoanalista «di scuola lacaniana» e uno dei massimi teorici dell’antiberlusconismo militante. Nell’artico pubblicato ieri da Repubblica, Recalcati ha preso di mira la strategia del PDL tesa ad accreditare «Berlusconi come statista ponderato», una strategia che secondo il nostro si fonda «su quello che in termini strettamente psicoanalitici si chiama “rimozione della realtà”». «Di cosa si tratta quando in psicoanalisi parliamo di “rimozione della realtà”? Accade esemplarmente nella psicosi. Prendiamo una storia clinica narrata da Freud: una madre colpita dalla tragedia della perdita prematura di una figlia la sostituisce con un pezzo di legno che avvolge in una coperta che tiene amorevolmente in braccio sussurrandogli tutte quelle parole dolci e affettuose che la figlia morta non potrà più sentire. Questa sostituzione implica la negazione delirante di una realtà troppo dolorosa per essere riconosciuta come tale». La conclusione del “sottile” ragionamento appare fin troppo ovvia: «Come accade alla povera madre delirante raccontata da Freud si vorrebbe trasformare la bimba morta e perduta per sempre in una bimba viva e sorridente. Ma un pezzo di legno non fa una bambina, così come Berlusconi non fa uno statista. La pacificazione rischia allora di essere una pura falsificazione. È questo, in fondo, il suo peccato originale» (Rimozione e pacificazione).

Ma «delirante» per Recalcati non è soltanto l’assurdo (irrazionale, folle) tentativo, messo in piedi soprattutto dal Presidente Napolitano, di trasformare una sentina umana come Berlusconi in uno statista, o quantomeno in un leader politico «normale» (secondo i canonici etici stabiliti dal progressismo, si capisce); «delirante» è anche il pensiero che decide di «fuorcludere», per mutuare impropriamente il gergo lacaniano, dal dibattito politico l’irriducibile diversità che esisterebbe tra «destra» e «sinistra». E qui il bravo psicoanalista prestato alla politica se la prende anche con il movimento pentastellato: «La realtà è che in Italia destra e sinistra non possono governare insieme non perché, come ritiene un’altra forma di rimozione della realtà qual è il catarismo grillino, sono uguali ma perché sono profondamente diverse».

NEWS_149537Il mio «catarismo», che si fonda su un’analisi del profondo del corpo sociale che attinge dal pozzo di Treviri (ho scritto pozzo, e forse avrei potuto anche scrivere pazzo), mi dice che «destra» e «sinistra» sono radicalmente (in radice) uguali sul piano della prassi del dominio, perché entrambe le posizioni politico-ideologiche difendono, sebbene in modo diverso (ma non sempre né necessariamente) l’una dall’altra, lo stesso regime sociale: quello capitalistico basato sullo sfruttamento scientifico di uomini e cose.  Ma da un uomo che confida nella venuta del Tempo di Renzi, e che ancora recrimina sulla «scelta scellerata del Pd di non candidare Matteo Renzi» alle ultime elezioni politiche, non ci si può aspettare alcuna analisi del profondo.

«Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra provenienza. Non è un caso che tutti i tiranni tendano a cancellare il rapporto con la memoria e a falsificare i libri di storia». E sapete a quale «memoria storica» allude il nostro amico? È presto detto: «Mentre l’epoca dominata da figure come quelle di Alcide De Gasperi o di Enrico Berlinguer appariva caratterizzata da una tensione etica tra legge e godimento ancora edipica (si pensi solo alla politica dell’austerità teorizzata negli anni Settanta da Berlinguer), l’azione di Berlusconi appare totalmente svincolata da questo dissidio. Non c’è vergogna, senso di colpa, senso del limite appunto, poiché non c’è senso della Legge disgiunto da quello del godimento, perché il luogo della Legge coincide propriamente con quello del godimento. Tutto è apertamente (perversamente) giocato come se non esistesse castrazione. La figura del capo del governo riabilita così i fantasmi del Padre freudiano dell’orda, del Padre che ha diritto di godere di tutte le donne, del Padre bionico immortale, inscalfibile, osceno e inattaccabile, non come limite al godimento (è il volto ancora rassicurante dei Padri della prima Repubblica), ma come esercizio illimitato del godimento. In questo la figura di Berlusconi fa davvero epoca» (M. Recalcati, L’uomo senza inconscio). Verrebbe da dire: giù le mani da Freud (e da Lacan)!

Santa%20Lucia_25550Nel 2011 commentavo la sparata etica di Recalcati nei termini che seguono: «Tira un venticello etico che non ispira certo buoni sentimenti in chi ha in odio ogni giro di vite del Dominio, soprattutto quando si presenta sotto forma di benecomunismo e di senso del limite: non vi pare che siamo fin troppo limitati, e sotto ogni punto di vista? Forse molti, appena faranno l’esperienza della nuova frusta, rimpiangeranno quella vecchia; ma, a ben considerare, si tratta di finirla con ogni tipo di frusta, e che lo si debba ricordare ancora nel XXI secolo, ciò suona persino sconfortante» (Rivoluzione etica*).

Scriveva Recalcati su Repubblica del 5 maggio 2013 (Se fallisce il nostro Io): «Di fronte ad una cultura che sembra rigettare il valore formativo dell’esperienza del fallimento e che insegue i miraggi del Nuovo e del Successo» (insomma, del berlusconismo), si tratta di «sopportare quella che Freud considerava una “frustrazione narcisistica” necessaria per riconoscersi appartenenti ad una Comunità umana». Ecco il miserabile (apologetico) linguaggio di una “psicoanalisi” mobilitata al servizio di una società che annichilisce, necessariamente, ogni possibilità di autentica umanità.

lupus* Con il «soggettivismo etico», scrive Giuseppe De rita, trionfa la «cultura del mio» su quella del «nostro»: l’utero è mio e lo gestisco io, idem il corpo, la famiglia, il rapporto con la gravidanza, il voto agli esami universitari, l’impresa, la politica e via discorrendo. Tutto sarebbe caduto sotto il demoniaco dominio del «mio», dell’interesse e della «coscienza individuale». Berlusconi, conclude il bravo sociologo, non ha inventato niente: ha solo esasperato una tendenza, fino a farla tracimare nel libertinismo e nella licenziosità. Con Berlusconi il ’68 che teorizzava la libertà di tutti da tutto è andato al potere.

Inutile dire che De Rita è più che contento della «rivoluzione etica» che si annuncia nel Paese, e che ha nella persona di Mario Monti la sua più adeguata espressione.

Le parole del sociologico cattolico mi hanno riportato alla mente alcuni passi scritti dallo psicoanalista Massimo Recalcati contro il «totalitarismo del godimento» (incarnato, c’è bisogno di dirlo?, dal Sultano di Arcore), questi: «L’espressione ‘papi’, recentemente alla ribalta della cronaca politica italiana a causa di innumerevoli giovani (papi-girls) che così si rivolgono al loro seduttore, mette in evidenza la degenerazione ipermoderna della Legge simbolica del padre. La figura del padre ridotta a ‘papi’, anziché sostenere il valore virtuoso del limite, diviene ciò che autorizza alla sua più totale dissoluzione. Il denaro elargito non come riconoscimento di un lavoro, ma come puro atto arbitrario, l’illusione che si possa raggiungere l’affermazione di se stessi rapidamente, senza rinuncia né fatica, l’enfatizzazione feticistica dei corpi femminili come strumenti di godimento, il disprezzo per la verità, l’opposizione ostentata nei confronti delle istituzioni e della legge, (…) il rifiuto di ogni limite in nome di una libertà senza vincoli, l’assenza di pudore e di senso di colpa costituiscono alcuni tratti del ribaltamento della funzione simbolica del padre che trovano una loro sintesi impressionante nella figura di Silvio Berlusconi. Il passaggio dal padre della legge simbolica al ‘papi’ del godimento non definisce soltanto una metamorfosi dello statuto profondo del potere (dal regime edipico della democrazia al sultanato postideologico di tipo perverso), ma rivela anche la possibilità che ciò che resta del padre nell’epoca della sua evaporazione sia solo una versione cinico-materialistica del godimento» (M. Recalcati, Cosa resta del Padre?).
Quanto ambigua, per non dire altro, sia questa lettura del «fenomeno-Berlusconi» non deve sfuggire allo stesso Recalcati, che difatti scrive: «Se la Legge impedisce al desiderio di scivolare verso l’inconcludenza dissipativa del godimento, se la Legge è ciò che pone un limite all’effervescenza sovversiva del desiderio, non significa allora che la psicoanalisi vorrà restaurare, per vie traverse, l’ordine della morale repressiva, patriarcale, l’ordine di una Legge che si contrappone al desiderio con la finalità di estirparlo e di adattarlo alla realtà? Diversi critici della psicoanalisi hanno denunciato questo pericolo».

A giudicare dall’elogio della cosiddetta Prima Repubblica di Recalcati, mi sembra che la mia critica coglie perfettamente il bersaglio. Beninteso, non critica della psicoanalisi tout court, ma della peculiare concezione del mondo di Massimo Recalcati (Rivoluzione etica…, 16 novembre 2011).

FERMATE IL MONDO, VOGLIO SCENDERE!

Non ci sono zone di sosta sulle grandi strade della nostra civiltà: tutti devono continuare a correre (Max Horkheimer, Eclisse della ragione).

Breve ma interessante riflessione di Angelo Panebianco sulla “condizione umana” della gente in tempi di feroce crisi economico-sociale. Vediamola: «Quando un sistema sociale complesso entra in “avaria” si è costretti a constatare che i potenti della terra sono impotenti di fronte alla crisi, non sono capaci di risolverla. Molte istituzioni si inceppano, gli automatismi sociali saltano, il disordine cresce» (A. Panebianco, Il rischio di semplificare in tempo di crisi, Sette del Corriere della Sera, 22 06 2012). È a questo punto che nella società si affaccia l’inquietante, ma “umanissimo”, bisogno di «riportare la società a un livello di complessità inferiore … Sfortunatamente, solo una dose massiccia di autoritarismo potrebbe riuscirci. È questo il vero pericolo: più a lungo dura la crisi, più cresce il numero di coloro che sono disposti a rinunciare alla libertà in cambio di una drastica rinuncia alla complessità sociale».

Cerchiamo di mettere in relazione la (supposta) libertà degli individui (privi di reale individualità) con la complessità sociale. In realtà noi ci muoviamo all’interno di una sfera delle possibilità assai angusta, claustrofobica, oserei dire, nel cui seno le scelte fondamentali che ci riguardano non stanno nelle nostre mani, né, in ultima analisi e come scrive Panebianco, in quelle degli stessi «potenti della terra», bensì nelle mani di potenze sociali che noi subiamo, dall’esterno e dall’interno. Dinanzi a esse persino «i potenti della terra» devono confessare la loro impotenza. Qui il concetto di cieco destino assume tutta la sua pregnanza storica, sociale e filosofica.

La crisi economico-sociale non crea nulla di qualitativamente nuovo, ma rende piuttosto visibile la disumana normalità del Dominio sociale. Questa normalità testimonia contro la nostra libertà e contro la nostra individualità, tanto più negate quanto più l’ideologia della libertà e dell’individualità si fa obesa, grazie anche ai corifei del sistema sociale capitalistico, soprattutto nella sua configurazione politico-istituzionale democratica, e al marketing: «Tutto intorno a te». Nel senso che la brama di profitto del Capitale ci assedia da tutte le parti! La formula stereotipata del «diktat dei mercati» ha senso solo come metafora delle impersonali esigenze totalitarie del meccanismo economico.

«L’uomo moderno rivela una tendenza autoritaria a conformare il proprio pensiero e comportamento a norme che gli vengono proposte dall’esterno … Nonostante tutta la  loro attività, gli uomini diventano più passivi, nonostante tutto il loro potere sulla natura diventano più impotenti rispetto alla società e a se stessi. La società si muove spontaneamente in direzione dello stato di atomizzazione delle masse auspicato dai dittatori» (M. Horkheimer, La società di transizione). È su questo “materiale umano”, preparato nei periodi di “pace sociale” e di espansione economica, che lavorano demagoghi e dittatori. Anche Freud mise in guardia dalla «moltitudine priva di volontà», «incapace di vivere senza un padrone» (S. Freud, Psicologia di massa e analisi dell’Io). Esagerazioni? Non credo. La stessa idea dell’“avaria” del sistema sociale, con relativo inceppamento degli «automatismi sociali», proposta da Panebianco evoca, “oggettivamente”, la condizione di radicale illibertà e disumanità (le due facce della stessa medaglia) qui sostenuta.

Nella società classista e gregaria la Volontà assume la consistenza di una potenza che ci s’impone dall’esterno, fino a conquistare ogni nostra fibra “psicosomatica”, così da poterci dominare anche dall’interno. Di più, nella Società-Mondo del XXI secolo la stessa distinzione fra un fuori e un dentro in relazione alla prassi del Dominio vacilla, fino a perdere qualsiasi reale significato. La coazione a ripetere del Dominio sociale si fa reale e totale, e la teoria critico-radicale deve solo adeguarsi all’oggettività delle cose.

Come scriveva Sismonde De Sismondi già nel 1827 (Nuovi Principi dell’Economia Politica), ossia nel momento in cui il progresso industriale iniziò a mostrare alla società borghese la faccia impresentabile della medaglia chiamata Civiltà, «I nostri occhi si sono talmente assuefatti a questa nuova organizzazione della società, a questa concorrenza universale, che ormai non concepiamo altro sistema di vita». Il Dominio è così vicino in noi, di più: è così radicato in noi che non riusciamo più a vederlo per differenza, mentre lo avvertiamo come sofferenza.

Quando la crisi precipita il mondo nel caos, negli individui atomizzati e massificati si fa strada il bisogno dell’ordine: come il bambino disorientato e impaurito, la «moltitudine priva di volontà» inizia a cercare la sicura e virile mano paterna. Il principio dell’ordine che è nelle cose (nei rapporti sociali e nella prassi del Dominio) deve incarnarsi in un Sovrano visibile che possa rassicurare l’inquieto bambino. La mediazione fra potere materiale e potere politico deve restringersi e, al contempo, radicalizzarsi fino all’estremo della personalizzazione: mentre la realtà attesta l’assoluta preminenza dei «fattori materiali» nella vita degli individui nella società disumanizzata, l’ideologia deve mostrare l’uomo al comando in grado di piegare a fini umani (o, quantomeno, razionali) le «cieche forze del mercato». Al culmine della propria astrazione, il Dominio deve farsi carne e sangue. In fondo, la stessa retorica del «sangue e suolo», messa a suo tempo al servizio delle più moderne e potenti forze industriali, s’inscrive in quella ricerca della semplificazione denunciata da Panebianco.

Insomma, più che sulla complessità del sistema sociale, il focus della riflessione critica dovrebbe piuttosto essere la disumanità di quel sistema, ossia la prassi che ci rende tutti non-liberi e non-individui, se non come menzogna ideologica e come illusione. Più che semplificato, il mondo va innanzitutto umanizzato. Il risvolto dialettico della crisi economico-sociale è che essa rende accessibile al pensiero la verità della regola. Si tratta di non cedere alla tentazione delle semplificazioni concettuali in vista di risultati politici hic et nunc: il realismo, infatti, premia solo la – cattiva – realtà.