1921-2021. CENTENARI CHE SUONANO MENZOGNERI

La celebrazione della data di fondazione del cosiddetto Partito Comunista Cinese probabilmente non è mai stata così importante come oggi, per il suo virtuale centenario. Infatti, dopo oltre un anno di pandemia questa celebrazione lungamente preparata dal Partito-Regime assume un significato particolare non solo per la Cina, ma per tutto il mondo, visto che essa cade nel momento in cui il grande Paese asiatico si presenta agli occhi di tutti come la potenza che esce trionfante dalla guerra pandemica, la sola grande nazione che non ha fatto registrare indici di sviluppo negativi (nel 2020 il Pil cinese è cresciuto di circa il 2,3%) e che si appresta a farne registrare di fortemente positivi già quest’anno. Spesso il Presidente Xi Jinping ha ricordato i cosiddetti due obiettivi del centenario: la costruzione di una «società moderatamente prospera» entro il 2021, centesimo anniversario della fondazione del PCC, e la creazione di «un’economia prospera e avanzata» entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Obiettivi molto ambiziosi, non c’è dubbio.

«La Cina dichiara vinta la battaglia contro la povertà assoluta. La provincia Sud-Occidentale del Guizhou ha cancellato le ultime nove contee dalla lista delle aree che versano in stato di povertà. La linea ufficiale di povertà in Cina è stata fissata nel 2010 al di sotto di un reddito annuo di 2.300 yuan (294,18 euro al cambio attuale) più bassa quindi della soglia fissata dalla Banca Mondiale di 1,90 dollari al giorno. L’obiettivo fissato nel 2015, e da raggiungere entro la fine di quest’anno, era di eliminare la povertà assoluta, ma il governo cinese deve fare ancora i conti con il forte divario di reddito tra la popolazione urbana e quella rurale e le disparità tra le varie province» (Agi). Sulla reale condizione di vita e di lavoro dei migranti cinesi, cioè del grande esercito di lavoratori che tutti gli anni si sposta dalle zone rurali del Paese per raggiungere i distretti industriali cinesi, dove sarà sfruttato a dovere dal capitale nazionale e internazionale, rimando al post La pessima condizione dei migranti cinesi.

All’inizio di questo breve post ho scritto «cosiddetto Partito Comunista Cinese» e «suo virtuale centenario»: perché?  Perché quello che oggi si chiama Partito Comunista Cinese, e che costituisce l’impalcatura politica, ideologica e burocratica dello Stato (capitalista/imperialista) cinese, non ha nulla a che fare con il Partito fondato il Iº luglio 1921 a Shanghai da alcuni esponenti del Movimento del 4 maggio (1919), tra i quali ricordo Ch’en Tu-hsiu,  professore di filologia che fu il primo segretario del PCC, caduto in disgrazia dopo i sanguinosi eventi del 1927, e Li Ta-chao, tra i fondatori nel 1918 della Società per lo studio del marxismo. Catturato da un Signore della guerra nel 1927, Li Ta-chao venne strangolato dalla polizia dopo lunghe torture.  Il Movimento del 4 maggio si caratterizzò per un acceso antimperialismo rivolto contro le potenze occidentali e contro il Giappone, il quale grazie alla Conferenza di Versailles ereditò tutti i diritti acquisiti nel corso degli anni dalla Germania, la potenza battuta dall’Intesa.

Mao Tse-tung, «un povero studente hunanese, sempre avvolto in un’unica vestaglia nera, ancora preso dai complessi di inferiorità del contadino da poco giunto nella capitale» (E. C. Pischel), partecipò al congresso di fondazione del PCC, ma non vi ebbe un ruolo rilevante. Solo alla fine degli anni Venti Mao crebbe in statura politica, per acquisire nel gennaio del 1935 quel ruolo centrale nella vita del PCC che manterrà per molto tempo, tra cadute mai rovinose e risalite sempre “prodigiose”. A quel punto si trattava però di un soggetto politico, certamente rivoluzionario, ma di natura borghese – nazionalista e antimperialista.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere della Cina, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il più grande, se non l’unico, esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al contesto storico e sociale cinese. Il PCC di Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. La politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese in Cina, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata da Lenin per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale. Tale politica era centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti avrebbero dovuto difendere come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima significativa dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute e conferme sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

L’accesa conflittualità che si manifesterà a partire dai primi anni Sessanta tra l’Unione Sovietica “revisionista” e la Cina ”maoista” si spiega non tirando in ballo dispute politico-ideologiche, ma con la natura capitalistica dei due Paesi: il primo saldamente al vertice della competizione imperialistica mondiale, insieme agli Stati Uniti, e il secondo che cercherà di svilupparsi come grande nazione sottraendosi dall’influenza economica e militare delle due Super Potenze.

Il nuovo PCC degli anni Trenta non fu, dal punto di vista sociologico, sociale, politico e ideologico, il Partito dei contadini, ossia l’espressione diretta dei loro interessi di classe, ma piuttosto un Partito borghese-nazionale che cercò nei contadini la sua fondamentale base sociale d’appoggio per centrare obiettivi di natura squisitamente borghese-nazionale: in primis, l’indipendenza nazionale e lo sviluppo del capitalismo – anche attraverso una riforma agraria più o meno radicale. Scrive Arturo Peregalli nella sua ottima Introduzione alla storia della Cina: «È quindi a giusto titolo che Mao può richiamarsi a Sun Yat-sen, dichiarandosi suo discepolo e continuatore della sua politica. Se Mao è il “vero Dio” della rivoluzione cinese, Sun Yat-sen fu il suo profeta».

Il particolare rapporto politico-sociale che strinse il PCC e i contadini spiega, non solo la completa esclusione della classe operaia del Paese dalla strategia rivoluzionaria dei “comunisti” cinesi, il cui esclusivo obiettivo era, al di là della fuffa ideologica tipica dei soggetti politici d’ispirazione stalinista, l’ascesa della Cina nel “concerto” mondiale in quanto grande nazione capitalistica; ma spiega anche l’andamento contraddittorio, e spesso conflittuale (fino alla violenza armata), di quel rapporto, dal momento che il mondo rurale cinese presentava una complessa stratificazione sociale – a cominciare dalla storica divisione tra contadini poveri e contadini ricchi.

Sulla natura borghese-nazionale della Rivoluzione cinese e del PCC, nonché sulla natura capitalistica della Cina (da Mao a Xi), tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ad alcuni miei scritti dedicati al grande Paese asiatico:  Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Sulla campagna cinese; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Sotto ogni punto di vista (sociale, politico, ideale) non solo non si scorge alcuna continuità tra il PCC del 1921 e il Partito che cento anni dopo porta lo stesso nome e dice di volerne celebrare la nascita, ma quest’ultimo rappresenta piuttosto la più radicale negazione del Partito di Ch’en Tu-hsiu e Li Ta-chao, il quale ancora fragile dal punto di vista sociale e politico, e ancora immaturo da quello dottrinario, mosse nondimeno i primi promettenti passi in un momento in cui la rivoluzione proletaria internazionale sembrava ancora possibile. Scriveva Li Ta-chao nel 1918: «Il fine dei bolscevichi è di distruggere i confini che sono ostacoli al socialismo e di distruggere il sistema di produzione in cui il profitto è monopolizzato dal capitalista. I soviet uniranno il proletariato del mondo e creeranno la libertà universale. Questa è la teoria della rivoluzione del nostro secolo!  La rivoluzione russa non è che una delle rivoluzioni del mondo. La campana ha suonato l’ora dell’umanità, l’alba della libertà è arrivata». Solo retrospettivamente è possibile comprendere come nel 1921, l’anno di nascita del Partito Comunista Cinese e del Partito Comunista d’Italia, la marea della rivoluzione mondiale si stesse rapidamente ritirando, lasciando i bolscevichi isolati nell’oceano del capitalismo mondiale e a dover fare i conti con la catastrofe sociale creata dalla guerra imperialista e dalla guerra civile. La controrivoluzione antiproletaria che porterà il nome di Stalin (ma che non ha a che fare con la cattiva personalità di chicchessia) ebbe in quel tragico isolamento i suoi fondamentali presupposti, e a farne le spese saranno anche i proletari e i comunisti degli altri Paesi, Cina e Italia compresi.

Mutatis mutandis, la celebrazione del centenario della nascita del Partito Comunista Cinese e quella del Partito Comunista Italiano hanno un comune risvolto ideologico, si celebra cioè  una grande menzogna che affonda le sue radici, appunto, nello stalinismo internazionale e nella sconfitta del movimento operaio internazionale, della quale il primo fu, al contempo, una delle principali cause e la più verace e odiosa espressione. Odiosa soprattutto perché siamo ancora qui a parlare del cosiddetto “comunismo” cinese e italiano.

Dal Partito Comunista Cinese del 1921 al Partito Capitalista Cinese del 2021: cosa marca la continuità storica tra i due soggetti politici? L’acronimo!

Scriveva ieri Le Monde: «La Cina crede già di aver vinto la partita con gli Stati Uniti, e forse sta qui il suo maggiore errore di valutazione». Vedremo chi si sbaglia. Di certo non sbaglia chi lotta, “senza se e senza ma”, contro l’Imperialismo Unitario (*).

(*) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporta con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

DIALETTICA DEL DOMINIO CAPITALISTICO. Sui concetti di classe dominante e dominio di classe

Nel concetto del capitale è insito che le condizioni oggettive
del lavoro assumano una personalità contrapposta al lavoro,
o, ciò che è lo stesso, che esse siano poste come proprietà
di una personalità estranea all’operaio (Karl Marx) [1]

 

Per comprendere come nel Capitalismo del XXI secolo si configura la struttura di classe della società e in quali forme si dà il dominio di classe, occorre a mio avviso dotarsi di uno strumento teorico (di una “concezione”) in grado di spingere il pensiero critico-radicale oltre la caotica palude della mera apparenza, la quale, come ammoniva il comunista di Treviri, spesso ci restituisce la realtà in termini capovolti. Sebbene abbia un taglio molto particolare occasionato, come detto sopra, dalla lettura di un determinato libro, questo scritto rappresenta il mio contributo a questo prezioso sforzo teorico e politico.

Qui il PDF

[1] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), II, p. 146, La Nuova Italia, 1978. Nel precedente post ho definito la «personalità» di cui parlava Marx nei termini di un soggetto sociale che impone la sua volontà a tutta la comunità.

UMANAMENTE UOMO. IL SOGNO DI UNA COSA. Appunti sui Manoscritti economico-filosofici del 1844

Apparirà allora che il mondo ha da lungo tempo il sogno di una cosa, di cui deve avere soltanto la coscienza per possederla realmente [1].

Dal momento che l’essenza umana è la vera essenza comune degli uomini, gli uomini creano mediante l’attuazione della loro essenza, producono l’essenza umana comune, l’essenza sociale, che non è una potenza universale-astratta di contro al singolo individuo, ma l’essenza di ogni singolo individuo. […] Ma fintanto che l’uomo non si riconosce come uomo e dunque non ha organizzato il mondo umanamente, questa essenza comune appare sotto la forma dell’estraniazione. Perché il suo soggetto, l’uomo, è un essere estraniato a se stesso [2].

 

Non tutte le perdite vengono dunque per nuocere! Di che blatero? È presto detto. Non trovando più la mia vecchia copia dei Manoscritti marxiani del 1844, e avendo visto in libreria una loro nuova edizione dalla copertina molto accattivante (il “classico” Chaplin di Tempi moderni alle prese con i mostruosi ingranaggi), mi sono visto “costretto” a comprare il libro e a rileggere per l’ennesima volta la splendida prosa del “giovane Marx”. E quando scrivo “splendida” non intendo formulare un giudizio meramente estetico, tutt’altro. Quella prosa evoca infatti nel mio debole cervello il concetto di potenza: moltissimi passi dei Manoscritti hanno infatti una densità e una profondità (radicalità) concettuali tali, che personalmente non posso ricondurre il tutto se non al concetto, appunto, di potenza; potenza espressiva e teoretica. Ma qui siamo già al merito della cosa. Ci arriviamo. Non prima però di aver dato ai lettori un’ultima – non richiesta! – giustificazione del gravoso (10 euro!) investimento “culturale” che ha prodotto le pagine che seguono.

Per farla breve, sono rimasto favorevolmente colpito anche da quanto è scritto sulla quarta di copertina del libro in questione: «Diversamente dalle traduzioni ancora oggi in commercio e risalenti ormai a settant’anni fa, questa edizione si basa sulla versione più recente e scientificamente verificata dei manoscritti marxiani (MEGA2). […] A questo aggiunge inoltre – sempre distinguendosi rispetto alle vecchie edizioni italiane – la traduzione di nuove pagine marxiane, le cosiddette Note su James Mill, che forniscono una chiara risposta alla domanda sollevata dai celebri passi di Marx sull’alienazione del lavoro: cosa significa lavorare e produrre in modo umano?». Capite bene che un appassionato di testi marxiani [3]  quale è chi scrive non poteva rimanere sordo al richiamo di quella sirena. Si dirà che tutte le scuse sono buone per gustare ancora una volta ciò che da sempre delizia il proprio palato; e si dice il vero! Ma abbandoniamo l’antipatica quanto narcisistica sfera del “personale” e veniamo al merito della questione.

Segue qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

[1] Lettera di Marx a Ruge del settembre 1843, in K. Marx, La questione ebraica, autunno 1843, p. 53, Newton, 1975.

[2] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, p. 193, Feltrinelli, 2018.

[3] Soddisfo l’eventuale curiosità di qualche lettore. Mi sono definito «un appassionato di testi marxiani» e non «un marxista» semplicemente perché la mia interpretazione dottrinaria e politica dei testi marxiani potrebbe non avere nulla a che fare con l’autentico pensiero marxiano: vallo a sapere! A mio avviso non ha molta importanza, e certamente non la considero una questione dirimente, definirsi “marxista”, e ciò è testimoniato dal fatto che la stragrande maggioranza degli intellettuali e dei politici che amano invece esibire la loro (presunta) identità “marxista” (si tratta naturalmente di un «marxismo aggiornato ai tempi»: come no!) a mio più che sindacabile giudizio non ha nulla a che vedere con la teoria e con la prassi riconducibili in qualche modo al comunista di Treviri, e anzi ne rappresenta l’esatto opposto – spesso sotto la escrementizia forma dello statalismo contrabbandato per “socialismo”.

LENIN E LA PROFEZIA SMENAVIEKHISTA

Non v’è alcun dubbio che la vittoria

finale della nostra rivoluzione, se

questa rimanesse isolata, se non vi

fosse un movimento rivoluzionario

negli altri paesi, sarebbe una causa

senza speranza (Lenin).

 

Un ammonimento ci viene dalla

borghesia, che per bocca di

Ustrialov, uomo del gruppo

Smena Vekh, ha dichiarato che la

NEP non è una “tattica”, ma una

“evoluzione” del bolscevismo (Lenin).

 

Leggo proprio oggi: «I giorni che stiamo vivendo non smettono mai di sorprenderci con i loro imprevisti, i loro passi indietro o, più semplicemente, verso il nulla. Tutte le nostre peggiori previsioni circa la restaurazione del capitalismo sono divenute, nel giro di tre o quattro anni, ahimè, amara realtà. Ma noi vivevamo proprio così? A che cosa abbiamo dedicato la nostra vita? A quale causa? Sento, che tutto quello che ho vissuto, è inseparabile dal cammino tortuoso percorso dalla mia generazione, e che tuttavia ha creato una grande potenza, ha sollevato un Paese dalle rovine di due guerre terribili, lo ha difeso dall’invasione più brutale di tutta la storia del genere umano. Ma allora come è stato possibile, perché è stato distrutto così velocemente, quasi senza lotta, sbranato e ridotto a “brandelli sovrani”? Non aveva forse ragione Stalin, quando dopo la guerra metteva in guardia, parlando di “inasprimento della lotta di classe?” E resta sempre questa domanda, la più importante: chi eravamo noi? Da dove siamo spuntati fuori? E come siamo diventati costruttori di un grande Paese, noi che eravamo zeloti di un’economia pianificata a proprietà interamente sociale dei mezzi di produzione, economia i cui principi, quelli che ci avevano consentito di andare avanti, anche i Paesi capitalistici più avanzati ci prendevano a prestito in segreto? Chi eravamo noi? Fanatici, “visionari”, come ci chiamò una volta Orson Wells? Ciechi di fronte alla Storia? Fedeli di un’utopia?».

A qualcuna di queste domande proverà a dare una risposta, spero di un qualche interesse per chi legge, lo scritto che segue, il quale si compone di appunti di studio su alcuni aspetti, peraltro fondamentali, della Rivoluzione d’Ottobre e del processo sociale, interno e internazionale, che scatenò la controrivoluzione stalinista. Come si vedrà, il riferimento al nome di Stalin per caratterizzare la controrivoluzione capitalistica che già alla fine degli anni Venti del secolo scorso spazzò via nel modo più radicale la natura proletaria della Rivoluzione russa (lasciando in vita quella borghese) ha un valore molto relativo, appunto perché la controrivoluzione, esattamente come la rivoluzione, è in primo luogo un processo sociale, un insieme complesso e dinamico (di fatti, di prassi, di relazioni, di interessi, ecc.) che va oltre, molto oltre, i singoli personaggi che si muovono sulla scena, anche se con ciò non intendo in alcun modo negare il peso che la personalità ha nella storia. E questo vale soprattutto per la Rivoluzione d’Ottobre, sul cui corpo, come vedremo, è profondamente impressa la metaforica mano di Lenin.

I passi che ho citato all’inizio, e che ho usato strumentalmente come introduzione, sono di Nikolaj Konstantinovič Bajbakov, «uno che dal 1963 poteva permettersi di girare con, appuntata sulla giacca, una delle massime onorificenze dell’URSS, il premio Lenin (Лeнинская прeмия) e, dal 1981, la massima onorificenza sovietica in assoluto: Eroe del lavoro socialista (Герой Социалистического Труда), al netto di tutte le altre onorificenze conferitegli nella sua lunga vita». Come non provare eterna ammirazione per cotanto Eroe del Socialismo? Tanto più che oggi Roma ha l’onore di ospitare lo Zar Vladimir Putin, l’Eroe degli italici sovranisti – che forse non dispiace nemmeno a qualche vecchio arnese dell’italico stalinismo. Insomma, a dispetto degli eventi occorsi negli ultimi novant’anni, circolano ancora nel vasto e pessimo mondo d’oggi personaggi che si dichiarano apertamente e orgogliosamente nostalgici dello stalinismo: vuoi vedere che, a mia insaputa, lo scritto che segue può “vantare” una qualche attualità!

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E LA CHIAMANO “UTOPIA”!

Un nuovo intellettuale “rivoluzionario”, “visionario” e “utopista” sta calcando la scena del pensiero progressista mondiale: si chiama Rutger Bregman, è giovane e viene dall’Olanda. Naturalmente il noto “Quotidiano comunista” se n’è subito invaghito: «Nel suo libro Utopia per realisti (Feltrinelli) lo storico Rutger Bregman propone un’idea semplice: un reddito di base universale per sradicare la povertà e sganciare i bisogni dell’essere umano dalla schiavitù del lavoro. Il cibo, la casa, l’istruzione dovrebbero essere garantiti a tutti, in maniera incondizionata. Non un favore, ma un diritto fondamentale» (Il Manifesto). Il diritto di essere uomini e donne, semplicemente, e di essere trattati dalla società come tali: che bello! Ci sto! Ma un momento: se tutti sono “sganciati” «dalla schiavitù del lavoro», chi produce i beni e i servizi di cui pure abbiamo bisogno? I robot o i lavoratori che avranno la ventura (anche nota come sfiga) di rimanere invischiati nel mondo della produzione? E poi, di che società stiamo parlando? È presto detto: di questa società, ossia della società capitalistica mondiale. L’«Utopia per realisti» dell’ennesimo nipotino di Proudhon (1) si configura come una riconciliazione tra le classi nel nome della comune identità umana: mera cacca, avrebbe forse detto il forte bevitore di Treviri.

Per quanto riguarda il cosiddetto reddito di cittadinanza, c’è da dire che il concetto (borghese) di cittadinanza rinvia a una visione della società che ne oblitera la stessa essenza: la divisione classista degli individui, un’assoluta maledizione che le classi dominanti da sempre cercano in ogni modo di celare agli occhi dei sottoposti con più o meno sofisticati espedienti politici, ideologici e istituzionali. La cittadinanza che renderebbe uguali tutti gli individui al cospetto del Leviatano è una menzogna, e così l’affermazione di una comune identità umana dei “cittadini” fatta nel seno della società che nega in modo sempre più radicale la stessa possibilità di un’esistenza autenticamente umana. Di qui, la necessità di conquistare rapporti sociali pienamente umani, o semplicemente umani. Dopo tutto, non stiamo forse parlando di “utopia”? Ah, già, dimenticavo: l’utopia buona è solo quella «per realisti»!

«A ben vedere però l’idea non sembra essere di così facile applicazione», commenta Roberto Ciccarelli, che ha intervistato per Il Manifesto il brillante scienziato sociale olandese: «il lavorismo, che pervade le culture di sinistra e di destra, e quella di coloro che pensano che entrambe siano superate», renderebbe infatti impossibile l’implementazione di una proposta che invece, a ben vedere, parla il linguaggio del realismo. Non ci credete? Allora leggete quanto segue «Non sono in molti oggi – argomenta Bregman – a ricordare che alla fine degli anni Sessanta quasi tutti credevano che gli Stati Uniti avrebbero dovuto sviluppare una qualche forma di reddito di base universale. Sia la destra che la sinistra erano favorevoli. Così Nixon pensò: se tutti lo vogliono, allora facciamolo. La sua legge sul reddito di base andò due volte in parlamento, ma fu abbattuta dai democratici. Non perché fossero contrari, ma perché lo ritenevano troppo basso! È una storia abbastanza bizzarra, piena di strane contingenze». E sì, questi servitori del Capitalismo e dell’Imperialismo quando vogliono sanno essere davvero bizzarri!

A proposito di «lavorosmo», fissazione ideologica (o religione) che secondo Ciccarelli sarebbe il maggior ostacolo alle proposte utopiste-realiste di Bregman, qui mi permetto di notare con un certo piacere la conferma del “mio” mantra: la cosiddetta sinistra e la cosiddetta destra condividono un comune terreno di classe (capitalistico), perché solo politiche e ideologie filo-capitalistiche possono esaltare il lavoro salariato – il tanto decantato e glorificato «capitale umano». Com’è noto, il «lavorismo» in Italia ha avuto soprattutto una matrice cattostalinista, e se ne trovano abbondanti tracce nella «Costituzione – borghese – più bella del mondo». Quando sente parlare in modo apologetico di lavoro (salariato!) e di “economia reale” (quella che rende possibile la creazione del vitale plusvalore attraverso lo sfruttamento della capacità lavorativa vivente) l’anticapitalista conseguente non può fare a meno di mettere subito la mano alla metaforica pistola. Dall’arma della critica, alla critica delle armi, diceva quello. Per adesso dobbiamo accontentarci delle metafore. Si fa per dire, compagno Minniti!

Nella nostra epoca “post-fordista” il fatto stesso di esistere significa essere produttivi di «valore sociale» perché ogni attività, anche quella non immediatamente economica o addirittura ludica, produce ricchezza: i teorici del Capitalismo cognitivo giustificano in questi termini la rivendicazione di un reddito universale di base (2). Il lavoro di cui parlano questi “post rivoluzionari” è talmente produttivo di valore, che per essere remunerato ha bisogno della fiscalità generale, ossia della tassazione dei cittadini – e non è detto affatto di quelli più abbienti. Ma ritorniamo al nostro “utopista” olandese: «Reddito universale di base significa soldi gratis per tutti» (Utopia per realisti); ma com’è noto nel Capitalismo nessun pasto è gratis! In generale, per quanto riguarda la rivendicazione di un salario o di un reddito garantito dal Leviatano (e sempre al netto delle eventuali fumisterie ideologiche che ne sorreggono l’impianto “dottrinario”), occorre tenere in mente che la fiscalità generale per i lavoratori si risolve generalmente in un secco prelievo alla fonte del loro reddito. L’intellettuale di Westerschouwen vuole «responsabilizzare» i poveri regalandogli i soldi: mi prenoto!

Dal punto di vista di chi si batte per realizzare le condizioni dell’autonomia di classe e della solidarietà tra i proletari (d’ogni “razza, colore e nazione”), la rivendicazione di un «reddito minimo garantito», o come si voglia altrimenti chiamarlo, ha senso solo se essa non si risolve in un ennesimo strumento di divisione e di indebolimento dei lavoratori e di rafforzamento dello Stato capitalistico, il quale soprattutto nei periodi di crisi sociale ama vestire i panni del Padre buono che pensa soprattutto “agli ultimi”. Solo con la lotta di classe “gli ultimi” riescono a migliorare la loro condizione di esistenza e, al contempo, a conquistare lo status di combattenti per l’emancipazione sociale. Solo con e nella lotta di classe i dominati conquistano gradi di libertà e di dignità altrimenti inarrivabili. Se mi si consente la metafora, il povero Cristo deve farsi Spartaco. Gli “umanitari” lavorano invece per fare degli “ultimi” degli assistiti dalla fiscalità generale, dei sudditi eternamente grati al Leviatano che li nutre, li veste e li alloggia. Abbiamo visto ultimamente come in Venezuela il proletariato assistito con ciò che ancora percola dalla rendita petrolifera si sia schierato a difesa del regime ultrareazionario di Maduro.

Lo so che il discorso degli “umanitari” oggi è infinitamente più popolare del mio, ma io non sono un populista, come non sono un realista. Di più: sono un arcinemico del populismo (di “destra” e di “sinistra”) e del realismo.

Confessa il nostro giovane intellettuale (che si batte per «la creazione di un populismo positivo e aperto»): «Vorrei uno Stato grande in termini economici (che raccoglie soldi con le tasse e li ridistribuisce) ma piccolo per quanto riguarda il controllo sull’individuo e la sua libertà» (La Repubblica). Questa sì che è davvero un’“utopia”! Detto en passant e per ribadire il concetto di cui sopra, non è che il «populismo positivo e aperto» di certi sinistri appaia ai miei irrealistici occhi meno cattivo del populismo negativo e chiuso propagandato dai destri: nella buia notte della società capitalistica tutti quelli che a vario titolo cercano di vendere fuffa ideologica alle classi subalterne, per rafforzare la loro attuale condizione di impotenza sociale e politica, mi appaiono neri, indistintamente, proprio come le celebri vacche hegeliane.

Ancora Bregman: «L’idea di reddito di base supera la distinzione tra destra e sinistra. Nel senso che è di sinistra l’idea di sradicare la povertà, ed è di destra il fatto che promuove la libertà individuale. In realtà, sono convinto che il reddito possa essere davvero il coronamento della socialdemocrazia. O, come l’ha definito un filosofo, la “via capitalistica al comunismo”» (Il Manifesto). Come no? Naturalmente «la via capitalistica al comunismo», se considerata con serietà “critico-scientifica”, è un’assoluta fregnaccia; d’altra parte occorre considerare il tipo di “comunismo” che hanno in testa gli intellettuali di tutte le tendenze politico-ideologiche, i quali associano il “comunismo” al Capitalismo di Stato o a qualche altra forma di Capitalismo non meglio definito, ma possibilmente «dal volto umano»: sic! Per l’anticapitalista che non ama sfoggiare letture marxiane (peraltro mai digerite) nei salotti avvezzi allo «spirito dell’utopia» (e così abbiamo sistemato anche il povero Ernst Bloch!), non si tratta semplicemente di «sradicare la povertà», ma di eliminare la divisione classista degli individui (emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità, diceva quello) e di rendere possibile la «liberazione di ogni singolo individuo», perché «nel mondo attuale il libero sviluppo dell’individuo completo è reso impossibile» (3). La libertà individuale di cui parla la “destra” è una gigantesca menzogna nel seno della società retta da leggi che gli individui non controllano e che anzi subiscono alla stregua di «potenze estranee e ostili». Come diceva sempre l’uomo con la barba, un conto è ciò che gli individui credono di essere, ad esempio liberi e belli, per citare una vecchia reclame, un altro ciò che essi sono realmente sulla base di un determinato processo sociale. Chi non controlla la prassi che rende possibile la nostra stessa esistenza su questo pianeta, può solo illudersi di essere libero. Nemmeno i capitalisti singolarmente presi sono liberi di prendere decisioni sulla loro attività: sopra le loro teste incombe infatti l’imperativo categorico del profitto, che li costringe a scegliere solo le pratiche che garantiscono all’investimento il pieno successo. «Ciò malgrado, l’operaio sin dall’inizio si eleva al di sopra del capitalista, in quanto quest’ultimo è radicato in quel processo di alienazione e vi trova un assoluto appagamento, mentre l’operaio, in quanto sua vittima, si pone sin dall’inizio in un rapporto di ribellione verso di esso e lo avverte come un processo di asservimento» (4). L’anticapitalista si sforza di orientare in senso rivoluzionario quel «rapporto di ribellione», mentre i difensori dello status quo sociale, “utopisti realisti” compresi, cercano di depotenziarlo e ingabbiarlo in ogni modo. Sappiamo chi finora ha avuto la meglio.

Ad ogni modo, al concetto cattolico e laico di povertà contrappongo il concetto marxiano di miseria sociale, il quale dal lato specificamente “economico” mette in luce la crescente indigenza dei lavoratori in rapporto all’aumenta produttività del lavoro (5). Scriveva Camillo Benso conte di Cavour: «Se ci vien fatto di dimostrare che la carità legale può essere utilmente introdotta nelle società moderne, noi avremo tolto al comunismo i suoi più formidabili argomenti, e segnata la via a migliorare le sorti delle classi più numerose, senza mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’ordine sociale» (6). Come a suo tempo Cavour, molti, a “destra” come a “sinistra”, pensano che “Comunismo” significhi assicurare un piatto di minestra, qualche vestito e un tetto a tutti: la miseria (quasi!) generalizzata, insomma. Una miseria che in ogni caso richiederebbe, come già detto, il servile consenso dei miserabili, consapevoli che al peggio non c’è limite e avvezzi a pensare che «chi si accontenta gode» e che «l’ottimo è nemico del bene».

«Paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna – osserva Bregman – sono oggi cinque volte più ricchi del 1930. Ma, a differenza di quanto sperato, il tempo libero non è affatto aumentato. Così oggi lavoriamo paradossalmente molto più di ottant’anni fa, anche per colpa delle nuove tecnologie – smartphone su tutte – che ci impediscono di separare vita professionale e privata» (La repubblica). Ma sul fondamento dei vigenti rapporti sociali non c’è affatto da stupirsi, tutt’altro. La lamentela del Nostro è tanto comune quanto “paradigmatica” del modo di pensare della scienza sociale progressista dei nostri giorni. Su questo aspetto rimando a diversi miei post (7). Quanto infantile e concettualmente indigente sia il pensiero economico-sociale di Bregman possiamo apprezzarlo anche dai passi che seguono: «John Maynard Keynes diceva che entro il 2030 le macchine ci avrebbero permesso di lavorare non più di 15 ore. Potremmo già farlo se non avessimo inventato l’iperconsumo. Invece di lavorare meno per produrre quanto serve, lavoriamo di più per creare cose inutili, inquinando e impegnando cervelli in attività vuote» (La Repubblica). Ma la tecnoscienza oggi non serve a liberare gli uomini dal lavoro ma a renderli più produttivi e sempre più adeguati alle molteplici necessità del Capitale: nella loro qualità di lavoratori, di consumatori, di scienziati e così via. Il problema ovviamente non è «l’iperconsumo» ma (e so benissimo di ripetermi: però quando ci vuole, ci vuole!) l’economia – e l’intera società – che ha nella ricerca del profitto il suo assoluto fondamento, il suo più grande e storicamente ineliminabile movente. Ineliminabile, beninteso, senza contemplare – e poi magari “fare” – la rivoluzione sociale. Il problema non è quello di «ripensare il concetto di lavoro», ma di superare senz’altro la società fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato: come sempre non è questione di «rivoluzione culturale», una merce ideologica che tanto piace agli intellettuali di “sinistra”, ma, appunto, di rivoluzione sociale. Ovviamente al “visionario” olandese non importa un fico secco della prospettiva rivoluzionaria qui ricordata: «Il capitalismo è una fantastica macchina per creare prosperità.  […] È proprio perché siamo ricchi come mai prima d’ora che oggi abbiamo i mezzi per completare il successivo passo nella storia del progresso: dare a chiunque la sicurezza di un reddito minimo. È quello che il capitalismo avrebbe dovuto cercare sin da subito» (da Utopia per realisti). Davvero miserabile il concetto di progresso storico che ha in testa Bregman. Per mutuare John Maynard Keynes, un economista tenuto in grandissima considerazione dal nostro bravo “utopista”, da troppo tempo ci alleniamo a combattere, non a vivere da uomini: si tratta di rendere possibile la «Società umana libera» (Marx), libera in primo luogo dalla cieca necessità (sociale e naturale) e da ogni forma di coercizione: materiale, ideologica, psicologica. Utopia (nell’accezione che ne dà chi scrive: luogo che ancora non esiste) impossibile nella società divisa in classi. Come ho scritto su un post di qualche anno fa, il comunismo è un lusso che l’uomo del XXI secolo può permettersi, e per certi aspetti lo stesso libro qui preso di mira lo conferma.

A proposito di comunismo! Scrive Bregman nel suo libro: «Certo, la storia è piena di varianti orribili di utopismo (fascismo, comunismo, nazismo)». Il “comunismo” ridotto a un’orribile variante di utopismo e messo nello stesso escrementizio sacco che ospita il fascismo e il nazismo: di questo il Dominio vigente non ringrazierà mai abbastanza lo Stalinismo che ha distrutto l’esperienza sovietica dell’Ottobre e ha costruito il Capitalismo in Russia nel nome appunto del “comunismo”. Ha detto ieri il Presidente americano alle Nazioni Unite (riassumo): «Dall’Unione Sovietica a Cuba e al Venezuela la storia ha dimostrato che il socialismo lì non è stato applicato male, ma come esso sia esattamente quello che appare: miseria e oppressione». Una tesi che inchioda stalinisti e post stalinisti – anche quelli con caratteristiche cháviste. Le classi dominanti dell’intero pianeta stanno ancora pagando a caro prezzo la costruzione della più grande menzogna del XX secolo, la quale tra l’altro consente a un Bregman qualsiasi di fare bella figura nei salotti del progressismo mondiale esternando concetti e illusioni piccoloborghesi di rara insulsaggine.

Se capisco bene, l’«utopia» proposta da Rutger Bregman non è «per realisti» ma per chi auspica un Capitalismo privo di contraddizioni e di antagonismi sociali: più che un’utopia, una miserabile chimera, la quale si aggiunge alle tantissime chimere generate dal pensiero borghese e – soprattutto – piccolo borghese ormai da oltre due secoli. Lo sviluppo del Capitalismo e il progresso della tecnoscienza hanno dimostrato oltre ogni ragionevole dubbio quanto sia ingenuo e illusorio credere di poter sfruttare le conquiste del vigente modo di produrre e distribuire la ricchezza sociale contro questo stesso mostruoso (disumano) meccanismo sociale senza prima sradicare di netto i rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che lo rendono possibile. Tutte le cosiddette utopie che non considerano la necessità storico-sociale del superamento rivoluzionario del Capitalismo non sono che ricette, più o meno realistiche, più o meno sensate e radicali dal punto di vista borghese, intese a salvare le chiappe del Capitale da funzionari economici e politici considerati poco lungimiranti e poco intelligenti dalle solite mosche cocchiere.

Di realistica nella concezione del mondo di Bregman c’è solo l’esigenza di gestire alla meglio le contraddizioni sociali nell’epoca della sottomissione totale e capillare dell’uomo e della natura al Capitale; quanto alle ricette da lui proposte i fatti si incaricheranno di testarne la bontà. Per molti aspetti, e ovviamente per come la vedo io, le proposte dell’intellettuale olandese appaiono molto più “utopistiche” e assai meno realistiche di quelle informate dal pensiero radicalmente (autenticamente) anticapitalista. E allora, tanto vale…

(1) Vedi Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0 e Profitto versus rendita.
(2) Sulla presunta crisi della teoria marxiana del valore, che, è bene ricordarlo, è in primo luogo una teoria dello sfruttamento del lavoro salariato, rimando ai post dedicati ai “comunardi” alla Toni Negri: Le superstizioni comunarde di Toni Negri; La valorizzazione capitalistica ai tempi di Toni Negri; La coscienza di classe nella rete; Cripto-moneta del Comune e “acciarpature monetarie”; Miseria del Comune; Quel che resta di Toni Negri.
(3) Marx-Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 254, Editori Riuniti, 1972. Bregman sostiene che «È di destra promuovere la libertà individuale»: questo la dice lunga, molto lunga, sulla cosiddetta sinistra, non a caso figlia dello stalinismo e ancora oggi impregnata di statalismo in modo odioso. Associare il “marxismo” di Marx all’ostilità nei confronti dell’individuo e della sua libertà è un luogo comune resistente quanto infondato. Cito da un mio post: «”Voi amate l’uomo, e perciò tormentate il singolo essere, l’egoista; il vostro amore degli uomini è tormento di essi” (M. Stirner, L’unico e la sua proprietà, 1845, p. 274, Ed. Anarchismo, 1987). Nient’affatto, risponde Marx: noi desideriamo che “il singolo essere, l’egoista” diventi un uomo in carne ed ossa, desideriamo che il concetto prenda corpo, corpo umano. “Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del mondo), a un potere del cosiddetto spirito che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista questo potere così smisurato per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo” (Marx-Engels, L’ideologia tedesca, p. 66). Nota bene: di ogni singolo individuo. Nella Comunità umana non solo l’individuo non è sacrificato alle necessità della totalità sociale, come avviene nelle società classiste, ma essa è, per così dire, predisposta fin nei dettagli per rendere possibile il libero dispiegamento del potere “di ogni singolo individuo” sulla propria esistenza. Solo così la totalità sociale, sottomessa al controllo degli individui, non ha modo di darsi in guisa di potere sociale estraneo e ostile che si afferma sulla testa dei suoi stessi creatori, secondo la maligna dialettica che da sempre ha inquietato i poeti e i filosofi umanamente sensibili. Umana è la Comunità che fa dell’uomo, del singolo individuo, la sua totalità».
(4) K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 19, Newton, 1976.
(5) Per Marx la miseria sociale del proletariato cresce in termini relativi nella misura in cui cresce in termini assoluti la ricchezza sociale nella sua odierna forma capitalistica: «Il salario reale può rimanere immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire. […] Quantunque l’operaio disponga di una maggiore quantità di merci che non prima, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista […] Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. […] La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (K. Marx, Lavoro salariato e capitale, pp. 64-68, Newton, 1978).
(6) Cit. tratta da F. Mezzi, Cavour e la questione sociale, versione digitalizzata, 2007, p. 26.
(7) Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.

SUL CONCETTO DI SOCIALIZZAZIONE

L’esistenza di una classe che non possiede
null’altro che la capacità di lavorare, è una
premessa necessaria del capitale (K. Marx).

La Comunità non troverà pace, armonia e
felicità fin quando non ruoterà attorno
al sole dell’individuo che non conosce
classi sociali.

 

Socializzare il Capitale non è un’ipotesi come un’altra, ma una vera e propria sciocchezza concettuale, un’assurdità dottrinaria, un ossimoro che si giustifica solo con una profonda ignoranza circa il concetto di Capitale da parte di chi dovesse sostenere il carattere rivoluzionario di quel vero e proprio pastrocchio ideologico. Vediamo, in breve, perché.

Comincio affermando senza alcun tentennamento che un abisso ideale e reale separa il concetto di socializzazione dei presupposti materiali della produzione della ricchezza sociale (mezzi di produzione, materie prime, ecc.) dai concetti di nazionalizzazione e statizzazione (1) di questi stessi presupposti – che nelle sue opere “economiche” Marx definisce «condizioni oggettive di lavoro». La tesi appena enunciata rappresenta una delle pochissime acquisizioni teoriche fondamentali che il mio poco efficiente cervello è riuscito a conservare nel suo striminzito archivio neuronale nel corso degli anni. Questa formidabile conquista teorica, che dobbiamo al geniale pensiero critico marxiano, consente, tra l’altro, di tenersi alla larga dalla vulgata che concepisce il Capitalismo di Stato (vedi Unione Sovietica, Cina maoista, ecc., ecc.) come una forma di Socialismo: il «Socialismo di Stato», appunto. È sul fondamento di quella perla marxiana, che Engels adoperò nel suo celebre Antidühring per ridicolizzare il «Socialismo di Stato» dei cosiddetti socialisti bismarckiani (2), che ha potuto prendere corpo già alla fine degli anni Venti del secolo scorso un antistalinismo squisitamente critico-rivoluzionario, il solo in grado, tra l’altro, di salvare l’innocente, ancorché ubriacone e barbuto, fanciullino di Treviri dal bagno putrido, più che sporco, dello stalinismo, la cui intima natura storico-sociale può essere compresa, sempre al modesto avviso di chi scrive, solo sulla scorta della marxiana critica dell’economia politica – la quale, è sempre bene ricordarlo, è fondamentalmente una critica dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento.

Naturalmente quanto appena scritto presuppone una particolare accezione del termine socializzazione; si tratta dunque di delinearne e delimitarne i contorni, cosa che proverò a fare in modo assai stringato, rimandando i lettori ai miei scritti “economici” scaricabili dal blog per maggiori approfondimenti. Inizio a farlo anticipando il risultato a cui perverrò: il concetto di socializzazione ha come sua diretta e necessaria antitesi storica e sociale quello di monopolio, il quale a sua volta corrisponde nel modo più stringente al concetto stesso di Capitale. Vediamo per quali impervie strade giungo a questa conclusione.

Leggo sul dizionario del Corriere della Sera alla voce Socializzazione (nell’accezione economica del termine): «Rendere sociali o statali i mezzi di produzione o ciò che è privato, ad esempio le banche». La citazione vuole semplicemente mostrare quanta confusione si faccia intorno ai concetti qui richiamati: rendere sociali equivarrebbe a rendere statali «i mezzi di produzione o ciò che è privato». Intanto, in che senso è corretto in regime capitalistico parlare di “privato” e di “sociale”? Fino a che punto regge l’antitesi, così familiare per il pensiero comune, privato-sociale?

Soprattutto contro Proudhon e il «socialismo piccolo-borghese» Marx dimostrò al di là d’ogni ragionevole dubbio come il Capitale avesse dato corpo a una prassi economica eminentemente sociale, e come il Capitalismo fosse anzi il primo modo di produzione veramente sociale della storia. Questa concezione “sociale” dell’economia capitalistica gli consentì tra l’altro di scoprire quel profitto sociale medio che gli diede la possibilità di risolvere molte delle “incongruenze” dottrinarie che riscontrò nei pur geniali studi economici di Adam Smith e David Ricardo. Qui è solo il caso di accennare per titoli ai problemi circa lo scostamento del valore dal prezzo di produzione e alla distinzione tra plusvalore e profitto la cui soluzione ancora oggi permette di dar conto della reale dinamica capitalistica (3). Insomma, se guardato dal punto di vista strettamente – e superficialmente – economico, quello capitalistico è un modo di produzione pienamente socializzato, e questo carattere si estrinseca come dominio totalitario e mondiale dei rapporti sociali capitalistici sugli aspetti fondamentali della vita degli individui, tutti a diverso titolo assoggettati alla bronzea legge del profitto.

Non va poi dimenticato che lo stesso Fascismo volle civettare (4), a fine corsa e nel ridotto della Repubblica Sociale, con il termine socializzazione, dichiarando appunto la necessità di una «socializzazione fascista» dell’economia distrutta dalla guerra, e non è certo una bizzarria del destino se tra i massimi teorici di una simile “socializzazione” incontriamo l’ex militante del PC d’Italia Nicola Bombacci, a dimostrazione di un’intima vicinanza tra gli statalisti di “sinistra” (come quelli che alla fine degli anni venti saltarono sul carro del Fascismo trionfante), e quelli di “destra” (come quelli che dopo il’43 abbandonarono in fretta e furia Mussolini al suo tragico destino  per avvicinarsi al cavallo statalista allora vincente: Palmiro Togliatti). È noto come la «socializzazione fascista» non andasse oltre un’economia statalista e corporativistica del tipo di quella un tempo auspicata dalla cosiddetta sinistra fascista. Come sempre bisogna diffidare delle parole che si usano, e concentrarsi piuttosto sui concetti e sulla prassi a cui quelle parole sono appiccicate il più delle volte in modo del tutto arbitrario, tale da occultare la cosa che si cela dietro il nome.

A differenza di Stalin e dello stesso Trotsky (che non a caso rimase invischiato nella controrivoluzionaria teoria del Socialismo in un solo Paese, peraltro da egli stesso coraggiosamente combattuta sul piano politico), Lenin non attribuì mai un carattere economicamente socialista al monopolio statale delle imprese industriali sotto il regime della dittatura sovietica, preferendo adoperare il concetto che meglio corrispondeva alla cosa, quello di Capitalismo di Stato. Nelle condizioni storico-sociali della Russia sovietica, arretrata economicamente e devastata da anni di guerra imperialista e guerra civile, il passaggio al Capitalismo di Stato appariva agli occhi di Lenin un gigantesco passo in direzione del Socialismo. Nell’immediato si trattava, non di una transizione dal Capitalismo al Socialismo, come poi, a Lenin morto e imbalsamato (poverino!), diranno i teorici dello stalinismo, bensì di una transizione da un’economia capitalisticamente arretrata (Lenin parlava anche di «capitalismo piccolo-borghese») e ancora fortemente legata a modi di produzione precapitalistici (soprattutto nella sterminata campagna russa) a un moderno Capitalismo tanto nel settore industriale quanto in quello agricolo. Il leader bolscevico pensava al modello industriale tedesco e al modello agricolo statunitense, ossia al “miglior” Capitalismo dei suoi tempi.  «Il contadino, dopo aver pagato l’imposta in natura, ha il diritto di scambiare liberamente quel che gli rimane del suo grano. Questa libertà di scambio significa libertà per il capitalismo. Noi lo diciamo francamente e lo sottolineiamo. Non lo nascondiamo affatto. Le nostre cose andrebbero male se pensassimo di nasconderlo. Libertà di commercio significa libertà per il capitalismo, ma significa al tempo stesso una nuova forma di capitalismo. Vale a dire che noi, in una certa misura, ricreiamo il capitalismo. E lo facciamo del tutto apertamente. Si tratta del capitalismo di Stato. Ma capitalismo di Stato in una società in cui il potere appartiene al capitale, e capitalismo di Stato in uno Stato proletario sono due concetti diversi. In uno Stato capitalistico, capitalismo di Stato significa capitalismo riconosciuto e controllato dallo Stato a vantaggio della borghesia e contro il proletariato. Nello Stato proletario, vien fatta la stessa cosa a vantaggio della classe operaia e allo scopo di resistere alla borghesia ancora forte e di lottare contro di essa. È ovvio che dovremo cedere molte cose alla borghesia e al capitale straniero» (5).

Alla fine, Lenin, il suo partito e i Soviet dovranno cedere al rapporto sociale capitalistico non soltanto «molte cose», ma l’intera esperienza rivoluzionaria.

Per capire quanto fosse aleatorio parlare di socialismo e di comunismo nella Russia rivoluzionaria, lo dimostrò sempre Lenin, il quale alla fine della guerra civile e alla vigilia del varo della Nuova Politica Economica, invitò i suoi compagni a smetterla di pensare al cosiddetto Comunismo di Guerra nei termini di un’epoca d’oro della rivoluzione, perché di comunista durante la guerra civile c’era stata solo (si fa per dire!) la volontà politica del Bolscevismo di combattere con tutti i mezzi necessari la controrivoluzione interna e internazionale, mentre sul terreno economico-sociale la Russia di quegli anni non aveva prodotto nulla che andasse oltre un’economia di guerra. «Abbiamo parlato così tanto di comunismo di guerra che alla fine ci siamo convinti che si trattasse davvero di comunismo, che davvero stessimo saltando la fase capitalistica del nostro sviluppo, come avevano auspicato le teorie populiste un tempo da noi stessi derise, mentre si trattava di organizzare la resistenza a una catastrofe economico-sociale di spaventose proporzioni»: questa, in estrema ma non penso infondata sintesi, l’autocritica proposta da Lenin alla fine del 1920. Nell’opuscolo del maggio 1921 Sull’imposta in natura, Lenin cita i passi contenuti in un opuscolo del PCR del 1918: «Nessun comunista ha neppure negato, a quanto pare, che l’espressione “repubblica socialista sovietica” significa che il potere dei soviet è deciso a realizzare il passaggio al socialismo, ma non significa affatto che riconosca come socialisti i nuovi ordinamenti economici (6).

È pur vero che non sempre Lenin tenne fede alla sua proverbiale chiarezza cristallina, e che qualche volte annoverò anche un supposto «socialismo», peraltro largamente minoritario, fra «i diversi tipi economico-sociali» allora presenti in Russia: «1) l’economia patriarcale, cioè in larga misura naturale e contadina, 2) la piccola produzione mercantile, (che comprende la maggioranza dei contadini che vendono il grano), 3) il capitalismo privato, 4) il capitalismo di Stato, 5) il socialismo» (7); ma a mio avviso sarebbe profondamente ingiusto, oltre che storicamente infondato, fare di lui il precursore del Socialismo in un solo Paese. Senza contare che mentre io scrivo dalla comoda posizione dello “storico”, avendo sotto i miei occhi l’intero quadro degli eventi e potendo avvantaggiarmi anche degli errori teorici e politici altrui, Lenin agiva e faceva la storia in un ambiente sociale altamente complesso e contraddittorio. Personalmente non mi sento di rinfacciare a Lenin gli errori che certamente commise (a cominciare dal suo pessimo rapporto con la sinistra comunista europea) e le illusioni (che a lui apparivano come fondate speranze) che certamente coltivò. Ovviamente questo non ha nulla a che vedere con una doverosa critica delle posizioni leniniane, che io stesso esercito senza remora alcuna nei limiti delle mie capacità. Su tutte queste cose rifletto in diversi scritti, ad esempio ne Lo scoglio e il mare e nel Grande Azzardo.

Rileggendo i testi marxiani che trattano il «fissarsi del sovraprofitto in rendita fondiaria», mi sono imbattuto in una serie di passi che, a mio avviso, illustrano molto bene l’abisso concettuale e reale di cui parlavo all’inizio. Riporto solo alcuni brani, i quali sebbene considerino un aspetto specifico della “problematica” capitalistica (la genesi della rendita fondiaria, la differenza tra produzione agricola stricto sensu e produzione industria, ecc.) hanno un significato teorico generale perché rinviano al cuore della teoria marxiana del plusvalore. Qui è sufficiente osservare che Marx concepisce la terra (e ogni risorsa a essa direttamente connessa: acqua, cascate, miniere, cave, ecc.) come un «essenzialissimo mezzo di produzione» e che egli considera altresì la rendita fondiaria (e ogni genere di rendita) come si configura in regime capitalistico «una forma particolare, caratteristica del plusvalore», o, ancora più precisamente, come quella aliquota di plusvalore che i proprietari terrieri intascano solo perché vantano nei confronti dell’affittuario capitalista un titolo di proprietà sulla terra che quest’ultimo adopera appunto come un mezzo di produzione. La terra non produce alcunché in termini di valore, mentre è il lavoro umano il solo “fattore produttivo” che conserva la ricchezza già prodotta nello stesso momento in cui  ne crea di nuova.

Scrive Marx: «Così come soltanto il monopolio del capitale permette al capitalista di estorcere pluslavoro all’operaio, il monopolio della proprietà fondiaria permette ai proprietari fondiari di estorcere al capitalista la parte del pluslavoro che formerebbe un costante sovraprofitto» (8). Non essendo questa la sede per approfondire la teoria marxiana della rendita fondiaria, la frase che qui ci interessa valutare è la seguente: «soltanto il monopolio del capitale permette al capitalista di estorcere pluslavoro all’operaio». In che senso qui Marx parla di monopolio? In un senso storico-sociale ben preciso, ben spiegato dai passi che seguono: «Questa concezione [del monopolio] si adatta più o meno, mutatis mutandis, a tutti i modi di produzione in cui gli operai e i possessori delle condizioni oggettive di lavoro formano classi differenti» (p. 263). Da un lato ci sono gli agenti del Capitale (o capitalisti), i quali detengono le «condizioni oggettive di lavoro», ossia i fattori materiali della produzione: macchine, materie prime e così via; dall’altra ci sono i lavoratori salariati, i quali hanno la sventura di possedere solo la capacità lavorativa che vendono agli agenti del Capitale in cambio appunto di salario. «Il modo capitalistico di produzione capitalistico presuppone in generale che i lavoratori siano espropriati delle condizioni di lavoro» (9); «Il capitale presuppone dunque il lavoro salariato, il lavoro salariato presuppone il capitale. Essi si condizionano a vicenda; essi si generano a vicenda» (10). Essi cadranno, se cadranno, insieme, essendo le due facce di una stessa medaglia, due modi di essere dello stesso rapporto sociale, sintetizzato nel concetto di Capitale, che io di solito scrivo con la “c” maiuscola proprio per sottolinearne il carattere sociale e la dimensione mostruosa – da Moloch – sotto molteplici aspetti.

Appare dunque evidente come il concetto di monopolio qui illustrato abbia un valore storico-sociale generale che non ha nulla a che fare con quello meramente giuridico-economico di cui tratta la scienza sociale borghese. Infatti, ogni regime sociale che conosce la divisione classista degli individui si fonda sul dualismo appena individuato: a un polo troviamo sempre, anche nelle epoche precapitalistiche, il monopolio delle condizioni oggettive del lavoro, che garantisce il monopolio nel possesso dei prodotti del lavoro; al lato opposto troviamo i nullatenenti, ossia coloro che possiedono solo capacità lavorativa da mettere al servizio di un padrone (uno Stato, un Faraone, un monarca, un privato), obtorto collo, pena il morir di fame, né più, né meno. In questo senso preciso il regime salariale non è qualitativamente diverso dal sistema schiavistico, da quello servile o da quello corporativo: in tutti questi sistemi, infatti, chi non ha la fortuna di possedere i fattori materiali della produzione è costretto a vendere la propria capacità lavorativa, cosa che determina la sua intera esistenza. Lo stesso salario intascato dal moderno lavoratore non fa che confermarlo come tale, ossia come mero venditore di capacità lavorativa, e difatti produrre merci (“beni e servizi”) presuppone e pone sempre di nuovo i peculiari rapporti di dominazione di questa epoca storica. Il moderno lavoratore salariato non è schiavo o servo di un signore particolare, come avveniva per gli sfruttati nelle società precapitalistiche; egli conosce un solo Signore: il Capitale, e in quanto “libero cittadino” è sottoposto alle leggi emanate da quello Stato che si erge sopra gli individui come feroce cane da guardia dei vigenti rapporti sociali. È dentro i confini tracciati da questi rapporti sociali che si dispiega la nostra cosiddetta libertà, che difatti non ha nulla a che fare con un’autentica libertà, impossibile in una dimensione classista. Ma non allarghiamo troppo lo spettro tematico!

Ancora Marx: «Ricardo parte dalla bipartizione fra capitalista e operaio salariato e non fa entrare che più tardi il rentier fondiario come una speciale superfetazione, e ciò corrisponde perfettamente al punto di vista della produzione capitalistica. Lavoro oggettivato e lavoro vivo sono i due fattori, sulla cui contrapposizione si basa la produzione capitalistica. Capitalista e operaio salariato sono gli unici funzionari e fattori della produzione, la cui relazione e il cui contrapporsi scaturisce dall’essenza stessa del modo di produzione capitalistico. […] La produzione, come osserva James Mill, potrebbe continuare indisturbata anche se il rentier fondiario sparisse e al suo posto subentrasse lo Stato. Egli – il proprietario fondiario privato – non è un agente produttivo necessario per la produzione capitalistica, benché per questa sia necessario che la proprietà fondiaria appartenga a qualcuno, purché non sia l’operaio, per esempio allo Stato» (pp. 266-277). Analogamente, sul fondamento dei rapporti sociali capitalistici la produzione potrebbe continuare indisturbata se scomparisse il funzionario privato del Capitale, ossia il singolo capitalista che si confronta con la moltitudine dei capitalisti, e al suo posto subentrasse l’agente collettivo di esso, per esempio lo Stato. Come abbiamo visto, già Engels parlava dello «Stato capitalista [come] l’ideale capitalista complessivo».

Ciò che è essenziale, ai fini della continuità dello status quo sociale, è che i produttori diretti, cioè a dire i lavoratori salariati, siano tenuti lontani dal possesso «delle condizioni oggettive della produzione»: il Capitalismo si risolve in questa semplice condizione. Non importa se il plusvalore – o pluslavoro – venga «predato», «smunto», «estorto», «scroccato» ai lavoratori da molti capitalisti o da un solo capitalista (lo Stato, nel nostro esempio): ciò che conta, e che realizza la «differentia specifica» del modo di produzione capitalistico, è che i presupposti materiali della produzione non appartengano a chi li adopera per conto del Capitale, il quale evaporerebbe come un vampiro sottoposto ai raggi del sole se gli strumenti di lavoro, le materie prime e quant’altro fossero nella piena e libera disponibilità di tutti gli individui appartenenti alla Comunità. Qui appare chiarissimo come il Capitale non sia una categoria economica “oggettiva”, che si possa usare in un senso (capitalistico) o nel senso opposto (socialistico), come sosteneva ad esempio lo stalinismo internazionale, peraltro rimasticando la dottrina economica borghese fatta a pezzi da Marx; ma come esso sia in primo luogo, in radice e come già accennato, un rapporto sociale fra uomini divisi in classi sociali. È questo rapporto che fa di un robot industriale capitale, di una materia prima capitale, della stessa capacità lavorativa capitale – quel «capitale umano» esaltato dai politici e dagli intellettuali di “destra” e di “sinistra” come se fosse la cosa più bella e umana del mondo, mentre esso attesta nel modo più brutale la realtà della disumana condizione che ci tocca vivere. «È il capitale che impiega il lavoro. Già questo rapporto, nella sua semplicità, è personificazione delle cose e reificazione delle persone» (11). Come si vede, la natura economica del Capitale si può comprendere nella sua essenza solo partendo dalla sua natura storico-sociale, capendo cioè che dietro le macchine, le materie prime, le merci e i beni prodotti insistono delle relazioni fra gli uomini che danno anche un senso economico alle attività che generano la ricchezza sociale nella sua espressione fenomenologica di “beni e servizi”.  Checché ne dica il volgare materialismo della scienza economica borghese, abituata a ragionare in termini di input e output, di risorse materiali (tecnologie, materie prime, “capitale umano”) e finanziarie che si spostano vorticosamente da un punto all’atro della ciclopica sfera economica, il corpo dell’economia può essere compreso nella sua autentica essenza e nella sua complessa e contraddittoria dinamica solo a partire dalla sua anima sociale. Per questo accusare Marx di determinismo economico è semplicemente ridicolo, e semmai si potrebbe accusarlo di «eccesso di hegelismo», come in effetti hanno fatto non pochi suoi epigoni, o sedicenti tali (12), e i soliti detrattori, spiazzati dalla profondità dialettica del pensiero marxiano.

Ma chi detiene nelle proprie mani il monopolio della produzione detiene anche e necessariamente – e del tutto legittimamente sul piano storico – il monopolio della distribuzione, che giustamente Marx concepiva come un momento della stessa produzione della ricchezza sociale. La “bizzarra” idea di poter autonomizzare i rapporti di distribuzione dai rapporti di produzione su cui essi si fondano, per rendere “umanamente sostenibile” il Capitalismo, è tipica dei riformatori sociali, le cui chimeriche illusioni fanno impallidire ogni più sfrenata utopia di stampo “marxista”. Come scrive Marx, «La distribuzione degli oggetti di consumo è ogni volta soltanto conseguenza della distribuzione delle condizioni stesse di produzione» (13).

Chi non ha il possesso dei fattori oggettivi del lavoro non ha nemmeno il possesso dei prodotti del lavoro, e per accedere a una parte della ricchezza prodotta il nullatenente si vede costretto a lavorare “sotto padrone” per ricevere in cambio la forma più astratta – e più potente – di ricchezza, il denaro, il quale nelle sue mani non si trasformerà mai in capitale, ossia in denaro investito in vista di una qualsiasi attività imprenditoriale. Il salario-denaro consente al produttore diretto della ricchezza sociale di accedere a una minima parte, relativamente sempre più piccola se confrontata alla crescente produttività del suo lavoro, di quella ricchezza. Di qui, il concetto marxiano, ridicolmente frainteso soprattutto dal socialismo riformista, di miseria crescente.

Come racconta Marx nel suggestivo capitolo 24 del primo libro del Capitale (La cosiddetta accumulazione originaria), il punto di partenza dello svolgimento storico-sociale che porta alla moderna società borghese non è rappresentato dal denaro, dalla sua rivoluzionaria immissione in un ambiente economico altrimenti destinato a rimanere inchiodato a secolari prassi e tradizioni, ma dall’allontanamento violento (anche con l’ausilio del diritto borghese) dei produttori immediati (contadini e artigiani, in primis) dalla proprietà dei presupposti oggettivi della loro produzione e, dunque, dalla proprietà del loro prodotto: questa doppia proprietà, che realizza i nuovi rapporti sociali borghesi, si concentra nelle mani dei capitalisti.  In questo contesto il lavoro salariato si trova in una condizione di totale soggezione nei confronti del Capitale, in una condizione sociale di pura alienazione: gli strumenti di lavoro, la materia prima lavorata e il prodotto del lavoro si ergono come potenze estranee e ostili a chi lavora. Il lavoratore come oggetto della produzione; il Capitale come soggetto della produzione: un mondo invertito che oggi più di ieri genera irrazionalità d’ogni genere e continui mal di testa esistenziali, se così posso esprimermi.

Produrre per gli uomini non significa semplicemente manipolare prodotti naturali o artificiali in vista di un bene o di un servizio; produrre significa innanzitutto entrare «in relazioni e rapporti determinati gli uni con gli altri, e soltanto all’interno di queste relazioni e di questi rapporti sociali ha luogo il loro rapporto con la natura, ha luogo la produzione» (14). Sono queste relazioni e questi rapporti che determinano anche il modo di produrre (ad esempio, un modo rispettoso degli uomini e della natura, come non accade nel Capitalismo) e per molti e fondamentali aspetti anche il cosa produrre – ad esempio, soddisfare pienamente bisogni coltivati in un ambiente sociale umano, mentre oggi ciò che “fa premio” su ogni altro aspetto è il bisogno del Capitale di allargare continuamente il mercato dei bisogni in vista del profitto. Beninteso, non si tratta di contrapporre i supposti bisogni naturali ai cosiddetti bisogni artificiali, secondo una concezione ingenua e infantile della prassi sociale: i bisogni degli individui sono sempre, in larghissima parte, socialmente e storicamente determinati; si tratta piuttosto, per chi si pone il problema del superamento di questa società, di umanizzare l’intera esistenza degli individui, cosa che postula in modo assoluto il superamento della divisione classista degli individui: dove esistono le classi sociali non può esistere l’uomo in quanto uomo. Qui rinvio a due miei modesti contributi: Eutanasia del Dominio e La Comunità umana come opera d’arte.

Il monopolio di cui parla Marx è insomma il Capitale stesso, il cui concetto e la cui prassi sono profondamente radicati nel dualismo sociale menzionato sopra. Come si vede, e come già detto, qui siamo lontanissimi dal concetto di monopolio come viene fuori dall’economia politica e dal diritto borghese, concetto che rinvia alla distinzione tra economia concorrenziale ed economia monopolistica (15).

E se la scena economico-sociale vedesse protagonista solo lo Stato come agente unico del Capitale, cosa cambierebbe in termini storici e sociali? Lo abbiamo visto: per Marx, e assai più modestamente (c’è bisogno di precisarlo?) per chi scrive, assolutamente nulla. Ma repetita – forse – iuvant! E quindi diamo nuovamente la parola a Marx: «Il capitalista è il funzionario non solo necessario, ma dominante della produzione. Invece il proprietario fondiario è, in questo sistema di produzione, del tutto superfluo. Ciò che è necessario, è che la terra non sia proprietà comune, che essa si contrapponga alla classe lavoratrice come mezzo di produzione che non le appartiene, e questo scopo è completamente raggiunto quando essa diventa proprietà statale, e quindi lo Stato percepisce la rendita fondiaria. […] Il borghese radicale, che segretamente vagheggia la soppressione di tutte le altre imposte, arriva quindi teoreticamente alla negazione della proprietà fondiaria privata, di cui egli vorrebbe fare, sotto la forma di proprietà statale, la proprietà comune della classe borghese, del capitale» (16). Lo statalista radicale invece «segretamente vagheggia» la soppressione della proprietà privata capitalistica delle attività che producono “beni e servizi”, dimodoché l’intero plusvalore (oggi frantumato in varie rubriche dalla dialettica economica: profitto, rendita, interesse, ecc.) possa affluire interamente al Padrone Unico.

«Se lo Stato espropriasse la proprietà fondiaria, mantenendo la produzione capitalistica, la rendita sarebbe pagata allo Stato, ma la rendita in se stessa rimarrebbe. Se la proprietà fondiaria divenisse proprietà del popolo, cesserebbe di esistere in generale la base della produzione capitalistica, il fondamento su cui è basato il realizzarsi dell’indipendenza delle condizioni di lavoro rispetto all’operaio» (p. 249). Per evitare ogni fraintendimento “populista”dei passi marxiani, è appena il caso di ricordare che con «popolo» Marx intende il popolo lavoratore, la moltitudine dei lavoratori salariati, e non un’astratta entità interclassista che ricomprenda tutte le classi della società (o magari solo quelle impegnate nella cosiddetta “economia reale”), secondo il concetto borghese di popolo che da sempre hanno in testa i “populisti”. Che significato dà Marx al concetto di proprietà?  È presto detto: «La proprietà nella sua forma attuale si muove entro l’antagonismo fra capitale e lavoro salariato» (17).

La natura giuridica della proprietà (privata, pubblica, “mista”, azionaria, cooperativistica, ecc.) non ci dice nulla circa la sostanza sociale della proprietà capitalistica, la quale si configura in primo luogo come un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Per mutuare i citati passi marxiani, se lo Stato espropriasse la proprietà privata delle imprese (industriali, commerciali, finanziarie e d’altro genere), mantenendo la produzione capitalistica, il profitto andrebbe allo Stato, ma il profitto in se stesso rimarrebbe, e dove c’è profitto deve necessariamente esservi un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento.

«Anzitutto, se la terra fosse a libera disposizione di tutti, mancherebbe uno degli elementi principali alla formazione del capitale. Questo essenzialissimo mezzo di produzione, il solo mezzo di produzione originale, oltre all’uomo e al suo lavoro stesso, non potrebbe essere né alienato né appropriato, e quindi non potrebbe contrapporsi al lavoratore come proprietà altrui e fare di lui un operaio salariato. La produttività del lavoro nel senso ricardiano, cioè nel senso capitalistico (18), il “produrre” di un lavoro altrui non pagato (19) diventerebbe allora impossibile. Sarebbe la fine della produzione capitalistica» (20).  Vade retro, socializzazione! Abolire il monopolio delle condizioni oggettive della produzione significa abolire il Capitalismo in ogni sua possibile configurazione economica.

Socializzare la produzione e la distribuzione dei valori d’uso (o beni) di cui i singoli individui e la Comunità considerata nel suo insieme necessitano, non significa, almeno per come la vedo io, che quella vitale prassi dovrà essere affidata alla direzione e al controllo dello Stato, fosse anche lo Stato (o come si vorrà chiamarlo) che le classi subalterne vorranno darsi per scardinare definitivamente la resistenza delle vecchie classi dominanti e incominciare la (per molti mitica) transizione dal Capitalismo alla Comunità umana; significa piuttosto che sarà l’intera compagine sociale che dovrà farsi carico della produzione e della distribuzione di quanto occorre alla vita degli individui e della comunità. Nessun centro di potere autonomo potrà surrogare questa fondamentale prassi, senza la quale l’umanità cadrebbe in qualche nuova forma di dominazione, fosse pure solo di natura “tecnica” ed esercitata da soggetti “umanamente ben disposti”. So bene che la cosa appare inconcepibile ai nostri miopi occhi, ma occorre considerare il fatto altamente “materialistico” che sulle nostre spalle pesano millenni di dominio, millenni di abitudine a delegare (divisione intellettuale del lavoro), millenni di sudditanza politica, ideologica e psicologica. Qui non è di noi che si parla, ma di una possibile umanità futura, quella che probabilmente troverà altrettanto incomprensibile (per non dire altro) il nostro modo di fare e di pensare.

Ciò che a noi compete, credo, è cogliere la natura oggettiva, storicamente fondata e perciò stesso realistica della socializzazione come ho cercato di tratteggiarla, e per questa via immaginare soluzioni politiche rivoluzionarie coerenti con il quadro teorico qui appunto solo schizzato, con l’unico obiettivo di mantenere vivo l’interesse, a cominciare da quello di chi scrive, per una questione a dir poco fondamentale, la quale invita il pensiero a pensare il presente in modo meno scontato e certamente meno in armonia con ciò che passa il convento. Prima di mettere un bel punto, sperando di poter riprendere al più presto la fondamentale “problematica” qui solo sfiorata, desidero esternare la seguente convinzione: nella sua eccezionale possibilità il processo sociale di transizione da un’economia fondata sul profitto, con ciò che necessariamente ne segue su tutti i piani della prassi sociale (da quello politico-istituzionale a quello psicologico), a un’economia (o come si converrà chiamarla) fondata sui bisogni (umani nell’accezione più profonda e “filosofica” del termine) oggi appare assai diverso (molto meno problematico e assai più rapido) da come si mostrava agli occhi di un Marx o di un Lenin – del Lenin alle prese con la Russia capitalisticamente arretrata del suo tempo. Mentre l’abbattimento rivoluzionario (non riesco a immaginare “abbattimenti” d’altro genere, salvo catastrofi naturali o “artificiali”) del Capitalismo mi appare tremendamente più difficile da come probabilmente la cosa si prospettava alla coscienza dei due rivoluzionari appena citati (e ciò, a quasi un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi e a un secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre, credo che abbia un qualche fondamento storico e non sia solo il frutto del mio congenito pessimismo), la transizione (21) mi appare all’opposto, e in grazia di quello stesso sviluppo capitalistico che ha reso così mostruoso l’edificio capitalistico, un’impresa sempre più “fattibile”, sempre più alla portata di un’umanità oggi instupidita dalla potenza ipnotica del Capitale.

(1) Concetti che si equivalgono dal punto di vista squisitamente sociale, rinviando entrambi al dominio capitalistico sulla società. «Si ha la nazionalizzazione delle imprese, non soltanto quando si attua la gestione provvisoria da parte dello stato di determinate aziende di interesse collettivo, in specie per fini bellici, ma soprattutto quando si compie il passaggio di proprietà di determinati mezzi di produzione dai privati alla collettività; una sottospecie è la municipalizzazione, ove la proprietà e la gestione delle aziende spettano ad una collettività più ristretta: quella comunale. Si ha la statizzazione quando il potere di gestione delle aziende nazionalizzate è attribuito direttamente allo Stato, cioè quando sono accentrate nelle mani dell’organo statale non soltanto la proprietà dei mezzi di produzione, ma anche la gestione delle aziende» (A. Anselmi, Enciclopedia italiana Treccani, Appendice, 1949).
(2) «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiaro senz’altro socialista. … Lo Stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato capitalista, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Avanti Edizioni, 19250).
(3) «Al prezzo di costo [C + V] di una merce viene aggiunto non il plusvalore che essa contiene, ma il profitto medio» (K. Marx, Il Capitale, III. p. 253). Sul fondamentale concetto di profitto medio, o «saggio generale del profitto», che tiene conto della produttività del lavoro colto nella sua dimensione sociale, si basa la marxiana trasformazione del valore della singola merce (C + V + pv) nel suo prezzo di produzione. In effetti, è nel mercato che si mostra il carattere pienamente sociale del Capitale, perché in esso hanno modo di confrontarsi tutti i singoli («individuali») capitali, ossia le concrete condizioni produttive (base tecnologica, produttività del lavoro ecc.) delle imprese che concorrono alla spartizione del plusvalore sociale. La concorrenza ripartisce tra i capitali la massa del plusvalore sociale (che ha una dimensione mondiale) secondo la loro grandezza e secondo la loro composizione organica, la quale determina in ultima analisi il grado di produttività del lavoro sfruttato in ogni singola impresa.
(4) Il 20 giugno 1944, ossia appena quattro mesi dopo il Decreto Legislativo del 12 febbraio emanato dalla Repubblica Sociale Italiana che rendeva operativa la «socializzazione» delle grandi imprese, il dirigente della federazione fascista degli impiegati del commercio, Anselmo Vaccari, in un rapporto diretto a Mussolini confessò che «I lavoratori considerano la socializzazione come uno specchio per le allodole, e si tengono lontano da noi e dallo specchio. Le masse ripudiano di ricevere alcunché da noi» (Rapporto Vaccari al Duce, cit. tratta da S. Peli, Storia della Resistenza in Italia, p. 69, Einaudi, 2006). Diciamo pure che c’è un limite a tutto, anche alla demagogia fascista, soprattutto se l’ex Duce degli italiani faceva pena in primo luogo a sé medesimo, come attesta peraltro l’istruttivo carteggio Mussolini-Petacci.
(5) Lenin, Rapporto sulla tattica del PCR, Opere, XXXII, pp. 465-466, Editori riuniti, 1967.
(6) Lenin, Sull’imposta in natura, Opere, XXXII, p. 310.
(7) Ivi.
(8) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 238, Einaudi, 1955.
(9)K. Marx, Il Capitale, III, p. 713, Editori Riuniti, 1980.
(10) K. Marx, Lavoro salariato e capitale 59, Newton, 1978.
(11) K. Marx, Il capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 82, Newton, 1976.
(12) Quando il socialdemocratico Eduard Bernstein, alla fine del XIX secolo, insinuò il velenoso sospetto che la dialettica esibita da Marx nel Capitale non fosse che un cattivo lascito della «fase hegeliana» del presunto maestro, egli affermò un punto di vista assai condiviso presso la gran parte degli intellettuali e dei dirigenti socialdemocratici.
(13) K. Marx, Critica del programma di Gotha, p. 43, Savelli, 1975.
(14) K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 54.
(15) «Il monopolio è una forma di mercato non concorrenziale in cui un’unica impresa controlla l’offerta di un bene/servizio, mentre la domanda è suddivisa tra molteplici soggetti acquirenti. In un settore monopolistico esiste un’unica impresa che vende un determinato prodotto e non esistono beni sostituti. L’impresa monopolista è l’unico offerente del prodotto. L’ingresso nel mercato da parte di altre imprese è ostacolato dalla presenza di barriere tecnologiche, legali o naturali. A differenza delle imprese concorrenziali, l’impresa monopolistica è in grado di controllare sia il prezzo di vendita che la quantità offerta» (http://www.okpedia.it/monopolio).
(16) K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 192.
(17) K. Marx, F. Engels, Il Manifesto del partito comunista, p. 149, Einaudi, 1974.
(18) «Il senso capitalistico della parola produttivo: produttivo di plusvalore [non di prodotto]» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 257.
(19) Qui Marx allude al pluslavoro, fondamento oggettivo del plusvalore, ossia alla parte non retribuita della giornata lavorativa, la quale secondo Marx si compone di due parti distinte: quella retribuita con salario (ad esempio, 4 ore) e quella non pagata (ad esempio, 4 ore). Quest’ultima parte dà luogo alla filiera di valore che segue: pluslavoro → plusprodotto → plusvalore. Il profitto, a sua volta, è la parte di plusvalore che viene realizzato attraverso la vendita della merce al suo prezzo di produzione. «Il plusvalore non è altro che lavoro non pagato; il profitto medio o normale non è altro che il quantum di lavoro non pagato realizzato in media da ogni capitale di grandezza di valore data» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p.187).
(20) Ibidem, p. 191.
(21) Tratteggiata a grandi linee da Marx nella superba Critica del programma di Gotha del 1875 ed elaborata da Lenin nel suo celebre Stato e Rivoluzione del 1917. «Tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non può essere che la “dittatura rivoluzionaria del proletariato”» (K. Marx, Critica del programma di Gotha, pp. 52-53).

1917 – 2017. IL GRANDE AZZARDO (II)

untitledL’emancipazione della classe operaia deve
essere opera degli stessi operai.
K. Marx.

Non è nel passato ma solo nell’avvenire che
la Rivoluzione sociale del [XXI] secolo potrà
trovare la fonte della sua poesia. Non potrà
iniziare da se stessa prima di essersi liberata
da ogni credenza superstiziosa nel passato.
K. Marx.

 

Nel post dedicato al Grande Azzardo del 1917 ho puntato i riflettori della ricostruzione storica (politicamente tendenziosa, mi rendo conto) sulla figura di Lenin, ossia sulla sua decisiva funzione politica nel processo rivoluzionario in Russia, considerato quest’ultimo come parte del più generale processo rivoluzionario in atto nel Vecchio Continente (1) nel momento in cui la Prima grande guerra imperialista rese evidente, trascorsi i mesi dell’euforia e della vera e propria ubriacatura patriottica che aveva devastato anche vasti strati delle classi subalterne, tutta la sua micidiale portata. In sede di bilancio storico, i protagonisti di quegli eventi saranno costretti a rivalutare in termini meno lusinghieri l’effettivo “tasso” di radicalismo rivoluzionario su cui allora poterono contare i comunisti europei, e a prendere atto invece di una riserva di stabilità capitalistica che avevano in parte sottovalutato. Questa riflessione è fondamentale per capire l’esito, alla fine catastrofico, dell’esperienza sovietica: ogni riferimento allo stalinismo è assolutamente voluto. Anche di questo ho fatto cenno nel precedente post.

Adesso cercherò di lumeggiare, sebbene a grandi linee e senza alcuna pretesa di obiettività storiografica (essendo chi scrive un militante anticapitalista e non uno storico, né un intellettuale di qualche genere), il ruolo che ebbero i Soviet nella Rivoluzione d’Ottobre, concepita quest’ultima non come un singolo grande evento, ma come un processo, il quale ancorché rubricato (trattasi di rivoluzione proletaria o di rivoluzione democratico-nazionale? o di altro ancora?) va in primo luogo studiato, avendo cura di lasciare fuori dalla porta ogni idealizzazione e ogni demonizzazione, e tenendo conto che solo fino a un certo punto la storia è maestra di vita, e ciò vale soprattutto a proposito dei fatti qui ricordati, così distanti non solo cronologicamente ma soprattutto in termini di contesto sociale.

Riassumendo al II Congresso della Terza Internazionale (1920) la tesi antiparlamentarista cara a tutta la sinistra comunista europea del tempo (da György Lukács a Herman Gorter, da Karl Korsch a Anton Pannekoek ), Amadeo Bordiga sostenne che «la Rivoluzione Russa è un esempio che non corrisponde alle condizioni dell’Europa Occidentale», volendo con ciò dire che le soluzioni tattiche che resero possibile la rivoluzione proletaria in un Paese capitalisticamente arretrato come la Russia mal si adattavano ai Paesi di più lunga tradizione capitalistica e democratica (2). Credo che sul punto, peraltro non di poco significato, i comunisti europei avessero ragione, e i capi bolscevichi (Lenin, Trotskij, Zinoviev) torto; ma questo adesso non ha alcuna importanza, e d’altra parte polemizzare con la storia prodotta dagli altri sarebbe non solo inutile, ma soprattutto ridicolo. Importante è invece capire fino a che punto il contesto sociale del XXI secolo relativizzi la portata degli insegnamenti che la Rivoluzione d’Ottobre può offrire all’odierno militante anticapitalista.

***

Il primo Soviet si formò, per quanto ho potuto appurare, il 15 maggio 1905 a Ivanovo-Voznesensk, distretto tessile di Mosca: «La piattaforma rivendicativa degli operai della zona richiedeva l’abolizione del lavoro notturno e del lavoro straordinario, il salario mensile minimo, l’abolizione della “polizia di fabbrica”, la libertà di parola e di riunione per gli operai. Il Soviet comprendeva 110 delegati ed aveva direzione collegiale; i suoi compiti erano: dirigere lo sciopero, impedire azioni e trattative separate, provvedere al mantenimento dell’ordine e al rafforzamento dell’organizzazione tra gli operai per impedire che si riprenda il lavoro senza la decisione del Soviet» (3). L’esperienza del Soviet di Ivanovo-Voznesensk terminò il 18 luglio con la ripresa del lavoro nelle fabbriche di tutto il distretto.

Il 13 ottobre si costituì invece il Soviet dei deputati degli operai di Pietroburgo (4), che funse un po’ da modello per gli organismi dello stesso tipo che presto si costituiranno a Mosca, Odessa e in altre città del Paese che vantavano una significativa struttura industriale. Perché una cosa appare chiara studiando il movimento sociale del 1905, e cioè la natura soprattutto cittadina e proletaria di questo evento (5), il quale solo entro certi limiti investì la campagna russa, e ciò ne rappresentò, al contempo, la forza politico-sociale (anche nei confronti del proletariato d’avanguardia occidentale, come capì soprattutto Rosa Luxemburg) e la debolezza. Dodici anni dopo, l’alleanza con i contadini poveri costituirà invece, insieme, la grande forza e l’estrema debolezza del proletariato rivoluzionario russo, il quale dopo aver vinto la prima mano del Grande Azzardo (costituirsi in potere rivoluzionario) perderà disastrosamente la partita sul terreno della (mancata) rivoluzione proletaria internazionale. Scriveva Victor Serge: «La prima rivoluzione russa non terminò con una sconfitta totale. Le masse operaie e contadine avevano perso il rispetto per l’autocrazia, avevano imparato a fronteggiare l’oppressione. Era un cambiamento psicologico di valore incalcolabile» (6). A mio modesto avviso la stessa cosa non si può dire per la seconda rivoluzione, la quale terminò infatti con una «sconfitta totale», e non solo per il proletariato russo ma anche, e direi soprattutto, per le classi subalterne di tutto il mondo: e qui come sempre alludo allo stalinismo, diventato a partire dagli anni Trenta il faro politico-ideologico dei lavoratori e dei “comunisti” di tutto il mondo (7).

Con la nascita dei Soviet il movimento sociale generato da cause lontane (l’arretratezza economico-sociale della Russia, particolarmente pesante nelle campagne) e recenti (l’ondata di scioperi che tra il 1902 e il 1903 aveva colpito soprattutto la Russia meridionale, la crisi economica e morale provocata dalla disastrosa guerra contro il Giappone) subì un eccezionale salto di qualità, acquisendo quella fisionomia sociale e politica che faranno della rivoluzione del 1905 «la prova generale» o «il prologo» dell’evento di cui oggi ricordiamo, a distanza di un secolo, il significato. In ogni caso, è certo che la rivoluzione del 1905 scosse fin nelle fondamenta la Russia zarista, la quale da quel momento entrò in un processo di dissoluzione che la Grande Guerra avrebbe accelerato e portato a compimento – anche in guisa di rivoluzione democratico-borghese.

Se è corretto sostenere che la presenza dei Soviet conferì una valenza decisamente rivoluzionaria al movimento sociale che prese piede in Russia a partire dal gennaio 1905, è anche interessante chiedersi cosa   conferisse una caratura rivoluzionaria a quell’organizzazione del tutto originale. In altri termini, si tratta di capire se il Soviet fu un organismo politico-organizzativo rivoluzionario in quanto tale, preso in sé, o se lo diventò sotto certe condizioni, e quali. Come vedremo questa domanda, che formulo solo per introdurre alcuni concetti che tratterò – spero – in seguito (sintetizzabili nella dialettica tra spontaneità e organizzazione), è particolarmente significativa alla luce della Seconda rivoluzione, quella appunto del 1917.

A proposito del carattere originale dei Soviet, c’è da dire che diversi storici hanno voluto vedere in essi non più di una riedizione in chiave aggiornata del tradizionale comunitarismo russo, il quale si espresse in organismi di vario tipo (Mir, Obšcina, Volost’, Artel) già alla fine del IX secolo. Pur non volendo negare in assoluto una qualche continuità con quella tradizione (il retaggio storico non è, come si dice, “acqua fresca” che non lascia il segno), qui è forse il caso di richiamare ciò che scrisse Marx a proposito della Comune di Parigi: «È comune destino di tutte le creazioni storiche completamente nuove di essere prese a torto per riproduzioni di vecchie e anche defunte forme di vita sociale, con le quali possono avere una certa rassomiglianza. Così questa nuova Comune, che spezza il moderno potere statale, venne presa a torto per una riproduzione dei vecchi Comuni medioevali» (8).

Scriveva Trotskij: «Quali erano le caratteristiche essenziali di questa istituzione che, in breve tempo, conquistò un posto così importante nella rivoluzione e contrassegnò con un tratto distintivo l’apogeo della sua potenza? Il Soviet organizzava le masse operaie, regolava gli scioperi e le manifestazioni, armava gli operai, proteggeva la popolazione contro i pogrom.  […] Il Soviet realizzava il potere nella misura in cui la potenza rivoluzionaria dei quartieri operai glielo garantiva; lottava direttamente per la conquista del potere, nella misura in cui questo restava ancora nelle mani di una monarchia militare e poliziesca» (9). Detto in altri termini, il Soviet per un verso realizzò, come poteva farlo nella concreta situazione storico-sociale della Russia del tempo, la “marxiana” costituzione in classe del giovane ma molto combattivo proletariato russo; e per altro verso si sostanziò come contropotere in atto, ossia come «potere rivoluzionario»: «Il Soviet è il potere organizzato dalla massa stessa, che domina tutte le sue frazioni» (10). Il suo più potente strumento di lotta fu lo sciopero politico di massa, una forma di lotta che a ogni istante pareva potersi mutare in aperta insurrezione (con tanto di assalto alle caserme per approvvigionarsi di armi) e che proprio per questo tanta impressione destò nell’ala più radicale della socialdemocrazia tedesca ed europea in genere, allora in lotta contro la tendenza sclerotizzante e opportunista che minava il socialismo sedicente marxista e che, come il fatidico agosto 1914 renderà evidente, andava ben oltre la posizione francamente riformista incarnata già alla fine del XIX secolo da Eduard Bernstein.

Scriveva Rosa Luxemburg nel 1906 «La rivoluzione russa ha ora per la prima volta fatto maturare una grandiosa realizzazione dell’idea dello sciopero di massa e dello stesso sciopero generale e con ciò ha aperto una nuova epoca nello sviluppo del movimento operaio. […] La rivoluzione russa, la stessa rivoluzione che fornisce il primo esemplare esperimento storico dello sciopero di massa, non solo non significa riabilitazione dell’anarchismo, ma al contrario significa addirittura una liquidazione storica dell’anarchismo. […] La Russia sembrava particolarmente adatta a diventare il campo sperimentale delle gesta dell’anarchismo. La Russia era la culla storica dell’anarchismo. Ma la patria di Bakunin doveva diventare la sua tomba» (11). Questa insistenza antianarchica, esagerata se riferita alla reale influenza delle posizioni anarchiche nei fatti del 1905, si spiega soprattutto con la polemica che la rivoluzionaria polacca aveva in corso contro un certo «marxismo ortodosso», il quale tendeva a svalutare gli insegnamenti che venivano dalla Russia: un Paese capitalisticamente arretrato e humus fertilissimo per ogni ghiribizzo anarcoide non aveva nulla da suggerire al movimento operaio dell’avanzata Europa. Il «marxismo ortodosso» veniva insomma mobilitato a sostegno della «calma routine parlamentare» contro ogni iniziativa autenticamente rivoluzionaria, bollata come avventurista – poi si dirà “leninista”.

La cieca spontaneità in Russia aveva sempre fatto il gioco dello zarismo, come attestano le numerose e violentissime rivolte contadine represse puntualmente con altrettanta violenza dall’esercito monarchico e dal suo tristemente celebre apparato poliziesco. Le forme organizzative (comitati, cooperative, sindacati più o meno formalizzati, ecc.) che presero corpo all’inizio del Novecento soprattutto nelle città industriali e minerarie del Paese cercavano di dare una risposta all’esigenza di dare un minimo di organizzazione e di indirizzo politico alla rabbia delle classi subalterne, affinché essa  non si risolvesse nel solito scoppio inconcludente, magari bello dal punto di vista estetico, ma del tutto inconcludente e impotente sul piano politico. La stessa vicenda della domenica di sangue (9 gennaio), da cui tutto prese inizio, dimostrò che la spontaneità delle masse, appena supera la soglia del mero istinto, cerca sempre una qualche forma organizzativa, un punto di riferimento politico e ideale, fosse anche tutto questo offerto da un prete (12). Nel 1905 e nel 1917 si trattò dunque di una spontaneità politicamente orientata (dapprima in senso genericamente rivoluzionario, in seguito con una caratura rivoluzionaria sempre più precisa), maturata attraverso anni di lotte, di successi parziali e di molte sconfitte. In questo senso parlare semplicemente di “spontaneismo proletario”, magari in contrapposizione con il momento soggettivo della rivoluzione, è infondato sul piano della ricostruzione storica e sbagliato dal punto di vista della teoria rivoluzionaria – e della prassi a essa dialetticamente, ma inscindibilmente, connessa. D’altra parte, la stessa prassi rivoluzionaria non è che la continuazione della teoria rivoluzionaria con i mezzi adeguati all’iniziativa politica, non è che la fenomenologi più perfetta di quella teoria. Naturalmente tutto questo non è pane per i denti di chi pensa, con Bernstein e Mussolini, che il movimento sia tutto e la teoria un lusso dottrinario che i proletari non possono permettersi.

Il soviet di Pietroburgo assunse nel corso della lotta nelle fabbriche, lungo le strade e, alla fine del 1905, dentro lo stesso esercito (con il famoso e assai significativo ammutinamento dei marinai della corazzata Potëmkin come episodio emblematico), la natura di un vero e proprio governo rivoluzionario, e a esso si possono senz’altro applicare, sempre mutatis mutandis, le parole che Marx spese a proposito della Comune di Parigi del 1871: «Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei  produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta» attraverso cui l’esercizio del potere operaio esce dall’astratta teoria e diventa prassi rivoluzionaria (13). Come i bolscevichi capiranno presto (e i menscevichi mai, e non certo per un difetto di intelligenza), il Soviet ben si prestava a fungere da strumento principe dalla «dittatura rivoluzionaria del proletariato», anche detta «democrazia rivoluzionaria del proletariato», o «governo rivoluzionario del proletariato», tutte formule che illuminano aspetti diversi di una sola totalità: il processo rivoluzionario avente come fondamento l’autonomia delle classi dominate e come obiettivo il superamento dei rapporti sociali capitalistici. Nel suo discorso di “autodifesa” pronunciato davanti al Tribunale di San Pietroburgo nell’ottobre del 1907, Trotskij tenne a sottolineare quanto segue: «Il Soviet non è stato altro che l’organo del governo autonomo delle masse rivoluzionarie da cui è nato, l’organo di un potere. […] I rappresentanti di un vecchio potere che si appoggia interamente su una sanguinosa repressione non hanno il diritto di indignarsi quando si parla dei metodi violenti del Soviet. Il potere storico in nome del quale parla qui il procuratore non è che la violenza organizzata da una minoranza contro la maggioranza. Il nuovo potere di cui il Soviet è stato il precursore è la volontà organizzata della maggioranza che richiama all’ordine la minoranza. È tutto in questa differenza il diritto del Soviet all’esistenza, diritto che sta al di sopra di tutti i dubbi giuridici e morali» (14).

«I Soviet», dirà Lenin nel luglio del 1917, nel momento in cui egli vedrà profilarsi all’orizzonte la possibilità che essi potessero subire un processo di rapida istituzionalizzazione, «sono un’istituzione che non esiste in nessuno Stato di tipo parlamentare borghese tradizionale, e non può esistere accanto a un governo borghese. […] Le alternative sono due: o un governo borghese tradizionale, e allora i soviet dei deputati dei contadini, degli operai e dei soldati sono inutili; essi saranno sciolti dai generali controrivoluzionari; oppure moriranno di morte ingloriosa» (15), ossia conserveranno magari il “glorioso” nome ma perderanno completamente la loro natura di classe. Detto en passant, è esattamente ciò che succederà ai Soviet già all’indomani della guerra civile, quando il proletariato d’avanguardia della Russia manifesterà i segni di una stanchezza materiale, politica e psicologica che presto o tardi doveva presentare il conto, e il proletariato europeo che avrebbe dovuto correre in suo soccorso segnerà una drammatica battuta d’arresto che si protrarrà per molti decenni ancora.

Quando, nel dicembre del 1905, il movimento rivoluzionario perse la sua “spinta propulsiva”, anche in seguito alla durissima repressione che si abbatté su di esso, i Soviet scomparvero dalla scena, per riapparire dodici anni dopo in occasione di un’altra crisi sociale, a dimostrazione che la loro esistenza si spiegava solo con la creazione di condizioni sociali eccezionali, tali da generare appunto un processo rivoluzionario di vasta portata. E qui arriviamo al Grande Azzardo.

the-second-all-russian-congress-of-soviet-in-petrogradIl 27 febbraio 1917 lo spettro del Soviet, che ormai aleggiava da mesi sopra un cielo sempre più carico di tempesta rivoluzionaria, decise, per così dire, di ritornare sulla scena in carne ed ossa. Il 18 febbraio gli operai delle officine Putilov di Pietrogrado (16) avevano proclamato lo sciopero, e nei giorni successivi il clima di lotta si era via via sempre più arroventato in tutta la città, coinvolgendo vasti strati della popolazione. Il 27 dello stesso mese accadde nella capitale un fatto decisivo, ossia il passaggio di alcuni reparti dell’esercito dalla parte degli operai in sciopero e minacciati dal pugno di ferro del regime, il quale lo stesso giorno intimò ai partiti borghesi di sinistra e di centro di non riesumare la Duma. Sempre lo stesso giorno fu formalizzato a Pietrogrado un Comitato esecutivo provvisorio del Soviet dei deputati operai, che a quel punto, nel vuoto di qualsivoglia forma di rappresentanza politica popolare, diventò il solo organismo politico del Paese provvisto di una legittimità  politica, che gli derivava dai rapporti di forza tra le classi, e di un vasto consenso popolare, che gli derivava anche dai fatti del 1905 (17). Si tratta della catena di eventi che porteranno alla caduta del regime zarista, che si rivelò essere al mondo intero non più di un colosso dai piedi d’argilla. Il 2 marzo Nicola II abdicava in favore del fratello Michele, il quale, a sua volta, il giorno dopo rinunciava al trono. Si consumò così la fine della dinastia imperiale.

Scriveva Trotskij: «Non è affatto esagerato dire che Pietrogrado ha fatto da sola la rivoluzione di febbraio. Il resto del paese non ha fatto che associarsi. La lotta c’è stata solo a Pietrogrado. […] Il rovesciamento del potere ebbe luogo per iniziativa e per opera delle forze di una città che rappresentava circa la sessantacinquesima parte della popolazione del paese. Se si vuole, si può dire che il più grande atto democratico fu compiuto in modo non democratico. Il paese intero si trovò di fronte al fatto compiuto. […] Al feticismo giuridico della “volontà popolare” le rivoluzioni hanno sempre inflitto rudi colpi, e tanto più implacabili quanto più erano profonde, audaci, democratiche» (18). Ovviamente qui il grande rivoluzionario sta difendendo, pensando più alla Rivoluzione d’Ottobre che a quella di febbraio, il diritto storico di una minoranza sociale (ad esempio il proletariato in alleanza con i contadini poveri) e di una minoranza politica (ad esempio, i Soviet egemonizzati dai bolscevichi) di non aspettare feticisticamente la convocazione dell’Assemblea Costituente e di tentare invece l’impresa rivoluzionaria che avrebbe fatto saltare lo schema strategico caro ai «marxisti ortodossi», radunati in gran numero nella fazione menscevica della socialdemocrazia russa. Ma di questo aspetto ho già detto nel precedente post.

Nel suo libro sulla Rivoluzione Russa Trotskij contesta la tesi “spontaneista” che circolò subito dopo i fatti di febbraio, e che attribuiva l’imprevista insurrezione a una sorta di «generazione spontanea» resa possibile dallo stato di esasperazione cui erano giunte le masse operaie e contadine. Questa tesi faceva comodo sia a chi nei mesi e nei giorni precedenti non aveva fatto niente per sostenere la spinta rivoluzionaria delle masse residenti a Pietrogrado, il cuore pulsante e il cervello della nuova Russia rivoluzionaria, sia a chi sperava in un’altrettanto spontaneo riflusso della marea sociale, che dopo lo sfogo del 27 febbraio doveva placarsi in base alle stesse leggi che regolano i fenomeni naturali: in fondo, dopo la tempesta arriva sempre la quiete! Ancora nessuno lo sapeva, ma la tempesta sarebbe arrivata da lì a poco, sottoforma di Lenin. La «generazione spontanea», osservava il fondatore dell’Armata Rossa, se è fuori luogo nelle scienze naturali, lo è ancor più in sociologia, e d’altra parte «l’esasperazione spiega molto poco». Tuttavia nessuno poteva contestare un fatto: tutte le organizzazioni politiche del Paese, dall’estrema destra all’estrema sinistra, furono colte alle spalle dall’accelerazione degli eventi, che le trovò del tutto impreparate. Gli stessi bolscevichi ebbero ben poco peso sugli eventi, anche perché la loro organizzazione scontava anni di persecuzione politica, così che capi e quadri dirigenti si trovavano ancora in esilio o nei luoghi di deportazione. Dunque, «resta un grosso punto interrogativo: chi ha guidato l’insurrezione? chi ha mobilitato gli operai? chi ha portato i soldati nelle piazze?» Trotskij ricostruisce assai efficacemente l’ambiente sociale e il processo psicologico di massa che vennero a realizzarsi nel corso della guerra. La catastrofica esperienza bellica aveva creato una grande comunità di sofferenza e di solidarietà (di cameratismo, come si diceva allora) tra gli operai della capitale e i soldati, che in maggioranza provenivano dalle campagne. La guerra aveva creato insomma un’inedita dimensione esistenziale, fatta di esperienze comuni, di confronti, di scambi d’idee su ciò che accadeva nel Paese e nel mondo. Gli operai più politicizzati, che avevano ben viva la memoria del 1905 e che in qualche modo per anni avevano orecchiato e “respirato” i discorsi dei socialisti e degli anarchici, in un primo momento erano stati surclassati dalla massa operaia conquistata dalla propaganda patriottica, ma col passare del tempo, ossia con il crescere delle sofferenze e dei sacrifici, riuscirono a mettere nuovamente la testa fuori dal coro e a porsi come punto di riferimento nelle fabbriche e nei quartieri proletari. Sebbene in una forma più attenuata, questo schema interpretativo è valido per tutte le più importanti città russe. L’impasto fra il cameratismo sociale delle classi subalterne (proletari e soldati-contadini) e gli elementi operai politicizzati creò il “miracolo” del 27 febbraio:  «I quartieri operai, le caserme, il fronte e anche, in misura considerevole, i villaggi diventavano in un certo modo vasi comunicanti. Gli operai sapevano quello che sentiva e pensava il soldato. Tra loro c’erano conversazioni interminabili sulla guerra, sulla gente che si arricchiva, sui generali, sul governo, sullo zar e sulla zarina. Il soldato diceva della guerra: Sia maledetta! L’operaio rispondeva parlando del governo: Siano maledetti rutti! Il soldato diceva: Perché qui al centro ve ne state zitti? L’operaio rispondeva: Quando si hanno le mani vuote [di potere, mi permetto di aggiungere], non c’è niente da fare. nel 1905, ci siamo già scontrati con l’esercito con scarso successo. Il soldato, dopo un attimo di riflessione: Ah! Se tutti si ribellassero insieme! L’operaio: Sì, tutti  insieme. Conversazioni di questo genere, prima della guerra, avevano luogo solo tra individui isolati e clandestinamente. Ora si parlava così da ogni parte, a ogni occasione e quasi apertamente, almeno nei quartieri operai» (19).

Quando ragioniamo intorno alla natura dei Soviet, è bene tenere in mente il complesso processo sociale, politico e psicologico qui appena abbozzato. Se il bolscevismo orientato da Lenin conquistò abbastanza rapidamente il consenso del Soviet di Pietrogrado già alla fine di aprile, ciò non si spiega solo col fatto che esso seppe giocare bene le carte che la storia gettò sul tavolo rosso del conflitto di classe, ossia, detto altrimenti, con la sapienza tattica di Lenin, un leader spregiudicato che sapeva mettere insieme una realpolitik spinta fino all’opportunismo con il più ardito avventurismo, come gli rimproverarono gli avversari della sinistra – dagli anarchici ai menscevichi, passando per i socialisti-rivoluzionari. A mio avviso la causa del rapido successo politico del partito di Lenin appare evidente se si tiene conto della sua capacità di interpretare lo spirito del tempo, l’inestricabile groviglio di spontaneità, politicizzazione, radicalizzazione sociale, desiderio di cambiamento e quant’altro. «Sentivamo nell’aria l’elettricità accumularsi. Sapevamo che essa sarebbe inevitabilmente esplosa in una tempesta», dirà Lenin il 7 novembre 1917.

Come scrisse John Reed, «Verso la fine di settembre del 1917 […] fra i braccianti e i salariati correva comunemente la frase “la terra ai contadini e le fabbriche agli operai”, e al fronte tutto l’esercito parlava di pace» (20). Mentre gli altri partiti di sinistra temevano di “cavalcare” le rivendicazioni delle classi subalterne (i menscevichi perché credevano che non fosse ancora venuto il momento di passare alla “fase socialista” della rivoluzione, i socialisti-rivoluzionari perché temevano l’egemonia proletaria nel processo rivoluzionario), il partito leninista vi vedeva invece l’eccezionale occasione per mettere in pratica decenni di approfondimenti teorici intorno al concetto di dittatura rivoluzionaria del proletariato come passaggio ineludibile in vista del superamento della dimensione classista della società e di ogni forma di coazione, a partire da quella politica che ha nello Stato la sua massima espressione. Si può fare! E se l’Azzardo appariva possibile, per Lenin bisognava superare ogni obiezione contraria, anche quella più fondata: l’arretratezza sociale della Russia, i rapporti di forza tra proletariato e contadini, tra città e campagna. Come ho insistito nel precedente scritto, Lenin concepiva il bolscevismo come parte organica del futuro Partito Comunista Mondiale, e la rivoluzione proletaria in Russia come un momento della più generale rivoluzione sociale internazionale, e per questo la scommessa andava assolutamente tentata, tanto più che l’esperienza della Comune parigina del 1871 dimostrava che anche una sconfitta in campo aperto fa avanzare la coscienza delle classi subalterne.

Al contrario della Comune di Parigi, schiacciata nel sangue dall’esercito prussiano “coadiuvato” da quello francese (21), all’esperienza sovietica toccherà in sorte un assai più tragico epilogo, che in parte le classi subalterne di tutto il mondo stanno ancora pagando, e cioè non una sconfitta in campo aperto, chiara, per mano dei nemici dichiarati del proletariato, ma una sconfitta ad opera di un processo sociale (di un fatto oggettivo, dunque) che troverà nello stesso partito che aveva promosso la Rivoluzione il suo strumento controrivoluzionario più potente. In realtà solo formalmente si trattava dello stesso partito, come cerco di spiegare nel testo Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924). Ma riprendiamo il filo del discorso.

In Stato e rivoluzione, scritto nell’agosto-settembre del ’17, Lenin cercherà di dare una base teorica alle scottanti questioni politiche del momento. L’autonomia di classe del proletariato trova la sua massima espressione quando essa si fa, per così dire, potere politico e si pone in antagonistica alternativa (pone l’aut-aut) nei confronti del potere costituito: buona parte di quel celebre libro penso si possa sintetizzare così.

Parlare di un nuovo potere significa parlare, se non si ha paura delle parole, di una nuova configurazione nell’esercizio del potere, ossia dello Stato come viene fuori dal processo rivoluzionario. Gli anarchici accusavano Marx e i marxisti di “statalismo” parchè i primi concepivano la comunità priva di Stato un lascito immediato della rivoluzione sociale, mentre i secondi si ponevano il problema, a mio avviso molto realistico, di come resistere all’inevitabile attacco controrivoluzionario da parte delle classi dominanti sbalzati con la forza dal potere, e di come organizzare la nuova società appena uscita da millenni di dominazione classista. Come scriveva Marx nella Critica al programma di Gotha (1875), peraltro un testo scritto contro lo statalista Lassalle, «Quella con cui abbiamo a che fare è una società comunista, non come si è sviluppata sulla base propria, ma al contrario come viene fuori dalla società capitalistica»; alla bacchetta magica degli anarchici Marx contrappose l’idea della «dittatura rivoluzionaria del proletariato» come «periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una [la società capitalistica] all’altra [la società comunista]» (22). Per Marx lo Stato nel periodo politico di transizione si configura appunto come «dittatura rivoluzionaria del proletariato», la quale ha in sé i presupposti del proprio superamento, porta con sé una metaforica data di scadenza: la fine degli antagonismi di classe. Se così non fosse, quella dittatura non sarebbe né proletaria né rivoluzionaria, ossia giustificabile solo con condizioni storiche rivoluzionarie, le quali, com’è noto, hanno per definizione una natura eccezionale, con ciò che ne segue anche in termini di durata: l’eccezione che si protrae troppo nel tempo puzza di mistificazione lontano un miglio. È fin troppo ovvio dire che non si può stabilire in anticipo sulla prassi quale sia la misura giusta della durata della transizione: questo è un problema che dovranno – eventualmente! – affrontare i rivoluzionari di domani. Ma mantenere una postura critica anche sul terreno della riflessione teorica aiuta a sviluppare gli anticorpi al dogmatismo: come diceva l’ubriacone di Treviri, la rivoluzione proletaria critica continuamente se stessa, proprio perché il suo obiettivo strategico, chiamato a informare le soluzioni tattiche, non è la solidificazione di un nuovo potere, ma il superamento di ogni forma di potere.

Sarebbe sommamente idealistico, e politicamente sciocco, riproporre oggi il problema della transizione negli stessi termini in cui lo fecero Marx e Lenin a partire dalle concrete condizioni sociali del loro tempo, così diverse dalle nostre. Il Capitalismo di oggi fa impallidire, quanto a potenza, diffusione, contraddizioni e quant’altro, quello conosciuto da quei due autorevolissimi personaggi. Tuttavia, il fatto che io non possa conoscere in anticipo le forme concrete che potrebbe assumere un ipotetico potere rivoluzionario delle classi subalterne, ebbene ciò non mi impedisce di sostenere, per libero e fondato convincimento e non in ossequio alla memoria di chicchessia, la tesi marxiana secondo la quale queste classi non devono semplicemente «prendere il potere», ma devono piuttosto distruggere il potere politico vigente per sostituirlo con un nuovo potere rivoluzionario, il quale deve promanare dalla loro prassi e deve avere come obiettivo strategico l’emancipazione dell’umanità attraverso la loro emancipazione sociale. È solo dinanzi a quella prassi, la cui possibilità devo qui solo ipotizzare, che la mia riflessione deve e vuole arrestarsi. (Una precisazione “metodologica”: parlo in prima persona non solo a causa di un innegabile vezzo individualistico, ma soprattutto perché a mala pena esprimo solo il mio punto di vista, ed è per rendere evidente la cosa e per non creare equivoci di sorta che cerco di non usare mai, o il meno possibile, il plurale maiestatis. Meglio essere chiari fino in fondo con chi legge).

«La rivoluzione non deve consistere nel fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi e governi per mezzo di una macchina nuova: è questa l’idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa sparire o non ha assolutamente capito» (23). Con che cosa sostituire dunque la vecchia macchina statale spezzata dalla rivoluzione? Con i Soviet, è ovvio! «I soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini hanno il merito particolare di rappresentare un nuovo tipo di apparato statale, incommensurabilmente superiore, incomparabilmente più democratico» (24). In realtà la cosa a Lenin appariva ovvia solo fino a un certo punto. Infatti, solo l’egemonia dei bolscevichi all’interno dei Soviet permetteva che essi continuassero a conservare la natura di organismo rivoluzionario, mentre se essi fossero caduti in permanenza sotto l’influsso dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, si sarebbero trasformati in organi della democrazia borghese o piccolo-borghese, e col tempo sarebbero stati sostituiti da forme più coerenti e mature di democrazia rappresentativa. Tutto il potere ai Soviet, certamente, ma solo nella misura in cui essi potevano costituire l’impalcatura del nuovo potere rivoluzionario, del nuovo Stato proletario (in alleanza con i contadini), mentre «i socialisti-rivoluzionari e i menscevichi hanno fatto il possibile e l’impossibile per trasformare i soviet (soprattutto quello di Pietrogrado e quello di tutta la Russia, cioè il Comitato esecutivo centrale) in vani parlatoi, che si occupassero di votare, sotto l’apparenza del “controllo”, risoluzioni e auspici impotenti, che il governo, col sorriso più gentile e amabile, rimandava alle calende greche. […] Si vergognino coloro che dicono: “Non abbiamo un apparato che possa sostituire quello vecchio, che tende inevitabilmente a difendere la borghesia”. Perché questo apparato esiste: sono i soviet» (25). Naturalmente solo la prospettiva radicalmente rivoluzionaria e internazionalista dalla quale Lenin osservava il succedersi degli eventi gli consentiva di individuare nei Soviet la marxiana «forma politica finalmente scoperta» attraverso cui i dominati potevano costituirsi in potere rivoluzionario. Che i Soviet potessero oltrepassare davvero i confini della rivoluzione democratico-borghese era un’evenienza che allettava solo i bolscevichi, i quali durante «la ribellione di Kornilov, cioè dei generali e degli ufficiali dietro ai quali vi sono i grandi proprietari terrieri e i capitalisti» (Lenin), dell’agosto 1917 si posero a baluardo di tutte le conquiste ottenute fin lì dalla rivoluzione, la quale rischiava di venir soffocata in un mare di sangue. La creazione, il 12 ottobre, di un Comitato Militare Rivoluzionario e la formazione di Guardie Rosse come baluardi da contrapporre alle truppe controrivoluzionarie che volevano regolare i conti con la giovane democrazia sovietica rappresentano forse i due momenti più emblematici dei giorni che segnarono l’irresistibile ascesa del bolscevismo nelle città russe. Le fila del Partito Bolscevico incominciarono a ingrandirsi a un ritmo incalzante (ma solo attingendo dal proletariato urbano, mentre tra i contadini l’influenza dei bolscevichi cresceva ancora molto lentamente): dagli 80 mila membri dell’aprile passò ai 240 mila a inizio settembre. Ma al di là di questi numeri, occorre dire che intorno ai bolscevichi si creò una vasta area di consenso e di simpatia che rese possibile il prevalere dei bolscevichi nei Soviet più importanti del Paese alla vigilia dell’ottobre (26).

Dopo i fatti di giugno (disfatta della controffensiva militare antitedesca) e di agosto (fallimento del colpo di Stato militare) per Lenin e Trotskij fu relativamente facile convincere (anche nel senso di vincere insieme) il proletariato e i contadini poveri che solo andando avanti, approfondendo ulteriormente il carattere sociale della lotta per il pane, per la pace e per la terra, si poteva scongiurare un colpo di Stato ad opere delle forze più reazionarie e violente del Paese. Non si trattava affatto di demagogia, o di “populismo”, per usare il gergo politico dei nostri tristi tempi, ma di una maturazione collettiva del soggetto di classe, che allora prese la sostanza di una sempre più stringente dialettica tra Soviet e bolscevismo. Si avanzava politicamente e socialmente difendendo le “vecchie” conquiste rivoluzionarie: si trattò di un vero e proprio capolavoro di strategia rivoluzionaria comprensibile solo alla luce dei reali accadimenti, del reale sovrapporsi e intrecciarsi di fatti e di fattori (oggettivi e soggettivi), mentre chi vi vede solo il compimento di un piano elaborato a tavolino da una mente particolarmente geniale, o diabolica, si preclude ogni possibilità di comprensione. Ridurre il Grande Azzardo a un colpo di Stato organizzato e diretto dai bolscevichi ai danni «dell’autentica democrazia proletaria» incarnata dai Soviet è un’operazione politico-ideologica che semplicemente non tiene conto del reale svolgersi dei fatti, e per questo somiglia tanto a una pura e semplice calunnia.

Il dualismo di potere tra governo borghese e governo (di fatto) dei Soviet non poteva durare a lungo, né poteva mettere capo a una sintesi tra due soggetti che ormai non avevano alcun punto in comune e si guardavano con sempre maggiore diffidenza: il dualismo doveva sciogliersi necessariamente con il pieno successo dell’uno e la completa disfatta dell’altro. Una terza via avrebbe significato uno svuotamento del significato dei Soviet, ossia la vittoria del governo borghese, non una sintesi “più avanzata” tra i due opposti poteri, come sostenevano i menscevichi di destra. Scriveva Lukács nel suo Lenin (1924) «I consigli operai, anche nelle loro forme primitive e meno evolute, presentano già verso il 1905 questo carattere: costituiscono un contro governo. Mentre altri organi della lotta di classe possono adattarsi tatticamente, cioè possono condurre avanti il lavoro rivoluzionario anche in quelle circostanze, è proprio invece dei consigli operai di porsi rispetto al potere statale della borghesia nel rapporto di un secondo governo concorrenziale. Quando perciò ad esempio Martov, pur riconoscendo nei consigli degli organi di lotta, nega la loro qualifica a diventare apparati statali, egli elimina con ciò dalla teoria proprio la rivoluzione, la reale presa del potere del proletariato. Quando invece, dal lato opposto, alcuni teorici estremisti di sinistra fanno del consiglio operaio una organizzazione di classe permanente del proletariato e vogliono servirsene per soppiantare partito e sindacato, mostrano di non comprendere la distinzione tra situazioni rivoluzionarie e non rivoluzionarie e di non comprendere la funzione peculiare dei consigli operai» (27). La polemica con la sinistra consiglista e spontaneista di Gorter e Pannekoek è abbastanza evidente. Dal lato opposto, per riprendere lo schema lukacsiano, in Europa si affermò la tendenza a usare il termine Consiglio per designare organismi proletari, soprattutto di natura sindacale, che con il Consiglio russo, cioè con il Soviet, non avevano nulla a che fare. Il Soviet fu una pianta che poté vivere fino a quando il clima sociale si mantenne incandescente, ossia rivoluzionario, e anzi esso stesso era, insieme, l’espressione e una delle maggiori cause di quel clima. E questo si può dire anche dei Comitati di fabbrica che apparvero appunto nelle fabbriche dei maggiori centri industriali del Paese nel febbraio del ’17 e che il 30 maggio di quell’anno tennero la loro prima Conferenza a Pietrogrado: «Si dice spesso dei Comitati di fabbrica che essi sono “l’opera della rivoluzione”. È giusto, anche se i loro lontani prototipi sono esistiti molto tempo prima e molto tempo prima era iniziata, nella fabbrica, la lotta tra il capitale e il lavoro. È giusto perché la loro natura rivoluzionaria di lotta, la loro sostanza di classe si fa sentire soltanto durante la rivoluzione. Il loro ruolo finisce con la fine dell’ondata rivoluzionaria o, al contrario, con la vittoria della rivoluzione. […] Il loro ruolo economico, militante e rivoluzionario comincia e finisce con quel periodo caldo della lotta più accanita che abitualmente chiamiamo rivoluzione. […] Tutta la storia dei Comitati di fabbrica, negli anni 1917-18, è strettamente legata al Partito Bolscevico. Ed è normale. Un partito rivoluzionario e combattente non poteva non influenzare e dirigere le organizzazioni più strettamente legate alla classe operaia che lavorava per la rivoluzione. Le parole d’ordine e le tendenze che salivano dal profondo, ricevevano la loro formulazione, il loro contenuto ideologico e il loro cimento organizzativo dall’aiuto del partito» (28).

Lo stesso Partito Bolscevico nella sua configurazione di partito rivoluzionario di massa si spiegava solo con l’eccezionalità della situazione, perché solo quando impazza la tempesta rivoluzionaria le vele di un partito autenticamente rivoluzionario hanno modo di gonfiarsi. Ci sono cose che non sono buone per tutte le stagioni, come invece pensano i teorici del “partito rivoluzionario di massa” sempre e comunque, anche quando le classi subalterne mostrano di non riuscire a scrollarsi di dosso la mortale influenza dell’ideologia dominante. La caratura di massa del Pci nel Secondo dopoguerra, ad esempio, non era affatto una garanzia “di classe”, come affermava una sociologia volgare devota allo stalinismo, ma all’opposto dimostrava la natura profondamente borghese di quel partito, che per molti aspetti fu ancora più reazionario del PSI – ad esempio, sul terreno dei cosiddetti diritti civili e in materia di Giustizia.

Molti hanno voluto vedere nella bolscevizzazione dei Soviet un’inaccettabile forzatura da parte di Lenin e dei suo compagni, anche se non hanno potuto negare che, come documenta anche Oscar Anweiler nella sua “classica” Storia dei soviet, tra l’agosto e il settembre il bolscevismo divenne un vero e proprio movimento di massa, e non solo a Pietrogrado e a Mosca; si sarebbe trattato di una prevaricazione rispetto all’autonomia dei Soviet. Personalmente credo invece che in quel momento storico solo i bolscevichi furono in grado di difendere ed esaltare la natura proletaria e rivoluzionaria di quegli organismi. Ma posso anche sbagliare.  «L’esperienza della rivoluzione russa ci ha insegnato che la rivoluzione proletaria è opera dell’organizzazione di massa autonoma del proletariato (Soviet) e non di una minoranza rivoluzionaria organizzata in senso burocratico ed autoritario nel partito leninista. Nella Russia del 1917 la minoranza bolscevica vide nei Soviet (estranei alla sua impostazione ideologica) solo un momento tattico da usare opportunisticamente per i suoi progetti politici che, oggettivamente, hanno avuto per sbocco un capitalismo monopolistico di stato» (29). All’antistalinista di orientamento marxista che sostiene la tesi secondo cui lo stalinismo rappresentò la prosecuzione del bolscevismo leninista con altri mezzi in una nuova congiuntura storica dico: non sono d’accordo ma parliamone, può anche darsi che tu abbia ragione. Niente è più lontano dalle mie intenzioni di voler salvare a tutti i costi, magari contro l’evidenza dei fatti, Lenin dall’abisso stalinista, e la mia critica della sua filosofia materialistica dimostra, credo, come nei suoi confronti io abbaia maturato un atteggiamento abbastanza “laico” (30).

La convinzione che mi sono fatto è che agli occhi di Lenin i Soviet apparissero davvero, e non in chiave puramente strumentale-tattica, la «forma scoperta» della marxiana dittatura rivoluzionaria del proletariato, e che il loro svuotamento già nel corso del «Comunismo di guerra» (31), dovuto alla “pesantezza” e all’originalità dei problemi a cui i bolscevichi e l’intera compagine sociale si trovarono a dover fare i conti, più che a una scelta assunta freddamente dal partito leninista, rappresentò innanzitutto una sua durissima sconfitta politica. Quando nelle ore decisive dell’Ottobre Lenin disse, come racconta John Reed, che «Noi bolscevichi siamo dalla parte del proletariato, del proletariato contadino come del proletariato industriale», e che «I Soviet sono la forma più perfetta della rappresentanza popolare degli operai nelle officine e nelle miniere, e dei lavoratori nei campi», egli si limitò ad esprimere, dal punto di vista del partito proletario, un dato di fatto, oltre che una convinzione maturata ormai da tempo – certamente dal 1905. «In questo momento noi stiamo tentando di risolvere non solo la questione della terra», disse Lenin presentando il programma agrario dei bolscevichi al II Congresso dei Soviet dei deputati operai e soldati di tutta la Russia (25-26 ottobre 1917), «ma la questione della Rivoluzione Sociale, non solo in Russia ma in tutto il mondo. La questione della terra non può esser risolta indipendentemente da tutti gli altri problemi della Rivoluzione Sociale» (32). Anche nel momento in cui Lenin ricerca il vitale appoggio dei contadini poveri, egli non si presenta ai loro occhi come un leader genericamente popolare e, men che meno, nazionale ma come un’esponente del proletariato d’avanguardia del Paese e del mondo. «Il gruppo Spartacus intensifica sempre più la sua propaganda rivoluzionaria. Il nome di Liebknecht, infaticabile combattente per gli ideali del proletariato, diviene ogni giorno più popolare in Germania. Noi crediamo nella rivoluzione in Occidente ma non possiamo decretare la rivoluzione, ma aiutarla e favorirla possiamo» (33). E noi “rivoluzionari” del XXI secolo possiamo crocifiggere Lenin perché la sua fiducia nel proletariato occidentale si rivelò, alla fine, infondata? Certo, si può sempre dire che il capo bolscevico si accreditava come internazionalista mentre agiva da rivoluzionario nazionalista, ma questo, anche alla luce del materiale storico che ho studiato, non lo credo.

Già alla fine del 1920 Lenin è costretto a parlare di «ritirata strategica» e della necessità di ricalibrare i rapporti con i contadini, “poveri” o “ricchi” che fossero (nell’ormai devastata campagna russa questa distinzione non sempre aveva un reale significato), ossia con quella enorme massa sociale che aveva reso possibile, attivamente o esercitando una benevola neutralità, l’Azzardo del proletariato russo. Mi permetto di citarmi: «Resistere, indietreggiare, guadagnare tempo: la tattica leniniana dopo l’Ottobre ruotava ossessivamente e necessariamente intorno alla fondamentale questione dei tempi, sempre decisiva nella prassi sociale, e ancor più decisiva nelle epoche delle guerre e delle rivoluzioni. Ma ciò – la “ritirata strategica” – che riuscì allo zar Alessandro I contro Napoleone, e poi a Stalin contro le armate tedesche, purtroppo non riuscì a Lenin contro il capitalismo nazionale e internazionale. Ai compagni di partito che lo invitavano a precisare meglio i limiti dell’annunciata “ritirata strategica”, Lenin rispondeva, in modo sempre più insofferente, di non sapere dove fossero esattamente questi benedetti limiti, e che era sciocco volerli tracciare sulla carta, in astratto, aprioristicamente, senza cioè tenere in considerazione tutta una serie di circostanze, anche – o soprattutto – di natura internazionale. “Indietreggiare è molto spiacevole – scriveva Lenin il 29 ottobre 1921 –, ma quando ci si fa battere non si chiede se la cosa sia piacevole o spiacevole; le truppe si ritirano e nessuno se ne stupisce. Perché dunque dobbiamo inventarci in anticipo delle situazioni da cui non si può uscire?” Da notare: “quando ci si fa battere”» (34). Parafrasando Tacito, che di azzardi e guerre civili s’intendeva, possiamo dire che se «nelle vicende private si può procedere con gradualità e, secondo la volontà di ognuno, rischiare di più o di meno», chi aspira al potere «non ha via di mezzo tra la vetta e l’abisso». D’altra parte, dal potere non ci si può dimettere: a guerra civile finita, e brillantemente vinta sul terreno militare, i bolscevichi dovranno fare i conti con questa amara constatazione, che presto prenderà l’aspetto di una tragedia.

Come ho scritto altrove, dalla comoda – e spero non sbagliata – prospettiva storica la Rivoluzione d’Ottobre mi appare prossima alla fine già all’indomani della guerra civile, e senza che i protagonisti ne avessero, in generale, il sentore, anche se le sensibili antenne di Lenin non mancarono di registrare il rapido declinare della carica rivoluzionaria nello stesso proletariato, ossia nella base sociale del Partito Bolscevico, nella classe che aveva conferito appunto una natura proletaria (in un’accezione non meramente sociologica) alla seconda rivoluzione del 1917. La rivolta di Kronstadt (marzo 1921) annunciò nel peggiore dei modi il ritorno indietro dell’onda, il riflusso dell’energia rivoluzionaria che aveva reso possibile l’Ottobre e che adesso era prossimo a trasformarsi in uno spaventoso tsunami controrivoluzionario. Lukács colse bene il rapido mutamento di fase: «Il secondo Congresso Mondiale della Terza Internazionale ha cominciato i suoi lavori nel mezzo dell’offensiva vittoriosa delle truppe rosse nel cuore della controrivoluzione mitteleuropea. Il Terzo Congresso presumibilmente si riunirà sotto l’effetto della repressione della sollevazione di marzo in Germania» (35). L’esaurirsi della “spinta propulsiva” rivoluzionaria su base internazionale rendeva ormai pressoché inevitabile la morte dell’esperienza rivoluzionaria in Russia, che difatti si verificò, e nel modo di gran lunga peggiore per il proletariato di tutto il mondo, ossia sotto le sembianze di un successo: quello del «socialismo in un solo Paese». Non è serio dire oggi cosa avrebbero dovuto fare allora Lenin, i suoi compagni di partito e i comunisti occidentali per mettere in salvo la natura proletaria del Grande Azzardo, e infatti su questo punto non dirò nulla, anche perché la cosa, oltre che poco sensata, mi appare al di là delle mie scarse capacità intellettuali.

Scrive Raffaella Fittipaldi: «I Soviet del 1905 rappresentano l’incontro del pluralismo politico russo, quelli del 1917, bolscevizzati, fungono da leva del potere che durerà fino alla fine del secolo» (36). Per dirla con Marx, la rivoluzione del 1905 (o quella del febbraio ‘17) «era stata la bella rivoluzione, la rivoluzione della simpatia generale», mentre quella dell’Ottobre ’17 «è la rivoluzione brutta, la rivoluzione ripugnante, perché al posto della frase è subentrata la cosa». Quanto alla fine del potere sovietico (sto parlando della cosa, non della frase) personalmente proponga una ben diversa datazione, e non a caso individuo nella morte di Lenin la data-simbolo che si presta bene come momento riassuntivo di una sconfitta maturata nel corso di pochi ma intensissimi anni. In un’intervista rilasciata a Radio Radicale qualche settimana fa Sergio Staino, il noto vignettista e direttore della moribonda Unità, si è prodotto nella seguente “confessione”: «Ho una lunga esperienza comunista alle spalle, e come tutti i comunisti sono stato anch’io stalinista». Come se lo stalinismo fosse stato – e sia, in forma più o meno residuale e camuffata – una variante, magari “degenerata” e particolarmente brutta, sporca e cattiva del comunismo, e non invece, come ho sempre pensato, una sua radicale negazione. L’associazione comunismo-stalinismo è certamente il lascito peggiore del cosiddetto «comunismo novecentesco», che poi non fu altro che l’espressione delle tante “declinazioni” nazionali (togliattismo, titoismo, maoismo, eccetera, eccetera, eccetera) dello stalinismo, ed è soprattutto per questo che preferisco lasciare agli altri il nome e tenermi la Cosa. Il nome è morto, viva la Cosa!

È tempo di mettere un punto! Per un verso la rivoluzione sociale anticapitalistica e il potere rivoluzionario, ancorché transitorio e umanamente orientato, delle classi subalterne devono essere opera di queste stesse classi (37); Marx si espresse in questi termini: «organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico». Per altro verso la coscienza di classe, ossia la chiara comprensione da parte del proletariato della sua posizione sociale e del suo «compito storico», non si fa strada nella sua testa spontaneamente, come immediato riflesso delle sue condizioni sociali, come dimostrano al di là di ogni ragionevole dubbio i fatti, non le elucubrazioni dottrinarie di Tizio o Caio.  È con la complessa equazione – o dialettica – sociale qui appena tratteggiata che da Marx in poi i comunisti hanno dovuto misurarsi. Abbiamo visto come Lenin e suoi compagni di partito cercano di sbrigare la difficile pratica a partire da una concreta situazione storico-sociale.

Per quanto mi riguarda, in nessun caso il potere rivoluzionario del proletariato può corrispondere al potere del partito rivoluzionario esercitato in esclusiva, perché se così fosse non ci sarebbe nessuna rivoluzione in corso e nulla che possa surrogarne la mancanza. Questa è la tesi che sostengo e che difendo anche contro chi concepisce, magari senza averne una chiara consapevolezza teorica, la «dittatura rivoluzionaria del proletariato» come dittatura del partito che si concepisce come avanguardia del proletariato mentre ne pratica piuttosto la sostituzione, credendo, in ottima fede, di poterne incarnare e rappresentare le istanze rivoluzionarie. Nessuno si affatichi a dimostrarmi l’estraneità della mia tesi rispetto all’autentico pensiero “marxista-leninista”: la sosterrei in ogni caso, non “a prescindere”, ma per intima convinzione. D’altra parte l’ho sempre detto: non sono un marxista – figuriamoci poi un marxista-leninista!  Rimane da capire, almeno per chi scrive, come oggi debba o possa configurarsi un soggetto politico rivoluzionario, e quale ruolo esso dovrebbe e potrebbe avere ai nostri tempi, così indigenti di esperienze rivoluzionarie dalle quali attingere la linfa che alimenta un pensiero autenticamente critico-radicale. Sono, questi, tutti problemi la cui soluzione non si trova in qualche pur mirabile testo scritto in un’altra era capitalistica. Ma questa è ovviamente una mia personalissima convinzione. «Non è nel passato ma solo nell’avvenire che la Rivoluzione sociale del [XXI] secolo potrà trovare la fonte della sua poesia. Non potrà iniziare da se stessa prima di essersi liberata da ogni credenza superstiziosa nel passato» (38). Diciamo che il presente non ispira molto ottimismo, ed è forse per questo che siamo così affezionati alle vecchie poesie.

an-assembly-of-the-petrograd-soviet-1917(1) «Compagni, fin dall’inizio della rivoluzione d’ottobre, il problema della politica estera e delle relazioni internazionali si è posto per noi come il problema principale, non solo perché l’imperialismo implica da ora in poi un forte e stabile coordinamento di tutti gli Stati del mondo in un sistema unico, ma anche perché la vittoria completa della rivoluzione socialista è inconcepibile in un solo paese e impone la più attiva collaborazione almeno di alcuni paesi progrediti, tra i quali non possiamo collocare la Russia. Ecco perché una delle questioni principali della rivoluzione consiste oggi nell’accertare in che misura riusciremo a estendere la rivoluzione ad altri paesi e in che misura riusciremo intanto a resistere all’imperialismo» (Lenin, Discorso sulla situazione internazionale, VI Congresso dei soviet, novembre 1919, in Opere, XXVIII, p. 152, Editori Riuniti, 1967). La Rivoluzione d’Ottobre rimase isolata e alla fine la resistenza vittoriosa all’imperialismo durante gli eroici anni della guerra civile (o «Comunismo di guerra», per usare quella che anche Lenin definirà una pessima definizione) non fu sufficiente a metterla al riparo dal processo sociale capitalistico.
(2) «Oggigiorno si afferma comunemente che la questione del parlamentarismo non è una questione di principio, ma semplicemente una questione tattica. Nella sua indubbia esattezza quest’affermazione presenta però non poche oscurità. … Proprio il fatto che nell’ambito del parlamento un’aspra critica della società borghese appare possibile [come sostenevano i bolscevichi a difesa del “parlamentarismo rivoluzionario”], contribuirà al disorientamento, auspicato dalla borghesia, della coscienza di classe del proletariato. La finzione della democrazia parlamentare borghese si basa proprio sul fatto che il parlamento appare non come organo dell’oppressione di classe ma come l’organo di “tutto il popolo”. Ogni radicalismo verbale – con il fatto stesso della sua possibilità d’esplicarsi in parlamento – risulta opportunistico poiché rafforza negli strati meno coscienti del proletariato le illusioni nei confronti di questa finzione. Bisogna quindi sabotare il parlamento in quanto parlamento, e l’attività parlamentare dev’essere proiettata oltre il parlamentarismo» (G. Lukács, La questione del parlamentarismo, 1920, in Scritti politici giovanili, 1919-1928, pp. 78-79, Laterza, 1972). Proprio per il suo grande significato politico e ideologico (una realtà di classe che si presenta ai dominati con le sembianze di una realtà “popolare”) l’antiparlamentarismo riveste per me un significato strategico, e non semplicemente tattico. Lo stalinismo agì su Bordiga e su Lukács in due modi affatto diversi (ma, a mio avviso, tutt’altro che complementari): il primo, nel tentativo di contrapporre immediatamente la politica rivoluzionaria di Lenin a quella controrivoluzionaria di Stalin, decise di mettere la sordina alle divergenze “tattiche” che lo avevano contrapposto al leader russo morto nel 1924, sacrificando con ciò sull’altare della continuità e della fedeltà al marxismo rivoluzionario «da Marx a Lenin» l’iniziale e promettente originalità di pensiero rispetto al bolscevismo (che nella sua prospettiva antistalinista diventa una pianta buona per ogni clima); il secondo, braccato sul piano politico e personale da tutte le parti (dalla controrivoluzione “bianca” come da quella “rossa”), pensò bene di attuare una “ritirata strategica” che lo portò sotto l’ala “protettiva” del regime sovietico, cosa che priverà il suo pensiero di quella capacità critico-rivoluzionaria così evidente nei suoi scritti giovanili e in Storia e coscienza di classe, non a caso considerato un libro sbagliato dal “nuovo” Lukács. Forse il lascito più pesante della “conversione” stalinista dell’intellettuale ungherese si può individuare, sul piano dottrinale, nella sua adesione al Diamat, ossia a quella volgare concezione del mondo «che s’approssima in misura considerevole al materialismo borghese delle scienze naturali», come il “giovane Lukács” aveva rimproverato al libro di Bucharin del 1922 sulla Teoria del materialismo storico. Ma proprio sulla “filosofia materialista” centrata su Engels (Antidühring e Dialettica della natura) e su Lenin (Materialismo ed empiriocriticismo) possiamo trovare robuste convergenze tra l’antistalinista Bordiga e lo stalinista Lukács. Misteri della filosofia?
(3) Tutto il potere ai Soviet! Per una critica comunista libertaria al leninismo e allo spontaneismo, Organizzazione Anarchica Marchigiana, Ancona, dicembre 1975.
(4) «Il soviet di Pietroburgo in un primo momento fu diretto da un popolare avvocato, Chrustalev-Nosarʹ, arrestato e sostituito ben presto da Trockij. Il soviet [era] diretto da Trockij e ispirato dai bolscevichi» (V. Serge, L’anno primo della rivoluzione russa, p. 26, Einaudi, 1991). «Il 13 ottobre ebbe luogo la prima seduta del Soviet di Pietroburgo. Al contrario del Soviet di Ivanovo-Voznesensk, e sulla scia del consiglio degli operai tipografi di Mosca, il Soviet di Pietroburgo non restò solo un organo di direzione dello sciopero, ma assunse subito un carattere politico e rappresentativo. Il 17 ottobre, alla seconda seduta, si strutturò eleggendo un comitato esecutivo composto, in principio, da 22 persone, si diede un organo di stampa e scelse la denominazione che da allora in poi lo accompagnerà: Sovet rabočich deputatov (Consiglio dei deputati degli operai)» (R. Fittipaldi, Fondamenti e sviluppi della teoria dei soviet nel caso russo, p. 14, Università degli studi di Firenze, 2012).
(5) Anche se non va trascurata la condizione sociale reale dello stesso ambiente metropolitano russo. Come sempre, tutto va “relativizzato”, ossia contestualizzato sul piano storico-sociale. Scrive Raffaella Fittipaldi: «I Soviet del 1905 portarono alla luce la grande contraddizione della modernità russa: la forza sociale del proletariato di fabbrica immersa in un contesto industriale ancora arretrato. […] Lo stimolo ai moti operai provenne dalle caratteristiche della prima fase del capitalismo. Infatti, mentre nel resto dell’Europa centrale il proletariato di fabbrica aveva una base urbana, in Russia l’operaio era ancora intrinsecamente legato al villaggio, tanto che non smetteva mai di essere contadino e, dopo la stagione di lavoro nella fabbrica, tornava in campagna a svolgere un altro lavoro. La grande maggioranza della popolazione era ancora contadina, ma un intenso processo di industrializzazione andava ponendo le basi per la nascita di una precaria classe operaia. Infatti, unitamente all’aumento dell’urbanizzazione, alla creazione di nuove città e di nuovi sobborghi, si sviluppava la fabbrica e cresceva la mole di lavoro salariato» (Fondamenti e sviluppi della teoria dei soviet nel caso russo, pp. 9-10).
(6) V. Serge, L’anno primo della rivoluzione russa, p. 27.
(7) Ad esempio, il vizio d’origine del Pci, da Gramsci in poi, fu la sua piena adesione allo stalinismo: «Soltanto con il III Congresso di Lione del 1926, Gramsci scalzerà definitivamente Bordiga dalle posizioni di predominio, dentro il Pci, avviando quella pericolosa deriva verso l’imitazione dei modelli staliniani che minerà a fondo l’indipendenza e l’originalità del partito italiano» (Gino Longo, figlio del più celebre Luigi; cit. tratta da R. Festorazzi, Rivoluzionari. Il secolo comunista raccontato da Gino Longo, p. 20, Pietro Macchione Editore, Varese, 2016). Scrive Giorgio Galli nella sua Storia del PCI a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [l’antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso. […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia, torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane. […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (Storia del PCI, pp. 112-118, Bompiani, 1976). La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora non regge un solo istante alla prova dei fatti – ha invece retto benissimo alla luce dell’ideologia.
(8) K. Marx, La guerra civile in Francia, p. 115, Newton, 1973.
(9) L. Trockij, 1905, pp. 203-204, Newton, 1976.
(10) Ibidem, p. 205.
(11) Alludo ovviamente al prete Gapon, il promotore del movimento che il 9 gennaio portò una massa di proletari e di contadini poveri d’avanti al Palazzo d’Inverno per ricevere dall’amatissimo Sovrano la risposta alle richieste formulate nella loro petizione: «Indicaci, o Sovrano, quale strada dobbiamo scegliere tra la libertà e la felicità o la tomba, e noi la seguiremo denza fiatare anche se fosse quella della morte»
(12) R. Luxemburg, Sciopero generale, partito e sindacati,  in Scritti politici, pp. 298-299, Editori Riuniti, 1967.
(13) K. Marx, La guerra civile in Francia, p. 117, Newton, 1973.
(14) L. Trockij, 1905, p. 274.
(15) Lenin, Discorso sull’atteggiamento verso il governo provvisorio, I Congresso dei soviet, giugno 1917, Opere, XXV, pp. 11-12, Editori Riuniti, 1967.
(16) Allo scoppio della prima guerra mondiale la città di San Pietroburgo venne ribattezzata, per iniziativa dello zar Nicola II, Pietrogrado per archiviare una denominazione che ricordava fin troppo la nemica Germania.
(17) La prima grande città a seguire l’esempio di Pietrogrado fu Mosca. La notte tra il 27 e il 28 febbraio il Comitato locale bolscevico invitò gli operai ad eleggere i loro delegati (1 delegato ogni 500 operai). Pietrogrado e Mosca delinearono due possibili modelli di Soviet: il primo univa in un solo consiglio i deputati degli operai e dei soldati; il secondo proponeva due consigli distinti, uno per i deputati operai e uno per quelli dei soldati. Sulla scia di questi due prototipi, si costituirono i Soviet nelle province. Cfr. Oscar Anweiller, La storia dei soviet. 1905-1921, pp. 189-203, Laterza, 1972.
(18) L. Trotsky, Storia della rivoluzione russa, I, pp. 162-163, Mondadori, 1978.
(19) Ibidem, p. 171.
(20) J. Reed, 10 giorni che fecero tremare il mondo, p. 29, Mondadori, 1982.
(21) «Il fatto che dopo la guerra più terribile dei tempi moderni l’esercito vincitore e l’esercito vinto fraternizzino per massacrare in comune il proletariato, questo fatto senza precedenti indica … che la guerra nazionale è una semplice mistificazione governativa, la quale tende a ritardare la lotta delle classi e viene messa in disparte non appena la lotta di classe divampa in guerra civile. Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti» (K. Marx, La guerra civile in Francia, p. 141). Durante la Prima guerra mondiale gli autentici marxisti europei, a cominciare, come abbiamo visto, da Lenin, tennero ferma la straordinaria lezione comunarda come si trova nelle parole di Marx, e promossero, a rischio della vita, il disfattismo antinazionale anche in quei Paesi nei quali la questione nazionale aveva ancora qualcosa da dire (vedi i socialisti Serbi); lo stesso non si può dire per i sedicenti marxisti attivi durante la Seconda guerra imperialista – i quali, è sempre bene ricordarlo, ingurgitarono anche il Patto Molotov-Ribbentrop, e ho detto tutto. Sui sovranisti “comunisti” che agiscono nell’epoca del dominio totale e totalitario del Capitale sul mondo, è meglio stendere un velo di disprezzo e non sprecare altre parole.
(22) K. Marx, Critica al programma di Gotha, pp. 52-53, Savelli, 1975.
(23) Lenin, Stato e rivoluzione, Opere, XXV, p. 457, Editori Riuniti, 1967.
(24) Lenin, Uno dei problemi fondamentali della rivoluzione, settembre 1917, Opere, XXV, p. 351.
(25) Ivi.
(26) «Le nuove elezioni portarono all’interno del sistema consiliare a far avere ai bolscevichi il Soviet di Kronstadt con 100 rappresentanti (contro 75 socialisti-rivoluzionari, 12 menscevichi internazionalisti, 7 comunisti-anarchici, 90 senza partito che appoggiavano l’estrema sinistra), in mano ai bolscevichi andarono inoltre i Soviet della Finlandia, dell’Estonia, degli Urali, della flotta del Baltico, della V Armata e del Soviet di Pietroburgo dove il 25 settembre i bolscevichi riuscirono a far eleggere presidente Trockij. L’influenza leninista nel Soviet di Mosca fu ugualmente determinante. Dal canto loro i socialisti-rivoluzionari avevano il predominio in molte grandi città (Kiev, Rostov, Arcangelo, ecc.), in Ucraina e nell’immensa maggioranza dei consigli contadini. I Menscevichi in fase di netto riflusso restavano i più forti nel Caucaso e in Georgia. In Siberia bolscevichi e socialisti-rivoluzionari disponevano di una uguale forza. Massimalisti, Anarcosindacalisti e Comunisti-Anarchici (pur mancando questi ultimi due di un’organizzazione specifica nazionale che potesse coordinarne e pianificare le azioni) erano in netta ascesa un po’ ovunque e per la prima volta avevano acquistato importanti posizioni in numerosi Soviet» (Tutto il potere ai Soviet! Per una critica comunista libertaria al leninismo e allo spontaneismo, Organizzazione Anarchica Marchigiana).
(27) G. Lukács, Lenin. Unità e coerenza del suo pensiero, pp. 77-78, Einaudi, 1970.
(28) A. M. Pankratova, I consigli di fabbrica nella Russia del 1917, 1923, pp. 9-11-22, Savelli, 1973. «Il proletariato, senza attendere una sanzione legislativa, cominciò a fondare quasi simultaneamente tutte le sue organizzazioni: i Soviet dei deputati operai, i sindacati e i Comitati di fabbrica» (ibidem, p. 14).
(29) Tutto il potere ai Soviet! Per una critica comunista libertaria al leninismo e allo spontaneismo, Organizzazione Anarchica Marchigiana.
(30) Si veda, ad esempio, Il mondo come prassi sociale umana.
(31) Alludo alla verticalizzazione estrema delle decisioni (e quindi del potere) che si realizzò nel corso della guerra civile, che costrinse il Partito Bolscevico ad assumersi in prima persona, per così dire, la responsabilità di gran parte di quelle decisioni.
(32) J. Reed, 10 giorni che fecero tremare il mondo, p. 270.
(33) Lenin, Discorso e risoluzione…, 7 novembre 1917, in Opere, XXVI, p. 275, Editori Riuniti, 1966.
(34) S. Isaia, Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924), p. 123.  Ho citato Lenin da La Nuova Politica Economica…, Opere, XXXIII, pp. 48-49, Editori Riuniti, 1967.
(35) G. Lukács, Di fronte al Terzo Congresso, 1921, in Cultura e rivoluzione, Newton, 1977.
(36) R. Fittipaldi, Fondamenti e sviluppi della teoria dei soviet nel caso russo, p. 5.
(37) «Al tempo della creazione dell’Internazionale, abbiamo formulato il motto della nostra battaglia: l’emancipazione della classe operaia sarà opera della classe operaia stessa. Di conseguenza, non possiamo fare causa comune con persone che dichiarano apertamente che gli operai sono troppo incolti per liberarsi da sé e che devono essere liberati dall’alto, cioè da filantropi borghesi piccoli e grandi» (F. Engels, Circolare dell’A. I. L del 17 settembre 1879). Contro ogni concezione borghese e piccolo borghese del partito rivoluzionario, Marx ed Engels sosterranno sempre il principio dell’autonomia di classe: «Il proletariato non può agire come classe che costituendosi egli stesso in partito politico distinto, opposto a tutti i vecchi partiti formati dalle classi possidenti; tale costituzione del proletariato in partito politico è indispensabile per assicurare il trionfo della rivoluzione sociale e del suo scopo supremo: l’abolizione delle classi» (Risoluzione adottata dalla Conferenza dell’A. I. L. di Londra, 1871).
(38) K. Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, p. 176, Einaudi, 1976.

UNGHERIA. 1956-2016

budapest_6Un tentativo di interpretazione

Scoppiata la sommossa a Budapest, noi
non potevamo che augurarci apertamente
che fosse schiacciata (Palmiro Togliatti).

Scrive Francesco Perfetti ricordando i sanguinosi (si parla di oltre 25mila morti, in gran parte lavoratori) “fatti ungheresi” vecchi ormai di sessant’anni: «La rivolta di Budapest del 1956 fu la prima grande crepa nel muro eretto a difesa dell’impero costruito, passo dopo passo, attraverso l’instaurazione delle democrazie popolari, dal comunismo. Quei dodici giorni che sconvolsero le sorti dell’Ungheria e che commossero il mondo occidentale furono l’evento che, come avrebbe poi detto Richard Nixon, segnò “l’inizio della fine dell’impero sovietico”. La sanguinosa repressione sovietica dell’eroica sollevazione ungherese ebbe effetti disastrosi per l’immagine dell’Urss. Il filosofo marxista Jean-Paul Sartre dovette ammettere che, dopo i massacri di Budapest, “mai in Occidente i comunisti si erano trovati così isolati” dopo un periodo che aveva visto i russi “in vantaggio quasi in ogni campo” al punto che “sembrava che sarebbero usciti vincitori dalla Guerra fredda”». Abbiamo visto come la storia si sia incaricata di capovolgere nel modo più brutale le previsioni che dopo il Secondo macello mondiale non furono appannaggio dei soli “comunisti” occidentali fedeli allo stalinismo. Giustamente Perfetti sostiene che «Le giornate di Budapest non erano piovute dall’alto», che almeno ai piani alti della politica internazionale si avvertiva un forte odore di bruciato che emanava non solo dall’Ungheria ma da tutti i Paesi europei – rubricati un po’ sbrigativamente “dell’Est” in ossequio alla scienza geopolitica – che avevano subito il trattamento “sovietico” secondo gli auspici della Conferenza di Yalta, «quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica» (1).

In che senso la repressione militare e poliziesca dei “moti ungheresi” di sessant’anni fa segna l’inizio della fine del «comunismo sovietico» e la morte dell’utopia chiamata «socialismo dal volto umano», come scrive Perfetti (e gran parte della memorialistica politica e storiografica che in questi giorni si sta esercitando sui “fatti ungheresi”)? Scrive il Nostro: «All’inizio di giugno di quello stesso anno, il 1956, il New York Times aveva reso noto il discorso pronunciato da Kruscev pochi mesi prima al XX congresso del Pcus: il cosiddetto “rapporto segreto” che denunciava i crimini dello stalinismo e condannava il culto della personalità. Poi, qualche tempo dopo, c’erano state, prima, la rivolta di Poznan che aveva assunto presto il carattere di una manifestazione anti russa e, poi, le giornate dell’ottobre polacco che si erano concluse con il ritorno al potere di Wladislaw Gomulka, a suo tempo destituito da Stalin con l’accusa di deviazionismo ideologico, e che avevano finito per avallarne l’immagine non tanto di un dirigente comunista riformista, quanto piuttosto di un leader nazionale il cui avvento significava la fine dello stalinismo». Sullo sfondo – ma è solo un modo di dire – di quei fatti, si staglia anche la Crisi di Suez, a segnalare il groviglio di contraddizioni e tensioni che segnavano l’imperialismo di quel tempo, il cui assetto si consolidò proprio dopo l’ultimo disperato tentativo di Francia e Inghilterra di conservare il vecchio rango di grandi Potenze mondiali. Le rivolte antisovietiche del ’56 e la Crisi di Suez possono dunque essere interpretate anche come scosse di assestamento del Nuovo ordine mondiale determinato dalla Seconda guerra mondiale? Credo di sì. Di qui, l’alleanza di fatto che allora il mondo registrò tra Stati Uniti e Unione Sovietica, entrambe interessate a conservare l’equilibrio geopolitico fissato a Yalta. Negli anni Ottanta, altre scosse telluriche (a cominciare dagli scioperi nei cantieri navali di Danzica e dalla nascita di Solidarność) manderanno in pezzi uno dei pilastri che reggevano «il mondo di Yalta». Ma Cerchiamo di mettere un po’ d’ordine nei fatti, e soprattutto nella loro interpretazione – perché qui ciò che più conta non è la ricostruzione dei fatti, ma appunto la loro interpretazione: il lettore perciò mi scuserà se si troverà dinanzi a delle imprecisioni cronologiche più o meno “imbarazzanti”.

La cosiddetta destalinizzazione del regime sovietico ufficializzata da Chruščёv al XX Congresso del Pcus è un buon punto di partenza per comprendere i fatti ungheresi? Sì, ma solo se comprendiamo il vero significato di quel fenomeno, cosa che ci obbliga a tenerci a debita distanza dalle letture ideologiche che della destalinizzazione fecero allora – e ne fanno oggi – gli amici e i nemici del “socialismo reale”. Detto in altri termini, non si comprende l’autentico significato della destalinizzazione politico-ideologica del regime sovietico, e del suo necessario risvolto internazionale, senza analizzare la destalinizzazione economica in atto in Unione Sovietica prima di quel fatidico Congresso. Non si tratta di un puntiglio dottrinario di stampo vetero-materialista, ma della sola via d’accesso alla comprensione degli eventi qui ricordati che riesco a concepire. Poi ovviamente ognuno è libero di seguire la strada che più gli aggrada, che crede più corretta.

La politica di destalinizzazione della struttura di potere che aveva nel Pcus il suo pilastro più importante e il suo cervello, apparve necessaria e non più rinviabile quando la crisi sistemica del vecchio Capitalismo di Stato di stampo “sovietico” iniziò ad avvitarsi pericolosamente su se stessa, così da convincere la riluttante leadership moscovita che piccole riforme strutturali non sarebbero bastate a mettere il treno dello sviluppo economico sui binari della necessaria modernizzazione capitalistica – di cui la «corsa al primato nello spazio» era l’aspetto più eclatante e propagandistico, a Est come a Ovest. La prima fase, quella “eroica” (beninteso per lo Stato Russo e per il Capitale “sovietico”, non certo per i lavoratori e per i contadini russi!), dell’accumulazione capitalistica post rivoluzionaria si basò fondamentalmente sull’industria pesante (metallurgia, costruzione di mezzi di produzione, industria mineraria, industria chimica, cantieristica navale, ecc.), la quale aveva consentito di accelerare i tempi e di incrementare i ritmi della crescita, per un verso, e  per altro e fondamentale aspetto aveva permesso di sostenere le storiche ambizioni imperialistiche del Paese (prima navi da guerra, carri armati, aerei, fucili e bombe; poi, forse, burro e carta igienica: un genere di lusso, peraltro…).

C’è da dire che questo modello economico staliniano, che – come non mi stanco di ripetere, peraltro inutilmente – nulla a che fare ebbe mai con il socialismo (né con quello “reale” né con quello “irreale”), venne imposto dalla Russia Sovietica anche ai Paesi di recente conversione “comunista” (si trattò, com’è noto, di una conversione molto… spintanea), i quali dopo la Seconda guerra mondiale subiranno un vero e proprio processo di sfruttamento imperialistico da parte dell’Unione Sovietica, che si servì delle risorse materiali e finanziarie drenate  dai “Paesi Fratelli” per rafforzarsi ulteriormente. Ciò naturalmente anche nella prospettiva dell’aspro confronto con la Superpotenza rivale, la quale da parte sua instaurò con i “Paesi Fratelli” di sua competenza geopolitica un diverso rapporto imperialistico (espressione di una più alta maturità capitalistica), come apparve chiaro quando le economie di Germania (dell’Ovest!), Giappone e Italia, tre Paesi usciti letteralmente devastati dalla guerra (bisogna dirlo, le bombe democratiche e antifasciste fecero bene il loro  sporco lavoro al servizio della “Liberazione”!), conobbero un assai precoce e intensissimo boom economico.

Strumenti della spoliazione economica attuata dall’Unione Sovietica ai danni dei “Paesi fratelli” furono i «prestiti socialisti», le società miste dominate dal capitale sovietico, le forniture a quei Paesi di attrezzature industriali made in URSS, l’imposizioni di prezzi “politici” alle merci prodotte dalla cosiddette Democrazie Popolari ed esportate in Unione Sovietica, e così via). Il peso dello sfruttamento imperialistico e della spoliazione economica gravava soprattutto sui lavoratori, ovviamente. Nella prima metà degli anni Cinquanta le condizioni di lavoro e di vita dei proletari che vivevano nelle Democrazie Popolari erano giunte al limite della sopportazione, e il «basso livello di vita della classe lavoratrice» diventò il tema più importante e scottante dibattuto nei Comitati Centrali di tutti i Partiti “operai” che con il Pcus condividevano una comune prospettiva “socialista”. Ecco, ad esempio, cosa si legge nel rapporto presentato al CC il 18 luglio del 1956 dal Segretario del Partito Operaio Polacco Edwar Ochab: «Già molto tempo prima degli avvenimenti di Poznan, il Comitato Centrale si era occupato delle misure da adottare per migliorare il basso livello di vita della classe lavoratrice, ma i miglioramenti sono risultati insufficienti. […] La Polonia vive male e ciò dipende dalla situazione generale della nostra economia, dalle difficoltà della situazione internazionale e dai numerosi problemi collegati alla ricostruzione di un paese depresso e distrutto dalla guerra. Il governo non ha fatto ancora tutto il possibile per venire in aiuto dei lavoratori, e la massa, che sperava in un miglioramento attraverso l’applicazione del Piano Sessennale, ha invece veduto che in pratica nulla è cambiato». Nell’estate di quell’anno gli operai delle officine Stalin (!) di Poznan rompono gli indugi e proclamano uno sciopero che presto si caricherà di pericolose valenze politiche – pericolose, beninteso, per i regimi “socialisti” dell’Est e per la stessa Unione Sovietica, certo, ma anche per i regimi democratici dell’Ovest, che se esultavano per il fallimento del “socialismo”, tuttavia temevano come la peste il contagio operaio, la cattiva emulazione proletaria, il “vento dell’Est”. Come scrisse una volta il mangia patate di Treviri, contro il proletariato in lotta le classi dominanti di tutto il mondo, che di solito non si risparmiano sputi, calci e pugni, si trovano invece solidali contro il comune nemico di classe. Questo è piacevole ricordarlo anche contro il Sovranismo di “sinistra” (per intenderci, quello che difende gli interessi geopolitici della Russia, della Cina, dell’Iran e di tutti gli avversari degli Stati Uniti) di questi tristissimi tempi.

Il regime polacco cercò di arginare la rivolta operaia usando, alternativamente, bastone e carota, ma alla fine, quando una saldatura tra lotte operaie e malcontento studentesco appare possibile e perfino prossima, il governo di Varsavia optò decisamente per il pugno di ferro, che tuttavia non sortì del tutto l’effetto sperato, almeno fino a novembre. A ottobre Chruščёv si precipitò a Varsavia accompagnato da un manipolo di generali sovietici (tanto per mettere le cose in chiaro), ma subito ripartì per Mosca frastornato dalla lotta politica che dilaniava il Partito “fratello” polacco. Come ricorda Perfetti, «le giornate dell’ottobre polacco si erano concluse con il ritorno al potere di Wladislaw Gomulka, a suo tempo destituito da Stalin con l’accusa di deviazionismo ideologico [leggi: di titoismo], e avevano finito per avallarne l’immagine non tanto di un dirigente comunista riformista, quanto piuttosto di un leader nazionale il cui avvento significava la fine dello stalinismo».

Il 23 ottobre il Circolo Petöfi di Budapest organizza nella capitale ungherese una manifestazione di solidarietà con i rivoltosi polacchi; il governo prima la vieta, ma poi capisce che non autorizzarla avrebbe potuto far salire improvvisamente la pressione sociale che sa essere già molto alta nel Paese. Il bastone della repressione si nasconde nell’ombra e lascia la scena alla carota della «democratica manifestazione del dissenso». Il governo confida pure nell’isolamento degli studenti e degli intellettuali che avevano indetto la manifestazione, ma sbaglia i conti, e difatti migliaia di operai e di impiegati lasciano il loro posto di lavoro per convergere nel luogo convenuto. La leadership ungherese subisce il colpo e reagisce riabilitando in fretta e furia Imre Nagy, già emarginato dalla “cricca stalinista” del Partito in quanto esponente di punta del “nuovo corso” già prima che da Mosca venisse annunciata la necessità della destalinizzazione. Ma la riabilitazione dell’antistalinista Nagy non basta a placare la piazza, anche perché la lotta interna al regime ungherese sfocia in vere e proprie provocazioni lanciate contro i manifestanti accusati dalla “cricca stalinista” di intelligenza con l’imperialismo occidentale. Accusa subito ripresa e rilanciata dallo stalinismo internazionale, togliattismo compreso.

Da parte loro, i lavoratori e gli studenti ungheresi non aspettavano altro per far esplodere una rabbia covata in anni di miseria, di supersfruttamento, di oppressione politica; quando la misura è colma, qualsiasi cosa, anche il più insignificante pretesto, può agire da micidiale detonatore. Una piccola scintilla può incendiare una grande prateria, scriveva qualcuno. Commetteremmo tuttavia un grosso errore se concentrassimo la nostra attenzione sulla casuale quanto preziosa scintilla, trascurando di analizzare le cause che hanno consentito l’accumulo del materiale infiammabile e il superamento della soglia critica esplosiva. Nel nostro caso quelle cause si compendiano, ieri come oggi, nel concetto di processo sociale capitalistico, un processo cha va colto in tutta la sua complessa, contraddittoria e multiforme dimensione – sociale e geopolitica. Scrivo questo anche per prendere le distanze dalla tesi che attribuisce la causa più importante dei “fatti” qui esaminati alla proclamazione della destalinizzazione e alla lotta tra “stalinisti” e “antistalinisti”, tra “falchi” e “colombe”, tra “conservatori” e “riformisti”, tra “socialismo autoritario” e “socialismo libertario”, e via di seguito. Personalmente chiamo in causa due concetti chiave: quello, già citato, di processo sociale capitalistico e quello, evocato nelle pagine precedenti e intimamente correlato al primo, di lotta di classe. Se, come scrive Andrea Tarquini su Repubblica del 22 ottobre, «Oggi quella rivoluzione viene commemorata in tono minore dal leader nazionalconservatore Orbán», probabilmente ciò non è dovuto solo alla prudenza diplomatica del leader ungherese, il quale «non vuole mettere a repentaglio l’amicizia con Putin»; la cosa si può forse spiegare anche con la dinamica sociale di quella «rivoluzione», che non può essere spiegata solo in termini di aspirazioni nazionalistiche frustrate e di astratte idealità: tutt’altro. Forse la combattività, le rivendicazioni, le realizzazioni (i Consigli, in primis), le speranze e financo le illusioni espresse sessant’anni fa dai lavoratori ungheresi è meglio che cadano nel più completo oblio. Ma riprendiamo il bandolo della narrazione.

Già il 23 ottobre la piazza si infiamma; migliaia di lavoratori e di studenti si armano con l’aiuto dei soldati delle caserme e degli operai che lavorano nelle officine degli arsenali; la “piattaforma rivendicativa” avanzata dal movimento sociale al regime equivale a una ingiunzione di sfratto: diminuzione dei ritmi e dei carichi di lavoro imposti dal governo (è il Capitalismo di Stato, bellezza!), diritto di sciopero, fine del sindacalismo di regime instaurato nel 1948, agibilità politica per lavoratori, studenti e intellettuali (2), ritiro delle truppe sovietiche d’occupazione. Il 24 ottobre a Budapest ha luogo una violenta battaglia davanti al parlamento, dove si fronteggiano da una parte gruppi di lavoratori e di studenti armati, e dall’altra forze di sicurezza (AVH, l’odiata e temuta polizia politica) e carri armati sovietici. Interviene anche l’aviazione sovietica, e Radio Budapest ne dà tempestiva informazione, anche a riprova della sorda lotta di potere tra filosovietici e antisovietici che dilania il regime. Gli operai delle officine Cespel, spina dorsale del movimento sociale ungherese, proclama lo sciopero generale, a cui aderiscono immediatamente i lavoratori di diversi centri industriali sparsi per il Paese; a Miskolc, Szeged, Gyoer e altrove i lavoratori si organizzano in consigli e in comitati di lotta. Gli intellettuali e gli studenti hanno iniziato con coraggio la rivolta, ma adesso sono i lavoratori alla testa del movimento, il quale mette insieme in un confuso – ma sempre interessante e cangiante – coacervo rivendicazioni genuinamente classiste (aumenti salariali uguali per tutti, allentamento dei ritmi produttivi, alloggi migliori, diritto allo sciopero, sindacato indipendente, ecc.) e rivendicazioni schiettamente nazionaliste che ben si comprendono alla luce dell’oppressiva presenza imperialista dell’Unione Sovietica nel Paese. Ho scritto si comprendono, non si condividono. Per il proletariato il nazionalismo – o sovranismo che dir si voglia – è sempre una risposta sbagliata all’oppressione imperialista, che va combattuta dispiegando il massimo dell’internazionalismo possibile, in ogni circostanza. Ciò non in ossequio ad un astratto principio, o per fedeltà alla pulciosa barba di qualche antico comunista («Proletari di tutto il mondo…»), ma sulla scorta di un’adeguata lettura del processo sociale, il quale non smette appunto di convalidare la tesi internazionalista – soprattutto in grazie del sacrificio richiesto, in “pace” come in guerra, ai proletari nel nome dei «superiori interessi nazionali».

Ad esempio, a Miskolc la radio locale in mano ai ribelli del consiglio operaio diffonde un comunicato che proclama la necessità di «un governo ove siano installati dei comunisti devoti al principio dell’internazionalismo proletario, che sia prima di tutto ungherese e che rispetti le nostre tradizioni nazionali e il nostro passato millenario». Che confusione, nevvero? Per le classi subalterne la coscienza di classe è una conquista, che esse strappano alla società attraverso un lungo processo, fatto di lotte e di sconfitte, di avanzate e arretramenti, di illusioni frustrate e di fecondi insegnamenti; non è, cioè, qualcosa che possa venir fuori all’improvviso, quasi fosse affidata a un singolo e miracoloso atto. E questo tanto più nel momento in cui i concetti più elementari della coscienza di classe hanno dovuto subire l’odioso trattamento stalinista, il quale aveva travisato, deformato e svuotato di significato parole e concetti che un tempo avevano appunto espresso la coscienza rivoluzionaria degli sfruttati e degli oppressi. È alla luce di questo maligno trattamento, il cui retaggio purtroppo si fa ancora sentire, che bisogna leggere le confuse parole del comunicato appena citato (come di moltissimi altri allora sfornati a un ritmo impressionante, quasi a voler compensare il tempo perduto), con il quale non ha alcun senso polemizzare, tanto più dopo sessant’anni. Dire che allora si trattò di una rivolta, per quanto importante e promettente (soprattutto dal punto di vista di chi ha sempre avuto in odio – di classe – lo stalinismo), e non di una rivoluzione sociale mi sembra quasi banale, e anche qui avrebbe poco senso, almeno per quanto mi riguarda, polemizzare con chi credette di assistere a eventi di portata rivoluzionaria paragonabili a quelli che resero possibile la Comune di Parigi (1871) o l’Ottobre Rosso (1917), e certamente la mia postuma simpatia, se così si può dire, va interamente a chi si schierò, “senza se e senza ma”, dalla parte dei lavoratori e degli studenti polacchi e ungheresi, contro la polizia “popolare” governativa e i carri armati sovietici, sostenuti invece dagli stalinisti occidentali, cominciare da quelli italiani, che li bollarono senz’altro come «agenti provocatori al soldo del nemico».

«Particolare esecrazione è mostrata dall’Unità per i membri del Consiglio operaio in rivolta. Con un clamoroso capovolgimento, gli operai di Budapest (“elementi declassati, divenuti operai negli ultimi anni”, si minimizzava) che avevano aderito in massa alla rivoluzione erano accusati di aver spalancato le porte ai nemici di classe, e nel contempo venivano elogiati contadini e piccoli proprietari rimasti in disparte (anzi, secondo l’Unità, erano stati “i primi ad invocare l’ adozione di drastiche misure contro coloro che minacciavano di aprire la strada al ritorno del feudalesimo”). I giovani operai vengono definiti “giovinastri”, “sfaccendati”, reclutati da “ufficiali horthysti” in ragione del loro “primitivismo” e “infantilismo politico” [praticamente li si accusava di “deviazionismo bordighista”!]. Stesso discorso vale per i loro coetanei italiani, studenti che “hanno disertato le aule per inscenare una manifestazione” unendosi ad “alcuni gruppi di persone estranee alla scuola”. […] Il direttore dell’Unità di Roma, Pietro Ingrao (3) ammetteva la possibilità del dubbio (“Domani si potrà discutere e anche differenziarsi sui modi e sui tempi della rivoluzione socialista”), ma aggiungeva che “quando crepitano le armi dei controrivoluzionari, si sta da una parte o dall’altra della barricata”: in poche parole che bisognava schierarsi a favore dell’invasore russo» (4). Anche Giorgio Napolitano scese in campo contro la «controrivoluzione», come ricordo in un post di qualche anno fa (Gli scheletri nell’armadio di Re Giorgio), e così fece un altro futuro Presidentissimo, Sandro Pertini: «Se tacessimo, cesseremmo di essere socialisti, e diverremmo, sia pure inconsapevolmente, complici della reazione che in Ungheria tenta di riaffermare il suo antico potere». Premio Stalin – o Chruščёv – a Pertini! Alla Camera dei deputati il focoso Giancarlo Pajetta «lanciò alto il grido di “Viva l’Armata Rossa!”»; chissà, forse intendeva dire Russa. Forse.

Senza dubbio il titolo di Migliore (fra gli stalinisti) attribuito a Togliatti è meritatissimo, e lo dimostrano ampiamente proprio i suoi scritti del ‘56 tesi a individuare con consumata maestria politica i “cattivi maestri” che avevano traviato la gioventù operaia e studentesca d’Ungheria, a cavillare su “errori” governativi e “orrori” appena denunciati (maledetto «culto della personalità»!), e naturalmente a giustificare il pugno di ferro contro i “nemici del popolo” che loro malgrado le forze del Socialismo, del Progresso e della Pace (se non in questo, almeno nell’altro mondo!) avevano dovuto usare. Come scrive Alessandro Frigerio nel suo libro Budapest 1956. La macchina del fango. La stampa del Pci e la rivoluzione ungherese: un caso esemplare di disinformazione (Lindau, 2012), i vertici del “comunismo” italiano e i tanti intellettuali (5) che orbitavano intorno al Pci difesero l’intervento militare sovietico in Ungheria «anche quando era ormai evidente che l’esercito sovietico stava schiacciando una rivoluzione di popolo in cui l’unica vera contaminazione non era rappresentata da fantomatiche forze restauratrici, bensì dai consigli operai, cioè da quelle stesse forme di democrazia diretta che avevano reso possibile la conquista del potere a Pietrogrado nell’ottobre 1917». L’ingenuità politica di Frigerio fa quasi tenerezza: proprio perché paventavano, al pari dei “compagni” ungheresi e russi, la «contaminazione» operaia gli stalinisti italiani si schierarono dalla parte dei carri armati inviati da Mosca! Il falso paradosso che mostra gli amici degli operai sparare contro gli operai, si dissolve non appena si comprende la natura borghese di un Partito che continuava a chiamarsi “comunista” benché con il comunismo, quello vero intendo, esso non avesse più nulla a che fare almeno dai primi anni trenta del secolo scorso, da quando cioè il processo di stalinizzazione del Partito nato nel ’21 a Livorno, iniziato già nella seconda metà del decennio precedente, poté dirsi concluso, con la formazione di un ottimo strumento di conservazione sociale al servizio dell’Unione Sovietica e della classe dominante italiana – questo apparirà chiaro ai più solo più tardi, quando la disfatta del regime fascista imporrà al Paese nuove alleanze internazionali e una nuova leadership politica. Quanto alla Rivoluzione d’Ottobre del ’17, essa entrò in gravissima sofferenza già alla fine del 1920, dopo lo smacco subito dall’Armata Rossa alle porte di Varsavia, quando apparve chiaro che il proletariato occidentale, in primis quello tedesco, non sarebbe corso in aiuto al Potere dei Soviet, come aveva legittimamente sperato Lenin architettando il Grande Azzardo, lasciando gli stessi bolscevichi in un drammatico isolamento che presto si sarebbe rivelato mortale. Nel mio libro Lo scoglio e il mare cerco di ricostruire il complesso dei fatti – in realtà dei processi – che alla fine trasformeranno il Partito Bolscevico di Stalin in un feroce quanto efficace strumento al servizio della controrivoluzione mondiale e dello sviluppo capitalistico nell’arretrata Russia. Nel libro lo stalinismo è presentato come una tendenza storico-sociale oggettiva, non come il prodotto di una personalità dalla mente particolarmente contorta, gravata da piccole e grandi magagne caratteriali, come invece sostenne la nuova leadership sovietica dopo la morte di Stalin: la politica del capro espiatorio da dare in pasto alle “masse” deluse, frustrate e affamate ha sempre funzionato – e l’animaccia di Benito Mussolini ne sa qualcosa… Le turbe psichiche, le inclinazioni criminali e le paranoie di Baffone, che naturalmente mi guardo bene dal negare, non spiegano un bel niente e perciò le lascio al gossip storiografico che pensa di poter spiegare tutto – e il suo contrario – a partire dai “lati oscuri” che non mancano mai nella biografia dei grandi personaggi storici. Come già accennato, il feroce regime dittatoriale passato alla storia col nome di stalinismo fu funzionale 1. alla distruzione delle conquiste politiche dell’Ottobre rimaste ancora in piedi nonostante tutto (sul terreno economico non apparve mai sul suolo russo nulla che si potesse definire socialista e comunista in senso proprio, compreso lo stesso «Comunismo di guerra», come peraltro ammetterà Lenin in sede di critica e di autocritica); 2. alla costruzione a tappe forzate e a ritmi accelerati di un moderno Capitalismo in Russia, e 3. alla ripresa e al rafforzamento del ruolo internazionale del Paese, e ciò in larga parte in continuità con il vecchio retaggio zarista. La necessità di un “ammorbidimento” del regime dittatoriale si presenterà, come abbiamo visto, negli anni Cinquanta, allorché la vecchia strategia di sviluppo capitalistico mostrerà tutti i suoi limiti, dopo aver prodotto tutti i frutti – velenosi, soprattutto per i lavoratori e i contadini – che essa poteva produrre. Credo che la destalinizzazione (6) vada considerata alla luce di quanto qui sommariamente ricostruito. Facile merce propagandistica, la “destalinizzazione” reclamizzata dai post stalinisti, da vendere all’opinione pubblica interna e internazionale, e soprattutto a quei milioni di lavoratori di tutto il mondo che in buona fede, ma in cattivissima coscienza, avevano visto nell’Unione Sovietica, se non una valida alternativa al Capitalismo di stampo occidentale (soprattutto se di marca americana!), almeno qualcosa da agitare a mo’ di spauracchio contro i padroni e contro i partiti “reazionari” che li sostenevano. Riprendiamo il filo del racconto, per concluderlo rapidamente.

In una precedente citazione, Paolo Mieli faceva cenno ai contadini e ai piccoli proprietari. Ebbene, alla fine anche questi due strati sociali, che in realtà in larga parte coincidevano, si uniranno al movimento sociale di protesta. La riforma agraria varata dal governo “socialista” dopo la guerra aveva infatti trasformato gran parte dei contadini poveri ungheresi in piccoli proprietari di appezzamenti insufficienti a garantire loro un’esistenza appena decente. La riforma agraria dei “socialisti” aveva dato a molti contadini la gretta mentalità del piccolo proprietario (che troverà puntuale espressione nel Partito dei piccoli proprietari guidato da Tildy), ma non una vita migliore. Anche i risultati della riforma agraria del secondo dopoguerra alimenteranno lo scontro politico nel Partito.

Alla fine di ottobre lo stalinista di stretta osservanza moscovita Mátyás Rákosi, leader della fazione filosovietica, cade in disgrazia (capita!) e il “riformista” Nagy assume la direzione del governo; lo sciopero generale proclamato il 24 ottobre però non viene revocato dagli operai, nonostante le minacce e gli appelli lanciati dalla radio di regime: «Operai, deponete le armi, tornate al lavoro!». Minaccia e supplica sembrano fondersi in qualcosa di surreale che non annuncia niente di buono. Lo si capisce anche leggendo la stampa “comunista” del Belpaese. Il 26 ottobre la direzione del Pci rende nota la posizione ufficiale del Partito con un editoriale pubblicato sull’Unità; vi si legge che il governo ungherese si è dovuto confrontare con una «sommossa controrivoluzionaria armata, apertamente volta a rovesciare il governo democratico popolare, a troncare la marcia verso il socialismo e restaurare un regime di reazione capitalistica». La sconfitta dei ribelli quindi «non può che essere salutata da ogni democratico sincero». I togliattiani annunciarono una sconfitta che non si era ancora consumata: il solito zelo dei migliori! Come ricorda Federigo Argentieri, il Pci elevò la calunnia a cime forse mai raggiunte fino a quel momento: «La calunnia era necessaria per poter accettare l’enormità dell’accaduto: una delle due superpotenze mondiali invadeva, con grande dispiego di mezzi, uno dei paesi più piccoli d’Europa; come poteva un partito come il Pci, che si diceva schierato dalla parte della pace, contro l’imperialismo ed il colonialismo, accettare una cosa del genere?» (7). Già, come poteva…

Nagy fa qualche timida concessione economica e politica, anche nel tentativo di spezzare il fronte di lotta, che tuttavia rimane assai compatto; il 28 ottobre riconosce «il carattere nazionale e democratico della rivoluzione», impone all’esercito ungherese il cessate il fuoco e annuncia importanti concessioni, tra cui lo scioglimento della polizia segreta. La piazza applaude ma non si scioglie: il movimento ha capito che davvero l’unità fa la forza. Il 30 ottobre il Premier “riformista” (o “controrivoluzionario”, secondo i punti di vista) rompe gli indugi e annuncia la fine del regime a Partito unico e la formazione di un governo di solidarietà nazionale simile a quello di coalizione che vide la luce nel 1946. Nagy promette libere elezioni a suffragio universale, l’amnistia, la denuncia del Patto di Varsavia, una posizione di neutralità dell’Ungheria sulla scena internazionale e altro ancora. Vede la luce un nuovo governo quadripartito con “comunisti”, socialdemocratici, nazionalcontadini e piccoli proprietari.

A questo punto Mosca capisce che è arrivato il momento di tirare le somme (la paura del contagio “controrivoluzionario” era grande, soprattutto con i “fatti polacchi” ancora freschi, e d’altra parte il quadro internazionale non consentiva “distrazioni”: vedi Suez!): il 31 ottobre il Presidium del Comitato Centrale del Pcus decide di intervenire in Ungheria; il giorno successivo la famigerata Armata Russa varca le frontiere e calpesta il suolo magiaro. Come ricorda Luciana Castellina, allora giovane e promettente “comunista”, «Alle 4, con un comunicato ufficiale, Mosca, col sostegno della Cina e persino degli jugoslavi, aveva annunciato l’intervento delle proprie truppe di stanza in Ungheria. Il precario equilibrio che fino ad allora aveva evitato la guerra stava saltando. Anche nella Fgci ci fu qualche rottura. Come nel Partito. Io non partecipai alla protesta, pur con tutte le riserve sui regimi dell’est e sui giudizi minimizzanti che, pur senza censurare le informazioni, furono emessi dal Pci. Non lo feci non per non rompere la disciplina (che poi ruppi per Praga), ma perché c’era appena stato il XX congresso e l’Urss con Kruscëv sembrava stesse cambiando» (Il Manifesto, 23 ottobre 2016). Il pensiero dei militanti “comunisti” meno ortodossi non andava oltre la prospettiva di uno stalinismo “dal volto umano”, che alcuni credettero di individuare nella Jugoslavia di Tito, altri nella Cina di Mao. In ogni caso, tutti i “comunisti” italiani convergevano sul dogma stalinista della «via nazionale al socialismo» (8), affermato da Baffone contro la vecchia e luminosa tradizione internazionalista del movimento operaio – da Marx a Lenin. Non a caso il Partito nato a Livorno nel ’21 si chiamava PC d’Italia, e non Italiano.

Fino al 3 novembre sembra che il governo Nagy possa ancora trattare pacificamente con gli ex alleati sovietici, ma è solo un’impressione, destinata a evaporare il giorno dopo, quando i blindati sovietici attaccano le postazioni dei lavoratori in armi che difendevano le sedi di “agibilità politica” create dal movimento sociale. Nella notte tra il 3 e il 4 novembre, l’Esercito Russo entra a Budapest con 150.000 uomini e 4.000 carri armati, e in poche ore si impadronisce della città. Dal 4 al 9 novembre a Budapest infuria la battaglia, e solo con molta fatica le truppe sovietiche hanno la meglio sulla «teppaglia controrivoluzionaria» armata. Il bilancio finale della carneficina “socialista” attesterà la morte di circa 25mila ungheresi, in gran parte lavoratori. Tuttavia lo sciopero generale non si interrompe e gli operai continuano a organizzarsi nei consigli; il filosovietico Kadar, che intanto ha sostituito al governo Nagy, accoglie molte delle rivendicazioni operaie, e si dimostra rispettoso nei confronti dei consigli creati dai lavoratori, la cui autorevolezza peraltro nessuno avrebbe potuto a quel punto negare. La mossa sembra quella giusta: il 16 novembre il Consiglio di Budapest annuncia alla radio di accettare quanto promesso da Kadar e di voler interrompere lo sciopero generale. In realtà il movimento di lotta è tutt’altro che esaurito; nei mesi successivi l’iniziativa operaia farà sentire il suo peso, almeno fino a tutto il 1957, anche se il ripiegamento su un terreno più rivendicativo segnala una sconfitta politica che considerata dalla prospettiva storica appare francamente inevitabile, poste quelle condizioni. Com’è noto, pontificare col senno di poi è sempre abbastanza comodo, ma non sempre corretto, e ciò vale in primo luogo per chi scrive. Nagy e i suoi solidali si rifugiano presso l’ambasciata jugoslava, per poi consegnarsi nelle mani delle forze di sicurezza ungheresi dopo la promessa sottoscritta da Kadar di un salvacondotto; vengono però “intercettati” e sequestrati dai sovietici. L’ex primo ministro verrà impaccato a Snagov, in Romania, nel giugno 1958. Per adesso metto un punto.

ungheria-670x274(1) L. Caracciolo, Limes, febbraio 2015. Musica, questa suonata dal fondatore di Limes, per le orecchie di chi, come il sottoscritto, ha sempre denunciato, contro stalinisti e resistenzialisti d’ogni colore politico, la natura radicalmente imperialista della Seconda guerra mondiale (la cui data d’inizio, com’è noto, ha molto a che fare con il Patto nazi-stalinista del 1939), nonché il carattere altrettanto imperialista dell’ONU, il «covo di briganti» (per dirla con Lenin; o «cesso» secondo la sobria e intelligente definizione di Giuliano Ferrara) chiamato a ratificare/difendere i rapporti di forza fra le Potenze sanciti dal fatto bellico.
(2) Un concetto, quello di agibilità politica, che nella misura in cui esprime la lotta delle classi subalterne e la ricercata autonomia di classe non ha nulla a che fare con il feticismo democraticista che promana dalla prassi del potere politico delle classi dominanti basate in Occidente, e che ha nel rito elettorale una delle sue massime – e deleterie – espressioni.
(3) «La redazione era semivuota. Frugavo nei miei pensieri. Girai per ore per le vie di Roma, solo e sempre interrogandomi su quell’aggressione che mi sembrava inspiegabile e infame. C’era un cielo annuvolato quando giunsi – quasi alle soglie della sera – in casa di Togliatti a Montesacro. E gli dissi subito il mio sgomento più ancora che la mia sorpresa per quella invasione. Togliatti mi rispose asciuttamente: Oggi io invece ho bevuto un bicchiere di vino in più… Non ebbi coraggio di replicare. Mi limitai a dire che non condividevo il suo giudizio. Poi rapidamente mi avviai verso casa. C’era ancora un giorno per preparare il giornale (che non usciva il lunedì). Ma io avevo in testa pensieri che scavalcavano la questione del giornale: e poi incisero su tutta la mia vita» (P. Ingrao, Volevo la luna, Einaudi, 2006). Non c’è niente da fare, alla ricostruzione dello stalinista “pentito” preferisco di gran lunga l’esibito cinismo dello stalinista di ferro che festeggia il massacro di lavoratori e studenti: la coerenza, ancorché spesa a favore delle classi dominanti, va sempre apprezzata – e perciò stesso ancor più radicalmente combattuta.
(4) P. Mieli, Il Corriere della Sera, 3 aprile 2012.
(5) «Gli intellettuali che erano stati allevati dal Pci secondo il principio che l’Unione Sovietica era la terra della libertà, che l’Occidente capitalista era l’oppressore delle masse e dei popoli, che l’Urss era infallibile, che il Pci era infallibile, ricevettero almeno tre pugni allo stomaco durante il convulso 1956. Dapprima il XX Congresso del Pcus, con la condanna dello stalinismo da parte di Kruscev, quindi la rivolta di Poznan nel giugno e la rivoluzione ungherese a cavallo fra ottobre e novembre, con la sanguinosa repressione armata per mano sovietica, ed infine l’atteggiamento, la posizione, il ruolo assunti dalla dirigenza del Pci e quindi dal Pci stesso. Quando Togliatti appoggiò l’intervento armato sovietico in Ungheria, tutte le illusioni, le utopie, i sogni degli intellettuali comunisti andarono in frantumi» (A. Vitali, http://www.ragionpolitica.it, 23 novembre 2006). Tuttavia, una simile catastrofe politico-esistenziale non fu sufficiente a fare aprire gli occhi degli «intellettuali comunisti» sulla colossale balla speculativa (chiamata Socialismo Reale) su cui essi avevano investito il loro preziosissimo capitale umano. D’altra parte, “utopie” e “sogni” di tal fatta è giusto, è meglio che vadano in malora.
(6) «In Italia la svolta chruščëviana creò traumi e profondi imbarazzi all’interno del Pci. Impossibile pensare di avviare un analogo processo a Botteghe Oscure: destalinizzare il partito avrebbe significato detogliattizzarlo, cioè fare venire meno il ruolo del suo pontefice massimo, […] la cui vicinanza al tiranno sovietico era stata esibita con orgoglio fino a pochi anni prima» (A. Frigerio, Budapest 1956. La macchina del fango). In effetti, anche il “culto della personalità” (quella nei confronti del Migliore) doveva fare i conti, se non con la storia, con il senso del ridicolo.
(7) F. Argentieri, Ungheria 1956: la rivoluzione calunniata, I libri di Reset, Milano 1996. Nel suo libro Argentieri pubblica il testo di un telegramma, rimasto segreto fino al 1992, che Togliatti inviò alla Segreteria del CC del Pcus il 30 ottobre 1956; eccone di seguito alcuni interessanti stralci, utili a comprendere sia l’impatto che gli avvenimenti ungheresi ebbero sul Pci, che il modo di ragionare del Migliore. «Gli avvenimenti ungheresi hanno creato una situazione pesante all’interno del movimento operaio italiano, e anche nel nostro partito. […] Nel nostro partito si manifestano due posizioni diametralmente opposte e sbagliate. Da una parte estrema si trovano coloro i quali dichiarano che l’intera responsabilità per ciò che è accaduto in Ungheria risiede nell’abbandono dei metodi stalinisti. All’altro estremo vi sono gruppi che accusano la direzione del nostro partito di non aver preso posizione in difesa dell’insurrezione di Budapest e che affermano che l’insurrezione era pienamente da appoggiare e che era giustamente motivata. Questi gruppi esigono che l’intera direzione del nostro partito sia sostituita e ritengono che Di Vittorio dovrebbe diventare il nuovo leader del partito. […] Nel momento in cui noi definimmo la rivoluzione come controrivoluzionaria ci trovammo di fronte a una posizione diversa del partito e del governo ungheresi e adesso è lo stesso governo ungherese che esalta l’insurrezione. Ciò mi sembra errato. La mia opinione è che il governo ungherese – rimanga oppure no alla sua guida Imre Nagy – si muoverà irreversibilmente verso una direzione reazionaria. Vorrei sapere se voi siete della stessa opinione o siete più ottimisti. Voglio aggiungere che tra i dirigenti del nostro partito si sono diffuse preoccupazioni e che gli avvenimenti polacchi e ungheresi possano lesionare l’unità della direzione collegiale del vostro partito, quella che è stata definita dal XX congresso. Noi tutti pensiamo che, se ciò avvenisse, le conseguenze potrebbero essere molto gravi per l’intero nostro movimento». Togliatti temeva insomma che la transizione dallo stalinismo vecchia maniera al “nuovo corso” (uno stalinismo “soft”) potesse distruggere l’opera di un’intera vita – spesa al servizio delle classi dominanti.
(8) Come dimostra anche il famoso Manifesto dei 101 “dissidenti”: «Se non si vuole distorcere la realtà dei fatti, se non si vuole calunniare la classe operaia ungherese, […] occorre riconoscere con coraggio che in Ungheria non si tratta di un putsch o di un movimento organizzato dalla reazione […] ma di un’ondata di collera che deriva dal disagio economico, da amore per la libertà e dal desiderio di costruire il socialismo secondo una propria via nazionale». Come ricorda E. Carnevali in un breve saggio del 2006, i rappresentanti dei “dissidenti” ebbero un duro colloquio con Giancarlo Pajetta, che li accusò, peraltro non senza ragione, di mancare di realismo: «Il mondo è diviso in due blocchi… forse non sapevate che l’Estonia, la Lituania e la Lettonia sono occupate dai russi?» (I fatti d’Ungheria e il dissenso degli intellettuali di sinistra. Storia del Manifesto dei 101, Micromega, 9/2006). O di qua o di là: non si può essere filosovietici a metà! La randellata stalinista di Pajetta si adagiava, per così dire, sulla testa di personaggi che, non comprendendo la natura capitalista e imperialista dell’Unione Sovietica, cianciavano di «amore per la libertà» mentre sostenevano l’esigenza di appoggiare, in ogni caso («a prescindere», avrebbe detto il compagno Totò), il cosiddetto «Campo Antimperialista», al cui centro ovviamente troneggiava la Russia “socialista”. Chiunque osasse affermare che i due opposti – sul piano geopolitico – poli imperialistici (Usa e URSS, poi si aggiungerà la Cina)  condividevano un’identica natura di classe, veniva bollato come un agente provocatore al soldo dell’imperialismo – cioè degli Stati Uniti. C’è da dire, che nel giro di pochi giorni il gruppo dei dissidenti che firmarono il Manifesto di cui sopra si assottigliò alquanto; qualcuno di essi, come Antonello Trombadori, sfidò addirittura il ridicolo giurando di non averlo mai sottoscritto, altri si produrranno in abiure degne della causa stalinista che peraltro avevano sempre sostenuto acriticamente.

CONSIDERAZIONI – ABBASTANZA INATTUALI – SU ADORNO E SU ALTRO

chagall2La sofferenza incessante ha tanto
il diritto di esprimersi quanto il
martirizzato di urlare (T. W. Adorno).

Basterebbe allo spirito un piccolo
sforzo per liberarsi dal velo di
questa parvenza onnipotente e
pur nulla: ma questo sforzo
pare di tutti il più difficile
(M. Horkheimer, T. W. Adorno).

Attualità di Adorno: è questo il titolo che Sandro Dell’Orco ha voluto dare al suo interessante articolo scritto in occasione del «50° anniversario della pubblicazione di Dialettica negativa» (1966). Qui mi propongo di affrontare un solo aspetto, squisitamente storico-politico, dei problemi messi sul tappeto dall’autore, cioè a dire il rapporto tra Adorno (e la «teoria critica» in generale) e il cosiddetto «socialismo reale» (e la sinistra, più o meno “radicale”, in generale). Come il lettore può facilmente constatare, si tratta di temi che si sposano bene con il clima agostano, diciamo… Sul merito propriamente filosofico della Dialettica negativa mi piacerebbe scrivere qualcosa quanto prima. Si vedrà!

«Diciamolo subito», esordisce Dell’Orco, «Adorno è stato sostanzialmente dimenticato dalla cultura mondiale dall’anno della sua morte. Come il marxismo, a cui si ispirava, è stato spazzato via dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica». A mio avviso, e provando a guardare la cosa anche dal punto di vista della «teoria critica» di Adorno e Horkheimer, il fatto denunciato da Dell’Orco per un verso mi appare scontato e necessario, e per altro verso mette a nudo una concezione, quella di Dell’Orco, che sembra avere poco a che fare con un pensiero autenticamente critico-radicale (“marxista” o “rivoluzionario” che dir si voglia), il quale vive, e può vivere, solo lontano «dai luoghi della cultura istituzionale e mediatica», ossia dai centri di elaborazione della cultura e dell’ideologia dominanti. Lontano e contro questi «luoghi». Il “marxismo positivo”, per parafrasare l’Hegel critico della «religione positiva» (ossia istituzionalizzata e canonizzata), equivale alla sclerotizzazione burocratica e alla morte del marxismo.

Mi rendo conto che l’intellettuale cresciuto sotto l’influenza dell’ideologia gramsciana debba pensarla diversamente da me. E infatti, il Nostro continua come segue: «Di fatto, a partire dagli anni ottanta e soprattutto dal 1989, il marxismo da teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali, diviene una teoria di nicchia, come ai suoi primordi; sociologicamente una sorta di riserva indiana in cui pochi e attempati superstiti o reduci, in attesa di scomparire, ripetono alla luna le loro verità». Ma non è sospetto un punto di vista che si presenta al mondo in guisa di prospettiva radicalmente rivoluzionaria e che poi si afferma come una «teoria egemone nelle istituzioni culturali, politiche e sociali» (borghesi)? La cosa appare quantomeno contraddittoria, almeno agli occhi di chi, come il sottoscritto, non ha mai dato alcun credito alla teoria gramsciana dell’egemonia, la quale ha ben servito il processo di distruzione dell’autonomia teorica e politica del movimento operaio, progressivamente neutralizzato e integrato nel “sistema”, per la felicità dei teorici della «democrazia progressiva» o «Terza via» che dir si voglia. Il fatto che una teoria rivoluzionaria (non solo a chiacchiere, com’è il caso di quelle teorie “radicali” che tanto piacciono agli intellettuali “radicali”) sia costretta a vivere in una dimensione «di nicchia», salvo rare eccezioni, è qualcosa che si spiega con la stessa natura di quella teoria, in considerazione del fatto, cioè, che l’ideologia dominante è quella che fa capo alle classi dominanti. È solo con il “marxismo” formato Seconda Internazionale e Terza Internazionale stalinizzata che si afferma nel cosiddetto Movimento operaio internazionale l’idea che la teoria e la parassi (Partito compreso) devono essere rigorosamente “di massa”, sempre e comunque, a prescindere cioè dal grado di maturazione politica delle mitizzate “masse”, dalla loro effettiva capacità antagonista, dal loro livello di autonomia nei confronti di tutte le fazioni capitalistiche (1). Un fondamentale problema, quello appena evocato (una teoria e una prassi rivoluzionarie possono sempre seguire una “linea di massa”?), che lo stalinismo internazionale avrà cura di rubricare come “sindrome settaria”; un’operazione ideologica, questa, tesa a denigrare e a calunniare i «falsi amici del proletariato» (cioè gli antistalinisti), e che ebbe nel partito “comunista” di Togliatti un esempio forse insuperato nel contesto dello stalinismo europeo.

Il paradosso narrato da Dell’Orco avrebbe un qualche senso qualora il mondo si fosse trovato, prima dei “maledetti” anni Ottanta (il decennio della “controrivoluzione neoliberista”), alle soglie della rivoluzione sociale, come peraltro egli sembra credere: «Adorno, marxista, si eclissa, come tutti gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.) che risplendevano, magari offuscandosi a vicenda, all’orizzonte dell’imminente riscatto dell’umanità. Il neoliberismo non fa distinzioni, è totalitario, con un solo colpo di scopa spazza via Marx e tutti i marxismi. Non con la forza delle idee, naturalmente, ma con quella del denaro, con cui si compra governi, media e istituzioni culturali in ogni parte del pianeta». A un passo dall’Evento palingenetico, il totalitarismo neoliberista diede scacco matto a ogni forma di “marxismo”: Adorno perde e va in soffitta, Habermas vince e va al potere – nelle università, nei partiti “operai”, nei sindacati, nelle istituzioni “borghesi” genericamente intese. Che dire? Mi scuso con il lettore, ma io ho guardato un altro film, oppure mi son distratto un attimo, non saprei dire. Per tacere circa la congruità dell’accostamento che Dell’Orco propone tra Adorno e «gli altri autori marxisti (Lukács, Althusser, Gramsci, Lenin, ecc.)». Non nascondo anche una settaria curiosità sui nomi degli «altri autori marxisti» che l’autore incorpora nell’eccetera.

Insomma, io non ho visto alcuna rivoluzione sociale alle porte (soprattutto compulsando libri e riviste: non sono poi così vecchio!), e d’altra parte il riferimento di Dell’Orco al famigerato 1989 forse ci dice qualcosa sulla natura del presunto quanto «imminente riscatto dell’umanità» cui egli accenna. L’allusione è ovviamente alla crisi definitiva del cosiddetto «socialismo reale», almeno nella sua variante russa; modello politico-sociale che non solo non spaventava neanche un po’ l’«Occidente capitalista» (se non sul piano della competizione interimperialistica, ma questo è un altro discorso), ma piuttosto portava tantissima acqua al suo mulino propagandistico: «Proletari, vedete cosa vi aspetta nel tanto strombazzato socialismo? Il capitalismo non sarà forse il migliore dei mondi possibili, ma di certo il socialismo non vi offre una vita migliore». Beninteso, il falso socialismo di matrice stalinista/maoista di reale aveva soltanto la sua natura capitalistica, un fatto incomprensibile per chi assimila senz’altro il “socialismo” al capitalismo di Stato, un’idiozia dottrinaria che lo stesso Marx ebbe modo a suo tempo di criticare – bastonando ad esempio il «socialismo di Stato» di Lassalle. Ma su questo punto ritornerò tra poco.

A mio giudizio, chi sostiene che il «Socialismo reale» ha avuto almeno il grande merito di far pendere la bilancia dei rapporti di forza tra le classi a favore degli operai occidentali, mostra tutta la sua inconsistenza concettuale e politica, quantomeno come aspirante “rivoluzionario”. Se non si viene fuori dalla confortante – e reazionaria – mitologia del “Trentennio felice” (i tre decenni che seguirono la Seconda carneficina mondiale), la comprensione dell’attuale tragedia storico-sociale (rimanere sequestrati nella disumana dimensione del Dominio mentre la liberazione ci sorride da molto vicino) resta inaccessibile, se non per alcuni suoi aspetti superficiali e periferici, con quel che ne segue necessariamente – e “dialetticamente” – sul terreno dell’iniziativa politica.

Scrive Dell’Orco: «La generazione del sessantotto, che nel mondo occidentale s’infatuò di Adorno, se ne sbarazzò prestissimo – se non in senso fisico (come pure polemicamente suggeriva Beckett) certamente in senso intellettuale. I sessantottini desideravano agire immediatamente, passare all’azione, e chi li invitava a illuminare la propria prassi col pensiero, venne messo nella lista dei “nemici” e dimenticato. La fine che fece poi quella prassi cieca la si conosce, e Adorno che l’aveva ampiamente prevista e combattuta, invece di essere apprezzato, fu escluso dalla teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare ancor più radicalmente di quanto non lo fosse stato dalla cultura ufficiale. Insomma una sorta di cane morto che tutti respingevano. Da un lato come “revisionista” e dall’altro come “cattivo maestro”. Ricordo che già nei primi anni settanta il suo nome era impronunciabile nelle assemblee universitarie e nelle riunioni dei gruppi della sinistra radicale». Ma tutto questo non ci invita forse a mettere in discussione la natura “rivoluzionaria” della cosiddetta «teoria rivoluzionaria della sinistra extraparlamentare» e dei «gruppi della sinistra radicale» di allora? Inutile girarci intorno: dove dominano ideologie impregnate di stalinismo, di maoismo e di terzomondismo non è possibile la maturazione di un punto di vista autenticamente critico-rivoluzionario. Il disprezzo dei nipotini di Stalin e di Mao nei confronti di Adorno e Horkheimer si spiega dunque benissimo ed è perfettamente coerente con il loro modo di concepire il mondo. «Adorno, inflessibilmente, da illuminista tenace, non arretra di fronte alla paralizzante conclusione cui la teoria lo conduce. Non si lascia intimidire dalle accuse di disfattismo, di tradimento, di intellettualismo, che gli studenti – per non parlare dei partiti comunisti – gli lanciano. Né approda al riformismo, “che dal canto suo è complice nel favorire la continuazione della cattiva totalità” [Adorno, Parole chiave,]». La mia critica ai detrattori di Adorno va oltre, e sposa, per così dire, il motto secondo cui la miglior difesa consiste nell’attacco; essa, infatti, investe direttamente e alla radice la loro stessa natura politico-sociale, la quale, come già detto, non aveva nulla a che fare con il comunismo, né con quello “ideale” che si trova nei libri di Marx ed Engels, né con quello “reale” che sarebbe stato sperimentato in Russia e altrove, come invece sembra credere Dell’Orco.

Chagall67«Che fare? Qual è la prassi giusta per affrontare e cambiare tale assetto del mondo? La profondità a cui Adorno ha spinto l’analisi del capitalismo gli fa escludere il modello proposto dalle varie dittature del “socialismo reale” e dai partiti comunisti che vi si ispirano. Il problema infatti non è solo abolire il capitalismo, ma lo stesso comportamento istintuale egoistico, il bellum omnium contra omnes, che lo produce e da cui è continuamente riprodotto. L’abolizione meramente economica del capitalismo – come i paesi socialisti hanno dimostrato – non solo non produce automaticamente la fine della condizione di possibilità del dominio, ma è compatibile con la sua degenerazione più brutale e totalitaria». E qui ritorniamo alla vera natura sociale del cosiddetto «socialismo reale», la cui esistenza non dimostra affatto ciò che sostiene Dell’Orco, peraltro sulla scia di Adorno e della Scuola di Francoforte.

Scriveva G. D. H. Cole nel remoto anno di grazia 1961, in pieno boom economico postbellico: «La differenza fondamentale fra la civiltà occidentale moderna e tutte le altre civiltà che sono esistite in passato non è tanto che essa è dinamica mentre le altre erano statiche, perché la storia umana non è mai stata statica anche quando il ritmo delle trasformazioni tecnologiche era prossima a zero, quanto il fatto che le società industriali moderne hanno fatto del progresso, dell’ansia di cambiare, la loro seconda natura. […] L’uomo moderno è stato preso in un vortice immenso di sviluppo economico che finirà per inghiottirlo se egli non riuscirà a padroneggiare le forze che minacciano la società di distruzione» (2). Il concetto di società industriale moderna non coglie l’essenza della cosa: è il dominio sociale capitalistico, infatti, che ha fatto dello sviluppo economico un imperativo categorico e degli individui degli esseri sottoposti alla cieca brama di profitti.

«L’uomo moderno» non ha mai padroneggiato le forze sociali che pure lui realizza sempre di nuovo, soprattutto attraverso il lavoro, ma le ha piuttosto subite alla stregua di potenze estranee e ostili. L’individuo è già negato come uomo, e la società industriale moderna, ossia capitalistica, rappresenta questa negazione. Come altri intellettuali del suo tempo vittime del velo tecnologico che copre la natura di classe della merce, della tecno-scienza e del lavoro salariato, Cole usava il concetto di società industriale moderna per dar conto anche del processo sociale in atto nei Paesi cosiddetti socialisti, i quali, pur avendo «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo», erano tuttavia segnati da contraddizioni sociali e da problemi esistenziali assai simili a quelli che si potevano osservare in Occidente, nei Paesi a capitalismo per così dire conclamato. Di qui, l’individuazione della causa di quelle contraddizioni e di quei problemi nel processo tecnico industriale, concepito in sé come “sviluppista”, alienante, reificante e via discorrendo. In realtà, e come già sostenuto, il «socialismo reale» (in Russia, in Cina, ovunque), lungi dall’essere «un sistema economico radicalmente diverso dal capitalismo» non era che un capitalismo di Stato (peraltro tutt’altro che “puro”!) a forte vocazione imperialistica, soprattutto sul versante “Sovietico”. Insisto su questo punto perché l’infondata interpretazione del «socialismo reale» è tutt’altro che estranea all’attuale impotenza sociale e politica delle classi dominate del pianeta, la cui speranza in un mondo a misura d’uomo è stata annichilita anche dalle diverse esperienze di “socialismo reale”.

Nel mio studio dedicato alla Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) provo a chiarire le cause e la fenomenologia della controrivoluzione che annientò totalmente le ancora fragili, limitate e contraddittorie conquiste rivoluzionarie rese possibili dal «Grande Azzardo» architettato dal partito di Lenin.

L’ansia di cambiamento di cui parlava Cole è dunque in primo luogo l’ansia del capitale di intascare profitti, ed è precisamente questa brama che costringe la società capitalistica a continui e sempre più frequenti cambiamenti, non solo in economia, ma in ogni aspetto della prassi sociale, coinvolgendo in profondità la stessa sostanza psicosomatica degli individui. La dimensione del capitalismo oggi è il mondo e, insieme, il corpo stesso degli individui, una risorsa economica capitalisticamente davvero generosa, un mercato perfetto scandagliato e coltivato con ossessiva e maniacale cura dagli specialisti del marketing. La biopolitica pensata da Foucault si è col tempo radicalizzata proprio secondo le previsioni di A. Rüstow: «L’economia del corpo sociale organizzato secondo le regole dell’economia di mercato». La distinzione “ontologica” tra «corpo sociale» e corpo umano tende a evaporare sotto la pressione del “sociale”; ogni sogno notturno è una potenziale domanda rivolta al mercato, il quale è sempre pronto a soddisfare le richieste del cliente. «L’assurdità del capitalismo totalitario, la cui tecnica di soddisfazione dei bisogni rende quella soddisfazione impossibile, tende alla distruzione dell’umanità. […] Tutti questi sacrifici superflui sono necessari» (3).

Nell’ambito della Scuola di Francoforte, soprattutto Marcuse elaborò il concetto di «società industriale avanzata»; seguendo questa cattiva strada egli giun­se appunto ad assimilare il capitalismo occidentale con «le forme at­tuali di comunismo», dove l’errore evidentemente non stava in quella assimilazione, ma piuttosto nell’ac­creditamento “comunista” dei regimi “diversamente capitalisti” radicati in Russia, in Cina e altrove. Il concetto adorniano di «capitalismo totalitario», declinato in un’accezione squisitamente sociale, e non banalmente politologica (intesa cioè a cogliere solo la struttura sociale dei regimi totalitari: fascismo, nazismo, stalinismo), saturava completamente anche la realtà sociale dei Paesi cosiddetti socialisti. In ogni caso, oggi si può ben parlare di dominio totale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici, anche in polemica con gli apologeti – attivi a “destra” come a “sinistra” – della «Civiltà occidentale», i cui “valori universali” per costoro sarebbero sottoposti agli attacchi di Paesi (come la Russia, la Cina e, in parte, la Turchia di Erdogan) e di entità politicamente “non convenzionali” (vedi il Califfato Nero) estranei al retaggio dello «Stato di diritto» e dei «diritti umani». Senza peraltro concedere nulla agli apologeti, altrettanto reazionari, dello Stato forte e sovranista, i quali hanno proprio nella Cina e nella Russia (e in generale nell’Asse antiamericano, come ai “bei tempi” della Guerra Fredda) il loro punto di riferimento geopolitico. Ma non divaghiamo!

Il rifiuto della prassi – o quantomeno la sua sospensione, in attesa di tempi più propizi – proclamato una volta da Adorno, va a mio avviso  considerato alla luce della tragedia sociale che lo vide protagonista, e che noi abbiamo ereditato. Solo così, penso, possiamo comprenderne il reale significato, coglierne l’autentica portata filosofica e politica, verificarne la vitalità/attualità. Per un verso la guerra mondiale, i campi di sterminio, il desiderio degli individui di lasciarsi rapidamente alle spalle le macerie materiali e “spirituali” della guerra, per ritornare quanto prima a «vivere normalmente», senza interrogarsi sulle profonde radici sociali che avevano generato quella catastrofe, e che promettevano di crearne altre, magari in un nuovo formato, in futuro. Per altro verso il cosiddetto “comunismo”, che non prometteva nulla di buono circa la liberazione dal Dominio: tutt’altro! Per quella che possiamo forse assimilare a una legittima difesa, Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo; ma quale «prassi» alternativa a quella democratico-riformista i due avevano allora dinanzi? È presto detto: quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale con le sue molteplici e spesso fantasiose variazioni nazionali. Prendendo congedo dalla «prassi» essi intesero dunque mettere al riparo la «teoria critica» dall’omologazione stalinista, e personalmente considero questa intenzione, questa sensibilità ideale e politica qualcosa di assai meritevole in sé e per sé, cosa che naturalmente non muta il giudizio che personalmente do alla loro interpretazione del «fenomeno-stalinismo», da Adorno e Horkheimer associato in qualche modo allo stesso pensiero marxiano.

Scriveva Adorno: «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato. […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (4). Ora, nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» (il famigerato diamat) diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e che per altro verso il cosiddetto «socialismo reale» era, e mi scuso se ripeto ossessivamente lo stesso concetto, un capitalismo (più o meno “di Stato”), quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole (vedi Minima moralia). Più esattamente: il bambino di Treviri non c’entrava niente con il bagno sporco della barbarie stalinista. Ecco perché il mio inveterato antistalinismo non mi ha mai indotto a prendere le distanze dagli aspetti ritenuti più scabrosi e insostenibili della teoria politica marxiana, come quelli, ad esempio, riguardanti la «rivoluzione sociale» e la «dittatura rivoluzionaria del proletariato», i quali certamente vanno riconsiderati alla luce del capitalismo mondiale del XXI secolo, ma senza farsi spiazzare da una cattiva (infondata) interpretazione del «socialismo reale». Non bisogna leggere Marx alla luce dell’interpretazione dominante (“mainstream”) del «socialismo reale»: è il modesto suggerimento che ho sempre dato a chi intende maturare, come chi scrive, un punto di vista critico-radicale su tutto ciò che si muove tra Terra e Cielo.

Allora (come oggi, del resto) non si trattava di sospendere la prassi, ma di elaborarne una coerente con la teoria che si poneva in assoluta contrapposizione con un mondo sempre più alienato e alienante, atomizzato e massificato, terrorizzante e terroristico (e qui siamo già in piena cronaca!), sussunto completamente sotto le imperiose leggi del calcolo economico. Una prassi all’altezza dei suoi presupposti teorici, certo, ma anche necessariamente adeguata al reale stato della “lotta di classe”. Più facile a dirsi che a farsi, non c’è dubbio. Tanto più per un intellettuale accusato dal “Movimento” di non voler sostenere la “causa del proletariato”: e meno male, dico io, considerato che in quella “causa” militavano i figli di Stalin (e poi i suoi nipotini, sotto forma di maoisti)! D’altre parte, io concepisco la prassi come una forma trasformata della teoria (e viceversa), come la continuazione della politica con altri mezzi – e viceversa. Dico questo per illuminare meglio la posizione di Adorno e Horkheimer a proposito della «prassi».

Una volta Lenin disse che i marxisti avrebbero fatto bene a costruire «una sorta di associazione di amici materialisti della dialettica hegeliana», intendendo con ciò significare che solo i marxisti potevano scoprire il lato fecondo di quella dialettica, e avvantaggiarsene sul piano politico. Riformulo la perorazione leniniana a beneficio del pensiero critico di Adorno e Horkheimer, il quale, con tutti i limiti che sono lungi dal misconoscere (ma chi non ha limiti scagli la prima frottola!), ritengo possa essere fecondo nello sforzo teorico e pratico cui accenno in questo articolo. Ad esempio, la loro critica del «tardo capitalismo», a partire dalla cosiddetta «industria culturale» e dalla dimensione sempre più totalitaria del “sociale”, offre molti spunti di riflessione utili a comprendere meglio la Società-Mondo del XXI secolo.

«La fine del dominio ha bisogno di un atto consapevole e volontario (spontaneo, autonomo) di uomini che sappiano tenere testa al proprio naturale impulso egoistico, prima che a quello degli altri. Solo uomini siffatti, che abbiano saldato i conti col proprio egoismo, e che abbiano esperito nella loro vita rapporti umani così gioiosamente amorevoli, delicati, gratuiti e solidali, da esserne legati più che a qualunque altra soddisfazione, – solo uomini siffatti potrebbero essere i soggetti credibili di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio. Ma dove sono uomini così? E come pretendere che tutti gli uomini siano così? Perché tutti gli uomini debbono esserlo affinché il bellum omnium non ricominci. Queste domande ci avvicinano moltissimo ai famosi concetti di “dialettica bloccata” o di “rifiuto della prassi” di Adorno». Ebbene, visti dalla prospettiva storica e politica che ho cercato di tratteggiare, i problemi posti da Dell’Orco assumono un aspetto diverso da quello che emerge dalla sua impostazione. Non so dire come si porrà un domani «il problema di una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», e nei miei modesti lavori mi limito a descrivere e a denunciare, contro i sacerdoti del “male minore”, il carattere necessariamente disumano – e sempre più disumano: «il peggio è adesso e non smette di peggiorare!» – del vigente regime sociale mondiale, e a prospettare la possibilità dell’auspicata emancipazione universale, avendo peraltro cura di chiarire che tale possibilità oggi è sul punto di esalare l’ultimo respiro. Insomma, l’”ottimismo della rivoluzione” – o della volontà – lo lascio volentieri a chi ha bisogno di rassicuranti certezze, mentre oggi si tratterebbe piuttosto di dare voce alla tragedia, di testimoniare la pessima condizione umana, di denunciare il carattere nichilista dei nostri tempi. Scriveva Max Horkheimer negli anni Trenta: «L’ottimismo dei proclami politici proviene oggi dalla disperazione» (5); condivido. Allora l’intellettuale tedesco considerò «prevedibile» anche «una fine innaturale» della tragedia, ossia un «salto nella libertà»; oggi una simile fine mi appare assai meno prevedibile, per non dire altro.

Quel che però so con certezza (e sono pochissime le certezze che posso esibire, purtroppo!) è che il cosiddetto «socialismo reale» non solo non depone contro «una trasformazione radicale oltre il capitalismo e il dominio», ma anzi ci parla della sua necessità, proprio perché questa miserabile esperienza si colloca tutta dentro il processo sociale capitalistico, essa è, come mi piace dire, un capitolo particolarmente ignobile del Libro nero del Capitalismo mondiale.

marc-chagall 1(1) Naturalmente il vero problema consiste nell’esistenza stessa di una massa, ossia nelle condizioni sociali che rendono possibile la trasformazione (meglio: la creazione, già in tenera età) degli individui in atomi sociali facilmente massificabili. L’identificazione con l’uomo forte da parte dei singoli «presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza dei singoli […] L’identificazione, sia con il collettivo, sia con la figura strapotente del capo, offre all’individuo un surrogato psicologico per quel che gli manca nella realtà» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001). Come mi capita spesso di dire, nella misura in cui non padroneggiamo con le mani e con la testa le fonti essenziali della nostra esistenza (a partire dalla creazione e distribuzione dei prodotti che ci tengono in vita), siamo degni della metafora nietzschiana del gregge. «La folla è un gregge docile incapace di vivere senza un padrone. È talmente desiderosa di obbedire che si sottomette istintivamente a colui che le si pone a capo. […] Il gregge esiste anche se manca un pastore» (S. Freud, Psicologia collettiva e analisi dell’Io, p. 111, Newton, 1991). Trovo quest’ultimo passo di una profondità davvero notevole, tale da far venire i brividi a chi lo colga in tutta la sua potente estensione concettuale. Posto il gregge, cioè a dire i rapporti sociali che lo rendono possibile sempre di nuovo, il Pastore è sempre dietro l’angolo, pronto a decifrare ogni variazione nella tonalità dei belati. «Pastore sarai tu il mio Signore!». «La regressione delle masse, oggi, è l’incapacità di udire con le proprie orecchie qualcosa che non sia stato ancora udito, di toccare con le proprie mani qualcosa che non sia stato ancora toccato» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, p. 44, Einaudi, 1996). Inutile ricordare, per l’ennesima volta, il maligno ruolo che lo stalinismo internazionale ha avuto nel processo di «regressione delle masse». Però intanto l’ho fatto!
(2) G. D. H. Cole, Storia economica del mondo moderno, pp. 176-177, Garzanti, 1961.
(3) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo.
(4) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254, Einaudi 1970.
(5) M. Horkheimer, Gli ebre e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 59, Savelli, 1978.

MORTO UN (RIDICOLO) MITO SE NE INVENTA UN ALTRO!

7862538873441967Luca Mastrantonio definisce «socialismo magico» il regime chavista che si radicò in Venezuela dopo le elezioni del 2007 e che sembra essere morto con le elezioni del 2015. In effetti, il “socialismo del XXI secolo” in salsa chavista aveva qualcosa di magico, nel senso che solo in virtù di categorie mutuate dal pensiero magico è possibile definire “socialista” il regime che prese il nome del defunto caudillo, nonché ex militare golpista, di Caracas. E giusto degli intellettuali “marxisti”, avvezzi a definire socialista qualsiasi misura economico-sociale statalista e qualsiasi personaggio che si definisce appunto “socialista” e che è in grado di balbettare i sacri nomi di Marx, di Lenin e (udite, udite!) di Trotsky (ma anche quelli di Mao e di Gramsci); dicevo solo personaggi di tal infido conio oggi possono piagnucolare sulla disfatta elettorale di Maduro. Vedremo tra poco qualche spassoso esempio.

Interessante è la definizione che Mastrantonio ci offre del chavismo: «Un mix di marxismo post coloniale e di culto della personalità, quella carismatica di Chávez. Un “socialismo magico” che ha mantenuto poco di quello che aveva promesso, soprattutto rispetto alle risorse che aveva a disposizione (giacimenti petroliferi, consenso ben organizzato), e che ha potuto contare sulla facile demagogia anti-nordamericana (dalla Russia all’Iran). Non a caso, i più accaniti e ciechi sostenitori del chavismo non erano gli intellettuali e gli scrittori sudamericani. No. Il chavismo spopolava fuori dal Sudamerica, tra i radical Usa come Noam Chomsky e Oliver Stone. In Italia, per esempio, piaceva ad Antonio Negri e Gianni Vattimo (ma pure alla destra nazionalista, e a vaste aree dell’antipolitica Cinque Stelle). Per loro, orfani di una Cuba scesa a miti consigli con Washington, il Venezuela era l’ultima nave battente bandiera rossa. Ma era una nave crociera, per nostalgici della rivoluzione. Che c’è stata, e ha fallito». Mi permetto di dissentire su quest’ultimo punto: in Venezuela la «rivoluzione» non ha avuto modo di fallire semplicemente perché essa non ha messo i piedi sul suolo venezuelano. Evocando l’uomo coi baffi che, più o meno segretamente, piace assai agli intellettuali “marxisti” e ai socialnazionalisti, la rivoluzione sociale in Venezuela (e peraltro ovunque nel mondo) Addavenì! Si spera! Certo, si può sempre inventarne una ogni venti o trenta anni, che problema c’è? Morta una “originale esperienza rivoluzionaria” se ne inventa un’altra!

Stessa cosa vale, ovviamente, per ciò che viene venduto all’opinione pubblica per “socialismo”. Ma è, questa, un’ovvietà che non ha alcun peso presso gli intellettuali, “marxisti” o “antimarxisti” che siano, che scrivono sui “giornaloni”, che sono saggisti di successo (che invidia!), che parlano dai pulpiti televisivi, che orientano politicamente e ideologicamente la cosiddetta opinione pubblica. Leggiamo cosa diceva ad esempio Toni Negri nel 2007: «Per me è molto interessante vedere come si sviluppa questo processo rivoluzionario, che dà il potere al popolo. Il nemico si può sconfiggere solo con la lotta di classe. Voi lo chiamate socialismo, io lo definirei comunismo». L’intellettuale padovano è sempre un passo avanti agli altri! In direzione di clamorosi errori? Non importa: comunque sia egli è sempre all’avanguardia, sempre pronto a regalare alle classi subalterne del pianeta qualche perla di saggezza rivoluzionaria. Anche Slavoj Žižek, che pure nutriva qualche dubbio sulla politica estera chavista («La sua politica estera è in qualche misura una catastrofe. Il suo approccio verso l’Iran e la Bielorussia è folle»), teneva in gran considerazione il caudillo venezuelano come credibile alternativa alla «Terza Via di Blair e Zapatero». Se le cose non stanno così, diceva l’intellettuale sloveno, «Fukuyama, quell’idiota che ha pensato che la storia fosse già finita, avrebbe avuto ragione». E noi non vogliamo darla vinta a Fukuyama, nevvero? Certo, l’alternativa concepita da Žižek mi va un po’ stretta ma posso sempre dar fondo al mio proverbiale realismo politico pur di non darla vinta alla storiografia degli idioti. Si tratta a questo punto di capire da quale parte stia la stupidità. Il lettore sta forse pensando a me? Questo non l’avevo mica previsto!

Scriveva Pino Buongiorno all’apice del successo chavista: «Questa corsa di tanti intellettuali a vedere in Chávez l’ultimo eroe se non addirittura il profeta della sinistra antimperialista, invece che un despota, lascia letteralmente senza parole uno dei filosofi più stimati in Venezuela, Massimo Desiato, già docente all’Università cattolica Andres Bello e firma domenicale di spicco del quotidiano El Nacional.”Ho cambiato il mio giudizio su Vattimo e su molti altri pensatori europei che appoggiano Chávez senza poi pagare sulla propria pelle le conseguenze del suo modo di governare. Chávez si trasforma per Vattimo, Negri e tanti altri in un simbolo e in un sintomo. Il simbolo della rivoluzione perenne e il sintomo della vecchiaia di questi intellettuali”» (Panorama). Sapete, i sicofanti della borghesia odiano a morte il «processo rivoluzionario che dà il potere al popolo». E poi chi è Massimo Desiato per giudicare il turismo antimperialista di certi attempati rivoluzionari?

È relativamente facile mandare avanti il «socialismo petrolifero» quando il prezzo del petrolio garantisce al regime una rendita annua assai cospicua (oltre metà delle entrate statali sono dati dalle attività petrolifere); le cose cambiano drammaticamente quando il prezzo/barile tocca i 40 dollari e rischia di precipitare ancora più in basso. Scrivevo un anno fa: «Anche altri Paesi produttori di petrolio masticano amaro dopo la rapida discesa del prezzo/barile, che nel 2008 ha toccato il picco massimo di 147 dollari, una vera pacchia per i regimi che usano la rendita petrolifera soprattutto in chiave di stabilità politico-sociale: vedi il “socialismo petrolifero” di marca venezuelana tanto decantato anche dal sinistrismo italiano, il quale evidentemente simpatizza per l’assistenzialismo clientelare di massa con caratteristiche latino-americane. Il bilancio statale del Venezuela fissa una soglia di 60 dollari/barile per la mera sopravvivenza della popolazione, mentre per implementare un serio programma di investimenti tesi al miglioramento delle infrastrutture e dei servizi sociali non si può scendere sotto ai 100 dollari/barile. L’uso (produttivo/improduttivo) della rendita petrolifera è forse il maggior nodo gordiano che la classe dominante venezuelana è chiamata a tagliare quanto prima per salvare il Paese dal disastro economico» (Il punto dal fronte petrolifero)*.

C’è anche chi “da sinistra” rimprovera al Comandante Eterno «l’errore politico» di non aver voluto costruire il «vero socialismo», quello «scientificamente fondato da Marx»: come se Chávez avesse mai avuto, in questa o in un’altra vita, una seppur vaga idea del «socialismo scientifico» di Marx! Il lettore potrebbe a questo punto obiettarmi le letture chaviste delle opere di Vattimo e di Negri. Appunto!

Quei rimproveri naturalmente la dicono lunga non sulla debolezza del pensiero “socialista” del defunto Comandante, o sulle sue supposte intenzioni (il più delle volte mere proiezioni di altrui illusioni), ma sulla qualità del «socialismo scientifico» dei suoi critici. «Il presidente Nicolas  Maduro, sembra inoltre non aver nemmeno compreso la gravità di questo trionfo terribile della borghesia sul proletariato, infatti ha dichiarato che: “in Venezuela ha vinto la democrazia e la costituzione”. Questo denota una totale incomprensione della lotta di classe» (Red Militant). Insomma, i socialisti rigorosamente scientifici rimproverano a due personaggi che con il socialismo e con la lotta di classe rivoluzionaria non hanno mai avuto nulla a che spartire di non aver voluto [sic!] o saputo [strasic!] fare né il socialismo né la lotta di classe: cose dell’altro mondo! Mi correggo: cose di questo escrementizio mondo. Le aspettative e le pretese dei socialisti rigorosamente scientifici spesse volte precipitano nel ridicolo.

C’è poi il solito filosofo “marxista” di successo (avete già capito: trattasi di Diego Fusaro) che producendosi in un «elogio del chavismo» cerca, per l’ennesima volta, di sdoganare il proprio socialsovranismo (coda di paglia?): «Il chavismo ha svolto una funzione benemerita, mostrando la via anche all’Europa alla mercé delle banche e della monarchia del dollaro: ha insegnato a tutti noi la necessità di coniugare nazione e democrazia, falsificando in atto l’equazione che identifica la nazione con la destra e con il fascismo. La nazione, nel tempo dell’internazionale finanziaria e liberista, può e deve costituire il vettore della democrazia e dell’emancipazione, garantendo, per mezzo dello Stato, diritti sociali e civili inaccessibili per le leggi del do ut des mercatistico. Il superamento degli Stati nazionali – qualcuno ancora non l’ha capito? [Eccomi!] – non sta portando al sol dell’avvenire [davvero?], ma al dominio monocratico del sistema internazionale delle banche e del capitale finanziario. Chavez l’aveva pienamente capito: e aveva capito che il solo modo per continuare oggi nella lotta che fu di Marx contro il classismo planetario e contro l’alienazione che esso secerne consiste nel difendere la potenza dello Stato nazionale come fonte del primato della politica sull’economia, come forza in grado di disciplinare e regolare l’economico, come potenza capace di tutelare gli interessi dei più deboli e di garantire diritti sociali altrimenti destinati a sparire in nome della “competitività internazionale”, il dogma preferito della teologia neoliberista». In un post di qualche settimana fa avevo scherzato sull’abilità fusariana di cucinare Lenin in salsa sovranista sostanzialmente per sostenere l’imperialismo russo: «Io non sto con i buoni. Io sto con i cattivi. Io non sto con gli Stati Uniti di Obama ma con la Russia di Putin, e anche l’Europa dovrebbe stare con il “cattivo” Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia geopoliticamente forte e militarmente autonoma». Oggi mi tocca sghignazzare su come l’intellettualone cerca di cucinare l’ubriacone di Treviri in salsa chavista (aggiungendo forse anche un pizzico di Massimo Recalcati): «Il chavismo ha insegnato, a noi europei obnubilati dall’individualismo estremo e dalle lotte iperindividuali sempre e solo per i diritti civili dell’io isolato (nel completo oblio del sociale e del tema del lavoro), la necessità di difendere i lavoratori e i diritti sociali contro la “sacra fames” del capitale finanziario globalizzato. Chavez ha continuato, a suo modo, nella lotta che fu di Marx, schierandosi in modo fermo e onesto dalla parte del lavoro e dei lavoratori». Personalmente consiglio sempre chi è in difetto di autostima di leggere le perle politico-dottrinali di Diego Fusaro. No, decisamente la lotta che fu di Chávez  «contro il classismo planetario e contro l’alienazione che esso secerne» non è una merce che potrei comprare, in questa e i nessun’altra vita. Mi pare di capire che certi intellettuali nostrani sensibili al tema della decadenza dei valori occidentali e della crisi identitaria dei giovani vedano in figure forti (virili) e carismatiche come Chávez e Putin una valida alternativa al Califfato Nero e alle ideologie dell’estrema destra populista**. «Dopo sedici anni di dominio incontrastato, il governo socialista ha registrato una pesantissima sconfitta elettorale. Diciamolo pure apertamente, senza giri di parole: è una tragedia». Può darsi. Ma tragedia esattamente per chi? Certamente non per chi scrive. Per le classi subalterne del Venezuela e del pianeta? Diciamo che nutro qualche dubbio a tal proposito.

C’è anche la sinistra rigorosamente di classe (come no!) che rimprovera al “socialismo” con caratteristiche venezuelane di non essere stato abbastanza stalinista (o fascista, o autoritario in una qualsiasi forma politico-istituzionale borghese), di essere insomma caduto nella trappola della democrazia borghese. Leggiamo e facciamoci, anche qui, quattro crasse risate: «In questo senso, a Cuba (ma non solo, c’è tutta una storia del socialismo realizzato a cui attingere) hanno sperimentato con relativo successo modelli di rappresentanza e di partecipazione alternativi alla democrazia borghese simboleggiata dalle elezioni nazionali. […].Una testa un voto è un assioma liberale che non può essere recepito tout court dal socialismo, perché non rappresenta il livello massimo di democratizzazione ma, all’inverso, è alla base del potere economico su quello politico. Insomma, per concludere questo punto, una volta avviata la strada verso il socialismo non si torna indietro, non la si certifica attraverso un passaggio elettorale basato sulle scelte dell’opinione pubblica, perché questa non è libera di formarsi ma è piuttosto il prodotto di un rapporto di forza economico» (Militant). Quando i sostenitori del «socialismo realizzato» (dalla Russia di Stalin alla Cina di Mao, dalla Jugoslavia di Tito alla Corea del Nord dei Cari e Immortali Leader, e schifezze “comuniste” di analogo conio) alludono alla «dittatura rivoluzionaria del proletariato», ancorché declinata in termini adeguati ai nostri tempi, non posso non impugnare la metaforica rivoltella e gridare, un po’ istericamente: «Stalinisti (o fascisti), non avrete il mio scalpo!». Poi penso che la cosa “classista” non è seria ma abbastanza ridicola e mi rilasso.

Questi stessi sinistri di classe oggi rimproverano al chavismo i limiti di un «progetto socialista» incentrato sulla rendita petrolifera e sul culto della personalità, e forse iniziano financo a sospettare che l’internazionalismo petrolifero venezuelano non sia stato che un onesto, anche se probabilmente un pochino velleitario, tentativo del Paese bolivariano di giocare le sue carte sul tavolo dei rapporti di forza interimperialistici, soprattutto pensando alla sua area di competenza geopolitica. Leggo: «È vero che il Venezuela ha sperimentato con l’Alba una forma di cooperazione economica con altri Stati antimperialisti [ah, ah, ah!], ma rimane una forma di relazione in cui il Venezuela ha una centralità economica derivante dal petrolio che non è stata attenuata e anzi ha reso paradossalmente gli altri paesi dipendenti dallo stesso Venezuela». Commento: ma va? Grande scoperta, non c’è che dire. Il problema, ovviamente, non sta nei “limiti” e negli “errori” del chavismo ma in chi ha dato credito al “socialismo” e all’antimperialismo di Chávez e compagni.

In tempi di devastante crisi economica le classi subalterne, la cui esistenza materiale è in gioco tutti i giorni, sono disposte a seguire ciecamente la bandiera della “rivoluzione”, rossa (vedi anche statalismo caraibico) o nera (vedi anche “islamismo radicale”) che sia, cioè a dire a mettersi nelle mani di chiunque offra loro la maligna speranza di un lavoro sicuro (o di un sussidio statale sicuro) e di una ritrovata dignità nazionale (che poi è, come sempre, la dignità dei servi): è in questo potente fatto che risiede la forza delle classi dominanti, le quali pescano sempre dal mazzo la carta vincente da giocare, almeno per un periodo di tempo. Mentre la sinistra rigorosamente di classe (come no!) piange sul chavismo versato ed è già alla ricerca della prossima «originale esperienza rivoluzionaria» (come no!), chi si sforza di elaborare un’autentica posizione critico-radicale sul capitalistico mondo che ci ospita, non può non fare i conti con la maligna dialettica del Dominio appena evocata. La cosa induce al pessimismo, me ne rendo conto; ma chiudere gli occhi dinanzi alla tragedia non serve a niente. L’ottimismo della volontà “rivoluzionaria” bisogna lasciarlo alla cosiddetta «sinistra di classe».

Concludendo (si fa per dire)! I “marxisti” occidentali hanno voluto vedere nella «democrazia partecipativa e protagonista» del regime chavista una forma originale di democrazia  “dal basso”, mentre essa corrispondeva alle esigenze di mobilitazione e di controllo sociale degli strati sociali più poveri del Paese da parte del regime. E analogamente essi hanno voluto vedere nelle mitiche Missioni create dal governo venezuelano nel 2003 il segno tangibile di una svolta radicale in senso “socialista” del Paese, mentre si trattava del modo in cui lo Stato cercava di distribuire le briciole della rendita petrolifera per mantenere e rafforzare il suo controllo sociale, da una parte, e del modo in cui Chávez cercava di consolidarsi al potere contro una mai domata opposizione politica e sociale, dall’altra. Insomma, quei personaggi per anni hanno venduto in Occidente il populismo, la demagogia, lo statalismo petrolifero e l’ambiziosa geopolitica (basata sempre sul petrolio) del Patriota di Caracas come una nuova, originale e inedita esperienza “socialista”, per il legittimo godimento di Luca Mastrantonio e degli altri avversari della “rivoluzione chavista”. Che non c’è stata.

* Scrivono Daniele Benzi e Ximena Zapata Mafla, che non nascondono le loro simpatie per «un progetto radicale di rifondazione e sperimentazione sociale con un orizzonte anticapitalista»: «Un progetto che, tuttavia, lungi dall’avere raggiunto i suoi principali obiettivi programmatici, per differenti ragioni si è impantanato, sino al paradosso di avere in effetti accentuato le differenti facce del modello rentier. […] In termini politici, si configura sostanzialmente come un modello di relazioni clientelari che si nutre e sostenta della rendita (in spagnolo appunto “renta”) che uno Stato capta dal mercato mondiale. Un modello spesso accompagnato da pratiche assistenzialiste e paternaliste che si sposano bene con stili e metodi di governo populisti o autoritari. Semplificando, questa dinamica perversa e potenzialmente distruttiva è generata dal potere e dall’apparente libertà che la rendita petrolifera, essendo un’entrata economica legata a un bene estratto e non prodotto il cui valore commerciale è fissato dal mercato mondiale, dà allo Stato per distribuirla senza esigere contropartite particolarmente onerose. La dimensione della rendita e la capacità di distribuzione rappresenterebbero quindi i limiti più importanti che affrontano i suoi gestori. Lo “Stato magico” nasce in queste condizioni, e così le sue qualità miracolose e l’ipertrofica corte burocratica con il conseguente centralismo, corruzione, verticalismo, improvvisazione, clientelismo e inefficienza. È qui che il ruolo dello Stato venezuelano prende storicamente forma «come elemento istituzionale chiave nel controllo della rendita petrolifera» (Petrolio e petrodollari nella politica estera del Venezuela, Visioni LatinoAmericane, numero 11, Luglio 2014).

** Scrive oggi Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera: «Marine denuncia “un’indecente campagna di calunnie, concepita nelle stanze del potere ed eseguita servilmente”. E spiega quale sarà la tattica dei prossimi diciotto mesi: il Front National sarà l’unica opposizione; la partita alle Presidenziali non sarà tra destra e sinistra, ma “tra mondialisti e patrioti”, tra coloro che intendono sciogliere la Francia “nel grande magma globale” e coloro che vogliono difendere la nazione come “spazio protettivo per i francesi”. Da una parte “la Francia eterna e fraterna”, dall’altra un’alleanza mostruosa tra vecchio establishment, politici ladri, banchieri usurai, imprenditori che delocalizzano, migranti di ogni fede ma soprattutto musulmani». Un bel programmino sovranista, non c’è che dire. Peccato per quella scivolata sui migranti musulmani! Ma per raggiungere l’obiettivo primario si può sempre chiudere un occhio; come insegna il chavismo la lotta di classe prevede compromessi e una sapienza dialettica inarrivabile agli amanti della purezza dottrinaria.

ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE

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Ho scritto la Lettera ad Alain Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale mesi fa; per una serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta da Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il lettore non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più diretto e sintetico possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è lungi dall’essersi esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con un intellettuale di fama e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek che in larga parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso quindi con il lettore per le ripetizioni.

1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani. Un conto è leggere Marx dalla prospettiva stalinista (e maoista), un conto abissalmente diverso è leggerlo dal punto di vista antistalinista – ad esempio avendo appreso la differenza che passa tra Capitalismo di Stato (una volta Lenin parlò, a proposito dei Paesi capitalisticamente arretrati, di «Stato borghese senza borghesia») e Socialismo. Questo semplicemente per dire due cose: 1) anch’io ho, come si dice, un passato politico-ideologico che pesa sulle mie spalle come un macigno; 2) personalmente non ho mai avuto nulla a che fare, se non sul terreno della polemica e della critica, con la «sinistra radicale» di cui parla Žižek. Precisato questo, andiamo al merito.

«Sul piano della realtà sociale», scrive Žižek, «di certo c’è una parte di verità nel dire che la Rivoluzione Culturale fu scatenata da Mao con lo scopo di ristabilire il proprio pieno potere (seriamente intaccato all’inizio degli anni sessanta, quando, dopo il fallimento spettacolare del Grande Balzo in avanti, la maggioranza della nomenklatura in seno al Partito organizzò un putsch silenzioso contro di lui). È vero che la Rivoluzione Culturale generò sofferenze incommensurabili, che scavò profonde piaghe nel tessuto sociale e che la sua storia è anche quella di una folla che scandisce grandi slogan, in preda al fanatismo. Ma non si riduce a questo». La mia tesi è, invece, che essenzialmente la Rivoluzione Culturale «si riduce» a una lotta per il potere tra fazioni interne al Partito-Regime riconducibili a interessi diversi ma tutti interni alla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Cina (ruolo dello Stato nella sfera economica, peso della grande industria e della campagna nel “decollo” del capitalismo cinese, politica salariale, politica assistenziale, apertura o chiusura nei confronti del mercato mondiale, ecc.) e alla sua proiezione nello scacchiere internazionale come moderna Potenza globale – la prima bomba atomica cinese data 1962.

Come in ogni periodo di grande scompiglio politico-sociale creato dalle lotte interne alla classe dominante, anche nel corso della cosiddetta Rivoluzione Culturale cinese almeno una parte delle classi subalterne approfittò del marasma politico per conquistare alcune posizioni in termini di rivendicazioni economiche e politiche, ma questo si realizzò contro le intenzioni di Mao e contro la massa fanatizzata dei giovani maoisti, i quali raccomandavano agli operai e ai contadini di non cadere nella “trappola borghese” del «rivendicazionismo economicista». «A Shangai il ruolo primario delle guardie rosse è stato quello di lottare per far ritornare al lavoro gli operai. La lotta degli operai mirava più a conservare le condizioni di lavoro già esistenti che non a ottenerne di migliori; miravano solo a contrastare gli intenti dei maoisti che volevano ridurre i salari e aumentare le ore lavorative» (1). La Rivoluzione Culturale ebbe un carattere fortemente antioperaio (mistificato appunto come contrasto al «Vento nefasto dell’economicismo controrivoluzionario»): su questo aspetto di quella cosiddetta Rivoluzione non si insisterà mai abbastanza. Scriveva Evelyn Anderson nel 1968: «Contrariamente alla volontà degli organizzatori della Rivoluzione Culturale, la rivolta dei lavoratori non ha per obiettivo il “revisionismo contro-rivoluzionario” né altre eresie antimaoiste, bensì quello di cambiare le dure condizioni di esistenza e di lavoro. Secondo le circostanze e gli obiettivi del giorno, le manifestazioni operaie hanno molteplici aspetti, ma dappertutto e in ogni momento possiedono un denominatore comune: avere per obiettivo immediato – e nella maggior parte esclusivo – il  soddisfacimento di rivendicazioni di ordine sociale ed economico. […] Certo, le loro rivendicazioni risentono inevitabilmente della fraseologia maoista [quella che tanto affascinava i devoti occidentali], ma si tratta di esigenze materiali avanzate in tono sempre più imperioso, ed al limite anche minaccioso: riduzione immediata degli orari, aumento della paga base, dei premi e delle prestazioni sociali, costruzione di alloggi; infine abolizione delle condizioni di impiego “penose” riservate a diverse categorie, in particolare alla moltitudine di lavoratori saltuari e a contratto limitato. […] La “Rivoluzione di Gennaio” [1967] di cui Shangai è teatro, segna il primo tentativo delle forze filo-maoiste di metter fine ai movimenti sindacalisti “borghesi” e alla  “mentalità corporativa” che li ispira. Questo è senza alcun dubbio, agli occhi dello stesso Mao, il significato più importante degli avvenimenti di Shangai, che vedono la sua Rivoluzione Culturale seriamente minacciata dal naufragio sugli scogli imprevisti dell’”economicismo”» (2).  La proclamazione, il 5 febbraio 1967, della Comune popolare di Shangai rappresentò il tentativo dei partigiani maoisti di riprendere il controllo della situazione sfuggita dalle mani di tutte le fazioni in lotta, scavalcate da agitazioni “economiciste” non previste, ovviamente non desiderate e strumentalizzabili fino a un certo punto. Lo scontro in seno al Partito-Regime, il disastro economico e il caos politico-istituzionale a Shangai e in altre città cinesi per i maoisti occidentali presero davvero  l’avvincente aspetto di una Grande Rivoluzione Culturale: «Fare come in Cina!» divenne il loro slogan preferito. Peccato che in Cina il compagno Mao si schierasse sempre e puntualmente contro gli «operai conservatori» in lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’ottenimento di un sindacato autonomo dal regime; peccato che egli lanciasse contro le fabbriche in sciopero studenti fanatizzati armati di libretti rossi e militari armati di fucili rigorosamente “popolari”. Se qualcosa del caos cinese le avanguardie basate a Occidente avrebbero fatto bene a valorizzare agli occhi del proletariato occidentale, ebbene questo qualcosa va individuato nel movimento rivendicativo “economicista” degli operai e dei contadini che si sviluppò contro tutte le fazioni interne al Partito-Regime, a cominciare da quella che faceva capo al Grande Timoniere.

La rottura che si consumò fra Mosca e Pechino negli anni Sessanta si spiega benissimo con i forti contrasti economici e politici che esplosero già alla fine degli anni Cinquanta fra Russia e Cina, ma i maoisti nostrani vi vollero vedere una decisa sterzata a sinistra della Cina, impegnata, a loro dire, a costruire «il socialismo» su basi originali rispetto a quelle su cui si era eretto l’edificio stalinista (3). Il “movimentismo populista” di Mao, che si dispiegava interamente sul terreno della conservazione sociale, si sposava a meraviglia con il radicalismo piccolo- borghese di molte “avanguardie” occidentali deluse dallo stalinismo internazionale. Eppure sarebbe bastato un piccolissimo sforzo concettuale per mettere nella giusta prospettiva e nella corretta relazione le teorie elaborate da Mao e dai suoi collaboratori più stretti («fronte unito» anti USA-URSS, «blocco delle quattro classi», «rivoluzione per tappe», «Triplice alleanza», ecc.) con gli interessi – maturati sul terreno interno come su quello internazionale – del Capitalismo di Stato cinese. E ciò avrebbe anche consentito alle “avanguardie” occidentali di mettere nella giusta luce le importanti lotte sociali che si sviluppavano nel Paese di Mezzo sotto l’incalzare di condizioni materiali sempre più dure (l’accumulazione capitalistica non è un pranzo di gala!), di campagne ideologiche strumentali alla lotta di potere che dilaniava il Partito-Regime e di un imminente pericolo di guerra che veniva soprattutto dalla Russia. Sarebbe bastato insomma un minimo salariale di “materialismo storico”. Ma allora in molti giovani militanti prevalse il bisogno imperioso di credere, più che di capire. Un antico proverbio cinese recita: «Uno che sa è meglio di mille che non sanno». Si tratta di capire in che senso «è meglio», ossia per che cosa, in vista di quale obiettivo, per soddisfare quale bisogno.

Scriveva Simon Leys nel lontanissimo 1971: «La “Rivoluzione culturale”, che di rivoluzionario non ebbe che il nome e di culturale che il pretesto tattico iniziale, fu una lotta per il potere, condotta al vertice da un gruppetto d’individui e dietro la cortina fumogena d’un fittizio movimento di massa. […] In Occidente, alcuni commentatori insistono a rifarsi alla versione ufficiale dei fatti, e pertanto prendono, come punto di partenza delle loro analisi, il concetto di “rivoluzione della cultura” o anche di “rivoluzione della civiltà”. Di fronte a un tema così esaltante, ogni tentativo di ridurre il fenomeno alla dimensione bassa e triviale d’una “lotta per il potere”, suona in modo offensivo e persino diffamatorio, alle orecchie dei maoisti europei. I maoisti di Cina sono meno suscettibili: la definizione di “Rivoluzione culturale” come lotta per impadronirsi del potere (quanli douzheng) non è stata coniata dagli avversari del regime, ma è la definizione ufficiale proposta da Pechino e costantemente ripresa negli editoriali del Renmin ribao, Jiefang jun bao e Hong qi, fin dai primi del 1967, da quando cioè il movimento si era sufficientemente rinforzato per poter abbandonare  definitivamente il paravento culturale, dietro al quale aveva mosso i suoi primi passi. Che Mao Tse-tung avesse effettivamente perduto il potere, sembrò cosa difficile da ammettere, da parte degli osservatori europei. Ma fu proprio per recuperarlo, ch’egli scatenò questa lotta. È incredibile che si renda ancora necessario (a distanza di quattro anni dalla “Rivoluzione culturale”!) dover ricordare cose tanto evidenti» (4).

Naturalmente Žižek non è così stupido da negare l’evidenza: «Mao stesso [mise] a tacere l’agitazione (una volta raggiunto il suo scopo, cioè la ripresa del potere e l’eliminazione dei membri avversari dall’alta nomenklatura)»; ma vuole a tutti i costi vedere in quella furibonda lotta di potere interborghese (che, detto en passant, causò la morte di centinaia di migliaia di persone) un eccesso rivoluzionario, un resto di utopia, per così dire. «Ci fu la “Comune di Shangai”: un milione di operai che, semplicemente prendendo sul serio gli slogan, esigettero l’abolizione dello Stato e del Partito stesso, nonché l’organizzazione diretta della società per mano della Comune. È significativo notare che in quel preciso momento Mao ordina all’esercito di intervenire per ristabilire l’ordine. Il paradosso risiede nel fatto che un leader, cercando di esercitare un potere personale totale, scatena un sollevamento popolare incontrollato: è la sovrapposizione di una dittatura estrema a un’estrema emancipazione delle masse». Se uno vuole vedere per forza «un’estrema emancipazione delle masse» (che peraltro si sarebbe concretizzata contro Mao!) dove purtroppo non si verificò alcun tipo di «emancipazione delle masse» (confuse, in parte sobillate strumentalmente dalle molte fazioni in lotta, disilluse dopo anni di false promesse, insofferenti nei confronti dell’indottrinamento “comunista” e di uno sfruttamento crescente) non sarò certo io a poterlo convincere del contrario. Non ne avrei nemmeno le capacità né le “competenze specifiche”. Posso però fare un’altra citazione: «Verso la fine del 1965, quando Mao decreta la Rivoluzione Culturale, è perché conta di isolare – e poi abbattere – con questo strumento i suoi nemici all’interno del Partito, dell’esercito e della gerarchia ufficiale. Egli incita la popolazione, ed in particolare la gioventù, a prendere l’iniziativa nel contesto di un grande movimento destinato, in ultima analisi, a detronizzare gli anti-maoisti. Così facendo, Mao non ignora affatto che una purga camuffata da “lotta di classe” comporta maggiori pericoli che una purga effettuata da una polizia segreta, strettamente vincolata ai suoi comandi; così per lui, la Rivoluzione Culturale si presenta – almeno all’inizio – come un rischio accuratamente calcolato. Tuttavia sembra poco probabile che Mao abbia potuto immaginare ciò che l’esperienza di Shangai ha dimostrato con l’incontestabile evidenza dei fatti: cioè che in una situazione come quella della Cina, la prolungata esortazione alla ribellione generalizzata non può non scatenare, prima o poi, forme inopportune di rivolte spontanee, orientate verso quegli obiettivi “economicisti” che Mao vuole cancellare dalla mente degli uomini. È altrettanto poco probabile che Mao abbia calcolato l’intera pericolosità degli odii  che tali lotte di massa lasciano vivi (una volta cessate), e che dividono e contrappongono in campi ferocemente opposti, non solo i quadri del Partito, ma l’insieme della popolazione, trascinando il paese sull’orlo della guerra civile» (5). Questa mi sembra una ricostruzione e una lettura più corrispondenti alla realtà dei fatti; fatti che, a mio avviso, non autorizzano in alcun modo una chiave di lettura “emancipativa”, sempre al netto della fraseologia e delle illusioni che le masse cinesi allora poterono usare e cullare attingendo dalle ideologie che, per così dire, passava il convento, ma anche pescando nel passato, nel ricco repertorio della secolare lotta di classe in Cina. Il fatto che Mao accettasse di correre il rischio di provocare indesiderati “effetti collaterali” la dice lunga sulla magnitudo della posta in gioco, sul grado di divisione del Partito-Regime e sulla crisi sistemica che attanagliava da anni la Cina.

La Risposta dell’intellettuale sloveno al filosofo francese mi conferma nella convinzione che si possono dire tante cose intelligenti e “dialettiche” (ad esempio sul rapporto Sade-Kant, piuttosto che sulla corretta interpretazione lacaniana di quel rapporto, oppure sul funzionamento della democrazia nei Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta, o sul rapporto tra spontaneità delle masse e organizzazione politica rivoluzionaria) per sostenere un’interpretazione storica (nella fattispecie: dello stalinismo, del maoismo, della Rivoluzione Culturale) che personalmente trovo in assoluto contrasto con un pensiero che aspira a un’autentica radicalità concettuale e politica. Sotto questo aspetto è significativo il modo in cui Žižek cerca di “destrutturare” il film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, «celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così?». Alla fine per lui il tutto si riduce al fatto che gli «orrori del comunismo» (sic!) possono essere compresi nel loro giusto significato, nella loro abissale verità, solo dai “comunisti”, mentre gli “anticomunisti” (al cui albo appartengo orgogliosamente da sempre) sono capaci solo di grattarne la superficie. Dinanzi a cotanta profondità “comunista” io mi tengo cara la mia indigenza filosofica e politica.

Quanto è importante afferrare alla radice la natura storico-sociale di un grande Evento, per usare indegnamente il suggestivo linguaggio di Žižek, nello sforzo di comprendere ciò che accade nel presente? È la domanda che volentieri giro al lettore.

(1) C. Reeve, La tigre di carta. Saggio sullo sviluppo capitalistico in Cina dal 1949 al 1972, p. 127, Ed. La Fiaccola, 1974.
(2) Citazione tratta da Le Contrat Social, numero di aprile-settembre 1968.
(3) Occorre anche dire che contro Kruscev, accusato di essere diventato il più grande «revisionista» che la storia del movimento operaio mondiale avesse mai conosciuto,  Mao riabilitò Stalin.
(4) S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, pp. 18-19, Ed. Antistato, 1977.
(5) E. Anderson, Le Contrat Social.

cina-comunista2. Lettera ad Alain Badiou sulla natura nazionale-borghese dell’opera di Mao Tse-tung. Caro Badiou,

chi le scrive è un lettore di non pochi dei suoi numerosi saggi filosofici e politici, che a volte si è trovato a polemizzare sul modesto Blog (Il Nostromo) che gestisce tanto con la sua concezione “comunista” (noti le polemiche virgolette) quanto con quella elaborata dal suo amico e vecchio compagno di lotta politica e culturale Slavoj Žižek. Non desidero farle perdere tempo e perciò arrivo subito alle «procedure di verità», per citarla indegnamente.

Solo oggi, e quindi con imperdonabile ritardo, ho avuto il piacere di leggere la sua Lettera a Slavoj Žižek sull’opera di Mao Tse-Tung: uno scritto davvero interessante e a volte perfino spassoso, ad esempio là dove lei sembra rinfacciare a Žižek una sua certa predilezione per lo stalinismo che lo porterebbe, forse lui malgrado, a sottovalutare gravemente la portata del lascito maoista, ciò che della straordinaria lezione maoista rimane, a suo dire, ancora vitale e degno di essere testimoniato e, quando possibile, praticato. Ma forse si tratta di una mia personale interpretazione; forse traviso del tutto i termini della sua critica all’intellettuale sloveno. Poco importa, anche perché il punto che desidero discutere brevemente con lei è un altro.

Nella Lettera lei ricorda una celebre frase di Mao: «La gente si chiede dov’è da noi la borghesia. Io rispondo: è nel Partito comunista». Ebbene, anche a mio avviso il Grande Timoniere diceva il vero, ma, come vedrà, in un senso che certamente lei non può condividere, e che provo a sintetizzare come segue: il Partito Comunista Cinese con caratteristiche maoiste fu lo strumento 1) della rivoluzione nazionale-borghese in Cina e 2) del processo di accumulazione capitalistica in quel gigantesco Paese socialmente arretrato. Naturalmente queste due fondamentali funzioni storiche vanno considerate alla luce della collocazione geopolitica della Cina prima e dopo la proclamazione della Repubblica  Popolare (1949), e in relazione al rapporto del “comunismo” (rispuntano le virgolette!) cinese con l’Unione Sovietica di Stalin – e poi dei suoi eredi più o meno “revisionisti”. Per chiarirle il mio punto di vista sul “comunismo” di Mao è forse utile precisare la mia posizione sullo stalinismo, il quale, com’è noto, influenzò in modo decisivo, anche se non esclusivo, il maoismo (1).

Come cerco di argomentare in un mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare), lo stalinismo va considerato, al contempo e “dialetticamente”, per un verso come espressione/strumento della controrivoluzione, se visto dalla prospettiva della rivoluzione proletaria (internazionale, non solo russa); e, per altro verso, come espressione/strumento della rivoluzione se considerato dalla prospettiva dello sviluppo capitalistico nel grande spazio geosociale e geopolitico dell’”eterna” Grande Madre Russia – ribattezzata dai socialnazionalisti Patria Socialista. Per questo quando Žižek attribuisce, ad esempio ne Il soggetto scabroso (2) proprio allo stalinismo una forte radicalità rivoluzionaria non sbaglia affatto, salvo che per un “trascurabile” punto: quella radicalità venne messa interamente al servizio 1) dell’accumulazione capitalistica a tappe forzate della Russia di nuovo conio nominalistico (Repubblica Socialista), e 2) dell’ascesa della Russia come moderna potenza mondiale: due momenti di uno stesso processo storico-sociale. Per usare la categoria di Terrore tematizzato nel citato libro di Žižek, lo stalinismo fu l’espressione, al contempo e senza soluzione di continuità, di un Terrore controrivoluzionario (antiproletario, anticomunista) e di un Terrore rivoluzionario (in chiave di sviluppo capitalistico, di industrialismo, di modernizzazione).

A mio avviso l’incomprensione del processo sociale appena abbozzato (un processo rivoluzionario borghese che si dà, alle spalle dei suoi stessi protagonisti, come controrivoluzione proletaria; una negazione della prospettiva proletaria in Russia e nel mondo che si dà come affermazione di compiti borghesi mistificati in guisa di compiti “socialisti” e financo “comunisti”) costituisce probabilmente per le classi subalterne di tutto il mondo la tragedia più grande del Novecento; tale incomprensione ha reso possibile l’Evento che ha letteralmente devastato il movimento operaio internazionale a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, e le cui conseguenze si fanno ancora sentire. Naturalmente la datazione qui adottata ha un significato relativo, più che altro orientativo, perché come lei converrà il processo sociale non conosce puntuali soluzioni di continuità, cesure chirurgiche fra un “prima” e un “dopo”, e ciò vale tanto più quando approcciamo fenomeni complessi quale indubbiamente fu quello che rubrichiamo, più che altro per ragioni di sintesi, sotto il nome di un singolo individuo: Stalin, appunto.

Ecco, mutatis mutandis, che poi non è poco (a iniziare dal fatto che il maoismo si affermò in Cina come espressione politico-ideologica di una rivoluzione che non andò mai oltre i limiti di una rivoluzione borghese a base sociale contadina), l’esperienza che porta il nome di Mao va inquadrata nello schema concettuale appena considerato.  Più che «profetica», come scrive lei in riferimento alle “famigerate” riforme di Deng Xiaoping (3), la frase maoista sulla borghesia interna al PCC mi appare dunque non solo realistica ma soprattutto programmatica, appena la si consideri depurata del consueto involucro ideologico pseudo marxista e prescindendo da quale fosse l’intenzione cosciente del suo autore, il quale in ottima fede credeva di lavorare per il “comunismo”. Ma, occorre ancora precisarlo, per quella concezione di “comunismo” che prevalse nella Terza Internazionale con lo stalinismo, il quale, ad esempio, propugnava un “socialismo” che non si discostava di un solo millimetro dal Capitalismo di Stato («più la dittatura del proletariato», cioè del Partito-Regime), nonostante i teorici più in vista del bolscevismo post leniniano (a partire da Bucharin) ce la mettessero tutta per dimostrare, in primo luogo a se stessi, il contrario: di qui, ad esempio, le bizzarre tesi circa una fantomatica «accumulazione originaria del socialismo». Il «socialismo reale» impiantato da Mao in Cina a mio avviso si spiega inoltre, com’è ovvio e come ho già accennato sopra, con le condizioni sociali del Paese di Mezzo, con il suo lunghissimo retaggio storico (e qui lo studio delle antiche comunità contadine può dare un notevole contributo alla comprensione del fenomeno “maoismo”, almeno nella sua fase di lenta genesi), con i suoi rapporti con il Giappone e la Russia, in particolare, e con l’insieme della costellazione imperialistica mondiale, in generale.

Sul carattere nazionale-borghese della rivoluzione cinese e sull’autentico significato della cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (altro che «forma finalmente trovata della dittatura del proletariato»! altro che «circolazione di idee, di parole d’ordine, di forme di organizzazione, di schemi teorici di cui noi, oggi, non abbiamo ancora esaurito la forza»!)  la rinvio ai miei appunti di studio Tutto sotto il cielo – del Capitalismo. Certo, sulla scorta di quanto ho già scritto lei potrebbe sempre obiettarmi che, alla maniera dei trotzkisti (sempre secondo la vulgata stalinista), sottovaluto l’importanza della classe contadina «in nome del feticismo operaista», una critica che farebbe sorridere i pochi che conoscono la mia posizione sul «feticismo operaista».

Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi scriveva: «Nazionalizzazione e riforma agraria non sono misure socialiste?». La mia risposta a quel lettore può forse chiarirle ulteriormente il mio punto di vista sullo stalinismo e sul maoismo, due aspetti della storia del “comunismo novecentesco” che, a quanto pare, intrigano molto entrambi, quantunque da prospettive politiche del tutto diverse (forse addirittura opposte). Mi scuso in anticipo per la non breve autocitazione.

In linea generale l’abolizione della rendita fondiaria e il superamento di tutti i rapporti agrari precapitalistici che impediscono, o solamente rallentano, l’accumulazione capitalistica rientrano classicamente nello schema della rivoluzione borghese. La riforma agraria può benissimo prendere la forma della la nazionalizzazione della terra senza esorbitare di un solo millimetro dalla dimensione capitalistica. Tutt’altro! Alla radicalità della riforma agraria corrisponde un’ascesa capitalistica più rapida e impetuosa, ed è esattamente quello che non è avvenuto ad esempio in Italia, in grazia alla nota alleanza fra capitale industriale del Nord e proprietà terriera del Sud, con le implicazioni sociali e politiche che conosciamo e il cui retaggio ancora in qualche modo avvertiamo.

Com’è noto Lenin manifestò un grande interesse e una grande simpatia per il populismo cinese e per l’insieme del movimento democratico cinese in generale, il quale ebbe come suo leader riconosciuto Sun Yat-sen. Questo però non gli impedì di criticarne l’ideologia impregnata di socialismo piccolo-borghese, di fare luce sui «sogni socialisti», sulla «speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo». L’analogia con il populismo russo è evidente. Commentando il Programma rivoluzionario-borghese di Sun Yat-sen Lenin tenne particolarmente a precisare, e non certo per un prurito dottrinario, che la riforma agraria sostenuta in quel Programma era certamente storicamente rivoluzionaria, ma non perché debordasse dai compiti borghesi quanto, al contrario, perché essa rispondeva nel modo più radicale alla necessità storicamente data in Cina di distruggere i rapporti sociali feudali. «Questa è la sostanza del “populismo” di Sun Yat-sen, del suo programma progressivo, combattivo, rivoluzionario, che propugna riforme agrarie democratiche borghesi, e della sua teoria cosiddetta socialista. Questa teoria, dal punto di vista della dottrina, è la teoria di un “socialista”-reazionario piccolo-borghese. […] E Sun Yat-sen, con una semplicità inimitabile, vorrei dire verginale, distrugge egli stesso completamente la propria teoria populista reazionaria, riconoscendo ciò che la vita costringe a riconoscere, e precisamente: “La Cina è alla vigilia di un gigantesco sviluppo industriale” (cioè capitalistico); in Cina “il commercio” (cioè il capitalismo) “raggiungerà proporzioni enormi”, “fra cinquant’anni vi saranno da noi molte Sciangai” e cioè molti centri con milioni di abitanti, di ricchezza capitalistica e di indigenza e miseria proletaria» (Lenin, Democrazia e populismo in Cina, 1912, Opere, XVIII, pp. 155-156). Quando il rivoluzionario radicale borghese si mette in testa di poter percorrere una via originale al socialismo (o, più correttamente, a ciò che egli pensa sia il “socialismo”), ecco che egli appare, agli occhi Lenin, un reazionario piccolo-borghese da combattere sul piano politico-dottrinario perché le sue idee possono far breccia anche nel proletariato e sicuramente fra i contadini poveri. «E questo è il bello: la dialettica dei rapporti sociali della Cina consiste appunto nel fatto che i democratici cinesi, simpatizzando sinceramente col socialismo in Europa, lo hanno trasformato in una teoria reazionaria, e sulla base di questa teoria reazionaria che vuole “prevenire” il capitalismo, attuano un programma agrario puramente capitalistico, capitalistico al massimo grado». Adesso viene la parte che tocca il problema della nazionalizzazione: «In sostanza, a che cosa conduce la “rivoluzione economica” di cui parla Sun Yat-sen? Al passaggio della rendita fondiaria allo Stato, cioè alla nazionalizzazione della terra. […] Fare in modo che l’”aumento del valore” della terra sia “proprietà del popolo” significa trasmettere la rendita, cioè la proprietà della terra, allo Stato, o in altre parole: nazionalizzare la terra». È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto. Marx lo rilevò nella Miseria della filosofia, lo dimostrò particolareggiatamente nel III volume del Capitale e sviluppò questa tesi in modo particolarmente chiaro nella polemica con Rodbertus nelle Teorie del plusvalore». E poi Lenin continua illustrando la natura altamente capitalistica della nazionalizzazione della terra.

Ebbene, mutatis mutandis, credo che la posizione di Lenin sul socialismo reazionario possa aiutarci a fare luce sullo stalinismo, sul maoismo, sul castrismo e su tutti i movimenti borghesi che si sono autoproclamati socialisti o, addirittura, comunisti, senza peraltro tralasciare di esaltare la propria caratteristica nazionale: ancora oggi si parla del «socialismo con caratteristiche cinesi»!

Fine della citazione. Anche per quanto riguarda il rapporto tra l’Unione Sovietica e la Cina maoista mi permetto di esporle il mio punto di vista. Dal febbraio 1950 in poi la Cina fu costretta a rivolgersi al “Paese fratello” per ottenere il capitale fisso e le conoscenze tecniche e scientifiche di cui difettava e che le erano assolutamente necessarie per avviare il processo capitalistico di trasformazione della campagna e delle città – «accumulazione capitalistica originaria», per usare la terminologia marxiana, «accumulazione socialista originaria» secondo la già ricordata ideologia stalinista poi ripresa dai “comunisti” cinesi. Ciò appariva tanto più necessario alla luce del lungo ciclo della guerra civile/nazionale che aveva sconvolto il già debole e arretrato tessuto sociale cinese. Al PCC apparve meno rischioso, dal punto di vista della strategia politico-economica di lungo respiro, rivolgersi all’Unione Sovietica piuttosto che agli Stati Uniti, ossia all’Imperialismo egemone nell’area del Sud-Est asiatico dopo la capitolazione del Giappone. Un numero davvero considerevole di industrie vennero impiantate direttamente dai russi, che insieme al capitale fisso portarono una forza-lavoro qualificata. Nei dieci anni seguenti al 1950 oltre 10 mila tecnici russi avranno di fatto la direzione dell’industria pesante cinese.

Col tempo la natura imperialistica dell’«aiuto fraterno» russo si andrà precisando, fino a provocare la rottura fra i due Paesi nel luglio 1960. Ma già da subito nel PCC presero corpo le due linee di politica economica che avranno modo di scontrarsi duramente nel corso degli anni, generando enormi disastri economico-sociali (puntualmente reclamizzati dal regime sotto suggestive insegne, del tipo: Cento Fiori, Grande Balzo in Avanti, Grande Rivoluzione Culturale Proletaria), con relativo cospicuo versamento di sangue operaio e contadino. Com’è noto, l’«accumulazione capitalistica originaria» non è un pranzo di gala! Mao incarnò la fazione autarchica del capitalismo di Stato cinese, quella più ostile all’integrazione del Paese nel Capitalismo internazionale, e quindi ostile pure a un’alleanza strategica con il Capitalismo Russo.

Questa «linea rossa» postulava misure particolarmente pesanti di sfruttamento dei contadini e degli operai, questi ultimi sempre tenuti in pessima considerazione da Mao a causa del loro «scarso senso di responsabilità» nei confronti della «Patria Socialista», ossia dell’ancora arretrata economia capitalistica, la quale esigeva bassissimi salari, un tenore di vita di mera sussistenza e una produttività almeno consona alle ambizioni di potenza della Nuova Cina. Agli operai era chiesto di abbandonare il vecchio «spirito piccolo-borghese e corporativo», e di «servire il popolo», ossia la Nazione impegnata in un colossale sforzo di transizione sociale in direzione del moderno Capitalismo. «Per l’operaio, la coscienza “socialista” è così ridotta all’accettazione del proprio sfruttamento, che è evidentemente una necessità per il successo dell’accumulazione di capitale; ma è una mistificazione politica identificare quest’ultima come il socialismo o il comunismo» (Charles Reeve, La tigre di carta, 1974). Non c’è dubbio. Naturalmente parlo per me, non per lei.

L’opzione a favore dell’industria pesante, secondo il modello staliniano, generò una serie di ripercussioni fortemente negative a livello della produzione dei beni di consumo e dello sviluppo agricolo, e ciò nel momento in cui la demografia, un fattore decisivo nella storia cinese, attestava un’inaspettata accelerazione verso l’alto, rendendo in prospettiva esplosiva la situazione del mercato del lavoro. Secondo Jean Deleyne (L’economia cinese, 1971), alla fine degli anni Cinquanta entravano sul mercato del lavoro dieci milioni di cinesi, mentre la capacità industriale del Paese consentiva l’assorbimento di soli 500 mila. I contadini, che peraltro erano stati la base sociale fondamentale della rivoluzione nazionale-borghese che portò il PCC al potere, reagirono al supersfruttamento (il surplus agricolo avrebbe dovuto sostenere l’accumulazione nell’industria pesante) e al decadimento delle loro già difficili condizioni di esistenza con sommosse e diminuendo la produttività del loro lavoro. Questa reazione compresse anche l’approvvigionamento alle città di beni alimentari, creando nel proletariato industriale nuove ragioni di malumore e di rivendicazioni salariali. Come sempre, Mao denunciò le «tendenze borghesi» in seno alla classe operaia. Tutto questo marasma, che ho cercato di descriverle a grandi linee, ebbe come risultato di prima grandezza anche la rottura della Cina con l’Unione Sovietica, che aveva cercato di inserirla organicamente nella propria sfera di influenza, e il rafforzamento della linea maoista  (che propugnava un più graduale, “armonico” e “originale” sviluppo economico) in seno al Partito-Stato.

L’incontro Mao-Nixon che ebbe luogo nel febbraio del 1972, peraltro in una fase particolarmente sanguinosa della guerra in Vietnam, la dice lunga sulla spregiudicatezza politica del leader cinese e sui difficili, per usare un eufemismo, rapporti tra i due Paesi “comunisti”. Naturalmente se si rimane alla superficie della schiuma ideologica; se si rimane invischiati nella guerra ideologica fra maoismo e “revisionismo sovietico” non è possibile afferrare la reale posta in gioco della contesa.

Come può capire, mi risulta alquanto difficile, diciamo così, concordare con il suo giudizio su Mao come «ultimo grande rivoluzionario marxista della storia mondiale». Né ultimo, né grande, né medio, né piccolo: la radicalità rivoluzionaria di Mao (il Terrore maoista di cui parla in termini più che elogiativi, forse financo apologetici, lo stesso Žižek nel saggio Sulla pratica e sulla contraddizione) (4) fu, infatti, interamente messa al servizio della Cina come moderna, grande (anche a spese di altre nazionalità ed etnie) e indipendente Nazione – e qui occorre ancora una volta ricordare l’aspra lotta che il regime maoista ingaggiò contro le due Super Potenze del tempo. Sotto questo aspetto si può senz’altro parlare del maoismo nei termini di uno stalinismo con caratteristiche cinesi. Né posso applaudire quando lei mette nello stesso sacco “rivoluzionario” «figure come Robespierre, Saint-Just, Babeuf, Blanqui, Bakunin, Marx, Engels, Lenin, Trotzkij, Rosa Luxemburg, Stalin, Mao Tse-tung, Zhou Enlai, Tito, Enver Hoxha, Guevara, Castro e qualche altro (penso in particolare a Aristide)». Mi auguro che ciononostante lei non mi associ «al contesto di criminalizzazione e di aneddoti spettacolari in cui, da sempre, la reazione tenta di chiudere e annullare queste figure». Anche perché attribuisco un peso abbastanza relativo alla «funzione della personalità nella storia»: sono più interessato a capire i processi sociali (psicologia di massa compresa, eccome!) che stanno alla base degli eventi storici che usiamo rubricare con i nomi di Tizio o di Caio: stalinismo, maoismo, castrismo, e via di seguito. Poi naturalmente faccia come crede: me ne farò una ragione. Certo è, che «l’emancipazione egalitaria» di cui lei parla si amalgama assai poco con l’idea di emancipazione universale che ha in testa chi le scrive sulla scorta della critica marxiana dei rapporti sociali capitalistici (certo, nella sua personale ricezione) e del giudizio che ha maturato sullo stalinismo e sul maoismo.

Caro Badiou, bisogna por fine in qualche modo a questa interminabile lettera, mi rendo conto. E allora concludo osservando che più che di un «comunismo sepolcrale», come dice ironicamente lei riferendosi alla vostra (sua e di Žižek) «ipotesi» o «idea comunista», io parlerei piuttosto di una concezione certamente sepolcrale ma che definire “comunista” mi riesce francamente impossibile. Dicendo questo so di non sconvolgerla neanche un po’, né il mio intento era quello di graffiare con le mie deboli e spuntate unghie la sua granitica posizione. D’altra parte, da Stalin in poi quell’aggettivo è stato così abusato, violentato, tradito e svuotato di contenuti autenticamente rivoluzionari che personalmente preferisco farne a meno, se non altro per non finire anch’io dentro imbarazzanti sacchi e sepolcri. Né posso e voglio attribuire o ritirare patenti ideologiche di sorta a chicchessia. E allora mi scuso per le provocatorie virgolette apposte al suo e all’altrui Comunismo e la saluto cordialmente.

Print(1) Tanto per fare un solo esempio, non fu certo un caso se l’astro maoista iniziasse a salire nella costellazione del “movimento operaio internazionale” con caratteristiche staliniste solo dopo la bruciante sconfitta subita nel biennio 1926-1927 dal giovane e ancor debole proletariato cinese a Shangai e negli altri pochi centri industriali della Cina del tempo. Siccome non esistono capi politici buoni per tutte le stagioni, solo dopo il disastro del 1927, auspice anche la politica collaborazionista del Comintern nei confronti del Kuomintang, in Cina si aprì la stagione propizia per Mao.

Per un’approfondita conoscenza della genesi del pensiero politico e filosofico di Mao segnalo l’interessante studio di Paolo Selmi (Il substrato confuciano e tradizionale del “marxismo” di Mao Zedong, Università degli Studi di Napoli L’Orientale, 2011), dal quale cito i passi che seguono:

«Il Pensiero di Mao Zedong è il marxismo-leninismo, che lui conobbe nella variante staliniana, fuso con la filosofia politica confuciana tradizionale, in particolare col pensiero di Mencio focalizzato sulla bontà della natura umana e sulla necessità di lavorare continuamente sulle persone perché seguissero la loro naturale inclinazione. […] Si tenga conto inoltre del fatto che Mao, dopo tale infarinatura di seconda mano ricevuta dai testi anarchici letti in gioventù, lesse testi che citavano i classici del marxismo nell’unica forma all’epoca reperibile in cinese: la versione sovietica (staliniana) del materialismo dialettico. Mao aveva una logica ben precisa, e nel seguito di questo studio saranno sviluppati gli elementi di questo pensiero tradizionale che in Mao tornava a nuova vita. […] Un’arte della guerra antica applicata al fucile mitragliatore, figlia di una concezione dove taoisticamente l’elemento liquido prevale sul solido e diviene metafora della vittoria dell’apparentemente debole sull’apparentemente forte; la necessità di una piena rieducazione dell’esercito prima, e delle masse poi, che di neoconfuciano non ha soltanto il sapore, ma la logica e il metodo, rappresentano soltanto alcuni esempi. In questo modo di ragionare analogico e non strettamente causale, ricombinando elementi vecchi e nuovi in funzione di obbiettivi vitali e concreti, sta la grandezza del pensiero di Mao e dei mentori a cui si ispirò. Quanto affermato ci porta a un’ulteriore conclusione che, per quanto possa risultare scomoda, costituisce però il naturale sviluppo del ragionamento finora svolto: il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong non è il marxismo arricchito di un nuovo sviluppo. Tale pensiero è una struttura ideologica che, pur impiegando un lessico tratto dal bagaglio terminologico del pensiero di Marx, Engels e Lenin, di fatto lo riformula sin da subito negli anni Venti e Trenta in maniera del tutto diversa, collocando i vari tasselli su architravi che non sono disposte alla stessa maniera delle originali, ma che bensì rispettano distanze e composizioni antiche.  […] Nel pensiero di Mao, tali concetti divenivano veicoli di un “marxismo” potenzialmente libero di muoversi lungo qualsiasi direzione, recuperando e assumendo in sé schemi tradizionali e modelli di pensiero consolidati, al fine di condurre la trasformazione sociale lungo la strada desiderata. Visto in prospettiva, questo meccanismo costituì uno dei “contributi” maggiori del maoismo al “socialismo con caratteristiche cinesi”: la sua estrema duttilità nel maneggiare concetti e manipolarne strumentalmente ordine e significato in un ordine diverso dall’originale, sarebbe stata ripresa dopo la sua morte da ogni gruppo dirigente il partito, fino alla generazione attuale: come già sottolineato, ciascuno di loro  “avrebbe arricchito” il marxismo di nuovi elementi, riducendo il pensiero originario a un mero discorso formale».

In effetti, per capire il Mao-pensiero non occorre studiare le opere di Marx (né quelle di Hegel, almeno sulla scorta della critica marxiana), mentre è indispensabile studiare la millenaria e densissima storia della società cinese, per un verso, e il “materialismo dialettico” (Dialektičeskij Materializm, ovvero Diamat) canonizzato dalla scuola sovietica, per altro verso.

(2) «Anche per quanto riguarda l’effettiva trasformazione sociale, o “taglio nella sostanza del corpo sociale”, la vera rivoluzione non fu quella di ottobre, ma la collettivizzazione degli ultimi anni Venti. La rivoluzione di ottobre lasciò la sostanza del corpo sociale intatta; da questo punto di vista, essa fu simile alla rivoluzione fascista, la quale impose soltanto una nuova forma di potere esecutivo sulla rete preesistente di relazioni sociali, proprio per mantenere questa rete di relazioni sociali … Fu soltanto la collettivizzazione forzata degli ultimi anni Venti a sovvertire e smembrare completamente la “sostanza sociale” (la rete di relazioni che era stata ereditata dal passato), perturbando e intaccando profondamente i tessuti sociali elementari» (S. Žižek, Il soggetto scabroso, p. 243, Raffaello Cortina ed., 2003).

(3) Nel ‘78 una Cina sull’orlo del disastro sistemico (politico, economico, sociale, nazionale) avviò una rapida transizione verso un Capitalismo sempre più aperto alla concorrenza internazionale e alla gestione delle azienda da parte dei capitalisti privati, cinesi e di altri Paesi. La transizione si dipanò tutta nel segno della continuità capitalistica e, cosa da valutare con grande attenzione, della continuità nazionale, ossia nel segno della Cina come moderna Potenza di rango mondiale, prima in fieri e poi in forma dispiegata. L’unità nazionale cinese non è mai stata garantita una volta per sempre. Sotto questo aspetto, Mao Tse-tung ha lavorato bene in circostanze, interne e internazionali, davvero eccezionali. Una medaglia appesa al petto della Nazione (leggi: del Capitale) cinese, non certo a quello del proletariato – cinese e internazionale. Oggi il Paese di Mezzo si confronta con un’altra difficile sfida: passare dallo sviluppo capitalistico quantitativo, diciamo così, a quello più qualitativo; da un’epoca di eccezionalità capitalistica, segnata da stratosferici tassi di crescita (e da un super sfruttamento degli uomini e della natura: vedi catastrofi ecologiche), a una «nuova normalità».

(4) Mi riesce davvero difficile capire come un intellettuale così sofisticato e intelligente come Žižek possa credere che sia minimamente credibile il tentativo di mobilitare la migliore filosofia occidentale per accreditare di un qualche valore filosofico-politico la concezione del mondo che informa gli scritti di Mao sulla pratica e sulla contraddizione. Eppure, sembra che l’operazione dell’intellettuale sloveno riesca perfettamente in certi ambienti dell’ultrasinistra europea e nei mitici “salotti radical-chic” dell’intellighentia occidentale: buon per lui!

ROJAVA MIA BELLA…

donna3Pare che nella regione di Rojava (Ovest in curdo), a Nord della Siria e lungo tutta la linea di confine con la Turchia, «è in marcia una rivoluzione». Si tratta allora di capire di che rivoluzione si parla, per decidere come meglio atteggiarsi nei suoi confronti.

Quel che mi appare invece con estrema – direi violenta – evidenza è che in quella parte di mondo si combatte una spietata guerra di annientamento, che pone sul terreno diverse poste, alcune delle quali possono mettere in crisi l’equilibrio geopolitico dell’intero quadrante mediorientale.

In premessa, e a scanso di antipatici equivoci, ribadisco la mia posizione di assoluto antagonismo nei confronti: del macellaio (nonché perito chimico) di Damasco (il quale all’ombra dei bombardamenti aerei americani continua la sua opera di anniento degli oppositori), del cosiddetto Stato Islamico (un “mostro” sfuggito al controllo di chi lo ha creato e foraggiato), di tutte le Potenze regionali (dall’Iran alla Turchia, dall’Iraq all’Arabia Saudita, ecc.), di tutte le Potenze mondiali (dagli Stati Uniti alla Russia, dall’Europa alla Cina) e, dulcis in fundo (ma con assoluta priorità in quanto cittadino italico), degli interessi italiani nell’area geopolitica in oggetto. Il lettore a questo punto si chiederà: «Ma al netto di tutto questo, cosa rimane?». Considero questa domanda come estremamente sintomatica dello stato reale delle cose.

Giudico imperialista, senza se e senza ma, lo scontro in atto tra il cosiddetto Califfato Islamico e le Potenze regionali e internazionali. Il fatto che l’opinione pubblica internazionale chieda all’imperialismo più forte del pianeta (Stati Uniti*) di usare la sua potenza finanziaria, tecnologica e militare per «salvare vite umane» e per fare il bravo poliziotto nei confronti dei cattivi di turno (gli odiosi tagliatori di teste devoti ad Allah), a mio avviso questo fatto la dice lunga sull’attuale impotenza delle classi subalterne di tutto il mondo, alle quali non è concessa altra prospettiva che non sia quella di acconciarsi al «male minore» e di simpatizzare per  questo o quell’imperialismo. Chi non si adegua ai rapporti di forza e non si piega alla maligna logica della realpolitik passa per un astratto idealista e per un “oggettivo” fiancheggiatore dei cattivi di turno e del male maggiore: è precisamente contro questa logica del Dominio che cerco di reagire, su tutti i fronti della prassi sociale. Resistere oggi significa anche non cedere ai ricatti politici e psicologici del cattivo mondo, il quale ci chiede tutti i giorni di «fare qualcosa a favore dei meno fortunati», ma solo se questo qualcosa serve alla continuità del Male, magari spacciato come “minore”.

Ciò premesso, il lettore mi consentirà di arrivare al punto nodale attraverso un breve ragionamento, che può apparire una divagazione sul tema ma che non lo è affatto. Almeno così mi pare. Insomma, la prendo alla lontana, come si dice.

enhanced-27753-1410801561-1Uno degli errori più frequenti che nel passato hanno caratterizzato l’azione politica e l’elaborazione teorica della “sinistra radicale” europea in materia di “internazionalismo proletario” e di “lotta antimperialista” è stato quello di innamorarsi di inesistenti terze vie rispetto al “capitalismo reale” e al “socialismo reale”, ovvero di inventarsi esperienze rivoluzionarie «del tutto originali» rispetto al sempre più screditato modello stalinista. È stato così ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese di Mao Tse-tung, interpretata dai “marxisti” occidentali come rivoluzione socialista di nuovo conio, e alla stessa stregua sono state interpretate tutte le rivoluzioni nazionali e anticoloniali dagli anni Cinquanta in poi: da Cuba al Vietnam, dall’Eritrea al Nicaragua. Il fatto è che quasi tutti i capi e i partiti che si sono messi alla testa dei movimenti di liberazione nazionale hanno definito se stessi come «marxisti-leninisti», soprattutto nel tentativo, risultato spesse volte vano e sempre politicamente molto costoso (lo stesso Mao ne seppe qualcosa), di ricevere l’appoggio dell’Unione Sovietica, la patria del falso socialismo e di un aggressivo nazionalismo spacciato ovviamente per “internazionalismo proletario”.

Sotto questo aspetto, Il PKK di Abdullah Öcalan non fa eccezione, e solo dopo il crollo dell’Unione Sovietica nel 1991 questa formazione politica, nazionale-borghese secondo programma e funzione storica, iniziò quel lungo processo di revisione politico-ideologica che la porterà sulle attuali posizioni di «confederalismo democratico», basate sul piano dottrinario sull’«ecologismo sociale» e sul «comunalismo democratico» di Murray Bookchin, anch’egli peraltro passato da giovane attraverso la devastante esperienza stalinista.  Frequentemente mi è capitato di leggere che «il Partito dei lavoratori del Kurdistan è un’organizzazione politica di ispirazione marxista», o «marxista-leninista». Ora, se per «marxismo» o «marxismo-leninismo» si intende lo stalinismo comunque reinterpretato e attualizzato secondo le concrete situazioni storiche e in base ai reali contesti geopolitici, ebbene occorre ammettere che il PKK è, o almeno era a “bei tempi” della guerra fredda, «un’organizzazione politica di ispirazione marxista», o «marxista-leninista». Per lo stesso motivo chi scrive è pronto a querelare chiunque definisse la sua modesta concezione politica «di ispirazione marxista», o, peggio ancora, «marxista-leninista» (dove l’allusione a Stalin, «l’erede di Lenin» secondo la vulgata, è più evidente).

Questo semplicemente per dire che il mito del «marxismo-leninismo» del PKK su di me non ha alcun effetto, se non quello di costringermi alla breve precisazione di cui sopra. Per sostenere la causa nazionale-borghese (laicismo e femminismo militante/militare inclusi) del popolo curdo non ho bisogno di fantasticare “marxismi”, “socialismi” e “comunitarismi”, ancorché riverniciati di verde o dei colori dell’arcobaleno, che a giudizio di chi scrive esistono solo nella testa dei “marxisti”, dei “socialisti” e dei “comunitaristi” che oggi mi chiedono di «sostenere incondizionatamente l’esperimento socialista in atto a Rojava». Sul «socialismo delle comuni di Rojava» vorrei porre qualche condizione, se mi è concesso, e comunque lascio volentieri ad altri politicamente più dialettici e svegli di me l’incombenza di vendere al mondo l’ennesimo “nuovo modello di socialismo”. E qui potrei anche mettere un punto, perché l’essenziale è stato detto. Invece continuo la riflessione, per giungere rapidamente alla conclusione.

Anziché fare un’opera di preziosa demistificazione critica circa la reale natura delle rivoluzioni nazionali e della loro relazione con l’imperialismo sovietico (e poi anche cinese), i “marxisti” cui accennavo sopra si accodarono alla moda, forse anche per non essere accusati di oggettivo fiancheggiamento dell’Imperialismo, individuato sempre e solo negli USA e nei suoi alleati. Anche intellettuali fecondi come Marcuse non seppero resistere all’ondata di dilagante terzomondismo, e negli anni Sessanta teorizzarono un epocale passaggio di fase: centrale nella prassi rivoluzionaria non era più la lotta di classe “tradizionale” tra Capitale e Lavoro nelle metropoli capitalistiche, ma quella tra Nord e Sud, tra Paesi a capitalismo maturo e Paesi sottosviluppati. Era anche un modo, certamente sbagliato, di reagire alla strapotenza della società capitalistica occidentale (e Giapponese), la quale sembrava poter integrare pacificamente nel “sistema” una classe operaia sempre più “imborghesita”. Alla reale impotenza del proletariato occidentale, peraltro intimamente correlata alla controrivoluzione stalinista che aveva seppellito l’esperienza rivoluzionaria sovietica (nel senso dei «Soviet degli operai, dei soldati e dei contadini» del ‘17), si reagiva proponendo come validi anche per l’Occidente modelli di lotta e di società che non esprimevano affatto un passo avanti rispetto alle condizioni di sfruttamento e di oppressione del proletariato occidentale. Al capitalismo altamente avanzato dell’Occidente molti “marxisti” europei pensarono bene di contrapporre il giovane e non ancora sviluppato capitalismo della periferia del mondo, trasformato con la bacchetta magica dell’ideologia in «originali esperimenti di costruzione del socialismo». Ci fu un tempo in cui l’intero pianeta brulicava di «esaltanti esperimenti sociali alternativi», Cambogia dei Khmer rossi inclusa…

donna2Nei primi anni Ottanta partecipai a diversi comitati di solidarietà con il popolo nicaraguegno in lotta contro l’imperialismo americano e i proprietari terrieri ex somozisti a esso legati. Ebbene, tutte le volte che provavo a gettare acqua sul fuoco delle illusioni circa il “socialismo” con caratteristiche sandiniste mi trovavo in netta minoranza; non c’era verso di introdurre nel dibattito politico il concetto, peraltro elementare, secondo cui il popolo del Nicaragua andava sostenuto secondo realtà e verità, mentre chiedere a questo popolo di dare e di essere quello che esso non poteva dare e non poteva essere, per ragioni che adesso sarebbe troppo lungo spiegare, creava solo autoinganno. E dall’autoinganno alla delusione il passo è assai breve, e sovente le persone politicamente e umanamente più sensibili questo passo lo compiono, mentre i più ideologicamente e psicologicamente corazzati perseverano nell’errore, ad oltranza, contro qualsiasi evidenza: «tanto peggio per i fatti!». D’altra parte, i fatti vanno sempre interpretati…

Tutte le volte venivo accusato, del tutto gratuitamente, di voler sminuire, se non addirittura denigrare, «l’eroica lotta del popolo nicaraguegno per la libertà e il socialismo». Lo ripeto: niente di più falso. Cercavo semplicemente di sostenere una lotta popolare con coscienza, non con ideologia, ossia senza proiettarvi sopra significati che esistevano solo nella testa dei “rivoluzionari duri e puri”. Il fatto che il FSLN di Daniel Ortega si concepisse come un movimento politico «di ispirazione marxista» e si dichiarasse a favore della costruzione in Nicaragua di una «inedita forma di socialismo», questo fatto non faceva velo alle mie analisi sulla natura sociale del sandinismo e sul significato del suo programma di riforme economiche (vedi ad esempio il cosiddetto Piano ‘80). Come sempre, tenevo anche ferma la tesi marxiana secondo la quale i movimenti sociali si giudicano sulla base di ciò che essi sono e fanno, e non a partire da ciò che essi pensano di essere e di fare. D’altra parte, il cattivo retaggio stalinista (anche nella sua variante Terzomondista) aveva fatto sì che qualsiasi cosa (movimento sociale, movimento politico, nazione, imperialismo) si opponesse agli interessi degli Stati Uniti fosse, ipso facto, quantomeno antimperialista e sicuramente progressista.

Dico questo per rendere chiaro al lettore il criterio che uso quando approccio il processo sociale colto nella sua complessità e nella sua dimensione geosociale. Con questo criterio ho ad esempio analizzato la cosiddette “Primavera araba”, venduta da molti “marxisti” occidentali come una «nuova rivoluzione sociale», salvo poi tentare correzioni di rotta non sempre credibili. In questi casi il testacoda è sempre in agguato.

Per Yasin Sunca, «I curdi stanno portando avanti un esperimento di socialismo nel Medio-Oriente, una delle regioni politicamente più problematiche del mondo, e la sinistra internazionale è di conseguenza responsabile alla stessa maniera di conservare l’emergere di questa speranza socialista. Questo esperimento ha bisogno del sostegno incondizionato di tutti i socialisti del mondo e della solidarietà internazionale» (Global Projet, Kobane, socialismo e questione dell’intervento: la miseria della sinistra in Europa, 15 ottobre 2014). Come vedete ci risiamo: una lotta democratico-nazionale, che personalmente e per quel che vale apprezzo e sostengo come tale, ci viene presentata con i crismi del socialismo con caratteristiche curde. Si dice: ma lo stesso PKK oggi rifiuta la prospettiva nazionalista e si muove su una più larga prospettiva politica e sociale. Ne prendo atto, e d’altra parte la vecchia impostazione politico-ideologica della lotta nazionalista non poteva sopravvivere alla fine della guerra fredda, né ai processi sociali che hanno attraversato la Turchia nell’ultimo quarto di secolo, e che ne hanno rafforzato la struttura economico-sociale. La conversione ecologista e confederalista di Öcalan, ancorché resa necessaria dai tempi, testimonia certamente a favore dell’intelligenza politica del leader curdo. Ma i termini (storici, sociali e geopolitici) del problema non mutano di una sola virgola, salvo che non si voglia giocare con le parole, come ama fare la “sinistra radicale”.

enhanced-7920-1412224569-1«I curdi», scrive Sunca, «stanno sperimentando un nuovo modello democratico-socialista a Rojava che ha bisogno del sostegno e della solidarietà della sinistra in Europa. Per questo, come socialisti curdi che vivono in Europa, ne abbiamo abbastanza di questa infinita discussione tra gruppi di sinistra senza nessun concreto passo in avanti. Riguardo al tema della solidarietà internazionale, la sinistra in Europa è in un ciclo di disperazione, avendola portata in una prospettiva misera di cui si dovrebbe liberare senza indugi e senza ulteriori ritardi». Non avendo mai avuto niente a che fare né con la sinistra di governo né con quella di opposizione a cui Sunca si riferisce con tanto comprensibile sdegno, la sua critica nemmeno mi sfiora.

Come il lettore avrà capito, il mio sostegno, sempre per quel che vale, alla lotta del popolo curdo non si nutre delle stesse speranze (illusioni?) “socialiste” di Yasin Sunca.

«La Carta della Rojava è straordinaria. È un testo che parla di libertà, giu­sti­zia, dignità e demo­cra­zia; di ugua­glianza e di “ricerca di un equi­li­brio eco­lo­gico”. Ma pro­vate a imma­gi­nare quale sarebbe la situa­zione in que­sti giorni se a fianco dei kurdi ci fosse un movimento euro­peo con­tro la guerra, capace di una mobilitazione ana­loga a quella del 2003 con­tro l’attacco all’Iraq ma final­mente con un interlocutore sul ter­reno. Non ve ne sono le con­di­zioni? Ragion di più per impe­gnarsi a costruirle. È un sogno? Qual­cuno diceva che per vin­cere biso­gna sognare» (Il Manifesto, 8 ottobre 2014). Lottare e sognare, certo. Possibilmente con coscienza, non con ideologia.

roj* «L’impegno della coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti contro lo Stato Islamico (Isis) rappresenta una miniera d’oro per i produttori di armi statunitensi, i quali vedono incrementarsi i propri profitti. L’ex Segretario alla Difesa Leon Panetta ha detto, cosa che ha fatto oggi anche il Segretario di Stato John Kerry, che il conflitto contro l’Isis durerà a lungo, forse anche decenni, per cui ne consegue che le fabbriche di armi statunitensi rimangono i maggiori beneficiari della crisi» (E. Soltani, Notizie Geopolitiche, 14 ottobre 2014). Difficile stupirsi dinanzi a simili informazioni.

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