L’ITALIA POPOLARE SI ERGE COME UN SOL UOMO CONTRO LA FRANCIA NEOCOLONIALISTA! RIUSCIRÀ ROMA A SPEZZARE LE RENI ANCHE ALLA PERFIDA PARIGI?

Questa mattina ho registrato sul Blog un certo interesse intorno a un post che ho pubblicato la scorsa estate sul cosiddetto Franco CFA. Insomma, il tema toccava una questione che oggi si ritrova sotto forma di polemica “politico-diplomatica” su tutti i quotidiani, e non solo su quelli nazionali. Dinanzi all’odierna sguaiatissima e per molti aspetti risibile propaganda degli italici sovranisti, che con qualche decennio di ritardo hanno scoperto l’opera di saccheggio, di sfruttamento e rapina che la Francia ha praticato, insieme a molti altri Paesi europei (Italia compresa!), e che, mutatis mutandis, cerca di continuare a praticare (esattamente come l’Italia!) in Africa; dinanzi a questa escrementizia canea demagogica che cerca di additare all’opinione pubblica nazionale l’ennesimo capro espiatorio su cui investire elettoralmente (le elezioni europee si approssimano), e con cui alzare una fitta nuvola di polvere mediatica per nascondere le magagne che si stanno addensando intorno al cosiddetto Governo del cambiamento (in peggio); dinanzi a tutto questo, dicevo, particolarmente interessante mi sembra la parte del mio post che adesso cito.

«È giusto farsi quattro crasse risate sulla presunzione «dell’ex banchiere Macron» di rappresentare la – supposta – superiorità morale della Francia e i veri valori dell’Occidente progressista e illuminista, ma l’ondata francofoba che osserviamo montare in alcuni ambienti politici e sociali è altrettanto farsesca e molto pericolosa se guardata dal punto di vista autenticamente antimperialista. «Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia»: così recita Il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Essendo chi scrive un proletario italiano, ne consegue che il suo nemico principale è l’imperialismo italiano (e tutti i politici e gli intellettuali che in qualche modo ne sostengono gli interessi), per quanto esso possa apparire o essere modesto se confrontato con gli imperialismi che stanno al vertice della contesa intercapitalistica mondiale. Nel suo piccolo, l’imperialismo italiano partecipa al Sistema Imperialista Mondiale, ne è parte non trascurabile, ed è da questa peculiare prospettiva che osservo i movimenti e i conflitti interni a quel Sistema, che personalmente rigettato in blocco, come una sola, compatta, mostruosa e disumana entità sociale. Insomma, con questo post sono lungi dal voler portare acqua al mulino degli italici sovranisti che oggi attaccano il “neocolonialismo francese” un po’ come Mussolini attaccava l’imperialismo delle plutodemocrazie ai tempi delle “inique sanzioni”. Io metto la Francia e l’Italia dentro lo stesso sacco, anche se sul piano politico ho un occhio particolarmente critico e sensibile nei confronti della seconda, per il motivo, tutt’altro che ideologico, summenzionato».

Oggi i sovranisti d’accatto Made in Italy denunciano le mire espansionistiche della Francia sulla Libia: «Macron ci vuole rubare il petrolio e il gas. La Libia è nostra!» E, sia chiaro, la stessa, identica cosa pensano anche i partiti che oggi stanno all’opposizione. D’altra parte, bisogna ricordare che la Nuova Politica Immigratoria dell’Italia è stata inaugurata dall’ex Ministro degli Interni Marco Minniti.

Per me non è tanto importante quel che dicono quei “signori” (chi se ne frega delle fregnacce quotidiane sparate dai Salvini, dai Di Battista e dai Di Maio!), quanto il fatto che le loro odiose/merdose parole trovano ascolto soprattutto presso gli strati sociali economicamente più “disagiati” del Paese, a dimostrazione che il veleno politico-ideologico (nazionalismo, razzismo, ecc.) inoculato nel corpo sociale non è la causa dei mali, ma piuttosto la conseguenza del “male supremo”: questa società, a prescindere da chi contingentemente ci amministra. Ovviamente causa ed effetto interagiscono l’una sull’altro in modo “produttivo” (e “dialettico”), alimentando un circolo vizioso che innalza di molto la soglia di quella violenza sistemica che osserviamo dilagare in ogni ambito della società. È soprattutto su questo aspetto che, a mio avviso, deve riflettere chi non vuole subire passivamente il pessimo (capitalistico) mondo che ci ospita.

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ULTIM’ORA!

«Il problema dei migranti ha tante cause, c’è chi in Africa sottrae ricchezza a quei popoli e a quel continente e la Francia è tra questi». Così ha dichiarato il Truce Salvini, evidentemente per marcare a uomo il suo solidale di governo Di Maio. L’Italia ovviamente è molto attiva in Africa per nobilissimi motivi: «”Finanzieremo uno studio di fattibilità per finanziare le più importanti infrastrutture di cui l’Etiopia necessita e ci faremo latori del coinvolgimento delle più importanti istituzioni finanziarie internazionali, perché ricevano il sostegno economico che meritano». Lo annuncia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro della Repubblica federale democratica di Etiopia, Abiy Ahmed Ali. Conte ha anche aggiunto che “C’è una insistita attenzione verso la regione del corno d’Africa che si completa anche con l’attenzione verso altri Paesi di importanza strategica per l’interesse dell’Italia e dell’intera Ue. L’Italia non vuole agire da sola, ma incitare l’intera Ue a prestare attenzione allo sviluppo sociale ed economico alla regione del Corno d’Africa e degli altri paesi dell’Africa» (Il Messaggero). Che generosità! Altro che l’antipatica ed egoista Francia!

Ancora il Truce degli italiani: «In Libia la Francia ha interessi opposti a quelli italiani». E questo lo avevo capito anch’io! «La Francia non ha alcun interesse a stabilizzare la situazione». Verissimo. «Dunque ha poco da arrabbiarsi perché ha respinto migliaia di migranti, comprese donne e bambini, alla frontiera. Lezioni di umanità e generosità da Macron non ne prendo». In effetti, uno “statista” vale l’altro: sono tutti al servizio di questa escrementizia società.

È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!

Ennesima intervista rilasciata alla stampa dall’uomo che sussurra alla ruspa, insomma da Matteo Salvini. A mio parere degna di una qualche riflessione politica è solo la risposta che il Ministro degli Interni dà in merito alla politica estera italiana in Africa. «Che fine ha fatto la missione italiana in Niger che i francesi hanno bloccato?», chiede Alessandro Farruggia (Quotidiano.net) al Ministro. Risposta: «Bella domanda. I francesi sono un problema, perché la loro è una strategia economica, non umanitaria». Com’è noto, la politica del leader leghista è invece incentrata su rigorosi presupposti etici: prima l’uomo in quanto uomo, poi ogni altro interesse. Si tratta del ben noto sovranismo umanitario estraneo alla volgare cultura materialista dei francesi, i quali pensano solo al vile denaro, all’argent. Ma riprendiamo la risposta: «Noi stiamo lavorando anche con diversi privati ad un piano di investimenti nel Sahel, nei paesi di partenza e di transito. Lo facciamo come Italia, perché come Europa mi fido fino a un certo punto». Bene! bravo! bis! Fidarsi di Bruxelles è bene, non fidarsi è meglio: l’asse franco-tedesco è sempre in agguato. Ecco la perla finale: «I francesi hanno un approccio imperialista e colonialista che non è apprezzato in Africa e quindi qualche paese è disponibile a ragionare di fronte a investimenti veri. Mi piacerebbe che il ministro Salvini, brutto, sporco, cattivo, razzista, fascista, fosse quello che investe seriamente in Africa. Per permettere a quei ragazzi di restare lì a lavorare». Com’è umano lei! E com’è ingiusto che qualcuno lo accusi di razzismo e di fascismo!

Si può però anche dire, volendo essere supercritici, che è facile accusare l’imperialismo e il colonialismo degli altri, tacendo bellamente sull’imperialismo di casa propria. Ma da uno come Salvini non ci si può aspettare altro che questo, ovviamente. Né d’altra parte bisogna pensare che le dichiarazioni del Ministro “populista”  rappresentino una innovazione in materia di politica estera, tutt’altro. È dalla fine della Seconda guerra mondiale che la penetrazione degli interessi economici e geopolitici dell’Italia nel suo tradizionale cortile di casa (Africa del Nord, Balcani) è affidata soprattutto al cosiddetto soft power, fatto non solo di investimenti (soprattutto nell’estrazione di gas e petrolio e nella costruzione di infrastrutture come ponti, porti e dighe) ma anche di “missioni umanitarie” affidate alle ONG. Ed è precisamente questa politica di penetrazione dal basso profilo politico-militare ma di grande efficacia che alla fine ha cozzato con gli interessi dei francesi in un’area che evidentemente essi considerano di loro esclusiva pertinenza. È comunque un fatto che gli interessi strategici italiani in Libia sono minacciati da più parti, come ha chiaramente dimostrato l’intervento “umanitario” internazionale del 2011 ai danni del regime di Gheddafi voluto soprattutto dalla Francia (con il pronto e “fattivo” sostegno della Gran Bretagna e dell’Arabia Saudita) per indebolire appunto la posizione dell’Italia in quel Paese e non solo.

Scrive Francesca Pierantozzi sulla vera natura del contenzioso franco-italiano in Africa: «Negli ultimi tempi tra Roma e Parigi volano parole grosse: irresponsabile e cinica l’Italia che chiude i porti per Macron, arrogante e ipocrita la Francia secondo Salvini. Ma dietro alle scaramucce diplomatiche, quanto pesano gli interessi economici? Quanto pesa il petrolio della Libia, l’Uranio del Niger, il gas del Fezzan, e poi l’oro, il cobalto, il manganese, il litio e le preziose terre rare del Sahel? Sono questi i famosi paesi “di origine e transito” dei flussi migratori che stanno spaccando l’Europa. In Libia, oltre alle idee di Macron e Salvini, si fronteggiano anche Eni e Total. La lotta è ancora impari e a netto vantaggio italiano. Nel 2018 Eni stima una produzione giornaliera di circa 320 mila barili/olio/equivalente (Boe). Nel 2017 la produzione della francese Total è stata di 31.500 barili al giorno. Anche se a marzo Total ha comprato la Marathon Oil Libya, che a sua volta detiene il 16,33 per cento delle concessioni di Waha per 450 milioni di dollari, la produzione dei francesi non supererà i 100 mila barili. La diplomazia di Macron, che per primo ha riconosciuto come interlocutore oltre al premier di Tripoli Serraj – il generale Haftar, signore della Cirenaica e ormai considerato anche signore del petrolio, arriva comunque in ritardo rispetto alle intenzioni di Eni. Il gruppo italiano sta infatti già guardando altrove. A marzo l’amministratore delegato Descalzi ha annunciato che Eni ridurrà la produzione di petrolio in Libia fino a 200mila barili al giorno entro il 2021. In compenso, gli italiani guardano con interesse all’ex francese Algeria, possibile futuro terreno di scontro economico: Descalzi ha firmato di recente una serie di accordi con la Sonatrach, la società di Stato algerina, di cui uno in particolare per l’ esplorazione nel bacino del Berkine. Tra Francia e Italia in Libia non c’è comunque solo il petrolio. Grossi interessi hanno anche Endesa (Enel) e Gdf-Suez, per non citare che i colossi. Senza contare, per l’Italia, il progetto di autostrada che Berlusconi promise a Gheddafi come “risarcimento” della politica coloniale, una litoranea per quasi un miliardo di euro attribuito a Salini Impregilo e di recente confermato, e il gasdotto libico-italiano Green Stream. Stesso tavolo di interessi comuni anche nel Sahel, dove la Francia è presente militarmente dal 2013, prima in Mali con l’operazione Serval, e poi anche in Mauritania, Niger, Burkina Faso e Ciad con l’operazione Serval. Sono questi alcuni dei paesi in cui dovrebbero essere installati i famosi hot spot extra europei. Per ora l’Italia è stata estromessa dal dispositivo presente a Niamey, dove sono di stanza solo una quarantina di militari italiani. Il governo Gentiloni aveva parlato di “opportunità enormi per il nostro sistema manifatturiero”, ma per Parigi sono in gioco soprattutto i giacimenti di uranio in Niger (in particolare la miniera di Arlit) che forniscono ad Areva il 30 per cento di uranio utilizzato nelle centrali nucleari di Francia» (il Messaggero).

Insomma, le ragioni per una tensione crescente tra Roma e Parigi ci sono tutte e non appaiono di facile gestione diplomatica. Un “populista” alla Salvini ha quantomeno il merito di non usare sempre e solo l’affettato gergo diplomatico la cui comprensione è preclusa al popolo bue. C’è da dire, per concludere, che anche per quanto riguarda la politica sui migranti Salvini si muove in assoluta continuità con il suo predecessore al Viminale, con quel Marco Minniti che a sua volta fu accusato di praticare una politica fascista. Non c’è niente da fare: la postura politicamente “decisionista” in Italia deve sempre confrontarsi con l’uomo dalla mascella volitiva!

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1. Antifascismo archeologico e violenza capitalistica

Al contrario di Pier Paolo Pasolini, non so dire con assoluta certezza se non si possa individuare in questo Paese agitato da una sguaiatissima competizione elettorale «nulla di peggio del fascismo degli antifascisti»; certo è che negli ultimi giorni il fascismo (o stalinismo: per me pari sono!) degli antifascisti ha risollevato la testa, complici non pochi episodi di odioso razzismo “fascio-leghista” che come non ultimo deleterio effetto hanno avuto appunto quello di riscaldare la rancida minestra dell’antifascismo di regime.

 Leggiamo per mera curiosità cosa scriveva Pasolini nel 1974, nei sui Scritti Corsari, a proposito degli antifascisti di professione: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. […] Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo». Il fascismo è «un fenomeno morto e sepolto»? Pur con qualche cautela, perché non bisogna sottovalutare ciò che il regime postfascista ha ereditato dal regime fascista (soprattutto per quanto riguarda la sfera giuridica e quella relativa al rapporto tra lo Stato e l’economia), tendo a condividere la tesi pasoliniana, almeno se per fascismo intendiamo l’esperienza storica che prese corpo in Italia negli anni Venti e che si esaurì negli anni Quaranta del secolo scorso come epilogo della Seconda macelleria mondiale definita dai vincitori Guerra di Liberazione. Se però riflettiamo sulla genesi sociale del fascismo, occorre dire che le cose cambiano, mentre corretto rimane a mio avviso il giudizio di Pasolini sull’archeologia antifascista.

Il fascismo nacque, infatti, come manganello politico che le classi dominanti usarono per schiacciare un movimento sociale radicalizzato che rischiava di trasformarsi in una vera e propria rivoluzione sociale di “stampo sovietico”. Almeno questa era l’intenzione dei “Rossi” («Fare come in Russia!») e la paura dei “Bianchi”, i quali con piacere videro entrare in scena i “Neri” guidati da un ex socialista, un tal Benito Mussolini. Insomma, il fascismo delle origini come “classico” strumento controrivoluzionario; strumento, occorre ricordarlo, che all’inizio, nella fase più acuta del conflitto sociale (nel cosiddetto Biennio Rosso ‘19-20) la classe dirigente del Paese usò non in alternativa alla democrazia liberale, ma in un mix molto intelligente di manganello e scheda elettorale. E qui non si può non ricordare la figura politica di Giolitti. Si può anzi dire che il manganello fascista si abbatté sulla testa di un proletariato già sfiancato e deluso dai riti della democrazia parlamentare e industriale. «In Italia», scriveva Otto Bauer nel 1936, «Giolitti ritenne di potersi servire del fascismo per intimorire, frenare, pacificare la classe operaia ribelle. Il fascismo si giustificava volentieri di fronte alla borghesia affermando di averla salvata dalla rivoluzione proletaria, dal “bolscevismo”. […] Ma in realtà esso non riportò la vittoria in un momento in cui la borghesia era minacciata dalla rivoluzione proletaria: il fascismo trionfò nel momento in cui il proletariato ormai era da tempo indebolito e ridotto sulla difensiva, nel momento in cui l’ondata rivoluzionaria era già defluita» (*). Il manganello fascista poi si autonomizzò per diventare regime, e questo fenomeno sorprese non pochi politici e intellettuali liberali che avevano creduto di poter mettere da parte Mussolini una volta che egli avesse completato il lavoro sporco per conto della Nazione. Ma non tutte le controrivoluzioni liberali riescono col buco!

Ho ricordato la genesi sociale del fascismo semplicemente per dire che mentre esso come esperienza storica peculiare e, ovviamente, come regime politico-istituzionale può effettivamente venir considerato alla stregua di un «fenomeno morto e sepolto», la funzione repressiva dei movimenti sociali che allora lo produsse è rimasta intonsa e vitale, e non importa la coloritura politico-ideologica che tale funzione viene ad assumere di volta in volta. Negli anni Settanta la distruzione dei movimenti sociali fu affidata soprattutto agli apparati repressivi dello Stato, con il pieno sostegno di tutti i partiti appartenenti a quello che allora si chiamava “arco costituzionale”, a cominciare dal PCI e dalla DC. Ricordo che nel 1977, anno di esordio politico di chi scrive, nei cortei gridavamo lo slogan “Fuori, fuori la nuova polizia!” tutte le volte che individuavamo tra le nostre fila i militanti del PCI e della CGIL. Alcuni compagni parlavano di democrazia fascista; molti altri denunciavano il «tradimento della Costituzione antifascista», mostrando in tal modo, come imparai qualche anno dopo, di non aver compreso il vero significato storico della Resistenza, che a tutti gli affetti, e al di là di episodi pur significativi ma del tutto marginali, venne a caratterizzarsi come continuazione della guerra imperialista sotto altre condizioni, quelle determinatisi con la caduta del Regime Fascista nell’estate del 1943, a seguito dei bombardamenti aerei angloamericani delle città italiane e dell’esito disastroso della guerra per l’esercito italiano. Negli anni Settanta il neofascismo ebbe uno scarsissimo ruolo nella repressione e nell’intimidazione dei movimenti antagonisti. Insomma, la democrazia capitalistica sa difendersi benissimo dai nemici dell’ordine costituito (e costituzionale) anche senza sguinzagliare le squadracce fasciste contro i “sovversivi”, e ciò in piena coerenza con la lettera e con lo spirito della Costituzione più bella del mondo.

2. Il fascismo degli antifascisti e il piagnisteo dei liberali

Spesso l’autoritarismo dell’antifascismo istituzionale non è meno reazionario e repressivo dell’autoritarismo del neofascismo conclamato e fiero di esserlo. Una prova? Eccola!

Due giorni fa Rocco Todero lanciava dalle pagine del Foglio un forte grido di dolore liberal democratico: «Come valutare l’ordinanza del Tar di Brescia che ha ritenuto legittimo il provvedimento del Comune di Brescia, che non si limita a vietare atti e comportamenti che possono ledere libertà e diritti altrui ma che prevede che “ai soggetti richiedenti la concessione di uno spazio pubblico per lo svolgimento della propria attività” sia richiesto di dichiarare di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo? Intendiamoci: non si tratta di essere lassisti nei confronti di coloro che si ispirano a un pensiero radicalmente antitetico al liberalismo e alla democrazia. Si tratta, piuttosto, di vietarne le azioni e le condotte che concretamente sconfessano i presupposti del nostro vivere civile. Si tratta, al limite, di vietare le manifestazioni concrete del pensiero fascista e nazista (e siamo già ai confini dell’accettabile, ma passi pure). Ma ci si può spingere sino al punto di pretendere che lo stato possa imporre con la forza non già un’azione legittima (come è suo dovere) bensì un pensiero conforme a un’idea prestabilita e ritenuta l’unica passibile di dignità morale e che quel pensiero venga obtorto collo esternato, pena la limitazione di una libertà fondamentale? È legittima l’azione con la quale lo stato impone l’abiura ed entra nella coscienza individuale di ciascun essere umano per violentarla senza alcun riguardo? Esiste ancora la libertà, per esempio, di essere antifascista e di dichiarare di non volere moralmente aderire a tutte le norme della Costituzione, pur continuando a rispettarle con azioni e condotte concrete?».

Insomma, al netto dei piagnistei liberal democratici del giornalista che difende lo status quo sociale, alla luce dei passi citati possiamo senz’altro dire che si annunciano tempi duri (ancora più duri!) per gli anticapitalisti che non solo non si prostrano dinanzi alla Sacra Costituzione Capitalistica di questo Paese, ma che ne denunciano anzi la natura di classe, la sua ultrareazionaria funzione ideologica, il suo essere al servizio del vigente dominio sociale. E non so se scrivendo queste blasfeme parole, sono già passibile dell’occhiuta attenzione del compagno Ministro degli Interni Marco Minniti, degno erede dell’arco costituzionale di Pecchioli e Cossiga.

3. L’antifascismo di regime come «nuovo oppio dei popoli»?

In un articolo di qualche mese fa pubblicato sull’Independent, Slavoj Žižek caratterizzava l’antifascismo dei nostri tempi come un nuovo oppio dei popoli: «La formula di Marx di religione come l’oppio dei popoli ha bisogno oggi di un serio ripensamento. […] Trump negli Stati Uniti, Le Pen in Francia, Orban in Ungheria sono tutti demonizzati come il nuovo male verso il quale dovremmo unire tutta la nostra forza. Ogni minimo dubbio e riserva è immediatamente visto come un segno di segreta collaborazione con il fascismo. […] Quando ho richiamato l’attenzione su come parti dell’estrema destra sono in grado di mobilitare le questioni della classe lavoratrice trascurate dalla sinistra liberale, sono stato, come previsto, immediatamente accusato di invocare una coalizione tra sinistra radicale e destra fascista, che è esattamente quello che non ho proposto». Nel suo infinitamente piccolo, anche chi scrive è stato accusato dai “sinistri” (soprattutto dagli stalinisti) di fare “oggettivamente” il gioco, di volta in volta, dei fascisti, dei craxisti, dei leghisti, dei berlusconiani e quant’altro ha suscitato e suscita la loro facile indignazione tutte le volte che ha cercato di ricondurre alla loro radice “strutturale” i fenomeni politico-ideologici che agitano la schiuma sociale. Evidentemente si tratta di un’operazione critica che irrita maledettamente chi pensa di militare nella parte giusta del mondo solo perché fa parte dell’intellighentia progressista del Paese. Venir accomunati con i politici che tanto disprezzano, deve suonare come una sanguinosa offesa alle orecchie del progressista medio: «Io non sono come Berlusconi!», «Io sono antropologicamente diverso da Salvini!». E invece… Invece dalla prospettiva autenticamente anticapitalista si osserva il progressista sinistrorso calcare lo stesso terreno escrementizio che calpesta il suo odiato Nemico. Certo, l’uno occupa il lato “sinistro” del terreno, l’altro quello “destro”, ma è il terreno (“di classe”) la sostanza della cosa, ciò che definisce la natura di un soggetto politico, non la posizione contingentemente occupata da chi lo pratica. L’antifascismo praticato dall’anticapitalista si muove su un terreno completamente diverso, quello dell’autonomia di classe. Ecco perché io non mi colloco né più a “destra” né più a “sinistra” di Tizio o di Caio, ma piuttosto altrove.

Ma riprendiamo la citazione di Žižek: «L’immagine demonizzata di una minaccia fascista serve chiaramente come un nuovo feticcio politico, feticcio nel semplice senso freudiano di un’immagine affascinante la cui funzione è di offuscare il vero antagonismo. […] Il fascismo stesso è immanentemente feticista: ha bisogno di una figura come quella di un ebreo, elevata nella causa esterna dei nostri problemi: una tale figura ci permette di offuscare i veri antagonismi che attraversano le nostre società. Esattamente lo stesso vale per la figura di “fascista” nell’odierna immaginazione liberale: consente alle persone di offuscare le situazioni di stallo che stanno alla base della nostra crisi. […] L’oscenità della situazione è da far perdere il fiato: il capitalismo globale ora si presenta come l’ultima protezione contro il fascismo, e se cerchi di farlo notare sei accusato di complicità con il fascismo». Secondo l’intellettuale sloveno la sinistra può battere i populisti solo tagliando i ponti con le assurdità politicamente corrette e ricominciando a occuparsi davvero dei lavoratori, dei problemi causati dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario senza regole. Nella sua prospettiva, la caccia al fascista è solo una scorciatoia per evitare di affrontare la realtà che porta acqua al mulino del populismo semplicemente perché esso non ha paura di misurarsi con la disperazione delle vittime della globalizzazione e con le contraddizioni create dal «capitalismo globale». Bisogna fare i conti con la paura e con le angosce della gente, non stigmatizzarle con atteggiamenti illuministici che lasciano il tempo che trovano.

Ora, se penso che la “sinistra anticapitalista” cui fa riferimento Žižek ha la faccia di Varoufakis, di Sanders e di Corbyn, e di Toni Negri, non posso che prendere le distanze – e la solita metaforica pistola critica – dal suo consiglio su come battere la «destra alternativa». A mio avviso il problema non è quello di rompere i ponti con le assurdità politicamente corrette della “sinistra”, che come ho già detto politicamente parlando si muove sullo stesso terreno di classe della “destra”, del “centro” e del “populismo”; né si tratta di lottare genericamente contro gli effetti del «capitalismo globalizzato», magari in vista di un Capitalismo meno aggressivo e “selvaggio”. Per come la vedo io, e anche qui non faccio che ripetere cose già scritte mille volte, si tratta in ogni occasione, per ogni problema, per ogni evento, di non concedere nulla alla logica del male minore (in attesa di mutamenti nei rapporti di forza tra le classi che ovviamente non si verificheranno mai fin quando a vincere sarà quella cattiva logica) e di attaccare in radice l’ideologia dominante, dovunque e comunque essa si esprima. Sotto questo aspetto, davvero “fascismo” e “antifascismo” mi appaiono due facce della stessa medaglia. Non dico che l’obiettivo individuato sia di facile acquisizione, tutt’altro; ma non vedo alternative possibili per chi intende quantomeno provare a dire qualcosa di serio sull’«oscenità della situazione», fregandosene allegramente delle critiche che certamente i tristi sacerdoti del politicamente ed eticamente corretto non faranno mancare: e chi se ne frega!

4. Bruciare i libri maledetti! Chiudere i covi dei fascisti! O no?

Qualche settimana fa Furio Colombo si sperticava in lodi nei confronti della casa editrice francese Gallimard per la sua «saggia decisione» di sospendere la pubblicazione dei pamphlet antisemiti di Lois Ferdinand Céline, i quali potrebbero «alimentare ancora di più i rigurgiti dell’antisemitismo». Trovo esemplare, sostiene Colombo, che una casa editrice si ponga il problema di come possano impattare certe pubblicazioni su «una massa di cittadini allo sbando, disorientati da un sistema dei media orientato alla falsità. Non possiamo negare di vivere in tempi eccezionali, di montante antisemitismo e razzismo. In tempi eccezionali vanno adottate misure eccezionali» (intervista rilasciata a Radio Radicale). L’illusione della proibizione evidentemente è dura a morire. Inutile dire che le copie dei libri “maledetti” di Céline andranno a ruba, esattamente come il Mein Kampf di Hitler, perché come sa chiunque abbaia un briciolo di intelligenza ciò che è proibito o comunque stigmatizzato e criminalizzato come il male assoluto, assume subito il volto affascinante di una sfida all’autorità che per molti, soprattutto se giovani e “irrequieti”, diventa irresistibile. Più proibisci qualcosa, qualsiasi cosa, e più la rendi meritevole di attenzione.

A proposito di «massa alla sbando»! Kierkegaard una volta disse che «la massa è la non verità»; ma chi riduce gli individui a impotenti atomi sociali tenuti insieme come massa, più o meno «allo sbando», dalle strapotenti forze sociali? Lo so, la domanda è fin troppo suggestiva. In ogni caso, falso non è solo «il sistema dei media», quanto soprattutto il sistema sociale tout court. Falso, beninteso, dal punto di vista dei veri bisogni espressi da «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), da «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer), cosa che presuppone il superamento della divisione classista degli individui. Come diceva Adorno, «Non si dà vera vita nella falsa», e quindi è quantomeno ingenuo strillare contro la falsità del sistema dei media, il quale esprime al meglio la vigente condizione disumana. Che l’ingenuità possa approdare a ideologie e a prassi ultrareazionarie è cosa che non sorprende affatto il pensiero che aspira alla radicalità più conseguente sul piano concettuale e politico. Come diceva qualcuno, sovente la strada che porta all’inferno è lastricate di eccellenti intenzioni progressiste.

Su Il Post del 5 febbraio si poteva leggere la seguente inquietante notizia: «Nelle ultime ore le vendite di una particolare edizione del Mein Kampf – il libro di Adolf Hitler che espone i fondamenti dell’ideologia nazista – sono cresciute del 1.037 per cento su Amazon.it e il libro è arrivato ad essere 24esimo nella classifica dei libri più venduti, recuperando più di 200 posizioni. La classifica dei libri più venduti delle ultime 24 ore, per esempio, si aggiorna di ora in ora: il picco di vendite di oggi è probabilmente da collegare al fatto che in casa di Luca Traini, il 28enne neofascista responsabile dell’attentato di sabato 3 febbraio a Macerata, è stata trovata una copia del Mein Kampf, una notizia a cui i giornali hanno dato molto spazio tra ieri e oggi» (Il post del 5 febbraio).

Ora, anziché proibire la pubblicazione del Mein Kampf, non dovremmo piuttosto chiederci come mai questo libro continua ad avere così tanti lettori ed estimatori? A mio avviso tirare in ballo come risposta l’ignoranza, l’incultura, la memoria corta e i soliti “imprenditori della paura” spiega assai poco, e comunque niente di essenziale. Chi soffia sul fuoco può farlo solo perché un fuoco effettivamente esiste ed è alimentato da fatti reali che non hanno niente a che vedere con la cattiveria dei mestatori di turno. La nevrosi sociale è sempre attiva, e per scaricarsi in forma collettiva su qualche oggetto ha bisogno solo di un pretesto occasionale, non di rado creato ad hoc dal demagogo/populista di turno, appunto. La causa scatenante immediata non è dunque la pista che deve battere chi desidera accedere alla verità intorno alla natura della nevrosi sociale, e la distinzione che sempre più spesso i sociologi e i politici fanno tra un’incertezza percepita e un’incertezza reale è, sotto questo aspetto, assai significativa. Come sanno i filosofi, la percezione è molto spesso fonte di idee false, ma per il “popolino” essa conta di più, molto di più, delle fredde cifre scritte su un foglio a corredo di una serissima inchiesta sociologica, ad esempio sui crimini di sangue o sui furti nelle case commessi nel Paese negli ultimi anni: i numeri si riduco, la percezione di insicurezza cresce! Come si spiega la psicosi sociale?

La domanda che dobbiamo porci per comprendere alcuni fenomeni che allarmano i “sinceri democratici” e gli antirazzisti è, a mio avviso, la seguente: come mai a molti decenni di distanza dallo sterminio scientificamente pianificato degli ebrei non poche persone sono ancora attratte dall’antisemitismo, soprattutto quelle persone che nella loro vita non hanno mai visto e conosciuto un solo ebreo in carne ed ossa e non hanno mai letto nulla sul conto della «infida razza giudaica»? Sappiamo d’altra parte che in Europa l’ostilità contro gli stranieri di pelle nera è forte soprattutto in quei Paesi (Ungheria, Polonia, Austria, Repubblica Ceca) che in questi anni non sono stati investiti, se non del tutto marginalmente, dall’ondata migratoria che parte dall’Africa: come mai? Come mai in Gran Bretagna i sostenitori più agguerriti della Brexit si contavano soprattutto nei centri urbani che pur non registrando alcuna presenza dei famigerati “idraulici polacchi” pronti a rubare il lavoro agli idraulici di Sua Maestà La Regina, in compenso vantavano un altissimo livello di “sindrome dell’idraulico polacco”? Come mai il razzismo e la xenofobia sono diffusi in Germania soprattutto nelle sue regioni orientali, dove gli stranieri, soprattutto quelli di pelle nera, sono praticamente una rarità? Noi proletari sappiamo bene che i “negri” non ci rubano il lavoro, semplicemente perché il prezzo delle loro prestazioni lavorative e le condizioni di lavoro che sono costretti ad accettare non entrano in una reale concorrenza con la nostra condizione sociale: a quel prezzo e a quelle condizioni preferiamo senz’altro accedere alla carità sociale, finanziata dalla fiscalità generale, che ci passa lo Stato. E d’altra parte, le aziende che sfruttano i lavoratori africani non rimarrebbero sul mercato, almeno in larghissima misura, senza quella preziosa e poco, assai poco costosa manodopera. Eppure, non facciamo altro che ripetere la filastrocca cara ai “fascio-leghisti”: «Questi negri della malora ci rubano il lavoro!». Il nostro disagio sociale ha cioè bisogno di oggettivarsi in qualche nemico in carne ed ossa.

Tutto ciò non ci dice forse che la paura, l’angoscia, il disagio, la precarietà esistenziale possono spesso prendere le strade più imprevedibili e mostrarsi con le sembianze più diverse e fantasiose? Cosa ci dice questa semplice verità, sperimentata più volte e ovunque in questo capitalistico mondo, sulla nostra esistenza di individui sottoposti a dinamiche sociali che siamo ben lungi dal controllare e che anzi ci controllano e spesso ci scuotono in malo modo? Il processo sociale ci picchia in testa, metaforicamente parlando, e noi qualche volta sentiamo l’urgenza di picchiare qualcuno, e non solo metaforicamente parlando. Non si può vivere solo di metafore! Come dice lo psicanalista, anche l’atto vuole la sua parte.

Gli illuminati intellettuali che si ergono a censori del Male in difesa della massa dei cittadini ignoranti e socialmente disagiati, e proprio per questo facili preda di demagoghi e populisti d’ogni genere, ovviamente non si pongono il problema di come eliminare alla radice l’antisemitismo, il razzismo, l’ignoranza e il disagio sociale basato su condizioni materiali e psicologiche di vita che, come già sappiamo, creano sempre di nuovo paura, angoscia, rabbia, frustrazione, invidia sociale, odio cieco e incondizionato nei confronti di chi viene percepito, per un qualsivoglia motivo, come “diverso” e dunque meritevole di qualche antipatica attenzione: un insulto,uno sputo, una virile bastonatura. Basta tenere lontana la «massa di cittadini allo sbando» dai libri sbagliati, dalle idee sbagliate e dai movimenti politici sbagliati, e il gioco è fatto! E così la “casta” degli intellettuali progressisti può legittimamente rivendicare a sé, sulla scia della Repubblica di Platone, la funzione di controllo e di tutela nei confronti di chi inclina a “ragionare con la pancia”, mentre a imitazione degli intellettuali di cui sopra dovremmo tutti ragionare con la testa: sì, la testa appunto dei servitori delle classi dominanti autoproclamatisi progressisti e «amici dell’umanità tutta», a prescindere dal colore della pelle degli individui, dal loro sesso, dalla loro religione e da qualsiasi altra loro caratteristica. «Dobbiamo restare umani!». Questo slogan modaiolo proprio non lo reggo! Restare umani? Ma non scherziamo! Semmai dovremmo diventare umani, umani non solo a parole o come specie animale. «Dobbiamo restare umani!». Sic! Evidentemente c’è gente che ha bisogno di coltivare illusioni, su se stessa e sul mondo. Auguri!

«Non bisogna usare il comprensibile disagio della gente ferita e indurita da anni di crisi economica e di sacrifici per scatenare la guerra tra i poveri e lucrare qualche voto in più, e chi lo fa è un irresponsabile che soffia sul fuoco delle tensioni sociali»: quante volte al giorno, negli ultimi giorni, abbiamo sentito o letto simili buone riflessioni e intenzioni? Ma poi, “buone” per cosa? Semplicemente per denunciare il mercato dei demagoghi, dei populisti, dei razzisti e dei fascisti, e così meglio occultare ciò che rende possibile quel mercato, ossia la crescente miseria sociale, qui considerata non solo sotto l’aspetto economico. Si puntano i riflettori dell’indignazione e della “responsabilità sociale” sull’epifenomeno solo per creare il buio intorno alle cause del fenomeno. Cose mille volte viste ma dai più non comprese nel loro vero significato.

Gli antifascisti di vecchio e di nuovo conio rivendicano la chiusura dei «covi fascisti e razzisti» manu militari: «Lo Stato democratico nato dalla Resistenza non può tollerare il fascismo e il razzismo!». Chi pratica il terreno dell’anticapitalismo radicale (non conosco altro anticapitalismo che non sia radicale) sa bene che lo Stato democratico nato dalla Resistenza si pone in perfetta continuità sociale con lo Stato fascista che lo ha preceduto, e sa altrettanto bene che qualsiasi tipo di Stato capitalistico (vedi regimi politico-istituzionali con caratteristiche europee, statunitensi, russe, turche, venezuelane, cinesi, ecc.) è posto a difesa di quei rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che sono alla base di ogni sorta di fenomeno sociale e di qualsiasi contraddizione sociale. In altri termini, chiedere allo Stato di reprimere i fenomeni sociali (compresi quelli sanzionati dal codice penale e passibili di galera: certo, sto parlando anche dei ladri e dei “rei” di ogni tipo) generati dalla società di cui esso è il più feroce cane da guardia, è tipico di un pensiero confinato nella disumana dimensione dello status quo sociale.

Come ho scritto altrove, il razzismo, l’antisemitismo e ogni forma di ideologia autoritaria (non importa se di “destra” o di “sinistra”) non si combattono invocando l’intervento repressivo dello Stato, il quale non aspetta altro per rafforzarsi e legittimarsi presso l’opinione pubblica, ma impegnandosi, dove si può e come si può, nella difficilissima opera intesa a realizzare nelle classi subalterne, e nei “disagiati” e negli offesi d’ogni estrazione e condizione sociale, un “sentimento” di crescente autonomia (politica, ideale e psicologica) nei confronti del vigente regime politico e sociale. Non si tratta di lottare i fascisti e i razzisti “dal basso”, invocazione “populista” che non significa niente (niente di buono per le classi subalterne, intendo dire), ma sul terreno dell’autentico anticapitalismo. Bisogna sapere che su questo impervio terreno i militanti anticapitalisti dovranno fare i conti non solo con i fascisti e i razzisti conclamati, ma anche e soprattutto con i difensori della democrazia capitalistica e della Costituzione più bella del mondo.

* O. Bauer, Tra due guerre mondiali? pp. 116, 117, Einaudi, 1979.

MARCINELLE 1956, MEDITERRANEO 2017. UNA FACCIA, UNA DISGRAZIA

Ni chiens, ni italiens!

Né cani, né africani!

Né cani, né africani, né omosessuali!

Né cani, né africani, né omosessuali, né…

 

Com’è noto, nell’immediato dopoguerra l’Italia siglò con il Belgio un accordo che prevedeva quote di carbone estratto nelle miniere di quel Paese in cambio di manodopera italiana, a testimonianza del fatto che, come diceva l’uomo con la barba, nel Capitalismo «il lavoro-merce è una tremenda verità». Scriveva Paolo Di Stefano sul Corriere della Sera del 16 agosto 2016: «Eravamo Poveracci. Partivamo dal Nord, dal Centro e dal Sud con un panino o un’arancia in tasca, fuggivamo dalla povertà. I manifestini rosa che invitavano i ragazzi a emigrare in Belgio promettevano case per le famiglie, assicurazioni e buoni stipendi. Niente fu mantenuto: in Belgio gli operai venivano ospitati nelle baracche dei prigionieri di guerra. Erano partiti per cercare un po’ di benessere ma anche per rimediare alle lacune della manodopera belga che non voleva più scendere in miniera e preferiva lavorare nelle fabbriche. Il governo italiano, nel 1946, aveva firmato un accordo con Bruxelles che prevedeva uno scambio: per 1000 minatori mandati in Belgio, sarebbero arrivate in Italia almeno 2500 tonnellate di carbone. Uno scambio uomini-merce». Marxianamente parlando quest’ultima frase andrebbe riscritta come segue: uno scambio di uomini ridotti a merce con altra merce (materia prima); capitale/lavoro vivo (il mitico “capitale umano”) contro capitale/lavoro morto.

Leggo da qualche parte: «L’8 agosto 1956 nella miniera del Bois du Cazier, in Belgio un incendio causò la morte di 262 minatori di cui 136 italiani. La miniera di Marcinelle è diventata un simbolo e un santuario della memoria per tutti gli emigranti italiani che hanno perso la vita sul lavoro, spesso un lavoro duro, faticoso e pericoloso». La ricostruzione postbellica non fu esattamente un pranzo di gala, da nessuna parte. Ebbene, l’Italia ha fatto di quelle vittime del Capitale e degli interessi nazionali degli eroi, dei soldati-minatori caduti sul fronte del lavoro per mantenere alto l’onore e il prestigio della Nazione: «La memoria di questo tragico evento, che nel nostro Paese celebriamo come Giornata del Sacrificio del lavoro italiano nel mondo [che definizione fascistissima!], deve servire da guida per noi e per i nostri figli. Le nostre comunità all’estero non sono solo viste come destinatarie di servizi, ma anche e soprattutto come una componente essenziale della politica estera dell’Italia». Queste le dichiarazioni rilasciate dal sottosegretario agli Affari Esteri, Vincenzo Amendola, nel corso della commemorazione delle vittime di Marcinelle. Per quanto mi riguarda la nazionalità di quei salariati uccisi dai rapporti sociali capitalistici non ha alcuna importanza; «Non dimenticare Marcinelle» per me non significa in alcun modo sostenere le politiche di chi cerca di gestire le contraddizioni sociali ai fini della difesa dello status quo sociale implementando una strategia “buonista” («Gli immigrati fanno i lavori che noi italiani non vogliamo più fare, frenano il calo demografico nel Paesi ricchi e ci pagano le pensioni!»); né significa, ovviamente, tessere l’elogio dell’immigrato italiano “buono” (come i macaronìs!) che sgobbava senza lamentarsi – mentre i negracci che purtroppo riescono a sopravvivere al deserto, ai carnefici dei lager libici e ai pesci del Mediterraneo non hanno voglia di fare nulla di costruttivo!

Il 61esimo anniversario della strage di Marcinelle, celebrato lo scorso 8 agosto, ha offerto ai “buonisti” e ai “cattivisti” che si disputano la scena politica nazionale un’eccellente occasione per esibirsi dinanzi al pubblico dei rispettivi tifosi e detrattori. Come abbiamo visto il fronte buonista ha avuto i suoi campioni nel Presidente della Repubblica Sergio Mattarella («Generazioni di italiani hanno vissuto la gravosa esperienza dell’emigrazione, hanno sofferto per la separazione dalle famiglie d’origine e affrontato condizioni di lavoro non facili, alla ricerca di una piena integrazione nella società di accoglienza . È un motivo di riflessione verso coloro che oggi cercano anche in Italia opportunità che noi trovammo in altri Paesi e che sollecita attenzione e strategie coerenti da parte dell’Unione Europea»), nel Ministro degli Esteri Angelino Alfano («La tragedia di Marcinelle ci dà ancora oggi la forza di lavorare per un’Europa più coesa e solidale, come l’avevano immaginata i padri fondatori. Un’Europa che trae origine e sostanza dal genuino spirito di fratellanza fra i suoi popoli. Mi riferisco in particolare al flusso continuo di migranti disperati che oggi, come allora, cadono troppo spesso vittime») e, dulcis in fundo (ma si fa solo per dire), nell’immancabile Presidente (o Presidenta? o Presidentessa?) della Camera Laura Boldrini: «L’anniversario della tragedia di Marcinelle ci ricorda quando i migranti eravamo noi. Oggi più che mai è nostro dovere non dimenticare». Non dimenticare cosa esattamente? E «noi» e «nostro» in che senso? Ad esempio, chi scrive cosa ha da spartire con i campioni del buonismo appena citati? La nazionalità? Non c’è dubbio; ma è, questo, un connotato anagrafico che sempre chi scrive respinge sul terreno della lotta (si fa quel che può!) anticapitalistica, la quale, come ho già accennato, dissolve ogni appartenenza nazionale, razziale, religiosa e quant’altro per porre al centro dell’attenzione la disumana prassi del Dominio, la maligna entità storico-sociale che rende possibile anche le carneficine, in tempo di guerra come in tempo di – cosiddetta – pace. È questo d’altra parte il filo nero che lega la Marcinelle del 1956 al Mediterraneo del 2017. Ovviamente e come sempre, mutatis mutandis.

Cambiando dunque l’ordine cronologico delle stragi, il colore della pelle degli sventurati e il contesto storico/geopolitico degli eventi qui evocati, il risultato non cambia. E si chiama Capitalismo, la cui dimensione oggi è mondiale. La spinta migratoria che origina soprattutto nell’Africa subsahariana ha moltissimo a che fare con le dimensioni e con la natura invasiva del Capitalismo, il quale genera “scompensi”, magagne e contraddizioni sia là dove esso per così dire abbonda (vedi il cosiddetto Nord del mondo), sia là dove invece esso è asfittico e tarda a decollare, e questo, nella fattispecie, soprattutto a cagione della prassi colonialista e imperialista che vide protagonisti alcuni Paesi europei già a partire dalla fine del XV secolo. L’ineguale sviluppo del Capitalismo ha sempre creato onde di pressione sociale che coinvolgono l’intero pianeta, e che possono manifestarsi anche sottoforma di migrazioni di massa, un fenomeno che, come impariamo fin dalle scuole elementari, se osservato dalla prospettiva storica non ha in sé nulla di eccezionale: il bisogno spinge i popoli a muoversi, da sempre. Oggi questo processo sociale si dispiega nell’epoca caratterizzata dal totalitario dominio dei rapporti sociali capitalistici, e questo connotato storico-sociale gli conferisce la peculiare fenomenologia che ci sta dinanzi.

Ma ritorniamo a Miserabilandia! Dei buonisti abbiamo già detto. Immediata è scattata la rappresaglia dei cattivisti, i quali si sono prodotti nel solito coro: «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». «Mattarella si vergogni», ha tuonato appunto il leader leghista Matteo Salvini. «È vergognoso – ha dichiarato Paolo Grimoldi, deputato della Lega Nord e segretario della Lega Lombarda – che il presidente Mattarella nel ricordare la strage di Marcinelle paragoni gli italiani che andavano a sgobbare in Belgio o in altri Stati, dove lavoravano a testa bassa, dormendo in baracche e tuguri, senza creare problemi, agli immigrati richiedenti asilo che noi ospitiamo in alberghi [che invidia!], con cellulari, connessione internet [e io pago!], per farli bighellonare tutto il giorno e avere poi problemi di ordine pubblico, disordini, rivolte come quella avvenuta oggi nel napoletano dove otto immigrati minorenni hanno preso in ostaggio il responsabile della struttura che li ospita. Paragonando questi richiedenti asilo nullafacenti agli italiani morti a Marcinelle il presidente Mattarella infanga la memoria dei nostri connazionali. Si vergogni». Ecco appunto. Per il capogruppo Pd alla Camera, Ettore Rosato, «le parole di Matteo Salvini sono vergognose [ci risiamo!] perché offendono il Presidente Mattarella [e chi se ne frega!] e gli italiani»: nella mia qualità di disfattista rivoluzionario non mi sento offeso neanche un po’ dal vomito razzista che esce dalla bocca di Salvini e gentaglia simile. Questa è robaccia che può eccitare gli animi delle opposte tifoserie che siedono sugli spalti di Miserabilandia. Dal mio punto di vista buonisti e cattivisti pari sono, e rappresentano due opzioni interne all’esigenza di gestire i processi sociali e di controllare la società per garantire la continuità dello status quo sociale – sociale, non meramente politico-istituzionale.

Pare che anche qualche discendente delle vittime di Marcinelle si è sentito offeso dal buonismo presidenziale di Mattarella, da quello governativo di Alfano e da quello istituzionale della Boldrini: «Aldo Carcaci, figlio di un emigrato e oggi deputato belga, ha contattato IlGiornale.it dicendosi esterrefatto da quanto sentito in questa giornata di dolore. “Mi sento offeso dalle parole che ho sentito. Così come è offesa la memoria delle persone che hanno perso la vita nella miniera di Marcinelle. Paragonare quegli immigrati con quelli di oggi è sbagliato. Quando mio padre nel 1947 è andato in Belgio c’èrano degli accordi tra i due Paesi. C’era, da parte del Belgio, una richiesta di lavoratori. In Italia invece i giovani non hanno un impiego ed è quindi impensabile riuscire ad aiutare tutti i ragazzi africani che arrivano ogni giorno sulle nostre coste. Inoltre noi ci siamo integrati, abbiamo studiato, imparato la lingua e lavorato anche se subivamo episodi di razzismo”» (Il Giornale). Capito? Noi eravamo brava gente (e pure di pelle bianca, salvo qualche siciliano particolarmente abbronzato); loro invece…

Quanto escrementizia e risibile sia la disputa tra buonisti e cattivisti lo apprendiamo anche dalla discesa in campo dell’attore comico Jerry Calà («Capito?»): «Non paragoniamo i nostri emigrati per piacere! Loro chiusi in baracche da cui uscivano solo per lavorare e rientravano per farsi da mangiare. Mio zio è morto in Belgio nelle miniere per mantenere la famiglia italiana. Mi permetto di parlare perché ne sono parente e in quegli anni ci sono stato. In Svizzera, in Belgio, in Germania. Non facciamo paragoni assurdi per piacere! Gli emigranti italiani venivano trattati come animali da soma… pulitevi la bocca». Pare che l’indignazione dell’attore abbia riscosso un notevole apprezzamento in una non piccola parte di Miserabilandia.

Giustamente Francesco Cancellato (Linkiesta) considera «stucchevole e pedagogico sentirsi dire che dovremmo solidarizzare coi migranti perché un tempo lo siamo stati anche noi. Come se solo una pregressa condizione di sfruttati possa muoverci a pietà per una moltitudine di disperati in fuga dall’inferno. Come quando nei telegiornali una tragedia diventa tale solo se ci sono morti italiani». E soprattutto egli sottolinea le differenze che corrono tra la tragedia di Marcinelle e la strage continua dei «disperati in fuga dall’inferno», una differenza che, per così dire, porta acqua al mulino della moltitudine in fuga da guerre, fame, malattie, miserie d’ogni genere. Il paragone tra Marcinelle e il Mar Mediterraneo è tale da far impallidire i morti del 1956. Scrive Cancellato (il quale, beninteso, argomenta dal punto di vista degli interessi nazionali): «Nel 1956 eravamo alla vigilia di quello che oggi definiamo “miracolo economico italiano”, indotto dal Piano Marshall (sì, gli Stati Uniti ci aiutavano a casa nostra): nei quattro anni successivi, tra il 1957 e il 1960, per dire, la produzione industriale italiana crebbe del 31,4% e la crescita del Pil non scese mai sotto il 5,8%. Ritmi cinesi, insomma, per il quale c’era bisogno di materie prime come il carbone. Ed è proprio per quel carbone che fu firmato il protocollo Italo-Belga, dieci anni prima, nel 1946». In secondo luogo, «nel Canale di Sicilia, negli ultimi quindici anni, hanno perso la vita 30mila anime. Ripetetevelo nella mente: trentamila. Ci sono più cadaveri che pesci, in quel tratto di mare. Se vogliamo capire cosa provano quegli esseri umani che cercano di entrare in Europa – attraversando l’Italia – dal Canale di Sicilia, prendiamo la più grande tragedia della nostra stagione migratoria e moltiplichiamola per dieci, cento, mille, un milione. Magari servirà a farci capire a chi stiamo chiudendo le porte». In terzo luogo, «per convincere gli italiani a partire, nel 1946 l’Italia fu tappezzata di manifesti rosa che presentano i vantaggi derivanti dal mestiere di minatore: salari elevati, carbone e viaggi in ferrovia gratuiti, assegni familiari, ferie pagate, pensionamento anticipato. Per quanto terribili fossero poi le loro condizioni di lavoro, una situazione un po’ diversa rispetto a quella delle migliaia di schiavi africani che ogni anno raccolgono pomodori e arance tra Puglia e Sicilia. Se pensate siano fenomeni imponderabili, sappiate che solo a raccogliere i pomodori, ogni anno, sono impiegati quasi 20mila braccianti, molti dei quali senza contratto, molti dei quali stranieri, molti dei quali irregolari». Su questo aspetto rinvio a due miei post: Rosarno e dintorni e Uomini, caporali e cappelli.

Scrive il “realista” Maurizio Molinari: «L’integrazione dei migranti è un test di crescita per ogni democrazia industriale, capace di rafforzarne la prosperità come di indebolirne la solidità, e l’Italia non fa eccezione. Ecco perché è opportuno affrontare senza perifrasi la sfida che abbiamo davanti, guardando oltre liti politiche interne e dispute internazionali. […] L’interesse dell’Italia è dotarsi di provvedimenti, leggi e politiche che rendano possibile [l’integrazione degli immigrati] sulla base di principi condivisi: non tutti i migranti che sbarcano possono rimanere perché una nazione sovrana non è una porta girevole, ma chi viene accolto deve poter intraprendere un cammino verso la cittadinanza che include l’integrazione nel sistema produttivo. Poiché coniugare integrazione e sovranità è una sfida nazionale per essere vinta necessita il coinvolgimento di tutte le forze politiche del Paese, che si trovino al governo o all’opposizione poco importa, e in ultima istanza il sostegno e l’attenzione di tutti i cittadini italiani, a prescindere dalle fedeltà di credo o di partito» (La Stampa). Un appello che ovviamente non può convincere (anzi!) chi lotta contro gli interessi nazionali (vedi anche il mio post sulla Libia) e per la costruzione dell’autonomia di classe, la quale è tale solo se prospetta a tutte le vittime del Capitale, a prescindere dal colore della loro pelle, dalla loro nazionalità, ecc., la necessità e l’urgenza di unirsi in un vasto fronte anticapitalista. Tutto il resto (“buonismo” e “cattivismo”) è miseria capitalistica.

CARLO CATTANEO E LE INTERDIZIONI IMPOSTE AGLI EBREI

È assurdo e sconveniente al massimo
grado che gli ebrei, che per loro colpa
sono stati condannati da Dio alla
schiavitù eterna, possano, con la scusa
di essere protetti dall’amore cristiano e
tollerati nella loro coabitazione in mezzo
a noi, pretendere dominio invece di
sottomissione (Paolo IV).

I nostri avi condannavano l’Ebreo a vivere
di usura e di baratti; e poi lo maledicevano
come usurajo e barattiere (Carlo Cattaneo).

 

Per puro caso (complice Radio Radicale) mi sono imbattuto nella presentazione, avvenuta alla Camera dei Deputati lo scorso 21 marzo («In concomitanza con l’anniversario delle Cinque Giornate di Milano»), della nuova edizione delle Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti (Vallecchi), un saggio estremamente interessante che Carlo Cattaneo scrisse nel 1835 e che vide la luce due anni dopo, non prima cioè di un’attenta verifica da parte della censura austriaca. A quanto pare la censura lasciò qua e là il segno, ma l’impianto generale del saggio rimase intonso, e comunque tale da suscitare l’interesse di un lettore che oggi fosse interessato a comprendere la genesi dell’antisemitismo. Le Interdizioni furono pubblicate nel 1837 negli Annali della giurisprudenza pratica con la data dell’anno precedente; io ho letto appunto questa vecchia edizione che ho trovato sul Web in formato PDF.

Conoscevo assai superficialmente Carlo Cattaneo nella sua qualità di padre del pensiero federalista risorgimentale, e in questa veste usato strumentalmente all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso dalla Lega di Bossi attraverso la mediazione del Professor Gianfranco Miglio – il quale peraltro non nascose mai i suoi dubbi intorno allo spessore politico-intellettuale del Senatur. Ultimamente ho scoperto un Cattaneo eminente economista, conoscitore della migliore letteratura economica prodotta nel Vecchio Continente a partire dalla fine del XVIII secolo, e soprattutto un intellettuale progressista interessato a dimostrare le origini sociali del pregiudizio antisemita e a denunciare le nefaste conseguenze che tale pregiudizio ebbe, non solo sulla vita della Comunità Ebraica, com’è evidente, ma sullo stesso sviluppo economico dei Paesi europei che tardavano a sradicarlo una volta per sempre. Cattaneo non nega affatto le ragioni della pessima nomea che gli ebrei si sono fatti nel corso dei secoli soprattutto presso il cosiddetto “popolino” (1), e in questo senso può dare perfino l’impressione di essere, per così dire, più realista del re; egli è piuttosto interessato a dimostrare, girando “dialetticamente” la frittata della storia, che il pregiudizio antisemita affonda le sue radici non nella natura degli ebrei in quanto tali, ossia come popolo ormai costretto alla diaspora, ma piuttosto nella prassi antisemita adottata dalle autorità politiche e religiose. L’ebreo giustamente disprezzato dai cristiani è in realtà una loro creazione; egli non viene fuori dalla natura, né è il prodotto del destino cinico e baro: l’ebreo errante dell’iconografia antisemita è una creatura di quello stesso mondo che tanto lo disprezza. È il nostro ottuso pregiudizio che ha fatto degli ebrei gli esseri spregevoli che abbiamo imparato a disprezzare, e non viceversa. La colpa dell’antisemitismo ricade interamente su noi. È dunque venuto il momento di mettere gli ebrei nelle condizioni (economiche, politiche, culturali, civili) di diventare cittadini a pieno titolo come lo sono quelli appartenenti alle altre confessioni religiose. Infatti, «L’abolire le interdizioni sarebbe stata l’unica misura efficace a por limite alla loro opulenza, adeguando le forze lucrative degli Israeliti e quelle di qualsiasi altro ceto di viventi. Ma l’odio è cieco come l’amore. Tutte le passioni sono cieche» (2).

Naturalmente per apprezzare nel modo corretto l’operazione tentata da Cattaneo occorre guardarla dalla prospettiva storica, la sola che può evitarci errori d’ogni sorta – ad esempio, quello di far ragionare i protagonisti della storia passata con la nostra mentalità “moderna”.

Il patriota milanese pensava, da buon illuminista, che l’antisemitismo avesse ormai i giorni contati, essendo non più che un odioso retaggio di epoche storiche passate, contrassegnate dall’oscurantismo politico-religioso delle istituzioni che poteva contare su una vastissima incultura da parte del popolino. Retaggio odioso e, ha cura di ricordare puntualmente Cattaneo, economicamente deleterio anche per i non ebrei: «V’è qualche Israelita che ami portare nel territorio di Basilea i suoi risparmi per fecondare la terra e renderla ridente e ubertosa? perché respingerlo? Tito rimproverava Vespasiano di aver messo un’imposta sulle cloache, e Vespasiano gli porse una moneta proveniente da quella gabella, e disse: fiuta; trovi tu che abbia cattivo odore? E si potrebbe dire ai paesani di Basilea: i franchi dell’Israelita han forse cattivo odore? Una vite piantata dall’Israelita in un campo finora incolto, darà forse uve amare o velenose? La natura non prende parte ai nostri ciechi rancori; ella è madre giusta e buona per tutti gli uomini laboriosi. Noi facciamo guerra a noi stessi censurando e contrariando il voto della clemente natura. Lasciate fare all’Israelita, e quell’industria che ha ammassato i milioni, saprà anche nutrirne la fecondità e l’amenità della terra» (p. 3). Lasciate che il Capitale degli ebrei, in tutto simile al Capitale dei cristiani, dei musulmani e degli atei, fecondi la natura! Lasciate che essi possano vivere anche di plusvalore, e non solo di profitto commerciale e di interesse! In effetti, il Capitale non conosce, in linea generale, distinzioni di razza, di sesso, di religione e di nazione; tuttavia, la società borghese non solo non è stata in grado di superare i vecchi (“atavici”) pregiudizi basati sulla razza, il sesso eccetera, dotandoli peraltro di un arsenale tecnologico (armi e strumenti di propaganda) davvero micidiale; ma ne ha creati piuttosto di nuovi.

Se, ragionando per assurdo, qualcuno avesse potuto dire a Cattaneo che il pregiudizio antisemita avrebbe assunto proporzioni da inferno dantesco proprio nel secolo che vedrà il trionfo della tecnica e della scienza, egli probabilmente si sarebbe messo a ridere: «Che sciocchezza è mai questa! Il Progresso non conosce né soste né inversione di marcia: la freccia, una volta scagliata, corre sempre in avanti». Illuminismo, appunto (4). Purtroppo, come scrisse una volta Max Horkheimer, «Di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (5). All’uomo in generale, e all’ebreo in particolare, verrebbe da aggiungere. Attilio Milano, autore di un’apprezzabile Storia degli ebrei in Italia (1962), definì Cattaneo «il più solido e agguerrito paladino della risoluzione integrale del problema ebraico» (6); un secolo dopo, altri personaggi si cimenteranno, con ben altra “radicalità” e con opposta intenzione, nella soluzione finale del problema ebraico. C’è mancato davvero poco, pochissimo, che questa impresa non si realizzasse completamente, al 100 per 100.

C’è da dire che, come ricorda Paolo Maltese, «in Germania l’ostilità avrebbe preso a svilupparsi dopo la grande crisi finanziaria del 1873, che avrebbe rovinato parecchi appartenenti alla classe media. Crisi che finì, infatti, per fare degli ebrei – visti come potenza economica – il capro espiatorio della situazione. […] Nel 1881, Karl Eugen Dühring, insegnante di economia e filosofia all’università di Berlino, nel suo Die Judenfrage als Rassen, Sitten und Kullturfrage, dipingeva, a sua volta, ai propri studenti gli ebrei come una razza il cui stesso sangue era maledetto» (7). Ed era esattamente in questa accezione che negli anni Settanta del secolo scorso, mia madre, una proletaria completamente digiuna di storia e di politica, e che sicuramente non avrebbe nemmeno saputo indicare l’ubicazione geografica di Israele (né di qualche altra nazione, per la verità), mi dava dell’ebreo tutte le volte che intendeva sottolineare il mio malsano comportamento. Probabilmente è anche per questo che ho sempre nutrito una forte simpatia e ammirazione nei confronti degli ebrei. Scherzo. Naturalmente la cara donna usava quello che nella sua testa suonava come una sanguinosa offesa solo per sentito dire, e come sinonimo, appunto, di persona cattiva, egoista, priva di scrupoli e di sentimenti positivi nei confronti del prossimo. Ho aperto questa brevissima parentesi biografica non in odio a mia madre, che in realtà amo, ma solo per dire quanto radicato sia rimasto il pregiudizio antiebraico soprattutto presso gli strati sociali che occupano i gradini più bassi della scala sociale, che difatti sono i più esposti alla sirena razzista: «Gli africani ci rubano il lavoro, sporcano le strade e insidiano le nostre donne: cacciamoli!». Perché gli ebrei sono diventati «il capro espiatorio della situazione» per eccellenza? È questo il rognoso problema che Cattaneo affronta.

«Vi fu un tempo in cui tutta l’Europa consentì ad aggravare di dolorose interdizioni la vita degli Israeliti. E ora è giunto un altro tempo in cui ogni innovazione di leggi e d’ordini civili concorre con mirabile uniformità e costanza ad alleviare il peso di quelle interdizioni, e a riannodare tra quelle e le altre stirpi del genere umano i vincoli della carità e della pace. Perché sono venute quelle interdizioni allora? E perché se ne vanno adesso? L’origine loro si deve all’andamento universale delle cose a quei tempi, e soprattutto a ragioni economiche che qui si accenneranno di volo» (8). Per lo studioso milanese la storia degli ebrei è in primo luogo un problema d’economia politica: «Questa scienza insegna come gli Ebrei divennero i più ricchi tra gli abitanti della terra; essa svolge praticamente la verità del sacro adagio: “Gli ultimi saranno i primi”. Noi abbiamo tenuto gli Ebrei in rigidissima tutela, costringendoli anche già ricchi a trafficare e industriarsi senza posa ed a vivere senza piaceri e senza distrazioni. Noi abbiamo tessuto di dispendiose vanità tutta la nostra vita e abbiamo tessuto tutta la vita loro di solide realtà» (p. 65). Anziché annientarli, i divieti imposti agli ebrei li hanno piuttosto conservati, rafforzati e cementati sul piano religioso e delle abitudini, facendone «un inimico accampato nel grembo della nazione, il quale nel secreto delle transazioni private rende a più doppj quel male che gli viene inflitto dalle publiche ordinanze». E questo semplicemente perché «quelle leggi che proscrivono un ceto qualunque, e lo escludono dalla sociale convivenza, lo sciolgono eziandio dalla necessità di rendersi utile e accetto agli altri ceti, e lo abbandonano alla spinta grossolana e immorale dell’egoismo» (p. 57). Questi passi mi sembrano abbastanza in sintonia, sempre cambiando quel che c’è da cambiare, con l’odierno dibattito europeo intorno 1) alla necessità di regolamentare in modo più o meno severo l’afflusso di immigranti, e 2) alla politica di integrazione delle cosiddette seconde/terze generazioni di immigrati che vivono una condizione di emarginazione nelle periferie di alcune grandi città europee, Parigi e Londra in testa.

Come scrivevano Horkheimer e Adorno (Elementi dell’antisemitismo), «Gli ebrei non furono i soli ad occupare la sfera della circolazione. Ma sono stati rinchiusi in essa troppo a lungo per non riflettere, nella loro natura, l’odio di cui sono stati sempre oggetto. Ad essi, a differenza dei loro colleghi ariani, era precluso, in larga misura, l’accesso alla fonte del plusvalore. Solo tardi e con difficoltà hanno potuto accedere alla proprietà dei mezzi di produzione. […] Il commercio non era la loro professione, ma il loro destino» (9). Si può forse dire, con una punta di cinismo che certamente non disturberà il fine senso dell’humour sviluppato nel corso dei secoli dai “deicidi”, che l’ebreo che venne fuori dal processo storico-sociale è una sorta di profezia che si autoavvera. Beninteso, qui la profezia parla la lingua dei carnefici e, appunto, del processo storico-sociale. In questo senso Marx scrisse: «Noi spieghiamo la tenacia dell’ebreo non con la sua religione, ma piuttosto col fondamento umano della sua religione, col bisogno pratico, con l’egoismo» (10).

Per farsi un’idea della notevole cifra intellettuale di Cattaneo, è sufficiente leggere quanto segue: «Fissar limiti alle usure era un’impresa disperata. Coll’aggravarsi della miseria universale crescevano i lucri dei pochi denarosi. In questo male cadranno sempre tutte le leggi che si dedurranno dalle asserzioni del nudo diritto dissociato dai fatti dell’economia» (11). Quando ho letto questi ultimi passi, ho subito pensato al vecchio ebreo di Treviri, il quale avrebbe certamente apprezzato la concezione “materialistica” del diritto elaborata dallo studioso milanese, il quale considerava il Regno di Sardegna una pessima alternativa all’Impero Austriaco soprattutto in base a considerazioni economiche. Egli considerava il Piemonte uno Stato economicamente arretrato rispetto alla Lombardia, e assai poco democratico, e dunque un modello da non seguire sulla strada dell’emancipazione nazionale degli italiani: «Il popolo deve tenere le mani sulla propria libertà». Trattasi di radicalismo democratico-borghese, non di “populismo”! Com’è noto, la sua posizione federalista uscirà perdente dal processo di unificazione nazionale, e a partire dagli anni Novanta del secolo scorso gli storici si sono interrogati, un po’ oziosamente a dire il vero, sul volto che avrebbe avuto l’Italia se allora avesse trionfato la tendenza federalista (oltre che laica e liberale) incarnata da Cattaneo.

La tesi centrale delle Interdizioni, peraltro già ampiamente anticipata sopra, è abbastanza semplice, e provo a riassumerla in poche battute. Gli ebrei furono messi nelle condizioni di accumulare immensi patrimoni finanziari da quello stesso mondo ostile che nel corso dei secoli aveva congiurato per eliminarli dalla faccia della terra, e poi ne subiranno le tragiche conseguenze come se si fosse trattato di un loro libero orientamento, e non, appunto, delle conseguenze inattese di altrui comportamenti. Quel mondo fece di tutto, nei fatti (“oggettivamente”), per conservarli e, al contempo (e in piena coscienza), per annientarli. Questa dialettica è ben visibile nelle pagine del saggio, e ne costituisce anzi un importante filo conduttore. «La depressione civile degli Ebrei era per altra parte ancora un fomento alla loro opulenza» (p. 43). Non volendoli assorbire e sciogliere nel processo storico; tenendoli lontani dalle attività produttive (dall’agricoltura, in primis) e dalla vita civile (dalla politica, dalla cultura, dalla scienza, dalla moda), il mondo cristiano li ha conservati in guisa di comunità chiusa, facendone, loro malgrado, una perfetta macchina per accumulare tesori, salvo poi incolpare di questo gli stessi ebrei, cioè le vittime delle sue interdizioni!
Con la sanguinosa repressione delle due grandi rivolte ebraiche del 70 d.C. (distruzione del Tempio Sacro) e del 134 (sotto la guida di Simon Bar Kokhbà) da parte delle legioni Romane, inizia quella che passerà alla storia come la diaspora ebraica: gli ebrei cessano di esistere in quanto popolo organizzato come Nazione cara a Jahwe e iniziano a sperimentare la durissima esistenza di esuli all’interno dell’Impero Romano. Spagna, Italia, Germania e Francia saranno i maggiori centri europei della diaspora ebraica. Fino al IV secolo gli ebrei non saranno fatti segno di una particolare avversione da parte dello Stato Romano, peraltro abituato da secoli a convivere con una moltitudine di popoli e di credi religiosi, anche se il rigido monoteismo ebraico, un’assoluta rarità nel mondo antico, aveva sempre urtato la suscettibilità pagana della classe dirigente romana, che a giusta ragione vi aveva visto uno dei più importanti fattori di coesione del popolo ebraico, la cui identità culturale e religiosa difatti sopravvisse alla distruzione di Gerusalemme.

Scrive Cattaneo: «Dopo la conquista romana comparvero a poco a poco anche in occidente, dove i popoli politeisti li fecero bersaglio di uno strano disprezzo. Certo le loro dottrine sull’unità di Dio dovevano ingelosire i sacerdoti della cadente idolatria. Ma qualunque fosse l’opinione degli uomini, non pare che in quei secoli gli Ebrei avessero rinvenuta l’arte di raccogliere tesori. Molte altre nazioni o disperse dalla patria al pari di loro, o diffuse per tutto il mondo in colonie mercantili come Fenici e Greci; e più di tutto gli stessi cavalieri romani avevano già posto la mano sui più fruttuosi rami del commercio, come il cambio, l’usura e le finanze. Né d’altronde è chiaro se la legge romana negasse agli Ebrei la possidenza o alcun altro diritto concesso agli altri sudditi peregrini. Quando nel 212 Caracalla, per frangere l’orgoglio degli Italiani, divulgò la cittadinanza a tutti gli altri abitanti liberi dell’imperio e con ciò pose fine alla romana nazionalità, non si legge che gli Israeliti venissero segnati con alcuna sfavorevole distinzione» (p. 13). Per gli ebrei la situazione cambia bruscamente, e in peggio (con la tendenza a un inarrestabile peggioramento), con l’ascesa del cristianesimo come religione di Stato: «Nel IV secolo, resasi generale nella città la fede cristiana, crebbe l’avversione agli Ebrei. Si cominciò ad escluderli in uno coi pagani dalla legge comune. Si intimò la confisca a chi passasse dal cristianesimo al giudaismo, si minacciarono le pene dell’adulterio ad ogni matrimonio fra Cristiani e Giudei, si interdissero nelle nozze degli Ebrei le osservanze israelitiche. Nel secolo seguente si vietò agli Ebrei di acquistar servi cristiani; si esclusero da tutte le amministrazioni e dalle dignità anche municipali; si proibì l’edificazione di nuove sinagoghe. In seguito, sotto Giustino e Giustiniano si interdisse agli Ebrei la milizia e il professorato, si dichiararono inabili a far testimonio contro un ortodosso, e s’erano della setta samaritana, inabili a far qualsiasi testimonio; si comandò la demolizione delle sinagoghe dei Samaritani; finalmente si ordinò che tutti i non battezzati subissero la confisca d’ogni bene mobile e immobile e fossero puniti ed esiliati. Leone d’Iconoclasta costrinse gli Ebrei al battesimo. Ma più della forza dovevano valere le varie disposizioni che intercedevano le eredità ai non ortodossi. Quindi come gente che non aveva più nulla da perdere nel concetto degli uomini e che soprattutto aveva bisogno di celare le proprie sostanze, si diedero apertamente all’arte feneratizia» (p. 14).

È ovvio che se non ci fossero stati gli ebrei a svolgere quell’ingrata, e tuttavia necessaria funzione, altri gruppi sociali/nazionali l’avrebbero svolta al loro posto, tant’è vero che molte volte piccoli commercianti e usurai cristiani hanno sobillato il popolino contro i «maledetti ebrei» solo per prenderne il posto, e lo stesso schema è stato usato lungo tutto il Medioevo da tutti coloro (Re, cavalieri, principi, alto clero, ecc.) che si rivolgevano al credito degli ebrei in momenti di eccezionale bisogno (per organizzare una guerra, per affrontare una carestia o una pestilenza, ecc.), con la segreta speranza di poter estinguere il debito con metodi più o meno ortodossi…. Periodicamente il popolo è stato sollevato contro gli «assassini di Cristo» allo scopo di azzerare i debiti contratti con i «porci giudei», e anche questa possibilità, insieme a quella non meno importante della riservatezza (nessuno osava certo confessare di essere un debitore degli ebrei, né questi ultimi avevano interesse a rendere di pubblico dominio la cosa) rendeva particolarmente preziosa la funzione economica di questo «popolo abbandonato dagli uomini e dagli dèi» (Tacito). Lungo tutto il Medioevo e anche oltre, i pogrom antisemiti avevano questa particolare natura economica. Come scrisse Moses Hess, «L’ostilità agli ebrei non fa correre rischi; anzi, l’intolleranza nei loro confronti rende popolari presso i cristiani, o, in altre parole, cari alle plebi cristiane» (12). L’ideologia antigiudaica della Chiesa cattolica, basata sulla colpa eterna («Gli ebrei per loro colpa sono stati condannati da Dio alla schiavitù eterna», si legge nell’Editto del 14 luglio 1555 emanato da papa Paolo IV e intitolato Cum nimis absurdum (13), ha naturalmente offerto a questo meccanismo sociale ed economico un’eccezionale copertura ideologica, politica e psicologica: non pagare i debiti contratti con gli ebrei e massacrarli all’occorrenza non erano poi pratiche così riprovevoli e, anzi, a volte esse diventavano assolutamente necessarie e degne di rispetto. L’accusa di “deicidio” rivolta contro di loro toglieva ai cristiani ogni remora di natura religiosa e psicologica: in fondo, gli ebrei non erano uomini a tutto tondo, e per certi versi erano più spregevoli dei maiali. La nascita dei Monti di pietà, promossi dai francescani nella seconda metà del Quattrocento per contrastare il moltiplicarsi dei banchi di pegno ebraici, dimostra come il prestito fosse un’attività legata alle esigenze della società occidentale di quel tempo, e non certo qualcosa legata “naturalmente” agli ebrei, appiccicata a essi come il guscio alla lumaca, e quindi estinguibile attraverso la completa eliminazione di questi ultimi, come pure gli interessati a prenderne il posto o a cancellare i debiti hanno sempre sostenuto. La stessa Chiesa di Roma per venire incontro a un’esigenza sempre più diffusa e impellente si era vista costretta a liberare in parte gli ebrei dall’anatema che colpiva l’usura (14), cosa che, se da una parte permise loro per un lungo periodo di esercitare l’assai lucroso prestito a usura praticamente in “regime di monopolio”, dall’altra ne sanzionò la natura di popolo “venale” e “speculativo”.

Sul piano legislativo, l’inizio delle discriminazioni appare già sotto Costantino. Una delle sue prime disposizioni fu quella di vietare a chiunque il passaggio alla religione ebraica sotto pena, più tardi fissata, della confisca dei beni sia per il proselite sia per colui che ne aveva ottenuta la conversione, e del divieto per ambedue di poter disporre dei propri beni per testamento. Al contrario, l’ebreo che abiurava veniva largamente favorito. […] Questo assieme di leggi, togliendo in larga misura agli ebrei la possibilità di fare nuovi proseliti, estingueva nella religione ebraica quella spinta missionaria che essa aveva dimostrata nei secoli precedenti» (15).

L’epoca delle Crociate illustra bene la maledetta dialettica che ha perseguitato gli ebrei. Ecco come la racconta Cattaneo: «Alla fine, nel 1009, la profanazione del Santo Sepolcro per opera del Sultano Hakem, attribuita indistintamente agli Infedeli, trasse una fiera ruina sugli Ebrei. Uno scrittore di quei tempi narra che per un odio universale furono cacciati da tutte le città; alcuni trucidati colla spada, altri gettati nei fiumi, altri straziati dal carnefice; molti si uccisero da sé; dimodoché “dopo una sì degna vendetta ne rimase solo un piccolissimo numero in tutto l’imperio”» (16). Ma ecco subito il risvolto “dialettico”: «Ma la strage dei principali capitalisti, la fuga di molti e la dispersione dei capitali, resero impossibile ogni operazione agraria e mercantile. La miseria giunse a sì lacrimevol segno che, mancati per più anni i prodotti dei campi e i soccorsi dei grani stranieri, si videro in ogni parte della Francia gli uomini morir di fame a migliaia ed i più feroci mangiarsi l’un l’altro. Nel tempo delle crociate la fortuna degli Ebrei risurse, ma in mezzo alle stragi. […] Le crociate erano imprese costose come tutte le spedizioni transmarine, e non potendosi fare a spese di chi non aveva denari, dovevano naturalmente ricadere in gran parte sui denarosi Ebrei» (p. 18).

Nel quarto Concilio lateranense del 1215 Papa Innocente III decise una serie di norme, intese a ridurre gli ebrei al rango di «perpetui schiavi», che segneranno il destino degli ebrei per molti secoli. Tra l’altro, egli vietò ai cristiani di prestare soldi contro interessi e consigliò di escludere gli ebrei dalle associazioni professionali; a questi ultimi furono lasciate aperte quelle attività (cambiamonete, piccolo prestito, piccolo commercio) che il “popolo basso”, per comprensibili ragioni, odiava. Il cristianesimo si incaricò insomma di stringere sempre più fortemente le viti che tenevano insieme il tradizionale esclusivismo ebraico, ponendo così inizio al circolo vizioso della ghettizzazione – la quale aveva anche una componente di auto-ghettizzazione, vista da non pochi ebrei come estrema difesa nei confronti dell’assimilazione da parte del mondo cristiano.
Dal Medioevo in poi fino al XVIII secolo in Europa non c’è stata calamità (naturale o sociale che fosse, più spesso l’intreccio delle due “tipologie”) che non abbia visto gli ebrei nel poco invidiabile ruolo del capro espiatorio. Soprattutto nelle frequenti epidemie di peste si registravano veri e propri pogrom antisemiti da parte del “popolino”, spesso con il tacito assenso delle autorità. Se il Diavolo colpiva i cristiani attraverso la fetida mano degli ebrei, Dio doveva colpire questi ultimi attraverso la misericordiosa forca dei cristiani. Più la resilienza esistenziale (economica, culturale, psicologica, ecc.) degli ebrei dava prova di sé, e più forte si faceva il sospetto, il disprezzo e l’invidia che la gente “normale” nutriva nei loro confronti. Un circolo vizioso che nei secoli ha fatto milioni di morti e che, in modi assai diversi, ha avvelenato l’esistenza tanto delle vittime che dei carnefici.

«Distruggere il giudaismo non è del nostro potere, né della nostra competenza», concludeva Cattaneo esibendo un approccio (improntato alla più rigorosa “neutralità scientifica”) che da solo basta a illuminare lo spirito dei (suoi? nostri?) tempi; «Quando questa impresa fosse anche possibile, ella certo non lo sarebbe nel breve termine della vita che è concesso a noi quanti viviamo. Dacché dunque una potenza prevalente ha disposto che il genere umano, vita nostra durante, appartenga a diverse credenze, cerchiamo almeno di comportarci in modo che questo dissidio perturbi men che si possa quella pace che per noi può godersi» (p. 65). Il processo storico-sociale si è incaricato di dimostrare, e peraltro non smette di farlo (contro i più “duri di comprendonio”), quanto sia vano ogni appello all’«umana comprensione», quando è proprio l’umanità, l’umanità come principio regolatore della nostra esistenza, che continua a rimanere fuori dal mondo.

(1) «Nel diciannovesimo e nel ventesimo secolo, l’antisemitismo fu soprattutto borghese. I medici, gli ingegneri, gli scrittori, gli avvocati, i giornalisti, gli scienziati cattolici o protestanti erano invidiosi degli ebrei, perché erano più intelligenti e fantasiosi di loro. Non invano essi portavano, occultata nel sangue, la Bibbia. La borghesia europea dell’Ottocento fu, in buona parte, antisemita: perfino mio padre, il più mite tra gli uomini. Tutto questo ha condotto ad Auschwitz» (P. Citati, Le radici dell’odio contro gli ebrei, La Repubblica, 12/04/2002).
2) C. Cattaneo, Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli Israeliti, p. 21, Annali della giurisprudenza pratica, 1836.
3) Ibidem, p. 11. Cattaneo si occupò «della clemente natura» Svizzera, e soprattutto della sua economia e della sua struttura politico-istituzionale, perché in seguito alla conclusione dei moti del 1848-1849 egli vi riparò con la moglie. Lì egli continuò la sua battaglia per la formazione di una borghesia liberale e laica nel Canton Ticino e nell’Alta Italia.
(4) Ad ogni modo, Cattaneo non poté fare a meno di notare la riluttanza con cui la Grande Rivoluzione Francese, al suo tempo considerata come il più grande e genuino prodotto dell’epoca dei Lumi, superò la legislazione che discriminava gli ebrei. «Alcuni professarono di credere e far credere che la rivoluzione di Francia nel 1789 sia stata prodotta principalmente da odio contro la religione dominante e da desiderio di atterrarla. Ma perché mai nella memoranda notte del 4 agosto, in cui si abolirono tutti i privilegi e tutte le classi della cittadinanza cristiana furono fatte eguali al cospetto della legge, perché mai non si tolsero le interdizioni civili che gravitavano sugli Ebrei? Fatto sta che le petizioni e i gravami degli Israeliti all’Assemblea costituente non furono accolti. Due volte vennero prorogate per loro le interdizioni civili nell’atto che venivano abrogate per tutte le altre sette dissenzienti. Più di due anni trascorsero fra alte vociferazioni di equità ed umanità, prima che quei legislatori decretassero agli Israeliti francesi la commune cittadinanza. Fu solo alla fine di settembre 1791 che l’Ebreo nato o naturato in Francia non fu più straniero e venne compreso nella generale appellazione e qualificazione di cittadino» (Ibidem, p. 6).
(5) M. Horkheimer, Lo Stato autoritario, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 71, Savelli, 1978.
(6) A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, p. 359, Einaudi, 1992.
(7) P. Maltese, Nazionalismo arabo e nazionalismo ebraico, pp. 14-15, Mursia, 1992.
(8) C. Cattaneo, Ricerche economiche…, p. 13.
(9) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, pp.188-190, Einaudi, 1997.
(10) K. Marx, La questione ebraica, p. 92, Newton, 1975. Nella Questione ebraica il giovane Marx accetta di scendere sul triviale terreno dei pregiudizi antiebraici (in primis, il giudaismo come gretto spirito orientato all’arricchimento materiale personale) per scagliare quei pregiudizi contro la società borghese, la quale, osservava il ragazzo di Treviri, fa letteralmente impallidire il rozzo e ristretto giudaismo. Se, come voi critici dello spirito pratico degli ebrei dite, il vero Dio dell’ebreo è il Denaro, la stessa cosa non può forse dirsi per ogni altro cittadino della società borghese, la quale a sua volta ha fatto della ricerca del massimo profitto una vera e propria ossessione? Nel testo marxiano del 1843 Marx fa del giudaismo, inteso appunto come spirito orientato al «bisogno pratico, all’egoismo», un concetto universale non per inchiodare gli ebrei alla croce della loro storia, peraltro comprensibile solo alla luce della storia generale del mondo, ma per applicarlo senz’altro alla società borghese. La sua lancia critica non intende infilzare l’egoismo degli ebrei, peraltro già minato dal processo storico, ma il “giudaismo” della società borghese, e con ciò stesso gli intellettuali pseudo radicali che non avevano capito né la vera natura del “giudaismo” ebraico, né quella del “giudaismo” borghese.
Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta, in riferimento alla crisi del vecchio modello liberale di capitalismo soppiantato, in Europa e negli Stati Uniti, dal dirigismo statalista: «La sfera della circolazione, per gli ebrei doppiamente determinante sia come luogo del loro guadagno che come fondamento della democrazia borghese, perde il suo significato economico» (Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 53).
(11) C. Cattaneo, Ricerche economiche…, p. 17.
(12) Cit. tratta da J. Frankel., Gli ebrei russi…, p. 23, Einaudi, 1990.
(13) Scrive Attilio Milano: «Gli ebrei romani, fra increduli e sbigottiti, credettero sulle prime che si trattasse di una di quelle minacce che già altre volte erano state lanciate contro di loro soltanto per estorcere il prezzo della revoca». Per gli ebrei la sottovalutazione del pericolo è stata una strategia di sopravvivenza: essi hanno dovuto fare buon viso al cattivo gioco degli antisemiti. «Offrirono perciò a Paolo IV una ingentissima somma: quarantamila scudi. Il papa la respinse. […] A distanza di due settimane già si tornava a vedere in giro per Roma il giallo dei berretti degli ebrei e dei veli delle ebree; due mesi dopo, mura e portoni del ghetto erano rizzati, naturalmente a spese di chi doveva esservi rinchiuso [e mi par giusto!]; entro i sei mesi stabiliti, tutte le proprietà immobiliari erano state liquidate» (A. Milano, Storia degli ebrei, p. 248).
(14) «L’usura nel nostro presente linguaggio indica l’eccessivo ed illegale interesse d’un capitale prestato; e il nome d’usuraio esprime ad un tempo, avidità, mala lede e crudeltà. Ma verso il IV secolo il nome di usura già divenuto odioso, comprendeva anche il più onesto e legittimo frutto dei capitali. Era quello un secolo di miseria e d’ignoranza. Non s’intendeva più quale fosse la natura degli avanzi,
dei capitali, dei prestiti, degli interessi. Non si pensava che senza capitali di qualche sorta o propri o prestati non v’è commercio, non v’è agricultura, non v’è riproduzione né reddito. Si credeva che capitale e denaro fossero sinonimi. E siccome i pezzi di denaro non si propagano come i polipi: cosi s’insegnava il sofisma aristotelico, che la pecunia è infeconda; che chi aveva il suo patrimonio in terre, in case, in bestiami, poteva in buona coscienza godersene il reddito; ma chi per sua disgrazia si trovava di averlo in denaro, non aveva diritto a trarne alcun frutto; e ch’era tenuto a prestano gratuitamente a chicchessia affinché gli altri se ne arricchissero a suo rischio e senza suo vantaggio» (C. Cattaneo, Ricerche economiche…, pp. 14-15).
(15) A. Milano, Storia degli ebrei in Italia, p. 39.
(16) C. Cattaneo, Ricerche economiche…,p. 17.

LA TRAGICA LOGICA DEL «NOSTRO PAESE»

10563215_814994251880301_1156078677395220044_nIeri ho postato su Facebook quanto segue

Stati Uniti. Dilaga la protesta razziale. Razziale?

Scrive Paolo Mastrolilli (La Stampa):

«Jane, una veterana di Occupy Wall Street con i capelli viola, spiega perché non vedeva l’ora di tornare in piazza: “Ci hanno tappato la bocca, ma i problemi sono rimasti irrisolti. Il razzismo e la violenza contro i neri fanno il paio con la diseguaglianza che governa l’America. Pochi bianchi e ricchi hanno tutto, e usano la forza per evitare che gli altri li obblighino a condividere le opportunità del nostro Paese”». Ma è proprio la logica del «nostro Paese» che i dominati, bianchi o neri che siano, devono respingere, negli Stati Uniti come altrove nel mondo! Almeno se vogliono iniziare a dare una risposta efficace alla bronzea e brutale logica del sistema (capitalistico), il quale tratta gli individui come mere risorse da spremere in ogni modo: come “capitale umano”, come consumatori, contribuenti, elettori, e così via.

E non importa chi pro tempore ha nelle mani le “leve” del comando politico: repubblicano o democratico, bianco o nero, reazionario o progressista, petroliere o intellettuale, ricco o francescano, guerrafondaio o Nobel per la pace. Per questo chiedere giustizia («No justice, no peace», niente pace senza giustizia) nella società ingiusta significa martellare sempre di nuovo i chiodi che infilzano i corpi dei poveri cristi. Più che di giustizia, poi, si tratta piuttosto di una vendetta da ottenersi attraverso il Moloch, il quale è ben felice tutte le volte che può offrire agli offesi affamati di “giustizia” il capro espiatorio di turno: «Mangiate, questo è il mio corpo; bevete, questo è il mio sangue». Amen!

Non c’è vera pace (al massimo un’illusoria tregua esistenziale) senza autentica umanità, la quale è impossibile nella dimensione del dominio di classe: questi sono i termini reali della faccenda. Negli Stati Uniti come ovunque nel mondo.

poliziotto-ferguson-616886«La scintilla si è accesa in tutti gli Stati Uniti, almeno 170 città arrabbiate, e New York non poteva mancare. Perché ormai non si protesta più solo contro la violenza della polizia contro i neri, che di per sé potrebbe anche bastare, ma contro tutte le ingiustizie e le diseguaglianze della società moderna americana». Questo non deve certo stupire: da sempre la questione razziale, negli Stati Uniti e altrove, è in primo luogo una questione sociale. Per questo bisogna sempre augurarsi che l’esplosione della rabbia degli «ultimi fra gli ultimi» trovi presto la strada maestra della lotta di classe a tutto campo: lavoro, salario, casa, sanità, pensioni. E che il «nostro Paese» vada pure in malora!

«Hands up, don’t shoot»: abbiamo le mani alzate, non sparate. Si tratta però di armarsi. Di “coscienza di classe”.

SUL SUDAFRICA. E SUL MONDO

SudafricaContinua lo sciopero dei minatori sudafricani sfruttati come bestie nelle miniere della cin­tura del pla­tino a ridosso di Johan­ne­sburg.  Le miniere coinvolte ormai da parecchi mesi nelle agitazioni «selvagge» dei lavoratori sudafricani, in lotta per ottenere significativi aumenti salariali e migliori condizioni di vita e di lavoro, sono di proprietà dell’Anglo American Platinum, dell’Impala Platinum e della Lonmin, vale a dire dei tre maggiori produttori di platino al mondo. L’organizzazione sindacale National Union of Mineworkers (Num), vicina all’African National Congress, principale partito sudafricano al governo del Paese dal ’94 ad oggi senza interruzioni, si è dissociata dal movimento di lotta, la cui direzione è così interamente nelle mani dell’Association of Mineworkers and Construction Union (Amcu). Se consideriamo «che l’economia del Sudafrica, che possiede le maggiori riserve di platino al mondo, si basa sulle esportazioni di metallo per più della metà dei suoi guadagni in valuta estera» (Rita Plantera, Nena News, 29 gennaio 2014), ci rendiamo conto di quanto alta sia la posta in palio e di quanto forti siano le pressioni economiche e politiche con cui i minatori del platino hanno a che fare.

«Lo sciopero è il più imponente dopo quello fatale di Marikana del 2012 il cui tristissimo epilogo – 34 corpi di lavoratori sparsi per terra uccisi dal fuoco della polizia oltre a decine di feriti – rappresenta probabilmente la vergogna più grande o quella più inaspettata nel Sudafrica del post-apartheid» (Rita Plantera). Non saprei dire se il massacro di Marikana rappresenta davvero «la vergogna più grande» per il regime sudafricano venuto fuori dall’odioso sistema di apartheid, anche perché il peggio è nell’ordine delle cose, in Sudafrica come ovunque nel capitalistico mondo; posso però dire in tutta sincerità che quel sanguinoso episodio di lotta di classe non mi sorprese nemmeno un po’. Rimando al post Sudafrica. Il colore del profitto chi intende capire il senso delle mie parole.

«Ragioni di stato e del profitto che non si incontrano con quelle della sopravvivenza e a cui, a 20 anni dall’inizio dell’era democratica per il Sudafrica, né la classe dirigente al governo né le multinazionali che operano in diversi settori, da quello agricolo a quello minerario, pare non abbiano la volontà di prestare orecchio» (ivi). Qui viene da chiedersi: la forma politico-istituzionale democratica del potere sociale che fa capo alle classi dominanti è forse in contraddizione con le ragioni dello Stato (capitalistico!) e del profitto? Posso sbagliarmi, ma almeno due secoli di prassi sociale nei Paesi democratici suggeriscono una risposta negativa a questa domanda, peraltro formulata in modo assai suggestivo per indicare che è la realtà stessa che ci mette in bocca le parole che dànno sostanza alla verità. Si tratta di imparare a riconoscere la dura grammatica del Dominio, e a esprimerla senza edulcorarne il contenuto con zollette ideologiche (del tipo: tolleranza multirazziale, potere popolare, patto sociale, bene comune, ecc.) che confortano la nostra paura di dover compiere scelte che ci appaiono troppo azzardate. Ma se non conquistiamo quella capacità, ci esponiamo impotenti al diktat delle “scelte obbligate”.

Non la teoria critica – non solo – ma appunto la secolare prassi sociale dei Paesi occidentali capitalisticamente più avanzati ha dimostrato come la forma democratica del potere politico sia quella più rispondente agli interessi delle classi dominanti nel contesto di società altamente strutturate, stratificate e complesse. Solo in tempi eccezionali la difesa dello status quo può implicare la sospensione del cosiddetto gioco democratico, salvo ripristinarlo a crisi sociale superata, magari sostituendo il vecchio personale politico ormai inservibile con quello nuovo.

D’altra parte, l’alternanza di carota e bastone, di lusinghe e minacce, di violenza potenziale e violenza dispiegata da sempre caratterizza l’essenza della politica democratica. Decisivo nell’epoca della sussunzione totalitaria e planetaria degli individui al Capitale è il concetto di violenza sistemica, che ci tiene dentro la coazione a ripetere del Dominio senza l’ausilio di corposi strumenti coercitivi, ma piuttosto in virtù del “normale corso degli eventi”. Inutile dire che quando la situazione lo imponga, gli evocati corposi strumenti coercitivi fanno il loro macabro ingresso sulla scena, accompagnati dal piagnisteo progressista sulla “democrazia tradita”. «Un massacro da tempi di regime e da stato di polizia che ricorda tanto quello di Sharpeville del 1960», come scrive Plantera sempre a proposito dei fatti di Marikana, è insomma tutt’altro che inconcepibile in regime democratico. Marikana è un monito per il proletariato di tutto il mondo.

sudafrica1612Sono andato, come si dice, fuori tema? Può darsi. In realtà volevo solo esprimere tutto il mio disprezzo per le sirene democratiche che stanno cercando di convincere i minatori sudafricani a scendere a più miti consigli, a non mettersi su un terreno di scontro che potrebbe portare il Paese indietro di decenni, ad accettare la logica del compromesso per non compromettere le conquiste politiche e sociali ottenute negli ultimi vent’anni, a non dimenticare la grande lezione di Nelson Mandela – eroe della Patria «che è di tutti: neri e bianchi, poveri e ricchi», e non certo simbolo della lotta di classe anticapitalistica. Volevo solo solidarizzare con i combattivi lavoratori sudafricani, i quali hanno forse qualcosa da insegnare ai loro fratelli di sventura sfruttati nelle vecchie democrazie occidentali – e, beninteso, nelle meno avvizzite «democrazie popolari», magari «con caratteristiche cinesi».

Annunciando la propria candidatura per Democratic Alliance («il partito dei bianchi») alle presidenziali di aprile, Mamphela Ramphele, la compagna del fondatore del Black Consciousness Movement Steve Biko (massacrato in cella dalla polizia nel 1977), ha dichiarato: «Credo che questa decisione sia nell’interesse del Sudafrica, mentre ci dirigiamo in acque turbolente». Nell’interesse del Sudafrica, ossia degli interessi capitalistici nazionali e sovranazionali (il Capitale non ha nazione!), è cosa certa; rimane da capire in che senso il Paese africano si dirige in «acque turbolente». Aspettarsi un nuovo democratico e multirazziale massacro di lavoratori, per piegarne «l’irresponsabile e antipatriottica» combattività, non è certo fuori luogo.

Per Franco Arato, professore dell’Università di Torino, Mandela è stato il protagonista della democratizzazione del Sudafrica. Tuttavia, «Il malcontento della popolazione, in particolare dei giovani è molto forte. Per evitare il radicalizzarsi di tale sentimento le nuove generazioni dovranno continuare a seguire l’esempio senza tempo di Madiba» (Limes, 15 dicembre 2013). Io spero invece che il proletariato sudafricano archivi in fretta la pratica Mandela, tutta interna al tempo del dominio capitalistico, per aprirne una nuova, interamente dedicata alla lotta di classe contro il Capitale (nazionale, internazionale, “bianco”, “nero”, democratico, autoritario), la sola lotta che può generare, in Sudafrica e ovunque nel mondo, il tempo della liberazione. A ben considerare, è il rapporto sociale capitalistico il vero regime di apartheid che ci tiene segregati in una dimensione che si fa sempre più disumana.

CONTRORDINE COMPAGNUCCI! Grillo ridiventa “fascista”.

580432_157448497752658_200055440_nGli stessi sinistrati che sino a qualche ora fa insultavano i leader del PD per aver trattato il movimento di Grillo alla stregua di un’anomalia politica da ricondurre al più presto a ragione, oggi riscoprono l’anima “fascista” e “xenofoba” del Capocomico. «Sei un fascista», ha sobriamente detto Nichi Narrazione Vendola allo statista genovese calato ieri su Roma per risolvere i fondamentali problemi di organizzazione politica che rischiano di depotenziare la “spinta propulsiva” del Movimento pentastellato. È lo stesso politico sinistrorso che ancora l’altro ieri accarezzava la barba “progressista” del genovese rimasta impigliata nello ius soli. Inutile dire che il narratore luogocomunista che «piace tanto alla gente che piace» (come Bertinotti) lavora per assorbire almeno una parte, «quella buona», del M5S. A sua volta quest’ultimo lavora per fagocitare almeno una parte, naturalmente «quella buona», del centrosinistra.

austerity-ap-258Detto che la discussione intorno allo ius soli (“radicale” come lo vorrebbero Laura Boldrini e Cécile Kyenge, ovvero “temperato” come auspicano Pietro Grasso e Gianfranco Fini) è da anni aperta in tutto lo spazio europeo, come giustamente fa notare Grillo alla «sinistra che la trionferà (ma sempre a spese degli italiani)»; detto questo, più che al “fascismo” e alla “xenofobia” del castiga-casta genovese, premiato da un elettorato assetato di metaforico – per adesso – sangue,   l’attenzione di chi non è interessato allo scontro tra le opposte (ma convergenti) tifoserie di Miserabilandia dovrebbe piuttosto concentrasi su questo punto: sono soprattutto le classi subalterne che subiscono il fascino dei razzisti. Perché? In attesa di riprendere il discorso, pubblico dei brani tratti da un mio post del 2010 dedicato ai fatti sanguinosi di Rosarno come contributo alla riflessione.

Members of the Greek far-right ultra natNon prima di aggiungere che a mio avviso chi pensa che il prendere corpo di movimenti autoritari e xenofobi in tutti i Paesi del Vecchio Continente abbia il senso di un «ritorno al passato» sbaglia di grosso. La crisi sociale (economica, politica, culturale, psicologica) che ha infranto i sogni europeisti ha solo messo a nudo una maligna radice che non è mai seccata. Si chiama Dominio capitalistico. Non è il passato che ritorna, è la società capitalistica che continua a vivere a spese dell’umano. Chi intende lottare contro i movimenti razzisti d’ogni tipo e favorire l’unione dei dominati di tutti i colori deve tenere bene in mente quanto appena detto, per non ripetere sempre di nuovo le prassi (ad esempio quelle ispirate dall’ideologia del male minore) che puntualmente finiscono per rafforzare il Dominio.

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 I noti eventi di Rosarno offrono l’occasione per una riflessione sulla società italiana auspicabilmente non banale, non luogocomunista e, soprattutto, non irretita negli interessi e nella prospettiva delle classi dominanti di questo Paese.

… In questa brutta vicenda il razzismo e il coinvolgimento della mafia locale sono le ultime cose che dobbiamo prendere in considerazione. Si badi bene, non perché l’uno e l’altro non abbiano avuto alcun ruolo nello svolgersi dei fatti, o perché in generale non abbiano una loro reale consistenza, bensì perché porli al centro della riflessione non spiega un bel nulla e non ci aiuta a capire. E invece abbiamo un gran bisogno di capire, perché Rosarno è solo un sintomo di qualcosa di ben più grave. No, non si tratta affatto di una malattia, si tratta piuttosto della fisiologia della società basata sul profitto; si tratta di una micidiale normalità che si dà in modo differente nelle diverse aree del Paese e del mondo. Chi ragiona in termini di patologia sociale nasconde a sé e agli altri la «banalità del male», anzi la sua radicalità.

Più che cause, il razzismo della popolazione di Rosarno e la presenza sulla scena del delitto della mafia autoctona rappresentano un epifenomeno, una concausa di secondo livello, ma certamente non la risposta dirimente, la quale va cercata nelle contraddizioni sociali complessive di questo Paese, ancora alle prese, anzi sempre più alle prese, con la rancida «questione meridionale». Ma la più fresca «questione settentrionale» ha cambiato le regole del gioco, ponendo su un terreno completamente nuovo gli annosi problemi posti allo sviluppo capitalistico italiano dal secolare dualismo macroregionale Nord-Sud. E quando parlo di sviluppo capitalistico non mi riferisco solo alla struttura economica del Paese, ma alla società italiana nel suo complesso, perché soprattutto nel XXI secolo la struttura sociale delle nazioni è un tutto sempre più unitario e integrato. Il principio che la unifica in un tutto integrato è il capitale, è la ricerca spasmodica del vitale profitto, è la necessità di trovarsi tra le mani, giorno dopo giorno, anno dopo anno fino alla morte, il vitale (altro che «vile»!) denaro. Sbaglia chi pensa che sto andando fuori tema, perché i fatti di Rosarno, al netto di tutte le balle che sono state dette e scritte, evocano a gran voce il Dio Profitto e il Dio Denaro. Eccome se li evocano! Ma evocano anche il pauroso baratro nel quale si è cacciata l’intera umanità. … Conviene partire proprio dall’epifenomeno, dal «razzismo del popolo di Rosarno», e chiederci come mai il razzismo alligna soprattutto presso gli strati inferiori del corpo sociale, e questo naturalmente non solo nell’amena cittadina calabrese, ma un po’ in tutto il Paese e in tutti i paesi del mondo. Intanto, di passata, mi sia consentito di dare un piccolo calcio al rassicurante luogo comune per cui gli italiani non sarebbero, nel loro più profondo «DNA», razzisti: come se il razzismo fosse una connotazione nazionale o, addirittura, «antropologica»: i tedeschi, tanto per citare un popolo a caso, sono forse razzisti «di loro»? Mi sembra che il gene del razzismo non sia stato ancora individuato, ma è anche vero che di biologia me ne intendo assai poco. «Italiani, brava gente». E chi può metterlo in discussione! Ne sanno qualcosa gli africani del secolo scorso, massacrati ai bei tempi dell’Italia liberale e poi fascista, e ne sanno qualcosa gli africani di questo secolo e di questi giorni. Anche i parenti degli albanesi finiti sott’acqua al largo di Otranto alla fine degli anni Novanta, ad opera di una democratica nave della Marina Militare Italiana (mi sembra sotto il governo di baffino D’Alema, sostenuto dai rifondatori stalinisti), ne sanno qualcosa. Ma chiudiamo l’antipatriottica divagazione, e ritorniamo alla domanda: perché il razzismo si diffonde con tanta facilità e rapidità soprattutto tra «gli ultimi»?

La risposta è tutt’altro che difficile, è anzi alla portata di tutti e infatti tutti la conoscono, ma solo pochissimi ne colgono il reale significato e la reale portata sociale, e non per l’ignoranza delle masse o per la malafede delle classi dominanti, ma in grazia dell’interesse (declinato in tutti i modi possibili e immaginabili), il più forte consigliere della storia. Non è difficile capire che chi sta ai piani alti dell’edificio sociale può permettersi il lusso dell’umana comprensione, della tolleranza, del cosmopolitismo e della filantropia (la forma borghese della vecchia carità cristiana), anche perché tali eccellenti disposizioni d’animo sono altrettanto olio lubrificante cosparso sui duri ingranaggi del meccanismo sociale, rappresentano il balsamo spalmato su un corpo sociale sempre più brutalizzato dagli interessi economici. Dove c’è un soldato che squarta, che brucia e che violenta, deve esserci pure qualcuno che si occupa dei morti e dei feriti; e insieme, Caino e Abele, la bestia assetata di sangue e la crocerossina devota a chi ha avuto la peggio nel duello, costituiscono il sistema della guerra. Insieme e da sempre lupo e agnello mandano avanti, ognuno a modo suo, la comune impresa.

A Rosarno, nelle calde giornate del furore bianconero (e non parlo di calcio…), non c’erano in giro solo malavitosi provocatori, cittadini in preda al panico e all’odio, orde di «negri» accecati di rabbia e forze dell’ordine in assetto di guerra; si aggiravano, tra i cassonetti dell’immondizia e le auto bruciate, anche alcuni uomini di «buona volontà» che facevano appello al buon senso «di tutti», e che aiutavano i feriti di entrambe le fazioni. Pochissimi, è vero, ma c’erano, in ossequio al motto antiumano che recita: anche in mezzo al peggio può esserci un po’ di bene. Amen! D’altra parte, al momento opportuno, quando le condizioni lo rendono possibile e necessario, l’agnello sa bene come usare il lupo, e non rare volte la storia ci ha presentato la stupefacente trasformazione del primo nel secondo: l’agnello perde il bianco pelo e acquista il vizio del lupo. In natura questo non sarebbe possibile, è evidente, ma nella società accadono cose misteriose che, come diceva il poeta, non sarebbero possibili in tutto il firmamento.

… Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno sofisticate cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde.

… La recente crisi economica ha reso ancora più risibile la balla raccontata dagli uomini di buna volontà per dare una copertura politico-ideologica al supersfruttamento degli extracomunitari: infatti, non pochi meridionali disoccupati oggi accettano gli anoressici salari oggi pagati ai lavoratori stranieri. La crisi ha insomma risospinto i «bianchi» verso il nuovo mercato del lavoro precipitato al giusto livello competitivo grazie ai «neri», ai «gialli» e via di seguito. In prospettiva questo processo è destinato a creare non poche tensioni nel seno della classe dominata, soprattutto nei suoi strati più deboli e marginali (uno “status”, questo, in continua fluttuazione), sempre più potenzialmente ricettivi nei confronti di qualsiasi discorso che promettesse una soluzione definitiva («finale»…) dei loro problemi. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma non è affatto detto che la farsa di domani sarà meno violenta e sanguinosa della tragedia di ieri. Come scriveva Max Horkheimer, «di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (Lo Stato autoritario). Pessimismo cosmico? No, pessima è la realtà. Intanto, non pochi italiani di cultura ebraica, seguendo da casa gli eventi di Rosarno, hanno istintivamente portato la mano alla cintura, alla ricerca della metaforica pistola. A Rosarno, però, ha sparato un fucile vero, contro i «negri», i quali hanno avuto il cattivo gusto di arrabbiarsi, a casa d’altri!

… Improvvisamente, un giorno di gennaio del 2010 tutti hanno “scoperto” l’esistenza del lavoro schiavistico nel XXI secolo, e in un Paese che nel suo piccolo rappresenta ancora la crema della civiltà Occidentale (leggi: capitalistica). Passi per la Cina, per l’India, per il Bangladesh; d’altra parte, occhio che non vede… E poi, per i cittadini più sensibili – e danarosi –, c’è sempre la possibilità dell’adozione a distanza dei bimbi dei diseredati, che fa tanto solidarietà – e, soprattutto, scarico di coscienza. Ma vedere quell’estremo sfruttamento in Italia! E tutti hanno improvvisamente “scoperto” che il nero popolo dell’abisso precipitato nell’inferno di Rosarno (provincia del mondo, non solo di Reggio Calabria) viveva in condizioni a dir poco rivoltanti. Al confronto, gli schiavi «classici» dell’antichità godevano, se così posso esprimermi, di uno status sociale più «dignitoso», se confrontato con quello degli schiavi salariati cacciati da Rosarno, non fosse altro per il fatto che i primi, a differenza dei secondi, costituivano un investimento prezioso per il proprietario terriero, uno strumento di lavoro da far durare il più a lungo possibile. Oggi lo schiavo salariato «negro» vale così poco sul mercato, che quando il capitale non sa più che farsene lo caccia senz’altro dalla gleba, allestendo nel giro di ventiquattrore pogrom postmoderni e deportazioni coi fiocchi, con tanto di giornalisti e cameraman al seguito. Anche il prossimo sterminio di massa finirà in prima serata? Già i massmediologi si interrogano, mentre il più pratico e solerte Bruno Vespa ha commissionato il plastico di una camera a gas; non si sa mai, la concorrenza mediatica è forte e non bisogna lasciarsi fregare dagli eventi.

Certo, gli schiavi dei nostri tempi godono di grande libertà, compresa quella di crepare di fame e di accettare salari sempre più infami, in attesa della prossima provocazione che li spingerà a mostrarsi al cinico occhio dell’opinione pubblica nazionale nei panni del solito branco di «negri» violenti, nonché sporchi, cattivi e ingrati (pure!), e perciò senz’altro meritevoli di venir deportati da un posto all’altro, da un inferno all’altro, fino al giorno della soluzione finale, che non necessariamente prevede l’uscita dei «negri» dai camini. Anche perché bisognerebbe fare i conti con l’impatto ambientale della faccenda; occorrono strategie socialmente più sostenibili. «Ma non sarebbe meglio, più giusto, più umano, aiutarli a casa loro?», domandano i «leghisti di fatto» di Rosarno. «Certo che è meglio!», risponde la leghista di diritto eletta a Lampedusa, nelle cui stupende acque non s’era mai vista tanta abbondanza di pesci. «Vuoi vedere che al pesce piace il negro?»: è una delle battute più gettonate nell’estrema propaggine del Bel Paese. Quanta cinica verità, in quelle odiose parole.

Come riemergere dall’abisso dentro il quale è precipitata l’intera umanità? Inutile coltivare facili illusioni, anche perché abbiamo imparato a sopravvivere in quell’abisso, al punto che non lo esperiamo più come tale. Abbiamo imparato a dare del «tu» persino all’orrore. Non ci sono soluzioni facili, purtroppo. Solo per non continuare a precipitare, per resistere a ulteriori sprofondamenti, i lavoratori d’ogni colore, sesso, religione e quant’altro dovrebbero coalizzarsi in nuovi organismi del tutto autonomi rispetto agli attuali sindacati nazionali, veri e propri strumenti di dominio nelle mani del capitale e dello Stato. E dovrebbero dichiarare subito guerra alla politica delle compatibilità. «Ma così il sistema delle imprese italiane andrebbe a quel paese!», rispondono tutte le persone che hanno a cuore l’interesse nazionale. E hanno perfettamente ragione. Infatti, si tratta di scegliere tra il Sacro interesse nazionale – che da sempre esprime l’interesse delle classi dominanti – e il più profano interesse delle classi dominate, le cui condizioni di lavoro e di vita peggiorano sempre di nuovo, compromesso dopo compromesso, «senso di responsabilità» dopo «senso di responsabilità», «compatibilità» dopo «compatibilità», avendo come loro limite inferiore l’esistenza dei «negri» e dei «gialli». E questo non a causa della cattiva volontà politica di qualcuno, come ci dicono i progressisti di tutto il mondo da circa un secolo a questa parte, ma in grazia dell’intima e incoercibile natura del dominio sociale vigente. E’ vero, «il pesce puzza dalla testa», come dicono i meridionali, ma qui la testa non è il Berlusconi di turno, ma il capitale, il vero soggetto attivo di questa epoca storica, il mostro che tutti i santi giorni ci ingiunge di guadagnarci in qualche modo la metaforica (ma per qualcuno ben reale!) pagnotta: chi sfruttando il lavoro degli altri, chi lavorando, chi rubando, chi trafficando in droga e armi, e così via, lungo la quasi infinita filiera del profitto e del denaro.

Le chiacchiere sulla «volontà politica» stanno a zero e hanno il solo significato di ingannare le classi dominate, le uniche che potrebbero rimettere in moto la storia. «Ma siamo tutti sulla stessa barca: se affonda il capitale affonda pure il lavoro!» Qui occorre fare una quasi insignificante precisazione: col Capitale affonderebbe il lavoro salariato, il lavoro nella sua attuale forma di merce che valorizza altra merce, non il lavoro tout court, che è un dato inestinguibile della prassi sociale umana.

… Non sono così ingenuo da pensare che la comunità dell’uomo in quanto uomo sia dietro l’angolo, e anzi so benissimo che l’attualità del dominio oggi annichilisce la possibilità della liberazione. Ma ho anche capito che «La smisurata dimensione del potere diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità» (M. Horkheimer). Invito a guardare da questa prospettiva anche il prezioso lavoro politico teso a diffondere presso i lavoratori la necessità e l’urgenza dell’autorganizzazione, contro la micidiale «logica» della delega e delle compatibilità. È, a mio modesto avviso, la sola prospettiva che può dare coerenza e forza a quell’impegno, che può renderlo fino a un certo punto immune alle astutissime strategie del dominio.

SUDAFRICA. IL COLORE DEL PROFITTO

La fine dell’odioso regime di apartheid non ha significato il superamento della vecchia struttura economico-sociale del Sudafrica. E così, nel Paese forse più capitalisticamente sviluppato del continente africano i super sfruttati lavoratori delle miniere, dalla pelle rigorosamente nera, continuano a crepare sull’altare del Moloch-Profitto. Dall’apartheid alla democrazia multirazziale: la continuazione del dominio sociale capitalistico con altri mezzi. Ma con le stesse pallottole!

«La polizia di un paese che pensavamo democratico, con i liberatori dell’African National Congress al governo e mentre Nelson Mandela è ancora vivo, uccide operai in lotta. Un paese del quale abbiamo preferito dimenticarci, convinti che l’immane obiettivo della distruzione del sistema razzista dell’apartheid fosse sufficiente a garantire la costruzione di una società diversa e più eguale». Così piagnucolava Il Manifesto (17 agosto) a strage di operai ancora fresca. Come se la forma democratica del regime sociale capitalistico non contemplasse l’uso della più brutale violenza per difendere gli interessi della classe dominante! Come se la fine dell’apartheid su base razziale potesse significare la fine della natura di classe della società sudafricana. Ma questo i feticisti della democrazia e gli apologeti del capitalismo dal volto umano (magari nero, certamente «diverso e più uguale») non lo capiranno mai.

Ora c’è da sperare che la rabbia dei minatori e dei lavoratori sudafricani non prenda la disastrosa strada della lotta razziale, perché il problema non è il colore del padrone, né la sua nazionalità, ma la natura sociale dell’economia che domina su tutto il pianeta. La “vecchia” lotta di classe è la sola risposta giusta alla violenza sistemica della Società-Mondo del XXI secolo. Ovunque. Anche in Siria. Anche a Taranto.

LA PROFEZIA DI ISAIA

Se ancora oggi ci poniamo il problema del fondamentalismo islamico nei Paesi Musulmani – e, per riflesso, dei giovani immigrati musulmani che vivono ai margini delle metropoli occidentali – è perché la struttura sociale di quei Paesi continua a fare dell’Islam un formidabile strumento politico-ideologico nelle mani di strati sociali e di gruppi politici che si collocano «trasversalmente» rispetto alla gerarchia sociale. L’arretratezza sociale del Mondo Musulmano non si spiega né con l’Islam né con una sua interpretazione fondamentalista. Se mai è vero esattamente l’opposto: la prima spiega, «in ultima analisi», la seconda. Il ritorno alla purezza delle origini – ad esempio: l’Islam non «contaminato» da influenze e apporti esterni – è da sempre il mantra di tutti coloro che soffrono il presente senza comprenderlo.

La cosiddetta «primavera araba» – assai frettolosamente derubricata a malinconico autunno, se non a rigido inverno – ha fatto ritornare in auge lo «scontro delle Civiltà» evocato da S. P. Huntington negli anni Novanta. Nel suo articolo del 9 Marzo, Piero Ostellino ha riesumato la mai del tutto seppellita «profezia di Oriana Fallaci» sul lento ma inesorabile «suicidio dell’Europa», vittima della cultura del politicamente corretto che le impedisce di comprendere che il problema, per l’Occidente, non è l’interpretazione fondamentalista dell’Islam, ma l’Islam stesso, sorto sulle violenti basi della jiâd, della Guerra Santa a tutto ciò che non si piega al Misericordioso Verbo di Allah. L’americana Brigitte Gabriel, la bella attivista anti-muslim di origine libanese, ha preso il testimone fallaciano. «Nel mondo c’è un cancro che si chiama islamo-fascismo. La cui ideologia vien fuori da una sola fonte: il Corano». Stupidaggini, è ovvio; ma che celano un dato di realtà che ai buoni di spirito risulta difficile da mandar giù: l’ideologia multiculturalista fa acqua da tutte le parti. Averlo ammesso francamente è costato al premier inglese Cameron diversi punti nella Borsa Valori del politicamente corretto. Nel mondo «più equo e solidale» costruito a tavolino dai progressisti, chi dice la verità corre sempre il rischio di passare per un poco di buono. Per fortuna io non ho preoccupazioni di stampo elettoralistico.

«È difficile dire – perché è troppo presto per dirlo – se l’infausta profezia di Oriana si realizzerà. Ma, escluso – come lei prevedeva – che “i musulmani accettino un dialogo con i cristiani, anzi con le altre religioni” (o con gli atei), è sulle conseguenze sociali delle diversità fra Islam e Cristianesimo che, come suggerisce Papa Ratzinger, sarebbe, però, necessario aprire un dialogo con chi viene da noi. Per sapere se vuole davvero convivere in armonia con noi» (P. Ostellino, Corriere della Sera, 9 Marzo 2011). Ma ha un seppur remoto senso impostare in questi termini il problema sociale derivante dall’afflusso, che si profetizza sempre più massiccio, se non addirittura di «proporzioni bibliche», di disperati arabi nelle opulente terre d’Occidente? Certo che no.

La perdurante impotenza sociale delle classi subalterne d’ogni parte del mondo fa sì che i loro elementi più insofferenti, più frustrati o semplicemente più sensibili si attacchino come patelle allo scoglio delle più disparate ideologie reazionarie offerte dal mercato: stalinismo, nazismo, fondamentalismo islamico, «fondamentalismo sportivo», e via di seguito. All’epoca in cui Paesi come l’Unione Sovietica e la Cina di Mao sembravano poter rappresentare una valida alternativa al capitalismo imperialistico occidentale, una non piccola parte delle «masse diseredate arabe» trovò nell’ideologia di Stato di quei Paesi il suo punto di riferimento ideologico e politico. Un’altra non piccola parte di quelle masse riversò invece la sua speranza di riscatto in un nazionalismo arabo che vedeva di buon occhio la via per il progresso indicata dall’Occidente, ma anche dalla Turchia e dal Giappone. Naturalmente questo schema riproduceva la dialettica interna alle classi dominanti del «Mondo Musulmano», divise in fazioni sull’opzione strategica da implementare per meglio difendere ed espandere i loro interessi materiali, il loro potere politico ed ideologico, il loro prestigio sociale.

In ogni caso, l’Islam si sposava benissimo tanto col nazionalsocialismo (o stalinismo nazionale che dir si voglia) di matrice Russa e Cinese, quanto con il nazionalismo di matrice occidentale e modernista. Quando poi, per un verso il «socialismo reale» iniziò la sua parabola discendente, e per altro verso la «via occidentale» alla modernizzazione dei Paesi Musulmani si rivelò sempre più lastricata di contraddizioni e di sofferenze (da sempre e ovunque l’«accumulazione originaria del capitale» non è mai stata un pranzo di gala!), le speranze deluse e frustrate delle masse arabe iniziarono a incrociarsi nuovamente con l’ideologia tradizionalmente dominante: con l’Islam. Un Islam ovviamente non «contaminato» da influenze e apporti esterni, perché il ritorno alla purezza delle origini è da sempre il mantra di tutti coloro che soffrono il presente senza comprenderlo.

Alla fine del XIX secolo, quando la divergenza tra «Mondo Musulmano» e «Mondo Cristiano» apparve irrecuperabile, gli intellettuali occidentali, seguiti a ruota dai colleghi orientali, iniziarono ad elaborare questa domanda: l’Islam è compatibile con il capitalismo? A mio avviso l’interpretazione che biasima il mancato sviluppo capitalistico di alcune civiltà mondiali e ne fa addirittura una tara antropologico-culturale non ha alcun fondamento storico, se non quello dell’apologia capitalistica. La teoria razionalistica di Max Weber, che individua nell’indigenza tecnico-scientifica del pensiero religioso non cristiano il mancato sviluppo in senso capitalistico di molte Civiltà (dalla Cina alla Mesopotamia, dall’Africa al Medio Oriente) al tempo del «decollo» occidentale, è falsa nei suoi stessi presupposti storici, e questo lo dimostra proprio il processo di espansione del Mondo Musulmano nei suoi secoli ascendenti (dal VII all’XI secolo). Basti vedere ciò che rimane della Civiltà Musulmana a Palermo, a Cordova e a Toledo, per rendersi conto del macchiano errore di Weber. Peraltro, gli esempi che egli fornisce del superiore spirito razionalistico europeo sono per lo più posteriori all’età del decisivo impegno del Vecchio Continente (olanda e Inghilterra, in primis) sulla via della modernità capitalistica. Speculare all’errore razionalistico di Weber troviamo la tesi deterministica che prospetta in termini assolutamente necessari il passaggio di ogni formazione sociale attraverso la linea progressiva degli «stadi»: dalla società barbara a quella antica, da questa al feudalesimo per giungere, dulcis in fundo, alla società borghese. Condannare il «razzismo culturale» degli intellettuali occidentali non deve suggerirci l’idea di un capitalismo pronto a schiudersi dappertutto, se solo il demoniaco Occidente non avesse messo la propria coda su uno sviluppo endogeno «naturale».

L’opposizione di fondo dell’Islam al capitalismo, e dunque a tutte le prassi che connotano la società borghese, non ha alcun appiglio storico, sociale e culturale, anche perché la religione, qualsiasi religione (e a maggior ragione le religioni monoteiste) da sola, separata dallo spazio storico-sociale che l’ha generata, non spiega un bel niente. La religione – e l’ideologia in generale –, messa al servizio di questo o quell’altro interesse sociale, può andare in un senso come nel senso opposto: può ben supportare tanto una prassi sociale volta alla modernizzazione di un Paese, quanto una prassi che si oppone a questa tendenza. Se ancora oggi ci poniamo il problema del fondamentalismo islamico nei Paesi Musulmani – e, per riflesso, dei giovani immigrati musulmani che vivono ai margini delle metropoli occidentali – è perché la struttura sociale di quei Paesi continua a fare dell’Islam un formidabile strumento politico-ideologico nelle mani di strati sociali e di gruppi politici che si collocano «trasversalmente» rispetto alla gerarchia sociale.

L’arretratezza sociale del Mondo Musulmano non si spiega né con l’Islam né con una sua interpretazione fondamentalista. Se mai è vero esattamente l’opposto: la prima spiega, «in ultima analisi», la seconda. Anch’io ho visto all’opera il fatalismo e l’indolenza dei musulmani, di cui parlava Weber, a Tripoli, nel cui porto sono stato nel 1999, nel pieno dei festeggiamenti della «Grande Rivoluzione Verde», che quell’anno compiva giusto trent’anni. Operai – che grossa parola! – assunti a giornata, come nell’Italia degli anni Cinquanta, scaricavano la nostra nave con una lentezza esasperante; del tutto sforniti dei più elementari sistemi di sicurezza (maneggiavano pesantissimi tubi d’acciaio che sarebbero serviti all’Eni senza casco, senza guanti e in ciabatte!), avevano l’insolenza stampata sul volto. Ma non mi è passata nemmeno per l’anticamera del cervello l’idea che quel comportamento poco produttivo avesse a che fare con la loro religione o con qualche loro tara antropologico-culturale! Ai miei colleghi, invece, sì… Una struttura capitalistica di basso livello tecnologico e una società di asfittico sviluppo generale non può generare una produttività di stampo germanico o milanese. In quelle condizioni un operaio tedesco – o milanese – sarebbe superfluo. E, a proposito dell’operaio milanese, non dimentichiamo che anche i «polentoni» considerano i «terreni» un po’ come l’equipaggio della mia nave considerava i declassati lavoratori libici.

LA REGOLA È NELL’ECCEZIONE

L’affermazione che Hitler avrebbe distrutto la cultura tedesca non è che un trucco reclamistico di coloro che vorrebbero ricostruirla dai loro telefoni d’ufficio … Chi vuol lottare contro il fascismo culturale, deve cominciare con Weimar (T. W. Adorno, 1944, Minima moralia).

La scorsa settimana il Presidente della Camera Fini ha ricordato, al cospetto degli ebrei italiani convenuti nella prestigiosa Sinagoga romana, il ruolo che i loro predecessori ebbero nel processo di formazione dello Stato Unitario Italiano. Ciò che mi ha colpito è l’uso davvero spropositato che l’ex delfino di Almirante, e ora icona dei progressisti (ovviamente solo perché può creare seri problemi al Satrapo di Arcore), ha fatto della locuzione Male Assoluto. Coda di paglia? Assai probabile. E soprattutto, di che Male Assoluto si tratta? Di qui, la breve riflessione che segue.

Il male assoluto non è il Nazismo che ha programmato la scientifica eliminazione degli ebrei residenti in Europa (prima pensando di confinarli nel Madagascar, poi inviandoli anzitempo al loro Padre: com’è noto, i nazisti amavano velocizzare i processi…), ma la società che lo ha generato dalle sue viscere, e che lo ha partorito con parto spontaneo, ancorchè assai doloroso.

Questa società, la società Occidentale della scienza e della tecnica (al servizio degli interessi economici dominanti, beninteso), non solo non è riuscita a liquidare i secolari pregiudizi a carico degli individui bollati con lo stigma di persone moralmente ed eticamente abiette (a iniziare, ovviamente, dagli «sporchi giudei»), o di socialmente perniciose (come sopra), ma li ha dotati di una carica emotiva e di una strumentazione tecnologica tali, da rendere appunto possibile lo sterminio industriale delle persone. (Nella fattispecie, sterminio razionalmente pianificato sulla base della tecnologia informatica offerta dalla IBM). Dai al pregiudizio medievale la scienza moderna, e l’inferno su questa terra è assicurato!

Come già intuivano i filosofi più profondi d’ogni tempo, nell’evento eccezionale si manifesta la vera natura della normalità: la regola è nell’eccezione. Le crisi sociali devastanti, come quelle che sconvolsero la Germania a partire dal 1918, non fanno che adeguare la sostanza – disumana – della cosa alla sua forma più pura. Relativizzo l’Olocausto? No, ne assolutizzo piuttosto le radici lontane e vicine. Fin troppo vicine.

Viviamo tranquille giornate camminando sopra una sottilissima lastra di magma solidificato. Inutile dire che cosa ribolle sotto. Questa condizione disumana, capace davvero di tutto, io la chiamo male assoluto.

IL LEGHISMO E LA QUESTIONE MERIDIONALE

«Il figliol prodigo è infine ritornato a casa dopo un lungo e tortuoso errare nel melmoso e insidioso Palazzo romano». Certamente questo avrà pensato il professor Miglio, già “teorico“ del movimento leghista, dopo aver udito pronunciare da Bossi, all’indomani delle elezioni politiche del 21 aprile ’96, la parola d’ordine della «secessione della Padania». Una parola d’ordine assolutamente coerente con i concetti e le prospettive politiche che il professore aveva da tempo elaborati e presentati, tradotti in “lumbard“ per il rude e «popolano» movimento leghista, al grande capo, del quale egli era stato l’eminenza grigia fino al giorno della caduta del governo Berlusconi. Cerchiamo di ricostruire, molto succintamente, il Miglio-pensiero sui problemi del federalismo e della secessione per poi entrare nel merito di una questione più generale che attiene la storia dello sviluppo capitalistico di questo paese. (1)

Mentre nella concezione del mondo risorgimentale, fascista e postfascista lo Stato e la Nazione vengono messi al centro della riflessione sui destini della storia umana, nel “miglismo“ il punto di partenza da cui muovere per giungere ad una corretta definizione della natura e del ruolo dello Stato nazionale si sostanzia nell’assunzione opposta, dal momento che per Miglio «lo Stato “nazionale“ è arrivato ormai alla conclusione della sua parabola storica»

Ciò che avrebbe messo in discussione questa vecchia – “ ottocentesca “ – forma storica è lo sviluppo impetuoso delle forze produttive verificatosi nell’ultimo mezzo secolo nelle principali aree capitalistiche del Vecchio Continente e del mondo.
«Nella vecchia logica dello Stato moderno si cercava ciò che poteva unire le nazioni e si rifiutava ciò che le divideva. Oggi la gente rifiuta questa maniera di ragionare. L’hanno rifiutata in Cecoslovacchia , la stanno rifiutando in Belgio e in Canada, per non parlare dell’ex impero russo. A poco a poco questa linea verrà respinta dappertutto, perché prevarrà la forza dell’economia, del mercato mondiale» (2)

In effetti, lo Stato nazionale moderno nasce in primo luogo per rispondere all’esigenza di unificazione del mercato lungo i confini di un’area geopolitica abbastanza omogenea per lingua, per tradizioni storiche, per interessi (primo fra tutti quello di coalizzarsi per resistere alle pressioni di un’altra e diversa area omogenea). Questo presupponeva l’abbattimento di tutte le barriere economiche, giuridiche e politiche che impedivano, o comunque ostacolavano grandemente, il realizzarsi di un’accumulazione capitalistica su scala “nazionale“. Venuta meno, in primo luogo in virtù dell’ulteriore sviluppo capitalistico, quella primaria necessità storica, ma non la forza propulsiva e attrattiva dell’economia (la quale si è piuttosto centuplicata), le linee di forza del processo di accumulazione tendono a far ruotare intorno a pochi centri geopolitici aree economiche omogenee, i cui confini (dinamici) attraversano diversi stati nazionali. Il fatto che la parte economicamente più sviluppata di un paese si senta attratta dall’insieme di paesi – o anche solo da aree regionali di essi – che gli sono più simili per struttura economica e per stratificazione sociale (e, in forza di ciò, per cultura); e che a ragione di ciò avverta come oppressivo il quadro di riferimento statuale-nazionale nel quale è inserita, non è affatto in contraddizione con la tendenza alla formazione di grandi sistemi multinazionali in competizioni tra loro, ma è anzi il portato delle stesse leggi dello sviluppo capitalistico che informa l’odierna globalizzazione dell’economia. Sotto questo aspetto, la formazione della piccola Padania non sarebbe affatto in contraddizione con l’esistenza della mostruosa “Triade“ (Europa, Americhe, Asia come sistemi multinazionali integrati e concorrenti). La dissoluzione dei vecchi equilibri internazionali ha semplicemente accelerato processi lungamente maturati nel tempo, oltre ad esserne stata la conseguenza più evidente, importante e gravida di conseguenze per il prossimi futuro.
La forza dell’economia, dice Miglio, ridisegna la mappa geopolitica del Vecchio Continente, ma non ne fa scaturire nuovi assetti istituzionali, bensì «aree coerenti», agglomerati economici e sociali, cioè, che travalicano i vecchi confini nazionali e che mettono in crisi anche le vecchie istituzioni internazionali, entrambi disegnati su misura degli stati nazionali “ottocenteschi“. «Ecco la radice del neofederalismo – scrive Miglio – (…). È un’idea molto democratica, perché fondata sulla libera volontà di stare insieme. È un nuovo diritto pubblico, fondato sul contratto, sulla puntualità di tutti i rapporti, sulla eliminazione dell’eternità del patto: si sta insieme per trent’anni, cinquant’anni, poi si ridiscute tutto. Ma per quel periodo l’accordo va rispettato» (3)

Troviamo in queste frasi, da una parte la consapevolezza che le dinamiche economiche dominano la politica – anche se non si coglie la consapevolezza del sentiero estremamente contraddittorio lungo il quale tali dinamiche sono costrette a muoversi e a misurarsi con la politica e la realtà sociale nel suo complesso; e dall’altra l’illusione di poter realizzare assetti geopolitici dinamici, in grado, cioè, di adeguarsi tempestivamente alle continue trasformazioni sociali ed economiche che contraddistinguono l’epoca capitalistica. Il professore saluta come una nuova epoca di pace e di prosperità quella fondata non più sulla forza coercitiva della politica – la cui massima espressione è quella che si esercita con l’uso dell’esercito -, ma sulla forza dell’economia, la quale fa sì, ad esempio, «che non torneremo alla Grande Germania espansionistica, aggressiva, imperialista» (4). Quest’ultima opinione ricalca esattamente il pensiero del tedesco Ernst Nolte, teorico del cosiddetto «revisionismo storico», secondo il quale non si deve aver paura della forza economica e politica della Germania perché essa se indubbiamente sente di poter giocare un ruolo importante per i destini del mondo, non nutre questa aspirazione in maniera esclusiva (e di fatti si pone alla testa dell’ unione economica e politica dell’Europa), e soprattutto non è più alla ricerca di una sua supremazia militare (5). Anche l’economista giapponese K. Ohmae ritiene che la morte dello Stato-nazione, e la sua sostituzione con lo «Stato-regione», avverrà spontaneamente, attraverso il libero dispiegamento dei mutamenti dell’economia mondiale che stanno ridisegnando la società-globale alle soglie del XXI secolo (6). Ci troviamo, insomma, di fronte a concezioni puerili e ingenue dello sviluppo capitalistico e delle sue molteplici conseguenze sociali e politiche; si individua, infatti, come fattore di armonia e di reciprocità nei rapporti tra i “cittadini“ e gli stati proprio il fattore fondamentale di ogni conflitto: la forza dell’economia.

Le tesi del professore ci introducono in una questione che puzza di muffa e che pertanto tratteremo in maniera assai sommaria, senza sviscerarne le origini economiche e sociali, giusto per aggiungere un altro tassello al mosaico della nostra concezione dello sviluppo capitalistico. Alludiamo alla cosiddetta «questione meridionale», la cui interpretazione più accreditata presso l’intellighenzia italiana si è saldata alla fine del secolo scorso con la tesi della «rivoluzione borghese interrotta», ovvero frenata, tradita, abortita, in una sola parola privata di quella radicalità sociale che aveva caratterizzato la rivoluzione inglese del XVII secolo e quella francese sul finire del XVIII secolo. Opinione, quest’ultima, del tutto legittima sul piano storiografico: come ebbe a scrivere Engels in una lettera a Turati del 26 gennaio 1894: «L’abile opportunismo della monarchia sabauda fece in modo che l’unificazione italiana dipendesse dalla politica internazionale. Gli antichi sentimenti repubblicani si trasformarono nel loro contrario e il Risorgimento politico dell’Italia perse completamente quel carattere ideale di un rinnovamento spirituale-morale di tutto il popolo che Mazzini aveva predicato, e si allontanò sempre di più da quei principi di giustizia sociale che furono l’onore e il vanto dei suoi precursori, di Cattaneo, di Giuseppe Ferrari, di Carlo Pisacane. La borghesia italiana soffrì della sua stessa debolezza. L’esempio del rapido sviluppo delle nazioni vicine spinse agli estremi la sua cupidigia. Tuttavia lo sviluppo arretrato dell’agricoltura, il misero spiegamento della produzione capitalistica e l’arretratezza di tutta la vita economica concorrevano a far sì che per la borghesia il profitto si mantenesse basso sul terreno economico e la sfera del potere limitata nel terreno politico» (7).

Il portato sociale più vistoso e importante di questa mancata radicalità rivoluzionaria (simboleggiata dal ruolo preminente avuto da Cavour nel processo risorgimentale) fu senz’altro l’assenza, all’indomani dell’Unità, di una politica borghese tesa a riformare in profondità l’assetto dell’economia meridionale, dominato ancora dai grandi proprietari fondiari; scelta che diede vita a quel «blocco storico», caratterizzato dall’alleanza del grande capitale finanziario-industriale del Nord con i grandi proprietari terrieri del Sud, che impresse alla politica borghese nazionale nel suo complesso quei caratteri di moderatismo e di trasformismo assai noti e studiati. Com’è noto, solo negli anni ’50 di questo secolo fu varata una legge organica di riforma agraria; «ma le modalità della sua formulazione e della sua pratica attuazione, il momento storico in cui entrò in vigore (quando l’agricoltura dei paesi più avanzati aveva già avviato un’intensa opera di modernizzazione), nonché (…) l’esistenza di vaste estensioni di terreni marginali capaci di una resa ben povera, condussero alla formazione di una miriade di piccole proprietà di dimensione troppa esigua, arretrate e inefficienti, tanto è vero che di lì a poco iniziò un colossale e drammatico esodo dalle campagne che non può ancora dirsi terminato» (8).

Va detto, comunque, che quel «blocco storico» fu reso possibile dal terreno economico su cui l’Unità prese corpo, terreno che vedeva il Nord Italia assai più sviluppato rispetto al Mezzogiorno non solo dal punto di vista industriale, ma anche da quello agricolo, ovvero dal punto di vista che più riguardava quest’ultimo, essendo esso un’area del paese prevalentemente rurale, con grandi proprietà terriere (latifondi) divise in mille piccole gestioni (fittavoli o mezzadri). Il cospicuo risparmio meridionale si convertì in capitale, e abbandonò la sede d’origine, non solo per l’industria del Nord, ma anche per l’agricoltura del Nord, assai più moderna, produttiva, remunerativa e vicina agli importanti sbocchi del mercato europeo di quanto non lo fosse l’arretrata agricoltura del Sud. Né va dimenticato il fatto che dopo il grande movimento rivoluzionario del 1848, il quale aveva visto una parte consistente di masse proletarie dell’intero Vecchio Continente avanzare per la prima volta rivendicazioni sociali autonome rispetto al programma rivoluzionario borghese – con il proletariato parigino che insorge contro la borghesia -, la soluzione delle varie questioni nazionali ancora pendenti in Europa (e tra queste quella italiana e quella tedesca erano senz’altro le più importanti) fu di fatto affidata alle guerre tra gli stati, e ciò non poteva rimanere senza conseguenze sul carattere impresso alla nuova realtà statuale dalle classi dominanti italiane interessate alla formazione di uno Stato nazionale avente una estesa base territoriale. Solo cogliendo il contesto storico risorgimentale nel suo insieme è possibile collocare nel giusto posto il «blocco storico», rifuggendo da ogni sua interpretazione superficiale e ideologica.

Ma se quel giudizio storico sulla rivoluzione borghese «tradita» (che il meridionalismo salveminiano trasformò in un tormentone con la vocazione alla sconfitta) coglie indubbiamente nel segno, altrettanto non si può dire per la lettura complessiva del processo di unificazione politica ed economica del paese che a partire da esso ha preso corpo; ovvero per il giudizio sulla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Italia. Nelle analisi dei più autorevoli intellettuali italiani del Novecento (da Salvemini a Gramsci) la fotografia di un momento storico particolare funse da filo conduttore interpretativo di tutta la storia italiana post-unitaria, con implicazioni politiche assai deleterie per il movimento operaio di questo paese, dal momento che la propaganda sui compiti democratico-borghesi da portare – perennemente – a compimento farà capolino ogni volta che la società italiana attraverserà momenti di crisi di particolare acutezza (la storia italiana conosce molti «secondi risorgimenti»!), e non di rado ancora oggi intellettuali e politici fanno ricorso ai “miti risorgimentali“ per legittimare agli occhi delle masse questa o quella politica.

Vi è, poi, una lettura “marxista“ del gap fra Nord e Sud che stima irrecuperabile tale gap essendo esso considerato non il prodotto di una necessaria dinamica storica (fatta di intrecci economici, sociali, politici), ma il presupposto stesso della sopravvivenza – non solo della nascita e dello sviluppo – del capitalismo italiano. In una rivista di estrema sinistra – Vis-á-vis – si legge ad esempio quanto segue: «La seconda repubblica non farà che aggravare gli squilibri della prima, primo fra tutti il divario nord/sud: se questa divisione è il prodotto di una precisa dinamica che è quella del capitale che dappertutto si basa sul rapporto sviluppo/sottosviluppo, qualsiasi processo politico non potrà che prenderne atto, qualora rimanga nei limiti delle compatibilità esistenti (9)

Solo la rivoluzione comunista, insomma, può portare a soluzione l’annosa questione. Tesi, questa, non nuova. Già nel 1904 il socialista Ettore Ciccotti aveva espresso la convinzione che senza il passaggio al socialismo l’arretratezza delle regioni meridionali sarebbe rimasta tale e quale, forever: «È vano sperare risoluzione vera e completa della questione – egli scriveva – nel nostro ambiente economico. Il Mezzogiorno, più che tutto il resto d’Italia, soffre a un tempo delle sviluppo dell’economia capitalistica e dell’insufficienza di questo sviluppo (…) Il suo destino perciò si decide dove si combatte la grande battaglia pel socialismo»(10). La posizione di Ciccotti certamente aveva una sua importanza politica, sia perché veniva ad attaccare le tesi liberiste, le quali affidavano la riduzione graduale del gap nei livelli produttivi tra le due grandi aree del paese al libero gioco delle forze economiche e sociali (tesi in parte ripresa da Luigi Einaudi nel ’60, quando si trattò di fare un primo bilancio dell’assai deludente intervento pubblico nel Mezzogiorno avviato negli anni Cinquanta, e che sta trovando nuovo lustro oggi, nel pieno della crisi generale del sistema-paese); e sia, soprattutto, perché cercava di sottrarre legittimità al nascente meridionalismo, il quale affogava la “questione sociale“ del Mezzogiorno in una indistinta – interclassista – rivoluzione democratica e morale tesa a ridare ossigeno alla sua vita economica, politica e civile. Quello di Ciccotti, insomma, si prospettava come un significativo contributo ad una lettura in chiave classista della «questione meridionale», e ancora oggi è giusto dire che le lotte delle classi subalterne delle regioni meridionali devono – dovrebbero! – essere viste ed inquadrate nel contesto della più generale lotta del proletariato italiano. Quello che non condividiamo è la concezione che vede il rapporto Nord-Sud nei termini di una realtà sostanzialmente fissa, immutabile, appunto perché Ciccotti lo lega indissolubilmente alla stessa sopravvivenza del capitalismo italiano (o internazionale). Noi non contestiamo la previsione contenuta in Vis-á-vis, né, ovviamente mettiamo in discussione l’esistenza di una «questione meridionale»: indubbiamente essa esiste, dal momento che il divario tra le due grandi aree del sistema-paese: quella delle regioni settentrionali, capitalisticamente assai sviluppate, e quella relativa alle regioni meridionale e alle due isole maggiori, i cui livelli di produttività e di competitività sono indiscutibilmente bassi (fatti salvi alcuni distretti pugliesi attivi sul versante dello sfruttamento dell’Albania) non solo nel corso dei centotrenta e passa anni che ci separano dall’Unità non ha conosciuto una riduzione, ma esso oggi appare come non mai foriero di terremoti politici impensabili fino a dieci anni fa. Contestiamo, invece, la concezione dello sviluppo capitalistico che irrigidisce l’analisi delle sue necessarie contraddizioni dentro uno schema che suppone sostanzialmente immutabile la storia capitalistica – e perciò politica – di un paese. Non dimentichiamo che ancora alla fine degli anni Settanta – di questo secolo! – l’Italia del Nord-Est, quella che oggi viene accreditata come l’area più dinamica del capitalismo italiano ed europeo, veniva considerata, insieme all’Italia centrale, una «formazione sociale periferica» del capitalismo italiano (11); né si può dire che il divario Nord-Sud si è presentato, nel corso dei decenni, sempre allo stesso modo, mentre è invece vero che esso ha seguito l’evoluzione del capitalismo italiano nel suo complesso, ed è stato influenzato dal tipo di intervento pubblico che i governi che si sono succeduti hanno implementato. Scriveva ad esempio vent’anni fa Domenico Novacco: «Il fatto che nel Sud, visto nel ’50 come area di redistribuzione di una popolazione fondamentalmente agricola e nel ’60 come area di innesto di forti concentrazioni industriali, si stia sviluppando invece nei nostri anni- fine anni Settanta – una società a prevalente carattere terziario, urbanizzata, sensibile a problemi e ad esigenze diverse da quelle a cui il precedente intervento -:pubblico – era stato finalizzato, comporta l’urgenza di un flessibile riadattamento dei criteri operativi e dei concetti con cui sono state progettate ed eseguite le opere di infrastruttura nel ventennio che ci stiamo lasciando alle spalle» (12).

La «questione meridionale», cioè, deve essere collocata nell’ambito del complessivo processo capitalistico di questo paese, e d’altra parte è stato così fin dalle origini dello Stato nazionale unitario, non fosse altro perché è stato grazie al drenaggio del risparmio che il Sud aveva accumulato (il Regno delle Due Sicilie nel 1860 poteva vantare, oltre che un grande demanio, una grande ricchezza monetaria, segnalata da un debito pubblico ben saldo); è grazie alla forza-lavoro a basso costo che esso offriva alle industrie del Nord insieme a un privilegiato mercato di consumo per le loro merci, che il capitalismo italiano è riuscito a recuperare la distanza che al momento dell’Unità la separavano dagli altri capitalismi d’Europa e del mondo. Possibilità di sviluppo capitalistico che il Mezzogiorno in parte continua ad offrire in questo fine millennio. Questa consapevolezza si è fatta strada, a partire dagli anni Sessanta, anche nel mondo scientifico ufficiale; vasta eco, ad esempio, suscitò un articolo di Vera Lutz pubblicato sul Mondo Economico del ’60, intitolato Il problema dello sviluppo del Mezzogiorno d’Italia, con il quale l’autrice spostava i termini della questione dal tradizionale confronto tra il livello di sviluppo delle regioni del Nord e il livello di sviluppo delle regioni del Sud, al rapporto tra il livello di sviluppo del capitalismo italiano e quello degli altri paesi europei, nella prospettiva di una più accentuata integrazione del paese nell’ambito dell’Europa capitalisticamente forte. Questo mutamento concettuale rappresentò nient’altro che una presa d’atto della reale dinamica del processo di sviluppo capitalistico italiano nel quadro del più generale sviluppo capitalistico europeo e mondiale, nel senso che sottolineava le ragioni del sostegno al Nord del paese (anche attraverso una politica di migrazione interna tesa a portare in quell’area forza-lavoro a basso costo), capace di competere sul mercato internazionale, mentre affidava la soluzione definitiva dell’arretratezza del Mezzogiorno ai «tempi lunghi» di uno sviluppo che si estendesse a macchia d’olio dalle zone più forti e più vicine al mercato internazionale, alle regioni più deboli e più distanti da quest’ultimo (anche dal punto di vista geografico). La morte, per così dire, “ufficiale“ del meridionalismo può farsi risalire proprio agli inizi degli anni Sessanta.

Scriveva ancora Novacco: «La questione meridionale non si sollevò mai al rango, che le competeva di pieno diritto, di nodo capitale per lo sviluppo equilibrato dell’intero paese (…). In effetti due alternative sono in gioco: o il progresso equilibrato dell’intero paese entro gli istituti della democrazia, secondo il modello delle grandi società industrializzate o il ristagno dell’intero paese nel pantano del sottosviluppo (…) A meno che non venga addirittura a significare, terza infausta alternativa, l’anticamera del divorzio tra l’Italia dello sviluppo e l’Italia del sottosviluppo (13).

Vent’anni dopo, la «terza infausta alternativa» si sta ponendo all’ordine del giorno con una forza che lo stesso Novacco certamente non avrebbe potuto immaginare, anche perché lo scivolamento nel «pantano del sottosviluppo» è da sempre una delle ipotesi, per così dire, più in voga nel dibattito sulla «questione meridionale»; una ipotesi del tutto infondata, dal momento che il capitalismo italiano storicamente è venuto a collocarsi nell’area forte del capitalismo mondiale, nonostante le molteplici “magagne“ che ne hanno caratterizzato lo sviluppo. Novacco ha però posto un problema reale, e cioè la necessità per il capitalismo italiano di procedere lungo la strada di uno sviluppo complessivo, più organico e diffuso; uno sviluppo che finalmente investa in maniera forte anche le aree del paese che oggi si trovano tagliate fuori non solo dal mercato europeo, ma che non riescono a ritagliarsi uno spazio nemmeno nell’area del bacino mediterraneo. Il dualismo Nord/Sud sembra esser giunto al suo punto critico, e la nascita del fenomeno leghista ne è il sintomo più evidente: la contraddizione socio-economica ha generato una contraddizione politica che ha squassato l’assetto istituzionale venuto fuori dalla seconda guerra mondiale; di più: essa sembra spingere lo stesso Stato nazionale oltre le forme impresse dal processo storico risorgimentale (alludiamo, naturalmente, alla «questione federalista»). Mentre negli altri paesi capitalisticamente avanzati le istanze di ammodernamento e di ristrutturazione del vecchio “Stato sociale“ hanno trovato, a partire dai primi anni Ottanta, una sponda nei tradizionali soggetti politici (i conservatori in Inghilterra, i repubblicani negli Stati Uniti, i neogollisti in Francia), l’Italia ha dovuto attendere la nascita di un soggetto politico “eversivo“ per conoscere la salutare (per il sistema-paese, è chiaro) “rivoluzione dei ceti produttivi“. Ma la Lega e la “rivoluzione dei ceti produttivi“ non nascono spontaneamente: alle loro spalle si staglia il lungo lavoro svolto dal PSI craxiano, rimasto vittima degli stessi processi economici, politici e istituzionali che esso aveva contribuito a mettere in moto scontando una feroce opposizione anche da parte di coloro che oggi ne hanno raccolto il testimone. Le necessità dello sviluppo capitalistico costringono la politica borghese a continui paradossi!

Le due grandi “ondate“ di investimenti industriali, pubblici e privati, nel Mezzogiorno – la prima è del 1955 e la seconda del 1965 – non hanno intaccato, se non marginalmente, la natura dei rapporti economici tra Nord e Sud; rapporti che, come già ricordato, hanno visto il Mezzogiorno rappresentare per lo più un mercato privilegiato di sbocco per la produzione settentrionale, e un fornitore di forza-lavoro a buon mercato non solo per il settentrione, ma anche per altri paesi europei ed extraeuropei (con un ritorno in termini di rimesse al paese d’origine tutt’altro che disprezzabile, sia dal punto di vista della bilancia dei pagamenti, sia dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica). In questo contesto lo Stato è stato chiamato continuamente a sussidiare i redditi delle popolazioni meridionali, soprattutto attraverso la spesa pubblica, che ha significato un’espansione nel Mezzogiorno del lavoro improduttivo, il quale non solo ha reso particolarmente esplosiva quella crisi del vecchio modello di “Stato sociale“ che pure si riscontra in tutti i paesi avanzati; ma ha ristretto pericolosamente la stessa base su cui può contare l’accumulazione, il solo processo che può sostenere l’intero sistema-paese. Come scriveva Otto Bauer a proposito della crisi economica europea degli anni Trenta, «le masse popolari delle regioni industriali depresse debbono essere mantenute a spese delle altre regioni.»; questo oggi sembra non essere più possibile, e il fenomeno leghista sta tutto dentro queste contraddizioni.

Fattori vecchi e nuovi; interni e internazionali; politici ed economici impongono al paese la definizione di una nuova strategia, di una “nuova politica economica“ per il Mezzogiorno. Naturalmente anche nel nuovo contesto il dato di partenza caratterizzato dalla presenza di una forza-lavoro a buon mercato può costituire un eccellente volano per lo sviluppo di quell’area, e di fatti in questo decennio i governi stanno rispolverando la vecchia teoria anglosassone delle «aree depresse», con annesse “gabbie salariali“ volte a spingere i salari meridionali verso i minimi contrattuali (ma di fatto ancora più giù). Ma lo scenario entro cui tale volano si colloca e può agire è ben diverso da quello precedente, caratterizzato dalla possibilità di una migrazione interna e internazionale delle popolazioni meridionali, e dalla possibilità per lo Stato di “drogare“ con la spesa pubblica il processo di accumulazione. E a ciò si deve aggiungere l’entrata in grande stile nell’agone della competizione capitalistica mondiale di paesi che possono contare su un costo del lavoro risibile se confrontato con quello italiano o tedesco, o francese. L’imperialismo sembra essere una strada che l’Italia può imboccare con successo per contrastare la concorrenza dei paesi emergenti dell’Est asiatico e dell’America Latina, e non a caso. Agli inizi degli anni Novanta l’Istituto di Studio per lo Sviluppo Economico individuava nell’Albania una grande opportunità per lo sviluppo del Mezzogiorno: «In definitiva il commercio estero albanese ha un forte orientamento regionale, specie nella sua componente esportativa. L’Italia (e il Mezzogiorno in particolare) è un partner di sicuro rilievo, così come l’Albania è interessante quale potenziale trampolino verso il mercato “regionale“» (14). Nel solo triennio 88-91 la quota del Mezzogiorno sul totale nazionale è variata dall’11 al 50% per le importazioni dall’Albania e dal 9,8 al 33,4% per le esportazioni verso l’Albania (dati ISVE).Non è certo privo di significato il fatto che l’Italia abbia presentato come suo primo contributo alla realizzazione di una grande rete trans-europea il progetto per la costruzione dell’autostrada Bari-Brindisi-Otranto, per un costo indicativo di 1000 milioni di Ecu.

Secondo Gad Lerner «L’Albania è la nuova frontiera dell’economia italiana (…), destinata a modificare i connotati al capitalismo italiano» (15). Ma non è solo Tirana a cadere sotto l’influenza del capitale italiano: 9300 miliardi di investimenti esteri ufficialmente censiti hanno interessato nel corso del 1995 altre aree deboli del Vecchio Continente. «Intanto che a Roma il governo discute con sindacati e confindustria su come abbattere il 10-20% il costo del lavoro – scrive Lerner – nelle zone ad alta disoccupazione, partono a migliaia i Tir carichi di macchinari industriali trasferiti in Slovacchia, Romania, Ucraina e Albania dove quel costo si abbatte al 90%» (16). Il capitalismo italiano è costretto a trovare fuori dai confini geografici del paese il suo nuovo Mezzogiorno.

Per questo è ridicolo dire del leghismo quanto disse nel 1924 il nittiano Finocchiaro Aprile, futuro capo del separatismo siciliano nel ’43, a proposito del fascismo: «è l’esponente del capitalismo settentrionale», senza prendere in considerazione il quadro complessivo che abbiamo cercato di abbozzare. Ed è altrettanto ridicolo sia pensare che risolta in qualche modo la «questione meridionale», il capitalismo italiano cesserà di essere una realtà sociale contraddittoria, dal momento che la contraddizione fondamentale capitale-lavoro non solo non verrà eliminata, ma verrà posta su un piano più alto; sia pensare che una simile soluzione non è affatto possibile nell’ambito del modo di produzione capitalistico. Come scrive Nicolò De Vecchi, sintetizzando il concetto marxiano di crisi economica, «la produzione capitalistica non si svolge per meccaniche trasformazioni di “disarmonie“ in armonie (proporzionalità tra i settori ecc.), ma in condizioni di continui mutamenti delle forze produttive (…) Il capitale, valorizzandosi, non elimina, ma “supera la continua sproporzione“ tra le produzioni settoriali, in quanto provoca lo sviluppo delle forze produttive là dove la sproporzione si manifesta» (17). Noi rivendichiamo questo tipo di concezione dello sviluppo capitalistico, al cui centro è posto il processo di valorizzazione del capitale, rispetto al quale nulla – tranne il sistema dello sfruttamento della forza-lavoro! – è immutabile.

Certamente noi non attribuiamo la nascita dell’imperialismo moderno solamente o meccanicamente all’esigenza dei paesi capitalisticamente avanzati di liberarsi del surplus di capitale che li soffoca, attraverso la loro esportazione laddove l’investimento appare più redditizio. Sappiamo che al suo sviluppo concorrono diversi fenomeni di vario ordine: economici, politici, sociali, ideologici.

I rapporti che si sono instaurati dal ’92 in poi tra lo Stato italiano e quello – fatiscente – dell’Albania, sono un esempio di come l’imperialismo sia innanzitutto un fenomeno oggettivo complesso che reclama adeguate iniziative politiche. Ma è fuor di dubbio che le esigenze mutevoli e molteplici del capitale giocano nella sua genesi e nel suo concreto manifestarsi un ruolo assolutamente determinante. Indagare le forme particolari in cui tutti i fattori dell’imperialismo agiscono e si adeguano alle nuove condizioni dello sviluppo capitalistico è un compito tanto difficile quanto prezioso.

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NOTE

1. Ex uno Plures, su Limes 4/93.

2. Ivi.

3. Ivi.

4. Ivi.

5. E. Nolte, Intervista sulla questione tedesca.

6. K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione. L’emergere delle economie regionali.

7. cit. in E. Ragionieri, Il marxismo e l’Internazionale.

8. Romano, I fattori della produzione, in AA.VV., Storia dell’economia italiana, III.

9. Vis-á-vis, autunno ’93.

10. E. Ciccotti, Sulla questione meridionale – Scritti e discorsi.

11. Bagnasco, Le tre Italie.

12. D. Novacco, La questione meridionale ieri e oggi.

13 Ivi.

14. ISVE, Il Mezzogiorno nel processo di internalizzazione.

15. La Stampa, 1/10/96.

16. Ivi.

17. N. De Vecchi, Crisi.