PRENDERE LA SPESA O PRENDERE IL POTERE? Una breve – e semiseria – riflessione sulla “spesa proletaria”

Per la psicologia sociale la domanda si pone in questi termini: non si chiede perché l’affamato ruba o perché lo sfruttato sciopera, ma il motivo per cui la maggior parte degli affamati non ruba e perché la maggior parte degli sfruttati non sciopera (W. Reich, Psicologia di massa del fascismo).

Prendere la spesa o prendere il potere? Per iniziare, i nullatenenti che non hanno più uno straccio di reddito su cui contare per tirare avanti incominciano a prendersi la spesa, poi si vedrà. Come si dice, l’appetito vien mangiando. Un’altra genialata “dottrinaria”: meglio la spese oggi che il potere domani! Scherzo, cerco di sdrammatizzare il clima, anche se immersi come siamo in questa plumbea e pesante situazione, niente invita alla risata.

Sono ancora poche le famiglie proletarie, soprattutto del Mezzogiorno, che fiaccate oltremodo dalla crisi sociale in atto a livello planetario sono tentate di bypassare il problema dell’esaurita “liquidità” ponendosi apertamente sul terreno dell’appropriazione indebita (legge alla mano!) di generi alimentari e di quanto serve per l’igiene personale e per la pulizia della casa. Sono stati costretti a farlo da uno stato di necessità di cui queste famiglie certamente non portano alcuna responsabilità, essendone invece le prime vittime.

L’altro ieri a Palermo un gruppo di persone ha cercato di assaltare un supermercato; oggi i più grandi supermercati della città siciliana sono presidiati dalle forze dell’ordine. «Gli investigatori guardano dentro al gruppo “Rivoluzione nazionale” per comprendere chi ha promosso l’idea di assaltare il supermercato Lidl e ha anche lanciato la proposta di organizzare altri raid per rubare la spesa. […] Al gruppo Facebook “Rivoluzione nazionale” dove c’era chi invitava pure alla violenza contro gli “sbirri” sono iscritti in oltre 2.500 e ci sarebbero anche i nomi di diversi pregiudicati della città» (La Repubblica). Il carattere “nazionale” della minacciata “Rivoluzione” certamente non allarga il cuore, ma qui ciò che interessa è la sintomatologia sociale. Anche a Catania sono comparsi sul Web analoghi gruppi di quartiere orientati a organizzare una spesa collettiva gratuita, diciamo così. Si sono anche registrati casi (a Napoli e altrove) di “scippi di spesa”, secondo uno scenario di tutti contro tutti davvero inquietante.

E certamente il dilagante disagio sociale inquieta il governo, peraltro sensibilizzato dai pennivendoli di regime che sollecitano lo Stato a “tenere alta la guardia”, ventilando la possibilità che mafiosi e non meglio precisati “sobillatori” possano avvantaggiarsi del malessere che sta toccando una parte tutt’altro che piccola della popolazione italiana. Affettando la solita italica ipocrisia, oggi in tanti “scoprono” l’esistenza di un vastissimo “mercato del lavoro nero”, che non comparendo nei radar dello Stato lascia i lavoratori “in nero” completamente privi di qualsivoglia tutela sociale. Lo stesso reddito di cittadinanza (leggi sudditanza) ha poco impatto se non si somma con un salario percepito “in nero”. Che grande scoperta!

«Il Sud è una polveriera. Non ci sono soltanto i lavoratori forzati alla cassa integrazione dalla chiusura delle fabbriche che ancora non hanno ricevuto i soldi. Il fuoco che cova sotto la cenere della segregazione domiciliare è un altro. E potenzialmente esplosivo. Sono i lavoratori di quella che l’’Istat definisce con un eufemismo “l’economia non osservata”. I lavoratori irregolari, quelli totalmente in nero, quelli che vivono di illegalità. L’ultimo rapporto dell’Istituto di statistica spiega che ci sono 3,7 milioni di persone impiegate nel sommerso e nel mondo di sotto» (Il Messaggero). Ma nel capitalismo è l’intero mondo che è messo sottosopra!

A proposito di reddito di sudditanza e di mercato del lavoro! Dopo settimane di imbarazzato letargo, il noto scienziato sociale Beppe Grillo si è infine svegliato per regalarci la perla che segue: «È arrivato il momento di mettere l’uomo al centro e non più il mercato del lavoro. Una società evoluta è quella che permette agli individui di svilupparsi in modo libero, creativo, generando al tempo stesso il proprio sviluppo» (dal suo famigerato Blog). Quasi quasi ci credo. Quasi quasi abbocco. Quasi… La stessa esistenza di simili personaggi ci dice quanto l’umanità sia abissalmente lontana da una «società evoluta».

Scriveva ieri Maurizio Molinari sulla Stampa: «Sanità, economia e ordine pubblico: la pandemia Covid-19 ha innescato tre diverse crisi che, sovrapponendosi, mettono a serio rischio la tenuta del Paese imponendo al governo Conte di dimostrare in fretta la leadership necessaria per trovare soluzioni rapide ed efficienti. […] Corriamo  il rischio strategico di pesanti danni al sistema economico e gli allarmi sullo scontento sociale nel Sud ne esce il ritratto di un Paese pericolosamente in bilico, che ha bisogno di azioni coraggiose e rapide da parte dei propri leader di governo. Perché il tempo non gioca in nostro favore». La paura fa 90, si dice dalle nostre parti. Ma a favore di chi gioca il tempo? Vallo a sapere! Personalmente posso dire che, come umanità in generale e come nullatenenti (oggi più che mai!) in particolare, siamo immersi nella cacca più di ieri e molto probabilmente meno di domani.

«”Potenziale pericolo di rivolte e ribellioni, spontanee o organizzate, soprattutto nel Mezzogiorno d’Italia dove l’economia sommersa e la capillare presenza della criminalità organizzata sono due dei principali fattori di rischio”. L’intelligence con un report riservato indirizzato alla Presidenza del Consiglio ha messo in guardia il Governo sulla possibilità che la crisi economica e le serrate di diverse attività commerciali a causa dell’ epidemia del Coronavirus possano scatenare disordini sociali» (Il Mattino). «La capillare presenza della criminalità organizzata»: l’alibi repressivo è già confezionato!

Negli anni Settanta del secolo scorso andava di moda il cosiddetto “esproprio proletario”, ma si trattò più che altro, e salvo le solite rare eccezioni, di un’indicazione sloganistica fortemente caratterizzata sul piano politico-ideologico, e non di un’effettiva pratica sociale diffusa. Personalmente ho visto praticare “espropri proletari” e “autoriduzioni” più da studenti politicizzati di estrazione medio-alto borghese, che da disoccupati e da proletari in genere. La “politica attraverso l’esempio” in ogni caso non attecchì presso gli strati sociali proletari cui era indirizzata, mentre non pochi giovani studenti “espropriatori” dovettero vedersela con la Giustizia – anche perché i partiti di allora, segnatamente il PCI e la DC, legiferarono nel senso di una criminalizzazione estesa all’intero movimento di opposizione sociale, assimilato anche dalla maggior parte dei pennivendoli italioti a serbatoio di “fiancheggiatori del terrorismo”.

Anche dopo la crisi economica del 2008 si segnalarono in Italia alcuni casi isolati di “spesa proletaria” (o “esproprio solidale”), ma anche allora si trattò soprattutto di un fenomeno più politico-ideologico che sociale, e cioè dell’iniziativa dei giovani “disobbedienti” dei centri sociali. Il riscontro sociale di quell’iniziativa non fu molto incoraggiante, diciamo così, per i “disobbedienti”, anche se questo non depone a loro completo demerito. Oggi stiamo parlando di tutt’altra cosa, come dimostra anche l’attivismo “solidaristico” delle autorità governative nazionali e locali, che stanno reagendo all’assai scottante “problematica” agendo sulle due classiche leve: sussidi (o carità sociale che dir si voglia) e incremento della militarizzazione del territorio. Per oggi è tutto dal mio personale fronte della quarantena. Gli obblighi della sopravvivenza mi chiamano: devo andare a fare la spesa. Ho detto spesa, Maresciallo Gargiulo, non esproprio!

Aggiunta pomeridiana

Sul Fascio Quotidiano di oggi il noto manettaro Marco Travaglio, uno dei più prestigiosi (insieme a Giuliano Ferrara) lecchini dell’attuale governo, si chiede: «Possibile che, dopo un mese scarso di quarantena, siamo già tutti alla fame?» Tutti magari no, signor manettaro, ma molti sì; molti pensano a come sopravvivere, insieme ai loro cari, il prossimo mese, e forse anche il mese successivo. «Cari dirigenti dell’Unione sindacale di base, ma che vi dice il cervello quando postate su Fb “Reddito o rivolta”? Ma lo sapete che vuol dire “rivolta”? E contro chi? […] I gruppi Facebook che minacciano rivolte, jacquerie, grand guignol, assalti ai forni e ai supermercati fissano tutti il D-Day al 3 aprile. Evitiamo per il nostro bene, e per motivi di ordine pubblico, di alimentare quest’attesa messianica del 3 aprile. Si dice che chi gioca col fuoco fa la fine del pollo arrosto». Capito il messaggio, cari “irresponsabili”? «In questo momento di tutto abbiamo bisogno, fuorché di irresponsabili [è quello che dicevo!] che soffino sulla cenere che cova nelle case di molti italiani ai domiciliari [finalmente tutti in galera, come da sempre auspica il “filosofo” di riferimento dei manettari, il giudice Piercamillo Davigo], senza lavoro né stipendio, terrorizzati dal contagio e dal futuro, in cerca di un colpevole visibile su cui scaricare la rabbia, essendo il virus invisibile e inadatto alla bisogna». E individuare nel rapporto sociale capitalistico il «colpevole invisibile su cui scaricare la rabbia» può essere adatto alla bisogna? «In galera, in galera!» Non avevo dubbi! Forse è meglio procrastinare sine die la messianica data: la scienza ci dice che in giro per il mondo ci sono altri 1300 virus nuovi di zecca che ci attendono al varco. Senza contare la resilienza batterica. Che tempi!

PER LA SECESSIONE DEI POVERI!

Tranquilli amici e compagni: non mi sono convertito improvvisamente al meridionalismo più radicale, non intendo aderire alla Lega Sud prossima ventura, non intendo promuovere la secessione delle Regioni del Mezzogiorno dall’attuale architettura politico-istituzionale di questo Paese. Per secessione dei poveri alludo, con evidente riferimento polemico al rognosissimo dibattito che intorno alla “Questione meridionale” (vedi che novità!) si è acceso in questi giorni, al processo di autonomizzazione politica delle classi subalterne dal devastante punto di vista degli interessi nazionali comunque “declinati”. Devastante, beninteso, per gli interessi contingenti e, soprattutto, “strategici” di chi per vivere è costretto a vendere sul mercato capacità lavorativa manuale e intellettuale.

Chi oggi teme la “secessione dei ricchi”, oltre ad esprimere un punto di vista ultrareazionario sul terreno del conflitto di classe, ragiona in termini conservativi anche dal punto di vista degli interessi “nazionali-borghesi”, perché dà per scontato il fatto che non possa esserci alcuna alternativa positiva e praticabile all’attuale assetto politico-istituzionale, mentre si tratterebbe di distribuire in modo più “equo e solidale”, più “perequativo”, la ricchezza prodotta nel Paese. Naturalmente ci sono diversi motivi che inducono molte persone a ragionare in quei termini conservati. Ne menziono solo due: per un verso si teme di perdere posizioni economiche e/o politiche da un assetto più dinamico e competitivo dell’architettura “geopolitica” dell’Italia, e per altro verso si ha paura dei conflitti sociali che potrebbe innescare la transizione dalla vecchia alla nuova configurazione politico-istituzionale, la quale in ogni caso appare ai conservatori meno ospitale nei confronti delle tradizionali politiche di accomodamento compromissorio tra interessi e gruppi sociali diversi. Il conservatore teme insomma di perdere potere dal superamento del vecchio “equilibrio” consolidatosi nel corso dei decenni (per certi versi già a partire dal 1861) tra lo Stato centrale e le sue articolazioni periferiche, ed è disposto solo a piccole modifiche che non intacchino il quadro istituzionale complessivo.

La realtà del processo sociale ha dato torto marcio a questa impostazione conservativa della “Questione meridionale”, e infatti abbiamo visto l’emergere negli anni Ottanta del secolo scorso di una ben più dirompente “Questione settentrionale”, la quale ha avuto la sua espressione politica più pregnante nel cosiddetto leghismo, che molti politici e sociologi dell’epoca (soprattutto quelli di scuola “marxista”, particolarmente dotati nei ragionamenti “a testa in giù”) avevano rubricato come fenomeno folcloristico e passeggero: «Sono quattro poveri razzisti che non parlano bene neanche l’italiano, non contano nulla, non hanno futuro». Infatti…

Per Luca Zaia, Presidente della Regione Veneto, «Il vero spartiacque adesso è tra la modernità o l’essere conservatori, tra la visione di un paese federale moderno e innovativo o di un paese che continua a pensare al centralismo e all’assistenzialismo» (Verona Sera): sul terreno degli interessi squisitamente nazionali Zaia esprime una posizione quantomeno corroborata dai dati di fatto, contingenti e storici. Un parlamentare pentastellato ha dichiarato che «Per il M5S, sempre in direzione del rispetto della Costituzione, ogni percorso di autonomia non può prescindere dalla prioritaria individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni per evitare che ci siano cittadini di serie A e di serie B». Che ipocrisia! I «cittadini di serie A e di serie B» già ci sono, come tra l’altro testimonia la cosiddetta migrazione sanitaria (o «secessione della salute»), che vede molti cittadini meridionali cercare un miglior trattamento terapeutico negli ospedali del Nord.

La richiesta di autonomia rafforzata presentata da tre Regioni del Nord: Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna, come applicazione del terzo comma dell’art. 116 della Costituzione (introdotto dal centrosinistra con la riforma del 2001 poi confermata da un Referendum) è fatta oggetto di aspre critiche che partono da due opposti versanti della politica nazionale.

I critici che fanno capo a una posizione che, tanto per intenderci, potremmo definire liberale (o “liberista”) non sono in linea di principio contrari all’autonomia rafforzata (o «regionalismo a geometria variabile») delle regioni che ne fanno richiesta, perché «se bene applicata» quell’autonomia potrebbe in effetti responsabilizzare il livello amministrativo regionale e potrebbe attivare una «dialettica democratica» più vivace e produttiva tra i decisori politici e i cittadini-elettori che potrebbero acquisire una maggiore capacità di controllo circa le spese dell’amministrazione regionale. Ma se l’autonomia rafforzata venisse «applicata male», si correrebbe il rischio di veder nascere nelle regioni autonome un centralismo su base regionale che con il tempo riprodurrebbe tutti i vizi generati dal centralismo statale: inefficienze, sprechi, clientelismo, assistenzialismo, intrusione della politica nella sfera economica («Proteggere le imprese del Nord non le renderebbe più forti, ma più assistite»), e così via. Una regione come la Lombardia, che oggi per molti aspetti rappresenta un modello di efficienza e di dinamismo economico-sociale che non ha niente da invidiare a quello esibito dalle regioni più ricche e moderne dell’Europa, potrebbe ricevere un grave danno da una «cattiva applicazione» dell’autonomia rafforzata.

Sull’altro versante troviamo il vastissimo fronte, che va da “destra” a “sinistra” (incluse le “estreme”), che teme appunto la «secessione dei ricchi» e rispolvera l’ormai ammuffita e maleodorante “Questione meridionale”. Molti sinistri sostengono che bisogna «costruire un largo movimento popolare di contrasto al federalismo per ricchi», ma nulla sulle vistosissime magagne economico-sociali prodotte dal centralismo statale. Dopo più di un secolo e mezzo dall’Unità d’Italia, siamo ancora qui a parlare di “Questione meridionale”, a dimostrazione che la cosiddetta «secessione dei ricchi» non è la causa della più che secolare arretratezza delle regioni meridionali, ma piuttosto uno dei “frutti avvelenati”, certamente quello politicamente più evidente ed esplosivo, di un assetto politico-istituzionale che fa acqua da tutte le parti non da oggi, non da qualche lustro, ma da decenni, e la cui inadeguatezza ha finito per produrre rilevanti conseguenze anche sul piano politico-istituzionale, come ho accennato poco sopra ricordando la nascita del fenomeno leghista.

Il divario economico-sociale tra le regioni del Nord e le regioni del Sud cresce sempre, quasi “per definizione”, come se la “dialettica” Nord-Sud fosse esposta a un’incoercibile legge di natura, e questo nonostante l’architettura sostanzialmente centralistica dello Stato Italiano dall’Unità in poi. Di più: la “Questione meridionale” nasce proprio insieme allo Stato unitario italiano, nel senso che nel 1861 lo scarto tra Nord e Sud era minimo, soprattutto nel campo della cantieristica navale, e che solo dopo il divario tra le due aree del Paese è cresciuto rapidamente fino a diventare un problema economico-sociale di prima grandezza (1). Le cause sono note, ed ebbero natura politica, economica e geopolitica. Con Cavour si affermò la linea dell’Indipendenza nazionale senza rivoluzione (2) e giocata in gran parte sullo scacchiere internazionale, in appoggio ora a questa, ora a quell’altra Potenza del tempo. Per accelerare lo sviluppo capitalistico del Paese, che avrebbe dovuto confrontarsi con potenze capitalistiche di prima grandezza come la Francia, la Germania, l’Austria e l’Inghilterra, la classe dirigente italiana preferì sacrificare l’ancora fragile industria meridionale e sostenere la più promettente struttura industriale del Nord, mentre attraverso la politica fiscale si realizzava un massiccio drenaggio di risorse finanziarie dal Sud al Nord. Nella divisione nazionale del lavoro al Mezzogiorno spettò soprattutto il compito di vacca finanziaria da smungere a piacimento, di fornitore di manodopera a basso costo, di fornitore di materie prime (soprattutto agricole) e di consumatore dei più “sofisticati” prodotti sfornati dall’industria settentrionale. In larga parte la cosiddetta epopea risorgimentale si configurò come una vera e propria annessione del Mezzogiorno italiano promossa dalla “Prussia italiana”, ossia dal Piemonte. La stessa Lombardia, per molti aspetti assai più progredita del Piemonte, si oppose a una soluzione centralista del problema politico-istituzionale, e il federalismo di Giuseppe Ferrari e Carlo Cattaneo per una brevissima stagione parve poter rappresentare un’alternativa praticabile. Non fu così. Scriveva Francesco Saverio Nitti nel 1900: «Il governo delle province, prefetti, intendenti di finanza, generali, ecc., è ancora adesso in grandissima parte nelle mani di funzionari del Nord. Non vi è nessun senso d’invidia in quanto diciamo. Ma vogliamo solo dire che se i governi fossero stati più onesti e non avessero voluto lavorare il Mezzogiorno, cioè corromperne ancor più le classi medie a scopi elettorali, molto si sarebbe potuto fare» (3).

Il brigantaggio (4) che si diffuse nelle campagne meridionali, e che l’Esercito Regio di marca Sabauda schiacciò con una violenza fino allora mai vista dalle “plebi” meridionali, fu il primo e certamente più vistoso sintomo di una “malattia” che accompagnerà il processo di modernizzazione capitalistica del Paese, e che, mutatis mutandis, è ancora attiva a oltre un secolo e mezzo dalla proclamazione dell’Unità nazionale.

Dal 1861 questo Paese ha assistito a uno sviluppo capitalistico incardinato su una struttura politico-istituzionale che ha fatto di tutto per depotenziare le contraddizioni sociali e rendere il meno conflittuale possibile il processo di modernizzazione del Paese. Di qui quel “compromesso storico” tra vecchie e nuove classi dirigenti politico-economiche che ha segnato la nascita di un “modello italiano” che, come si è detto, alla fine ha fatto bancarotta.

La “secessione dei ricchi” è in corso da decenni, e già all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso alla Fondazione Agnelli l’Italia appariva divisa in tre macroregioni: il Nord, economicamente e socialmente assai sviluppato, dinamico e competitivo, le cui performance capitalistiche erano di assoluto livello europeo e mondiale, al punto che soprattutto l’organizzazione a rete distrettuale del Nordest veniva assunta a modello da molti economisti tedeschi e giapponesi; il Centro, meno sviluppato e competitivo – se non sul terreno del «terziario avanzato» –, ma comunque ancora in grado di sostenere il confronto con la Francia (e poi con la Spagna), e infine il Mezzogiorno, con la sua secolare arretratezza socio-economica, la cui struttura economica era simile a quella del Portogallo e della Grecia. Scriveva l’economista Alberto De Bernardi nel 1991: «lo iato tra nord e sud non ha perso la sua drammaticità e pesa in termini enormi sulle potenzialità di sviluppo complessivo del paese» (5). La dissoluzione dei vecchi equilibri internazionali usciti dal Secondo conflitto mondiale hanno naturalmente accelerato processi lungamente maturati nel tempo.

La forza dell’economia, diceva il professor Gianfranco Miglio, il “teorico” del federalismo leghista, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», agglomerati economici e sociali, cioè, che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali “ottocenteschi“. «Ecco la radice del neofederalismo […]. È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato» (6). Anche gli eventi occorsi ultimamente in Spagna, con la crisi catalana, si spiegano in larga misura con le dinamiche economiche, politiche e geopolitiche di cui parlava Miglio ormai ventisei anni fa.

Troviamo in quella posizione, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si coglie la consapevolezza del sentiero estremamente contraddittorio lungo il quale tali dinamiche sono costrette a muoversi e a misurarsi con la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica. Il professore salutava come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica, ma sulla “benigna” forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista». A Miglio mancava evidentemente il concetto di Imperialismo come «fase suprema del Capitalismo», ma di questo si può “perdonarlo”, visto che non era un “marxista” – soprattutto del genere di quei “marxisti” che oggi difendono l’attuale assetto politico-istituzionale del Paese: «Difendere l’unità del nostro Paese è dunque indispensabile per recuperare in prospettiva pezzi di sovranità nazionale». Appunto, del vostro capitalistico Paese.

Com’è noto il progetto federalista dei primi anni Novanta non ebbe successo, e il berlusconismo in parte fu l’espressione di un nuovo compromesso tra le diverse dinamiche che mettevano (e che mettono) sotto sforzo l’assetto politico-istituzionale del Paese lungo l’asse Nord-Sud. Un compromesso che anche il Centro-sinistra accettò di buongrado, anche se per fini puramente politici (separare la Lega di Bossi da Berlusconi) seminò un elemento di potenziale destabilizzazione, aggiungendo con la riforma costituzionale del 2001 il comma 3 all’articolo 116, comma che prevede «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» anche per le regioni a statuto ordinario. Ricordiamoci che ancora nel 1996 l’allora ministro dell’economia del “Governo ombra Padano”, Giancarlo Pagliarini, sostenne la necessità di «due casse e due monete, il Nord con l’euro e il resto fuori come vuole la Germania, perché non è giusto che la Padania sia esclusa dall’euro per colpa di Roma e del Sud arretrato». Nel frattempo il divario tra la “Padania” e il Sud arretrato non è affatto diminuito, tutt’altro, e la Lega Nord è diventata la Lega anti-euro di Matteo Salvini, cosa che è dispiaciuta moltissimo a un leghista “duro e puro” come Pagliarini, il quale ricorda con nostalgia i vecchi tempi: «Dicevamo che i vecchi Stati-nazione, quelli responsabili delle guerre mondiali, non avevano più senso. Discutevamo dell’Europa dei popoli. Adesso, 20 anni dopo, vedo che si dice anche a Bruxelles che “l’Unione europea deve ripensare se stessa, e dovrà riorganizzarsi al di là dei confini dei vecchi  Stati-nazione, nel segno dell’organicità e dell’omogeneità”. Questo è il futuro. Torniamo alla “Lega di una volta”. In un’area geografica era (ed è) razionale adottare una moneta unica in presenza di due condizioni: 1) economie relativamente omogenee, e 2) mobilità interna. L’economia del Mezzogiorno non era assolutamente omogenea con l’economia delle Regioni del Nord, e la mobilità interna era in una sola direzione. La lira era una moneta forte che stava “uccidendo” il Mezzogiorno e l’Euro sarà una moneta forte, insostenibile per il Mezzogiorno. Aderire uniti alla moneta unica sarebbe stato un disastro. La situazione era irrazionale ed era agevole prevedere che sarebbe stato sempre peggio. Per pagare gli interessi passivi, per mantenere i trasferimenti di solidarietà, e non potendo (per fortuna!) massacrare i cittadini con la tassa dell’inflazione, con l’Euro la pressione fiscale sarebbe aumentata. In un mercato unico e con una moneta comune le imprese del Nord avrebbero investito meno dei loro concorrenti ed avrebbero avuto una pressione fiscale più alta: dunque  sarebbero state sempre meno competitive, e l’economia del Mezzogiorno non si sarebbe comunque sviluppata. Anzi! Conclusione: l’unica soluzione era il trattato di separazione consensuale. Il Nord sarebbe entrata subito nell’Unione Monetaria mentre il Mezzogiorno, che non era competitivo e che nell’Unione Monetaria sarebbe stato stritolato, restava provvisoriamente fuori, con questi risultati immediati: 1) le imprese delle Regioni del Nord avrebbero potuto fare investimenti in settori “capital intensive” per tutelare la loro competitività. 2) con la droga delle svalutazioni competitive il Mezzogiorno sarebbe stato enormemente facilitato per attirare capitali e turismo. Ed esportare. E generare lavoro. Insomma si trattava di dare la necessaria sveglia all’economia delle regioni del Mezzogiorno» (Lettera a Salvini, L’intraprendente, 2015).

Scriveva ieri Paolo Favilli sul Manifesto (“quotidiano comunista”: sic!): «Lo Stato nazione in cui vivono gli italiani ha il momento fondante nel Risorgimento. Lì si trovano le basi della loro storia in comune, almeno fino ad oggi». Non c’è dubbio. Sono le basi di una storia che si è dipanata sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici, i quali, lo ricordo solo per pignoleria, diciamo, sono rapporti sociali che attestano il dominio di classe dei detentori di capitali sulle classi nullatenenti che vivono di salario, ossia di lavoro mercificato – vedi Art. 1 della Costituzione Italiana. Dominanti e dominanti hanno in comune una storia di dominio e di sfruttamento, nel senso che i primi dominano e sfruttano i secondi: una gran bella storia, non c’è che dire. In quanto nullatenente a chi scrive questa storia fa schifo, e non poco! E poi, cosa c’entra il Risorgimento considerato come l’espressione di una rivoluzione nazionale-borghese, e quindi come un momento storicamente progressivo, con i nostri ultrareazionari tempi? Quando Mussolini aderì al Primo macello imperialistico mondiale straparlando di “Secondo Risorgimento”, o di “compimento del Risorgimento”, i marxisti dell’epoca lo spernacchiarono come traditore del Socialismo e ignorante dell’ABC del materialismo storico. Oltre un secolo dopo a “sinistra” c’è ancora gente che sventola il vessillo (l’ideologia) risorgimentale!

Scrive Massimo Villone, sempre sul noto “quotidiano comunista” (strasic!): «Siamo allo Stato che si dissolve»: ma magari! verrebbe da dire. Purtroppo non è così. Forse potrebbe dissolversi l’impalcatura politico-istituzionale che tanto piace ai sinistri più o meno “radicali”, soprattutto a quelli nostalgici della “Prima Repubblica”, quando ancora c’era il PCI e il Muro di Berlino. Ma ascoltiamo il lamento di Villone: «Un paese frantumato in un vestito di Arlecchino. Questa è l’Italia che alcuni vorrebbero per domani. È un’Italia in cui non ci riconosciamo. Non è quella che ci hanno consegnato i nostri padri, dal Risorgimento alla Resistenza alla Costituente, passando per guerre, lutti e infiniti sacrifici». In quanto proletario anticapitalista io non mi sono mai riconosciuto in quest’Italia escrementizia, così come, ovviamente, non mi sono mai riconosciuto in alcun Paese del pianeta. Io nutro un invincibile odio nei confronti del “patriota” che rivendica «guerre, lutti e infiniti sacrifici». Abbasso l’Italia, centralista, regionalista o federalista che sia! Caspita, mi sono infervorato.

Per rasserenarmi leggo qualche passo tratto dal Testamento politico di Carlo Pisacane (24 giugno 1857), il celebre «rivoluzionario e patriota italiano» vicino alle correnti del socialismo europeo: «Nel momento d’intraprendere un’arrischiosa impresa, voglio manifestare al paese le mie opinioni, onde rimbeccare la critica del volgo, corrivo sempre ad applaudire i fortunati e maledire i vinti» No, al rivoluzionario napoletano non si può appiccicare l’ignobile etichetta di “populista”. Ma riprendiamo la citazione: «I miei principi politici sono abbastanza noti; io credo che il dolo socialismo espresso nella formola “Libertà ed Associazione”, sia il solo avvenire non lontano della Italia, e forse dell’Europa. […] Per me dominio di casa Savoia o dominio di casa d’Austria è precisamente lo stesso. Credo eziandio che il reggimento costituzionale del Piemonte sia più dannoso all’Italia che la tirannide di Francesco II. […] Sono convinto che il miglioramento dell’industria, la facilità del commercio, le macchine ecc., per una legge economica e fatale, finché il riparto del prodotto è frutto della concorrenza, accrescono questo prodotto, ma l’accumulano sempre in ristrettissime mani e immiseriscono la moltitudine; e perciò questo vantato progresso non è che regresso. Se vuole considerarsi come progresso, lo si deve nel senso che, accrescendo i mali della plebe, la sospingerà a una terribile rivoluzione, la quale cangiando d’un tratto tutti gli ordinamenti sociali, volgerà a profitto di tutti quello che ora è a profitto di pochi. […] Sono persuaso che se l’imprese riesce, avrò il plauso universale: se fallisce, il biasimo di tutti: mi diranno stolto, ambizioso, turbolento» (7). Com’è noto l’impresa non riuscì, e Pisacane cadde a Sanza (Salerno), per la gioia dei «molti che mai nulla fanno e passano la vita censurando gli altri».

Leggo da qualche parte: «Difendere l’unità del nostro Paese è dunque indispensabile per recuperare in prospettiva pezzi di sovranità nazionale». Appunto, del vostro capitalistico Paese. Quanto alla «sovranità nazionale», giusto i sovranisti di “destra” e di “sinistra” possono ancora avere fede in questa gigantesca menzogna che si rivela tale ovunque nel mondo, a partire dal Venezuela, la cui “sovranità” si riduce alla scelta di quale Imperialismo deve sostenere il destino del Paese: Stati Uniti? Europa? Russia? Cina?

È vero che per le classi subalterne il peggio non ha fine, che per i nullatenenti il peggio è sempre dietro l’angolo, ma non è difendendo un assetto politico-istituzionale piuttosto che un altro che essi possono difendere i propri interessi immediati, senza parlare della possibilità di una loro emancipazione sociale, di un loro affrancamento dagli odierni rapporti sociali. Solo la costruzione dell’autonomia di classe può consentire alle classi subalterne di approntare gli strumenti idonei a rispondere a una condizione sociale che si fa sempre più dura e precaria: è la “secessione dei poveri” quella che ci vuole, contro tutti (centralisti, regionalisti, federalisti) i sostenitori dello status quo sociale.

Come proletario e anticapitalista nato in Sicilia ho sempre avuto nella massima antipatia il vittimismo meridionalista che si annida in ogni ambiente sociale del Mezzogiorno. Ci si approccia allo «sviluppo ineguale» della società italiana come a qualcosa di naturale e inevitabile, come a un destino cinico e baro, come a un complotto organizzato dai cattivi e ricchi settentrionali «che rubano il nostro lavoro e le nostre ricchezze». E poi naturalmente ci si acconcia a ogni tipo di assistenzialismo e di clientelismo: «È giusto che lo Stato pensi ai più bisognosi». Come no! E la lotta di classe? «Votare è più comodo e meno rischioso. E poi la lotta di classe è un concetto vecchio, mentre il reddito di cittadinanza rappresenta il nuovo». Già, il “nuovo” che avanza…

(1) «È ormai certo che, al momento dell’unificazione del Regno di Sardegna con il Regno delle due Sicilie, con la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo del 1861, le condizioni economiche del Nord e del Sud non fossero, poi, così distanti fra di loro. Un recente studio mette in evidenza proprio quest’aspetto, soprattutto attraverso l’analisi statistica del PIL pro capite. Se mai, si può tranquillamente affermare che fra Nord e Sud vi fossero delle differenze di ordine strutturale ed organizzativo in campo economico- produttivo. […] Il divario fra il Nord ed il Sud del Regno si cominciò a manifestare subito dopo l’Unità con l’introduzione della tariffa liberista che distrusse l’industria meridionale fortemente protetta.  […] Al colpo inferto all’industria meridionale con le tariffe liberiste postunitarie si aggiunse quello delle tariffe liberiste della metà degli anni ’80 per l’agricoltura. Era la rovina per l’economia del Mezzogiorno. […] L’avvio nel primo Novecento dell’industrializzazione italiana, seguì di poco, quindi, la rovina dell’economia meridionale. [… ] Nei primi anni del ‘900, dunque, il Nord si trova con una maggiore dotazione di infrastrutture e con una serie di iniziative imprenditoriali industriali, fattori che determinano il divario nelle condizioni economiche complessive con il sud. Nasce la questione meridionale» (G. Cantarella, A. Filocamo, Economia italiana e del Mezzogiorno, pp. 24-27, Università degli di Reggio Calabria, PDF, 2013).
Francesco Saverio Nitti, nel suo Il bilancio dello Stato dal 1862 al 1897, scrisse che l’Italia del Regno delle Due Sicilie portava in dote allo Stato unitario «minori debiti e più grande ricchezza pubblica», e ricordò che nel primo periodo si ebbe un notevole «esodo di ricchezza dal Sud al Nord»: «Nei venti anni che seguirono l’unità, le più grandi fortune furono fatte quasi esclusivamente dagli imprenditori di opere di Stato: e fra essi non vi erano quasi meridionali, come un documento parlamentare, presentato dall’on Saracco, dimostra a evidenza. La situazione della Valle Padana ha reso più facile la formazione delle industrie, cui la politica finanziaria dello Stato, in una prima fase, e in una seconda le tariffe doganali, hanno preparato l’ambiente; di quasi tutte le industrie di cui lo Stato italiano negli ultimi trenta anni ha voluto assumere la protezione, nessuna quasi è meridionale: dalla siderurgia allo zucchero, dalle industrie navali alle industrie tessili, ecc., tutto è nelle mani degli stessi gruppi capitalistici» (La finanza italiana e l’Italia meridionale, 1912).
(2) «Barrington Moore e altri sociologi hanno indicato la rivoluzione agraria come uno dei principali agenti della modernizzazione di ina società industriale. Il fatto che in Italia questo fenomeno non si sia verificato non è quindi senza conseguenze. Il complesso rapporto tra città e campagna ha modellato infatti i rapporti tra le diverse classi dirigenti, determinando quel compromesso tra è élites tradizionali e élites industriali che ha inciso profondamente sulla lentezza dei processi di modernizzazione della società italiana. alla formazione di questo “blocco storico” ha infatti contribuito la persistenza di una proprietà fondiaria forte e indipendente, in grado di controllare i meccanismi del sistema politico e di presiedere alla selezione delle classi dirigenti» (A. De Bernardi, Città e campagna nella storia contemporanea, in AA. VV. Storia dell’economia italiana, III, p. 275, Einaudi, 1991).
(3) F. S. Nitti, Nord e Sud, p. 11, 1900, Casa Editrice Nazionale Roux Roux e Viarengo, 1900.
(4) «Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori» (F. S. Nitti, Scritti sulla questione meridionale, p. 44, Laterza, 1958).
(5) A. De Bernardi, Città e campagna nella storia contemporanea.
(6) Ex uno Plures, su Limes 4/93
(7) Testamento politico di Carlo Pisacane consegnato il giorno prima di partire per l’impresa di Sapri alla giornalista inglese Jessie White.

SUL REDDITO DI SUDDITANZA

Una parte della borghesia desidera di portar
rimedio ai mali della società per assicurare
l’esistenza della società borghese (Marx-Engels).

Accetta un pasto e riceverai ordini (Lu Hsün).

Mentre con qualche ansia attendo di conoscere che ne sarà del cosiddetto reddito di cittadinanza, finito com’era prevedibile nelle sabbie mobili delle compatibilità economiche generali, intendo svolgere una breve riflessione sul significato sociale, politico e ideologico di quella misura altamente “innovativa” e “rivoluzionaria”.

Com’è noto, la richiesta di un reddito (di un sussidio, o come altro vogliamo chiamarlo) per i disoccupati non è nata “dal basso”, non è stata una rivendicazione avanzata dai proletari disoccupati nel corso di una lotta, ma si è sviluppata e precisata interamente sul terreno della contesa elettoralistica, come proposta demagogica e “populista”, avanzata soprattutto dal Movimento 5 Stelle, intesa 1. a catturare il consenso politico-elettorale di ampie fasce di proletariato meridionale e di piccola/media borghesia “proletarizzata”, e 2. a incanalare, controllare e stemperare la tensione sociale generata dalla crisi economica che imperversa in questo Paese ormai da dieci anni.

La richiesta peraltro ha avuto fin dall’inizio un preciso orientamento politico-ideologico, come attesta il concetto stesso di reddito di cittadinanza, di un sussidio cioè riconosciuto dallo Stato al disoccupato nella sua qualità di suddito (o cittadino) appartenente a una determinata nazione, quella italiana. L’impatto ideologico e psicologico sulle masse più povere del Paese è dunque chiaro: esse sono invitate a vedere nello Stato capitalistico non il Nemico da abbattere, ma la paterna e filantropica autorità che concede loro di vivere “dignitosamente”. Ciò sviluppa nei proletari sussidiati (potenzialmente a vita) un senso di ostilità nei confronti dei non cittadini (gli immigrati, ad esempio) (*) e di chiunque osasse remare contro lo Stato, criticarlo, combatterlo, e questo semplicemente perché lo Stato dà loro da vivere. Non si sputa sul piatto in cui si mangia! In Venezuela, ad esempio, i più agguerriti e feroci sostenitori del regime chávista sono quei proletari che vivono del sussidio statale basato sulla rendita petrolifera. «In questo momento è soprattutto il partito di Grillo & Casaleggio a essere molto interessato a spingere il pedale del “populismo socialmente orientato” perché intende crearsi un’ampia e durevole base di consenso clientelare-elettorale a cui attingere. Più che il modello “Prima Repubblica”, la cosa evoca ai miei occhi il modello chávista, naturalmente cambiando quel che c’è da cambiare: a cominciare dal fatto che il clientelismo “bolivariano” può contare sulla rendita petrolifera, mentre quello italiano può contare sulla fiscalità generale, come sa bene lo zoccolo duro dell’elettorato leghista: “Roma ladrona, la Lega non perdona!”» (Sovrano è il Capitale. Tutto il resto è illusione e menzogna).

Prima ho scritto «sussidiati potenzialmente a vita» perché una volta introdotta una misura di quel genere in un Paese come l’Italia, che ha una vasta area di capitalismo arretrato con relative magagne sociali, sarà difficilissimo poi toglierla senza suscitare violente reazioni da parte dei sussidiati, con ciò che ne segue anche in termini di consenso elettorale. In Italia ci vuole poco per passare dalla condizione di eroe osannato dalla folla ammassata sotto un balcone, a cadavere sbertucciato e calpestato dalla stessa folla. Faccio della facile metafora, si capisce.

Gran parte del debito pubblico italiano si spiega proprio con l’inerzia politica della “Prima” e della “Seconda Repubblica” nei confronti di un’organizzazione sociale sempre più insostenibile dal punto di vista economico e finanziario. Ad esempio, è facile parlare di spending review, se ne discute con insistenza dal 2012; molto più difficile è praticarla, perché si toccherebbero molti interessi, grandi e piccoli, e gli interessi, com’è noto, votano… È prevedibile che l’area capitalisticamente avanzata del Paese, che da sempre lamenta il parassitismo sociale di un Mezzogiorno che drena ricchezza senza crearne di nuova, cercherà di ostacolare in tutti i modi l’implementazione del reddito di cittadinanza, almeno nella sua versione integrale, cosa che già mette in allarme i leghisti, da sempre paladini degli interessi “nordisti” e che oggi, con le loro velleità nazionalistiche, rischiano di “meridionalizzarsi”.

Può il Paese con il più alto debito in Europa, la più bassa crescita economica e la più bassa produttività sistemica di tutto l’Occidente capitalisticamente avanzato distribuire milioni di “stipendi” senza ricevere nulla in cambio dai sussidiati? È questo il cruccio degli economisti e dei politici “più responsabili” di questo Paese, i quali inorridiscono solo al pensiero di un reddito di cittadinanza, che a pieno regime (è proprio il caso di dirlo) dovrebbe costare intorno ai 15 miliardi all’anno. Ma c’è chi ipotizza cifre molto più alte, tali da evocare l’inevitabilità di un “colpo di Stato” organizzato dai “poteri forti” nazionali e internazionali. Lo spread toccherà punte di inusitata altezza. E forse l’ex Cavaliere Nero, l’ex Male Assoluto di turno (quanti ne fabbrichiamo in Italia!), insomma Silvio Berlusconi potrà prendersi qualche rivincita: chi di spread colpisce… E poi, avvertono i “responsabili di cui sopra”,  «prima di trasferire ricchezza dall’alto verso il basso, bisogna crearla, questa benedetta ricchezza!» La socialdemocrazia svedese lo ha sempre insegnato: ingrassa la pecora e poi tosala un pochino, quanto basta a reggere la baracca capitalistica senza troppi affanni.

L’intenzione, ha detto Di Maio per rispondere alle obiezioni dei detrattori, «non è quello di dare soldi alle persone per stare sul divano»: chi riceverà un assegno mensile di circa 780 euro (il 60 percento del reddito medio della Repubblica) dovrà impegnarsi nella formazione e dovrà accettare le proposte di lavoro che gli verranno presentate dal Centro per l’impiego, come accade nei Paesi che da anni conoscono forme di sussidio statale simili al reddito di cittadinanza traendone un gran beneficio. C’è da dire che anche una parte del mondo imprenditoriale confida sull’effetto keynesiano sulla domanda di beni e servizi che la misura governativa potrebbe avere, con relativo aumento del gettito fiscale. Anche economisti liberisti come Milton Friedman e F. von Hayek ai loro tempi furono tutt’altro che contrari all’introduzione di un sussidio in denaro (non in beni di prima necessità e in servizi sociali) concesso dallo Stato ai “meno fortunati”, sia in vista dei virtuosi “effetti keynesiani” (virtuosi, beninteso, soprattutto per chi vive di profitti), sia come rafforzamento dell’ordine sociale in situazioni di alta disoccupazione.

Vedremo come nella situazione concreta italiana si tradurrà la misura governativa in questione, la quale per il movimento di Grillo e Casaleggio rappresenta una linea rossa invalicabile: o reddito o morte (del Governo Conte)! Per quanto mi riguarda la dubbia sostenibilità economica della proposta pentastellata non rappresenta un problema, non avendo io a cuore i sacri interessi nazionali, essendo un dichiarato irresponsabile. Tanto peggio tanto meglio? Magari!  Purtroppo il peggio (la bancarotta di una società, di un Paese) non genera spontaneamente il meglio (la coscienza, lo spirito di iniziativa, la speranza, la rivoluzione: «sì, campa cavallo!» Appunto).

Nella misura in cui il reddito di cittadinanza, in quanto reddito svinco­lato dall’attività lavorativa, è finanziato dallo Stato attingendo alla fiscalità generale, esso realizza di fatto una decurtazione più o meno pesante e diretta di salari e pensioni, comprese le pensioni degli ex lavoratori. Si tratta insomma di una “solidarietà” pelosa e rognosa che lo Stato chiede a tutti suoi sudditi per aiutare i fratelli d’Italia meno fortunati, più colpiti dalla globalizzazione capitalistica e dalle continue rivoluzioni tecnologiche, le quali creano una disoccupazione strutturale che la società non è in nessun modo in grado di eliminare, se non con mezzi malthusiani… Non dimentichiamo che il teorico di rifermento di Grillo su questo tema è sempre stato Jeremy Rifkin, forse il primo che ha parlato di «fine del lavoro».

I lavoratori che hanno la “fortuna” di generare plusvalore sono cordialmente invitati a produrne sempre di più per alimentare il fondo che finanzia il reddito non solo dei proletari disoccupati, ma di tutti quegli strati sociali (piccola e media borghesia) che sono precipitati nei piani bassi della scala sociale, cosa peraltro che accade sempre più spesso. Perché da qui non si scappa: solo il lavoro salariato produce la ricchezza che circola nella società nelle forme più disparate e nei modi più complessi, e proprio per questo difficilmente riconducibili alla fonte originaria. È su questa maledizione sociale che si basano tutte le forme di reddito (di cittadinanza, di esistenza, di inclusione) a carattere interclassista che circolano nel dibattito politico degli ultimi dieci anni. Una maledizione sociale che resta per l’essenziale incomprensibile soprattutto ai teorici del “Capitalismo cognitivo” (**).

Sempre più urgente appare la ripresa della “classica” lotta operaia per la diminuzione dell’orario di lavoro a parità di salario (tenendo conto della complessa organizzazione capitalistica del XXI secolo), per migliori condizioni di lavoro (riduzione dei ritmi produttivi ecc.) e di vita: salute, casa, servizi sociali (welfare).

Insomma, sul piano ideologico il reddito di cittadinanza rappresenta una vera e propria apologia della conservazione sociale: chi chiede “solidarietà” nei confronti dei disoccupati e degli ultimi è quello stesso Leviatano che si pone a difesa dei rapporti sociali che creano sempre di nuovo sfruttamento, precarietà, disoccupazione, miseria sociale e ogni sorta di disumanità. Reddito di cittadinanza? Chiamiamolo almeno con il suo vero nome: reddito di regime (politico e sociale) ovvero di sudditanza. Non si tratta di battersi contro l’introduzione di quel sussidio, lotta che apparirebbe priva di senso e del tutto incomprensibile agli occhi dei disoccupati e dei precari; si tratta piuttosto di denunciarne il carattere fortemente reazionario sul piano politico e sociale. Non c’è alcuna dignità né nel lavoro salariato (vedi Art. 1 della Costituzione), che implica la mercificazione dell’intera esistenza dei lavoratori (una disumana condizione che poi si espande come la peste fino a coinvolgere l’intera società), né nel reddito di cittadinanza. Questo è bene dirlo contro chi avversa la proposta pentastellata perché mortificherebbe «il senso e il valore del lavoro». Solo la lotta di classe conferisce dignità, senso e valore alla pessima condizione sociale dei lavoratori, i quali in Italia hanno subito per decenni la cattiva ideologia “lavorista” in salsa cattocomunista.

Mi si può obiettare che, comunque stiano le cose sul terreno della “teoria critico-rivoluzionaria della società”, rimane il fatto che un Governo cerca di dare risposte concrete a dei problemi sociali, che dei disoccupati forse prenderanno un reddito e che dei pensionati forse percepiranno una pensione più alta (pensione di cittadinanza), tutti fatti che fanno impallidire ogni astratta riflessione politica. Questa obiezione è più che fondata, essa anzi coglie in pieno la sostanza del problema, almeno per come io inquadro tutta la faccenda; questo problema oggi appare irrisolvibile se affrontato dal punto di vista anticapitalistico, non faccio alcuna fatica a riconoscerlo. «La verità è rivoluzionaria», diceva quello: ecco, appunto, almeno in questo voglio essere coerente! Oggi non solo non c’è alle viste una rivoluzione che possa aggredire la “questione sociale” alla radice, ma non si osserva nelle classi subalterne alcuna capacità di iniziativa autonoma su vasta scala, e forse nemmeno su scala assai più ridotta. L’iniziativa è saldamente nelle mani delle classi dominanti e del loro personale politico, di “destra” e di “sinistra”.

Tuttavia, a ben guardare, il problema qui evidenziato non rappresenta una sciagura solo per l’anticapitalista (e chi se ne frega!), ma soprattutto per l’intera umanità, la quale oggi si vede negata la stessa astratta possibilità di un’esistenza degna di essere definita umana. Dinanzi a questa immane tragedia la piccola frustrazione dell’anticapitalista appare perfino ridicola.

(*) «Abbiamo corretto la proposta di legge iniziale sul reddito di cittadinanza. È chiaro che è impossibile, con i flussi immigratori irregolari, non restringere la platea e assegnare il reddito di cittadinanza ai cittadini italiani» (Luigi Di Maio, Corriere della sera, 21/9/2018).
(**) Un solo esempio: «Per quanto riguarda la sfera del lavoro, occorre riconoscere che nel capitalismo cognitivo la remunerazione del lavoro si traduce nella remunerazione di vita: di conseguenza ciò che nel fordismo era il salario oggi nel capitalismo cognitivo diventa reddito di esistenza (basic income) e il conflitto in fieri che si apre non è più la lotta per alti salari (per dirla i termini keynesiani) ma piuttosto la lotta per una continuità di reddito a prescindere dall’attività lavorativa certificata da un qualche rapporto di lavoro» (A. Fumagalli, Il reddito di base come remunerazione della vita produttiva, pubblicato su: Aa.Vv., Reddito per tutti. Un’utopia concreta per l’era globale, Manifestolibri, 2009). Su Fumagalli e gli altri teorici del “capitalismo cognito” rinvio ai miei diversi post dedicati al tema:

MALEDETTI REDDITIERI!

CRIPTO-MONETA DEL COMUNE E “ACCIARPATURE MONETARIE”

SUL REDDITO UNIVERSALE DI FUMAGALLI

LE SUPERSTIZIONI COMUNARDE DI TONI NEGRI

PROFITTO VERSUS RENDITA

ACCELERAZIONISMO E FETICISMO TECNOLOGICO 2.0

SUL CONCETTO DI MISERIA SOCIALE E SUI PROUDHONIANI 2.0

LA VALORIZZAZIONE CAPITALISTICA AI TEMPI DI TONI NEGRI
FUGGO DAI CERVELLI IN LOTTA!

Vedi anche il saggio Dacci oggi il pane quotidiano.

YEMEN E SIRIA. DUE PAESI, LA STESSA GUERRA

untitledMentre l’attenzione dell’opinione pubblica occidentale è tutta concentrata sul macello siriano e sul tragico destino della popolazione civile rimasta intrappolata tra le macerie di Aleppo, nello Yemen si continua a morire: «Sanaa (Yemen), 9 ottobre 2016. È di 155 morti e oltre 500 feriti il bilancio ufficiale, seppur provvisorio, delle vittime del raid aereo compiuto oggi a Sanaa. Le bombe hanno colpito in pieno una sala dove era in corso un funerale del padre di un esponente di spicco dei ribelli sciiti Houthi (*). Nella sala c’erano circa 2 mila persone per partecipare ai funerali di Ali bin Al-Ruwaishan, padre del ministro dell’Interno del governo dei ribelli Houthi, Jalal al Ruwaishan. Tra gli esponenti di spicco dei ribelli sciiti yemeniti che hanno perso la vita in questo attacco c’è il sindaco di Sanaa, Abdel Qader Hilal. Il ministero degli Esteri iraniano ha condannato l’attacco così come il leader delle milizie sciite libanesi Hezbollah, che ha tenuto stasera un discorso pubblico in occasione delle celebrazioni di Ashurà a Beirut. Da parte sua la coalizione a guida saudita nega qualsiasi responsabilità per il raid sul funerale» (Quotidiano.net). Negare, negare sempre, anche contro ogni più bruciante evidenza: è, questa, una linea di difesa adottata con successo da tutti i criminali che possono vantare uno status di legittimità politica sul piano internazionale. Salvo inattesi rovesci sul fronte militare… La domanda che però dobbiamo farci per non rimanere vittime della guerra propagandistica degli Stati (di tutti gli Stati) è la seguente: chi giudica sulla legittimità etico-politica di un’azione bellica? La domanda può essere riformulata in questi altri e più generali termini: da quale prospettiva osserviamo il processo sociale (massacri bellici inclusi) mondiale?

Dopo l’ennesimo “incidente di percorso” in terra yemenita Ned Price, portavoce della Sicurezza nazionale USA, ha fatto sapere che gli Stati Uniti sono «molto turbati da una serie di attacchi ai civili»: «Alla luce di ciò che è accaduto adesso abbiamo cominciato a rivedere il mostro già abbastanza ridotto sostegno alla Coalizione e lo renderemo compatibile con i principi, i valori e gli interessi degli Stati Uniti, tra cui vi è la fine immediata di questo conflitto. La cooperazione con l’Arabia Saudita non è un assegno in bianco». I principi, i valori e gli interessi che ispirano la politica estera della prima potenza imperialista del pianeta non sono compatibili con l’uso indiscriminato della forza militare, come peraltro attesta nel modo più evidente l’intera storia degli Stati Uniti. Scherzo per allentare la tensione. Inutile dire che l’altro imperialismo da sempre ispirato da principi, valori e interessi che stanno al vertice della scala etica (sì, alludo alla Russia) gongola dinanzi al “turbamento” dei competitori a stelle e strisce. Nelle conversazioni “da bar” si dice: «Il più pulito dei due ha la rogna». Discutibile sotto l’aspetto dottrinario, la battuta rende bene l’idea.

Com’è noto, la Coalizione a guida saudita, costituitasi a marzo dello scorso anno e sostenuta politicamente e militarmente dagli Stati Uniti, dall’Inghilterra, dalla Francia, dall’Italia e dalla Spagna, è composta da Bahrain, Kuwait, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Marocco e Sudan; il “fronte sciita” che sostiene gli Houthi è guidato dall’Iran, potenza regionale in forte ascesa. «La partita a scacchi che si sta svolgendo tra Iran e Arabia Saudita non è solamente in Siria ma anche nei paesi della Penisola Arabica come lo Yemen. La guerra civile yemenita tra i ribelli Houthi, sostenuti da Teheran (che però nega), e le forze sunnite del governo di Abd Rabbo Mansour Hadi, appoggiate dai sauditi, ha raggiunto livelli critici dopo l’intervento militare della coalizione della Lega Araba volto a sconfiggere gli Houthi. L’intervento, criticato dall’Iran, non ha avuto i risultati sperati visto la resistenza delle forze sciite e la loro capacità di muoversi nelle zone montagnose di confine con l’Arabia Saudita. Nei giorni scorsi le forze Houthi hanno compiuto lanci di missili balistici verso e postazioni militari dei sauditi oltreconfine, che li hanno intercettati: i missili, secondo americani e sauditi, sono risultati di provenienza iraniana, cosa che constata l’esistenza di un supporto logistico di Teheran alle forze ribelli» (F. Cirillo, Notizie Geopolitiche). Sulla competizione fra “fronte sciita” e “fronte sunnita” rinvio al post Alcune considerazioni sul conflitto mediorientale.

Secondo Human Rights Watch, «Stati Uniti, Regno Unito, Francia, e altre nazioni occidentali dovrebbero sospendere tutte le vendite di armi all’Arabia Saudita, almeno fino a quando smetterà i suoi attacchi aerei illegali nello Yemen». I massacri causati dagli attacchi aerei “legali” vanno dunque bene? Lo so, si tratta di una domanda sciocca, tipica di chi irride l’aureo e umanissimo principio del “male minore”: la guerra è sempre brutta, si capisce, ma lo è di più se essa si dispiega in modo selvaggio, ossia se gli attori in campo non rispettano le leggi che il Diritto internazionale ha previsto anche per il conflitto armato fra gli Stati. Se tutti i Paesi si attenessero alle buone maniere prescritte dal Diritto internazionale, questo mondo sarebbe un luogo meno brutto e cattivo. Forse… Scusate, ma dinanzi a queste idiozie legaliste il mio piccolo cervello si rifiuta di funzionare, per cui mi tengo cara la sciocca ironia di cui sopra. A forza di ingoiare, anno dopo anno, pane e “male minore”, «stiamo creando nel mondo reale l’Inferno di Dante» (Tom Hanks). Io non sarei così ottimista…

Su un documento redatto lo scorso marzo dalle Nazioni Unite si legge che nello Yemen «gli attacchi sono avvenuti sui campi per sfollati interni e dei rifugiati; sui raduni civili, compresi i matrimoni; sui veicoli civili, sugli autobus, sulle strutture mediche, le scuole, le moschee, i mercati, le fabbriche e i magazzini di stoccaggio degli alimenti, sull’aeroporto di Sana’a, sul porto di Hudaydah e le vie di transito nazionali». Se uno Stato nazionale massacra la gente inerme, si tratta di una «legittima operazione bellica», o al più di un errore, di un effetto collaterale: dopo tutto, la guerra non è mai stata un pranzo di gala; se la stessa poco commendevole azione ha come protagonisti i cosiddetti “ribelli”, chiamati anche terroristi, ecco che magicamente ci troviamo dinanzi ad «inaccettabili azioni terroristiche». Due pesi e due misure? Esatto! Lo schema appena considerato naturalmente si ripete inalterato a diverse latitudini, come vediamo in Siria, in Turchia, in Israele, ovunque un “legittimo governo” è chiamato a tenere a bada dei “ribelli”, o “terroristi” che dir si voglia. All’Onu grandi e piccole Potenze si accapigliano intorno a queste distinzioni, le quali non hanno nulla a che fare con il cosiddetto Diritto internazionale astrattamente considerato (esattamente come quello interno alle singole nazioni, il Diritto internazionale non è che il diritto del più forte), mentre hanno molto a che vedere con interessi economici e geopolitici di grande peso, tale da schiacciare gli individui metaforicamente e, a volte, realmente. Per questo ho definito, con un trasparente intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo, Sistema Mondiale del Terrore la società che ci ospita, la cui violenza sistemica (economica, politica, ideologica, psicologica) non smette di crescere e di radicalizzarsi, con improvvise accelerazioni che sempre più spesso sono segnalate dallo scorrere del sangue, del sangue vero, e non solo da quello metaforico.

Anche il nostro “pacifico” Paese dà il suo non disprezzabile contributo alla carneficina di donne, bambini e vecchi che hanno la sventura di vivere nelle aree yemenite toccate dal conflitto. «L’Italia guarda con grande interesse al ruolo dell’Arabia Saudita, per la stabilità della regione, e al rafforzamento dei rapporti bilaterali tra i due paesi», ha dichiarato qualche giorno fa la Ministra della Difesa Pinotti, la quale il 4 ottobre si è recata in visita dagli alleati sauditi. «Al centro dei colloqui tra la ministra Pinotti e il re saudita ed in particolare il Vice principe ereditario e ministro della Difesa, Muhammad Bin Salman, vi sono stati nuovi “contratti navali”. “The talks are said to have focused on naval deals between both countries” – riporta testualmente il sito Tactical Report. Considerato che i colloqui erano tra ministri della Difesa non è difficile immaginare che si sia trattato di navi militari. Lo fa capire chiaramente l’agenzia di stampa saudita: “They discussed bilateral relations and ways to enhance them, especially in the defense field”. Non a caso, quindi, nella delegazione italiana era presente il Segretario Generale della Difesa e Direttore Nazionale degli Armamenti, il Generale di Squadra Aerea Carlo Magrassi. Per il ministero della Difesa il centro dei colloqui sarebbe invece stato “la formazione e l’addestramento militare”. “Durante il meeting si è parlato dello sviluppo della cooperazione bilaterale con un focus particolare sui settori della formazione e dell’addestramento militare” – riporta il comunicato ufficiale del Ministero. Di addestramento militare hanno sicuramente bisogno soprattutto gli avieri sauditi che da oltre un anno e mezzo stanno bombardando lo Yemen senza alcun mandato internazionale, ma sostenuti dall’intelligence di Stati Uniti e Regno Unito» (Unimondo.Org). La spessa cortina di silenzio mediatico che ha coperto la missione italiana in Arabia Saudita dimostra che quando vuole il nostro Paese sa ben recitare il ruolo della piccola ma seria potenza regionale dalle grandi ambizioni – quantomeno adeguate ai suoi interessi economici e geopolitici, vivaddio! E già che ci siamo: Evviva l’Italia! Ops… Il nazionalista che c’è in me per un istante ha preso il sopravvento, come quando assisto a una partita di calcio degli Azzurri; basta distrarsi un attimo, ed è fatta. Chiedo scusa al lettore devoto all’internazionalismo proletario!

«Chiediamo alla coalizione a guida saudita e ai governi che la supportano, in particolare Stati Uniti, Regno Unito e Francia, di garantire l’applicazione immediata di misure volte ad aumentare in modo sostanziale la protezione dei civili. Il fatto che staff medico e persone malate o ferite vengano uccise all’interno di un ospedale dice tutto sulla crudeltà e la disumanità di questa guerra». Così dichiarava Joan Tubau, direttore generale di Medici Senza Frontiere lo scorso 15 agosto, dopo il bombardamento aereo contro l’ospedale di Abs che provocò 19 morti e 24 feriti. Personalmente non ricordo nessuna guerra, lontana o vicina nel tempo, che non abbia avuto gli odiosi requisiti della crudeltà e della disumanità. Nessuna. Ma dai coraggiosi medici che corrono in soccorso delle vittime, non si può certo pretendere anche una concezione critico-rivoluzionaria del mondo; per come la vedo io, il problema non sta nella mancanza di “coscienza di classe” di Tubau e compagni, ma nell’impotenza sociale e politica delle classi subalterne del pianeta. La rituale marcia pacifista Perugia-Assisi si è svolta sotto gli auspici dello slogan francescano Vinci l’indifferenza; ma si tratta piuttosto di vincere l’impotenza, appunto.

A propositi di “concezione critico-rivoluzionaria” e di “coscienza di classe”! Scrive Piotr, un esponente del partito che combatte «l’egemonismo statunitense e il neoliberalismo» di stampo occidentale: «Il messaggio della Russia è chiaro: Signori (anzi “partner occidentali”), non ci spaventate. Odiamo la guerra ma siamo pronti a combatterla. E lo sapete bene. E sapete bene che quando la Russia deve difendersi può diventare brutale. Attenzione allora a due cose. Gli statunitensi pensano che sia possibile un’escalation, da uno stato di guerra circoscritto a uno generalizzato e nel frattempo vedere come reagisce l’avversario. Pensano ciò perché a parte la Guerra Civile hanno sempre combattuto le altre guerre al di fuori dai loro confini. I Russi invece avranno la guerra subito in casa. I missili della NATO stanno ora solo a 100 km da San Pietroburgo. La guerra per loro sarà per forza di cose da subito totale. Questo gli Europei lo capiscono (ci sono già passati), ma gli USA no. Ecco allora la seconda cosa a cui fare attenzione. Se gli USA, presi da disperazione e scelleratezza, arriveranno veramente a un passo dalla guerra con la Russia, la NATO si sfascerà. Basterà questo a salvarci? Ad Aleppo si gioca il destino del mondo». Personalmente non ho la stessa certezza di Piotr sull’assoluta importanza strategica di Aleppo, anche se ovviamente non sottovaluto (sarebbe davvero impossibile!) la dimensione geopolitica del conflitto che ha trasformato quella città in un abisso di violenze, di morte, di dolore. Ma non è sull’aspetto strategico e geopolitico della questione che intendo brevemente soffermarmi.

«Ad Aleppo si gioca il destino del mondo»: e sia! Ma di quale mondo si parla qui? Si tratta forse del mondo dominato dal Capitale, dagli Stati nazionali, dall’Imperialismo (mondiale e regionale, “occidentale” e “orientale”) e da ogni sorta di “brama di potere”? Non c’è dubbio. Ora, lungi dal condannare in blocco, “senza se e senza ma”, questo disumano mondo; il mondo appunto dello sfruttamento, dell’oppressione sociale e delle guerre, Piotr prende piuttosto posizione a favore di una cosca capitalista/imperialista: quella che riunisce tutte le nazioni nemiche degli Stati Uniti, a cominciare da quella Russia che «odia la guerra» ma non ne ha paura – a differenza del poco virile Occidente che preferisce lasciare ai suoi servi sciocchi mediorientali il lavoro sporco! La posizione qui presa di mira illustra perfettamente, e solo per questo ne faccio oggetto di critica sommaria, l’abisso che corre tra il punto di vista geopolitico (nel caso specifico orientato in senso antiamericano e filosovietico, pardon: filorusso) delle classi dominanti, espresso dai suoi intellettuali variamente orientati in senso ideologico (“realisti”, “idealisti”, “marxisti”, “liberisti”); e il punto di vista a esso antagonista che invita – ahimè inutilmente! – le classi subalterne di tutto il mondo a piantare un cuneo nel cuore del «drago dalle molteplici spire» (Sofocle), anziché sostenere una qualsiasi di quelle spire contro le altre.

Il 7 ottobre Piotr pubblica un altro articolo il cui titolo lascia davvero poco spazio all’immaginazione: L’ultima guerra. Leggiamo (e tocchiamo ferro, o qualche altro scaramantico articolo): «È col cuore grave che sono costretto a prendere atto che dal giorno 6 ottobre 2016 una guerra tra la Russia e gli USA è possibile in ogni momento. Una guerra che può avere devastanti effetti anche per noi. Per quanto sia orrendo e penoso parlarne, bisogna farlo, perché i grandi media nascondono questa serissima eventualità. Non ne parlano perché vogliono continuare a farci pensare a una guerra mondiale come a un videogioco e perché vogliono continuare a convincerci che lo Zio Sam alla fine prevarrà, perché è il più forte e perché è nel giusto, qualsiasi cosa faccia. […] L’unica possibilità di uscirne vivi è che l’impero si de-imperializzi, accetti un mondo multipolare e in quello negozi la propria nuova posizione. Il contrario della dottrina dei neocon. Noi, l’Italia e i Paesi europei, dobbiamo facilitare, promuovere questa inversione di marcia. Per farlo dobbiamo opporci alle politiche imperiali, non c’è altro da fare». Per il Nostro, come per molti altri “antimperialisti”, nel mondo esiste un solo vero polo imperialista: quello cosiddetto occidentale a guida statunitense. Le mosche cocchiere dell’”antimperialismo militante” lavorano notte e giorno, giorno e notte per dividere quel polo: «Occorre privilegiare i rapporti non coi settori disponibili a un olocausto nucleare ma con quelli disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Da questo punto di vista, è meglio tifare per l’”isolazionista” Trump o per l’”internazionalista” Clinton in vista delle prossime Presidenziali? Ardua risposta! Nel dubbio, il mio piccolo cervello mi invita (vedi il mio attuale stato di schizofrenia!) a mandarli entrambi a quel Paese, quello che piace tanto ai grillini.

cartina-moEcco dunque il mondo che piace a certi “antimperialisti” nostalgici della Guerra fredda: il «mondo multipolare», la “democrazia imperialista”, il pluralismo degli interessi nazionali. Ora, dal punto di vista delle classi dominate, si scorge forse qualche pur lieve differenza tra mondo unipolare, mondo bipolare e mondo multipolare? A me non pare; dalla mia prospettiva si tratta di tre differenti assetti geopolitici dello stesso disumano – o capitalistico – mondo. Ma Piotr non è d’accordo; egli vede agire nel mondo due opposte forze: quelle del Male, «disponibili a un olocausto nucleare» perché accecati da una demoniaca follia che si ribella anche agli interessi economici del Capitale e agli interessi politici degli Stati, e quelle del Bene, «disponibili ad adattarsi al mondo multipolare». Come si fa a non appoggiare le forze del Bene?! «Se, come penso, solo il potere politico è in grado di avere un progetto grandioso, occorre allora che negli USA riesca ad esprimersi un potere il cui grandioso progetto sia quello di non fare una guerra. Non sarebbe la fine dei problemi, perché l’inizio dei problemi è la cattiva infinità del processo di accumulazione. E quindi non è nemmeno la rivoluzione, ma non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Qui sottoscrivo, senza alcuna ironia (almeno ci provo!): «non si può fare nessuna rivoluzione se si è tutti morti». Prima dobbiamo conquistare la possibilità di rimanere in vita, e solo dopo, eventualmente, possiamo pensare di fare la rivoluzione. La logica di Piotr appare inattaccabile. Giungiamo alla conclusione: «È vero, spesso gli schemi si ripetono. Anche John Hobson all’inizio del secolo scorso implorava l’Impero Britannico di adeguarsi al nuovo mondo multipolare di allora per evitare una guerra mondiale. Ma l’Impero s’impuntò e così iniziò un lunghissimo conflitto armato segnato da due grandi battaglie. La prima fu chiamata I Guerra Mondiale e la successiva II Guerra Mondiale. L’Impero vinse nella conta finale dei morti, ma perse l’egemonia mondiale che passò agli USA. È vero, il genere umano c’è ancora, ma gli schemi non si ripetono nelle stesse condizioni. Mai. Le devastazioni della I Guerra Mondiale (che doveva essere l’ “ultima guerra”) superarono quelle di tutte le guerre precedenti, ma vennero ampiamente surclassate da quelle della II Guerra Mondiale (che doveva essere l’”ultima guerra”). Ma le devastazioni della III Guerra Mondiale non verranno superate da quelle seguenti perché non rimarrà più niente da devastare. Quella con molta probabilità sarà veramente l’ultima guerra». Come diceva il bravo cantante, lo scopriremo solo vivendo – o solo crepando, nella peggiore delle ipotesi, nel caso in cui dovessero prevalere, anche in grazia delle sciagurate posizioni qui espresse dal sottoscritto, le demoniache forze del Male.

Siccome mi sento inadeguato dinanzi alla stringente logica storica di Piotr, finisco questo modesto pezzo nascondendomi dietro l’autorità di un celebre antimperialista (senza le solite virgolette!): Herman Gorter, il quale nell’autunno 1914 scriveva quanto segue: «Causa di questa prima guerra mondiale è il capitalismo. Il capitalismo mondiale, che cerca di espandersi. Tutti gli Stati cercano piazze di smercio per i loro prodotti, cercano fonti di alti interessi pei loro capitali. L’imperialismo non vuole solo colonie, vuole anche sfere d’influenza per il commercio e un monopolio industriale e finanziario. […] Tutte le chiacchiere dei partiti borghesi e socialisti e dei loro organi, che si fa una guerra di difesa, e che si è stati costretti a farla perché si era aggrediti, non sono che un inganno, destinato a nascondere la propria colpa sotto una bella apparenza. Dire che la Germania o la Prussia o l’Inghilterra è la causa della guerra sarebbe tanto stolido e falso, quanto l’affermare che la crepa nata in un vulcano è la causa dell’eruzione. Da anni ed anni tutti gli Stati europei si armavano per questo conflitto. Tutti vogliono soddisfare la propria rapace avidità. Tutti sono egualmente colpevoli» (**). Tutti egualmente colpevoli, “aggressori” e “aggrediti”, perché tutti assoggettati alla Potenza sociale chiamata Capitale, un “Impero del Male” anonimo e dal carattere sempre più aggressivo – “a 360 gradi”: dalla sfera economica a quella politica e geopolitica, da quella culturale e ideologica a quella psicologica.

Più si rafforza la tendenza del Capitale a mettere ogni cosa e ciascuno nel tritacarne del processo economico-sociale chiamato a generare profitti e rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e più si rafforzano le spinte identitarie d’ogni tipo: politiche, culturali, linguistiche, religiose, etniche, razziali, sessuali (non a caso spesso faccio riferimento all’esibita virilità dello “Zar” Vladimir) e quant’altro. È questa maligna dialettica che bisogna comprendere per evitare di finire intruppati sotto questa o quella bandiera ultrareazionaria, in questa o quella tifoseria nazionale o/e imperialista – magari inseguendo l’”antimperialismo” (di nuovo le antipatiche virgolette!) a senso unico di certi ex filosovietici.

(*) «Il golpe degli houthi (sciiti), dietro al quale vi sarebbe l’Iran (che però nega), è arrivato nel gennaio 2015 dopo che per mesi avevano chiesto invano alcuni riconoscimenti come l’inserimento di 20mila appartenenti alla minoranza sciita nelle forze armate governative, l’assegnazione di 10 ministeri e l’inclusione nella regione di Azal, di Hajja e dei governatorati di al-Jaw. […] Si calcola che dall’inizio della guerra civile i morti siano già 7mila, di cui la maggioranza civili (G. Keller, Notizie Geopolitiche).(**) H. Gorter, L’imperialismo, la guerra mondiale e la socialdemocrazia, pp. 51-52, Edizioni Avanti!, 1920.

GUERRA E RIVOLUZIONE

guerras-punicas-2Conoscerete la verità ed essa vi renderà liberi (Gesù).
L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Mohammad).
La verità è rivoluzionaria (Lenin).

Per lo storico Franco Cardini, con il terrorismo jihadista l’Occidente si trova a dover fare i conti con una guerra sociale che usa la religione come mero pretesto: «Non illudiamoci. Questa non è una guerra di religione: è una guerra sociale, della quale è teatro tutto il mondo». Si tratta allora di chiarire i termini politici e sociali di questa guerra, di precisarne i contorni, anche ideologici, di coglierne la dinamica interna e di connetterla al più generale e unitario processo sociale mondiale. Nel suo piccolo, chi scrive ha cercato di dare un contributo alla comprensione di questa «guerra sociale» scrivendo diversi post sull’argomento, ai quali rimando i lettori, e la cui tesi centrale si può riassumere come segue: la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che di essa fanno i movimenti politico-militari al servizio di interessi economici, sociali e geopolitici ben definiti.

A proposito dell’evocata guerra sociale, e prima di entrare nel merito della questione, non posso non evidenziare il fatto che il Presidente degli Stati Uniti si è visto costretto ad abbandonare in fretta il vertice Nato di Varsavia, nel corso del quale gli Alleati hanno approntato nuove misure politico-militari idonee a contenere l’attivismo imperialista della Russia di Putin, per fronteggiare quella che molti analisti politici americani definiscono «una nuova guerra civile». «Obama ha la guerra in casa, e viene qua a intromettersi nelle vicende che riguardano il mio cortile di casa!», avrà pensato con un certo fastidio e con molto compiacimento il virile Vladimir. L’impiego del robot kamikaze per rendere inoffensivo il cecchino-vendicatore di Dallas è qualcosa che deve farci riflettere, auspicabilmente andando oltre le consuete argomentazioni eticamente corrette – come quelle che si aggrovigliano intorno all’uso dei droni nella «guerra asimmetrica» contemporanea – circa «la necessità di mantenere le garanzie dello Stato di diritto anche nella lotta al terrorismo». Ma su questo punto spero di ritornare quanto prima.

Dopo la strage di Dhaka (o Dacca) è riesplosa in Italia la polemica fra intellettuali e politici circa la vera natura del terrorismo di «matrice islamica». La scoperta della provenienza sociale dei terroristi («giovani rampolli di buona famiglia, che non avevano mai visto una scuola coranica in vita loro») implicati nel massacro dei nostri compatrioti ha ringalluzzito i sostenitori della natura sostanzialmente religiosa (islamica) del terrorismo che imperversa in mezzo mondo e che stressa non poco diversi quadranti geopolitici. Scrive ad esempio Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera del 7 luglio: «Dopo la strage di Dacca, abbiamo scoperto ancora una volta che i terroristi non sempre vengono dai ceti diseredati, non appartengono ai “dannati della terra”. Lo abbiamo ri-scoperto nel senso che qualcosa, nella nostra cultura profonda, ci impedisce di prendere atto una volta per tutte del fatto che non è, o è solo in parte e neppure quella principale, il disagio sociale ad armare la mano del terrorismo jihadista. Nel caso del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del globo, i terroristi erano figli addirittura delle classi agiate; e ce ne siamo molto stupiti, quasi avessimo dimenticato che Salah Abdeslam, protagonista degli attentati parigini del novembre scorso, veniva pur sempre da una famiglia di ceto medio che abitava in un dignitosissimo palazzo borghese. Gli esempi ulteriori non mancherebbero, almeno da quando la strage dell’11 settembre fu guidata dall’ingegnere egiziano Mohamed Atta, agli ordini di Osama bin Laden, figlio di un miliardario». Il lettore si prepari, adesso arriva il bello: «Ma è come se fossimo rimasti tutti discepoli di Marx e della sua idea che ideologie e religioni (dunque anche il fondamentalismo islamista) appartengono al mondo della “sovrastruttura”, laddove invece le cause vere dei fenomeni sociali e della storia in generale andrebbero cercate altrove, a livello della “struttura”, cioè dei rapporti sociali di produzione e, in sostanza, dell’economia. Un’idea particolarmente in sintonia del resto con i caratteri più profondi della cultura occidentale, che pone appunto l’economia al vertice di tutto, che da tempo ne ha fatto la dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?)». Con una tipica inversione di stampo ideologico, sempre per rimasticare abbastanza indegnamente i concetti marxiani, Belardelli presuppone «i caratteri più profondi della cultura occidentale», alla quale evidentemente il comunista di Treviri non sarebbe rimasto estraneo, a quella che è una realtà sempre più evidente: l’economia come «dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?)». Come si vede, è lo stesso critico del “materialismo storico” che si vede costretto ad ammettere il dominio dell’economico sulla vita degli individui, realtà che Marx si è “limitato” a penetrare concettualmente per scoprirne la dimensione storico-sociale; salvo poi far derivare, Belardelli, quel dominio (Marx parlava di «momento egemone») dai  «caratteri più profondi della cultura occidentale».

Fin quando la società rimarrà sul terreno della divisione classista fra dominanti e dominati, l’economia dovrà necessariamente porsi al centro della prassi sociale umana, fino ad assumere, com’è accaduto nel moderno Capitalismo, il carattere di una potenza sociale che prescinde dalla volontà degli stessi capitalisti singolarmente presi. Siamo alla ben nota metafora del Moloch che brama sacrifici umani d’ogni genere. Solo nella Comunità umana, dice sempre Marx, ossia nella società priva di classi sociali, la volontà organizzata e unificata degli individui potrà finalmente dominare la totalità del processo sociale, mentre oggi essi devono, per l’essenziale, subirlo. Insomma, materialista (“economicista”) è il Capitalismo! Non bisogna dimenticare che Marx si occupò della storia «sinora esistita» (o preistoria rispetto alla storia umana che, forse, verrà), la quale è appunto «storia di lotte di classi», le quali non raramente, anzi piuttosto frequentemente, hanno assunto l’aspetto di aspre e sanguinose contese religiose, cosa abbastanza risaputa e facile da comprendere; ma evidentemente non per  Belardelli, il quale infatti scrive: «C’è davvero qualcosa di singolare nel fatto che un’Europa che è stata dilaniata tra 500 e 600 dalle guerre di religione, e prima ancora – nella Francia meridionale del XIII secolo – è stata testimone di una crociata contro gli eretici (sterminati, a quel che dicono le cronache del tempo, al grido: “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”), c’è qualcosa – dicevo – di singolare nel fatto che ora quella stessa Europa non riesca a considerare seriamente la componente evidentemente religiosa del terrorismo islamico. Siamo così dimentichi di quel passato, che per timore d’essere tacciati di islamofobia ci sentiamo in dovere di dire e scrivere sempre una cosa ovvia, cioè che non tutti gli islamici sono terroristi». Qui è appena il caso di ricordare che ancora nel XVIII secolo, prima della Rivoluzione francese, l’ideologia dominante presentava la storia del potere di classe, con la sua necessaria proiezione geopolitica, nei termini di una storia sacra, di una storia avente cioè a fondamento la natura sostanzialmente divina della gerarchia sociale, la quale culminava nella sacra figura del Monarca, immagine terrena di un ben più alto e potente Monarca: Dio.

«Per di più, la centralità dell’economia si è accompagnata soprattutto in Europa a un processo impetuoso di secolarizzazione che ha reso un luogo comune l’idea che la religione sia il regno dell’illusione e della mera apparenza, quando non della superstizione; qualcosa che i “lumi” della modernità presto cancelleranno definitivamente, sicché non è da cercare lì, nei riferimenti religiosi, alcuna vera motivazione dell’agire umano, neppure dell’agire di un terrorismo che proclama apertamente la guerra santa contro i “crociati” e risparmia chi si mostra in grado di recitare i versetti del Corano». A parte la disarmante ingenuità di Belardelli, il quale prende sul serio ciò che il taglia teste nel Santo e Misericordioso nome di Allah pensa e dice di se stesso (1), qui va colta l’occasione per rilevare l’abissale distanza che corre tra il “materialismo storico” e la polemica illuminista e anticlericale del positivismo ateo, come viene fuori, tanto per fare un solo esempio, dalla citazione che segue: «Una religione che ha sottomesso a sé l’impero mondiale romano, e che ha dominato per 1800 anni la massima parte dell’umanità civile, non si liquida spiegandola puramente e semplicemente come un insieme di assurdità originate da impostori» (2). Ma qui non è il luogo adatto per diffondersi oltre intorno a ciò che distingue, sul piano storico, politico e concettuale, il punto di vista rivoluzionario-borghese, che a suo tempo dovette regolare i conti con il potere economico, politico e ideologico della Chiesa, e il punto di vista rivoluzionario “proletario” che nacque proprio come superamento critico della posizione radicale-borghese (3).

imag05«Tutti i movimenti di massa del medioevo», scriveva Engels, «portavano necessariamente una maschera religiosa, apparivano come restaurazioni del cristianesimo primitivo degenerato da secoli; ma di regola dietro l’esaltazione religiosa si nascondevano interessi mondani molto forti». In una nota, Engels abbozza un interessante confronto tra la funzione ideologica della religione islamica dopo la sua iniziale ed esplosiva (rivoluzionaria) espansione geografica, e la funzione ideologica della religione cristiana a partire dal dissolvimento della società medievale: «L’islam è una religione fatta per orientali, specialmente per gli arabi; quindi, da una parte, per città che esercitano commercio e industria, e dall’altra per beduini nomadi. Ma qui sta il germe di un urto che si ripete periodicamente. Le città diventano ricche, sfarzose, rilassate nell’osservanza della “legge”. I beduini, poveri e, per povertà, austeri di costumi, guardano con invidia e desiderio a queste ricchezze e a questi piaceri. Allora si raccolgono sotto un profeta per castigare i peccatori, per restaurare il rispetto per la legge e per la vera fede, e per intascare come ricompensa i tesori degli infedeli. Dopo cent’anni essi naturalmente si trovano proprio a quel punto deve stavano quegli infedeli; una nuova purificazione della fede è necessaria, sorge un nuovo profeta, e il gioco ricomincia. […] Sono tutti movimenti scaturiti da cause economiche e che hanno un travestimento religioso; ma, anche se vittoriosi, lasciano sopravvivere intatte le vecchie condizioni economiche. tutto resta quindi come prima e l’urto diventa periodico. Nelle sollevazioni popolari dell’occidente cristiano, al contrario, il travestimento religioso serve solo come bandiera e come maschera per l’assalto a un ordinamento economico antiquato; questo, alla fine, viene rovesciato, ne sorge uno nuovo, il mondo va avanti» (4). L’Occidente cristiano genererà la Rivoluzione borghese, con tutto quello che un simile evento ha presupposto e posto in termini economici, politici, scientifici, psicologici, in una sola ed esaustiva parola: sociali; l’Oriente islamico non conoscerà mai un evento rivoluzionario paragonabile a quello che ha dischiuso nel modo più radicale le porte all’accumulazione capitalistica nei Paesi occidentali, alla loro industrializzazione. Nei Paesi musulmani  la modernizzazione capitalistica sarà compiuta per l’essenziale dallo Stato, e comunque sotto lo stretto e diretto controllo dello Stato, secondo lo schema delle “rivoluzioni dall’alto”, non raramente innestate sul corpo del processo di decolonizzazione.

In ogni caso, a mio avviso sbaglia grossolanamente chi individua proprio nell’Islam, o in una sua declinazione particolarmente retriva (“anticapitalista”), la causa del mancato decollo borghese dell’ambiente islamico. «Non dalla religione musulmana, ma da ben altri fattori dipende il fatto che la borghesia [arabo-islamica] non abbia conservato o aumentato la potenza dei primi secoli dell’egira, che negli Stati dominati da una gerarchia aristocratica e militare essa abbia potuto pesare solo limitatamente sul potere politico, che la città non sia riuscita a dominare in misura sufficiente la campagna, che il capitale industriale non si sia sviluppato quanto in Europa o in Giappone, che la primitiva accumulazione capitalistica mai abbia raggiunto i livelli europei. Si possono rinvenire fattori permanenti, fondamentali, come la relativa densità della popolazione, che fornisce una manodopera abbondante e a buon mercato e non incita quindi a ricorrere a perfezionamenti tecnici; o come la millenaria tradizione di uno Stato forte richiesto in molti paesi orientali dalla produzione agricola, che dipende in larga misura dalle opere pubbliche. A tutto ciò è certamente necessario aggiungere l’imprevedibile concatenamento di circostanze storiche. E tra queste, notevole importanza ebbero le onde d’invasione proveniente dell’Asia centrale. […] Non esiste un’economia musulmana o cristiana, cattolica o protestante, francese o tedesca, araba o turca, dionisiaca o apollinea. Queste, tutt’al più, possono essere coloriture superficiali delle scelte economiche fondamentali. Le caratteristiche nazionali possono cagionare variazioni interessanti al modo di funzionamento dei sistemi: ma non possono, da sole, trasformare i sistemi nei loro tessuti fondamentali» (5). Con ciò è forse esaurito il quadro delle cause storico-sociali che spiegano il divario apertosi fra Occidente cristiano e Oriente musulmano a partire dal XVI secolo e resosi evidente alla fine del secolo successivo? Certo che no! Ma tra le tante cause di quel divario, il cui retaggio storico stiamo ancora scontando, il “fattore religioso” è davvero quello che spiega di meno e che, piuttosto, va spiegato alla luce del complessivo – e maledettamente complesso – quadro sociale di riferimento. E poi, ci si può forse stupire se dopo l’epopea eroica dell’egira abbia iniziato a circolare l’utopia di un’età dell’oro (riferita alla primitiva comunità islamica) fra gli strati sociali più poveri del “popolo musulmano”, fra i «dannati della Terra» sfruttati, maltrattati e avviliti dall’ostentazione di una ricchezza sempre più straripante ed esclusiva? Inutile dire che l’elaborazione di quel mito fu opera degli intellettuali del tempo, non importa se animati da cattiva o da ottima fede, e non certo della rozza massa dei diseredati, checché ne pensi il “marxismo” – almeno nella miserabile versione offerta da Belardelli.

«Noi abbiamo l’abitudine di pensare al Medioevo in modo molto eurocentrico. Secondo il quale il Medioevo è un periodo di stasi, uno iato tra il declino della civiltà mediterranea e il mondo moderno. Ma la transizione veramente importante non è stata l’Europa feudale semi-barbara, è stata la grande civiltà dell’Islam, non solo la più grande civiltà del suo tempo, ma forse la più grande civiltà della Storia. Una civiltà che comprendeva una moltitudine di gruppi etnici ed era molto creativa e ricettiva, con uno slancio verso l’innovazione e la sperimentazione che era sconosciuto anche ai greci. Stiamo parlando di una civiltà tollerante per lo standard dei tempi, in cui cristiani ed ebrei potevano vivere in pace sotto il governo islamico, anche se non con eguali diritti, cosa che non aveva certo riscontro nell’Europa medievale cristiana. Poi improvvisamente le cose cambiarono, e gli islamici si trovarono superati da quelli che consideravano i barbari d’Europa, anche se è un improvvisamente molto relativo. Fu allora che cominciarono a chiedersi in che cosa avessero sbagliato. Il fallito assedio di Vienna del 1683, registrato dagli storici islamici come “una catastrofe”, portò al trattato del 1699 in cui i cristiani vittoriosi per la prima volta dettarono le condizioni all’Impero Ottomano. Da allora, per 300 anni, il mondo musulmano è in ritirata ovunque, e questo ha portato a un sentimento generale di sconfitta e di vergogna per esser dominati da miscredenti. Sono convinto che sia questa la vera origine della rabbia con cui ci confrontiamo oggi». Così Bernard Lewis in un’intervista rilasciata l’11 settembre 2002 al Corriere della sera. Come si vede Lewis rimane ancorato a una concezione superficiale e idealista del processo sociale mondiale, e difatti egli trascura di menzionare l’ineguale sviluppo del Capitalismo nelle diverse aree del pianeta (ma anche nelle singole nazioni), le rivoluzioni borghesi che in Europa (in primis, Olanda, Inghilterra e Francia) minarono alle fondamenta i vecchi rapporti sociali precapitalistici e le istituzioni politiche a essi corrispondenti, il colonialismo, l’imperialismo e molto altro ancora. Ciò che dunque rimane, è la schiuma ideologica del processo storico-sociale («Durante la guerra Iran-Iraq degli anni ’80 entrambi gli schieramenti fecero largo uso di propaganda in cui si accennava a fatti accaduti nel Settimo Secolo, sicuri di essere capiti dalla gente comune»), la quale ovviamente ha la sua importanza (per dirla con Marx, anche l’ideologia «diviene una forza materiale appena s’impadronisce delle masse»), ma solo se riferita al contesto generale, sociale e geopolitico, appena abbozzato. Solo così si può capire, ad esempio, l’uso ideologico/strumentale che le classi dominanti del mondo musulmano hanno fatto in passato e continuano a fare del «sentimento generale di sconfitta e di vergogna per esser dominati da miscredenti». Purtroppo sono le masse dei nullatenenti quelle più esposte e sensibili alla retorica populista a sfondo laico (tipo «socialismo arabo») o religioso (tipo khomeinismo o fondamentalismo sunnita). Tenere in caldo il fanatismo religioso delle masse, per poterlo mobilitare alla bisogna anche (soprattutto!) contro gli interessi delle stesse masse, è cosa che offre mille esempi, nel lontano come nel recente passato (pensiamo alla guerra a sfondo etnico-religioso che insanguinò la ex Jugoslavia negli anni Novanta), e a qualsiasi latitudine.  Detto en passant, l’uso della questione palestinese che i regimi del Vicino e del Medio Oriente hanno fatto dal Secondo dopoguerra in poi si inscrive perfettamente in questo quadro, e dispiace che molti “anticapitalisti” occidentali hanno dato credito alla demagogia “antimperialista” di quei regimi.

Che concreti interessi materiali e politici possano trovare nell’ideologia, anche a carattere religioso, un potentissimo strumento di difesa e di espansione è cosa che supera le capacità di comprensione di non pochi intellettuali, la cui totale assenza di profondità concettuale e di dialettica li porta a una lettura volgare e macchiettistica di quella che essi credono sia la “concezione materialistica della storia”. «I terroristi erano figli addirittura delle classi agiate»: come se il malessere, il disagio, l’estraniazione (il non sentirsi mai a casa propria) e altro ancora fossero una triste prerogativa degli strati sociali più brutalizzati sul piano economico dal Dominio! Come se la disumanità di questo mondo non toccasse in qualche modo, anche solo potenzialmente, tutti gli individui, a partire da quelli che circostanze di vario genere hanno reso più sensibili e vulnerabili. Con ciò non penso neanche lontanamente di tracciare la biografia dei terroristi cosiddetti islamici, cerco piuttosto di ridicolizzare, attraverso una riflessione d’ordine generale, il concetto di “disagio sociale” che hanno in testa gli intellettuali che prendono di mira il “materialismo storico” senza averne capita una sola tesi.

Il già citato Cardini mostra di saperla assai più lunga di Belardelli sulle cose di questo mondo hobbesiano: «Il Bangladesh è, al tempo stesso, uno dei paesi a maggior tasso di sviluppo (è il secondo esportatore al mondo di prodotti di abbigliamento, con uno sviluppo annuo del PIL di oltre il 7%). Come fa notare Alberto Negri su “Il Sole” di stamattina, l’export di tessile e abbigliamento bengalesi è passato in quindici anni dal poco meno di 5 miliardi di dollari del 2001 a oltre 25 nel 2015. Si è parallelamente sviluppata nel paese una ricca e potente oligarchia imprenditoriale: nello stesso parlamento, fatto di 300 membri, almeno il 10% (una trentina) possiede delle fabbriche (ma in realtà sono di più, col sistema dei prestanome). Imprenditori e mediatori commerciali sono diventati sproporzionatamente ricchi, possiedono barche da diporto e mandano i figli a studiare in prestigiose università estere. Ma questo è il punto. Questi straricchi sono i “rappresentanti del popolo”, i garanti del suo sviluppo democratico e degli standards della sua modernizzazione all’occidentale. La stragrande maggioranza del popolo rappresentato da questi signori, però, è poverissima, e – continua Negri – “sopravvive con salari irrisori e un reddito medio pro capite annuo inferiore ai 2000 dollari” (circa 6 dollari al giorno, 180 al mese: anche se in Africa c’è di peggio…). Ma in realtà molti guadagnano meno: esistono operaie che lavorano 14 ore al giorno per 40 euro al mese (6). In queste condizioni, in altri tempi, si sarebbe sviluppato forse un forte movimento sociale: ma oggi le rivendicazioni dei diritti dei lavoratori sono ridotte a zero, e ciò è stato senza dubbio una grande vittoria del capitalismo internazionale e delle lobbies. Ma il prezzo che stiamo pagando per l’abnorme arricchimento di una minoranza è questo: il radicarsi di un sempre più forte e feroce jihadismo che dice di cercar la giustizia nel nome di Dio. Se c’illudiamo di batterlo solo con misure militari, ci sbagliamo. Ed è del tutto cretino ribattere che gli attentatori del primo luglio erano tutti di famiglia abbiente (con ciò sottintendendo che il movente sociale non ci sarebbe). È regola storica che le avanguardie rivoluzionarie appartengano spesso alle classi dirigenti: vi siete dimenticati dei principi Bakunin e dei principi Kropotkin della Russia zarista? Non avete mai sentito parlare della ribellione dei figli contro i padri? Non vi sembra che proprio la partecipazione di membri di strati sociali privilegiati (e allevati all’occidentale) a movimenti eversivi sia una prova in più del fatto che i “valori” occidentali stanno fallendo mentre la contraddizione tra le chiacchiere sulla pace e la libertà e la realtà dello sfruttamento dei popoli è sempre più stridente?» Qui la riflessione di Cardini sembra poter convergere con quella di Belardelli, il quale infatti scrive: «Il fondamentalismo islamico si presenta così come l’ultima, e in un certo senso al momento unica, ideologia radicalmente anticapitalistica e antioccidentale». Donatella Di Cesare (Corriere della Sera) è dello stesso avviso: «A contrastare l’egemonia del sistema capitalistico non è più solo la sinistra internazionalista. Lungi dall’essere il terzo incomodo, l’islam appare l’unica potenza capace di imporre un universalismo militante che si ripromette di essere l’avvenire stesso di questo mondo». Parlare di «ideologia radicalmente anticapitalistica» a proposito dell’Islam, anche nella sua versione radicale-fondamentalista, rasenta il ridicolo, e ciò peraltro ci dice ancora una volta quanto indigente (faccio dell’eufemismo, è chiaro) sia il concetto di “anticapitalismo” che hanno in testa la generalità degli intellettuali e dei politici. Di “anticapitalismo” si parlò anche a proposito della “rivoluzione khomeinista” di fine anni Settanta, e sappiamo com’è andata a finire; non pochi “marxisti” occidentali delusi dall’«imborghesimento» dei tradizionali partiti “comunisti” si gettarono a corpo morto nella nuova/ennesima – supposta – «esperienza rivoluzionaria», salvo poi portare a bilancio l’ennesima disillusione, senza possedere peraltro le capacità di comprendere la radice teorico-politica dei loro abbagli “rivoluzionari”, cosa che li ha portati a reiterare i vecchi errori.

Mille-e-una-notte-evScrive Richard Falk, ricordando la sua entusiastica adesione alla «Rivoluzione Islamica» divampata in Iran nel 1978 e culminata con la cacciata dello Scià il 17 gennaio 1979: «Sono ritornato dall’Iran con un senso di eccitazione per quello a cui avevo assistito e sperimentato, con la sensazione che il paese avrebbe potuto dare al mondo un nuovo e necessario modello politico progressista che univa la compassione per il popolo nel suo complesso a un’identità spirituale condivisa. […] C’era una sensazione straordinaria di unità e di solidarietà sociale che sembrava coinvolgere tutta la popolazione, in quel momento, superando divisioni di classe e di etnie, e portando perfino quelli che si identificavano in un’appartenenza religiosa, a legarsi con elementi laici liberali. È stato un momento di mobilitazione storica, e sebbene non si potesse conoscere il futuro, l’energia positiva che veniva rilasciata e che abbiamo sperimentato era notevole. Si sentiva quando si partecipava a dimostrazioni gioiose di vari milioni di persone a Tehran per festeggiare la partenza dello Scià e la vittoria della rivoluzione. Questa effusione di affetto e felicità dava credibilità alle nostre speranze che l’Iran come società liberata  sarebbe progredita per creare una forma umana e caratteristica  di modo di governare. È stato non molto tempo dopo che quello che sembrava così promettente degenerò in un processo che era profondamente inquietante, con gli oppositori maltrattati gravemente e l’emergere di una nuova autocrazia a base religiosa che sembrava così priva di scrupoli come quella l’aveva preceduta.  Khomeini è apparso come il capo supremo di questo tipo di regime brutale. […] È stato un errore di percezione, una forma estrema di  pio desiderio,  sottovalutare o non essere riusciti prima a comprendere le potenzialità negative della Rivoluzione Iraniana, quando ho visitato il paese alle fine del 1978, e di nuovo all’inizio del 1980  dopo la crisi degli ostaggi [statunitensi]? O è stato giusto dare voce alle potenzialità positive che sembravano apparire in modo così irrefutabile durante quei momenti di eccitazione e di unità collettive, come sono state anche espresse, dalla maggior parte delle persone con le quali ho parlato durante la visita in Iran del 1979 in varie città del paese?  Žižek e Badiou hanno ragione di separare così nettamente la visione rivoluzionaria dai suoi reali risultati umani penosi, o è un esempio incriminante della irresponsabilità del pensiero radicale che apprezza in modo infantile gli ideali rivoluzionari mentre ignora la saggezza conservatrice  del pensiero conservatore serio che ci avverte dei risultati diabolici  di ogni sforzo di abbandonare  improvvisamente le istituzioni già esistenti e le relazioni tra classi? La nostra specie è destinata a vedere sempre distrutti i suoi sogni di un futuro giusto e sostenibile a causa degli effetti deformanti di lotte a favore o contro nuove intese della autorità di governo e dei rapporti tra classi? In altre parole, siamo condannati a bandire i nostri sogni dal dominio della politica responsabile e limitare i nostri sforzi a iniziative riformatrici marginali? […] Žižek cerca di distinguere l’adeguatezza dell’entusiasmo e del desiderio, e la reale deformità degli eventi. Facendo questa valutazione, Žižek condivide il punto di vista del filosofo francese Alain Badiou, e del drammaturgo Samuel Beckett: ”Meglio fare un disastro per fedeltà all’evento che un non-essere di indifferenza verso l’evento. Si può continuare a migliorare nel fallimento, mentre l’indifferenza ci sommerge sempre più profondamente nel pantano dell’imbecillità”». Mi scuso con il lettore per l’ennesima lunga citazione.

Mi chiedo: è corretto porre la questione nei termini di una scelta tra «fedeltà all’evento» e «indifferenza verso l’evento»? Non si tratta piuttosto, per un soggetto che non vuole inseguire l’evento, che non vuole esserne alla coda, di capire innanzitutto la natura storica, politica e geopolitica dell’evento di cui si tratta? Non si può essere critici verso un evento senza peraltro sottovalutarlo né, ancor meno, ignorarlo solo perché non possiamo influenzarlo direttamente?

Nel 1978 avevo sedici anni, già l’anno prima avevo deciso di essere un “marxista rivoluzionario” e le manifestazioni oceaniche delle masse iraniane non potevano dunque essermi indifferenti. E difatti ne ero entusiasta, letteralmente (scrissi anche una specie di poesia intitolata Il pavone maledetto, dedicata ai giovani iraniani massacrati dall’esercito nelle strade di Teheran), benché non comprendessi nel loro autentico significato storico, sociale e geopolitico (vedi il legame del regime iraniano d’allora con gli Stati Uniti, Israele e il Sudafrica) quegli eventi e li seguissi dalla televisione. E anch’io rimasi sconcertato e deluso dalla bruttissima piega che la “rivoluzione iraniana” prese ben presto: anche esteticamente l’Ayatollah Khomeini urtava non poco la mia sensibilità “eurocentrica”!  Ma avevo pur sempre sedici anni! A un ragazzino neofita della “politica rivoluzionaria” si può senz’altro perdonare l’entusiasmo poco fondato sul piano dell’analisi politica e della prospettiva storica. Insomma, avevo l’età giusta per sbagliare.  Poi, col tempo, scoprii che personaggi molto più grandi di me, e che davano del tu (così almeno si diceva) al “marxismo” (vedi Foucault) si erano lasciati incantare dalla “rivoluzione iraniana” esattamente come dei ragazzini digiuni di teoria e di prassi. Intendo dire che un approccio autenticamente critico-radicale alla “rivoluzione iraniana” era allora possibile e avrebbe permesso al “marxista” occidentale di fondare in modo adeguato una posizione politica sul processo sociale iraniano di trentotto anni fa – Dio come passa il tempo! Quell’approccio, ad esempio, avrebbe permesso di individuare e denunciare il ruolo che ebbero il partito stalinista Tudeh e la piccola borghesia organizzata nei Fedayn nell’opera di sabotaggio delle rivendicazioni economico-sociali che provenivano dal proletariato e dalla massa dei contadini poveri, e che mal si accordavano con il fronte unito nazionale voluto dalle forze politiche laiche e religiose dell’Iran interessate unicamente a un cambio di regime politico-istituzionale.

Insomma, non si tratta affatto di gettare secchi di acqua fredda sull’entusiasmo “rivoluzionario” dei protagonisti e degli spettatori di un Evento, ma piuttosto di dotare quell’entusiasmo di un’adeguata capacità critico-analitica, per evitare che la sua cecità porti acqua al mulino del Dominio, così astuto e pronto quando si dà l’occasione di “mettere a valore” energie intellettuali, fisiche e psichiche che non riescono a bussare alla giusta porta.

«Foucault aveva individuato il potenziale utopico di quella rivoluzione, la politica non è mai un mero calcolo di interessi strategici, ma è l’affermazione di un “Evento rivoluzionario”. L’errore iniziale di valutazione Foucault l’ha riconosciuto. Il khomeinismo non era una politica dell’emancipazione. Ma il suo problema era un altro: come si fa a creare un territorio liberato che sfugge alla presa dell’ordine esistente?» (7). Problema quanto mai complesso, ostico, importante, almeno per chi si pone sul terreno della rivoluzione anticapitalista. Vero è che l’approccio storico-politico dell’intellettuale sloveno agli eventi (penso alla sua interpretazione dello stalinismo, alla sua adesione al maoismo, alla sua partecipazione alla cosiddetta “sinistra radicale” e così via) spesso non aiuta a orientare nella giusta direzione (anzi!) il pensiero che aspira all’autentica radicalità.

Concludo! Quando leggo di «avanguardie rivoluzionarie» (Cardini), di «ideologia radicalmente anticapitalistica» (Belardelli) e di «sinistra internazionalista» che sarebbe rimasta spiazzata dal radicalismo universalista dell’islam militante (Di Cesare) non posso fare a meno di sottoporre a critica ogni singola parola, ogni singolo concetto. È d’altra parte vero, dal mio punto di vista tragicamente vero, che il mondo continua a denunciare la vacanza della soggettività rivoluzionaria (delle classi dominate e sfruttate che si costituiscono in «partito rivoluzionario», per dirla con l’Ayatollah di Treviri), e questo però non ha nulla a che fare con la «ideologia radicalmente anticapitalistica» e con la «sinistra internazionalista» (Žižek? Varoufakis? Toni Negri?) evocate in questo articolo.

(1) «Mentre l’Occidente discetta di al-Qa’ida e Is, nell’attacco al ristorante di Dacca emergono le responsabilità di organizzazioni terroristiche locali. Il jihadismo bengalese ha una lunga storia e amicizie importanti in Arabia Saudita e Pakistan. Il marchio del califfato garantisce un ritorno mediatico senza precedenti – e forse un nuovo giro di finanziamenti» (F. Marino, Limes, 5/07/2016).
(2) F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, 1894, in Sulle origini del cristianesimo, p. 52, Editori Riuniti, 1975.
(3) Scriveva il “giovane” Marx: «Il fondamento della critica religiosa è: l’uomo fa la religione; e non la religione fa l’uomo. E veramente la religione è la coscienza e il sentimento che ha di se stesso l’uomo, il quale non è giunto ancora al dominio di se stesso o l’ha nuovamente perduto. Ma l’uomo non è niente di astratto, un essere rannicchiato fuori del mondo. Chi dice: “l’uomo”, dice il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una capovolta coscienza del mondo, perché essa è un mondo capovolto» (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in La questione ebraica, p. 93, Newton, 1975). Di qui l’invito marxiano a non preoccuparsi tanto dei «fiori immaginari della catena», dell’«oppio» che almeno lenisce i dolori della «creatura oppressa», ma della catena stessa, del mondo capovolto (perché le condizioni oggettive dominano l’uomo, e non viceversa) fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e dunque radicalmente e necessariamente disumani e disumanizzanti.
(4) F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, pp. 18-19.
(5) M. Rodinson, Islam e capitalismo, p. 79, Einaudi, 1968.
(6) Il crollo, nel 2013, della fabbrica di prodotti tessili di Dhaka portò per qualche giorno al centro dell’attenzione dei media mondiali le spaventose condizioni di vita e di lavoro dei nullatenenti del Bangladesh. «Millecentoventisette. Le ricerche si sono fermate qui, la contabilità si è arrestata a questo spaventoso numero di vittime, certificando la più grande tragedia industriale della storia del Bangladesh. Inutile proseguire, impossibile ripetere il miracolo del 14 maggio, quando una donna fu trovata viva sotto le macerie, diciassette giorni dopo il crollo dell’edificio Rana Plaza, il 24 aprile, a Savar, periferia di Dacca. Un immobile fatiscente di otto piani, di cui tre abusivi, in cui lavoravano migliaia di persone, in gran parte donne, impegnate nel fabbricare t-shirt, camicie, jeans, poi venduti sui mercati occidentali con il sigillo di marchi noti al grande pubblico. La storia del tessile in Bangladesh è costellata di incidenti mortali. Trentuno, in gran parte incendi, dall’inizio degli anni Novanta, con un bilancio di circa 1700 morti. All’origine, sempre gli stessi motivi: sicurezza carente, soprattutto in caso di evacuazione, sindacati deboli, proprietari onnipotenti, spesso legati alla politica. Trenta tra i più grandi titolari di fabbriche tessili siedono al Parlamento di Dacca» (Linkiesta). Dopo aver negato recisamente, la Benetton ammise la propria presenza nella fabbrica tessile crollata in Bangladesh. La “trasparenza” si vende bene. Comunicato Ansa: «Tweet del Papa alle persone coinvolte nel crollo: “Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia di Dhaka, che Dio conceda conforto e forza alle loro famiglie”». Amen!
(7) Slavoj Žižek.

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CMYK baseQuattro anni di mattanza, e non sentirli. Anche perché nel frattempo siamo stati distratti da altri bagni di sangue occorsi qua e là nel vasto mondo. Per non parlare della crisi ucraina, della crisi (fra tragedia e farsa) greca e dell’insorgenza del Califfato Nero a pochi chilometri dalla Sicilia, a proposito del quale ieri Renzi, da Sharm el-Sheikh, ha dichiarato che bisognerà quanto prima intervenire in Libia prima che sia troppo tardi. Segno che l’attivismo egiziano in Cirenaica comincia a destare qualche preoccupazione nella classe dirigente del Belpaese. La Libia “insiste” pur sempre nel nostro cortile di casa!

Rimane il fatto che sono trascorsi appunto quattro anni dal 15 marzo del 2011, quando migliaia di persone scesero in piazza ad Aleppo e Damasco, le due città più grandi della Siria, per protestare contro il regime del Presidente Bashar al-Assad. Fu una delle prime manifestazioni di dissenso di massa della storia recente del Paese. Nei giorni successivi, il regime reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare l’opposizione. In poche settimane le proteste si allargarono a tutta la Siria. A maggio Assad fu costretto a schierare l’esercito nelle strade. Le timide aperture economiche e politiche (più economiche che politiche, in verità) cui sono stati costretti i vecchi regimi arabi per sopravvivere allo tsunami della globalizzazione capitalistica*, sono state sufficienti perché il vaso di Pandora delle contraddizioni e delle magagne sopite per decenni si frantumasse. La transizione pacifica ed “equilibrata” (ossia centrata sul compromesso tra vecchi e nuovi interessi) dal vecchio al nuovo regime non sempre è possibile, come ha sperimentato anche Mubarak. Anche perché l’insidioso conflitto sociale è sempre in agguato.

L’opposizione siriana, sobillata e illusa dai nemici esterni della Siria (dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti**), raccolse la sfida del regime e passò dopo qualche esitazione sul terreno dello scontro militare aperto. Da quel momento, la popolazione siriana è presa tra due fuochi, dal mio punto di vista egualmente ultrareazionari e quindi da non sostenere e anzi da combattere politicamente sulla scorta, per così dire, di un minimo salariale di “internazionalismo proletario” – lo so, roba aliena per i teorici dell’alleanza con «l’imperialismo più debole».

Insomma, abbiamo a che fare con una “sporca guerra” che ha causato finora 220mila morti (solo nel 2014 i morti tra i civili sono stati almeno 76mila), una media di 25mila feriti al mese, diversi milioni di rifugiati, oltre 10 milioni di sfollati ancora sequestrati nell’inferno siriano. Nel 2014 i bambini che hanno avuto bisogno di aiuto sono stati 5,6 milioni: il 31 per cento in più rispetto all’anno precedente. Un inferno coi fiocchi, non c’è che dire. E domani entriamo nel quinto anno di «una tragedia senza fine», «la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale». A mio modesto avviso «la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale» rimane la Società-Mondo del XXI secolo che rende possibile su questo pianeta ogni sorta di sfruttamento, di sofferenza e di violenza. Ma queste sono mere opinioni, si capisce. Andiamo ai fatti!

«A quattro anni dall’inizio del conflitto in Siria, questa guerra continua a vivere di una violenza brutale che non fa distinzione tra civili e combattenti, né rispetta lo status di protezione del personale e delle strutture sanitarie», ha dichiarato Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere. Secondo Human Rights Watch «Il governo siriano sta facendo piovere bombe di barili esplosivi sui civili a dispetto di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) votata all’unanimità, all’inizio di quest’anno». Vatti a fidare delle Risoluzioni targate Nazioni Unite! In effetti, l’esercito fedele al regime sanguinario di Assad sta facendo un largo uso delle cosiddette bombe a botte (barrel bombs), molto efficaci quando si vuole massacrare, storpiare e terrorizzare una popolazione inerme in poco tempo e in economia. Pare che gli effetti di una barrel bombs (esplosivo misto a pezzi di metallo) siano a dir poco orribili. La parola, come si dice, agli esperti:  «La barrel bomb è in sostanza un barile di acciaio, riempito di materiale esplosivo, schegge di ferro e spesso anche con materiale infiammabile come la benzina. Una volta sganciata dall’elicottero, oltre a provocare impressionanti danni materiali, la deflagrazione coinvolge anche le zone circostanti, soprattutto a causa delle schegge di acciaio contenute nel barile. L’effetto materiale è ovviamente devastante: tuttavia, il motivo che spinge l’esercito siriano all’utilizzo di tale arma è soprattutto l’effetto psicologico che sprigiona. Se da un lato, infatti, le armi regolari riescono – seppur con margini di errore – a discriminare tra differenti bersagli (militare, civile e così via), la barrel bomb non fa nulla di tutto ciò. Infatti, l’effetto combinato di schegge, benzina e materiale esplosivo rende impossibile anche solo prevedere sino a dove l’esplosione provocherà delle conseguenze, provocando un vero senso di terrore sia sulla popolazione civile che sui ribelli» (G. Farsetti, Europae, 30 aprile 2014).

Naturalmente il leader baathista amico di molti Social Sovranisti (notare l’acronimo: SS) italiani ha negato di conoscere cosa siano le barrel bombs, anche messo dinanzi alle schiaccianti prove fotografiche e televisive (ormai l’Orrore va in diretta streaming, e così il pubblico di casa ha modo di avvezzarsi): «Usiamo altre armi e bombe per contrastare i terroristi e difendere i civili, e d’altra parte ognuno è libero di fare ciò che vuole nel suo paese». Una risposta impeccabile, degna del ruolo escrementizio che egli ricopre al servizio di particolari interessi nazionali e sovranazionali – che fanno capo all’Iran, alla Russia e alla Cina.

Sempre secondo Human Right Watch «Il governo siriano sta usando mezzi e metodi di guerra che non distinguono tra civili e combattenti, rendendo gli attacchi indiscriminati e quindi illegittimi». Ma è almeno dalla Spagna 1937 che l’aviazione militare non discrimina più tra “civili” e “combattenti”! Di più: sono proprio i “civili” l’obiettivo strategico più importante da colpire, per affrettare la resa senza condizioni del nemico. Come disse una volta Hitler, supplicato dai suoi ultimi fedelissimi perché salvasse i pochi quartieri di Berlino risparmiati dai democratici bombardamenti aerei, «in questa guerra non ci sono civili: il fronte è ovunque». Tesi analoghe fanno parte del dibattito politico e culturale occidentale a partire dalla Grande Guerra, con una significativa anticipazione: la guerra franco-prussiana del 1870-71.

Invocare la legittimità internazionale in materia bellica significa fare dell’involontario cinismo. Né più né meno. Perché come sempre a giudicare della legittimità della carneficina sono i rapporti di forza, e il Diritto giusto è sempre quello affermato da chi vince sul campo – e il “tavolo diplomatico” è un’estensione di questo campo, è la continuazione della guerra con… . Il cinismo delle cose va dunque messo in questione radicalmente, anche perché lo sforzo di mitigare il Moloch attraverso Dichiarazioni e Petizioni si dimostra sempre di nuovo non più che una pia illusione. Di più: un inganno al servizio dello status quo.

«Dire che l’85% delle luci della Siria restano spente durante la notte forse farà aumentare i visitatori di qualche sito web e potrà anche essere “scientificamente” interessante, ma non potrà far capire qual è la situazione in Siria. E, soprattutto, non spiega come e perché la maggiore organizzazione internazionale del mondo, le Nazioni Unite, in Siria, abbia miseramente fallito» (A. Mauceri, Notizie Geopolitiche). Forse perché si tratta di un «covo di briganti», per esprimermi leninianamente, chiamato a ratificare e a difendere i rapporti di forza fra le Potenze sanciti dalla Seconda Carneficina mondiale? Non sarà che all’ONU non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia? Avanzo solo delle ipotesi, intendiamoci. Qui nessuno ha la verità in tasca! È altresì vero che qui nessuno è così sciocco da farsi delle illusioni “umanitarie” sull’ONU.

 

* Il processo sociale che chiamiamo globalizzazione capitalistica ha messo in crisi equilibri di potere tanto sul terreno geopolitico (ossia nel confronto fra le grandi, medie e piccole potenze, fra imperialismi mondiali e fra imperialismi, più o meno “straccioni”, regionali), quanto su quello politico-sociale nazionale. Tutto l’edificio capitalistico mondiale, da Nord a Sud, da Ovest a Est, è stato scosso dal terremoto capitalistico che dura ormai dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando appunto il processo di globalizzazione subì una brusca accelerazione, registrata dai sismografi come “rivoluzione” – o “controrivoluzione”, punti di vista – neoliberista (reaganismo, thatcherismo, finanziarizzazione dell’economia, ecc.) e come ascesa degli ex Paesi poveri (Cina e India, in primis) al vertice del Capitalismo mondiale. Naturalmente questo terremoto non è stato causato, come sono inclini a pensare la gran parte degli storici e degli analisti geopolitici, dal trionfo del Capitalismo sul Comunismo (o «socialismo reale») come esito della Guerra Fredda. Questo per il semplice fatto, almeno a mio modo di vedere, che ciò che allora (e purtroppo ancora oggi) veniva rubricato come “Comunismo” non era che un Capitalismo di Stato gravato da molte e alla fine fatali magagne. La storia del Capitalismo mondiale è punteggiata da brusche accelerazioni, le quali si registrano soprattutto in corrispondenza di acute crisi economico-sociali. Come osservava Marx, per il Capitalismo le crisi rappresentano sempre un punto di svolta positivo. Salvo impreviste “precipitazioni rivoluzionarie”…

Dicevo che tutto l’edificio mondiale è stato scosso violentemente dal processo sociale della globalizzazione, e la crisi scoppiata nel 2008 ha mostrato le crepe che si sono aperte negli anni nella sua struttura. Non si comprendono le cosiddette “Primavere Arabe”, né gli eventi europei degli ultimi anni (accelerazione nella “germanizzazione” dell’UE, conflitto nell’Est europeo, ecc.), se non alla luce di questo quadro generale.

Il terremoto capitalistico scuote dunque equilibri di potere internazionali e nazionali, e spinge le masse più povere del pianeta a rivendicare una ricchezza vista magari solo in televisione e su Internet. Ma la “colpa”, ovviamente, non è della tecnologia massmediologica occidentale, come pensano certi ideologi ammalati di feticismo. Così come la delusione e la frustrazione delle masse giovanili mediorientali (e dei giovani immigrati arabi di seconda e terza generazione che vivono in Europa) non si spiegano certo tirando in ballo una supposta cattiva interpretazione del Corano.

* * «Già nel 2014 l’ex Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha ammesso in modo sorprendente che l’Isis “è stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler mettere in piedi una guerriglia anti al-Assad credibile. La forza di opposizione che stavamo creando era composta da islamisti, laici e da gente nel mezzo: l’incapacità di fare ha lasciato un grande vuoto che i jihadisti hanno ormai occupato. Spesso sono stati armati in modo indiscriminato da altre forze e noi non abbiamo fatto nulla per evitarlo”. […] A fronte di questo quadro John Kerry ha detto due giorni fa in un’intervista alla Cbs che “alla fine dobbiamo negoziare » (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 17 marzo 2015). Scrivevo lo scorso agosto: «La “proposta indecente” di Bashar el Assad agli odiati nemici americani ha fatto molto rumore. Molto rumore per nulla, a giudicare dalla freddezza con cui il Presidente Obama sembra aver accolto la “generosa” iniziativa politico-diplomatica del rais siriano. Ma la situazione è, come si dice, fluida, e scenari impensabili solo pochi giorni fa oggi possono concretizzarsi a dispetto di ogni logica nutrita a pane e ideologia – filo o anti-occidentale». Alla fine pare che la strategia sanguinaria del macellaio di Damasco stia avendo successo. Complici l’Iran e la Russia, si capisce.

 

 

LA RESA INCONDIZIONATA DEGLI AMICI DEL MACELLAIO DI DAMASCO

HOMS-C~1Almeno una qualità va, a mio modesto avviso, riconosciuta a Diego Fusaro, nostalgico della Monarchia Russa in guisa “sovietica”: la schiettezza. Egli condivide le ragioni del regime sanguinario siriano e non ne fa un mistero, anzi!  Scrive infatti il nostro: «senza esitazioni occorre essere solidali con lo Stato siriano e con la sua eroica resistenza all’ormai prossima aggressione imperialistica» (Siria, la demonizzazione preventiva, Lo spiffero, 26 agosto 2011). Mentre alcuni “antimperialisti” di casa nostra continuano a nascondersi dietro la magica – e risibile – formula del «sostegno al popolo siriano» Fusaro la mette giù chiara, con schiettezza, appunto.

L’articolo citato è tutto teso a dimostrare come il male (Capitalismo, Imperialismo, sfruttamento, reificazione) stia tutto e solo dalla parte della Monarchia Occidentale egemonizzata dall’Imperialismo americano, mentre il famigerato macellaio di Damasco vi recita la parte del criminalizzato, più che del criminale. E difatti il nostro stigmatizza «la reductio ad Hitlerum» del dittatore siriano operata dai sicofanti dell’Imperialismo occidentale per preparare ideologicamente e psicologicamente l’opinione pubblica mondiale alla prossima aggressione contro la Siria. «La Siria è oggi presentata mediaticamente come l’inferno in terra». A rischio di passare per servo sciocco degli americani, e anche degli israeliani, ricordo che la Siria oggi è realmente, e non solo mediaticamente, un inferno. Certo, il regime di Damasco e i suoi alleati regionali (Iran) e mondiali (Russia e Cina) devono confutare la cosa, o quantomeno capovolgerla di segno, attribuendo la responsabilità dell’inferno ai «terroristi» e ai «disegni reazionari dell’imperialismo occidentali».

Prevengo subito possibili equivoci e dichiaro forte e chiaro che dalla mia prospettiva tutti gli attori in campo: dal dittatore siriano al Presedente americano, da Putin a Emma Bonino, da Hollande ai leader cinesi, e via di seguito; dal mio punto di osservazione, dicevo, tutti i protagonisti dell’ennesima «crisi umanitaria» appaiono dei criminali, e ciò in una “declinazione” politica del concetto che rinvia alla necessità, per le classi dominate d’ogni parte del mondo, della lotta di classe rivoluzionaria come unica strada da percorrere per lasciarsi definitivamente alle spalle l’orrore della guerra, generale o locale che sia, e la pena a vita dello sfruttamento capitalistico. Come ho scritto in altri post dedicati all’inferno siriano tutti i protagonisti in campo: i realisti e gli insorti (o «terroristi» dal punto di vista del regime siriano) sono altrettanti alberi a cui le masse diseredate sono invitate a impiccarsi nel nome di una causa che appare ultrareazionaria da qualsiasi parte la si guardi.

im 2Per Fusaro «La Siria, come Cuba e l’Iran, è uno Stato che resiste e che, così facendo, insegna anche a noi Occidentali che è possibile opporsi all’ordine globale che si pretende destinale e necessario». Attenzione: il nostro non allude solo a una resistenza di carattere nazionale avversa all’ingerenza del nemico esterno, una prassi che nel XXI secolo appare comunque ultrareazionaria a chi maneggia un minimo sindacale di “internazionalismo proletario” (escludo quindi da questa rubrica gli ex e i post stalinisti, i teorici del terzomondismo e i teorici della pseudo dialettica, di matrice maoista, “nemico principale-nemico secondario”); Fusaro chiama in causa nientemeno che la resistenza anticapitalistica. Infatti, agli occhi del Capitale occidentale il crimine del dittatore siriano sarebbe questo: egli «non si è piegato alle sacre leggi di Monsieur le Capital». La Siria (ma anche l’Iran, Cuba, il Venezuela) come Nazione Proletaria! La ridicola cosa non suona nuova alle mie italiche orecchie.

«La Siria, come si diceva, è uno dei prossimi obiettivi militari della monarchia universale. È, al momento, uno dei pochi Stati che ancora resistono alla loro annessione imperialistica all’ordine statunitense». Qui si cela il fatto, peraltro macroscopico, che nel “suo piccolo” anche la Siria è parte integrante di un ordine imperialistico (mondiale e regionale), e l’atteggiamento assunto sulla crisi “umanitaria” dall’Iran, dalla Russia e dalla Cina la dice lunga sulla realtà delle cose, sempre al netto della propaganda filosiriana dei massacratori di Damasco ripresa con tanto zelo da non pochi “antimperialisti” di casa nostra. Per questi “antimperialisti” d’accatto tutti i Paesi (Russia e Cina compresi!) che si oppongono agli Stati Uniti sono “oggettivamente” antimperialisti e, almeno stando a ciò che scrive Fusaro, pure “oggettivamente” anticapitalisti. Miracolo della dialettica! Ovvero: dalla mosca cocchiera alla dialettica cocchiera.

Che le classi dominate hanno tutto l’interesse a rigettare ogni sorta di ordine imperialistico, a cominciare da quello radicato nel proprio paese (leggi Italia, nella fattispecie), è un concetto che deve risultare necessariamente inconcepibile a chi si è nutrito per tutta la vita di miti reazionari, tipo «socialismo reale» e resistenza antifascista. E difatti Fusaro conclude la sua dichiarazione di resa incondizionata al regime siriano citando il Partigiano Johnny  di Fenoglio, ossia ricordando gli eroi (i partigiani) di una guerra imperialista (da tutte le parti in conflitto) fatta passare come una guerra di liberazione nazionale e politica. Quando la smetteranno le classi dominate di farsi scannare sull’altare di Monsieur le Capital?

boninoIn attesa di risposte convincenti, ecco la mia “piattaforma politica”: Contro l’intervento cosiddetto “umanitario” in Siria. Soprattutto contro gli interessi dell’imperialismo italiano e la sua eventuale partecipazione nell’operazione “umanitaria”, non importa se all’interno della cornice NATO, se sotto l’egida dell’ONU o (ipotesi oggi alquanto
azzardata) nel quadro della Comunità europea. Contro tutti gli imperialismi, mondiali e locali. Contro lo spirito nazionalista e patriottico, veleno per tutti gli individui a qualsiasi latitudine. Contro il regime sanguinario di Damasco e contro i suoi nemici che aspirano a sostituire al potere gli attuali macellai per perpetuare il vecchio dominio di classe. Per l’autonomia di classe, sempre e comunque, su ogni terreno di iniziativa politica.

MA CHE POPOLO D’EGITTO!

11638171_smallPubblico due miei brevi “pezzi” postati su Facebook ieri (Egitto!) e oggi come contributo alla riflessione intorno ai fatti egiziani. Rinvio anche a:
SI FA PRESTO A DIRE “RIVOLUZIONE”!
TEORIA E PRASSI DELLA «RIVOLUZIONE».
A proposito della «Primavera Araba»

MA CHE POPOLO D’EGITTO!

Chi oggi dice ai militari egiziani: «Bravi, avete fatto quel che andava fatto, ma adesso, per favore, restituite il potere al popolo», mostra, nascosta dietro un imbarazzante quanto sottilissimo velo di ingenuità, tutta la sua indigenza politica e analitica. Solo chi non conosce la storia dell’Egitto moderno può guardare con simpatia all’esercito, strumento di sfruttamento economico diretto (vedi il ruolo che esso ha giocato e continua a giocare nell’economia egiziana, come d’altra parte in quasi tutte le economie dei Paesi un tempo «in via di sviluppo», Cina compresa), di violenta repressione del conflitto sociale, di capillare controllo sociale e di promozione delle ambizioni di potenza della nazione nella delicata area geopolitica di sua “competenza”.

L’esercito è parte in causa nella guerra tra fazioni borghesi (nell’accezione storico-sociale, e non banalmente sociologica, della locuzione) che accompagna ormai da molti anni il lento processo di “modernizzazione” della società egiziana.

E solo chi è impigliato nella rete dell’ideologia dominante (borghese) può usare il concetto di «popolo», il quale, in Egitto e altrove, cela una realtà sociale fatta di classi, semi-classi, ceti e di tante stratificazioni sociali comunque irriducibili a quel concetto. In Egitto come in ogni altra parte del mondo il «popolo» è una parolina magica evocata dai “sicofanti” per far scomparire la divisione classista della società e il rapporto sociale di dominio e sfruttamento che informa l’attività “umana” in tutto il pianeta. Soprattutto nel XXI secolo il «popolo» è una truffa tentata ai danni dei dominati.

Personalmente mi auguro una rapida emancipazione dal velenoso spirito patriottico e “populista” delle «masse diseredate», in Egitto e dappertutto.

11638176_smallEGITTO!

Riflettendo alla radio sul «colpo di Stato popolare-militare» che è andato in scena (è proprio il caso di dirlo) in Egitto, ieri sera Carlo Panella ha ripreso, invertendolo, il noto aforisma marxiano: «la prima volta come farsa, la seconda come tragedia». Panella, che si vende ai media come esperto di cose mediorientali, paventa per l’Egitto un bagno di sangue al cui confronto gli incidenti che hanno segnato la prima “rivoluzione” egiziana, quella che pensionò (sempre con l’aiutino del papà-esercito)  Mubarak, appaiono ben poca cosa, un gioco da ragazzi. Scrive oggi Panella: «I sedici morti della notte di martedì nei cortili dell’Università di al Azhar e nel quartiere popolare del sud del Cairo di Giza segnano una “svolta storica” nel mondo arabo. Sono ben più che i nuovi caduti del rivolgimento iniziato nel gennaio del 2011: sono le prime vittime del jihad tra piazza araba e piazza araba. Sono l’immediata, diretta conseguenza dell’irresponsabile appello al “martirio” della sua piazza lanciato lunedì da Mohamed el Beltagui, segretario generale del partito Libertà e giustizia, braccio politico dei Fratelli musulmani: “Il martirio per prevenire questo golpe è quello che possiamo offrire ai precedenti martiri della rivoluzione!”» (Il Foglio, 4 luglio 2013).

Vedremo come andranno le cose. Tuttavia è possibile dire fin da ora che la contesa politico-religiosa non costituisce affatto il cuore del problema, il quale pulsa piuttosto, come sempre, nei processi sociali che lavorano, per così dire, il tessuto sistemico di un Paese, colto nel suo necessario rapporto con il resto del mondo. Dimensione sociale e dimensione geopolitica vanno infatti sempre tenute insieme, soprattutto quando si analizza la realtà di un Paese storicamente così significativo e strategicamente assai importante (decisivo nell’area mediorientale e nel mondo arabo) com’è indubbiamente l’Egitto. Ho trovato interessanti, per la comprensione di ciò che sta accadendo in quel Paese, tre articoli pubblicati da Limes, che mi sono permesso di sintetizzare per metterli a disposizione di chi ne fosse interessato.

Egitto, assalto e saccheggio alla sede dei fratelli musulmaniDopo il golpe, l’Egitto può ancora salvarsi
di Alessandro Accorsi – 4 luglio 2013

Mohamed Morsi non è più il presidente egiziano.È stato deposto dai militari con un golpe, anche se molti si rifiutano di chiamarlo così.

I manifestanti si rifiutano perché, effettivamente, il colpo di Stato non sarebbe stato possibile senza le enormi sollevazioni popolari che hanno portato 30 milioni di egiziani in strada. Si rifiutano, anche se quello che è successo non si può chiamare propriamente rivoluzione e non sarebbe stata parimenti possibile senza i carri armati in strada a evitare scene da guerra civile.

Alle forze armate non conviene riprendere il potere anche perché, finalmente, sono tornati ai livelli di prestigio persi dopo l’esperienza di governo dello Scaf. Il potere logora chi ce l’ha in Egitto, quindi meglio una “democrazia controllata” di un governo militare.

Si rifiutano di chiamarlo golpe – pur denunciando l’intervento dei militari – anche gli Stati Uniti, che da un lato si sono resi conto di aver scommesso sul cavallo sbagliato, dall’altro chiedono un ritorno immediato del potere ai civili. Chiamarlo golpe, inoltre, comporterebbe la sospensione da parte del Congresso degli aiuti militari e civili necessari per far ripartire l’economia e, soprattutto, garantire la stabilità del comunque instabile confine con Israele.

Gli Usa sono stati gli ultimissimi alleati dei Fratelli Musulmani, difendendo fino a poche ore prima dello scadere dell’ultimatum dei militari la legittimità del presidente Morsi. Dopo aver appoggiato Mubarak e le dittature militari nella regione e in giro per il mondo, Obama aveva scommesso sull’Islam politico e sulla possibilità di spingere i Fratelli a moderarsi e democratizzarsi. L’ha fatto, però, appoggiandosi ai falchi del movimento.

11638175_smallLa vera storia della rivoluzione egiziana
di Sam Tadros – 4 febbraio 2011

L’esercito egiziano è immensamente popolare, grazie alla mitologia della politica: è in tutti i gangli del regime, ma la popolazione lo vede come ad esso alieno. Lo considera pulito (non come il governo, corrotto), efficiente (costruiscono i ponti in fretta), e soprattutto sono gli eroi che hanno sconfitto Israele nel 1973 (inutile discutere al riguardo con un egiziano). Quando i carri armati e le truppe sono apparsi per strada la gente ha pensato che l’esercito stesse dalla loro parte, qualsiasi cosa ciò significasse. Il presidente continuava a rimandare la propria dichiarazione: il popolo si stava preparando all’annuncio delle dimissioni di Mubarak.

Dal 1952 il regime egiziano si basa su una coalizione fra esercito e burocrati che risponde al modello di Stato autoritario di O’Donnell. L’esercito controlla l’economia e il potere reale: ex-generali sono a capo di aziende statali e ricoprono posizioni amministrative di alto livello. L’esercito stesso ha un enorme braccio economico tramite il quale controlla dalle imprese di costruzioni ai supermercati. Le cose hanno iniziato a cambiare verso la fine degli anni Novanta.

Tutti sanno che Gamal Mubarak, il figlio del presidente, stava studiando per succedergli. In realtà Hosni non è mai stato entusiasta di questo scenario, vuoi perché  aveva intuito le ridotte capacità del figlio, vuoi perché  l’esercito non sembrava troppo convinto della successione. La moglie di Hosni invece era totalmente dalla parte del figlio. Gamal piano piano saliva i gradini dell’Ndp, trascinando su due gruppi della coalizione al potere: i tecnocrati dell’economia con studi in Occidente e fiducia nel Washington Consensus e la crescente business community. Insieme stavano cambiando l’economia egiziana e il partito.

I tecnocrati stavano facendo miracoli: l’economia sotto il governo Nazif mostrava picchi di crescita clamorosi. La moneta era deprezzata, affluivano investimenti dall’estero, aumentavano le esportazioni. Persino la crisi mondiale non si faceva sentire più di tanto. Il problema drammatico era che nessuno si prendeva la briga di spiegare e difendere questa politica economica (che stava portando il paese verso un sistema capitalistico vero e proprio) all’opinione pubblica egiziana.

Tale processo di ristrutturazione dell’economia colpiva la popolazione, abituata a dipendere per tutti i suoi bisogni dal governo e intontita dalla stanca retorica socialista. Non conta molto che il paese stesse crescendo: la gente non se ne rendeva conto. Non che i benefici non arrivassero a tutti, ma ci si era abituati allo Stato che faceva da balia, e non si capiva perché  non dovesse più essere così.

Gli uomini d’affari hanno approfittato dei miglioramenti economici, e iniziato ad avere aspirazioni politiche. Hanno avuto il seggio parlamentare che dava loro l’immunità, ma con Gamal hanno fiutato qualcosa di più grande. Questi voleva rimodellare l’Ndp come un vero partito più che come una massa di organizzazioni che operavano dentro lo Stato. I businessmen come Ahmed Ezz (il magnate dell’acciaio) grazie a Gamal hanno preso il controllo del partito, e con esso del potere.

All’esercito Gamal e i suoi compari non sono mai piaciuti. Lui non ha mai fatto il militare, e i suoi amici stavano mettendo in discussione il potere delle forze armate nell’economia (con le riforme liberali dei tecnocrati) e nella politica (ora che il partito diventava un’organizzazione seria). All’improvviso per fare carriera in Egitto non serviva più la leva ma una tessera di partito.

Egitto, assalto e saccheggio alla sede dei fratelli musulmaniEgitto: una rivoluzione a spese dell’economia
di Giovanni Mafodda – 18 febbraio  13

L’economia egiziana, pesantemente toccata dall’inizio della rivolta, ha iniziato a vedere momenti particolarmente difficili dal 2011, ben prima dell’elezione di Mohammed Morsi a presidente. Le previsioni di crescita per quest’anno non superano il 2%. La disoccupazione giovanile è al 25%, cifra che spaventa in un paese dove solo 3 cittadini su dieci sono sopra i trenta anni. Declino del turismo, blocco degli investimenti, inflazione crescente, forte indebitamento e deficit statale alto, caratterizzano, per il resto, un’economia che appare oltre ogni possibilità di autonomo recupero. Le uniche fonti di valuta estera a non aver subito i contraccolpi della rivolta anti Mubarak di due anni fa derivano dagli introiti dei transiti navali nel Canale di Suez e dalle rimesse degli emigranti.

Lo scorso novembre, l’Egitto aveva raggiunto un accordo preliminare con il Fondo monetario internazionale per un finanziamento di 4,8 miliardi di dollari, a un tasso di poco superiore all’1%, il più basso sul mercato della finanza internazionale, nell’ambito di un programma che prevede un cambio sostanziale del tanto deprecato sistema dei sussidi e una nuova, impopolare, impostazione in tema fiscale. Il presidente Morsi è stato però costretto a un precipitoso dietro front, dopo la fortissima reazione della popolazione alle previste misure di incremento degli introiti fiscali mediante l’imposizione di nuove tasse su acqua, carburante e consumi elettrici, nonché su alcuni beni di largo consumo come sigarette, bevande e liquori. Tutte misure pubblicizzate come altamente progressive, ma in realtà largamente penalizzanti per le classi media e meno agiata. “Come stringere la cinghia attorno a pance che già hanno fame”, è stato osservato.

Le riserve in valuta estera sono scese da 36 miliardi di dollari registrati prima della destituzione di Mubarak – a 15 miliardi e vanno assottigliandosi sempre di più, a un ritmo di circa un miliardo di dollari al mese. Una condizione che la stessa banca centrale egiziana ha definito “minima e a un livello critico”.

Com’è opinione generale nello stesso governo, la priorità numero uno per Morsi è mettere mano alla disastrata condizione fiscale del paese, che presenta un doppio deficit di bilancia dei pagamenti e di budget statale, e prossimo a una crisi di bilancio che sarebbe devastante. Servono circa 23 miliardi di dollari per tamponare il deficit previsto per l’anno fiscale 2012/2013. La stessa cifra fu necessaria anche per finanziare il deficit del bilancio precedente, il primo post-rivoluzionario, appianato poi con i proventi della raccolta di risparmio interno e delle riserve finanziarie in valuta. Non fu semplice neanche allora, ma lo stato finanziario del paese risulta oggi molto più indebolito ed il compito è sicuramente più gravoso.

Con un accordo siglato al Cairo dal presidente Morsi e da Catherine Ashton, capo delle relazioni esterne dell’UE, a novembre Bruxelles ha promesso all’Egitto un pacchetto di aiuti per un totale di 5 miliardi di euro per i prossimi due anni. La Banca europea degli investimenti e la Banca europea di ricostruzione e sviluppo garantiranno 2 miliardi di euro ciascuna, mentre 1 miliardo è previsto arrivare dai paesi appartenenti all’UE.nel maggio del 2011, le trattative per un prestito di 3,2 miliardi di dollari da parte del Fmi furono interrotte anche a causa dell’opposizione salafita all’interno dell’ora disciolto parlamento. Quest’ultima sosteneva che il prestito fosse contro la Sharia in quanto i previsti tassi di interesse erano da considerarsi come usura, posizione tutt’altro che unanimemente accettata all’interno dello stesso partito salafita al-Nour.

Ma il clima da “due passi avanti e uno indietro” che si continua a respirare dalle parti del Cairo circa l’accordo con il Fmi, più che un problema di natura religiosa, riguarda in definitiva il ristrettissimo spazio di manovra che il governo ha davanti a sé per attuare un consistente piano di risanamento dei conti pubblici. Destinato a produrre ulteriori, dolorose ristrettezze per una popolazione ormai abituata a rispondere con le barricate. “A meno che non riesca a tirare fuori dalla manica con rapidità un paio di grassi conigli, è difficile possa trovare il supporto che gli serve”, ha commentato Elijah Zarwan, rappresentante al Cairo del Consiglio europeo per le relazioni estere, la difficile posizione del presidente Morsi.

LA MAGNA GRECIA…

Un contributo alla riflessione sulla Questione Meridionale da parte di un’antimeridionalista convinto. Ossia, come difenderci dalla politica lacrime e sangue del governo nazionale e transnazionale senza scadere nel solito vittimismo meridionalista e revanscista, nonché nella suggestiva ideologia del capro espiatorio: la colpa è del Nord, dei poteri forti, della Germania, del destino cinico e baro, dei meridionali traditori, soprattutto di quelli convintamente antimeridionalisti… Naturalmente parlo del meridionalismo come di una peculiare ideologia politica radicata nella storia di questo Paese, che ebbe, a giudizio di chi scrive, una ragion d’essere e una funzione critica solo agli inizi dell’epoca post Unitaria, per trasformarsi successivamente in uno strumento concettuale e politico obsoleto, nello stesso campo d’azione della borghesia meridionale, e del tutto incapace di creare coscienza nel seno delle classi subalterne del Mezzogiorno.

Nel 1960 un articolo di Vera Lutz pubblicato sul Mondo Economico (Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno) suscitò un vasto dibattito negli ambienti economici e politici del Paese intorno alla rancida Questione Meridionale. In quell’articolo l’autrice spostava i termini dell’annoso – e persino stucchevole, sotto diversi riguardi – problema dal tradizionale confronto tra il livello di sviluppo delle regioni del Nord e quello delle regioni del Sud, al rapporto tra il livello di sviluppo del Capitalismo italiano, considerato nella sua totalità nazionale, e quello degli altri paesi europei, nella prospettiva di una più accentuata integrazione dell’Italia nell’area capitalisticamente più forte del Vecchio Continente. Era l’epoca d’oro del boom economico internazionale (con le “tre tigri” sconfitte nella seconda guerra mondiale: Germania, Giappone e Italia, a fare da locomotive), basato soprattutto nel Bel Paese su uno sfruttamento assai intensivo della capacità lavorativa e su bassi livelli salariali, la cui lentissima dinamica ascendente incrocerà la curva discendente dell’espansione economica alla fine degli anni Sessanta.

Il mutamento concettuale suggerito dalla Lutz rappresentò nient’altro che una presa d’atto della reale dinamica del processo di sviluppo capitalistico italiano nel quadro del più generale sviluppo capitalistico europeo e mondiale, nel senso che esso andava a sottolineare le ragioni del sostegno politico al Nord industriale (anche attraverso una politica di migrazione interna tesa a portare in quell’area forza-lavoro a basso costo), capace di competere sul mercato internazionale, mentre affidava la soluzione definitiva dell’arretratezza del Mezzogiorno ai tempi lunghi di uno sviluppo che si estendesse a macchia d’olio dalle zone più forti alle regioni strutturalmente più deboli. Il “settentrionalismo” trovò allora il suo primo sdoganamento, dopo decenni di ipocrisie vetero- risorgimentali. La morte per così dire ufficiale del classico meridionalismo (d’accatto, vittimista, il più delle volte) può farsi risalire proprio agli inizi degli anni Sessanta.

Scriveva Domenico Novacco dieci anni dopo: «La questione meridionale non si sollevò mai al rango, che le competeva di pieno diritto, di nodo capitale per lo sviluppo equilibrato dell’intero paese. In effetti, due alternative sono in gioco: o il progresso equilibrato dell’intero paese entro gli istituti della democrazia, secondo il modello delle grandi società industrializzate o il ristagno dell’intero paese nel pantano del sottosviluppo. A meno che non venga addirittura a significare, terza infausta alternativa, l’anticamera del divorzio tra l’Italia dello sviluppo e l’Italia del sottosviluppo» (La questione meridionale ieri e oggi).

Altri quarant’anni sono trascorsi, e la «terza infausta alternativa» si sta ponendo all’ordine del giorno con una forza che lo stesso Novacco certamente non avrebbe potuto immaginare. Egli pose un problema reale, e cioè la necessità per il Capitalismo italiano di procedere lungo la strada di uno sviluppo complessivo, più organico e diffuso; uno sviluppo che finalmente investisse in maniera forte, penetrante e capillare anche le aree del Paese che non solo si trovavano tagliate fuori dal mercato europeo, ma che non riuscivano a ritagliarsi uno spazio competitivo nemmeno nell’area del bacino mediterraneo. Per questo oggi ascoltare Raffaele Lombardo giurare con sicula indignazione che «la Sicilia non è la Grecia» mi fa scompisciare dal ridere, letteralmente. In effetti, la bella isola non è la Grecia, è la Magna Grecia. Anche nel senso («qualunquista e antipolitico») di «è tutto un magna magna». Soprattutto in quel senso. Non bisogna essere scienziati della Bocconi, o demoniaci teorici del liberismo selvaggio, per conoscere il robusto legame che insiste tra assistenzialismo e sottosviluppo economico, obesità amministrativa e povertà relativa delle famiglie, quella denunciata ieri dall’Istat.

Il dualismo Nord/Sud sembrava già allora esser giunto al suo punto critico, e la nascita del fenomeno leghista nella seconda metà degli anni Ottanta ne fu in effetti il sintomo più evidente: la contraddizione socio-economica generò una contraddizione politica che tendeva a squassare l’assetto istituzionale venuto fuori dalla seconda guerra mondiale; di più: essa sembrava spingere lo stesso Stato nazionale oltre le forme impresse dal processo storico risorgimentale (alludo, naturalmente, alla «questione federalista»). Mentre negli altri paesi capitalisticamente avanzati le istanze di ammodernamento e di ristrutturazione del vecchio “Stato sociale“ hanno trovato, a partire dai primi anni Ottanta, una sponda nei tradizionali soggetti politici (i conservatori in Inghilterra, i repubblicani negli Stati Uniti, i neogollisti in Francia), l’Italia ha dovuto attendere la nascita di un soggetto politico “eversivo“ per conoscere la salutare (per il sistema-Paese, beninteso) «rivoluzione dei ceti produttivi».

Le due grandi “ondate“ di investimenti industriali, pubblici e privati, nel Mezzogiorno – la prima è del 1955 e la seconda del 1965 – non hanno intaccato, se non marginalmente, la natura dei rapporti economici tra Nord e Sud; rapporti che hanno visto il Mezzogiorno rappresentare per lo più un mercato privilegiato di sbocco per la produzione settentrionale, e un fornitore di forza-lavoro a buon mercato non solo per il settentrione, ma anche per altri paesi europei ed extraeuropei (con un ritorno in termini di rimesse al Paese d’origine tutt’altro che disprezzabile, sia dal punto di vista della bilancia dei pagamenti, sia dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica). In questo contesto lo Stato è stato chiamato continuamente a sussidiare i redditi delle popolazioni meridionali, soprattutto attraverso la spesa pubblica, che ha significato un’espansione nel Mezzogiorno del lavoro improduttivo, il quale non solo ha reso particolarmente esplosiva quella crisi del vecchio modello di “Stato sociale“ che pure si riscontra in tutti i paesi avanzati; ma ha ristretto pericolosamente la stessa base su cui può contare l’accumulazione, il solo processo che può sostenere l’intero sistema-Paese.

Come scriveva Otto Bauer a proposito della crisi economica europea degli anni Trenta, «le masse popolari delle regioni industriali depresse debbono essere mantenute a spese delle altre regioni» (Tra due guerre mondiali?); questo oggi sembra non essere più possibile, e come scrive il direttore del Tempo Mario Sechi il fenomeno leghista stava – e sta – tutto dentro queste contraddizioni. Ha un senso dire del leghismo quanto ebbe a dire nel 1924 il nittiano Finocchiaro Aprile, futuro capo del separatismo siciliano nel ‘43, a proposito del fascismo: «è l’esponente del capitalismo settentrionale», solo se si prende in considerazione il quadro complessivo che ho cercato di abbozzare. Se non fosse scivolata sulla buccia del noto scandalo, oggi la Lega avrebbe le vele gonfiate dal vento della crisi economica, perché le magagne che la spiegano si sono rafforzate. Altro che grillismo!

Fattori vecchi e nuovi, interni e internazionali, politici ed economici impongono al Paese la definizione di una nuova strategia, di una “nuova politica economica“ per il Mezzogiorno. Naturalmente anche nel nuovo contesto il dato di partenza caratterizzato dalla presenza di una forza-lavoro a buon mercato può costituire un eccellente volano per lo sviluppo di questa regione, e difatti a partire dagli anni Novanta i governi hanno rispolverato la teoria anglosassone delle «aree depresse», con annesse gabbie salariali volte a spingere i salari meridionali verso i minimi contrattuali (ma di fatto ancora più giù). Tuttavia, interessi consolidati di vario genere (economici, sindacali, politici, sociali in senso lato: di spesa pubblica improduttiva vivono centinaia di migliaia di persone) hanno finora impedito l’implementazione di questa strategia, la sola che può avere successo. D’altra parte, lo scenario entro cui tale strategia si colloca è ben diverso da quello precedente, caratterizzato dalla possibilità di una migrazione interna e internazionale delle popolazioni meridionali, e dalla possibilità per lo Stato di “drogare“ con la spesa pubblica il processo di accumulazione, attraverso prestiti a fondo perduto, “rottamazioni” e sussidi di diverse, e a volte bizzarre, tipologie. Se non altro perché la signora Germania dice nein!

E a ciò si deve naturalmente aggiungere l’entrata in grande stile nell’agone della competizione capitalistica mondiale di Paesi che possono contare su un costo del lavoro risibile se confrontato con quello italiano, o tedesco, o francese. L’imperialismo (inteso come esportazione di capitali, investimenti diretti e indiretti all’estero) è una strada che l’Italia ha imboccato con successo negli anni Novanta per contrastare la concorrenza dei paesi emergenti dell’Est asiatico e dell’America Latina. Nel 1996 Gad Lerner scriveva che «Intanto che a Roma il governo discute con sindacati e confindustria su come abbattere il 10-20% il costo del lavoro nelle zone ad alta disoccupazione, partono a migliaia i Tir carichi di macchinari industriali trasferiti in Slovacchia, Romania, Ucraina e Albania dove quel costo si abbatte al 90%» (La Stampa, 1/10/96). Un costo del lavoro abbattuto del 90%: capita l’antifona? Il Capitalismo italiano si vide “costretto” a trovare fuori dai confini geografici del Paese il suo nuovo Mezzogiorno. L’attuale successo delle aziende italiane nell’area balcanica e nel cosiddetto Est-europeo è un fenomeno fin troppo sottovalutato, in Italia.

LA NATURA CRIMINALE DELLA MAFIA

«Il profitto è l’obiettivo della Mafia». Così ragliò il ciuco di Treviri? Nemmeno per idea! Ho citato nientemeno che l’attuale procuratore antimafia, Pietro Grasso, uno che di poteri criminali nazionali e internazionali s’intende – egli si trova a Rio de Janeiro per ragioni di lavoro. Ospite della trasmissione radiofonica di Radio 1 Zapping, Grasso ha tenuto a ricordare che «la Mafia è un’organizzazione criminale, che purtroppo dà anche lavoro legale». Purtroppo. Purtroppo? Ma come, mentre il Sacro Prodotto Interno Lordo boccheggia, stiamo a cavillare sull’etica del Capitale nel tempo della «dittatura dello spread»?

Sulla natura criminale della Mafia non ho dubbi. Mai avuti. Ma come bisogna “declinare” questa maligna natura? La ricerca del profitto non è forse l’obiettivo del Capitale tout court, non ne esprime la sua stessa ragion d’essere? C’è un pingue profitto su cui mettere le mani, c’è un esercito di individui da mobilitare per rendere possibile l’allettante impresa, c’è un mercato (della droga, della prostituzione, della speculazione, della tassazione: certo, il pizzo come “diversamente tassa”) a cui attingere. Signori, siamo in pieno Capitalismo. Altroché!

«E i metodi violenti tipici delle organizzazioni criminali, dove li metti?» Sempre in conto al Capitale, si capisce. Certo, chi pensa che il monopolio della violenza esercitato dal Leviatano corrisponda al migliore dei mondi possibili, giustamente deve inorridire dinanzi alle mie stravaganti tesi. E magari fare un pensierino sul concorso esterno in associazione mafiosa…

Come ho sostenuto altrove, la Mafia è la continuazione del Capitalismo con altri mezzi. Pardon: con gli stessi mezzi. Infatti, la cosiddetta società civile sprizza violenza da tutti i pori. Questa società sarà pure civile, ma di certo non è umana.

Ecco dunque che dalla mia prospettiva, dal “punto di vista umano”, la Mafia appare come un’organizzazione criminale la cui esistenza si radica interamente nella madre di tutte le organizzazioni criminali: la società fondata sul profitto, e quindi sullo sfruttamento sempre più scientifico di uomini e cose. Per il Capitale l’individuo è come il maiale: non si butta via niente. Si può sfruttarlo come lavoratore, come imprenditore, come consumatore, come utente, come creditore, come debitore, come contribuente, come sognatore, come malato. Persino come morto: vedi la florida industria del Caro Estinto. Tutto questo non vi sembra abbastanza criminale, non dal punto di vista del Diritto (che è la Legge che le classi dominanti amministrano nel nome del «Bene Comune»), ma da quello dell’uomo, della sua possibilità?

Come ha scritto Gianni Marongiu nella sua Storia del fisco in Italia (1861-1876), «La mafia sfrutta la rendita di posizione derivatele dalla dimensione criminale»; ma questa dimensione è per così dire strumentale, ossia finalizzata a mettere a profitto le condizioni “esistenziali” realizzate dalla società capitalistica. «Uno dei maggiori cambiamenti intervenuti nella struttura del sistema finanziario internazionale negli ultimi anni è stata l’infiltrazione crescente delle organizzazioni criminali», scriveva Susan Strange alla fine degli anni Novanta (Denaro impazzito). Ebbene, anche grazie a quell’infiltrazione sono stati creati nel mondo, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, centinaia di migliaia di posti di lavoro. «Ma anche tanta speculazione finanziaria». Certamente. Ma è forse stata la Mafia a creare il sistema finanziario e tutto il meccanismo economico che rende così profittevole il gioco d’azzardo della speculazione?

Dove si sviluppa una magagna, un problema, una contraddizione, insomma un’occasione di profitto ecco arrivare la Mafia, con le sue competenze e conoscenze criminali, come la mosca che svolazza sulla cacca. Ma senza la materia prima la mosca svolazzerebbe intorno al nulla. D’altra parte la cacca di cui si parla è la vigente Società Mondo.

Posta questa indiscutibile e disumana premessa, la Mafia mi appare come l’hegeliana vacca nella notte buia: nera esattamente come tutte le altre. «Non più nera?» No.

DOPO LA LEGA “ROMANA”, UNA LEGA “TEDESCA”?

La vicenda politico-giudiziaria che sta “travagliando” la Lega di Umberto Bossi offre allo sguardo dell’analista politico più di un’analogia con l’ingloriosa fine del PSI di Bettino Craxi, e per certi versi di quell’epilogo essa appare alla stregua di una vera e propria nemesi storica. Certo, alludo anche al famigerato cappio esibito dai Verdi Padani nella grigia aula parlamentare dinanzi al cinghialone socialista ormai agonizzante; ma alludo soprattutto ad altro. Anzi, a ben altro, per irritare i nemici del benaltrismo.

Alludo alla Questione Settentrionale. «E la Questione Morale, dove la metti?» Per amor di decenza, e alla luce della Santa ricorrenza, preferisco astenermi dalla risposta, che sarebbe oltremodo volgare e sconveniente. La cosiddetta «Questione Morale» la lascio ai credenti nella società (capitalistica) retta dagli Onesti, soprattutto a quelli che militano nella fazione sinistrorsa di Miserabilandia. Lascio a giornali come Repubblica, Il Manifesto e Il Fascio Quotidiano l’insulsa riproposizione dei luogocomunismi intorno al fenomeno leghista, scioccamente concepito, insieme a quello berlusconiano, come la sentina di tutti gli italici vizi: egoismo individualista, incultura, inciviltà, repulsione per lo Stato (magari!), razzismo e chi più ne ha, più ne metta. Il tutto, ovviamente, per sbandierata la solita balla della «diversità» progressista. Diversità non solo politico-etica, perché sarebbe ancora troppo poco, inadeguata a cogliere l’abisso che separa il «Popolo de Sinistra» da quello della «Destra». No, la diversità sinistrorsa deve spingersi oltre, fino a toccare, nientemeno, il terreno antropologico, e non a caso in quei giornali sempre più frequentemente si ricorre alla fisiognomica lombrosiana per inchiodare «i ladri» e gli zotici.

Per ridicolizzare la «Sinistra» di Miserabilandia è sufficiente citare un campione della «Destra», Giuliano Ferrara, la cui analisi della vicenda leghista lascia almeno capire qualcosa ai cervelli che rifiutano l’intruppamento luogocomunista e benecomunista – peraltro due facce della stessa medaglia. Scrive oggi Ferrara su Il Giornale: «Del bossismo non ho amato mai nulla, non ho mai urlato il «grazie barbari» del compianto Giorgio Bocca, non ho mai flirtato in chiave antipolitica con il cappio in Parlamento e tutto il resto di “Milano, Italia”. A me piaceva il garibaldino Craxi e, se era per la Lega e i suoi tesorieri, preferivo Citaristi e la Dc. Di nemesi non sono autorizzati a parlare quelli di Repubblica. Sono sempre stati, loro e il loro esercito politico di riferimento, dalla parte del giustizialismo, anche di quello duro e puro alla leghista, se era per colpire chi non rientrava nel cerchio magico dei loro interessi e pregiudizi. Troppe ne abbiamo viste, noi garantisti, di nemesi. A partire dal loro eroe preferito Di Pietro, anche lì macchine sgargianti e un partito padronale-contadino, per finire con la sinistra perbene che i suoi sistemi fatti apposta per abusare dei finanziamenti pubblici e accaparrarsi ogni tipo di finanziamento irregolare li ha messi in piedi senza pudore o, se volete, con grande ipocrisia». Senza parlare della Lega come «costola della sinistra» a suo tempo teorizzata dal noto statista coi baffini, tra l’altro nel periodo in cui Bossi, per non farsi fagocitare dal «mafioso di Arcore», radicalizzava il suo movimento in chiave “secessionista”.

Come hanno scritto in questi giorni i commentatori politici più lucidi del Paese, confondere il leghismo con la sua rozza e imbarazzante (per i non “padani”!) fenomenologia politica e “culturale” significa non capire nulla dei processi sociali, perché ci si accontenta  della schiuma dei fatti. Come altre volte anch’io, molto più modestamente, ho scritto, la Lega si spiega soprattutto con la relativa arretratezza del sistema capitalistico italiano, gravato da quelle magagne (spesa pubblica improduttiva, statalismo soffocante, enorme tassazione, carenza di moderne infrastrutture, ecc.) che oggi ci presentano il salatissimo conto sotto forma di ulteriori stangate fiscali, “riforme” del Welfare e del mercato del lavoro, “commissariamento tecnocratico” e germanico, e quant’altro possiamo osservare in questi amari tempi di crisi. Il gap sistemico tra Nord e Sud sintetizza la Questione Italiana, e spiega l’avvento del leghismo come immediata espressione della Questione Settentrionale. Che le contraddizioni sociali accumulate dal Paese nel corso di 150 anni trovassero il necessario salto qualitativo (politico) nella sua area capitalisticamente più avanzata e dinamica, può sorprendere solo chi è avvezzo alle analisi superficiali, e a chi si fa distrarre dalla coscienza che i movimenti hanno di se stessi. Ma che sotto la volgare canottiera del Senatur si celasse un problema di accumulazione capitalistica, nell’accezione allargata del concetto – quella che, ad esempio, coglie il rapporto tra processo economico e «Stato Sociale» –, non era un mistero per nessuno, salvo che per gli intellettuali gramsciani.

Come può sperare di competere col resto del mondo l’area storicamente più produttiva e moderna del Paese, quando la struttura sociale complessiva (l’economia, la politica, la stessa stratificazione sociale, ecc.) di quest’ultimo mostra tutta la sua inefficienza? Di qui, la Lega. Che già agli inizi degli anni Novanta Bossi, nei suoi godibilissimi comizi «popolani», ponesse con chiarezza la questione del debito sovrano italiano («Dobbiamo dividere il mostruoso debito pubblico fra le diverse macroregioni, e poi ognuno per la sua strada!»), e rivendicasse una politica protezionista nei confronti della Cina, la dice lunga sulla matrice sociale del leghismo, che solo gli indigenti di pensiero hanno creduto di poter ridurre a fenomeno folcloristico, magari dopo essersi illusi di poterlo usare in chiave antiberlusconiana, come accadde nel ’95.

Lungi dall’essersi esaurite, o depotenziate, le ragioni oggettive del leghismo si sono piuttosto rafforzate con l’irruzione della crisi, e quando in Cina Mario Monti, rispondendo alle accuse di incompetenza («per imporre nuove tasse bastava mettere al governo un cretino qualsiasi!») che gli sono state rivolte, ha detto che chi non vuole nuove tasse istiga alla «macelleria sociale, come in Grecia e in Spagna» (e in Inghilterra, aggiungo io), egli ha lasciato intuire cosa bolle in pentola: l’attacco alla spesa pubblica improduttiva, ossia agli stipendi della pubblica amministrazione e a tutte quelle inefficienze che rendono possibile l’esistenza di centinaia di migliaia di individui stipendiati o assistiti, con relative famiglie. Il leghismo non è, in primis, un’ideologia, ma l’espressione di una reale questione. Sotto quest’aspetto, esso si trova anche nelle parole della Cancelliera Tedesca.

Ma trasformare profondamente il Paese è un’impresa che si è rivelata difficile per tutte le classi dirigenti, compresa quella fascista, che a suo tempo si era illusa di «rendere irriconoscibile» l’Italia a se stessa e agli stranieri nell’arco di dieci anni: trasformerò profondamente l’Italia «nel suo volto, ma soprattutto nella sua anima», disse una volta il Duce al limitare degli anni Venti. Insisto con queste analogie storiche per dare il senso della continuità dei problemi strutturali che pesano sulla capacità competitiva del Bel Paese. E poi, in molti discorsi di Monti e della Fornero si coglie l’ambizione e l’urgenza di fare degli italiani dei «cittadini migliori», meno pigri, meno piagnucolosi, meno provinciali, e più produttivi e vogliosi di vincere «le sfide della competizione globale». Mussolini direbbe che è una causa persa, in questo in accordo col defenestrato Cavaliere Nero di Arcore.

Ernesto Galli della Loggia oggi scrive sul Corriere della Sera che la Lega non è riuscita a fare della Questione Settentrionale un progetto nazionale, rimanendo impigliata nella dimensione corporativa e rivendicativa di sindacato del Nord. In effetti, la visione nazionale della Lega cessa di esistere con la morte di Gianfranco Miglio, proprio quando la trasformazione federalista dell’Italia sul modello delle macroregioni proposto dalla Fondazione Agnelli sembrava a portata di mano, dopo il successo elettorale di Berlusconi del ’94. Scriveva «il teorico della Lega» nel ’93: «Nella vecchia logica dello Stato moderno si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia, la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale … Ecco la radice del neofederalismo. È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato» (G. Miglio, Ex uno Plures, in Limes 4/93). Nella visione strategica di Miglio il federalismo competitivo a guida nordista avrebbe dovuto risollevare le sorti dell’intero Paese, anche se attraverso una sua ristrutturazione sociale assai dolorosa e costosa, anche sul piano del consenso elettorale.

Il fallimento di questa strategia di ampio respiro più che testimoniare contro le capacità politiche della Lega, rende soprattutto evidente la complessità e la difficoltà dell’impresa. Il movimento di Bossi è dovuto venire a patti con quella complessità e con gli interessi sociali assai radicati nella struttura sistemica (economica, politica, istituzionale, culturale) del Paese, e se nell’ambito delle regioni del Nord la sua «rivoluzione federale» qualcosa di buono (per la società capitalistica, beninteso) ha prodotto, sul livello nazionale il risultato è stato largamente deludente. Ma, ripeto, non tanto per ragioni imputabili principalmente alla Lega, la quale alla fine si è dovuta “romanizzare”, ossia normalizzare sul piano istituzionale, rimanendo alla fine più trasformata dalla situazione nazionale di quanto essa non sia stata in grado di cambiarla – questo è il tratto che accomuna la Lega di Bossi al PSI di Craxi, il «partito del rinnovamento» degli anni Ottanta. I limiti dell’azione leghista ci fanno insomma capire quanto i problemi sistemici che afferrano il Paese siano di difficile soluzione, e non è affatto detto né che la Lega di Bossi sia morta, appunto perché le sue ragioni sociali sono tutt’altro che indebolite, né che, in caso contrario, non arrivi dopo di essa una Super Lega, una Lega al cubo, molto meno “romana”, e assai più tedesca.

MAFIA2.0

L'inquietante bellezza di Cosa Nostra

Qualche giorno fa ho postato su Facebook questa breve riflessione: «La sentenza della Cassazione su Marcello Dell’Utri (qui scatta il nitrito cavallino alla Frankenstein Junior) e la relativa indignazione del Popolo Giustizialista mi hanno insinuato un dubbio, dalla cui soluzione dipenderà la qualità del mio sabato. Eccolo: se uno propone l’idea, certo bizzarra, secondo la quale la Mafia non è che la continuazione del Dominio Sociale Capitalistico con altri mezzi (con «altri» fino a un certo punto: vedi il monopolio statale della violenza, ed Equitalia…), corre il rischio di incappare nel reato di Concorso esterno in associazione mafiosa? Prima di scrivere qualcosa sulla radice storico-sociale della Mafia, gradirei ricevere una risposta. Possibilmente non da Travaglio…».Come appare evidente, attraverso una domanda retorica, e prendendo spunto da una notizia di cronaca, ho cercato di introdurre una questione molto seria, sintetizzata nel concetto di mafia come continuazione del dominio sociale capitalistico con altri mezzi. Adesso cerco di sviluppare ulteriormente questo concetto, senza tuttavia esaurirne l’intera valenza storica e sociale. Offro solo qualche “spunto di riflessione”.

La lotta contro la mafia si configura, sul piano della storia e della prassi sociale di questo Paese, come il tentativo delle classi dominanti di rafforzare lo Stato in tutte le sue articolazioni istituzionali e regionali, nonché la stessa idea di Stato in quanto garante della civiltà, della pace sociale e del benessere generale. Sorta storicamente come strumento di repressione e di controllo sociale sussunto agli interessi dei grandi proprietari fondiari della Sicilia (soprattutto di quella Occidentale), la mafia seppe adeguarsi bene, e assai rapidamente, alla nuova realtà nazionale emersa all’indomani del 1861. Il «compromesso storico» fra gli interessi industriali del Nord e gli interessi agrari del Mezzogiorno, che sta alla base del nascente Stato Unitario, favorì non poco il processo di adattamento della mafia cui accennavo appena sopra, in apparenza secondo la celeberrima linea strategica sintetizzata nel Gattopardo: «Cambi tutto, affinché niente cambi!» Un falso cambiamento messo al servizio di una reale continuità.

Tuttavia, non bisogna dare eccessivamente peso alle parole che Tomasi di Lampedusa mise in bocca a Tancredi, diventate ben presto un luogo comune di grande successo, e una chiave di lettura dei fatti italiani fin troppo comoda, e per questo necessariamente infondata, o quantomeno assai angusta, incapace di cogliere la complessità. E l’Italia, com’è noto, è il regno della complessità! A cagione di un destino cinico e baro? No. A motivo della sua complessa struttura sociale, stratificata e “superfetata”, se mi è concesso scriverlo, all’inverosimile.

«Tieni le palle? E allora ce la puoi fare!»

In effetti, nonostante tutte le contraddizioni sociali e i limiti immanenti alle modalità della «Rivoluzione borghese italiana», anche la struttura sociale della Sicilia subì una trasformazione in senso capitalistico, resa peraltro inevitabile dal nuovo contesto nazionale e sovranazionale, e questo processo di modernizzazione non poteva non coinvolgere la stessa mafia, la cui esperienza (expertise) accumulata nel corso di parecchi decenni ebbe modo di trovare una nuova funzione. Il cambiamento di funzione di sopravvivenze precapitalistiche (in campo economico, culturale, politico, ecc.) è tipico nel Capitalismo in generale, e nel Capitalismo «ritardatario» in particolare (vedi anche la Germania, il Giappone e la Cina). L’autonomizzarsi della mafia; il suo farsi strumento al servizio, non di uno strato sociale particolare (latifondisti), ma di un processo economico generale, è stato reso possibile dal Capitalismo, ossia dal carattere astratto (universale) del denaro nell’ambito dei nuovi rapporti sociali borghesi.

La mafia si emancipa insomma dalla sua vecchia base rurale, e come un cancro andato in metastasi si espande, naturalmente e necessariamente, in tutto il corpo della struttura economica del Paese, secondo il principio capitalistico sintetizzabile in questa prescrizione: Va dove ti porta la brama del profitto! A mio avviso, nell’ambito del Capitalismo ogni obiezione di carattere etico-morale a questo principio può forse salvare qualche coscienza (ne dubito), ma certamente suona falsa all’orecchio che si sforza di intendere la verità per quella che è, non per come dovrebbe essere – sulla base di quale presupposto reale? Per questo il cancro che crea metastasi d’ogni genere è innanzitutto la società che fa degli uomini non-uomini assoggettati al cieco imperio degli interessi economici, chi come vittime, chi come carnefici.

Il segno, inequivocabile, dei nuovi tempi fu dato dalla circostanza per cui a reprimere il movimento dei Fasci Siciliani, ossia «le masse dei contadini poveri, analfabeti, e oppressi da secoli di dominazione baronale, che si avanzavano sulla scena della storia per rivendicare i diritti che erano propri» (F. Renda, I Fasci Siciliani, 1892-94), non fu la mafia, ma il governo liberale di Crispi. Il 3 gennaio 1894 il Consiglio dei Ministri decretò lo stato d’assedio nelle province siciliane. Quattro anni dopo, nel maggio del 1898, il generale Bava Beccaris ordinò alle sue truppe di aprire il fuoco sul proletariato milanese in rivolta contro il carovita. Cento morti perfettamente legali.

«È il Capitalismo, picciotti!»

Con il cambiamento di funzione della mafia ci troviamo, dunque, nel pieno della «logica» e della prassi capitalistica, e l’esistenza di mafie nazionali in altre parti del mondo (Stati Uniti, Russia, Giappone, Cina) conferma la non eccezionalità del fenomeno di cui ci occupiamo. «C’è molto da imparare dagli atti dei maxiprocessi dei capi della mafia italiani … Man mano che l’esigenza di gestire finanziariamente la ricchezza e di investirla in modo ottimale rendeva necessario il ricorso a consulenti professionisti, i legami di sangue assumevano meno importanza. Il denaro riciclato veniva investito nell’edilizia e in imprese di servizi come lavanderie, agenzie di viaggi, garage e officine» (S. Strange, Denaro impazzito). Nel 1997 Susan  Strange calcolava in 400 miliardi di dollari l’anno il valore del denaro riciclato a livello mondiale dalle «organizzazioni criminali» attive in ogni parte del Pianeta. Non son mica bruscolini… E d’altra parte, come già sapevano gli antichi, il denaro ha la maligna – per gli onesti di cuore – prerogativa di non puzzare. Con circa 95 miliardi di euro di fatturato annuo, pari al 7 per cento circa del Pil, la «mafia siciliana SPA» si configura come la prima azienda del Paese. Questo ormai da parecchi anni. «Che scandalo!» Punti di vista…

Il permanere di consistenti sacche di arretratezza sociale nel Mezzogiorno ha permesso alle organizzazioni malavitose, specializzate nell’uso della violenza ai fini dell’accumulazione, di poter accedere sempre di nuovo a un vasto esercito di proletari e sottoproletari da gettare nella quotidiana guerra per la conquista del denaro. In quanto monopolista della violenza e sentinella armata del Diritto, lo Stato non può tollerare l’esistenza di associazioni private intenti a drenare ricchezza con mezzi violenti e illegali. Questo per un verso. Per altro verso, mentre getta un potente fascio di luce sulla natura miserabile della vigente società, la quale crea quei bisogni “molesti” che da sempre alimentano la mafia nella sua versione moderna (vedi i  sempre floridi mercati della prostituzione, della droga, delle scommesse clandestine, ecc.); al contempo il fenomeno in questione crea non pochi “scompensi” e disarmonie nel processo economico, la cui manifestazione più evidente e grave è registrata dal bassissimo tasso di investimenti locali, nazionali ed esteri nelle regioni del Paese che pure ne avrebbero più bisogno, anche in vista di una loro “bonifica” anticriminale. Come chi ha la bontà di seguirmi sa, giudico ridicolo e infondato ogni sforzo teso a discriminare fra «economia onesta» e «economia disonesta», perché la realtà conosce una sola economia, le cui molteplici «sfere» sono peraltro sempre più interconnesse, sul piano nazionale come su quello sovranazionale. Per me criminale è il Capitale tout court.

Dal 1861 in poi lo Stato ha cercato a più riprese di venire a capo del problema-mafia, usando soprattutto i tradizionali metodi coercitivi («La mafia ve la porto io come sopra un tavolo clinico, ed il corpo è già inciso dal mio bisturi», disse Mussolini ai tempi del prefetto Cesare Mori), com’è d’altra parte nella sua più intima natura. Ma che il nocciolo della questione non sia separabile dalla ristrutturazione complessiva del Capitalismo italiano, nell’accezione non meramente economicista della locuzione, lo si è sempre saputo, e lo hanno ribadito Mario Monti e angela Merkel nell’incontro di ieri, quando è giunto il momento di parlare di «sinergie economiche» fra i due Paesi, leader europei nel campo della manifattura. La Cancelliera ha fatto presente al Tecnico munito di bisturi («La spesa pubblica ve la porto io come sopra un tavolo clinico!») che l’Italia è certamente bella, ma che la burocrazia, la pressione fiscale, la mafia, l’assenza di moderne infrastrutture e via elencando le note magagne, non la rendono attraente sul piano capitalistico.

«È solo un contrattempo!»

L’arretratezza sistemica del Paese ha generato la mafia moderna, il lavoro nero e l’evasione fiscale: tre fenomeni che al contempo hanno sostenuto il processo di sviluppo del Bel Paese nel quadro appunto di quella relativa arretratezza cristallizzatosi nel corso di 150 anni. La politica ha sempre dovuto scendere a patti con questa complessa e contraddittoria dialettica, nella quale i punti di criticità venivano di fatto a fungere anche da punti di forza nella competizione capitalistica nazionale e internazionale (attraverso il basso costo dei «fattori produttivi») e nella stessa ridistribuzione della ricchezza sociale (non a caso si è parlato di un «Welfare della mafia»), ma aggravando ulteriormente il contesto sociale complessivo del Paese, costretto a una competitività “drogata”. Un circolo vizioso-virtuoso-vizioso la cui insostenibilità sistemica è stata una volta di più confermata dall’attuale crisi economica.

In risposta a un articolo di Roberto Saviano sulla Tav, Giancarlo Caselli, giudice di ferro, ha scritto che se è giusto denunciare le infiltrazioni malavitose e “castali”, non si possono tuttavia fermare i cantieri: «Così facendo non si determina una sostanziale rinuncia al controllo del territorio e dell’economia? Rinunciando alle opere per timore delle infiltrazioni mafiose si realizzerebbe una sorta di dismissione di ogni responsabilità politica ed economica. Vi sarebbe di fatto un’abdicazione rispetto a funzioni fondamentali dello Stato» (intervista di Meo Ponte a G. Caselli, La Repubblica.it, 7 marzo 2012). Qui si pone un problema che ovviamente non ha niente a che fare con l’umano, mentre ha molto a che fare con il processo di ammodernamento del Capitalismo italiano. Obiettivo più che legittimo, intendiamoci. L’importante è non confondere il Sacro con il profano.

«Bene così. Mi hai reso un bel servizio!»

A mio avviso tanto la mafia (e analoghi fenomeni sociali) che il dibattito sulla legalità appena esemplificato con il botta e risposta fra i due campioni del Progressismo italico, devono essere guardati dalla prospettiva storico-sociale che ho cercato di delineare, sebbene in forma sintetica e senza la  pretesa di aver saturato la “problematica”, la quale ha molti e significativi aspetti.