MEDIASET E ALTRO. SOPRATTUTTO ALTRO

1466717546-confalonieri-piersilvioberlusconiNei giorni scorsi ho preso degli appunti sulla vicenda  rubricabile come Mediaset e dintorni; ne pubblico una parte sperando di incontrare l’interesse di qualche lettore. Naturalmente il caso Mediaset-Vivendi è solo un pretesto per approcciare “problematiche” più generali di vario ordine. Buona lettura.

Sul Sole 24 Ore della scorsa domenica Luigi Zingales metteva alla berlina il “globalismo” a fasi alterne del Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e sfotteva i suoi compagni di partito che difendono la – cosiddetta – italianità di Mediaset usando la famigerata Legge Gasparri: «Il Ministero dello Sviluppo Economico ha un sito web destinato ad attirare gli investimenti esteri in Italia. Tra le iniziative promosse spicca il Global Roadshow, volto a spiegare “le politiche dell’Italia per l’attrazione degli investimenti esteri”. Il sito, però, specifica che “l’evento è su invito”. Forse per questo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, discutendo dell’acquisto del 20% di Mediaset da parte del francese Bolloré, ha dichiarato che non è “il modo più appropriato di procedere per rafforzare la propria presenza in Italia”. Non era stato invitato. Il governo e la nostra classe politica vogliono l’Europa e la globalizzazione “su invito”. […] Passi il nazionalismo economico di Salvini e quello di Fassina, almeno entrambi sono coerenti nel rifiutare il mercato in tutte le sue forme e metodi [che esagerazione!]. Passi anche l’opposizione dell’ex Ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani: ha sempre dimostrato un amore personale per l’azienda del capo del suo partito. Ma come spiegarlo da parte di Carlo Calenda, esponente del Pd e grande sostenitore del libero scambio? […] Magari con uno “straniero” a capo di Mediaset diventiamo un Paese normale». La retorica del «diventare un Paese normale», che personalmente subisco dalla fine degli anni settanta, non poteva mancare. Forse qualche lettore ricorderà che negli anni novanta quell’auspicio diventò, nella bocca dell’allora star progressista Massimo  D’Alema, un vero e proprio tormentone: «L’Italia deve diventare un Paese normale, diciamo. Come il Regno Unito di Tony Blair, diciamo». Era il tempo in cui il centro-sinistra avviava l’aurea stagione della “Terza via” di stampo laburista e le privatizzazioni in salsa italiana. Diciamo.

A proposito della mitica Terza via che animò il dibattito politico nella seconda metà degli anni Novanta, è interessante leggere le dichiarazioni del professor Anthony Giddens, forse il suo maggior “teorico”: «Quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato. Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità» (La Repubblica, 3 aprile 2015). L’esempio citato da Giddens ci dà l’esatta misura della velocità dei cambiamenti tecnologici e sociali generati dal capitalismo del XXI secolo. Come si vede il teorico della morta Terza via non comprende (ma non è il solo a rimanere impigliato nel feticistico velo tecnologico, tutt’altro) che «la rivoluzione tecnologica» non è qualcosa che si impone dall’esterno all’economia, ma è piuttosto l’aspetto centrale dell’economia capitalistica. Come disse qualcuno (non ricordo il nome) ormai parecchio tempo fa, rivoluzionaria è la stessa natura del Capitale, il quale può sopravvivere solo allargando sempre di nuovo mercati e possibilità di investimenti profittevoli. Di qui, per un verso l’uso sempre più diffuso e stringente della tecno-scienza; e per altro verso l’emergere di conflitti (economici, politici, geopolitici, sociali) e di contraddizioni di ogni genere. È questo il quadro di riferimento che, a mio avviso, faremmo bene a tenere in mente quando approcciamo qualsiasi vicenda economica, politica, sociale nell’accezione più vasta del termine.

Probabilmente la dichiarazione più intelligente sulla vicenda Bolloré-Mediaset è uscita dalla bocca del cadaverico (politicamente parlando, si capisce) Premier francese la scorsa settimana: «I rapporti tra Mediaset e Vivendi rispondono a logiche capitalistiche». Punto. Marx in persona non avrebbe saputo commentare meglio! Ovviamente le «logiche capitalistiche» non escludono affatto l’intervento nella sfera economica di più o meno complesse dinamiche politiche, e ciò è tanto più vero in Paesi, come L’Italia e la Francia, nella fattispecie, nei quali la relazione “Stato-Mercato” è sempre stata molto stretta. Soffocante, secondo i liberisti “puri e duri”.

Il blog Phastidio, ad esempio, parlava qualche giorno fa, sempre a proposito della risibile difesa dell’italianità del Made in Italy, di «socialismo surreale e capitalismo di debito», a proposito dell’economia italiana. La definizione di «socialismo surreale» è tanto spiritosa e godibile sul piano estetico, quanto infondata sul terreno del processo storico-sociale; infondata, ovviamente, dal lato del cosiddetto «socialismo», che per il volgo equivale, già ai tempi di Marx critico del «Socialismo di Stato», all’intervento appunto dello Stato nella sfera economica. L’esito di quella critica è noto: usando il gergo calcistico si tratta di un secco 2 a 0 a favore dei nipotini di Lassalle – e poi dei nipotini di Stalin. La vulgata vuole che, per mutuare una nota reclame, dove c’è Stato c’è socialismo.

In realtà la neutralità dello Stato sul terreno della prassi economica è stata non più che una finzione ideologica fin dai tempi d’oro del liberismo, come documentò nel modo più completo e convincente possibile il barbuto di Treviri a proposito della stessa genesi del Capitalismo (l’«accumulazione primitiva»), sostenuta in tutti i modi (non esclusi quelli più violenti, anzi!) dallo Stato. Lungi dal contraddire la natura capitalistica dell’economia, l’intervento statale in essa è parte organica del sistema capitalistico; piuttosto il problema, e qui veniamo ai nostri giorni, è di natura qualitativa: questo intervento favorisce lo sviluppo scientifico e tecnologico di un Paese? è in grado di sostenere la competitività delle imprese “nazionali” sul sempre più agguerrito mercato mondiale? favorisce più l’innovazione, l’aumento della produttività sistemica, il dinamismo nella «società civile», oppure fomenta il parassitismo sociale, il clientelismo, lo status quo economico e politico, la stagnazione del Sistema-Paese? La relativa (il confronto è soprattutto con la Germania e il Giappone) arretratezza del Capitalismo italiano negli anni Novanta del secolo scorso ha sollecitato lo sviluppo di un concetto molto interessante: la sfera politica (Stato, partiti) come «infrastruttura economica», come formidabile strumento di competitività sistemica. Ma un conto è la teoria, un altro è la prassi. E infatti siamo ancora qui a parlare di «difesa dell’italianità dei nostri gioielli» e della necessità di «un Paese normale»!

A proposito della grave crisi della banca Monte dei Paschi di Siena la scuola liberale del nostro Paese si è divisa; alcuni sostengono che, tutto sommato, la nazionalizzazione della banca, se non addirittura di tutto il sistema bancario italiano, è necessaria, giusta e perfino conveniente: si nazionalizza oggi (con i soldi dei contribuenti!), si ristruttura domani (troppa inefficienza, troppa pletora di inutili funzioni, troppo personale, troppi dirigenti) e si privatizza dopodomani, rivendendo al mercato un asset ritornato profittevole. Altri sostenitori del pensiero liberale pensano invece che la crisi deve fare il suo corso, fino in fondo, e che se il paziente non merita di vivere, è meglio che muoia; smettiamo di farlo oggetto di inutili, e soprattutto costosi (vedi alle voci debito pubblico e carico fiscale), accanimenti terapeutici: «È il mercato, bellezza!». «Mi sembra inevitabile che se il mercato non riesce a salvare MPS ci debba pensare lo Stato. Gli attuali azionisti di maggioranza di Mediaset invece si difendono benissimo da soli»: questo è quanto ha dichiarato ieri a Libero Quotidiano Alessandro De Nicola, che tra le molte cariche vanta pure quella di presidente della prestigiosa Adam Smith Society, «l’associazione che si dedica allo studio e alla diffusione dei principi dell’economia di mercato, della concorrenza e della libera iniziativa». Domanda di Sandro Iacometti: «È sempre sbagliato che lo Stato ficchi il naso nell’economia o ci sono eccezioni che giustificano l’interferenza?». Risposta di De Nicola: «Diciamo che lo Stato ha l’onere della prova di dimostrare in modo inequivocabile l’utilità del suo intervento». Per un liberale come si deve l’intervento dello Stato nell’economia non rappresenta un problema ideologico, ma una questione che investe gli interessi del Capitale colto nella sua totalità: come servire al meglio la sua causa? Naturalmente il liberare presenta questa causa nei termini del “bene comune” («il successo dell’impresa fa bene anche ai salariati, e non solo ai percettori di profitto: siamo tutti sulla stessa barca!»), e questo costituisce il lato ideologico della loro concezione.

Inutile dire che nella cosiddetta estrema sinistra, dove più alto è il tasso ideologico nelle analisi economico-sociali, impazza la parola d’ordine, ultrareazionaria, della «nazionalizzazione delle banche e delle industrie strategiche», con il dichiarato e patriottico scopo di combattere «la stagnazione e il declino economico dell’Italia subalterna ai vincoli dell’Unione Europea. […] Se ne facciano una ragione in molti, a destra come a sinistra». Chi, come me, si batte (diciamo che ci provo) per l’autonomia di classe e contro ogni forma di nazionalismo, non può che sparare a palle incatenate contro le ragioni della “destra”, della “sinistra” e della “estrema sinistra”, i cui esponenti si disputano il primato della miglior ricetta economica per «salvare il Paese» – ossia gli attuali rapporti sociali di dominio e sfruttamento. Come ho scritto in altri post, è la maligna logica del «nostro Paese» che tiene inchiodate al carro del Dominio le classi subalterne. Bisogna rifiutare e demistificare questa logica in qualsiasi occasione e ovunque. Lo so, l’impresa si presenta oltremodo ardua, quasi senza speranza, perché si tratta di sfidare  tutte le correnti patriottiche: dalla cosiddetta estrema destra alla cosiddetta estrema sinistra; ma, come dicono gli intellettualoni, Hic Rhodus, hic salta!Terze vie non ne conosco. E poi falliscono sempre!

Per Vincenzo Vita, specialista in “problematiche” riguardanti gli assetti mediatici del nostro Paese e a suo tempo molto sensibile ai «conflitti di interesse» che facevano capo a Berlusconi, «nella vicenda Bolloré-Mediaset non ci sono buoni e cattivi. Sono tutti cattivi» (Il Manifesto). No, sono tutti capitalisti, ossia investitori che inseguono legittimamente profitti e potere, nel breve, nel medio e nel lungo termine: questo dipende dalla forza commerciale e finanziaria dell’impresa e dal suo peculiare business. È il concetto di investimento capitalistico (qui genericamente inteso) che ci offre un’ottima chiave di lettura dei fatti economici, mentre la categoria moralistica della cattiveria dei magnati come sempre è buona solo ad appagare gli appetiti moralistici dei buoni di spirito e a foraggiare la frustrazione e l’invidia sociale dei nullatenenti – e il “populista” ringrazia. L’investimento capitalistico in vista del profitto presuppone e pone sempre di nuovo la relazione tra i diversi attori economici, che a volte dà luogo a collaborazioni e a sinergie imprenditoriali di vario tipo (che può arrivare fino alla fusione di due o più imprese), e più spesso genera conflitti commerciali e finanziari. Anche i bambini sanno che la competizione fra le imprese è il motore dello sviluppo capitalistico. Obietta il liberista politicamente corretto: «Ma anche la competizione capitalistica deve darsi dentro un preciso quadro normativo: l’economia non è un mondo hobbesiano, non è una giungla selvaggia!». Però somiglia molto all’uno e all’altra. In ogni caso, non c’è «quadro normativo», per quanto stringente e penalizzante gli istinti animaleschi del Capitale, che possa conferire forza a un’impresa che mostra di non averne. Capitalisticamente parlando, il più forte e il più adatto vince sempre; è solo una questione di tempo. La disputa in corso ci dirà probabilmente se i rapporti di forza finanziari e commerciali tra Mediaset e Vivendi premieranno Berlusconi, il quale sa bene che il «quadro normativo» e la “dialettica politica” possono aiutarlo solo fino a un certo punto, o Bolloré, le cui finanze sembrano al momento molto floride: «In cassa Vivendi ha 2,1 miliardi, ma la liquidità di cui dispone è molto più alta», ha dichiarato Arnaud de Puyfontaine, Ceo di Vivendi e braccio destro di Vincent Bolloré, in un’intervista rilasciata la scorsa settimana al Corriere della Sera.

Come spesso accade, per leggere qualcosa di intelligente sulle tante magagne sistemiche che – praticamente da sempre – azzoppano l’italico Capitalismo bisogna rivolgersi al giornalismo economico orientato in senso liberista. Scrive ad esempio il già citato Phastidio: «Mediaset è un’azienda che rischia di essere troppo piccola per l’evoluzione tecnologica globale, che va verso l’integrazione sempre più spinta tra piattaforme e contenuti. Dopo decenni passati nel confortevole duopolio con la Rai, e dopo essere stata indebolita da Sky, che ha deragliato Mediaset Premium, si avvicina il tempo delle scelte. Quando non si ha la massa critica per reggere investimenti in nuove tecnologie, si possono tentare alleanze. Che gli alleati, ad un certo momento, ipotizzino di prendersi tutto il piatto, fa parte degli eventi della vita. Ma il punto vero è un altro: il nostro è un paese in cui i capitalisti non hanno capitale, da sempre, e preferiscono intessere rapporti malati con la politica e le banche, in chiave protezionistica. Saltata la protezione delle banche, la politica è finita con le spalle al muro». Gli esempi passati e recenti dei denunciati «rapporti malati» sono troppo macroscopici, numerosi e noti per meritare di essere ricordati in questa breve nota. «Per tutti questi motivi, permetteteci di dirlo chiaro e forte: Mediaset è sotto minaccia dello Straniero? E chissenefrega. Firmato: un cittadino-contribuente che ne ha piene le palle. Da molto tempo». Chi sono io per dare del menefreghista a Phastidio? Tanto più che ai patriottici richiami della Nazione ho sempre opposto una certa ottusa sordità, diciamo. Insomma la «colonizzazione» del Paese da parte del Capitale “straniero” mi lascia del tutto indifferente, quanto a partigianeria.

Per Giuseppe Turani «È il mercato, bellezza»: «In realtà, per difendere le aziende italiane (concetto peraltro un po’ ridicolo in tempi di globalizzazione) servirebbero non politici diversi, pronti a emanare decreti e leggi speciali, ma un capitalismo diverso. Il nostro è un capitalismo senza capitali. Lo è sempre stato, è nato così. […] Tutti poveri in canna? No. Ma chi ha mezzi in genere li ha impegnati nel suo business e non va a gettarne una quota in affari che non conosce e non capisce. E infatti la Ducati, che è l’Italia, una gloria nostra, piccola azienda che gareggia contro i giganti giapponesi del settore, è finita prima al Texas Pacific Group e poi alla Audi. La stessa cosa si ripete regolarmente tutte le volte. […] Fare leggi “nazionalistiche” non serve: se un’azienda viene quotata in Borsa, la proprietà sarà decisa dal mercato, non dal ministro dell’economia o da una commissione parlamentare. Funziona così in tutto il mondo. Per difendersi da Bolloré Berlusconi ha una sola strada: diventare più forte in Mediaset, comprare azioni. Ci sono, è vero, paesi più “chiusi” (Francia e Germania) nel senso che in caso di assalto a loro imprese, le altre si mobilitano e fanno blocco. Da noi nessuno fa blocco perché tutti tentano di sopravvivere e certo non hanno i mezzi per occuparsi di altri».

Secondo Oscar Giannino «bisognerebbe evitare polveroni inutili, in cui in Italia eccelliamo ogni volta che un gruppo estero mette nel mirino gruppi italiani. Distinguiamo almeno tre piani, allora, e stiamo ai fatti. Primo: è vero che l’Italia delle imprese è terra libera di preda per affamati gruppi stranieri? Secondo: c’è un senso industriale nelle operazioni di Bolloré in Italia, o è pura e spregiudicata guerra di corsa? Terzo: ha un senso mobilitare la politica e chissà quale suo diritto di veto, oppure nella vicenda in corso ci sono, bastano e avanzano banali ed elementari regole di mercato, al cui rispetto chiamare tutti i contendenti?». Ha un fondamento economico l’italico piagnisteo circa l’invasione del suolo patrio da parte del “capitale straniero”, pronto a fare shopping industriale e finanziario ai danni del Belpaese? «Lasciamo parlare i numeri. Mi spiace molto per le autorevolissime testate d’informazione che ogni volta riattaccano la tiritera dell’Italia d’impresa alla mercé di barbari stranieri che vengono qui a banchettare espropriandoci, ma pare proprio che le cose non stiano così. Se andiamo alla banca dati Reprint-Politecnico di Milano-ICE – dati ohimè aggiornati solo a fine 2014 – i dati sconfessano le geremiadi. Le imprese estere controllate da imprese italiane erano 20418 nel 2008 e sono salite a 23.433 a inizio 2015. Con un numero di addetti all’estero salito da un milione e 80mila unità a un milione e 170mila. E con un fatturato all’estero accresciutosi da 373 a 417 miliardi di euro. Le imprese italiane controllate da società straniere al contrario erano 9340 nel 2008 e sono salite a inizio 2015 a 10.148 unità, con addetti complessivi tra Italia e mondo passati da 822mila a 828mila unità, e un fatturato sceso da 422 a 417miliardi (soprattutto all’estero). Teniamo a mente questi dati: è vero che moltissimi marchi della moda o alimentari del nostro made in Italy sono passati in mani straniere, ma nessuno qui fa altrettanta attenzione alle centinaia di acquisizioni italiane all’estero annuali nella manifattura, meccanica, componentistica, engineering, energia, o a quelli di Luxottica negli USA».  La pensa allo stesso modo, e non poteva andare diversamente, il già citato de Puyfontaine,: «C’è troppo dramma. Ci sono molti italiani che guidano grandi gruppi francesi, da Toni Belloni a Lvmh a Bini Smaghi a Societé Générale. L’anno scorso gli italiani hanno investito 20 miliardi in Francia. Quando Mondadori nel 2006 ha comprato una delle maggiori media company in Francia, nessuno ha protestato. Idem quando Campari ha comprato Grand Marnier più di recente. […] Noi Vogliamo creare una media company europea di dimensioni mondiali» (Il Corriere della Sera). Si tratta di vedere chi alla fine guiderà un processo imprenditoriale (la creazione di «una media company europea di dimensioni mondiali») che allo stato dell’arte appare inevitabile: Berlusconi o Bolloré? Un accordo tra i due appare ancora plausibile, nonostante la postura “nazionalistica” esibita dall’ex Cavaliere e da Federico Confalonieri, secondo il quale «Questa è una scalata ostile non solo dal nostro punto di vista ma anche dal punto di vista della politica. E sotto questo punto di vista ci ha fatto molto piacere il sentirci appoggiati anche dalle istituzioni, perché si è capito che c’è della sostanza, qui non c’è in gioco solo l’italianità e l’inno di Mameli, ma anche l’interesse nazionale» (ANSA). Berlusconi ovviamente gongola nel vedere tanti suoi ex avversari politici, che solo ieri dichiaravano di volerlo vedere quanto prima in mutande chiedere l’elemosina all’ingresso di una chiesa, difendere oggi i suoi interessi di bottega in guisa di interessi nazionali: «Cribbio, c’è ancora giustizia su questa Terra!». Ma ritorniamo a Giannino.

«Seconda questione. Mentre qui piagnucoliamo per tentare di difendere ossessivamente il duopolio tv Rai-Mediaset per altro da anni superato per fatturato da Sky e dalla sua offerta non generalista, il mondo da anni accelera verso grandi integrazioni di players globali. Ieri la 21st Century Fox di Murdoch ha comunicato di aver raggiunto un’intesa con il management di Sky per aggiudicarsene il pieno controllo, rilevandone il 60% che ancora non possiede con un deal da 14,6 miliardi di dollari. L’obiettivo è dar vita a un gigante transcontinentale a cui sommare i 22 milioni e oltre di clienti di Sky in Italia, Regno Unito, Irlanda, Austria e Germania, e unendo a Fox i diritti della Premier League britannica e di serie tv di successo mondiale come Game of Thrones. È la risposta di Murdoch alla sfida globale di Netflix. Mentre grandi telcos americane come AT&T hanno rilevato nel 2016 grandi gruppi leader nei contenuti e nelle library cinematografiche come Time Warner. Negli USA il 100% del mercato delle pay-tv è verticalmente integrato tra operatori tv e TLC. In Francia il 37%, in Germania il 29%. Solo in Italia restiamo con il 100% del mercato tv in mano solo a operatori televisivi: siamo fuori dalla storia. Netflix, Apple e Amazon hanno già il 67% del mercato globale dei video online a pagamento. Se anche YouTube entra nel settore dei contenuti video premium, oltre il 90% del mondo avrà player globali solo americani, che profilano i clienti e sanno tutto delle loro abitudini di consumo, cosa che conta molto più di quanti si limitano a pagare un abbonamento. Viene di qui l’interesse per un progetto che unisca Canal+ francese e la forza di advertising del gruppo Havas e di Vivendi, cioè di Bolloré, con Mediaset forte di Telecinco in Spagna, per un eventuale player europeo: capace anche di offerte integrate con Telecom Italia – di cui Bolloré è maggior azionista di riferimento – e magari con la Telefonica spagnola e con la stessa telco francese Orange, in una prospettiva di cooperazione continentale. Ma, certo, il problema è come farlo, con quali rapporti di forza societari, e con chi alla testa. Eccoci alla terza questione. Ieri Agcom ha già tirato un freno, dicendo che qualunque ipotesi che mettesse insieme Telecom Italia e Mediaset sotto guida francese si scontrerebbe con i limiti antitrust, valicati dalla eventuale somma delle due società sul mercato italiano. Ma il punto non è il mercato domestico, bensì quello europeo e mondiale. Il governo e i politici si sono subito protesi a dire che l’italianità di Mediaset va preservata. L’italianità porta titoli sui giornali, ma c’entra come i cavoli a merenda. L’unico punto di cui essere rigorosamente certi è che le regole di mercato siano rispettate». E lo sono state? Secondo Giannino è legittimo nutrire dubbi sulla correttezza dell’operazione borsistica (il blitz puzza di aggiotaggio) messa in atto da Vivendi, e solo l’arretratezza e la lentezza degli organismi preposti al controllo delle “regole del gioco” non consentono una rapida soluzione della vicenda sul terreno legale, per ricollocarla sui binari della «fair competition». In ogni caso non si avverte il bisogno di «scomodare né l’autarchia della politica né i magistrati penali. E senza negare che è un grande interesse anche per Mediaset e per i players italiani, partecipare nel rispetto rigoroso delle norme all’eventuale costruzione di un grande soggetto europeo».

Pare che anche nella famiglia Berlusconi non tutti vedono come il fumo negli occhi l’attivismo finanziario e imprenditoriale dello “squalo bretone”, e che lo stesso patriarca milanese stia solo cercando di vendere il più caro possibile la pelle del suo impero. Vedremo. Intanto si apprende che «L’arrocco e le battaglie legali, alla fine, non sono serviti a nulla. Vincent Bolloré, come previsto, tira dritto per la sua strada, non aspetta che gli avversari – Mediaset da una parte, il governo e il Sistema Italia dall’altra – si organizzino e arriva fino alla soglia dell’Opa su Mediaset. Il raider bretone ha raggiunto il primo obiettivo: la famiglia Berlusconi è sotto scacco e con le mani – al netto delle opzioni giudiziarie – quasi legate» (E. Livini, La Repubblica). E la borsa festeggia. «Cribbio!».

Continua. Forse.

IL GARANTISTA: UNA RAZZA ESTINTA?

C_2_video_371734_videoThumbnailQualche mese fa mi concedevo il lusso della seguente incidentale riflessione: «Soprattutto a proposito della “deriva manettara della sinistra” Piero Sansonetti ha scritto cose intelligenti» (Riflessioni rigorosamente antisovraniste). A mio avviso, l’editoriale di oggi del direttore del Garantista, dedicato alla battuta berlusconiana sulla Magistratura come «potere incontrollato e incontrollabile» sanzionata ieri dal Tribunale di Sorveglianza di Milano, conferma questo giudizio.

Per Sansonetti «il pregiudicato», come amano chiamarlo alcune tifoserie particolarmente agitate di Miserabilandia, Silvio Berlusconi aveva tutto il diritto di commentare nel modo che sappiamo la battuta del Presidente della sesta sezione del Tribunale Giovanna Ceppaluni («Non c’è proprio alcun bisogno che lei capisca»), sbagliata nei contenuti e maleducata nella forma: «non ci si rivolge così né a un giovane né, tanto meno, a un uomo anziano». Naturalmente questa sua ultima “scivolata garantista” confermerà dalle parti dei manettari sinistrorsi l’idea secondo la quale Sansonetti ha venduto l’anima al Demonio. «Sansonetti è un uomo di sinistra? Ma non scherziamo! Quello è più a destra del pregiudicato di Arcore!»

In una intervista a Tempi del 17 giugno scorso Sansonetti spiegava nei termini che seguono il senso della sua nuova e difficile avventura editoriale: «Da almeno vent’anni, penso anche trent’anni, non c’è più una sinistra garantista in Italia, quanto meno non è maggioritaria. Anzi, oggi questa parola ha subìto uno strano contrappasso, spesso in certi ambienti assume il significato erroneo di “amici dei mafiosi”. Per garantismo invece si intende la civiltà, la migliore tradizione dell’illuminismo o del cristianesimo. Ecco noi vogliamo costringere anche la sinistra a ragionare, a tornare a personaggi che sono stati pilastri portanti del diritto per l’Italia. C’è stato un tempo in cui la sinistra italiana è stata garantista e vorrei spingere quella attuale a ricordare persone come Umberto Terracini, o Piero Calamandrei».

Qui il nostro garantista senza se e senza ma si rende responsabile di un piccolo peccato omissivo: egli, infatti, non ricorda al lettore le cosiddette leggi speciali (o «emergenziali», come si disse allora) varate negli anni Settanta dallo Stato democratico per reprimere movimenti politici e sociali irriducibili alla cosiddetta logica democratica, che è poi la logica della conservazione sociale, la quale ha soprattutto nella prassi elettorale il suo momento più efficace e pregnante. Perché più efficace e pregnante? È presto detto: con la scheda elettorale il Dominio consegna ai dominati la corda con cui essi sono invitati a impiccarsi. Certo, ai cittadini elettori è concesso il diritto di scegliere “liberamente” l’albero che più gli aggrada per espletare la cosa: l’albero di “destra”, l’albero di “centro”, l’albero di “sinistra”, e così via. Ce n’è per tutti i gusti! Basta rispettare la Sacra Costituzione benedetta a suo tempo da Umberto Terracini e da Piero Calamandrei.

Chi ha una certa età, o semplicemente chi ha studiato la storia dei famigerati “anni di piombo”, sa bene come il partito della repressione ebbe soprattutto nel PCI di Berlinguer, nella DC di Cossiga e nel PRI di La Malfa (il quale dopo l’uccisione di Aldo Moro chiese, con Almirante, l’introduzione della pena di morte per i reati di terrorismo) i suoi maggiori sponsor. Con la scusa della lotta al terrorismo, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, lo Stato democratico «nato dalla Resistenza» (e degno erede dello Stato fascista*) gettò nelle patrie galere migliaia di giovani che in qualche modo cercarono di organizzare la lotta dei salariati e dei proletari in genere (disoccupati, senza casa, coscritti alla leva, carcerati, ecc.) al di là e contro la politica dei sacrifici e la “logica delle compatibilità” centrata sugli interessi nazionali.

Allora i “garantisti”, specie se di fede “comunista”, si contavano sulle dita di una sola mano, al punto che qualche intellettuale particolarmente coraggioso avanzò l’ipotesi del garantista come di una specie ormai estinta. Inutile dire che i pochissimi garantisti che ebbero l’ardire di sollevare dubbi circa la «tenuta democratica» del Paese sottoposto al regime emergenziale, non compresero come sia un inganno ideologico contrapporre carota e bastone, agibilità democratica e autoritarismo, elezioni e repressione, democrazia e fascismo, Umberto Terracini e Cossiga (pardon: Kossiga). Ma dal garantista è meglio non pretendere quello che egli, in assoluta buonafede, non è in grado di offrire.

berlusconi-marcello-dell-321114* Cosa che non compresero i terroristi “rossi” imbevuti di ideologia stalinista e resistenzialista, cresciuti, come ebbe a scrivere allora Giorgio Bocca, coltivando il risibile (ma questo lo sostiene chi scrive) mito della «Resistenza tradita» elaborato dalla “sinistra” del PCI. Lo stesso Bocca ammise che proprio questo legame con la Resistenza e con la storia del PCI gli procurava nei confronti dei «nipoti di Stalin e Togliatti» un ambivalente sentimento di odio/amore. Come non smetto di ricordare in questo blog, la Repubblica democratica nata dalla Resistenza si è data come la continuazione del regime sociale capitalistico con altri mezzi e nelle mutate circostanze, e quindi in assoluta continuità “strutturale” con il precedente regime politico-istituzionale. La stessa Resistenza altro non fu se non la continuazione della guerra imperialistica con altri mezzi, nelle mutate circostanze create dalla vittoria delle potenze “antifasciste”.

BERLUSCONI, DELL’UTRI E L’AMICO DEL GIAGUARO

berlusconi-marcello-dell-321114Una notizia scuoteva/rincuorava l’altro giorno Miserabilandia: «Acciuffato in Libano il latitante dell’Utri, l’amico del cuore del pregiudicato Berlusconi». Lacrime a “destra” («L’ennesimo colpo di Stato della Magistratura Rossa!»), giubilo a “sinistra” («La Giustizia trionfa sempre!»), orgasmi etici fra i grillo-travaglisti («In prigione, in prigione, e che serva a tutti da lezione!»).

Ecco invece la mia pacata reazione: «Dell’Utri assicurato alla Giustizia (borghese)? E chi se ne frega!» Dite che così do l’impressione di essere, quantomeno “oggettivamente”, amico del Giaguaro? Allora è il caso di chiarire meglio il filosofico concetto: e chi se ne frega²!

È soprattutto quando il Leviatano mette le sue violente zampe sui personaggi dati in pasto alla cosiddetta opinione pubblica in guisa di spregevole gentaglia, che il Dominio sociale riafferma ed espande la propria potenza materiale, ideologica e psicologica ai danni degli individui atomizzati; riafferma e approfondisce la propria capacità di controllo sociale attraverso il consenso della massa eticamente orientata. Se poi a finire male è un riccone-mafioso-pedofilo-puttaniere-evasore, per soprammercato “di destra” e pure antipatico (ma qui bisognerebbe interpellare almeno i suoi amici e parenti), allora l’effetto politico-ideologico di cui sopra è assicurato. Da sempre le classi dominanti hanno usato astutamente l’invidia sociale che cova soprattutto nella sentina della società, negli ultimi piani dell’edificio sociale. Ricconi, ebrei, negri, stranieri, omosessuali, depravati, puttane, comunisti: la lista dei capri espiatori è lunga assai!

dell-utri-selfie-320900Nel caso in questione si può anche parlare di un’arma di distrazione di massa? Nulla ce lo impedisce. Non si tratta di un complotto, di un’operazione studiata a tavolino, ma piuttosto di un fatto. La cosa si dà oggettivamente, per buttarla in “filosofia”. Se al disoccupato non possiamo dare un lavoro, né un “posto sicuro” al precario o più salario al lavoratore, beh, diamogli almeno in pasto un po’ di merce eticamente corretta: «La giustizia è uguale per tutti, e come il Padreterno non guarda in faccia a nessuno». Almeno per qualche ora il metaforico stomaco “degli ultimi” è sazio, secondo gli auspici del Santissimo Francesco.

D’altra parte, il Moloch non è al servizio di questo o quel riccone, ma dei vigenti rapporti sociali che ci costringono a vivere come bambini eternamente bisognosi dell’amorevole protezione del Mostro. E non sto parlando del «mafioso» Dell’Utri.

QUALCHE RIFLESSIONE SULLO STATALISMO. ASPETTANDO IL 25 APRILE…

idraAlberto Mingardi scopre una «sorprendente continuità» fra la Repubblica nata dalla resistenza e il regime fascista. Questa continuità, che secondo Mingardi trova un puntuale riscontro nella Costituzione repubblicana, è a dir poco imbarazzante (beninteso per gli adoratori della «Costituzione più bella del mondo», non per il sottoscritto) soprattutto per quanto riguarda la sfera economica. «Nel 1956, l’Italia postfascista si dota del Ministero delle Partecipazioni statali, che si dà il compito di coordinare i tentacoli della piovra. […] Il sistema delle “partecipazioni statali”, anche se allora non si chiamava così, era perfettamente coerente con l’ideologia e la prassi dell’Italia fascista. “Niente oltre lo Stato, al di sopra dello Stato, contro lo Stato. Tutto allo Stato, per lo Stato, nello Stato”» (p. 298). Questa tesi non può certo sorprendere, e tanto meno indignare, uno che, come chi scrive, sostiene da sempre che la Repubblica nata dalla Resistenza si è data come la continuazione del Fascismo con altri mezzi, in un contesto nazionale e internazionale mutato dalla Seconda carneficina mondiale.

Mingardi individua appunto nello statalismo non solo il filo nero che lega intimamente Fascismo e Repubblica, ma anche il vizio d’origine che ha minato tanto la democrazia italiana, ben presto degenerata in un regime burocratico e partitocratico, quanto la struttura economica del Paese, diventata assai rapidamente obsoleta, vittima di un aggressivo parassitismo sociale e infiacchita da un debito pubblico sempre più elefantiaco. «Se lo Stato non ha limiti, se nelle cultura di un paese non c’è un’idea radicata e diffusa di che cosa la politica non può fare, essa tenderà a fare tutto. Per lo Stato, cercare di fare più cose è coerente sia con gli interessi della burocrazia che con quelli della politica. Moltiplicando le attività dello Stato, la burocrazia acquisisce potere. La sua parola diventa l’ultima in un numero sempre più vasto di frangenti. Ma, parimenti, moltiplicando le attività dello Stato, la classe politica sa che una quota crescente della popolazione ne dipenderà. Queste persone votano» (A. Mingardi, L’intelligenza del denaro, p. 303, Marsilio, 2013).

La mitica – e famigerata – spending review, che dovrebbe snellire, razionalizzare e moralizzare il settore della Pubblica Amministrazione («forse il più tipico luogo del lavoro improduttivo, almeno nell’ottica classica», secondo Luca Ricolfi*), deve fare i conti con questa realtà: «Queste persone votano». Soprattutto nel Mezzogiorno…

Per dirla sempre con Ricolfi, «Più acquisti, più stipendi pubblici, più pensioni, più sussidi, più rendite finanziarie, (titoli di Stato): in breve, più parassitismo. Questo meccanismo ha permesso agli italiani di vivere per vent’anni [1972-1992] al di sopra dei propri mezzi». Lo giuro, non è il mio caso! Ma la critica liberista di Ricolfi è di ampio respiro, e coinvolge la stessa genesi dello Stato unitario italiano: «La borghesia italiana non è mai stata liberale, né ha mai cercato sul serio di ridurre il ruolo della politica. Ha semmai sempre cercato di usare la politica, per ottenere favori, esenzioni, posizioni di rendita, informazioni riservate, commesse, sussidi. I ceti produttivi del Nord non sono nemmeno riusciti a strappare un federalismo degno di questo nome» (Intervista rilasciata a Linkiesta del 15 settembre 2011). In effetti, l’intima compenetrazione fra capitale privato e capitale pubblico ha caratterizzato lo sviluppo capitalistico dell’Italia postrisorgimentale, e se nel primo periodo dell’accumulazione tale modello si impose come necessario, dal momento che il Paese si trovava a competere con sistemi capitalistici ben più forti e strutturati, e conseguì rilevanti successi, alla fine esso mostrò tutti i suoi limiti e tutte le sue contraddizioni.

L’esigenza di fare dell’Italia una Potenza almeno di media grandezza (che diamine, un posto al sole anche per la «nazione proletaria»!), la Prima guerra mondiale e la crisi degli anni Trenta misero da parte i pur timidi tentativi governativi tesi a rendere più “liberale” il Capitalismo italiano, e piuttosto «crearono tutte le premesse economiche e politiche della fase più recente di sviluppo dell’economia italiana, contrassegnata dal prevalere di una forma organica di capitalismo monopolistico di Stato» (P. Grifone, Il capitale finanziario in Italia, p. 31, Einaudi, 1971).

Di qui, e mi si permetta di sintetizzare per ovvi motivi molti passaggi logici e storici, per un verso la necessità di promuovere quelle «riforme strutturali», economiche e istituzionali, in grado di svecchiare e dinamizzare l’anchilosato sistema capitalistico italiano, e per altro verso l’esistenza di forti e radicate rendite di posizione che conferiscono a questa improcrastinabile (e tuttavia rimandata sempre di nuovo, di anno in anno) azione “riformista” un carattere altamente problematico, al limite della mission impossible. Decennio dopo decennio, i “decisionisti” e i “rottamatori” di turno hanno dovuto arrendersi dinanzi alla pervicace resistenza dei «poteri forti», e subire un triste destino da rottamati. Sotto questo aspetto, la vicenda di Bettino Craxi è davvero esemplare, come in parte lo è, mutatis mutandis, anche quella di Berlusconi, che nel ’93 sostenne di «scendere in campo»  per avviare quella «rivoluzione liberale» che altri Paesi (come l’Inghilterra della Thatcher e gli Stati Uniti di Reagan) avevano già alle spalle, salvo sprofondare nella solita «palude conservatrice», e di Bossi, la cui «rivoluzione federalista» fu ben presto depotenziata e derubricata a riformetta istituzionale inconcludente.

destra-sinistra-bohDiversi miei interlocutori «di sinistra» non capiscono perché un «devoto a Marx» debba avercela così tanto con il Capitalismo di Stato, senza contare «la tua posizione fin troppo morbida a proposito del craxismo, del leghismo e del berlusconismo». Ribadito che la “devozione” a Marx che si legge sul profilo del mio blog è un’ironica battuta di un’amica, chiarisco ciò che dovrebbe apparire abbastanza ovvio sulla scorta dei miei modesti scritti: non faccio alcuna distinzione di principio tra capitale pubblico e capitale privato, che sono due modi diversi di esistere della stessa escrementizia sostanza storico-sociale. Sovente attacco lo statalismo non perché faccio il tifo per il «liberismo-selvaggio», magari inseguendo la ridicola illusione del «tanto peggio, tanto meglio» (per me il tanto peggio è sempre, ogni giorno che il Capitale manda in terra), e tanto meno per scimmiottare ridicolmente le battaglie “liberoscambiste” del giovane Marx; lo faccio perché 1. molte volte lo statalismo è stato presentato sotto le menzognere vesti del “comunismo”, o comunque di un modello meno disprezzabile che non il modello liberista, e 2. per mettere in luce ciò che accomuna fascismo e stalinismo, ossia la fede nel Moloch-Stato (capitalistico).

Quanto al mio atteggiamento nei confronti del craxismo, del leghismo e del berlusconismo (ma anche del grillismo e del renzismo), esso può apparire morbido e financo ambiguo solo agli occhi di chi ama scegliersi di volta in volta il male assoluto contro cui combattere. Per me il male assoluto è il regime sociale capitalistico in quanto tale, è il Capitale tout court, a prescindere dalla forza politica che al momento amministra la baracca. Chiamo Miserabilandia l’Italia che si divide in fazioni e tifoserie politico-ideologiche, del genere: berlusconiani e antiberlusconiani, leghisti e antileghisti, renziani e antirenziani, grillini e antigrillini, e via discorrendo. Tutte le fazioni e le tifoserie si agitano scompostamente e ridicolmente sullo stesso melmoso (che eufemismo!) terreno.

Per me si tratta piuttosto di capire le ragioni profonde (economiche, politiche, culturali, psicologiche), d’ordine interno e internazionale, che danno corpo ai fenomeni politico-sociali, ed è per questo che a suo tempo nel caso della Lega non mi sono concentrato sui suoi aspetti folcloristici e ideologici, che portarono fior di politologi e sociologi a pronosticarne la fine nell’arco di pochi anni (vedi anche il loro giudizio su Berlusconi), ma piuttosto sulle sue cause strutturali: l’ineguale sviluppo capitalistico in Italia. Una contraddizione sociale (alludo ovviamente al gap Nord-Sud) che a un certo punto produsse conseguenze politiche. E siamo al referendum secessionista dei Serenissimi di questi giorni…

* L. Ricolfi, Il sacco del Nord, Guerini e Associati, 2012. Come dimostrano i passi che seguono, il libro di Ricolfi è molto interessante: «La distinzione fra settore produttivo e settore improduttivo è al centro del pensiero degli economisti classici, e segnatamente di Adam Smith. La distinzione fra produttori e non produttori è l’idea portante dello schema con cui ho provato a guardare l’Italia. Sulla base di essa è stato possibile distinguere fra redditi primari e redditi derivati, fra ciò che un territorio produce e ciò che un territorio riceve» (p. 26). «Dopo gli economisti classici, la distinzione produttivo-improduttivo ha perso la sua centralità nel discorso degli economisti. […] Ma il colpo di grazia alla dicotomia classica viene dalla nascita, negli anni Quaranta, della moderna contabilità nazionale di tipo occidentale, in cui il settore della Pubblica Amministrazione, forse il più tipico luogo del lavoro improduttivo, almeno nell’ottica classica, viene trattato esattamente come tutti gli altri settori nonostante non ne possegga le caratteristiche essenziali » (38-39). «In Marx i produttori sono, in buona sostanza, solo i lavoratori manuali e i tecnici che generano plusvalore per un capitalista, dove per plusvalore Marx non intende semplicemente un profitto, ma un profitto che si realizza attraverso la produzione di merci, ossia di qualcosa che “incorpora” valore-lavoro generato dai produttori e nello stesso tempo si separa anche materialmente da essi, ovvero sta loro di fronte come una realtà estranea che li domina (feticismo delle merci). Ciò conduce a considerare improduttivi non solo i dipendenti pubblici e i prestatori di sevizi privati (servizi domestici), ma anche l’intera sfera della circolazione (commercio, credito), dove sia i capitalisti sia i lavoratori da essi impiegati sono “improduttivi” in quanto non creano valore oggettivato in merci, ma si limitano ad appropriarsi di parte del plusvalore in esse incorporato» (38). «Una soluzione chiaramente inappropriata per un’economia moderna» (43). Forse sarà bene ritornare su Ricolfi.

UMILIATI E OFFESI. I DOLORI DEL POPOLO ANTIBERLUSCONIANO

berlusconi-renzi-liberace-2883381. Pregiudicato!

I manettari del Fascio Quotidiano e i “comunisti” del Manifesto hanno voluto dare voce al «grave disagio», allo smarrimento e alla vera e propria indignazione che in queste tragiche ore attraversano il Popolo di Sinistra. «Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014?», chiedeva retoricamente ieri Marco Politi dal quotidiano che rappresenta forse l’ultima trincea dell’antiberlusconismo duro e puro. La risposta non poteva essere che questa: «Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale».  La parola chiave, qui, è pregiudicato. Notare anche l’accostamento, che la dice lunga sulla natura violenta e rancorosa dei manettari, tra il «professore pedofilo» e il «puttaniere» di Arcore – e nessuno si azzardi a paragonarlo al socialista Hollande!

Ora, e al di là delle tante considerazioni politiche – e psicoanalitiche – che si possono fare sulle opposte tifoserie di Miserabilandia, ditemi se uno che, come il sottoscritto, è da sempre un avversario irriducibile della legalità borghese (scusate l’arcaismo), e quindi del «sistema costituzionale» (scusate il sovversivismo delle classi subalterne), può “vivere” con disagio e insofferenza il “famigerato” incontro tra Renzi e Berlusconi. Renzi e Berlusconi hanno raggiunto un accordo? E chi se ne frega! Non lo hanno raggiunto? Idem!

Parlo in qualità di qualunquista? In un certo senso sì, perché a mio avviso qualunque sistema politico-istituzionale non è che uno strumento di oppressione, di controllo sociale, di difesa e di irrobustimento dello status quo. Certamente, in questa peculiare accezione mi si potrebbe pure definire un perfetto qualunquista: non mi offenderei neanche un po’.

E così ho sdoganato anche il qualunquismo!

Scrive oggi l’afflitta e umiliata Norma Rangeri: «A pen­sarci bene, che a deci­dere sul futuro del nostro Paese sia un pregiudicato non è umi­liante solo per un par­tito, ma per tutti». Naturalmente in questo «tutti» non bisogna considerare la mia modesta persona, poiché dal mio punto di vista semplicemente – rozzamente? – anticapitalistico, i nemici mortali del Cavaliere Nero, quelli che affettano un’odiosa quanto risibile superiorità antropologica nei suoi confronti, si trovano sul suo stesso terreno: la difesa della società capitalistica, che rimane escrementizia e nemica dell’uomo in generale, e dei proletari in particolare, anche se al governo ci fosse un Cavaliere Bianco. Possibilmente di sinistra!

berlusconi-lele-mora-2424522. Berlusconi e il discorso del capitalista

Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare le riflessioni di Lidia Ravera e Massimo Recalcati sollecitate da Lilli Gruber, la “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, e mi si è rafforzata nella testolina un’idea che coltivo da sempre: la critica della società disumana che non è in grado di cogliere le radici storiche e sociali del grave disagio esistenziale che vive l’individuo dei nostri pessimi tempi, facilmente smotta verso una posizione reazionaria “a 360 gradi”: sul piano politico, su quello etico, filosofico e quant’altro. È un fatto che con oltre un decennio di ritardo, i due progressisti sono approdati sulle posizioni antisessantottine di Giuliano Ferrara, forse il più intelligente fra i reazionari (di “destra” e di “sinistra”) in circolazione nel Paese.

In particolare, Ravera e Recalcati non comprendono come «il godimento immediato e senza limiti», «la libertà che non conosce limiti né legge», che insieme danno corpo «a quello che in psicanalisi si chiama perversione», e, dulcis in fundo, «l’evaporazione del Padre» (ma anche la madre non sta messa bene, a quanto pare); come tutto ciò sia essenzialmente il prodotto di processi sociali che rispondono alla sola Legge che in questa epoca storica domina l’intera esistenza degli individui: la bronzea e sempre più totalitaria Legge del profitto.

È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale e residuale rispetto alle funzioni educative formali e informali riconducibili allo Stato, al «sociale privato» e al mercato. Quando il Moro di Treviri, con un certo anticipo su Schumpeter, definì strutturalmente rivoluzionario il Capitalismo, egli non intese riferirsi solo alla dimensione dell’economico, tutt’altro. Il «linguaggio della struttura», per dirla con Lacan, è il linguaggio della prassi sociale dominata dall’economia capitalistica. Dove qui per struttura occorre intendere il corpo sociale colto nella sua complessa, conflittuale e contraddittoria totalità.

Il lacaniano «discorso del Capitalista», che Recalcati cita continuamente soprattutto come corpo contundente antiberlusconiano, ha una pregnanza concettuale e una radicalità politica che egli nemmeno sospetta. In bocca a Recalcati, quel «discorso» non supera il livello dell’impotente lamentela intorno alla nota mercificazione dell’intera esistenza (dis)umana, fenomeno che se è inteso nella sua vera essenza, e non alla maniera, banale e superficiale, degli intrattenitori da salotto, condanna senza appello l’odierno regime sociale qualunque sia la contingente forma politico-ideologica delle sue istituzioni: democratica, dittatoriale, autoritaria. Infatti, come ho scritto altre volte, il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica deve essere messo al centro di ogni riflessione politica, sociologica, ecc.. Altro che «epoca del berlusconismo», secondo lo stanco mantra dei progressisti: il Cavaliere Nero non vale nemmeno come metafora o sintomo dei nostri mercantilistici tempi.

Per capirlo, basta leggere quanto scriveva Robert Paul Wolff, sintetizzando il pensiero di Emile Durkheim, nel remoto 1965: «L’allentarsi della presa che i valori tradizionali e di gruppo esercitano sugli individui crea in alcuni di loro una condizione di mancanza di ogni legge, un’assenza di limiti ai loro desideri ed ambizioni. E poiché non v’è alcun limite intrinseco alla quantità di soddisfazione che l’io può desiderare, ecco che esso si trova trascinato in una ricerca senza fine del piacere, che produce sull’io uno stato di frustrazione. L’infinità dell’universo oggettivo è inafferrabile per l’individuo che sia privo di freni sociali o soggettivi, e l’io si dissolve nel vuoto che cerca di riempire» (Al di là della tolleranza).

Più che ripristinare i vecchi valori, o di crearne di nuovi a regime sociale invariato, a mio avviso è l’intero spazio sociale che occorre umanizzare. E ciò presuppone il superamento della società che ha fatto dell’atomo sociale chiamato cittadino una «macchina desiderante», una perfetta merce (una biomerce, un biomercato), una creatura fatta a immagine e somiglianza di una sempre più bulimica, insaziabile, onnivora economia. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del desiderabile (leggi: acquistabile), fino a eliminare ogni confine, trascinando così l’intera società in un folle vortice che nessuno può controllare. Il dominio del godimento immediato di cui parla Recalcati, nostalgico o comunque ammiratore della Prima
Repubblica di Moro e Berlinguer, cela in realtà il Dominio di un rapporto sociale altamente disumano.

UN’ITALIA SENZA BERLUSCONI?

berlDalla mia prospettiva un’Italia senza Berlusconi appare escrementizia esattamente come un’Italia con Berlusconi. «Esattamente?» Esatto! Magari, “segato” Silvio, vissuto da vent’anni come il Male Assoluto dai mentecatti fascio-stalinisti, degni eredi di Almirante e Berlinguer (per non andare troppo indietro con le evocazioni…); magari, opinavo, mi farò qualche risatina di meno all’ora del telegiornale, perché la concorrenza eticamente corretta, di “destra” come di “sinistra”, è oltremodo antipatica. Diciamolo! Ma me ne farò una ragione: «è quest’acqua qua» che passa il convento di Miserabilandia, la terra dei pecoroni, di “destra” e di “sinistra”.

Intanto, mentre le opposte – e ugualmente miserrime – tifoserie si azzuffano intorno al corpo (alla salma?) del Nero Cavaliere, al centro di una lotta politica interborghese che probabilmente travalica i confini del Bel Paese, il Dominio sociale non cessa di incunearsi sempre più intimamente là dove in estate è d’uopo che batta il sorridente raggio solare. Perché parliamoci con franchezza: la chiappa bianca non ispira simpatia!

Quando si parla di GIUSTIZIA (borghese) amo il gesto scaramantico.

Quando si parla di GIUSTIZIA (borghese) amo il gesto scaramantico.

Il Dominio se la ride, soprattutto quando certi personaggi, come il frizzante e manettaro Grillo e lo scialbo Bondi, evocano pericoli di imminenti guerre civili e di sanguinose rivolte autunnali. Infatti, al Moloch che tutti serviamo con incorruttibile spirito civico (e qui mi si allunga il nasino) aggrada assai il movimento della vittima che non ha coscienza della propria condizione e della propria forza. «Muoviti! Muoviti!» Una bella “primavera italiana” non dispiacerebbe affatto al Mostro, che difatti già sbava pensando al Bunga Bunga sociale che ne seguirebbe. Altro che spending review!

Certo, bisognerebbe fare i conti con Re Giorgio, con la sua politica della responsabilità nazionale senza deroghe di sorta. «Abbassiamo i toni!» Che noia però, Sire! Ma l’imprevisto è sempre in agguato, e il Moloch certamente non si farà trovare impreparato all’eccitante appuntamento. Pare che il Mostro abbia fatto incetta del noto profumo Etica manettara. Il Fascio, pardon: Il Fatto quotidiano lo reclamizza alla grande.

«E le vittime del Moloch?» Almeno oggi voglio stendere un coloratissimo telo da spiaggia su questa penosa domanda: non voglio rovinarmi il prossimo tuffo!

MISERABILANDIA E LA NUOVA CACCIA AL CINGHIALONE

614PX-~1Si cambia il maestro di cappella, ma la musica è sempre quella

Poteva Giorgio Cremaschi esimersi dall’attaccare Re Giorgio, reo di «aver salvato» nientemeno che Berlusconi, l’erede della «cultura politica di Craxi [orrore!] e dei suoi discepoli», lo spauracchio di tutti i politicamente ed eticamente corretti del pianeta? Ovviamente no. Soprattutto adesso che il grillismo impazza da tutte le parti e persino i Sacri Palazzi Vaticani sembrano voler cavalcare l’onda del rinnovamento “a tutto campo”.

Scrive il lottatore di classe Cremaschi: mentre «Il Presidente della Repubblica non ha avuto nulla da obiettare al vergognoso mancare di parola del governo italiano con l’India, una delle grandi potenze emergenti del mondo, atto che ci costerà caro sul piano degli affari oltre che su quello politico e morale», egli non si è peritato di tutelare «il diritto di Berlusconi a fare politica, nonostante questi sia sottoposto a processi che in altri paesi europei lo avrebbero già posto fuori dalle istituzioni». Ma c’è di più, e di peggio: «Se la casta garantisce la continuità dell’austerità e del massacro sociale, che viva la casta. Questa è l’Europa che il Presidente della Repubblica difende e da qui la tutela offerta a Berlusconi. Non è autonomia o orgoglio nazionale tutto questo, è obbedienza ai signori dello spread. Se vogliamo cambiare, dobbiamo sapere che la liberazione dalla casta e dall’Europa dell’austerità sono la stessa cosa» (Berlusconi salvato da Napolitano, MicroMega, 13 marzo 2013).

Mi permetto di introdurre una leggerissima variazione alla musica appena ascoltata: se vogliamo uscire dallo stato d’impotenza politico-sociale nella quale noi proletari ci troviamo impaludati da decenni, dobbiamo capire che la liberazione dal sindacalismo collaborazionista di Cremaschi e soci e la fuga dalla politica di autonomia e di orgoglio nazionale, da Cremaschi a Berlusconi, sono la stessa cosa.

06(1)Più la crisi si fa dura, più forte spira il vento populista e demagogico della “rivoluzione civile e morale”, buona per la resa dei conti tra le fazioni borghesi, nazionali e internazionali, e per irreggimentare le classi dominate incalzate dalla precarietà e dall’indigenza lungo i sentieri della conservazione sociale. La caccia al capro espiatorio (il miliardario-puttaniere-ladro-corruttore, la “casta”, il tedesco affamatore, i “poteri forti”) è da sempre l’immancabile ingrediente nella maligna strategia del Dominio. Noi nullatenenti (salvo la capacità lavorativa che il Capitale ci fa la grazia di sfruttare, in ossequio all’Art. 1 della Sacra Costituzione) dobbiamo conquistare «quell’ardire rivoluzionario che scaglia in faccia all’avversario le parole di sfida: io non sono nulla e dovrei essere tutto» (Marx). Pensiero più fresco e più giovane non conosco. Ma, si sa, ho un debole per l’avvinazzato di Treviri.

L’ONORE DI MISERABILANDIA E IL CANONE CAPITALISTICO

aberlusconi-charlot1Il Paese assiste con una certa apprensione alla guerra fra bande intorno all’Onore di Miserabilandia. La cosiddetta destra e la cosiddetta sinistra si disputano l’Oscar della credibilità internazionale e della dignità nazionale. «Monti ci ha venduto agli interessi tedeschi», gridano i sovranisti di “destra” e di “sinistra”, mentre il Partito Europeista e Responsabile ribatte che la mummia berlusconiana attenta ai sacri interessi della Nazione, al suo prestigio internazionale, alla sua credibilità presso i governi e i mercati. Europeisti e antieuropeisti, filo-spread e anti-spread, si disputano l’alloro di migliori patrioti e, dunque, di migliori servitori di Miserabilandia.

È dal 1994 che sento dire dai manettari e dai moralizzatori di professione che «se vince quel debosciato, mi dimetto da italiano». Il «debosciato» in questione è naturalmente il Silvio nazionale. O dovrei dire antinazionale? Chi scrive si è “dimesso” da italiano nel giorno in cui ha letto la prima riga di un libro di Carletto Marx. Non è un vanto, beninteso, è una mera constatazione, che mi serve per rendere chiara la prospettiva, davvero particolare, dalla quale guardo questo sfoggio di italico patriottismo; un punto di vista rigorosamente antipatriottico e antinazionale, che definisco semplicemente umano, il quale mi suggerisce il concetto di Miserabilandia quando osservo appunto l’ennesima zuffa tra le opposte tifoserie, oggi peraltro incarognite dalla crisi economica e dalla enorme posta politica in palio. «Emancipando se stesso il proletariato emancipa l’intera umanità»: letto questo potentissimo aforisma il Sebastiano sedicenne, ancora pieno di capelli e di illusioni “movimentiste”, mandò a quel Paese il… Bel Paese.

Quando sento parlare alcuni sedicenti marxisti di «Italia dei lavoratori», o dell’«Italia dell’articolo 1 della Costituzione nata dalla resistenza: è questa l’Italia che vogliamo»; quando ascolto queste frasi escrementizie, ovvero “diversamente patriottiche”, la mia mano corre verso la metaforica pistola.

Scrive Matteo Pucciarelli su MicroMega del 10 dicembre: «No, no, e ancora no. Stavolta non ci dobbiamo cascare. Stavolta ci dobbiamo porre l’impegno morale di ignorare (e semmai combattere) chi di professione gridava alla difesa della democrazia, poi dopo amorevolmente calpestata per far posto ai “tecnici” grazie all’unione contronatura tra Pd-Pdl-Udc. Tutto in nome del dio spread. Le mignotte, i cucù, le bugie, i cortigiani, le corna, il sesso malato, Mediaset, conflitti di interessi, la cricca, Dell’Utri, la mafia, gli appalti, le barzellette, Feltri e Sechi che sfondano quotidianamente il muro del buonsenso, Cicchitto, le gaffe, i video delle gaffe, “il ruolo di kapò”, Ghedini fuori dal tribunale di Milano. E poi, speculari: i post-it, le raccolte firme, le manifestazioni, i popoli viola, il Fatto Quotidiano comprato a mo’ di dichiarazione partigiana, post indignati, i libri su di lui, gli anatemi su di lui, la vergogna per lui, Valigia Blu, mille bolle blu, Se non ora quando? e le scrittrici radical-chic sul palco, Santoro e Bella Ciao. No, no, e ancora no. Basta col giochino dei soldatini blu e dei soldatini rossi». Provo disgusto, non pena o godimento (questo lo attendo semmai da altre prassi…) dinanzi a questa ammissione di abissale indigenza politica, povertà, si badi bene, non dal mio punto di vista (non amo sparare sulla Croce Rossa), ma da quello della stessa politica borghese, cosa che, ad esempio, fa apparire un Giuliano Ferrara un autentico gigante del pensiero. Tutto è relativo, no?

E come conclude il pentito di cui sopra? Vediamolo: «Allora no, no, e ancora no. La scelta non può essere ancora una volta tra quelli per e quelli contro il signor B. E il voto utile, oggi, non è più tra soldatini rossi e soldatini blu. La sfida è tra chi ha intenzione di non discostarsi dalle politiche del rigore a senso unico impartite da Bce e Fmi e chi invece crede che non può essere il neo-liberismo, lo stesso che ha causato la crisi, a rappresentare la soluzione» (Ma con l’anti-berlusconismo non ci fregate più). Le classi subalterne sono dunque chiamate a schierarsi dalla parte di un Programma politico schiettamente reazionario: la difesa “da sinistra” degli interessi capitalistici in generale, e degli interessi capitalistici nazionali in particolare. Ammessa, ma non concessa, la risibile contrapposizione fra capitale internazionale e capitale nazionale che amano fare i sovranisti delle diverse tendenze, sostenitori di più o meno ortodosse politiche antiliberiste, che non pochi di essi spingono fino al protezionismo più intransigente e generalizzato.

A proposito di protezionismo! Scriveva Engels contro i protezionisti sinistrorsi dei suoi tempi: «Il sistema protezionistico, mentre fornisce armi al capitale di un paese contro il capitale di paesi stranieri, mentre rafforza il capitale contro gli stranieri, crede che il capitale così armato, così rafforzato, sarà debole, impotente e inerme di fronte alla classe lavoratrice. Ciò significherebbe appellarsi alla misericordia del capitale come se il capitale, in sé, potesse mai essere misericordioso» (Il congresso liberoscambista di Bruxelles, 1847). Prevengo la facile obiezione modernista del “marxista del XXI secolo” osservando che oggi il Capitalismo fa impallidire, in termini di mostruosa potenza, quello analizzato dalla strana coppia tedesca nel XIX secolo. Due guerre imperialistiche mondiali sono lì a testimoniarlo. Questo, fra l’altro, la dice lunga sulla “libertà” dei nostri tempi, e sulla natura sociale della democrazia nell’epoca dominata dagli interessi economici capitalistici, “liberisti” o “antiliberisti” che siano.

Non si tratta di non farsi fregare più dal berlusconismo o dall’anti-berlusconismo: si tratta piuttosto di acquisire una coscienza autenticamente anticapitalistica. Per aver sostenuto questo minimo sindacale di pensiero critico, nel corso degli ultimi venti anni ho dovuto “difendermi” da chi mi ha accusato di “oggettivo” berlusconismo. Al solito, dimmi chi è il tuo Nemico e ti dirò chi sei.

aaaaaMentre Sallusti, sempre più simile a un D’Annunzio 2.0, dichiara guerra alla Germania, e accusa Il Corriere della Sera di intelligenza col nemico, come ai tristi giorni della Repubblica di Salò, Ezio Mauro tira in ballo contro il Gran Puttaniere di Arcore nientedimeno che il Canone occidentale: «È questo che l’Italia paga, ed è da tutto questo che deve sentirsi offesa, per il danno subito e per il costo nel suo onore internazionale. Ciò che scrivono i giornali, ciò che dicono i Cancellieri è soltanto la conferma che il canone occidentale non è quello di Arcore, cui hanno acconsentito per anni gli intellettuali italiani, una Chiesa accomodante, un establishment prono fino alla crisi del Cavaliere, quando si poteva rialzare la testa. E attenzione: il populismo antieuropeo che Berlusconi prepara per la campagna elettorale è un’altra volta un’eccezione. Che spaventa l’Europa, più dell’idea incredibile del suo ritorno» (La Repubblica, 12 dicembre 2012).

L’eccezione, com’è noto, ha bisogno di risposte eccezionali. Beninteso, io mi schiero contro il Canone capitalistico.

SILVIO, PRESTAMI GHEDINI!

Non intendo, in questa breve nota, entrare nel merito del «grandioso e surreale» (Giuliano Ferrara) dietrofront berlusconiano annunciato ieri pomeriggio, e lascio volentieri ai sociologi e agli psicoanalisti di professione la riflessione intorno alle pavloviane reazioni alla notizia delle opposte, ma in egual misura vomitevoli, tifoserie di Miserabilandia.

Qui intendo lumeggiare solo un aspetto della vicenda, che fa capo alla violenta reazione all’ennesima ridiscesa in campo del criminale Silvio («uno sporco evasore fiscale!») della parte più patriottica e responsabile della classe dirigente italiana, almeno da come è possibile apprezzarla leggendo i quotidiani di oggi. Solo due esempi.

Stefano Folli ha in sostanza dato del pazzo al Cavaliere, ritornato Nero per la grave occasione politico-mediatica; l’ex premier sarebbe cospicuamente «destabilizzato» dalle iniziative giudiziarie che lo riguardano. Questo folle, argomenta il bravo editorialista del Sole 24 Ore, rischia di mandare all’aria il buon lavoro fatto dal Governo Monti, e di farci precipitare nuovamente nel girone infernale dei reietti del debito Sovrano. «Attenti, i mercati, le cancellerie d’Europa e soprattutto la Merkel ci guardano!» Folli si augura un trattamento sanitario obbligatorio per il pazzo di Arcore?

A giudicare dall’universale «no, basta!» con cui la platea dei giovani industriali riuniti a congresso a Capri ha accolto la notizia della poco epica ridiscesa in campo, c’è da scommettere che l’Italia che conta opterebbe senz’altro per un ricovero immediato del recidivo. Quando invece il presidente dei giovani imprenditori di Confindustria, Jacopo Morelli, ha dichiarato che «Chi lavora non è più disposto a sostenere con le proprie tasse larghi strati parassitari che anche adesso, mentre perdiamo duemila occupati al giorno, continuano a erodere denaro pubblico» (L’Unità, 26 ottobre 2012), non alludeva certamente al Grande Puttaniere ed Evasore. Qui sono altri che devono intendere!

Sergio Romano, esibendo come sempre una consumata sapienza diplomatica, suggerisce al patetico Alfano di lasciare al suo populistico destino Berlusconi, in modo da dimostrare con i fatti la caratura nazionale del PDL a trazione moderata, popolare ed europeista. L’ora è grave, e la situazione economica e sociale del Paese non consente giochetti politici né colpi di testa da parete di chicchessia. Tutti sono chiamati alla responsabilità nazionale. Non so perché, ma non mi sento chiamato in causa. Sarò diventato berlusconiano?

Pare, a dar retta a certi accurati retroscena dei quirinalisti più accreditati, che Re Giorgio, dopo aver ascoltato l’eversivo discorso di Silvio il matto, fosse sul punto di spedire sul set della conferenza stampa i Regi carabinieri. Pacatamente e serenamente, si capisce, com’è nello stile dell’uomo.

D’altra parte, l’origine politica del Sire napoletano lo ammonisce contro il «sovversivismo delle classi dirigenti», un concetto che ha giustificato per decenni la politica ultraconservatrice del PCI, oggi ripresa dai suoi mummificati resti dispersi nella galassia sinistrorsa, accomunati dal seguente reazionario slogan: «giù le mani dalla Costituzione nata dalla Resistenza!» Qui mi sento invece chiamato in causa…

Riflessione finale, non so quanto forzata, puntuale o paradossale: ma se uno come Silvio Berlusconi è trattato, almeno da una parte della classe dirigente del Bel Paese, con tale violenza verbale (matto, eversivo, antinazionale, anticostituzionale), cosa mai potrà accadere a un vero “folle”, eversivo, antinazionale, antifiscale e anticostituzionale? Non sarà il caso di chiedere in prestito a Silvio, a scopo puramente precauzionale ed esorcistico, l’avvocato Ghedini (onorario a suo carico, va da sé)?

LA “PAZZA IDEA” DI SILVIO E LA GUERRA IN EUROPA

La «pazza idea» di Berlusconi non poteva cadere su un terreno migliore: l’ennesimo «venerdì nero», non solo in termini di caduta dei valori borsistici in tutte le piazze finanziarie del pianeta (salvo quelle basate a Oriente, peraltro rivitalizzate dal recente accordo tra Tokyo e Pechino in materia di libero scambio e di uso delle rispettive divise nazionali nelle transazioni economiche fra i due paesi, con le immaginabili negative ripercussioni sul dollaro e sull’euro); ma soprattutto in riferimento alla cosiddetta «economia reale».

Dagli Stati Uniti al Vecchio Continente il cavallo dell’accumulazione capitalistica arranca, boccheggia, sbava e dà dolorosissimi calci in quel posto a centinaia di migliaia di lavoratori. La disoccupazione cresce in tutto l’Occidente, anche se è solo nell’Eurozona (a eccezione della Germania) che essa cresce in termini assoluti. In questo fosco quadro la dichiarazione berlusconiana di ieri amplifica la sua pregnanza politica, nonostante gli avversari ne abbiano immediatamente messo in discussione il valore economico e politico ricorrendo alle solite invettive: «dalla bocca di Berlusconi non può venire fuori nulla di serio».

Ma l’ex Cavaliere Nero non se n’è dato per inteso, anche perché le sue parole non sono quasi mai dirette agli attori del «teatrino della politica», ma al «popolo». E il «popolo», in Grecia come in Italia, in Spagna come in Francia, oggi è arrabbiato con «la Germania della Merkel», accusata di ogni nequizia. Certo, oltre che con il «populismo», la «pazza idea» di Silvio si spiega anche con il regolamento di conti che lui sente di dover chiudere con la Cancelliera di ferro, protagonista di risatine che ancora ai suoi occhi gridano vendetta. Dopo l’arrogante Sarkozy lo sciupafemmine di Arcore vuole vedere rotolare nella polvere dell’insuccesso politico anche colei il cui fondoschiena è un affronto alla libido. Ipse dixit, sia chiaro.

Ciò che più mi ha colpito della dichiarazione di Berlusconi non è tanto la proposta «che la Banca d’Italia stampi euro oppure stampi la nostra moneta», né la richiesta di un mutamento di funzione della BCE, tale da farla «diventare il garante di ultima istanza del debito pubblico» (europeo), ovvero l’incitamento al governo italiano a contrattare a muso duro con la Germania le condizioni della nostra permanenza nell’eurozona, minacciando di «avere la forza di dire ‘ciao ciao euro’ e cioè uscire dall’euro restando nella Ue», tutte idee che ormai da anni circolano nel dibattito pubblico europeo. Detto per inciso, il mutamento di funzione della BCE, che fonda i discorsi intorno all’urgenza di emettere Eurobond e project bond, presuppone la cristallizzazione di una Sovranità politico-istituzionale nel cui seno il peso specifico della Germania sarebbe assai notevole, per ovvi (sistemici) motivi – che, detto en passant, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra guardano da sempre come il fumo negli occhi.

No, la frase berlusconiana a mio avviso di gran lunga più interessante, per il suo valore sintomatico che va oltre le stesse intenzioni dell’ex premier, è questa: «dire alla Germania di uscire lei dall’euro se non è d’accordo». Più che una minaccia – l’Italia oggi non è in grado di minacciare nessuno! –, sembra un suggerimento non richiesto a una corrente di opinione che in Germania si fa di giorno in giorno più forte.

Vedi Scenari prossimi venturi.

MORTO UN CAPRO (ESPIATORIO) SE NE FA UN ALTRO!

Alcuni miei amici hanno accolto il «miracoloso» risultato elettorale di Milano con un evviva! degno di altre cause. Capiamoci: questo entusiasmo non è dovuto al morbo antiberlusconiano, del quale essi non sono affetti, ma dalla loro speranza che andando a sgualdrine Berlusconi possano pure togliersi dalle balle i suoi sempre più ridicoli e rancorosi avversari. Venendo meno la causa, essi pensano, deve necessariamente venire meno l’effetto.

Non fatevi soverchie illusioni, amici! Chi oggi ha eletto a Male Assoluto il Cavaliere Nero di Arcore, domani troverà, o magari s’inventerà un altro capro espiatorio, per mezzo del quale razionalizzare la sua abissale indigenza esistenziale (nell’accezione più profonda e sociale del concetto).

Negli anni Cinquanta il Nemico dei «progressisti» ebbe il volto smagrito di Alcide De Gasperi, nei due decenni successivi il volto di Moro (poi beatificato nella Chiesa di Botteghe Oscure) e di Andreotti, successivamente fu il turno di Craxi e Forlani e, dulcis in fundo, agli inizi degli anni Novanta toccò a quel bel tomo di Silvio incarnare il ruolo del Diavolo che rende intellegibili le magagne che assillano le italiche genti. Non c’é scampo, per chi è roso dal verme della facile, ancorché impotente, indignazione. Quando la coscienza latita, è sempre il tempo del capro espiatorio.

Scriveva Emil Ludwig nei suoi Colloqui con Mussolini (1932): «Sempre, quando per i tedeschi va male, devono esserne colpevoli gli ebrei. Ora, per loro, va particolarmente male». E il Capo del Fascismo, nonché futura vittima sacrificale, commentò: «Ah, certo, il capro espiatorio!» Gli italiani, che non possiedono la tragica serietà storica dei tedeschi, sono più inclini alla farsa anche in tema di agnelli da sgozzare – non sempre in modo solo figurato – sull’altare della Patria in pericolo.

Sono pessimista? Non credo. Sono realista? Ma via! Amo la verità? Questo sì, anche se spesso non riesco a scorgerla. E la verità, come diceva un Tizio finito mummificato, «è rivoluzionaria», ma in questo peculiare senso: chi vuole remare contro la società dei Moratti e dei Pisapia (avete capito bene: la società basata sullo sfruttamento del lavoro «fisico» e «intellettuale», come recita l’Art. 1 della SS Costituzione) deve avere lo sguardo ben fisso sul mondo, anche quando esso grida il suo forte NO! a ogni possibilità di cambiamento. E non alludo certo alle prossime scadenze elettorali…

L’ETICA AL TEMPO DELLA SOCIETÀ DISUMANA

– «Che cosa pensa delle polemiche intorno ai costumi sessuali di Berlusconi?

– Al presidente del Consiglio chiedo di fare una politica che ritenga giusta. Non mi interessa con chi va a letto.

– Neanche se il nome del premier viene accostato a quello di ragazze minorenni?

– Quarant’anni fa si era minorenni a 18 anni. Io ho baciato il mio primo uomo, un ballerino bello come il sole, a 18 anni. Guardi quella Ruby, le sembra una ragazzina? E poi io non sono moralista a comando»

(intervista ad Angelo Pezzana, attivista, politico, scrittore, fondatore nel 1971 del Fuori!, il primo movimento di liberazione degli omosessuali in Italia, Diva, 22 Febbraio 2011).

Di qui le poche righe “etiche” che seguono:

Le confessioni di un poco di buono

Il mio limite confinava sempre col suo limite. Il mio era un limite che bramava l’infinito, ma che sapeva aspettare. «Mettimi nelle condizioni di capire fin dove la mia mano può arrivare – le dicevo sempre –, e io non scavalcherò mai da solo quel punto. Se vorrai, ti indicherò tutte le strade che portano nel giardino delle delizie, ma non le calpesterò mai da solo, per non precipitarmi in un fuoco eterno. Insieme, sempre insieme conosceremo il piacere di andare oltre, un passo avanti in direzione della felicità».

Così le dicevo. Lei sorrideva sempre e mi incoraggiava, con un entusiasmo che a volte mi metteva paura. Chi conduceva il gioco? Ma un giorno qualcuno ascoltò le mie prudenti parole, e oggi mi trovo dietro le sbarre, abbandonato da tutti, sol perché la società ha voluto prescrivere un’età al nostro amore. Oggi non è possibile, domani chissà. Dove la Legge mette la sua maligna coda, la felicità avvizzisce come una pianta strappata alla terra.

Una volta Gaber disse: «Non ho paura del Berlusconi che è fuori di me, ma del Berlusconi che è dentro di me». Con ciò stesso egli dimostrava di saperla assai più lunga, intorno alle cose del mondo, di quanto non smettono di testimoniare i suoi amici progressisti d’un tempo, ammalati di moralismo perché incapaci di un’esistenza veramente etica. Personalmente non ho paura né del Berlusconi che, col pisello eternamente imbizzarrito (almeno così lo immaginano i berluscofobi) scorrazza fuori di me, e, infatti, la mia ruvida ascia critica aspira a ben altro che alla testa del capro espiatorio di turno, ancorché «porco» e «ricco sfondato»; né al Mostro – altro che Berlusconi! – che abita dentro di me, perché sto imparando a giocare a carte scoperte col pozzo senza fondo delle mie pulsioni. Non c’è richiesta di godimento a cui non dia ascolto, magari per invitarla ad attendere il suo turno. Oggi no, domani chissà…

Nella società disumana etico è l’atteggiamento di chi, avendo appreso l’arte di dare del tu alle proprie indicibili inclinazioni – anche a quelle “penalmente rilevanti”, soprattutto a quelle! –, si prende cura dell’altro per non precipitare se stesso in un godimento che annienta. Ciò che separa l’ammalato di moralismo dal maniaco sessuale, è una sottilissima lastra di civile responsabilità che può evaporare come neve al sole da un momento all’altro. Chi nega a se stesso l’esistenza del “male” che alberga in ciascuno di noi si espone al pericolo di esserne sorpreso alle spalle. È un attimo.