Nei giorni scorsi ho preso degli appunti sulla vicenda rubricabile come Mediaset e dintorni; ne pubblico una parte sperando di incontrare l’interesse di qualche lettore. Naturalmente il caso Mediaset-Vivendi è solo un pretesto per approcciare “problematiche” più generali di vario ordine. Buona lettura.
Sul Sole 24 Ore della scorsa domenica Luigi Zingales metteva alla berlina il “globalismo” a fasi alterne del Ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda e sfotteva i suoi compagni di partito che difendono la – cosiddetta – italianità di Mediaset usando la famigerata Legge Gasparri: «Il Ministero dello Sviluppo Economico ha un sito web destinato ad attirare gli investimenti esteri in Italia. Tra le iniziative promosse spicca il Global Roadshow, volto a spiegare “le politiche dell’Italia per l’attrazione degli investimenti esteri”. Il sito, però, specifica che “l’evento è su invito”. Forse per questo il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, discutendo dell’acquisto del 20% di Mediaset da parte del francese Bolloré, ha dichiarato che non è “il modo più appropriato di procedere per rafforzare la propria presenza in Italia”. Non era stato invitato. Il governo e la nostra classe politica vogliono l’Europa e la globalizzazione “su invito”. […] Passi il nazionalismo economico di Salvini e quello di Fassina, almeno entrambi sono coerenti nel rifiutare il mercato in tutte le sue forme e metodi [che esagerazione!]. Passi anche l’opposizione dell’ex Ministro dello Sviluppo economico Paolo Romani: ha sempre dimostrato un amore personale per l’azienda del capo del suo partito. Ma come spiegarlo da parte di Carlo Calenda, esponente del Pd e grande sostenitore del libero scambio? […] Magari con uno “straniero” a capo di Mediaset diventiamo un Paese normale». La retorica del «diventare un Paese normale», che personalmente subisco dalla fine degli anni settanta, non poteva mancare. Forse qualche lettore ricorderà che negli anni novanta quell’auspicio diventò, nella bocca dell’allora star progressista Massimo D’Alema, un vero e proprio tormentone: «L’Italia deve diventare un Paese normale, diciamo. Come il Regno Unito di Tony Blair, diciamo». Era il tempo in cui il centro-sinistra avviava l’aurea stagione della “Terza via” di stampo laburista e le privatizzazioni in salsa italiana. Diciamo.
A proposito della mitica Terza via che animò il dibattito politico nella seconda metà degli anni Novanta, è interessante leggere le dichiarazioni del professor Anthony Giddens, forse il suo maggior “teorico”: «Quando formulai il modello della Terza via, poi applicato in diversa maniera da Clinton, Blair, Schroeder e altri, internet quasi non esisteva, muoveva appena i primi passi. L’accelerazione data ai cambiamenti sociali ed economici dalle innovazioni tecnologiche ha scardinato anche la Terza via, l’idea di un riformismo di sinistra che preservasse il welfare in condizioni di mercato e demografiche mutate. Oggi i supercomputer e la robotica stanno trasformando il mondo del lavoro. Non sono sicuro che i leader politici si rendano conto del livello di rivoluzione tecnologica che abbiamo imboccato. Un recente studio dell’università di Oxford nota che, quando fu inventato il telefono, ci vollero 75 anni per portarlo in 50 milioni di case. Oggi, neanche dieci anni dopo l’invenzione dello smartphone, ce ne sono 2 miliardi e mezzo di esemplari in tutto il pianeta. La rivoluzione tecnologica corre più in fretta di qualsiasi altra rivoluzione politica, economica e sociale nella storia dell’umanità» (La Repubblica, 3 aprile 2015). L’esempio citato da Giddens ci dà l’esatta misura della velocità dei cambiamenti tecnologici e sociali generati dal capitalismo del XXI secolo. Come si vede il teorico della morta Terza via non comprende (ma non è il solo a rimanere impigliato nel feticistico velo tecnologico, tutt’altro) che «la rivoluzione tecnologica» non è qualcosa che si impone dall’esterno all’economia, ma è piuttosto l’aspetto centrale dell’economia capitalistica. Come disse qualcuno (non ricordo il nome) ormai parecchio tempo fa, rivoluzionaria è la stessa natura del Capitale, il quale può sopravvivere solo allargando sempre di nuovo mercati e possibilità di investimenti profittevoli. Di qui, per un verso l’uso sempre più diffuso e stringente della tecno-scienza; e per altro verso l’emergere di conflitti (economici, politici, geopolitici, sociali) e di contraddizioni di ogni genere. È questo il quadro di riferimento che, a mio avviso, faremmo bene a tenere in mente quando approcciamo qualsiasi vicenda economica, politica, sociale nell’accezione più vasta del termine.
Probabilmente la dichiarazione più intelligente sulla vicenda Bolloré-Mediaset è uscita dalla bocca del cadaverico (politicamente parlando, si capisce) Premier francese la scorsa settimana: «I rapporti tra Mediaset e Vivendi rispondono a logiche capitalistiche». Punto. Marx in persona non avrebbe saputo commentare meglio! Ovviamente le «logiche capitalistiche» non escludono affatto l’intervento nella sfera economica di più o meno complesse dinamiche politiche, e ciò è tanto più vero in Paesi, come L’Italia e la Francia, nella fattispecie, nei quali la relazione “Stato-Mercato” è sempre stata molto stretta. Soffocante, secondo i liberisti “puri e duri”.
Il blog Phastidio, ad esempio, parlava qualche giorno fa, sempre a proposito della risibile difesa dell’italianità del Made in Italy, di «socialismo surreale e capitalismo di debito», a proposito dell’economia italiana. La definizione di «socialismo surreale» è tanto spiritosa e godibile sul piano estetico, quanto infondata sul terreno del processo storico-sociale; infondata, ovviamente, dal lato del cosiddetto «socialismo», che per il volgo equivale, già ai tempi di Marx critico del «Socialismo di Stato», all’intervento appunto dello Stato nella sfera economica. L’esito di quella critica è noto: usando il gergo calcistico si tratta di un secco 2 a 0 a favore dei nipotini di Lassalle – e poi dei nipotini di Stalin. La vulgata vuole che, per mutuare una nota reclame, dove c’è Stato c’è socialismo.
In realtà la neutralità dello Stato sul terreno della prassi economica è stata non più che una finzione ideologica fin dai tempi d’oro del liberismo, come documentò nel modo più completo e convincente possibile il barbuto di Treviri a proposito della stessa genesi del Capitalismo (l’«accumulazione primitiva»), sostenuta in tutti i modi (non esclusi quelli più violenti, anzi!) dallo Stato. Lungi dal contraddire la natura capitalistica dell’economia, l’intervento statale in essa è parte organica del sistema capitalistico; piuttosto il problema, e qui veniamo ai nostri giorni, è di natura qualitativa: questo intervento favorisce lo sviluppo scientifico e tecnologico di un Paese? è in grado di sostenere la competitività delle imprese “nazionali” sul sempre più agguerrito mercato mondiale? favorisce più l’innovazione, l’aumento della produttività sistemica, il dinamismo nella «società civile», oppure fomenta il parassitismo sociale, il clientelismo, lo status quo economico e politico, la stagnazione del Sistema-Paese? La relativa (il confronto è soprattutto con la Germania e il Giappone) arretratezza del Capitalismo italiano negli anni Novanta del secolo scorso ha sollecitato lo sviluppo di un concetto molto interessante: la sfera politica (Stato, partiti) come «infrastruttura economica», come formidabile strumento di competitività sistemica. Ma un conto è la teoria, un altro è la prassi. E infatti siamo ancora qui a parlare di «difesa dell’italianità dei nostri gioielli» e della necessità di «un Paese normale»!
A proposito della grave crisi della banca Monte dei Paschi di Siena la scuola liberale del nostro Paese si è divisa; alcuni sostengono che, tutto sommato, la nazionalizzazione della banca, se non addirittura di tutto il sistema bancario italiano, è necessaria, giusta e perfino conveniente: si nazionalizza oggi (con i soldi dei contribuenti!), si ristruttura domani (troppa inefficienza, troppa pletora di inutili funzioni, troppo personale, troppi dirigenti) e si privatizza dopodomani, rivendendo al mercato un asset ritornato profittevole. Altri sostenitori del pensiero liberale pensano invece che la crisi deve fare il suo corso, fino in fondo, e che se il paziente non merita di vivere, è meglio che muoia; smettiamo di farlo oggetto di inutili, e soprattutto costosi (vedi alle voci debito pubblico e carico fiscale), accanimenti terapeutici: «È il mercato, bellezza!». «Mi sembra inevitabile che se il mercato non riesce a salvare MPS ci debba pensare lo Stato. Gli attuali azionisti di maggioranza di Mediaset invece si difendono benissimo da soli»: questo è quanto ha dichiarato ieri a Libero Quotidiano Alessandro De Nicola, che tra le molte cariche vanta pure quella di presidente della prestigiosa Adam Smith Society, «l’associazione che si dedica allo studio e alla diffusione dei principi dell’economia di mercato, della concorrenza e della libera iniziativa». Domanda di Sandro Iacometti: «È sempre sbagliato che lo Stato ficchi il naso nell’economia o ci sono eccezioni che giustificano l’interferenza?». Risposta di De Nicola: «Diciamo che lo Stato ha l’onere della prova di dimostrare in modo inequivocabile l’utilità del suo intervento». Per un liberale come si deve l’intervento dello Stato nell’economia non rappresenta un problema ideologico, ma una questione che investe gli interessi del Capitale colto nella sua totalità: come servire al meglio la sua causa? Naturalmente il liberare presenta questa causa nei termini del “bene comune” («il successo dell’impresa fa bene anche ai salariati, e non solo ai percettori di profitto: siamo tutti sulla stessa barca!»), e questo costituisce il lato ideologico della loro concezione.
Inutile dire che nella cosiddetta estrema sinistra, dove più alto è il tasso ideologico nelle analisi economico-sociali, impazza la parola d’ordine, ultrareazionaria, della «nazionalizzazione delle banche e delle industrie strategiche», con il dichiarato e patriottico scopo di combattere «la stagnazione e il declino economico dell’Italia subalterna ai vincoli dell’Unione Europea. […] Se ne facciano una ragione in molti, a destra come a sinistra». Chi, come me, si batte (diciamo che ci provo) per l’autonomia di classe e contro ogni forma di nazionalismo, non può che sparare a palle incatenate contro le ragioni della “destra”, della “sinistra” e della “estrema sinistra”, i cui esponenti si disputano il primato della miglior ricetta economica per «salvare il Paese» – ossia gli attuali rapporti sociali di dominio e sfruttamento. Come ho scritto in altri post, è la maligna logica del «nostro Paese» che tiene inchiodate al carro del Dominio le classi subalterne. Bisogna rifiutare e demistificare questa logica in qualsiasi occasione e ovunque. Lo so, l’impresa si presenta oltremodo ardua, quasi senza speranza, perché si tratta di sfidare tutte le correnti patriottiche: dalla cosiddetta estrema destra alla cosiddetta estrema sinistra; ma, come dicono gli intellettualoni, Hic Rhodus, hic salta!Terze vie non ne conosco. E poi falliscono sempre!
Per Vincenzo Vita, specialista in “problematiche” riguardanti gli assetti mediatici del nostro Paese e a suo tempo molto sensibile ai «conflitti di interesse» che facevano capo a Berlusconi, «nella vicenda Bolloré-Mediaset non ci sono buoni e cattivi. Sono tutti cattivi» (Il Manifesto). No, sono tutti capitalisti, ossia investitori che inseguono legittimamente profitti e potere, nel breve, nel medio e nel lungo termine: questo dipende dalla forza commerciale e finanziaria dell’impresa e dal suo peculiare business. È il concetto di investimento capitalistico (qui genericamente inteso) che ci offre un’ottima chiave di lettura dei fatti economici, mentre la categoria moralistica della cattiveria dei magnati come sempre è buona solo ad appagare gli appetiti moralistici dei buoni di spirito e a foraggiare la frustrazione e l’invidia sociale dei nullatenenti – e il “populista” ringrazia. L’investimento capitalistico in vista del profitto presuppone e pone sempre di nuovo la relazione tra i diversi attori economici, che a volte dà luogo a collaborazioni e a sinergie imprenditoriali di vario tipo (che può arrivare fino alla fusione di due o più imprese), e più spesso genera conflitti commerciali e finanziari. Anche i bambini sanno che la competizione fra le imprese è il motore dello sviluppo capitalistico. Obietta il liberista politicamente corretto: «Ma anche la competizione capitalistica deve darsi dentro un preciso quadro normativo: l’economia non è un mondo hobbesiano, non è una giungla selvaggia!». Però somiglia molto all’uno e all’altra. In ogni caso, non c’è «quadro normativo», per quanto stringente e penalizzante gli istinti animaleschi del Capitale, che possa conferire forza a un’impresa che mostra di non averne. Capitalisticamente parlando, il più forte e il più adatto vince sempre; è solo una questione di tempo. La disputa in corso ci dirà probabilmente se i rapporti di forza finanziari e commerciali tra Mediaset e Vivendi premieranno Berlusconi, il quale sa bene che il «quadro normativo» e la “dialettica politica” possono aiutarlo solo fino a un certo punto, o Bolloré, le cui finanze sembrano al momento molto floride: «In cassa Vivendi ha 2,1 miliardi, ma la liquidità di cui dispone è molto più alta», ha dichiarato Arnaud de Puyfontaine, Ceo di Vivendi e braccio destro di Vincent Bolloré, in un’intervista rilasciata la scorsa settimana al Corriere della Sera.
Come spesso accade, per leggere qualcosa di intelligente sulle tante magagne sistemiche che – praticamente da sempre – azzoppano l’italico Capitalismo bisogna rivolgersi al giornalismo economico orientato in senso liberista. Scrive ad esempio il già citato Phastidio: «Mediaset è un’azienda che rischia di essere troppo piccola per l’evoluzione tecnologica globale, che va verso l’integrazione sempre più spinta tra piattaforme e contenuti. Dopo decenni passati nel confortevole duopolio con la Rai, e dopo essere stata indebolita da Sky, che ha deragliato Mediaset Premium, si avvicina il tempo delle scelte. Quando non si ha la massa critica per reggere investimenti in nuove tecnologie, si possono tentare alleanze. Che gli alleati, ad un certo momento, ipotizzino di prendersi tutto il piatto, fa parte degli eventi della vita. Ma il punto vero è un altro: il nostro è un paese in cui i capitalisti non hanno capitale, da sempre, e preferiscono intessere rapporti malati con la politica e le banche, in chiave protezionistica. Saltata la protezione delle banche, la politica è finita con le spalle al muro». Gli esempi passati e recenti dei denunciati «rapporti malati» sono troppo macroscopici, numerosi e noti per meritare di essere ricordati in questa breve nota. «Per tutti questi motivi, permetteteci di dirlo chiaro e forte: Mediaset è sotto minaccia dello Straniero? E chissenefrega. Firmato: un cittadino-contribuente che ne ha piene le palle. Da molto tempo». Chi sono io per dare del menefreghista a Phastidio? Tanto più che ai patriottici richiami della Nazione ho sempre opposto una certa ottusa sordità, diciamo. Insomma la «colonizzazione» del Paese da parte del Capitale “straniero” mi lascia del tutto indifferente, quanto a partigianeria.
Per Giuseppe Turani «È il mercato, bellezza»: «In realtà, per difendere le aziende italiane (concetto peraltro un po’ ridicolo in tempi di globalizzazione) servirebbero non politici diversi, pronti a emanare decreti e leggi speciali, ma un capitalismo diverso. Il nostro è un capitalismo senza capitali. Lo è sempre stato, è nato così. […] Tutti poveri in canna? No. Ma chi ha mezzi in genere li ha impegnati nel suo business e non va a gettarne una quota in affari che non conosce e non capisce. E infatti la Ducati, che è l’Italia, una gloria nostra, piccola azienda che gareggia contro i giganti giapponesi del settore, è finita prima al Texas Pacific Group e poi alla Audi. La stessa cosa si ripete regolarmente tutte le volte. […] Fare leggi “nazionalistiche” non serve: se un’azienda viene quotata in Borsa, la proprietà sarà decisa dal mercato, non dal ministro dell’economia o da una commissione parlamentare. Funziona così in tutto il mondo. Per difendersi da Bolloré Berlusconi ha una sola strada: diventare più forte in Mediaset, comprare azioni. Ci sono, è vero, paesi più “chiusi” (Francia e Germania) nel senso che in caso di assalto a loro imprese, le altre si mobilitano e fanno blocco. Da noi nessuno fa blocco perché tutti tentano di sopravvivere e certo non hanno i mezzi per occuparsi di altri».
Secondo Oscar Giannino «bisognerebbe evitare polveroni inutili, in cui in Italia eccelliamo ogni volta che un gruppo estero mette nel mirino gruppi italiani. Distinguiamo almeno tre piani, allora, e stiamo ai fatti. Primo: è vero che l’Italia delle imprese è terra libera di preda per affamati gruppi stranieri? Secondo: c’è un senso industriale nelle operazioni di Bolloré in Italia, o è pura e spregiudicata guerra di corsa? Terzo: ha un senso mobilitare la politica e chissà quale suo diritto di veto, oppure nella vicenda in corso ci sono, bastano e avanzano banali ed elementari regole di mercato, al cui rispetto chiamare tutti i contendenti?». Ha un fondamento economico l’italico piagnisteo circa l’invasione del suolo patrio da parte del “capitale straniero”, pronto a fare shopping industriale e finanziario ai danni del Belpaese? «Lasciamo parlare i numeri. Mi spiace molto per le autorevolissime testate d’informazione che ogni volta riattaccano la tiritera dell’Italia d’impresa alla mercé di barbari stranieri che vengono qui a banchettare espropriandoci, ma pare proprio che le cose non stiano così. Se andiamo alla banca dati Reprint-Politecnico di Milano-ICE – dati ohimè aggiornati solo a fine 2014 – i dati sconfessano le geremiadi. Le imprese estere controllate da imprese italiane erano 20418 nel 2008 e sono salite a 23.433 a inizio 2015. Con un numero di addetti all’estero salito da un milione e 80mila unità a un milione e 170mila. E con un fatturato all’estero accresciutosi da 373 a 417 miliardi di euro. Le imprese italiane controllate da società straniere al contrario erano 9340 nel 2008 e sono salite a inizio 2015 a 10.148 unità, con addetti complessivi tra Italia e mondo passati da 822mila a 828mila unità, e un fatturato sceso da 422 a 417miliardi (soprattutto all’estero). Teniamo a mente questi dati: è vero che moltissimi marchi della moda o alimentari del nostro made in Italy sono passati in mani straniere, ma nessuno qui fa altrettanta attenzione alle centinaia di acquisizioni italiane all’estero annuali nella manifattura, meccanica, componentistica, engineering, energia, o a quelli di Luxottica negli USA». La pensa allo stesso modo, e non poteva andare diversamente, il già citato de Puyfontaine,: «C’è troppo dramma. Ci sono molti italiani che guidano grandi gruppi francesi, da Toni Belloni a Lvmh a Bini Smaghi a Societé Générale. L’anno scorso gli italiani hanno investito 20 miliardi in Francia. Quando Mondadori nel 2006 ha comprato una delle maggiori media company in Francia, nessuno ha protestato. Idem quando Campari ha comprato Grand Marnier più di recente. […] Noi Vogliamo creare una media company europea di dimensioni mondiali» (Il Corriere della Sera). Si tratta di vedere chi alla fine guiderà un processo imprenditoriale (la creazione di «una media company europea di dimensioni mondiali») che allo stato dell’arte appare inevitabile: Berlusconi o Bolloré? Un accordo tra i due appare ancora plausibile, nonostante la postura “nazionalistica” esibita dall’ex Cavaliere e da Federico Confalonieri, secondo il quale «Questa è una scalata ostile non solo dal nostro punto di vista ma anche dal punto di vista della politica. E sotto questo punto di vista ci ha fatto molto piacere il sentirci appoggiati anche dalle istituzioni, perché si è capito che c’è della sostanza, qui non c’è in gioco solo l’italianità e l’inno di Mameli, ma anche l’interesse nazionale» (ANSA). Berlusconi ovviamente gongola nel vedere tanti suoi ex avversari politici, che solo ieri dichiaravano di volerlo vedere quanto prima in mutande chiedere l’elemosina all’ingresso di una chiesa, difendere oggi i suoi interessi di bottega in guisa di interessi nazionali: «Cribbio, c’è ancora giustizia su questa Terra!». Ma ritorniamo a Giannino.
«Seconda questione. Mentre qui piagnucoliamo per tentare di difendere ossessivamente il duopolio tv Rai-Mediaset per altro da anni superato per fatturato da Sky e dalla sua offerta non generalista, il mondo da anni accelera verso grandi integrazioni di players globali. Ieri la 21st Century Fox di Murdoch ha comunicato di aver raggiunto un’intesa con il management di Sky per aggiudicarsene il pieno controllo, rilevandone il 60% che ancora non possiede con un deal da 14,6 miliardi di dollari. L’obiettivo è dar vita a un gigante transcontinentale a cui sommare i 22 milioni e oltre di clienti di Sky in Italia, Regno Unito, Irlanda, Austria e Germania, e unendo a Fox i diritti della Premier League britannica e di serie tv di successo mondiale come Game of Thrones. È la risposta di Murdoch alla sfida globale di Netflix. Mentre grandi telcos americane come AT&T hanno rilevato nel 2016 grandi gruppi leader nei contenuti e nelle library cinematografiche come Time Warner. Negli USA il 100% del mercato delle pay-tv è verticalmente integrato tra operatori tv e TLC. In Francia il 37%, in Germania il 29%. Solo in Italia restiamo con il 100% del mercato tv in mano solo a operatori televisivi: siamo fuori dalla storia. Netflix, Apple e Amazon hanno già il 67% del mercato globale dei video online a pagamento. Se anche YouTube entra nel settore dei contenuti video premium, oltre il 90% del mondo avrà player globali solo americani, che profilano i clienti e sanno tutto delle loro abitudini di consumo, cosa che conta molto più di quanti si limitano a pagare un abbonamento. Viene di qui l’interesse per un progetto che unisca Canal+ francese e la forza di advertising del gruppo Havas e di Vivendi, cioè di Bolloré, con Mediaset forte di Telecinco in Spagna, per un eventuale player europeo: capace anche di offerte integrate con Telecom Italia – di cui Bolloré è maggior azionista di riferimento – e magari con la Telefonica spagnola e con la stessa telco francese Orange, in una prospettiva di cooperazione continentale. Ma, certo, il problema è come farlo, con quali rapporti di forza societari, e con chi alla testa. Eccoci alla terza questione. Ieri Agcom ha già tirato un freno, dicendo che qualunque ipotesi che mettesse insieme Telecom Italia e Mediaset sotto guida francese si scontrerebbe con i limiti antitrust, valicati dalla eventuale somma delle due società sul mercato italiano. Ma il punto non è il mercato domestico, bensì quello europeo e mondiale. Il governo e i politici si sono subito protesi a dire che l’italianità di Mediaset va preservata. L’italianità porta titoli sui giornali, ma c’entra come i cavoli a merenda. L’unico punto di cui essere rigorosamente certi è che le regole di mercato siano rispettate». E lo sono state? Secondo Giannino è legittimo nutrire dubbi sulla correttezza dell’operazione borsistica (il blitz puzza di aggiotaggio) messa in atto da Vivendi, e solo l’arretratezza e la lentezza degli organismi preposti al controllo delle “regole del gioco” non consentono una rapida soluzione della vicenda sul terreno legale, per ricollocarla sui binari della «fair competition». In ogni caso non si avverte il bisogno di «scomodare né l’autarchia della politica né i magistrati penali. E senza negare che è un grande interesse anche per Mediaset e per i players italiani, partecipare nel rispetto rigoroso delle norme all’eventuale costruzione di un grande soggetto europeo».
Pare che anche nella famiglia Berlusconi non tutti vedono come il fumo negli occhi l’attivismo finanziario e imprenditoriale dello “squalo bretone”, e che lo stesso patriarca milanese stia solo cercando di vendere il più caro possibile la pelle del suo impero. Vedremo. Intanto si apprende che «L’arrocco e le battaglie legali, alla fine, non sono serviti a nulla. Vincent Bolloré, come previsto, tira dritto per la sua strada, non aspetta che gli avversari – Mediaset da una parte, il governo e il Sistema Italia dall’altra – si organizzino e arriva fino alla soglia dell’Opa su Mediaset. Il raider bretone ha raggiunto il primo obiettivo: la famiglia Berlusconi è sotto scacco e con le mani – al netto delle opzioni giudiziarie – quasi legate» (E. Livini, La Repubblica). E la borsa festeggia. «Cribbio!».
Continua. Forse.