FASCISMO REALE, FASCISMO IMMAGINARIO, ANTIFASCISMO DI REGIME E ALTRO ANCORA

1. Antifascismo archeologico e violenza capitalistica

Al contrario di Pier Paolo Pasolini, non so dire con assoluta certezza se non si possa individuare in questo Paese agitato da una sguaiatissima competizione elettorale «nulla di peggio del fascismo degli antifascisti»; certo è che negli ultimi giorni il fascismo (o stalinismo: per me pari sono!) degli antifascisti ha risollevato la testa, complici non pochi episodi di odioso razzismo “fascio-leghista” che come non ultimo deleterio effetto hanno avuto appunto quello di riscaldare la rancida minestra dell’antifascismo di regime.

 Leggiamo per mera curiosità cosa scriveva Pasolini nel 1974, nei sui Scritti Corsari, a proposito degli antifascisti di professione: «Esiste oggi una forma di antifascismo archeologico che è poi un buon pretesto per procurarsi una patente di antifascismo reale. Si tratta di un antifascismo facile che ha per oggetto ed obiettivo un fascismo arcaico che non esiste più e che non esisterà mai più. […] Ecco perché buona parte dell’antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. Insomma, un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo». Il fascismo è «un fenomeno morto e sepolto»? Pur con qualche cautela, perché non bisogna sottovalutare ciò che il regime postfascista ha ereditato dal regime fascista (soprattutto per quanto riguarda la sfera giuridica e quella relativa al rapporto tra lo Stato e l’economia), tendo a condividere la tesi pasoliniana, almeno se per fascismo intendiamo l’esperienza storica che prese corpo in Italia negli anni Venti e che si esaurì negli anni Quaranta del secolo scorso come epilogo della Seconda macelleria mondiale definita dai vincitori Guerra di Liberazione. Se però riflettiamo sulla genesi sociale del fascismo, occorre dire che le cose cambiano, mentre corretto rimane a mio avviso il giudizio di Pasolini sull’archeologia antifascista.

Il fascismo nacque, infatti, come manganello politico che le classi dominanti usarono per schiacciare un movimento sociale radicalizzato che rischiava di trasformarsi in una vera e propria rivoluzione sociale di “stampo sovietico”. Almeno questa era l’intenzione dei “Rossi” («Fare come in Russia!») e la paura dei “Bianchi”, i quali con piacere videro entrare in scena i “Neri” guidati da un ex socialista, un tal Benito Mussolini. Insomma, il fascismo delle origini come “classico” strumento controrivoluzionario; strumento, occorre ricordarlo, che all’inizio, nella fase più acuta del conflitto sociale (nel cosiddetto Biennio Rosso ‘19-20) la classe dirigente del Paese usò non in alternativa alla democrazia liberale, ma in un mix molto intelligente di manganello e scheda elettorale. E qui non si può non ricordare la figura politica di Giolitti. Si può anzi dire che il manganello fascista si abbatté sulla testa di un proletariato già sfiancato e deluso dai riti della democrazia parlamentare e industriale. «In Italia», scriveva Otto Bauer nel 1936, «Giolitti ritenne di potersi servire del fascismo per intimorire, frenare, pacificare la classe operaia ribelle. Il fascismo si giustificava volentieri di fronte alla borghesia affermando di averla salvata dalla rivoluzione proletaria, dal “bolscevismo”. […] Ma in realtà esso non riportò la vittoria in un momento in cui la borghesia era minacciata dalla rivoluzione proletaria: il fascismo trionfò nel momento in cui il proletariato ormai era da tempo indebolito e ridotto sulla difensiva, nel momento in cui l’ondata rivoluzionaria era già defluita» (*). Il manganello fascista poi si autonomizzò per diventare regime, e questo fenomeno sorprese non pochi politici e intellettuali liberali che avevano creduto di poter mettere da parte Mussolini una volta che egli avesse completato il lavoro sporco per conto della Nazione. Ma non tutte le controrivoluzioni liberali riescono col buco!

Ho ricordato la genesi sociale del fascismo semplicemente per dire che mentre esso come esperienza storica peculiare e, ovviamente, come regime politico-istituzionale può effettivamente venir considerato alla stregua di un «fenomeno morto e sepolto», la funzione repressiva dei movimenti sociali che allora lo produsse è rimasta intonsa e vitale, e non importa la coloritura politico-ideologica che tale funzione viene ad assumere di volta in volta. Negli anni Settanta la distruzione dei movimenti sociali fu affidata soprattutto agli apparati repressivi dello Stato, con il pieno sostegno di tutti i partiti appartenenti a quello che allora si chiamava “arco costituzionale”, a cominciare dal PCI e dalla DC. Ricordo che nel 1977, anno di esordio politico di chi scrive, nei cortei gridavamo lo slogan “Fuori, fuori la nuova polizia!” tutte le volte che individuavamo tra le nostre fila i militanti del PCI e della CGIL. Alcuni compagni parlavano di democrazia fascista; molti altri denunciavano il «tradimento della Costituzione antifascista», mostrando in tal modo, come imparai qualche anno dopo, di non aver compreso il vero significato storico della Resistenza, che a tutti gli affetti, e al di là di episodi pur significativi ma del tutto marginali, venne a caratterizzarsi come continuazione della guerra imperialista sotto altre condizioni, quelle determinatisi con la caduta del Regime Fascista nell’estate del 1943, a seguito dei bombardamenti aerei angloamericani delle città italiane e dell’esito disastroso della guerra per l’esercito italiano. Negli anni Settanta il neofascismo ebbe uno scarsissimo ruolo nella repressione e nell’intimidazione dei movimenti antagonisti. Insomma, la democrazia capitalistica sa difendersi benissimo dai nemici dell’ordine costituito (e costituzionale) anche senza sguinzagliare le squadracce fasciste contro i “sovversivi”, e ciò in piena coerenza con la lettera e con lo spirito della Costituzione più bella del mondo.

2. Il fascismo degli antifascisti e il piagnisteo dei liberali

Spesso l’autoritarismo dell’antifascismo istituzionale non è meno reazionario e repressivo dell’autoritarismo del neofascismo conclamato e fiero di esserlo. Una prova? Eccola!

Due giorni fa Rocco Todero lanciava dalle pagine del Foglio un forte grido di dolore liberal democratico: «Come valutare l’ordinanza del Tar di Brescia che ha ritenuto legittimo il provvedimento del Comune di Brescia, che non si limita a vietare atti e comportamenti che possono ledere libertà e diritti altrui ma che prevede che “ai soggetti richiedenti la concessione di uno spazio pubblico per lo svolgimento della propria attività” sia richiesto di dichiarare di riconoscersi nei principi e nelle norme della Costituzione italiana e di ripudiare il fascismo e il nazismo? Intendiamoci: non si tratta di essere lassisti nei confronti di coloro che si ispirano a un pensiero radicalmente antitetico al liberalismo e alla democrazia. Si tratta, piuttosto, di vietarne le azioni e le condotte che concretamente sconfessano i presupposti del nostro vivere civile. Si tratta, al limite, di vietare le manifestazioni concrete del pensiero fascista e nazista (e siamo già ai confini dell’accettabile, ma passi pure). Ma ci si può spingere sino al punto di pretendere che lo stato possa imporre con la forza non già un’azione legittima (come è suo dovere) bensì un pensiero conforme a un’idea prestabilita e ritenuta l’unica passibile di dignità morale e che quel pensiero venga obtorto collo esternato, pena la limitazione di una libertà fondamentale? È legittima l’azione con la quale lo stato impone l’abiura ed entra nella coscienza individuale di ciascun essere umano per violentarla senza alcun riguardo? Esiste ancora la libertà, per esempio, di essere antifascista e di dichiarare di non volere moralmente aderire a tutte le norme della Costituzione, pur continuando a rispettarle con azioni e condotte concrete?».

Insomma, al netto dei piagnistei liberal democratici del giornalista che difende lo status quo sociale, alla luce dei passi citati possiamo senz’altro dire che si annunciano tempi duri (ancora più duri!) per gli anticapitalisti che non solo non si prostrano dinanzi alla Sacra Costituzione Capitalistica di questo Paese, ma che ne denunciano anzi la natura di classe, la sua ultrareazionaria funzione ideologica, il suo essere al servizio del vigente dominio sociale. E non so se scrivendo queste blasfeme parole, sono già passibile dell’occhiuta attenzione del compagno Ministro degli Interni Marco Minniti, degno erede dell’arco costituzionale di Pecchioli e Cossiga.

3. L’antifascismo di regime come «nuovo oppio dei popoli»?

In un articolo di qualche mese fa pubblicato sull’Independent, Slavoj Žižek caratterizzava l’antifascismo dei nostri tempi come un nuovo oppio dei popoli: «La formula di Marx di religione come l’oppio dei popoli ha bisogno oggi di un serio ripensamento. […] Trump negli Stati Uniti, Le Pen in Francia, Orban in Ungheria sono tutti demonizzati come il nuovo male verso il quale dovremmo unire tutta la nostra forza. Ogni minimo dubbio e riserva è immediatamente visto come un segno di segreta collaborazione con il fascismo. […] Quando ho richiamato l’attenzione su come parti dell’estrema destra sono in grado di mobilitare le questioni della classe lavoratrice trascurate dalla sinistra liberale, sono stato, come previsto, immediatamente accusato di invocare una coalizione tra sinistra radicale e destra fascista, che è esattamente quello che non ho proposto». Nel suo infinitamente piccolo, anche chi scrive è stato accusato dai “sinistri” (soprattutto dagli stalinisti) di fare “oggettivamente” il gioco, di volta in volta, dei fascisti, dei craxisti, dei leghisti, dei berlusconiani e quant’altro ha suscitato e suscita la loro facile indignazione tutte le volte che ha cercato di ricondurre alla loro radice “strutturale” i fenomeni politico-ideologici che agitano la schiuma sociale. Evidentemente si tratta di un’operazione critica che irrita maledettamente chi pensa di militare nella parte giusta del mondo solo perché fa parte dell’intellighentia progressista del Paese. Venir accomunati con i politici che tanto disprezzano, deve suonare come una sanguinosa offesa alle orecchie del progressista medio: «Io non sono come Berlusconi!», «Io sono antropologicamente diverso da Salvini!». E invece… Invece dalla prospettiva autenticamente anticapitalista si osserva il progressista sinistrorso calcare lo stesso terreno escrementizio che calpesta il suo odiato Nemico. Certo, l’uno occupa il lato “sinistro” del terreno, l’altro quello “destro”, ma è il terreno (“di classe”) la sostanza della cosa, ciò che definisce la natura di un soggetto politico, non la posizione contingentemente occupata da chi lo pratica. L’antifascismo praticato dall’anticapitalista si muove su un terreno completamente diverso, quello dell’autonomia di classe. Ecco perché io non mi colloco né più a “destra” né più a “sinistra” di Tizio o di Caio, ma piuttosto altrove.

Ma riprendiamo la citazione di Žižek: «L’immagine demonizzata di una minaccia fascista serve chiaramente come un nuovo feticcio politico, feticcio nel semplice senso freudiano di un’immagine affascinante la cui funzione è di offuscare il vero antagonismo. […] Il fascismo stesso è immanentemente feticista: ha bisogno di una figura come quella di un ebreo, elevata nella causa esterna dei nostri problemi: una tale figura ci permette di offuscare i veri antagonismi che attraversano le nostre società. Esattamente lo stesso vale per la figura di “fascista” nell’odierna immaginazione liberale: consente alle persone di offuscare le situazioni di stallo che stanno alla base della nostra crisi. […] L’oscenità della situazione è da far perdere il fiato: il capitalismo globale ora si presenta come l’ultima protezione contro il fascismo, e se cerchi di farlo notare sei accusato di complicità con il fascismo». Secondo l’intellettuale sloveno la sinistra può battere i populisti solo tagliando i ponti con le assurdità politicamente corrette e ricominciando a occuparsi davvero dei lavoratori, dei problemi causati dalla globalizzazione e dal capitalismo finanziario senza regole. Nella sua prospettiva, la caccia al fascista è solo una scorciatoia per evitare di affrontare la realtà che porta acqua al mulino del populismo semplicemente perché esso non ha paura di misurarsi con la disperazione delle vittime della globalizzazione e con le contraddizioni create dal «capitalismo globale». Bisogna fare i conti con la paura e con le angosce della gente, non stigmatizzarle con atteggiamenti illuministici che lasciano il tempo che trovano.

Ora, se penso che la “sinistra anticapitalista” cui fa riferimento Žižek ha la faccia di Varoufakis, di Sanders e di Corbyn, e di Toni Negri, non posso che prendere le distanze – e la solita metaforica pistola critica – dal suo consiglio su come battere la «destra alternativa». A mio avviso il problema non è quello di rompere i ponti con le assurdità politicamente corrette della “sinistra”, che come ho già detto politicamente parlando si muove sullo stesso terreno di classe della “destra”, del “centro” e del “populismo”; né si tratta di lottare genericamente contro gli effetti del «capitalismo globalizzato», magari in vista di un Capitalismo meno aggressivo e “selvaggio”. Per come la vedo io, e anche qui non faccio che ripetere cose già scritte mille volte, si tratta in ogni occasione, per ogni problema, per ogni evento, di non concedere nulla alla logica del male minore (in attesa di mutamenti nei rapporti di forza tra le classi che ovviamente non si verificheranno mai fin quando a vincere sarà quella cattiva logica) e di attaccare in radice l’ideologia dominante, dovunque e comunque essa si esprima. Sotto questo aspetto, davvero “fascismo” e “antifascismo” mi appaiono due facce della stessa medaglia. Non dico che l’obiettivo individuato sia di facile acquisizione, tutt’altro; ma non vedo alternative possibili per chi intende quantomeno provare a dire qualcosa di serio sull’«oscenità della situazione», fregandosene allegramente delle critiche che certamente i tristi sacerdoti del politicamente ed eticamente corretto non faranno mancare: e chi se ne frega!

4. Bruciare i libri maledetti! Chiudere i covi dei fascisti! O no?

Qualche settimana fa Furio Colombo si sperticava in lodi nei confronti della casa editrice francese Gallimard per la sua «saggia decisione» di sospendere la pubblicazione dei pamphlet antisemiti di Lois Ferdinand Céline, i quali potrebbero «alimentare ancora di più i rigurgiti dell’antisemitismo». Trovo esemplare, sostiene Colombo, che una casa editrice si ponga il problema di come possano impattare certe pubblicazioni su «una massa di cittadini allo sbando, disorientati da un sistema dei media orientato alla falsità. Non possiamo negare di vivere in tempi eccezionali, di montante antisemitismo e razzismo. In tempi eccezionali vanno adottate misure eccezionali» (intervista rilasciata a Radio Radicale). L’illusione della proibizione evidentemente è dura a morire. Inutile dire che le copie dei libri “maledetti” di Céline andranno a ruba, esattamente come il Mein Kampf di Hitler, perché come sa chiunque abbaia un briciolo di intelligenza ciò che è proibito o comunque stigmatizzato e criminalizzato come il male assoluto, assume subito il volto affascinante di una sfida all’autorità che per molti, soprattutto se giovani e “irrequieti”, diventa irresistibile. Più proibisci qualcosa, qualsiasi cosa, e più la rendi meritevole di attenzione.

A proposito di «massa alla sbando»! Kierkegaard una volta disse che «la massa è la non verità»; ma chi riduce gli individui a impotenti atomi sociali tenuti insieme come massa, più o meno «allo sbando», dalle strapotenti forze sociali? Lo so, la domanda è fin troppo suggestiva. In ogni caso, falso non è solo «il sistema dei media», quanto soprattutto il sistema sociale tout court. Falso, beninteso, dal punto di vista dei veri bisogni espressi da «un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), da «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer), cosa che presuppone il superamento della divisione classista degli individui. Come diceva Adorno, «Non si dà vera vita nella falsa», e quindi è quantomeno ingenuo strillare contro la falsità del sistema dei media, il quale esprime al meglio la vigente condizione disumana. Che l’ingenuità possa approdare a ideologie e a prassi ultrareazionarie è cosa che non sorprende affatto il pensiero che aspira alla radicalità più conseguente sul piano concettuale e politico. Come diceva qualcuno, sovente la strada che porta all’inferno è lastricate di eccellenti intenzioni progressiste.

Su Il Post del 5 febbraio si poteva leggere la seguente inquietante notizia: «Nelle ultime ore le vendite di una particolare edizione del Mein Kampf – il libro di Adolf Hitler che espone i fondamenti dell’ideologia nazista – sono cresciute del 1.037 per cento su Amazon.it e il libro è arrivato ad essere 24esimo nella classifica dei libri più venduti, recuperando più di 200 posizioni. La classifica dei libri più venduti delle ultime 24 ore, per esempio, si aggiorna di ora in ora: il picco di vendite di oggi è probabilmente da collegare al fatto che in casa di Luca Traini, il 28enne neofascista responsabile dell’attentato di sabato 3 febbraio a Macerata, è stata trovata una copia del Mein Kampf, una notizia a cui i giornali hanno dato molto spazio tra ieri e oggi» (Il post del 5 febbraio).

Ora, anziché proibire la pubblicazione del Mein Kampf, non dovremmo piuttosto chiederci come mai questo libro continua ad avere così tanti lettori ed estimatori? A mio avviso tirare in ballo come risposta l’ignoranza, l’incultura, la memoria corta e i soliti “imprenditori della paura” spiega assai poco, e comunque niente di essenziale. Chi soffia sul fuoco può farlo solo perché un fuoco effettivamente esiste ed è alimentato da fatti reali che non hanno niente a che vedere con la cattiveria dei mestatori di turno. La nevrosi sociale è sempre attiva, e per scaricarsi in forma collettiva su qualche oggetto ha bisogno solo di un pretesto occasionale, non di rado creato ad hoc dal demagogo/populista di turno, appunto. La causa scatenante immediata non è dunque la pista che deve battere chi desidera accedere alla verità intorno alla natura della nevrosi sociale, e la distinzione che sempre più spesso i sociologi e i politici fanno tra un’incertezza percepita e un’incertezza reale è, sotto questo aspetto, assai significativa. Come sanno i filosofi, la percezione è molto spesso fonte di idee false, ma per il “popolino” essa conta di più, molto di più, delle fredde cifre scritte su un foglio a corredo di una serissima inchiesta sociologica, ad esempio sui crimini di sangue o sui furti nelle case commessi nel Paese negli ultimi anni: i numeri si riduco, la percezione di insicurezza cresce! Come si spiega la psicosi sociale?

La domanda che dobbiamo porci per comprendere alcuni fenomeni che allarmano i “sinceri democratici” e gli antirazzisti è, a mio avviso, la seguente: come mai a molti decenni di distanza dallo sterminio scientificamente pianificato degli ebrei non poche persone sono ancora attratte dall’antisemitismo, soprattutto quelle persone che nella loro vita non hanno mai visto e conosciuto un solo ebreo in carne ed ossa e non hanno mai letto nulla sul conto della «infida razza giudaica»? Sappiamo d’altra parte che in Europa l’ostilità contro gli stranieri di pelle nera è forte soprattutto in quei Paesi (Ungheria, Polonia, Austria, Repubblica Ceca) che in questi anni non sono stati investiti, se non del tutto marginalmente, dall’ondata migratoria che parte dall’Africa: come mai? Come mai in Gran Bretagna i sostenitori più agguerriti della Brexit si contavano soprattutto nei centri urbani che pur non registrando alcuna presenza dei famigerati “idraulici polacchi” pronti a rubare il lavoro agli idraulici di Sua Maestà La Regina, in compenso vantavano un altissimo livello di “sindrome dell’idraulico polacco”? Come mai il razzismo e la xenofobia sono diffusi in Germania soprattutto nelle sue regioni orientali, dove gli stranieri, soprattutto quelli di pelle nera, sono praticamente una rarità? Noi proletari sappiamo bene che i “negri” non ci rubano il lavoro, semplicemente perché il prezzo delle loro prestazioni lavorative e le condizioni di lavoro che sono costretti ad accettare non entrano in una reale concorrenza con la nostra condizione sociale: a quel prezzo e a quelle condizioni preferiamo senz’altro accedere alla carità sociale, finanziata dalla fiscalità generale, che ci passa lo Stato. E d’altra parte, le aziende che sfruttano i lavoratori africani non rimarrebbero sul mercato, almeno in larghissima misura, senza quella preziosa e poco, assai poco costosa manodopera. Eppure, non facciamo altro che ripetere la filastrocca cara ai “fascio-leghisti”: «Questi negri della malora ci rubano il lavoro!». Il nostro disagio sociale ha cioè bisogno di oggettivarsi in qualche nemico in carne ed ossa.

Tutto ciò non ci dice forse che la paura, l’angoscia, il disagio, la precarietà esistenziale possono spesso prendere le strade più imprevedibili e mostrarsi con le sembianze più diverse e fantasiose? Cosa ci dice questa semplice verità, sperimentata più volte e ovunque in questo capitalistico mondo, sulla nostra esistenza di individui sottoposti a dinamiche sociali che siamo ben lungi dal controllare e che anzi ci controllano e spesso ci scuotono in malo modo? Il processo sociale ci picchia in testa, metaforicamente parlando, e noi qualche volta sentiamo l’urgenza di picchiare qualcuno, e non solo metaforicamente parlando. Non si può vivere solo di metafore! Come dice lo psicanalista, anche l’atto vuole la sua parte.

Gli illuminati intellettuali che si ergono a censori del Male in difesa della massa dei cittadini ignoranti e socialmente disagiati, e proprio per questo facili preda di demagoghi e populisti d’ogni genere, ovviamente non si pongono il problema di come eliminare alla radice l’antisemitismo, il razzismo, l’ignoranza e il disagio sociale basato su condizioni materiali e psicologiche di vita che, come già sappiamo, creano sempre di nuovo paura, angoscia, rabbia, frustrazione, invidia sociale, odio cieco e incondizionato nei confronti di chi viene percepito, per un qualsivoglia motivo, come “diverso” e dunque meritevole di qualche antipatica attenzione: un insulto,uno sputo, una virile bastonatura. Basta tenere lontana la «massa di cittadini allo sbando» dai libri sbagliati, dalle idee sbagliate e dai movimenti politici sbagliati, e il gioco è fatto! E così la “casta” degli intellettuali progressisti può legittimamente rivendicare a sé, sulla scia della Repubblica di Platone, la funzione di controllo e di tutela nei confronti di chi inclina a “ragionare con la pancia”, mentre a imitazione degli intellettuali di cui sopra dovremmo tutti ragionare con la testa: sì, la testa appunto dei servitori delle classi dominanti autoproclamatisi progressisti e «amici dell’umanità tutta», a prescindere dal colore della pelle degli individui, dal loro sesso, dalla loro religione e da qualsiasi altra loro caratteristica. «Dobbiamo restare umani!». Questo slogan modaiolo proprio non lo reggo! Restare umani? Ma non scherziamo! Semmai dovremmo diventare umani, umani non solo a parole o come specie animale. «Dobbiamo restare umani!». Sic! Evidentemente c’è gente che ha bisogno di coltivare illusioni, su se stessa e sul mondo. Auguri!

«Non bisogna usare il comprensibile disagio della gente ferita e indurita da anni di crisi economica e di sacrifici per scatenare la guerra tra i poveri e lucrare qualche voto in più, e chi lo fa è un irresponsabile che soffia sul fuoco delle tensioni sociali»: quante volte al giorno, negli ultimi giorni, abbiamo sentito o letto simili buone riflessioni e intenzioni? Ma poi, “buone” per cosa? Semplicemente per denunciare il mercato dei demagoghi, dei populisti, dei razzisti e dei fascisti, e così meglio occultare ciò che rende possibile quel mercato, ossia la crescente miseria sociale, qui considerata non solo sotto l’aspetto economico. Si puntano i riflettori dell’indignazione e della “responsabilità sociale” sull’epifenomeno solo per creare il buio intorno alle cause del fenomeno. Cose mille volte viste ma dai più non comprese nel loro vero significato.

Gli antifascisti di vecchio e di nuovo conio rivendicano la chiusura dei «covi fascisti e razzisti» manu militari: «Lo Stato democratico nato dalla Resistenza non può tollerare il fascismo e il razzismo!». Chi pratica il terreno dell’anticapitalismo radicale (non conosco altro anticapitalismo che non sia radicale) sa bene che lo Stato democratico nato dalla Resistenza si pone in perfetta continuità sociale con lo Stato fascista che lo ha preceduto, e sa altrettanto bene che qualsiasi tipo di Stato capitalistico (vedi regimi politico-istituzionali con caratteristiche europee, statunitensi, russe, turche, venezuelane, cinesi, ecc.) è posto a difesa di quei rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che sono alla base di ogni sorta di fenomeno sociale e di qualsiasi contraddizione sociale. In altri termini, chiedere allo Stato di reprimere i fenomeni sociali (compresi quelli sanzionati dal codice penale e passibili di galera: certo, sto parlando anche dei ladri e dei “rei” di ogni tipo) generati dalla società di cui esso è il più feroce cane da guardia, è tipico di un pensiero confinato nella disumana dimensione dello status quo sociale.

Come ho scritto altrove, il razzismo, l’antisemitismo e ogni forma di ideologia autoritaria (non importa se di “destra” o di “sinistra”) non si combattono invocando l’intervento repressivo dello Stato, il quale non aspetta altro per rafforzarsi e legittimarsi presso l’opinione pubblica, ma impegnandosi, dove si può e come si può, nella difficilissima opera intesa a realizzare nelle classi subalterne, e nei “disagiati” e negli offesi d’ogni estrazione e condizione sociale, un “sentimento” di crescente autonomia (politica, ideale e psicologica) nei confronti del vigente regime politico e sociale. Non si tratta di lottare i fascisti e i razzisti “dal basso”, invocazione “populista” che non significa niente (niente di buono per le classi subalterne, intendo dire), ma sul terreno dell’autentico anticapitalismo. Bisogna sapere che su questo impervio terreno i militanti anticapitalisti dovranno fare i conti non solo con i fascisti e i razzisti conclamati, ma anche e soprattutto con i difensori della democrazia capitalistica e della Costituzione più bella del mondo.

* O. Bauer, Tra due guerre mondiali? pp. 116, 117, Einaudi, 1979.

CRISI COREANA. A CHE PUNTO È L’APOCALISSE NUCLEARE?

Qualcosa di veramente importante deve accadere (N. Halley).

 

A quella parte di opinione pubblica occidentale meno avvezza all’analisi dei processi geopolitici il comportamento del regime nordcoreano appare inspiegabile, almeno sulla scorta dei “normali” paradigmi politici: «Perché rischiare continuamente il proprio annientamento da parte della superpotenza statunitense? Come si spiegano queste continue provocazioni?». Per fortuna ci vengono in soccorso gli analisti geopolitici abituati a tradurre anche gli atteggiamenti apparentemente meno razionali delle classi dirigenti di un Paese in termini di rapporti di forza e di interessi sistemici.

Per Franco Semprini (La Stampa), ad esempio, «L’escalation riflette – sembra – un irrigidimento della situazione interna con il manipolo dei militari che controllano il potere, inclini a creare un vero clima di terrore nel quale prosperano e fanno cassa». Un’analisi condivisa anche da Guido Keller (Notizie Geopolitiche): «il regime continua nella sua dialettica da guerra rivolta all’esterno ma anche all’interno per giustificare ad un popolo costretto in alcune parti rurali alla fame le ingenti spese militari. La realtà è quella di una Corea del Nord sempre più isolata, anche dalla storica alleata Cina, e di un regime che per sopravvivere deve mostrare continuamente i muscoli. Di certo non è l’immagine di un piccolo Davide contro Golia». Eppure anche in Italia ci sono personaggi, tutti militanti nell’area sovranista (di “destra” e di “sinistra”) e “antimperialista” (notare le virgolette), inclini a simpatizzare con il “Davide” nordcoreano nella sua qualità di inarrivabile modello di resistenza antiglobalista.

Si tratta di vedere fino a che punto il Caro Leader nordcoreano è libero di manovrare sulla base di una precisa strategia geopolitica o non sia piuttosto ostaggio della “cricca militare” che avrebbe moltissimo da perdere in caso di regime change provocato da una disfatta militare o da un improvviso collasso del regime sottoposto a spinte sociali diventate incontenibili. Semprini invita a non sottovalutare «le fobie complottistiche» del giovane Kim, le cui paranoie sembrano irrobustirsi e moltiplicarsi col crescere del deserto politico che lo circonda in seguito alla “scomparsa” e alla morte più o meno “misteriosa” (e reale) di fratellastri e parenti d’ogni genere e grado; tuttavia la follia dei Cari Leader di turno non ha mai spiegato molto (da Stalin a Hitler), mentre a mio avviso è piuttosto sull’irrazionalità (o disumanità) dei tempi che occorre riflettere per comprendere l’essenza dei processi sociali che si dispiegano a scala nazionale e mondiale. La crisi coreana getta un potente fascio di luce su ciò che ho definito Sistema Mondiale del Terrore, che poi è uno dei diversi nomi che si possono dare agli interessi economici e geopolitici che fanno capo a grandi, medie e piccole Potenze, interessi che pretendono di venir soddisfatti con tutti i mezzi necessari: da quelli più “pacifici” a quelli più violenti. Anche il “vecchio” termine Imperialismo va benissimo, e come sempre, almeno all’avviso di chi scrive, esso va attribuito a tutti gli attori in campo, grandi o piccoli che siano, “simmetrici” e “asimmetrici”. Dalla Corea del Nord agli Stati Uniti, dall’Italia al Giappone, dalla Germania a ovunque nel mondo: siamo tutti vittime e ostaggi di un Sistema che per sopravvivere mette nel conto anche la morte di migliaia o di milioni di persone. Possiamo parlare con un certo rigore “scientifico” di “effetto collaterale” della continuità del Dominio. Ma non divaghiamo!

Limes

Certamente il Giappone si servirà della minaccia nordcoreana per accelerare il processo di revisione costituzionale e di riarmo intrapreso già da tempo da Shinzo Abe; già si parla di una deterrenza nucleare indipendente giapponese, cosa che inquieta non poco americani, russi e cinesi. Pare che anche l’Australia stia valutando la possibilità di incrementare la propria flotta navale «per far fronte al comportamento molto irregolare della Corea del Nord», come ha dichiarato il ministro della Difesa e dell’Industria Christopher Pyne ai giornalisti del suo Paese. La Cina è sempre più irritata nei confronti del suo storico alleato proprio perché esso non solo crea instabilità sistemica ai suoi confini, ma anche perché può innescare dinamiche geopolitiche capaci di intaccare in profondità la sua strategia di “pacifica e armoniosa” penetrazione economica regionale e mondiale. Probabilmente per Pechino l’ideale sarebbe un bel colpo di Stato in grado di installare a Pyongyang un “socialismo con caratteristiche nordcoreane” molto simile a quello cinese.

Molti nella Corea del Sud ritengono che il giorno della riunificazione delle due Coree sotto la bandiera «della democrazia, della libertà e della prosperità» (secondo i canoni fissati dall’esperienza tedesca nel 1989, l’annus horribilis per gli stalinisti di tutto il mondo) sia ormai vicino, e che l’escalation bellicista nordcoreana vada interpretata come un estremo tentativo di salvezza da parte del regime veterostalinista di Pyongyang. Scrive oggi Alberto Negri sul Sole 24 Ore: «Il regime di Pyongyang non è così folle come viene descritto. Quello che gli Stati Uniti non hanno mai voluto garantire è la continuità della dinastia nordcoreana al potere da 60 anni: per Washington, ma anche per Seul, l’obiettivo di medio-lungo termine è la riunfificazione della penisola coreana. Un traguardo che la Cina non ha nessuna intenzione di agevolare perché significa avere le truppe americane in casa, cosa che del resto avverrebbe anche in caso di guerra». La matassa è davvero ingarbugliata. Dove sta la ragione, e dove il torto?

«Formalmente sono tutti impegnati a raggiungere l’obiettivo della denuclearizzazione della penisola coreana. Le convergenze tuttavia si fermano qui. Usa e Giappone favoriscono, almeno in linea di principio, il cambio di regime. La Corea del Sud è ostile al regime ma ne teme il collasso perché porterebbe a forti tensioni Usa-Cina e causerebbe un fiume di profughi dal Nord. Russia e Cina diffidano del regime ma non vogliono che crolli perché temono possa portare ad un aumento dell’influenza americana nell’area» (Huffington Post). Il regime nordcoreano gioca una pericolosissima partita a poker cercando di avvantaggiarsi delle contraddizioni e degli opposti interessi che dividono gli uni dagli altri i Paesi direttamente coinvolti nella partita, la cui posta in gioco, è bene ricordarlo, vale il sacrificio delle vite di moltissime persone. Di qui i continui rilanci (di missili), che per adesso mettono in difficoltà gli assai più potenti avversari. Ma l’azzardo non sempre premia. «Gli Stati Uniti hanno dialogato con la Corea del Nord e pagato denaro frutto di estorsione per 25 anni. Il dialogo non è la risposta», ha detto Donald Trump. «Qualcosa di veramente importante deve accadere», ha dichiarato l’altro ieri Nicki Halley, ambasciatrice degli Stati Uniti alle Nazioni Unite; meglio prepararci al peggio, anche solo per non lasciarci sorprendere da eventi che purtroppo non riusciamo a controllare.

Giustamente Fabrizio Poggi (Controcampo) nota come i massmedia mainstream occidentali mettano in risalto le «provocazioni» messe in atto dal regime nordcoreano, mentre nulla essi dicono a proposito delle pur vistose «provocazioni» dei suoi nemici: «In questo caso, il TG2 non ha parlato di provocazioni: non lo prevede il palinsesto delle manovre “Ulchi-Freedom Guardian” (UFG) in Corea del Sud, che simulano l’invasione della RDPC. Soltanto Xinhua riporta le dichiarazioni nordcoreane, secondo cui il test di ieri rappresenta appunto la risposta alle manovre UFG, cui prendono parte 17.500 marines USA, reparti sudcoreani, britannici, australiani, canadesi, colombiani, danesi, olandesi e neozelandesi, per un totale di oltre 50.000 soldati». Tuttavia leggendo l’articolo di Poggi mi sembra che alla fine le sue simpatie vadano alla «Repubblica Democratica Popolare di Corea» e al suo Caro Leader, il quale «ha aggiunto ieri provocazione alla provocazione ai danni della comunità telespettatrice mondiale: ha imposto alla propria consorte di partorire il terzo figlio». Che simpaticone questo «feroce dittatore»! Posso sbagliarmi ma nell’ironia di Poggi avverto una forte puzza di solidarietà “antimperialista” nei confronti del Caro Compagno Kim.

Per capire fino a che punto la paura di non venir fagocitati da nemici e “amici” possa essere micidiale per la vita della “gente comune” basta pensare alla Cambogia dei Khmer rossi o all’Albania “socialista” di Enver Hoxha. Il regime dinastico nordcoreano è nato con la sindrome dell’accerchiamento e ha strutturato l’intera società per scongiurare la perdita dell’indipendenza nazionale del Paese, cosa che peraltro costituisce una miserabile menzogna se si pensa fino a che punto la Corea del Nord dipende dalla Cina sotto ogni aspetto. In ogni caso, sulla base di quella “sacra e imprescindibile” necessità si sono creati interessi materiali e politici (vedi Partito dei Lavoratori [sic!] di Corea e Esercito del Popolo [arisic!] Coreano) che non sarà facile sradicare, come sa benissimo soprattutto la leadership cinese, desiderosa di promuovere una “Primavera con caratteristiche cinesi”, anche per prevenire una ben più minacciosa “Primavera con caratteristiche americane” – o sudcoreane/giapponesi.

Come ho scritto in altri post le ragioni della Corea del Nord sono legittime esattamente come lo sono le ragioni che fanno capo alla Corea del Sud, al Giappone, alla Cina, alla Russia, agli Stati Uniti e a ogni altra Nazione e Potenza grande e piccola di questo capitalistico mondo. Quello che, a mio avviso, bisogna capire è che si tratta di ragioni radicate nella disumana dimensione del Dominio sociale, le quali non hanno nulla a che fare con le ragioni di «Un’umanità socialmente sviluppata» (Marx), di «un’umanità al suo livello più alto» (Schopenhauer), di «una più elevata formazione economica della società» (Marx), insomma con le ragioni di una Comunità autenticamente – o semplicemente – umana che la Società-Mondo del XXI secolo nega nel modo più brutale e ottuso mentre, al contempo, ne lascia intravvedere la straordinaria possibilità. Invito insomma a guardare la crisi nordcoreana, come ogni altra crisi (siriana, ucraina, ecc., ecc.), non dal punto di vista degli interessi nazionali in gioco (ripeto, tutti legittimi sulla base di questa escrementizia società mondiale), come sempre celati sotto la spessa coltre della propaganda («lottiamo per la democrazia e la libertà!», «la nostra è un’ingerenza umanitaria!», «lottiamo per l’indipendenza e la dignità della nostra amata Nazione!»), ma dalla prospettiva di chi non ha nulla da guadagnare e molto da perdere nella guerra sistemica permanente tra nazioni e capitali. «Si rimprovera ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno» (Il Manifesto del Partito Comunista).

A proposito di comunismo! Scrive Slavoj Žižek nel suo Problemi in paradiso. Il comunismo dopo la fine della storia (Ponte alle Grazie, 2015): «La Corea divisa non è forse l’espressione più chiara, quasi clinica, della crisi in cui siamo precipitati dopo la fine della Guerra fredda? Da una parte, la Corea del Nord incarna il vicolo cieco del progetto comunista del ventesimo secolo; dall’altra, la Corea del Sud è al centro di uno sviluppo capitalistico impetuoso che l’ha portata a livelli strepitosi di prosperità e modernizzazione tecnologica (Samsung sta minacciando perfino il primato di Apple)». Il celebre intellettuale sloveno chiama «progetto comunista del ventesimo secolo» ciò (stalinismo, maoismo, ecc.) che a mio modesto avviso nulla a che fare aveva con il progetto di rivoluzione sociale e di emancipazione universale del comunismo, mentre aveva interamente a che fare con il capitalismo (più o meno “di Stato”) e con l’imperialismo. Ancora Žižek: «Per comprendere lo speciale status ideologico della Corea del Nord non possiamo evitare di chiamare in causa la mitica Shangri- la del romanzo di James Hilton Orizzonte perduto: una valle tibetana in cui la gente conduce una vita modesta ma felice, totalmente isolata dalla corrotta civiltà globale e sotto il comando benevolo di una élite erudita. La Corea del Nord è quanto di più simile a Shangri-la ci sia nel mondo reale». Questa evocazione/analogia letteraria di Žižek mi appare quantomeno infondata, per non dire altro…

Aggiunta da Facebook

VOGLIO UN BUNKER!

Da Il Giornale: «Minacce terroristiche e crisi internazionali stanno letteralmente facendo schizzare il mercato immobiliare legato a questi rifugi inespugnabili. A investire di più in questo settore sono i guru della Silicon Valley. Tutti hanno scelto luoghi più o meno sperduti per creare le loro case sotterranee a prova di bomba nucleare. Una delle mete più ambite sembra essere la Nuova Zelanda, con i suoi spazi remoti e incontaminati, che la rendono il luogo ideale per sopravvivere all’Apocalisse. Secondo gli ultimi dati, tutto il settore negli Stati Uniti sta crescendo in modo esponenziale: solo nel 2016 le vendite di bunker sono aumentate del 700 per cento rispetto all’anno prima».

Certo che con un bunker così l’Apocalisse fa un po’ meno paura. Come sempre il Diavolo non è poi così brutto come viene dipinto. Naturalmente i soldi, che pure non danno la felicità (così dicono), aiutano a guardare al futuro con un po’ più di ottimismo. Oggi sono particolarmente positivo, diciamo.

UN TRUMP CHIAMATO DESIDERIO…

Donald Trump, Melania Trump

A un certo punto della lunga maratona elettorale, il Presidente degli Stati Uniti, prostrato e pallido come mai prima, ha dovuto ammettere e se stesso, alla Nazione e al mondo intero che l’inconcepibile rischiava di diventare possibile, forse persino probabile. «A prescindere da quello che succede, il sole sorgerà al mattino e l’America rimarrà ancora la più grande nazione del mondo»: queste le rassicuranti parole pronunciate da Barack Obama per rincuorare i perdenti e per preparare il terreno alla successione, in uno scenario politico e sociale carico di tensioni e di contraddizioni, e alla vigilia di importanti avvenimenti sul fronte geopolitico. Obama esce dalla competizione presidenziale con le ossa rotte; il suo attivismo non è bastato a dare forza a una candidatura che non ha mai conquistato nemmeno “il cuore e la mente” di una consistente parte dello stesso Partito Democratico. Non possiamo lasciare l’arma fine di mondo nelle mani di un pagliaccio, aveva detto il Nostro per ridicolizzare l’avversario e impaurire l’elettorato ancora incerto. Eppure era la fredda e secchiona Hillary Clinton che presso una consistente parte dell’opinione pubblica americana rivestiva il ruolo della bellicosa, della guerriera pronta a sfidare il virile Putin anche solo per dimostrare la superiorità della donna, soprattutto della donna americana, anche in fatto di politica internazionale: «Vediamo chi ha più palle fra noi due!». Pare che a Mosca si sia brindato come non accadeva da tempo a risultato elettorale acquisito; anche i simpatizzanti italiani della Russia Socialista…, pardon, volevo dire Sovranista, hanno stappato qualche italianissimo spumante.

Il sole è sorto, come auspicava il Presidente in scadenza, e l’America rimane in effetti la prima Potenza capitalista/imperialista del pianeta. I durevoli effetti della crisi economica iniziata nel 2008; la ristrutturazione tecnologica delle imprese (“Industria 4.0”); la delocalizzazione di industrie e servizi; la precarizzazione del lavoro, la distruzione del ceto medio-basso e il declassamento di quello medio-alto; la montante angoscia per un futuro sempre più indecifrabile: questo e altro ancora spiega il successo di Donald Trump, la cui ascesa ricorda abbastanza il berlusconismo, come d’altra parte l’antitrumpismo dei mesi e dei giorni scorsi echeggia molto l’antiberlusconismo che per vent’anni ho avuto il piacere (a volte bisogna pur accontentarsi!) di sfottere e bastonare “criticamente”. Trump il miliardario! Trump il volgare! Trump il puzzone ignorante! Trump il fascista/populista/demagogo! Trump l’evasore fiscale! Trump il puttaniere! Trump e le donne! Trump e i suoi capelli! Trump e… basta! La provincia dell’Impero ha già dato, sotto questo risibile aspetto. Deposto il buffone di Arcore, ora è la volta del “fascista/neoliberista/ servo sciocco della Merkel e dei poteri forti” chiamato Renzi, al quale peraltro è bastato un secondo per abbandonare al suo tristissimo destino l’«amica Hillary». Ora è il momento dell’«amico Donald».

Certo è che la vittoria di Donald Trump, sorprendente solo per chi in questi mesi ha avuto cura di informarsi esclusivamente sull’ultimo scandalo made in USA che lo riguardava, per un verso conferma l’esistenza di una perdurante crisi sociale negli Stati Uniti, nonostante la propaganda obamiana sul ritrovato “sogno americano”, e per altro verso rivela forse in modo inaspettato l’acutezza, la profondità e l’estensione di questa crisi. Il sistema politico-istituzionale americano non può non registrare le scosse telluriche che scuotono la società, e già nel corso delle Primarie abbiamo visto come i due tradizionali campi politici fatichino a gestire la nuova situazione che si è venuta a creare nel Paese. Ma per un’analisi del voto più accurata c’è tempo.

Scriveva Slavoj Žižek alla vigilia del voto: «La vittoria di Trump contiene in sé un grave rischio, non c’è dubbio, ma la sinistra sarà mobilitata solo dalla minaccia di una catastrofe. Né Clinton né Trump stanno “dalla parte degli oppressi” [e questo l’avevo capito perfino io], per cui la vera scelta è astenersi dal voto o scegliere tra i due quello che, pur non valendo nulla, apre le maggiori possibilità che si inneschi una nuova dinamica politica che possa condurre alla massiccia radicalizzazione della sinistra». Naturalmente quando l’intellettuale sloveno parla di «sinistra» è a tipi come Bernie Sanders che pensa. Roba da far tremare di paura il Capitalismo Mondiale fin dalle fondamenta! «Trump vuole rifare grande l’America e Obama gli ha risposto che l’America è già grande – ma è vero? Un paese in cui uno come Trump ha l’opportunità di diventare presidente può davvero essere considerato grande?». Non c’è dubbio, al sinistro-radicale Žižek sta molto a cuore il destino degli Stati Uniti d’America, la cui grandezza già da tempo appare in – relativo – declino; le sue “provocazioni” politiche rivelano l’intima natura (ultrareazionaria) di quella che in Occidente viene definita “sinistra radicale” – più o meno vetero o post “marxista”. «Su Repubblica un testo delirante del delirante filosofo sloveno diceva ieri che ci si può astenere, ma se si vota la scelta è Trump, così la sinistra rivoluzionaria saprà che cosa fare per quattro anni almeno»: a Giuliano Ferrara questo sembra poco. Il solito incontentabile!

Qualche settimana fa un quotidiano francese stigmatizzava il fatto, peraltro noto da tempo dalla politologia più attenta, che in Europa (ma, come abbiamo visto, anche negli Stati Uniti) “estrema destra” ed “estrema sinistra” convergono su molti e significativi punti dell’agenda politica nazionale (sovranismo, populismo), internazionale (appoggio alla Russia di Putin e a tutti gli Stati che hanno un contenzioso aperto con gli Stati Uniti) ed economica (antiliberismo, protezionismo, statalismo). È vero, gli estremi politici, come quelli geometrici, si toccano, ma a una sola imprescindibile condizione: che tali estremi insistano sullo stesso piano – o “terreno di classe”. Non c’è dunque nulla di paradossale nella convergenza programmatica, e non di rado anche ideologica, di parte della cosiddetta estrema sinistra con una parte della cosiddetta estrema destra: è la loro natura di classe (borghese: mi scuso per l’economia concettuale!) che rende possibile una tale apparente contraddizione, che può essere letta come tale solo a un livello estremamente superficiale dell’analisi politica.

Va da sé che il trionfo presidenziale di Trump, un altro terremoto nel cuore dell’Occidente dopo la Brexit, non può che galvanizzare i sovranisti d’ogni razza e colore. Continua. Forse.

SE NON CAMBIA STAGIONE. Riflessioni sul “caso” Tiziana Cantone.

Le tout nouveau testamentBoris mi ha fornito poco fa un compendio di come
la vede. È un profeta del tempo. Farà brutto ancora,
dice. Ci saranno ancora calamità, ancora morte,
disperazione. Non c’è il minimo indizio di cambiamento.
Il cancro del tempo ci divora. […] Non c’è scampo.
Non cambierà stagione (H. Miller, Tropico del cancro).

Io ho solo sedici anni, e il mondo non lo conosco
ancora bene, ma una cosa sola posso affermare con
sicurezza: se io sono pessimista, un adulto che non lo sia,
in questo mondo, è proprio un cretino
(H. Murakami, L’uccello che girava le viti del mondo).

Quando ho saputo della squallida e tragica vicenda di Tiziana Cantone un solo concetto si è fatto fulmineamente strada nella mia testa, quello di violenza. Sì, la violenza sistemica (economica, politica, militare, psicologica) di cui ho tanto scritto in tutti questi anni. Certo, anche il concetto di Sistema mondiale del terrore, magari in una sua declinazione più particolare e puntuale (“microfisica”, per dirla con Foucault), è tutt’altro che fuori luogo rispetto alla fattispecie qui considerata. Almeno per come io “vivo” e approccio questo cattivo mondo. Siamo parti di un meccanismo sociale sempre più disumano e violento che potenzialmente potrebbe schiacciarci in ogni momento, ovunque noi siamo e qualsiasi cosa noi facciamo. Il disastro è sempre in agguato, sempre dietro l’angolo, e rimanere rinchiusi in casa per scongiurare la sciagura (mentre quella degli altri ci piace assai!) è solo un anticipo di morte. Morire da vivi è la cosa peggiore che possa capitarci.

Di più, e ancor più tragicamente: noi stessi siamo questo meccanismo, che lo vogliamo o no, che lo desideriamo o no, che ci piaccia o no. Viviamo in una trappola costruita da noi stessi, nostro malgrado: notate il maligno risvolto dialettico della cosa? Il nostro essere, di volta in volta, vittime e carnefici non ha tuttavia nulla a che fare con la libertà, con il libero arbitrio, con l’etica della responsabilità e con le altre sciocchezze ideologiche che ci raccontiamo per sentirci adulti e padroni del nostro destino, e che ovviamente il Sistema ha tutto l’interesse a propinarci fin dalla nascita. Ma non raccontiamoci frottole! Siamo artefici e vittime di un Sistema (sociale) che non controlliamo affatto per ciò che riguarda gli aspetti fondamentali della nostra esistenza, e che noi impariamo ad accettare come qualcosa di naturale semplicemente perché non vediamo alternative (o perché quelle che riusciamo a immaginare ci appaiono ancora più brutte della realtà presente), perché ci adeguiamo assai facilmente a quel che passa il convento, giustificando la nostra condizione e posizione nella società con mille e più “argomenti”: sono bravo, non sono bravo, sono fortunato, sono sfortunato (pardon: sfigato), sono amato, non sono amato, sono intelligente, brillante, socievole, bello; sono scemo, scialbo, insignificante, asociale, brutto…  Come se davvero ciò che ci capita dipendesse innanzitutto da noi! Come se non stessimo partecipando a uno spettacolo la cui trama è scritta da rapporti sociali e da prassi socialmente predeterminate che condizionano la nostra esistenza dalla culla alla bara.  I casi eccezionali non fanno che illuminare a giorno la normalità, ma noi abbassiamo lo sguardo, chiudiamo gli occhi, come quando una luce troppo forte li colpisce. Qualcuno sostiene addirittura che per adattarci all’oscurità dell’ambiente siamo diventati ciechi, come alcuni animali che hanno imparato a vivere immersi nell’oscurità del sottosuolo. D’altra parte, un signore che di evoluzione se ne intendeva, capì a suo tempo che non sopravvivono gli organismi più forti, ma quelli che si adattavano meglio alle sempre mutevoli sfide dell’ambiente esterno. E difatti, chi non è socialmente abile (il mal riuscito, il disadattato) rischia l’estinzione: è una verità elementare, questa, che sperimentiamo continuamente e che appunto razionalizziamo in modi diversi, secondo la nostra sensibilità, la nostra estrazione sociale, la nostra cultura, ecc. Quanto tempo e quanta energia psichica sprechiamo per razionalizzare l’irrazionale! Per fortuna la scienza non ci fa mancare qualche “aiutino”, un qualche supporto medico-farmacologico. Il Moloch non solo ci calpesta, ma ci vende anche tutto ciò che può essere utile a metterci in sesto, a farci tirare il fiato, e continuare la corsa. Un circolo davvero virtuoso: si tratta di capire virtuoso per chi, per che cosa.

«Ai nostri giorni – scriveva Horkheimer nei remotissimi anni Quaranta del secolo scorso –, il frenetico desiderio degli uomini di adattarsi a qualcosa che ha la forza di essere, ha condotto a una situazione di razionalità irrazionale. […] Il processo di adattamento oggi è diventato intenzionale e quindi totale. […] La sopravvivenza dell’individuo presuppone il suo adattamento alle esigenze del sistema che vuol perpetuare se stesso. L’uomo non ha più modo di sfuggire al sistema» (Eclisse della ragione). Diciamo pure che egli non si pone più nemmeno il problema. E aggiungiamo anche che il Male, che spesso ci si mostra in guisa banale, è sempre e necessariamente radicale.

Il meccanismo sociale ci ha messi in condizioni tali, che un errore di valutazione, apparentemente sciocco, una svista, uno scherzo, una debolezza, una distrazione, la follia di un secondo può costarci assai caro. Chi non ha sperimentato – ancora – la cosa, farebbe bene a dismettere l’aria da furbo, da intelligente, da sgamato, e a indossare un abito più sobrio, più consono alla situazione, la quale appare dominata dalla casualità: oggi è toccata a lui (o a lei), ma domani può toccare a te (o a me!), dopodomani chissà a chi. Sotto a chi tocca! Consideriamoci piuttosto dei fortunati, mentre la ruota della sventura continua a girare. La ruota gira anche per noi!

È verissimo: come singoli individui non controlliamo il Web, ma ne siamo piuttosto controllati dalla testa ai piedi; ma questo ci accade in generale, ossia se prendiamo in considerazione la società nel suo complesso. Sotto questo aspetto, gli “eccessi” della rete confermano l’essenza della nostra condizione sociale, una condizione che attesta appunto la nostra radicale impotenza sociale. Ma di questo ho parlato diffusamente in un recente post: La violenza (di classe) come essenza dello Stato.

Insomma, chi pensa che Tiziana Cantone, tutto sommato, “se la sia cercata” («È colpa sua, solamente sua», ha detto ad esempio Oliviero Toscani), a mio avviso non sa di che parla, letteralmente. «Non voglio insultarla», ha dichiarato il celebre fotografo, «ma è un po’ fessa, una fessacchiotta. Fai una roba così importante tanto che poi ti sei uccisa, e lo fai in modo così superficiale? Fai un video e lo mandi in giro. Lo fai per farlo vedere. L’ha mandato agli amici, ma quando va in giro va in giro. Diventa pubblico. Certo, aveva degli amici del cazzo. I cretini sono in ordine alfabetico su Facebook, ma quella ragazza sapeva quello che faceva. Viviamo di comunicazione. Non puoi fare qualcosa del genere e poi stupirti, e ammazzarti. Le parodie le devi saper accettare. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso. Se fai un video e lo dai a un amico fai una cosa pubblica. Ha fatto sesso e poi l’ha mandato in giro. Le andava bene che qualcuno vedesse. Se hai fatto un video è già una cosa pubblica, non rimane solo in tuo possesso» (La Zanzara, Radio 24). Dovevi pensarci prima! «Capisco, ma può un errore commesso in un momento di debolezza affettiva e psicologica costarmi quella gogna mediatica che mi ha procurato un infinito dolore, per fuggire dal quale sono stata costretta a rifugiarmi nell’oblio che non conosce ritorno?» Niente da fare: conoscevi le regole del gioco, non eri una sprovveduta, e le hai ampiamente usate, quelle regole, finchè non ne sei rimasta vittima tu stessa. Chi è causa del suo male… «Tutto questo mi devasta, la gente mi riconosce, non ho più futuro. Questa gogna mediatica alla quale, ora per ora, sono sottoposta, mi sta avvicinando al suicidio». Ma come, non sapevi che viviamo di comunicazione?! «Le parodie le devi saper accettare. Devi sapere che può accadere, non puoi deprimerti. Altrimenti sei un fesso». Come gran parte dell’opinione pubblica, l’esperto in comunicazione non coglie il lato mostruoso (disumano, irrazionale) della vicenda, ma si concentra sull’ingenuità, sulla leggerezza e sulla sprovvedutezza della vittima. Il riflettore della critica non è puntato su una società che produce a dosi industriali pulsioni violente, volgarità, «cretini», «amici del cazzo» e disumanità varia (*); no, la critica bastona chi alla fine non si è dimostrato forte abbastanza da reggere il gioco: «è un po’ fessa, una fessacchiotta». Posta la natura disumana della società, si tratta di adattarsi ad essa, non di metterla radicalmente in discussione: che infantile utopia! Roba da fessi, da fessacchiotti.

D’altra parte, chi ha fatto della comunicazione il proprio mestiere, come Toscani, sa bene come il marketing solletichi a dismisura il nostro narcisismo, promettendoci un mondo che ci promuove tutti al rango di “artisti”, o quantomeno di potenziali “vip”: non è forse vero che tutti ci sentiamo, di volta in volta, scrittori, attori, fotografi, pittori, cantanti, musicisti e solo Dio sa che altro ancora? A mio avviso sbaglia, e di molto, chi enfatizza l’aspetto tecnologico del problema, semplicemente perché la macchina “intelligente” è al servizio di precisi interessi sociali, economici (ricerca del profitto, come sempre) e biopolitici (controllo sempre più spinto degli individui). Foucault una volta parlava del carcere, del manicomio, dell’ospedale, della scuola, della fabbrica e della caserma nei termini di istituzioni totali, universi chiusi e riconoscibili preposti alla fabbricazione dei corpi e delle menti, ma anche al loro controllo e alla loro riparazione. Oggi quelle funzioni sono adempiute soprattutto da strutture diffuse, astratte, difficilmente localizzabili, e perciò stesso più potenti, più pervasive e più subdole di quanto non lo fossero mai state le istituzioni totali di una volta. Scrive Chiara Giaccardi: «Viviamo di fatto come in un palazzo di vetro, dove tutti vedono tutti» (Avvenire.it); e dove tutti sono visti e sorvegliati dal Potere – qui declinato in termini astrattamente, e proprio per questo assai realisticamente, sociali. Il Grande Fratello orwelliano impallidisce dinanzi al controllo sociale realizzato spontaneamente dal mondo che ci ospita. Chi sorveglia? Chi punisce? «La società si comporta nello stesso modo esclusivo dello Stato, solo in forma più gentile, per cui non ti mette alla porta, ma ti rende la vita nella sua società così scomoda, che tu stesso spontaneamente cerchi la porta» (K. Marx, La sacra famiglia). «Solo in forma più gentile»: le parole del Moro di Treviri oggi fanno quasi tenerezza, a dimostrazione che il Male non smette di peggiorare.

In questo contesto, il cosiddetto mercato gioca un ruolo centrale, come un po’ tutti del resto sono disposti a riconoscere, salvo non tirarne le coerenti conclusioni. «Trovo solo aberrante che in questa storia ci siano macchine per far soldi, come motori di ricerca e siti potenti, che possono essere irresponsabili per le loro condotte»: è quello che ha dichiarato Fabio Foglia Manzillo, l’avvocato titolare dello studio che seguì la causa civile intentata da Tiziana. Non c’è dubbio, il rapporto sociale capitalistico è aberrante, e certamente il quadro generale non muterà di molto qualora venissero adottate misure restrittive nei confronti di chi gestisce le piattaforme digitali chiamate “social”. Il Capitale – perché di questo stiamo parlando! – ha trasformato la nostra intera esistenza in una immensa risorsa economica, in una gigantesca occasione per far soldi, e le preoccupazioni di chi vuol mettere sotto controllo la bestia, di chi vuole frenarne solo gli istinti e gli appetiti “più insani”, mi ricordano quella battuta che narra la vicenda del Tizio che vuole la moglie incinta, ma solo un poco.

Ricordate la gogna mediatica che trent’anni fa stritolò Enzo Tortora, l’infido «venditore di morte», fino a ucciderlo? Ebbene, quanto veleno e quanta cacca mediatica in più avrebbe dovuto ingurgitare il “bravo presentatore” (a me stava un po’ antipatico, per la verità) se allora fosse stata operativa la Big Net? Voglio dire allora, contraddicendomi, che il problema sta nella tecnologia che usiamo? No. Voglio ribadire un concetto: la tecnologia non fa che potenziare una carica distruttiva, in senso materiale, spirituale e psicologico, che pulsa al centro di questa società. Mi scuso e mi cito: «Metti nelle mani del Pregiudizio più antico la tecnoscienza più moderna (non mi riferisco solo agli strumenti di morte, ma anche ai moderni strumenti di informazione elettronici:  vedi gogna mediatica e messaggi virali), e avrai creato l’inferno sulla Terra. Dante dovrebbe riscrivere interamente l’Inferno!» (Due popoli, due disgrazie, 28/07/2014). Com’è facile capire, alludevo all’antisemitismo. Il problema non è dunque la tecnologia in sé, anche se non esistono tecnologie socialmente neutre anche al netto dell’uso che di esse facciamo; il problema è una società che alimenta sempre di nuovo pregiudizi, frustrazioni, invidie, illusioni, rabbia, odio, desiderio di vendetta e quant’altro (**).

Sostiene Slavoj Žižek, interrogato sul caso qui in esame dal Corriere della Sera: «Il web riproduce e diffonde più del passaparola. E può mostrare orrori da scenario di guerra, o morbosità atroci. Non può essere lasciato a se stesso. Se dai solo libertà poi si arriva a una esplosione di violenza, brutalità, razzismo. È lo Stato che deve trovare il modo di controllare il web, almeno per gli aspetti penalmente rilevanti, socialmente pericolosi. Non credo come Assange che la libertà totale del web ci salverà: certo, non mi fido neanche delle agenzie di sicurezza attuali; servono apparati trasparenti che senza indirizzo politico salvaguardino quella che è una deriva generale». Già il concetto di «deriva generale» suona alle mie orecchie quanto mai sospetto, perché esso suggerisce al pensiero che, posta questa società, le cose potrebbero andare diversamente, cioè un po’ meglio (siamo realisti!), se solo si riuscisse a tenere sotto controllo la cosa aliena responsabile, appunto, della «deriva generale», della «brutta china». Invece le cose vanno esattamente come devono andare, ossia in modo conforme alla natura di questa società: la Cosa è di questo mondo. Mai come oggi la “realistica” ideologia del male minore ha mostrato di essere irrealistica, per un verso, e alleata del Dominio, per altro verso. Questa ideologia si dà nei fatti come apologia dell’impotenza sociale che grava su tutti gli individui, a partire naturalmente da quelli che affollano le ultime posizioni della scala gerarchica.  Sulla cosiddetta «libertà» di cui parla Žižek, qui sono sufficienti le poche considerazioni “esistenzialistiche” fatte sopra; in più ripeto il mio solito mantra: non esiste autentica libertà, né umana razionalità, nella società che conosce la divisione classista degli individui. Per approfondimenti sul tema, rinvio ai miei precedenti post “politico-filosofici”.

Antonio Borrelli (Il Giornale), che certo non milita nello stesso versante politico-ideologico dell’intellettuale sloveno, la pensa tuttavia come lui circa la necessità di controllare il Web: «Forse non sapremo mai i reali motivi che hanno spinto la giovane napoletana al suicidio. Una cosa è certa: come già dichiarato dal garante della privacy Antonello Soro, risulta ormai necessario riflettere e agire concretamente per contrastare il potere degradante del mare magnum del web». Ammettiamolo: chiunque sia fornito di un briciole di buon senso non può che pensarla così. Ebbene, confesso sul punto una totale mancanza di buon senso. L’illusione proibizionista si fa strada come un vero e proprio riflesso condizionato nella testa di moltissime persone, anche perché la soluzione coercitiva delegata al Sovrano di problemi molto complessi e in grado di urtare la sensibilità etica dei più, sembra rispondere perfettamente alla nostra condizione di sudditanza, e certamente essa ci appare come la soluzione più economica, o semplicemente come la sola realisticamente praticabile. Ed è appunto questa inerzia di pensiero che bisogna combattere, su tutti i fronti della guerra quotidiana per l’esistenza, ovunque la prassi del Dominio ha modo di manifestarsi.

Nella misura in cui penso che lo Stato sia il cane da guardia posto a difesa del vigente e disumano meccanismo sociale, non posso certo condividere la ricetta di Žižek e Borrelli. Nel mio infinitamente (inconcludente?) piccolo, agisco politicamente per demistificare e delegittimare il Discorso del Leviatano, non per confermarlo e accreditarlo agli occhi dell’opinione pubblica, la quale peraltro è appunto avvezza a prestare orecchio ai paterni consigli dell’Autorità, e ciò vale soprattutto in tempi di crisi, quando tutto sembra andare in malore. Domanda del Corriere della Sera: «Lo Stato dovrebbe controllare la nostra privacy?». Risposta: «No. Il problema non è difendere la nostra privacy, ma difendere gli spazi pubblici dalla nostra invadenza, dalla tendenza a privatizzarli che li rende indecenti e indecorosi». In una parola, lo Stato, bontà sua, dovrebbe difenderci dalle nostre stesse cattive inclinazioni. Frenare la «deriva generale» per mezzo dello Stato non è certo un compito che può allettare, nemmeno un poco, chi ha in odio i vigenti rapporti sociali e le istituzioni chiamate a puntellarli sempre di nuovo, con tutti i mezzi necessari, usando il guanto di velluto o quello di ferro (oppure “pugno di ferro in guanto di velluto”), secondo le circostanze. Quanto poi agli «apparati trasparenti senza indirizzo politico» di cui parla Žižek, ognuno è ovviamente libero di coltivare la propria utopia, quella che gli è più congeniale. E poi io chi sono per giudicare l’utopia degli altri? Mi limito a costatare che la radicalità di pensiero che spesso ammiro nei suoi libri non sempre, anzi: raramente, ha modo di tradursi in indicazioni politiche altrettanto radicali, tutt’altro.

Per fortuna chi non la pensa come Assange sulle presunte capacità liberatorie e salvifiche del Web non deve necessariamente invocare l’intervento del Leviatano, come invece appare più opportuno e più realistico fare al soggetto che non vede alternative possibili a questa cattiva situazione, esattamente come capita a quelle persone che “scelgono” di imboccare la strada senza ritorno dell’oblio assoluto. Scrive la già citata Giaccardi: «La tecnologia non libera affatto, se non ne capiamo il senso, ma anzi può essere piegata a forme subdole e sempre più perverse di umiliazione e violenza. Pensiamo a quel che stiamo facendo, a dove stiamo andando, a dove sta il senso». Prendiamo coscienza del fatto che la tecnologia che usiamo, ovunque la usiamo (al lavoro, a casa), è essenzialmente espressione degli odierni rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, i quali proiettano la loro cattiva luce su tutto ciò che facciamo, agli altri e a noi stessi.

(*) «Il male non fa più paura, la violenza e la morte possono essere regine di like. Così un gruppo di ragazzi in vacanza a Sorrento posta un selfie di vittoria dopo lo stupro di un’americana nei bagni di un locale, mentre un giornalista uccide in diretta una giovane reporter e il suo cameraman in Virginia. Subito dopo si toglie la vita, ma non prima di aver caricato il video sui social, divenuto virale in pochi attimi. Tutti scandalizzati? Per niente: il 44% dei ragazzi è a favore della socializzazione della violenza. O almeno è quanto hanno risposto a un’indagine di Skuola.net.» (Linkiesta, 29 agosto 2015).

(**) Nei primi anni Novanta Radio Radicale aprì i microfoni ai radioascoltatori senza filtri né commenti. Ne venne fuori un caso sociologico definito Radio parolaccia o Radio bestemmia. «L’iniziativa delle telefonate libere fu chiamata “Radio parolaccia” e venne replicata nel 1991 e nel 1993, quando sempre per salvarsi da una possibile chiusura fu riattivata la segreteria telefonica. In tre settimane Radio Radicale divenne una delle radio più ascoltate d’Italia» (Il Post, 18 settembre 2014). «Durano da 15 giorni le telefonate di Radio Radicale con bestemmie, oscenità, razzismo. Nell’intervista di Pierluigi Battista, Marco Pannella fornisce dati e giudizi assai interessanti, curiosi e degni di attenzione sul fenomeno di “Radio parolaccia”, la trasmissione radiofonica che sta mettendo in luce “la violenza del mondo”. Alla domanda se non tema di passare alla storia come colui che ha “innescato il più osceno e sconvolgente turpiloquio radiofonico”, Pannella risponde denunciando piuttosto la “pigrizia mentale” di chi non vuole cogliere l’aspetto di grande interesse fornito dalla trasmissione: non c’è “un sociologo che si prenda la briga di studiarle, quelle voci”, e nemmeno un “linguista…”. Richiesto di un suo giudizio, Pannella parla di un “gorgo da incubo”, “l’anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole” tra le quali spicca l’ossessivo “desiderio di ‘spaccare il culo’, segno di una nevrosi sociale..”, “elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sociale…”, un bisogno “di esaltare il male che si oppone al Bene…”. La trasmissione insomma fa venire fuori tutti “gli angoli torbidi e bui della nostra esistenza…” Onorevole Pannella, non ci verrà a raccontare di aver acceso Radio Parolaccia con lo spirito di chi apre un laboratorio di studi? I maligni dicono anzi che si tratta di un’ottima trovata pubblicitaria. “E i maligni, come al solito, si condannano a non capire niente. In questi giorni la radio ha quadruplicato i suoi ascolti, milioni di persone che prima non ci conoscevano ma adesso giorno dopo giorno, cercano con affanno di sintonizzarsi sulle frequenze di Radio Radicale”. Curiosità morbosa? “Non saprei. Meglio questo di chi invece di scendere ‘nel gorgo muto’, si mette a sbraitare nello stesso modo in cui gli altri sbraitano attraverso il telefono . Un gorgo, un gorgo da incubo. Ma come, c’è da domandarsi, vi si dà la possibilità non solo di parlare ma di presentare per così dire il vostro biglietto da visita e cosa scegliete di lasciare di voi stessi? L’anonimia. Non l’anonimato, che è un’altra cosa, ma la torbida, paurosa anonimia di chi non riesce ad articolare più di quaranta, massimo cinquanta parole. Un numero infinito di fotocopie in cui variano soltanto gli accenti ma come in una parodia terrorizzante di unità nazionale, si adoperano le stesse, consunte parole a Trapani e a Milano”. E quali sarebbero queste parole? “Prima di tutto l’ossessivo, maniacalmente ripetitivo desiderio di ‘spaccare il culo’. Segno di una nevrosi sociale diffusa che dovrebbe far riflettere psicologi e psichiatri. Simbolo linguistico di una società in cui affiora un elemento patologico di impotenza e insoddisfazione sessuale in cui il sesso, come fosse un totem, diventa un simbolo di catartica violenza in grado di appagare istinti ben piantati nel nostro immaginario. E poi c’è la bestemmia reiterata, gridata, annunciata come in un cupo rullio di tamburi”» (La Stampa, 19 novembre 1993).

GUERRA E RIVOLUZIONE

guerras-punicas-2Conoscerete la verità ed essa vi renderà liberi (Gesù).
L’ipotesi illusoria non fa le veci della verità (Mohammad).
La verità è rivoluzionaria (Lenin).

Per lo storico Franco Cardini, con il terrorismo jihadista l’Occidente si trova a dover fare i conti con una guerra sociale che usa la religione come mero pretesto: «Non illudiamoci. Questa non è una guerra di religione: è una guerra sociale, della quale è teatro tutto il mondo». Si tratta allora di chiarire i termini politici e sociali di questa guerra, di precisarne i contorni, anche ideologici, di coglierne la dinamica interna e di connetterla al più generale e unitario processo sociale mondiale. Nel suo piccolo, chi scrive ha cercato di dare un contributo alla comprensione di questa «guerra sociale» scrivendo diversi post sull’argomento, ai quali rimando i lettori, e la cui tesi centrale si può riassumere come segue: la religione non spiega nulla di fondamentale, mentre è essenziale capire l’uso politico-ideologico che di essa fanno i movimenti politico-militari al servizio di interessi economici, sociali e geopolitici ben definiti.

A proposito dell’evocata guerra sociale, e prima di entrare nel merito della questione, non posso non evidenziare il fatto che il Presidente degli Stati Uniti si è visto costretto ad abbandonare in fretta il vertice Nato di Varsavia, nel corso del quale gli Alleati hanno approntato nuove misure politico-militari idonee a contenere l’attivismo imperialista della Russia di Putin, per fronteggiare quella che molti analisti politici americani definiscono «una nuova guerra civile». «Obama ha la guerra in casa, e viene qua a intromettersi nelle vicende che riguardano il mio cortile di casa!», avrà pensato con un certo fastidio e con molto compiacimento il virile Vladimir. L’impiego del robot kamikaze per rendere inoffensivo il cecchino-vendicatore di Dallas è qualcosa che deve farci riflettere, auspicabilmente andando oltre le consuete argomentazioni eticamente corrette – come quelle che si aggrovigliano intorno all’uso dei droni nella «guerra asimmetrica» contemporanea – circa «la necessità di mantenere le garanzie dello Stato di diritto anche nella lotta al terrorismo». Ma su questo punto spero di ritornare quanto prima.

Dopo la strage di Dhaka (o Dacca) è riesplosa in Italia la polemica fra intellettuali e politici circa la vera natura del terrorismo di «matrice islamica». La scoperta della provenienza sociale dei terroristi («giovani rampolli di buona famiglia, che non avevano mai visto una scuola coranica in vita loro») implicati nel massacro dei nostri compatrioti ha ringalluzzito i sostenitori della natura sostanzialmente religiosa (islamica) del terrorismo che imperversa in mezzo mondo e che stressa non poco diversi quadranti geopolitici. Scrive ad esempio Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera del 7 luglio: «Dopo la strage di Dacca, abbiamo scoperto ancora una volta che i terroristi non sempre vengono dai ceti diseredati, non appartengono ai “dannati della terra”. Lo abbiamo ri-scoperto nel senso che qualcosa, nella nostra cultura profonda, ci impedisce di prendere atto una volta per tutte del fatto che non è, o è solo in parte e neppure quella principale, il disagio sociale ad armare la mano del terrorismo jihadista. Nel caso del Bangladesh, uno dei Paesi più poveri del globo, i terroristi erano figli addirittura delle classi agiate; e ce ne siamo molto stupiti, quasi avessimo dimenticato che Salah Abdeslam, protagonista degli attentati parigini del novembre scorso, veniva pur sempre da una famiglia di ceto medio che abitava in un dignitosissimo palazzo borghese. Gli esempi ulteriori non mancherebbero, almeno da quando la strage dell’11 settembre fu guidata dall’ingegnere egiziano Mohamed Atta, agli ordini di Osama bin Laden, figlio di un miliardario». Il lettore si prepari, adesso arriva il bello: «Ma è come se fossimo rimasti tutti discepoli di Marx e della sua idea che ideologie e religioni (dunque anche il fondamentalismo islamista) appartengono al mondo della “sovrastruttura”, laddove invece le cause vere dei fenomeni sociali e della storia in generale andrebbero cercate altrove, a livello della “struttura”, cioè dei rapporti sociali di produzione e, in sostanza, dell’economia. Un’idea particolarmente in sintonia del resto con i caratteri più profondi della cultura occidentale, che pone appunto l’economia al vertice di tutto, che da tempo ne ha fatto la dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?)». Con una tipica inversione di stampo ideologico, sempre per rimasticare abbastanza indegnamente i concetti marxiani, Belardelli presuppone «i caratteri più profondi della cultura occidentale», alla quale evidentemente il comunista di Treviri non sarebbe rimasto estraneo, a quella che è una realtà sempre più evidente: l’economia come «dimensione centrale dell’esistenza (non si regge soprattutto sull’economia, da ciò forse la sua fragilità, l’intero assetto dell’Unione europea?)». Come si vede, è lo stesso critico del “materialismo storico” che si vede costretto ad ammettere il dominio dell’economico sulla vita degli individui, realtà che Marx si è “limitato” a penetrare concettualmente per scoprirne la dimensione storico-sociale; salvo poi far derivare, Belardelli, quel dominio (Marx parlava di «momento egemone») dai  «caratteri più profondi della cultura occidentale».

Fin quando la società rimarrà sul terreno della divisione classista fra dominanti e dominati, l’economia dovrà necessariamente porsi al centro della prassi sociale umana, fino ad assumere, com’è accaduto nel moderno Capitalismo, il carattere di una potenza sociale che prescinde dalla volontà degli stessi capitalisti singolarmente presi. Siamo alla ben nota metafora del Moloch che brama sacrifici umani d’ogni genere. Solo nella Comunità umana, dice sempre Marx, ossia nella società priva di classi sociali, la volontà organizzata e unificata degli individui potrà finalmente dominare la totalità del processo sociale, mentre oggi essi devono, per l’essenziale, subirlo. Insomma, materialista (“economicista”) è il Capitalismo! Non bisogna dimenticare che Marx si occupò della storia «sinora esistita» (o preistoria rispetto alla storia umana che, forse, verrà), la quale è appunto «storia di lotte di classi», le quali non raramente, anzi piuttosto frequentemente, hanno assunto l’aspetto di aspre e sanguinose contese religiose, cosa abbastanza risaputa e facile da comprendere; ma evidentemente non per  Belardelli, il quale infatti scrive: «C’è davvero qualcosa di singolare nel fatto che un’Europa che è stata dilaniata tra 500 e 600 dalle guerre di religione, e prima ancora – nella Francia meridionale del XIII secolo – è stata testimone di una crociata contro gli eretici (sterminati, a quel che dicono le cronache del tempo, al grido: “uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi”), c’è qualcosa – dicevo – di singolare nel fatto che ora quella stessa Europa non riesca a considerare seriamente la componente evidentemente religiosa del terrorismo islamico. Siamo così dimentichi di quel passato, che per timore d’essere tacciati di islamofobia ci sentiamo in dovere di dire e scrivere sempre una cosa ovvia, cioè che non tutti gli islamici sono terroristi». Qui è appena il caso di ricordare che ancora nel XVIII secolo, prima della Rivoluzione francese, l’ideologia dominante presentava la storia del potere di classe, con la sua necessaria proiezione geopolitica, nei termini di una storia sacra, di una storia avente cioè a fondamento la natura sostanzialmente divina della gerarchia sociale, la quale culminava nella sacra figura del Monarca, immagine terrena di un ben più alto e potente Monarca: Dio.

«Per di più, la centralità dell’economia si è accompagnata soprattutto in Europa a un processo impetuoso di secolarizzazione che ha reso un luogo comune l’idea che la religione sia il regno dell’illusione e della mera apparenza, quando non della superstizione; qualcosa che i “lumi” della modernità presto cancelleranno definitivamente, sicché non è da cercare lì, nei riferimenti religiosi, alcuna vera motivazione dell’agire umano, neppure dell’agire di un terrorismo che proclama apertamente la guerra santa contro i “crociati” e risparmia chi si mostra in grado di recitare i versetti del Corano». A parte la disarmante ingenuità di Belardelli, il quale prende sul serio ciò che il taglia teste nel Santo e Misericordioso nome di Allah pensa e dice di se stesso (1), qui va colta l’occasione per rilevare l’abissale distanza che corre tra il “materialismo storico” e la polemica illuminista e anticlericale del positivismo ateo, come viene fuori, tanto per fare un solo esempio, dalla citazione che segue: «Una religione che ha sottomesso a sé l’impero mondiale romano, e che ha dominato per 1800 anni la massima parte dell’umanità civile, non si liquida spiegandola puramente e semplicemente come un insieme di assurdità originate da impostori» (2). Ma qui non è il luogo adatto per diffondersi oltre intorno a ciò che distingue, sul piano storico, politico e concettuale, il punto di vista rivoluzionario-borghese, che a suo tempo dovette regolare i conti con il potere economico, politico e ideologico della Chiesa, e il punto di vista rivoluzionario “proletario” che nacque proprio come superamento critico della posizione radicale-borghese (3).

imag05«Tutti i movimenti di massa del medioevo», scriveva Engels, «portavano necessariamente una maschera religiosa, apparivano come restaurazioni del cristianesimo primitivo degenerato da secoli; ma di regola dietro l’esaltazione religiosa si nascondevano interessi mondani molto forti». In una nota, Engels abbozza un interessante confronto tra la funzione ideologica della religione islamica dopo la sua iniziale ed esplosiva (rivoluzionaria) espansione geografica, e la funzione ideologica della religione cristiana a partire dal dissolvimento della società medievale: «L’islam è una religione fatta per orientali, specialmente per gli arabi; quindi, da una parte, per città che esercitano commercio e industria, e dall’altra per beduini nomadi. Ma qui sta il germe di un urto che si ripete periodicamente. Le città diventano ricche, sfarzose, rilassate nell’osservanza della “legge”. I beduini, poveri e, per povertà, austeri di costumi, guardano con invidia e desiderio a queste ricchezze e a questi piaceri. Allora si raccolgono sotto un profeta per castigare i peccatori, per restaurare il rispetto per la legge e per la vera fede, e per intascare come ricompensa i tesori degli infedeli. Dopo cent’anni essi naturalmente si trovano proprio a quel punto deve stavano quegli infedeli; una nuova purificazione della fede è necessaria, sorge un nuovo profeta, e il gioco ricomincia. […] Sono tutti movimenti scaturiti da cause economiche e che hanno un travestimento religioso; ma, anche se vittoriosi, lasciano sopravvivere intatte le vecchie condizioni economiche. tutto resta quindi come prima e l’urto diventa periodico. Nelle sollevazioni popolari dell’occidente cristiano, al contrario, il travestimento religioso serve solo come bandiera e come maschera per l’assalto a un ordinamento economico antiquato; questo, alla fine, viene rovesciato, ne sorge uno nuovo, il mondo va avanti» (4). L’Occidente cristiano genererà la Rivoluzione borghese, con tutto quello che un simile evento ha presupposto e posto in termini economici, politici, scientifici, psicologici, in una sola ed esaustiva parola: sociali; l’Oriente islamico non conoscerà mai un evento rivoluzionario paragonabile a quello che ha dischiuso nel modo più radicale le porte all’accumulazione capitalistica nei Paesi occidentali, alla loro industrializzazione. Nei Paesi musulmani  la modernizzazione capitalistica sarà compiuta per l’essenziale dallo Stato, e comunque sotto lo stretto e diretto controllo dello Stato, secondo lo schema delle “rivoluzioni dall’alto”, non raramente innestate sul corpo del processo di decolonizzazione.

In ogni caso, a mio avviso sbaglia grossolanamente chi individua proprio nell’Islam, o in una sua declinazione particolarmente retriva (“anticapitalista”), la causa del mancato decollo borghese dell’ambiente islamico. «Non dalla religione musulmana, ma da ben altri fattori dipende il fatto che la borghesia [arabo-islamica] non abbia conservato o aumentato la potenza dei primi secoli dell’egira, che negli Stati dominati da una gerarchia aristocratica e militare essa abbia potuto pesare solo limitatamente sul potere politico, che la città non sia riuscita a dominare in misura sufficiente la campagna, che il capitale industriale non si sia sviluppato quanto in Europa o in Giappone, che la primitiva accumulazione capitalistica mai abbia raggiunto i livelli europei. Si possono rinvenire fattori permanenti, fondamentali, come la relativa densità della popolazione, che fornisce una manodopera abbondante e a buon mercato e non incita quindi a ricorrere a perfezionamenti tecnici; o come la millenaria tradizione di uno Stato forte richiesto in molti paesi orientali dalla produzione agricola, che dipende in larga misura dalle opere pubbliche. A tutto ciò è certamente necessario aggiungere l’imprevedibile concatenamento di circostanze storiche. E tra queste, notevole importanza ebbero le onde d’invasione proveniente dell’Asia centrale. […] Non esiste un’economia musulmana o cristiana, cattolica o protestante, francese o tedesca, araba o turca, dionisiaca o apollinea. Queste, tutt’al più, possono essere coloriture superficiali delle scelte economiche fondamentali. Le caratteristiche nazionali possono cagionare variazioni interessanti al modo di funzionamento dei sistemi: ma non possono, da sole, trasformare i sistemi nei loro tessuti fondamentali» (5). Con ciò è forse esaurito il quadro delle cause storico-sociali che spiegano il divario apertosi fra Occidente cristiano e Oriente musulmano a partire dal XVI secolo e resosi evidente alla fine del secolo successivo? Certo che no! Ma tra le tante cause di quel divario, il cui retaggio storico stiamo ancora scontando, il “fattore religioso” è davvero quello che spiega di meno e che, piuttosto, va spiegato alla luce del complessivo – e maledettamente complesso – quadro sociale di riferimento. E poi, ci si può forse stupire se dopo l’epopea eroica dell’egira abbia iniziato a circolare l’utopia di un’età dell’oro (riferita alla primitiva comunità islamica) fra gli strati sociali più poveri del “popolo musulmano”, fra i «dannati della Terra» sfruttati, maltrattati e avviliti dall’ostentazione di una ricchezza sempre più straripante ed esclusiva? Inutile dire che l’elaborazione di quel mito fu opera degli intellettuali del tempo, non importa se animati da cattiva o da ottima fede, e non certo della rozza massa dei diseredati, checché ne pensi il “marxismo” – almeno nella miserabile versione offerta da Belardelli.

«Noi abbiamo l’abitudine di pensare al Medioevo in modo molto eurocentrico. Secondo il quale il Medioevo è un periodo di stasi, uno iato tra il declino della civiltà mediterranea e il mondo moderno. Ma la transizione veramente importante non è stata l’Europa feudale semi-barbara, è stata la grande civiltà dell’Islam, non solo la più grande civiltà del suo tempo, ma forse la più grande civiltà della Storia. Una civiltà che comprendeva una moltitudine di gruppi etnici ed era molto creativa e ricettiva, con uno slancio verso l’innovazione e la sperimentazione che era sconosciuto anche ai greci. Stiamo parlando di una civiltà tollerante per lo standard dei tempi, in cui cristiani ed ebrei potevano vivere in pace sotto il governo islamico, anche se non con eguali diritti, cosa che non aveva certo riscontro nell’Europa medievale cristiana. Poi improvvisamente le cose cambiarono, e gli islamici si trovarono superati da quelli che consideravano i barbari d’Europa, anche se è un improvvisamente molto relativo. Fu allora che cominciarono a chiedersi in che cosa avessero sbagliato. Il fallito assedio di Vienna del 1683, registrato dagli storici islamici come “una catastrofe”, portò al trattato del 1699 in cui i cristiani vittoriosi per la prima volta dettarono le condizioni all’Impero Ottomano. Da allora, per 300 anni, il mondo musulmano è in ritirata ovunque, e questo ha portato a un sentimento generale di sconfitta e di vergogna per esser dominati da miscredenti. Sono convinto che sia questa la vera origine della rabbia con cui ci confrontiamo oggi». Così Bernard Lewis in un’intervista rilasciata l’11 settembre 2002 al Corriere della sera. Come si vede Lewis rimane ancorato a una concezione superficiale e idealista del processo sociale mondiale, e difatti egli trascura di menzionare l’ineguale sviluppo del Capitalismo nelle diverse aree del pianeta (ma anche nelle singole nazioni), le rivoluzioni borghesi che in Europa (in primis, Olanda, Inghilterra e Francia) minarono alle fondamenta i vecchi rapporti sociali precapitalistici e le istituzioni politiche a essi corrispondenti, il colonialismo, l’imperialismo e molto altro ancora. Ciò che dunque rimane, è la schiuma ideologica del processo storico-sociale («Durante la guerra Iran-Iraq degli anni ’80 entrambi gli schieramenti fecero largo uso di propaganda in cui si accennava a fatti accaduti nel Settimo Secolo, sicuri di essere capiti dalla gente comune»), la quale ovviamente ha la sua importanza (per dirla con Marx, anche l’ideologia «diviene una forza materiale appena s’impadronisce delle masse»), ma solo se riferita al contesto generale, sociale e geopolitico, appena abbozzato. Solo così si può capire, ad esempio, l’uso ideologico/strumentale che le classi dominanti del mondo musulmano hanno fatto in passato e continuano a fare del «sentimento generale di sconfitta e di vergogna per esser dominati da miscredenti». Purtroppo sono le masse dei nullatenenti quelle più esposte e sensibili alla retorica populista a sfondo laico (tipo «socialismo arabo») o religioso (tipo khomeinismo o fondamentalismo sunnita). Tenere in caldo il fanatismo religioso delle masse, per poterlo mobilitare alla bisogna anche (soprattutto!) contro gli interessi delle stesse masse, è cosa che offre mille esempi, nel lontano come nel recente passato (pensiamo alla guerra a sfondo etnico-religioso che insanguinò la ex Jugoslavia negli anni Novanta), e a qualsiasi latitudine.  Detto en passant, l’uso della questione palestinese che i regimi del Vicino e del Medio Oriente hanno fatto dal Secondo dopoguerra in poi si inscrive perfettamente in questo quadro, e dispiace che molti “anticapitalisti” occidentali hanno dato credito alla demagogia “antimperialista” di quei regimi.

Che concreti interessi materiali e politici possano trovare nell’ideologia, anche a carattere religioso, un potentissimo strumento di difesa e di espansione è cosa che supera le capacità di comprensione di non pochi intellettuali, la cui totale assenza di profondità concettuale e di dialettica li porta a una lettura volgare e macchiettistica di quella che essi credono sia la “concezione materialistica della storia”. «I terroristi erano figli addirittura delle classi agiate»: come se il malessere, il disagio, l’estraniazione (il non sentirsi mai a casa propria) e altro ancora fossero una triste prerogativa degli strati sociali più brutalizzati sul piano economico dal Dominio! Come se la disumanità di questo mondo non toccasse in qualche modo, anche solo potenzialmente, tutti gli individui, a partire da quelli che circostanze di vario genere hanno reso più sensibili e vulnerabili. Con ciò non penso neanche lontanamente di tracciare la biografia dei terroristi cosiddetti islamici, cerco piuttosto di ridicolizzare, attraverso una riflessione d’ordine generale, il concetto di “disagio sociale” che hanno in testa gli intellettuali che prendono di mira il “materialismo storico” senza averne capita una sola tesi.

Il già citato Cardini mostra di saperla assai più lunga di Belardelli sulle cose di questo mondo hobbesiano: «Il Bangladesh è, al tempo stesso, uno dei paesi a maggior tasso di sviluppo (è il secondo esportatore al mondo di prodotti di abbigliamento, con uno sviluppo annuo del PIL di oltre il 7%). Come fa notare Alberto Negri su “Il Sole” di stamattina, l’export di tessile e abbigliamento bengalesi è passato in quindici anni dal poco meno di 5 miliardi di dollari del 2001 a oltre 25 nel 2015. Si è parallelamente sviluppata nel paese una ricca e potente oligarchia imprenditoriale: nello stesso parlamento, fatto di 300 membri, almeno il 10% (una trentina) possiede delle fabbriche (ma in realtà sono di più, col sistema dei prestanome). Imprenditori e mediatori commerciali sono diventati sproporzionatamente ricchi, possiedono barche da diporto e mandano i figli a studiare in prestigiose università estere. Ma questo è il punto. Questi straricchi sono i “rappresentanti del popolo”, i garanti del suo sviluppo democratico e degli standards della sua modernizzazione all’occidentale. La stragrande maggioranza del popolo rappresentato da questi signori, però, è poverissima, e – continua Negri – “sopravvive con salari irrisori e un reddito medio pro capite annuo inferiore ai 2000 dollari” (circa 6 dollari al giorno, 180 al mese: anche se in Africa c’è di peggio…). Ma in realtà molti guadagnano meno: esistono operaie che lavorano 14 ore al giorno per 40 euro al mese (6). In queste condizioni, in altri tempi, si sarebbe sviluppato forse un forte movimento sociale: ma oggi le rivendicazioni dei diritti dei lavoratori sono ridotte a zero, e ciò è stato senza dubbio una grande vittoria del capitalismo internazionale e delle lobbies. Ma il prezzo che stiamo pagando per l’abnorme arricchimento di una minoranza è questo: il radicarsi di un sempre più forte e feroce jihadismo che dice di cercar la giustizia nel nome di Dio. Se c’illudiamo di batterlo solo con misure militari, ci sbagliamo. Ed è del tutto cretino ribattere che gli attentatori del primo luglio erano tutti di famiglia abbiente (con ciò sottintendendo che il movente sociale non ci sarebbe). È regola storica che le avanguardie rivoluzionarie appartengano spesso alle classi dirigenti: vi siete dimenticati dei principi Bakunin e dei principi Kropotkin della Russia zarista? Non avete mai sentito parlare della ribellione dei figli contro i padri? Non vi sembra che proprio la partecipazione di membri di strati sociali privilegiati (e allevati all’occidentale) a movimenti eversivi sia una prova in più del fatto che i “valori” occidentali stanno fallendo mentre la contraddizione tra le chiacchiere sulla pace e la libertà e la realtà dello sfruttamento dei popoli è sempre più stridente?» Qui la riflessione di Cardini sembra poter convergere con quella di Belardelli, il quale infatti scrive: «Il fondamentalismo islamico si presenta così come l’ultima, e in un certo senso al momento unica, ideologia radicalmente anticapitalistica e antioccidentale». Donatella Di Cesare (Corriere della Sera) è dello stesso avviso: «A contrastare l’egemonia del sistema capitalistico non è più solo la sinistra internazionalista. Lungi dall’essere il terzo incomodo, l’islam appare l’unica potenza capace di imporre un universalismo militante che si ripromette di essere l’avvenire stesso di questo mondo». Parlare di «ideologia radicalmente anticapitalistica» a proposito dell’Islam, anche nella sua versione radicale-fondamentalista, rasenta il ridicolo, e ciò peraltro ci dice ancora una volta quanto indigente (faccio dell’eufemismo, è chiaro) sia il concetto di “anticapitalismo” che hanno in testa la generalità degli intellettuali e dei politici. Di “anticapitalismo” si parlò anche a proposito della “rivoluzione khomeinista” di fine anni Settanta, e sappiamo com’è andata a finire; non pochi “marxisti” occidentali delusi dall’«imborghesimento» dei tradizionali partiti “comunisti” si gettarono a corpo morto nella nuova/ennesima – supposta – «esperienza rivoluzionaria», salvo poi portare a bilancio l’ennesima disillusione, senza possedere peraltro le capacità di comprendere la radice teorico-politica dei loro abbagli “rivoluzionari”, cosa che li ha portati a reiterare i vecchi errori.

Mille-e-una-notte-evScrive Richard Falk, ricordando la sua entusiastica adesione alla «Rivoluzione Islamica» divampata in Iran nel 1978 e culminata con la cacciata dello Scià il 17 gennaio 1979: «Sono ritornato dall’Iran con un senso di eccitazione per quello a cui avevo assistito e sperimentato, con la sensazione che il paese avrebbe potuto dare al mondo un nuovo e necessario modello politico progressista che univa la compassione per il popolo nel suo complesso a un’identità spirituale condivisa. […] C’era una sensazione straordinaria di unità e di solidarietà sociale che sembrava coinvolgere tutta la popolazione, in quel momento, superando divisioni di classe e di etnie, e portando perfino quelli che si identificavano in un’appartenenza religiosa, a legarsi con elementi laici liberali. È stato un momento di mobilitazione storica, e sebbene non si potesse conoscere il futuro, l’energia positiva che veniva rilasciata e che abbiamo sperimentato era notevole. Si sentiva quando si partecipava a dimostrazioni gioiose di vari milioni di persone a Tehran per festeggiare la partenza dello Scià e la vittoria della rivoluzione. Questa effusione di affetto e felicità dava credibilità alle nostre speranze che l’Iran come società liberata  sarebbe progredita per creare una forma umana e caratteristica  di modo di governare. È stato non molto tempo dopo che quello che sembrava così promettente degenerò in un processo che era profondamente inquietante, con gli oppositori maltrattati gravemente e l’emergere di una nuova autocrazia a base religiosa che sembrava così priva di scrupoli come quella l’aveva preceduta.  Khomeini è apparso come il capo supremo di questo tipo di regime brutale. […] È stato un errore di percezione, una forma estrema di  pio desiderio,  sottovalutare o non essere riusciti prima a comprendere le potenzialità negative della Rivoluzione Iraniana, quando ho visitato il paese alle fine del 1978, e di nuovo all’inizio del 1980  dopo la crisi degli ostaggi [statunitensi]? O è stato giusto dare voce alle potenzialità positive che sembravano apparire in modo così irrefutabile durante quei momenti di eccitazione e di unità collettive, come sono state anche espresse, dalla maggior parte delle persone con le quali ho parlato durante la visita in Iran del 1979 in varie città del paese?  Žižek e Badiou hanno ragione di separare così nettamente la visione rivoluzionaria dai suoi reali risultati umani penosi, o è un esempio incriminante della irresponsabilità del pensiero radicale che apprezza in modo infantile gli ideali rivoluzionari mentre ignora la saggezza conservatrice  del pensiero conservatore serio che ci avverte dei risultati diabolici  di ogni sforzo di abbandonare  improvvisamente le istituzioni già esistenti e le relazioni tra classi? La nostra specie è destinata a vedere sempre distrutti i suoi sogni di un futuro giusto e sostenibile a causa degli effetti deformanti di lotte a favore o contro nuove intese della autorità di governo e dei rapporti tra classi? In altre parole, siamo condannati a bandire i nostri sogni dal dominio della politica responsabile e limitare i nostri sforzi a iniziative riformatrici marginali? […] Žižek cerca di distinguere l’adeguatezza dell’entusiasmo e del desiderio, e la reale deformità degli eventi. Facendo questa valutazione, Žižek condivide il punto di vista del filosofo francese Alain Badiou, e del drammaturgo Samuel Beckett: ”Meglio fare un disastro per fedeltà all’evento che un non-essere di indifferenza verso l’evento. Si può continuare a migliorare nel fallimento, mentre l’indifferenza ci sommerge sempre più profondamente nel pantano dell’imbecillità”». Mi scuso con il lettore per l’ennesima lunga citazione.

Mi chiedo: è corretto porre la questione nei termini di una scelta tra «fedeltà all’evento» e «indifferenza verso l’evento»? Non si tratta piuttosto, per un soggetto che non vuole inseguire l’evento, che non vuole esserne alla coda, di capire innanzitutto la natura storica, politica e geopolitica dell’evento di cui si tratta? Non si può essere critici verso un evento senza peraltro sottovalutarlo né, ancor meno, ignorarlo solo perché non possiamo influenzarlo direttamente?

Nel 1978 avevo sedici anni, già l’anno prima avevo deciso di essere un “marxista rivoluzionario” e le manifestazioni oceaniche delle masse iraniane non potevano dunque essermi indifferenti. E difatti ne ero entusiasta, letteralmente (scrissi anche una specie di poesia intitolata Il pavone maledetto, dedicata ai giovani iraniani massacrati dall’esercito nelle strade di Teheran), benché non comprendessi nel loro autentico significato storico, sociale e geopolitico (vedi il legame del regime iraniano d’allora con gli Stati Uniti, Israele e il Sudafrica) quegli eventi e li seguissi dalla televisione. E anch’io rimasi sconcertato e deluso dalla bruttissima piega che la “rivoluzione iraniana” prese ben presto: anche esteticamente l’Ayatollah Khomeini urtava non poco la mia sensibilità “eurocentrica”!  Ma avevo pur sempre sedici anni! A un ragazzino neofita della “politica rivoluzionaria” si può senz’altro perdonare l’entusiasmo poco fondato sul piano dell’analisi politica e della prospettiva storica. Insomma, avevo l’età giusta per sbagliare.  Poi, col tempo, scoprii che personaggi molto più grandi di me, e che davano del tu (così almeno si diceva) al “marxismo” (vedi Foucault) si erano lasciati incantare dalla “rivoluzione iraniana” esattamente come dei ragazzini digiuni di teoria e di prassi. Intendo dire che un approccio autenticamente critico-radicale alla “rivoluzione iraniana” era allora possibile e avrebbe permesso al “marxista” occidentale di fondare in modo adeguato una posizione politica sul processo sociale iraniano di trentotto anni fa – Dio come passa il tempo! Quell’approccio, ad esempio, avrebbe permesso di individuare e denunciare il ruolo che ebbero il partito stalinista Tudeh e la piccola borghesia organizzata nei Fedayn nell’opera di sabotaggio delle rivendicazioni economico-sociali che provenivano dal proletariato e dalla massa dei contadini poveri, e che mal si accordavano con il fronte unito nazionale voluto dalle forze politiche laiche e religiose dell’Iran interessate unicamente a un cambio di regime politico-istituzionale.

Insomma, non si tratta affatto di gettare secchi di acqua fredda sull’entusiasmo “rivoluzionario” dei protagonisti e degli spettatori di un Evento, ma piuttosto di dotare quell’entusiasmo di un’adeguata capacità critico-analitica, per evitare che la sua cecità porti acqua al mulino del Dominio, così astuto e pronto quando si dà l’occasione di “mettere a valore” energie intellettuali, fisiche e psichiche che non riescono a bussare alla giusta porta.

«Foucault aveva individuato il potenziale utopico di quella rivoluzione, la politica non è mai un mero calcolo di interessi strategici, ma è l’affermazione di un “Evento rivoluzionario”. L’errore iniziale di valutazione Foucault l’ha riconosciuto. Il khomeinismo non era una politica dell’emancipazione. Ma il suo problema era un altro: come si fa a creare un territorio liberato che sfugge alla presa dell’ordine esistente?» (7). Problema quanto mai complesso, ostico, importante, almeno per chi si pone sul terreno della rivoluzione anticapitalista. Vero è che l’approccio storico-politico dell’intellettuale sloveno agli eventi (penso alla sua interpretazione dello stalinismo, alla sua adesione al maoismo, alla sua partecipazione alla cosiddetta “sinistra radicale” e così via) spesso non aiuta a orientare nella giusta direzione (anzi!) il pensiero che aspira all’autentica radicalità.

Concludo! Quando leggo di «avanguardie rivoluzionarie» (Cardini), di «ideologia radicalmente anticapitalistica» (Belardelli) e di «sinistra internazionalista» che sarebbe rimasta spiazzata dal radicalismo universalista dell’islam militante (Di Cesare) non posso fare a meno di sottoporre a critica ogni singola parola, ogni singolo concetto. È d’altra parte vero, dal mio punto di vista tragicamente vero, che il mondo continua a denunciare la vacanza della soggettività rivoluzionaria (delle classi dominate e sfruttate che si costituiscono in «partito rivoluzionario», per dirla con l’Ayatollah di Treviri), e questo però non ha nulla a che fare con la «ideologia radicalmente anticapitalistica» e con la «sinistra internazionalista» (Žižek? Varoufakis? Toni Negri?) evocate in questo articolo.

(1) «Mentre l’Occidente discetta di al-Qa’ida e Is, nell’attacco al ristorante di Dacca emergono le responsabilità di organizzazioni terroristiche locali. Il jihadismo bengalese ha una lunga storia e amicizie importanti in Arabia Saudita e Pakistan. Il marchio del califfato garantisce un ritorno mediatico senza precedenti – e forse un nuovo giro di finanziamenti» (F. Marino, Limes, 5/07/2016).
(2) F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, 1894, in Sulle origini del cristianesimo, p. 52, Editori Riuniti, 1975.
(3) Scriveva il “giovane” Marx: «Il fondamento della critica religiosa è: l’uomo fa la religione; e non la religione fa l’uomo. E veramente la religione è la coscienza e il sentimento che ha di se stesso l’uomo, il quale non è giunto ancora al dominio di se stesso o l’ha nuovamente perduto. Ma l’uomo non è niente di astratto, un essere rannicchiato fuori del mondo. Chi dice: “l’uomo”, dice il mondo dell’uomo, Stato, società. Questo Stato, questa società producono la religione, una capovolta coscienza del mondo, perché essa è un mondo capovolto» (K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, Introduzione, in La questione ebraica, p. 93, Newton, 1975). Di qui l’invito marxiano a non preoccuparsi tanto dei «fiori immaginari della catena», dell’«oppio» che almeno lenisce i dolori della «creatura oppressa», ma della catena stessa, del mondo capovolto (perché le condizioni oggettive dominano l’uomo, e non viceversa) fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, e dunque radicalmente e necessariamente disumani e disumanizzanti.
(4) F. Engels, Per la storia del cristianesimo primitivo, pp. 18-19.
(5) M. Rodinson, Islam e capitalismo, p. 79, Einaudi, 1968.
(6) Il crollo, nel 2013, della fabbrica di prodotti tessili di Dhaka portò per qualche giorno al centro dell’attenzione dei media mondiali le spaventose condizioni di vita e di lavoro dei nullatenenti del Bangladesh. «Millecentoventisette. Le ricerche si sono fermate qui, la contabilità si è arrestata a questo spaventoso numero di vittime, certificando la più grande tragedia industriale della storia del Bangladesh. Inutile proseguire, impossibile ripetere il miracolo del 14 maggio, quando una donna fu trovata viva sotto le macerie, diciassette giorni dopo il crollo dell’edificio Rana Plaza, il 24 aprile, a Savar, periferia di Dacca. Un immobile fatiscente di otto piani, di cui tre abusivi, in cui lavoravano migliaia di persone, in gran parte donne, impegnate nel fabbricare t-shirt, camicie, jeans, poi venduti sui mercati occidentali con il sigillo di marchi noti al grande pubblico. La storia del tessile in Bangladesh è costellata di incidenti mortali. Trentuno, in gran parte incendi, dall’inizio degli anni Novanta, con un bilancio di circa 1700 morti. All’origine, sempre gli stessi motivi: sicurezza carente, soprattutto in caso di evacuazione, sindacati deboli, proprietari onnipotenti, spesso legati alla politica. Trenta tra i più grandi titolari di fabbriche tessili siedono al Parlamento di Dacca» (Linkiesta). Dopo aver negato recisamente, la Benetton ammise la propria presenza nella fabbrica tessile crollata in Bangladesh. La “trasparenza” si vende bene. Comunicato Ansa: «Tweet del Papa alle persone coinvolte nel crollo: “Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia di Dhaka, che Dio conceda conforto e forza alle loro famiglie”». Amen!
(7) Slavoj Žižek.

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ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE

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Ho scritto la Lettera ad Alain Badiou su Mao e sulla Rivoluzione Culturale mesi fa; per una serie di circostanze non ho trovato il tempo, il modo e la voglia di pubblicarla. Me ne ero quasi dimenticato quando ieri mi sono imbattuto nella Risposta ad Alain Badiou scritta da Slavoj Žižek. Così oggi mi decido a postare la mia Lettera al filosofo francese, senza mutarne una virgola. Il lettore non si lasci ingannare dal titolo: si tratta di un format retorico strumentale all’esigenza di esporre nel modo più diretto e sintetico possibile la mia posizione su alcuni importanti eventi storici, la cui spinta propulsiva ideale come si vede è lungi dall’essersi esaurita. Insomma, da parte di chi scrive non si culla alcuna pretesa di poter interloquire da “pari a pari” con un intellettuale di fama e di prestigio internazionali. Premetto alla Lettera alcune considerazioni sulla Risposta di Žižek che in larga parte riprendono i temi esposti nella prima. Mi scuso quindi con il lettore per le ripetizioni.

1. Sulla Risposta di Žižek alla Lettera di Badiou. Scrive Žižek a Badiou alludendo agli esiti disastrosi dello stalinismo e del maoismo: «La nostra tesi dev’essere che solo la sinistra radicale è in grado di tracciare tutti i contorni di queste catastrofi». Chi scrive ha mosso politicamente i suoi primi passi sul terreno arato e fertilizzato dai vinti, ossia da quei comunisti che già negli anni Venti del secolo scorso incominciarono a denunciare la battuta d’arresto, ancora vivo Lenin, e poi l’involuzione fino alla piena e totale sconfitta del Grande Azzardo chiamato Rivoluzione d’Ottobre. Parlo di Bordiga, di Gorter, di Pannekoek, di Korsch, di Trotsky e di pochissimi altri ancora. Le loro lezioni della controrivoluzione, non sempre concordi tra loro su tutti gli aspetti della questione e naturalmente in una mia personale ricezione, hanno costituito il mio punto di partenza, la prospettiva dalla quale non solo ho iniziato a interpretare la storia del movimento operaio internazionale del passato e del presente, ma ho anche approcciato gli scritti marxiani. Un conto è leggere Marx dalla prospettiva stalinista (e maoista), un conto abissalmente diverso è leggerlo dal punto di vista antistalinista – ad esempio avendo appreso la differenza che passa tra Capitalismo di Stato (una volta Lenin parlò, a proposito dei Paesi capitalisticamente arretrati, di «Stato borghese senza borghesia») e Socialismo. Questo semplicemente per dire due cose: 1) anch’io ho, come si dice, un passato politico-ideologico che pesa sulle mie spalle come un macigno; 2) personalmente non ho mai avuto nulla a che fare, se non sul terreno della polemica e della critica, con la «sinistra radicale» di cui parla Žižek. Precisato questo, andiamo al merito.

«Sul piano della realtà sociale», scrive Žižek, «di certo c’è una parte di verità nel dire che la Rivoluzione Culturale fu scatenata da Mao con lo scopo di ristabilire il proprio pieno potere (seriamente intaccato all’inizio degli anni sessanta, quando, dopo il fallimento spettacolare del Grande Balzo in avanti, la maggioranza della nomenklatura in seno al Partito organizzò un putsch silenzioso contro di lui). È vero che la Rivoluzione Culturale generò sofferenze incommensurabili, che scavò profonde piaghe nel tessuto sociale e che la sua storia è anche quella di una folla che scandisce grandi slogan, in preda al fanatismo. Ma non si riduce a questo». La mia tesi è, invece, che essenzialmente la Rivoluzione Culturale «si riduce» a una lotta per il potere tra fazioni interne al Partito-Regime riconducibili a interessi diversi ma tutti interni alla prospettiva dello sviluppo capitalistico in Cina (ruolo dello Stato nella sfera economica, peso della grande industria e della campagna nel “decollo” del capitalismo cinese, politica salariale, politica assistenziale, apertura o chiusura nei confronti del mercato mondiale, ecc.) e alla sua proiezione nello scacchiere internazionale come moderna Potenza globale – la prima bomba atomica cinese data 1962.

Come in ogni periodo di grande scompiglio politico-sociale creato dalle lotte interne alla classe dominante, anche nel corso della cosiddetta Rivoluzione Culturale cinese almeno una parte delle classi subalterne approfittò del marasma politico per conquistare alcune posizioni in termini di rivendicazioni economiche e politiche, ma questo si realizzò contro le intenzioni di Mao e contro la massa fanatizzata dei giovani maoisti, i quali raccomandavano agli operai e ai contadini di non cadere nella “trappola borghese” del «rivendicazionismo economicista». «A Shangai il ruolo primario delle guardie rosse è stato quello di lottare per far ritornare al lavoro gli operai. La lotta degli operai mirava più a conservare le condizioni di lavoro già esistenti che non a ottenerne di migliori; miravano solo a contrastare gli intenti dei maoisti che volevano ridurre i salari e aumentare le ore lavorative» (1). La Rivoluzione Culturale ebbe un carattere fortemente antioperaio (mistificato appunto come contrasto al «Vento nefasto dell’economicismo controrivoluzionario»): su questo aspetto di quella cosiddetta Rivoluzione non si insisterà mai abbastanza. Scriveva Evelyn Anderson nel 1968: «Contrariamente alla volontà degli organizzatori della Rivoluzione Culturale, la rivolta dei lavoratori non ha per obiettivo il “revisionismo contro-rivoluzionario” né altre eresie antimaoiste, bensì quello di cambiare le dure condizioni di esistenza e di lavoro. Secondo le circostanze e gli obiettivi del giorno, le manifestazioni operaie hanno molteplici aspetti, ma dappertutto e in ogni momento possiedono un denominatore comune: avere per obiettivo immediato – e nella maggior parte esclusivo – il  soddisfacimento di rivendicazioni di ordine sociale ed economico. […] Certo, le loro rivendicazioni risentono inevitabilmente della fraseologia maoista [quella che tanto affascinava i devoti occidentali], ma si tratta di esigenze materiali avanzate in tono sempre più imperioso, ed al limite anche minaccioso: riduzione immediata degli orari, aumento della paga base, dei premi e delle prestazioni sociali, costruzione di alloggi; infine abolizione delle condizioni di impiego “penose” riservate a diverse categorie, in particolare alla moltitudine di lavoratori saltuari e a contratto limitato. […] La “Rivoluzione di Gennaio” [1967] di cui Shangai è teatro, segna il primo tentativo delle forze filo-maoiste di metter fine ai movimenti sindacalisti “borghesi” e alla  “mentalità corporativa” che li ispira. Questo è senza alcun dubbio, agli occhi dello stesso Mao, il significato più importante degli avvenimenti di Shangai, che vedono la sua Rivoluzione Culturale seriamente minacciata dal naufragio sugli scogli imprevisti dell’”economicismo”» (2).  La proclamazione, il 5 febbraio 1967, della Comune popolare di Shangai rappresentò il tentativo dei partigiani maoisti di riprendere il controllo della situazione sfuggita dalle mani di tutte le fazioni in lotta, scavalcate da agitazioni “economiciste” non previste, ovviamente non desiderate e strumentalizzabili fino a un certo punto. Lo scontro in seno al Partito-Regime, il disastro economico e il caos politico-istituzionale a Shangai e in altre città cinesi per i maoisti occidentali presero davvero  l’avvincente aspetto di una Grande Rivoluzione Culturale: «Fare come in Cina!» divenne il loro slogan preferito. Peccato che in Cina il compagno Mao si schierasse sempre e puntualmente contro gli «operai conservatori» in lotta per migliori condizioni di vita e di lavoro e per l’ottenimento di un sindacato autonomo dal regime; peccato che egli lanciasse contro le fabbriche in sciopero studenti fanatizzati armati di libretti rossi e militari armati di fucili rigorosamente “popolari”. Se qualcosa del caos cinese le avanguardie basate a Occidente avrebbero fatto bene a valorizzare agli occhi del proletariato occidentale, ebbene questo qualcosa va individuato nel movimento rivendicativo “economicista” degli operai e dei contadini che si sviluppò contro tutte le fazioni interne al Partito-Regime, a cominciare da quella che faceva capo al Grande Timoniere.

La rottura che si consumò fra Mosca e Pechino negli anni Sessanta si spiega benissimo con i forti contrasti economici e politici che esplosero già alla fine degli anni Cinquanta fra Russia e Cina, ma i maoisti nostrani vi vollero vedere una decisa sterzata a sinistra della Cina, impegnata, a loro dire, a costruire «il socialismo» su basi originali rispetto a quelle su cui si era eretto l’edificio stalinista (3). Il “movimentismo populista” di Mao, che si dispiegava interamente sul terreno della conservazione sociale, si sposava a meraviglia con il radicalismo piccolo- borghese di molte “avanguardie” occidentali deluse dallo stalinismo internazionale. Eppure sarebbe bastato un piccolissimo sforzo concettuale per mettere nella giusta prospettiva e nella corretta relazione le teorie elaborate da Mao e dai suoi collaboratori più stretti («fronte unito» anti USA-URSS, «blocco delle quattro classi», «rivoluzione per tappe», «Triplice alleanza», ecc.) con gli interessi – maturati sul terreno interno come su quello internazionale – del Capitalismo di Stato cinese. E ciò avrebbe anche consentito alle “avanguardie” occidentali di mettere nella giusta luce le importanti lotte sociali che si sviluppavano nel Paese di Mezzo sotto l’incalzare di condizioni materiali sempre più dure (l’accumulazione capitalistica non è un pranzo di gala!), di campagne ideologiche strumentali alla lotta di potere che dilaniava il Partito-Regime e di un imminente pericolo di guerra che veniva soprattutto dalla Russia. Sarebbe bastato insomma un minimo salariale di “materialismo storico”. Ma allora in molti giovani militanti prevalse il bisogno imperioso di credere, più che di capire. Un antico proverbio cinese recita: «Uno che sa è meglio di mille che non sanno». Si tratta di capire in che senso «è meglio», ossia per che cosa, in vista di quale obiettivo, per soddisfare quale bisogno.

Scriveva Simon Leys nel lontanissimo 1971: «La “Rivoluzione culturale”, che di rivoluzionario non ebbe che il nome e di culturale che il pretesto tattico iniziale, fu una lotta per il potere, condotta al vertice da un gruppetto d’individui e dietro la cortina fumogena d’un fittizio movimento di massa. […] In Occidente, alcuni commentatori insistono a rifarsi alla versione ufficiale dei fatti, e pertanto prendono, come punto di partenza delle loro analisi, il concetto di “rivoluzione della cultura” o anche di “rivoluzione della civiltà”. Di fronte a un tema così esaltante, ogni tentativo di ridurre il fenomeno alla dimensione bassa e triviale d’una “lotta per il potere”, suona in modo offensivo e persino diffamatorio, alle orecchie dei maoisti europei. I maoisti di Cina sono meno suscettibili: la definizione di “Rivoluzione culturale” come lotta per impadronirsi del potere (quanli douzheng) non è stata coniata dagli avversari del regime, ma è la definizione ufficiale proposta da Pechino e costantemente ripresa negli editoriali del Renmin ribao, Jiefang jun bao e Hong qi, fin dai primi del 1967, da quando cioè il movimento si era sufficientemente rinforzato per poter abbandonare  definitivamente il paravento culturale, dietro al quale aveva mosso i suoi primi passi. Che Mao Tse-tung avesse effettivamente perduto il potere, sembrò cosa difficile da ammettere, da parte degli osservatori europei. Ma fu proprio per recuperarlo, ch’egli scatenò questa lotta. È incredibile che si renda ancora necessario (a distanza di quattro anni dalla “Rivoluzione culturale”!) dover ricordare cose tanto evidenti» (4).

Naturalmente Žižek non è così stupido da negare l’evidenza: «Mao stesso [mise] a tacere l’agitazione (una volta raggiunto il suo scopo, cioè la ripresa del potere e l’eliminazione dei membri avversari dall’alta nomenklatura)»; ma vuole a tutti i costi vedere in quella furibonda lotta di potere interborghese (che, detto en passant, causò la morte di centinaia di migliaia di persone) un eccesso rivoluzionario, un resto di utopia, per così dire. «Ci fu la “Comune di Shangai”: un milione di operai che, semplicemente prendendo sul serio gli slogan, esigettero l’abolizione dello Stato e del Partito stesso, nonché l’organizzazione diretta della società per mano della Comune. È significativo notare che in quel preciso momento Mao ordina all’esercito di intervenire per ristabilire l’ordine. Il paradosso risiede nel fatto che un leader, cercando di esercitare un potere personale totale, scatena un sollevamento popolare incontrollato: è la sovrapposizione di una dittatura estrema a un’estrema emancipazione delle masse». Se uno vuole vedere per forza «un’estrema emancipazione delle masse» (che peraltro si sarebbe concretizzata contro Mao!) dove purtroppo non si verificò alcun tipo di «emancipazione delle masse» (confuse, in parte sobillate strumentalmente dalle molte fazioni in lotta, disilluse dopo anni di false promesse, insofferenti nei confronti dell’indottrinamento “comunista” e di uno sfruttamento crescente) non sarò certo io a poterlo convincere del contrario. Non ne avrei nemmeno le capacità né le “competenze specifiche”. Posso però fare un’altra citazione: «Verso la fine del 1965, quando Mao decreta la Rivoluzione Culturale, è perché conta di isolare – e poi abbattere – con questo strumento i suoi nemici all’interno del Partito, dell’esercito e della gerarchia ufficiale. Egli incita la popolazione, ed in particolare la gioventù, a prendere l’iniziativa nel contesto di un grande movimento destinato, in ultima analisi, a detronizzare gli anti-maoisti. Così facendo, Mao non ignora affatto che una purga camuffata da “lotta di classe” comporta maggiori pericoli che una purga effettuata da una polizia segreta, strettamente vincolata ai suoi comandi; così per lui, la Rivoluzione Culturale si presenta – almeno all’inizio – come un rischio accuratamente calcolato. Tuttavia sembra poco probabile che Mao abbia potuto immaginare ciò che l’esperienza di Shangai ha dimostrato con l’incontestabile evidenza dei fatti: cioè che in una situazione come quella della Cina, la prolungata esortazione alla ribellione generalizzata non può non scatenare, prima o poi, forme inopportune di rivolte spontanee, orientate verso quegli obiettivi “economicisti” che Mao vuole cancellare dalla mente degli uomini. È altrettanto poco probabile che Mao abbia calcolato l’intera pericolosità degli odii  che tali lotte di massa lasciano vivi (una volta cessate), e che dividono e contrappongono in campi ferocemente opposti, non solo i quadri del Partito, ma l’insieme della popolazione, trascinando il paese sull’orlo della guerra civile» (5). Questa mi sembra una ricostruzione e una lettura più corrispondenti alla realtà dei fatti; fatti che, a mio avviso, non autorizzano in alcun modo una chiave di lettura “emancipativa”, sempre al netto della fraseologia e delle illusioni che le masse cinesi allora poterono usare e cullare attingendo dalle ideologie che, per così dire, passava il convento, ma anche pescando nel passato, nel ricco repertorio della secolare lotta di classe in Cina. Il fatto che Mao accettasse di correre il rischio di provocare indesiderati “effetti collaterali” la dice lunga sulla magnitudo della posta in gioco, sul grado di divisione del Partito-Regime e sulla crisi sistemica che attanagliava da anni la Cina.

La Risposta dell’intellettuale sloveno al filosofo francese mi conferma nella convinzione che si possono dire tante cose intelligenti e “dialettiche” (ad esempio sul rapporto Sade-Kant, piuttosto che sulla corretta interpretazione lacaniana di quel rapporto, oppure sul funzionamento della democrazia nei Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta, o sul rapporto tra spontaneità delle masse e organizzazione politica rivoluzionaria) per sostenere un’interpretazione storica (nella fattispecie: dello stalinismo, del maoismo, della Rivoluzione Culturale) che personalmente trovo in assoluto contrasto con un pensiero che aspira a un’autentica radicalità concettuale e politica. Sotto questo aspetto è significativo il modo in cui Žižek cerca di “destrutturare” il film La vita degli altri (2006), di Florian Henckel von Donnesmarck, «celebrato e premiato con l’Oscar per aver fornito una riflessione sulla maniera in cui il terrorismo della Stasi penetrava in ogni singolo poro delle vite private nell’ex-DDR. È davvero così?». Alla fine per lui il tutto si riduce al fatto che gli «orrori del comunismo» (sic!) possono essere compresi nel loro giusto significato, nella loro abissale verità, solo dai “comunisti”, mentre gli “anticomunisti” (al cui albo appartengo orgogliosamente da sempre) sono capaci solo di grattarne la superficie. Dinanzi a cotanta profondità “comunista” io mi tengo cara la mia indigenza filosofica e politica.

Quanto è importante afferrare alla radice la natura storico-sociale di un grande Evento, per usare indegnamente il suggestivo linguaggio di Žižek, nello sforzo di comprendere ciò che accade nel presente? È la domanda che volentieri giro al lettore.

(1) C. Reeve, La tigre di carta. Saggio sullo sviluppo capitalistico in Cina dal 1949 al 1972, p. 127, Ed. La Fiaccola, 1974.
(2) Citazione tratta da Le Contrat Social, numero di aprile-settembre 1968.
(3) Occorre anche dire che contro Kruscev, accusato di essere diventato il più grande «revisionista» che la storia del movimento operaio mondiale avesse mai conosciuto,  Mao riabilitò Stalin.
(4) S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, pp. 18-19, Ed. Antistato, 1977.
(5) E. Anderson, Le Contrat Social.

cina-comunista2. Lettera ad Alain Badiou sulla natura nazionale-borghese dell’opera di Mao Tse-tung. Caro Badiou,

chi le scrive è un lettore di non pochi dei suoi numerosi saggi filosofici e politici, che a volte si è trovato a polemizzare sul modesto Blog (Il Nostromo) che gestisce tanto con la sua concezione “comunista” (noti le polemiche virgolette) quanto con quella elaborata dal suo amico e vecchio compagno di lotta politica e culturale Slavoj Žižek. Non desidero farle perdere tempo e perciò arrivo subito alle «procedure di verità», per citarla indegnamente.

Solo oggi, e quindi con imperdonabile ritardo, ho avuto il piacere di leggere la sua Lettera a Slavoj Žižek sull’opera di Mao Tse-Tung: uno scritto davvero interessante e a volte perfino spassoso, ad esempio là dove lei sembra rinfacciare a Žižek una sua certa predilezione per lo stalinismo che lo porterebbe, forse lui malgrado, a sottovalutare gravemente la portata del lascito maoista, ciò che della straordinaria lezione maoista rimane, a suo dire, ancora vitale e degno di essere testimoniato e, quando possibile, praticato. Ma forse si tratta di una mia personale interpretazione; forse traviso del tutto i termini della sua critica all’intellettuale sloveno. Poco importa, anche perché il punto che desidero discutere brevemente con lei è un altro.

Nella Lettera lei ricorda una celebre frase di Mao: «La gente si chiede dov’è da noi la borghesia. Io rispondo: è nel Partito comunista». Ebbene, anche a mio avviso il Grande Timoniere diceva il vero, ma, come vedrà, in un senso che certamente lei non può condividere, e che provo a sintetizzare come segue: il Partito Comunista Cinese con caratteristiche maoiste fu lo strumento 1) della rivoluzione nazionale-borghese in Cina e 2) del processo di accumulazione capitalistica in quel gigantesco Paese socialmente arretrato. Naturalmente queste due fondamentali funzioni storiche vanno considerate alla luce della collocazione geopolitica della Cina prima e dopo la proclamazione della Repubblica  Popolare (1949), e in relazione al rapporto del “comunismo” (rispuntano le virgolette!) cinese con l’Unione Sovietica di Stalin – e poi dei suoi eredi più o meno “revisionisti”. Per chiarirle il mio punto di vista sul “comunismo” di Mao è forse utile precisare la mia posizione sullo stalinismo, il quale, com’è noto, influenzò in modo decisivo, anche se non esclusivo, il maoismo (1).

Come cerco di argomentare in un mio studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare), lo stalinismo va considerato, al contempo e “dialetticamente”, per un verso come espressione/strumento della controrivoluzione, se visto dalla prospettiva della rivoluzione proletaria (internazionale, non solo russa); e, per altro verso, come espressione/strumento della rivoluzione se considerato dalla prospettiva dello sviluppo capitalistico nel grande spazio geosociale e geopolitico dell’”eterna” Grande Madre Russia – ribattezzata dai socialnazionalisti Patria Socialista. Per questo quando Žižek attribuisce, ad esempio ne Il soggetto scabroso (2) proprio allo stalinismo una forte radicalità rivoluzionaria non sbaglia affatto, salvo che per un “trascurabile” punto: quella radicalità venne messa interamente al servizio 1) dell’accumulazione capitalistica a tappe forzate della Russia di nuovo conio nominalistico (Repubblica Socialista), e 2) dell’ascesa della Russia come moderna potenza mondiale: due momenti di uno stesso processo storico-sociale. Per usare la categoria di Terrore tematizzato nel citato libro di Žižek, lo stalinismo fu l’espressione, al contempo e senza soluzione di continuità, di un Terrore controrivoluzionario (antiproletario, anticomunista) e di un Terrore rivoluzionario (in chiave di sviluppo capitalistico, di industrialismo, di modernizzazione).

A mio avviso l’incomprensione del processo sociale appena abbozzato (un processo rivoluzionario borghese che si dà, alle spalle dei suoi stessi protagonisti, come controrivoluzione proletaria; una negazione della prospettiva proletaria in Russia e nel mondo che si dà come affermazione di compiti borghesi mistificati in guisa di compiti “socialisti” e financo “comunisti”) costituisce probabilmente per le classi subalterne di tutto il mondo la tragedia più grande del Novecento; tale incomprensione ha reso possibile l’Evento che ha letteralmente devastato il movimento operaio internazionale a partire dalla fine degli anni Venti del secolo scorso, e le cui conseguenze si fanno ancora sentire. Naturalmente la datazione qui adottata ha un significato relativo, più che altro orientativo, perché come lei converrà il processo sociale non conosce puntuali soluzioni di continuità, cesure chirurgiche fra un “prima” e un “dopo”, e ciò vale tanto più quando approcciamo fenomeni complessi quale indubbiamente fu quello che rubrichiamo, più che altro per ragioni di sintesi, sotto il nome di un singolo individuo: Stalin, appunto.

Ecco, mutatis mutandis, che poi non è poco (a iniziare dal fatto che il maoismo si affermò in Cina come espressione politico-ideologica di una rivoluzione che non andò mai oltre i limiti di una rivoluzione borghese a base sociale contadina), l’esperienza che porta il nome di Mao va inquadrata nello schema concettuale appena considerato.  Più che «profetica», come scrive lei in riferimento alle “famigerate” riforme di Deng Xiaoping (3), la frase maoista sulla borghesia interna al PCC mi appare dunque non solo realistica ma soprattutto programmatica, appena la si consideri depurata del consueto involucro ideologico pseudo marxista e prescindendo da quale fosse l’intenzione cosciente del suo autore, il quale in ottima fede credeva di lavorare per il “comunismo”. Ma, occorre ancora precisarlo, per quella concezione di “comunismo” che prevalse nella Terza Internazionale con lo stalinismo, il quale, ad esempio, propugnava un “socialismo” che non si discostava di un solo millimetro dal Capitalismo di Stato («più la dittatura del proletariato», cioè del Partito-Regime), nonostante i teorici più in vista del bolscevismo post leniniano (a partire da Bucharin) ce la mettessero tutta per dimostrare, in primo luogo a se stessi, il contrario: di qui, ad esempio, le bizzarre tesi circa una fantomatica «accumulazione originaria del socialismo». Il «socialismo reale» impiantato da Mao in Cina a mio avviso si spiega inoltre, com’è ovvio e come ho già accennato sopra, con le condizioni sociali del Paese di Mezzo, con il suo lunghissimo retaggio storico (e qui lo studio delle antiche comunità contadine può dare un notevole contributo alla comprensione del fenomeno “maoismo”, almeno nella sua fase di lenta genesi), con i suoi rapporti con il Giappone e la Russia, in particolare, e con l’insieme della costellazione imperialistica mondiale, in generale.

Sul carattere nazionale-borghese della rivoluzione cinese e sull’autentico significato della cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (altro che «forma finalmente trovata della dittatura del proletariato»! altro che «circolazione di idee, di parole d’ordine, di forme di organizzazione, di schemi teorici di cui noi, oggi, non abbiamo ancora esaurito la forza»!)  la rinvio ai miei appunti di studio Tutto sotto il cielo – del Capitalismo. Certo, sulla scorta di quanto ho già scritto lei potrebbe sempre obiettarmi che, alla maniera dei trotzkisti (sempre secondo la vulgata stalinista), sottovaluto l’importanza della classe contadina «in nome del feticismo operaista», una critica che farebbe sorridere i pochi che conoscono la mia posizione sul «feticismo operaista».

Qualche mese fa un lettere di un mio post sulla Cuba castrista mi scriveva: «Nazionalizzazione e riforma agraria non sono misure socialiste?». La mia risposta a quel lettore può forse chiarirle ulteriormente il mio punto di vista sullo stalinismo e sul maoismo, due aspetti della storia del “comunismo novecentesco” che, a quanto pare, intrigano molto entrambi, quantunque da prospettive politiche del tutto diverse (forse addirittura opposte). Mi scuso in anticipo per la non breve autocitazione.

In linea generale l’abolizione della rendita fondiaria e il superamento di tutti i rapporti agrari precapitalistici che impediscono, o solamente rallentano, l’accumulazione capitalistica rientrano classicamente nello schema della rivoluzione borghese. La riforma agraria può benissimo prendere la forma della la nazionalizzazione della terra senza esorbitare di un solo millimetro dalla dimensione capitalistica. Tutt’altro! Alla radicalità della riforma agraria corrisponde un’ascesa capitalistica più rapida e impetuosa, ed è esattamente quello che non è avvenuto ad esempio in Italia, in grazia alla nota alleanza fra capitale industriale del Nord e proprietà terriera del Sud, con le implicazioni sociali e politiche che conosciamo e il cui retaggio ancora in qualche modo avvertiamo.

Com’è noto Lenin manifestò un grande interesse e una grande simpatia per il populismo cinese e per l’insieme del movimento democratico cinese in generale, il quale ebbe come suo leader riconosciuto Sun Yat-sen. Questo però non gli impedì di criticarne l’ideologia impregnata di socialismo piccolo-borghese, di fare luce sui «sogni socialisti», sulla «speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo». L’analogia con il populismo russo è evidente. Commentando il Programma rivoluzionario-borghese di Sun Yat-sen Lenin tenne particolarmente a precisare, e non certo per un prurito dottrinario, che la riforma agraria sostenuta in quel Programma era certamente storicamente rivoluzionaria, ma non perché debordasse dai compiti borghesi quanto, al contrario, perché essa rispondeva nel modo più radicale alla necessità storicamente data in Cina di distruggere i rapporti sociali feudali. «Questa è la sostanza del “populismo” di Sun Yat-sen, del suo programma progressivo, combattivo, rivoluzionario, che propugna riforme agrarie democratiche borghesi, e della sua teoria cosiddetta socialista. Questa teoria, dal punto di vista della dottrina, è la teoria di un “socialista”-reazionario piccolo-borghese. […] E Sun Yat-sen, con una semplicità inimitabile, vorrei dire verginale, distrugge egli stesso completamente la propria teoria populista reazionaria, riconoscendo ciò che la vita costringe a riconoscere, e precisamente: “La Cina è alla vigilia di un gigantesco sviluppo industriale” (cioè capitalistico); in Cina “il commercio” (cioè il capitalismo) “raggiungerà proporzioni enormi”, “fra cinquant’anni vi saranno da noi molte Sciangai” e cioè molti centri con milioni di abitanti, di ricchezza capitalistica e di indigenza e miseria proletaria» (Lenin, Democrazia e populismo in Cina, 1912, Opere, XVIII, pp. 155-156). Quando il rivoluzionario radicale borghese si mette in testa di poter percorrere una via originale al socialismo (o, più correttamente, a ciò che egli pensa sia il “socialismo”), ecco che egli appare, agli occhi Lenin, un reazionario piccolo-borghese da combattere sul piano politico-dottrinario perché le sue idee possono far breccia anche nel proletariato e sicuramente fra i contadini poveri. «E questo è il bello: la dialettica dei rapporti sociali della Cina consiste appunto nel fatto che i democratici cinesi, simpatizzando sinceramente col socialismo in Europa, lo hanno trasformato in una teoria reazionaria, e sulla base di questa teoria reazionaria che vuole “prevenire” il capitalismo, attuano un programma agrario puramente capitalistico, capitalistico al massimo grado». Adesso viene la parte che tocca il problema della nazionalizzazione: «In sostanza, a che cosa conduce la “rivoluzione economica” di cui parla Sun Yat-sen? Al passaggio della rendita fondiaria allo Stato, cioè alla nazionalizzazione della terra. […] Fare in modo che l’”aumento del valore” della terra sia “proprietà del popolo” significa trasmettere la rendita, cioè la proprietà della terra, allo Stato, o in altre parole: nazionalizzare la terra». È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto. Marx lo rilevò nella Miseria della filosofia, lo dimostrò particolareggiatamente nel III volume del Capitale e sviluppò questa tesi in modo particolarmente chiaro nella polemica con Rodbertus nelle Teorie del plusvalore». E poi Lenin continua illustrando la natura altamente capitalistica della nazionalizzazione della terra.

Ebbene, mutatis mutandis, credo che la posizione di Lenin sul socialismo reazionario possa aiutarci a fare luce sullo stalinismo, sul maoismo, sul castrismo e su tutti i movimenti borghesi che si sono autoproclamati socialisti o, addirittura, comunisti, senza peraltro tralasciare di esaltare la propria caratteristica nazionale: ancora oggi si parla del «socialismo con caratteristiche cinesi»!

Fine della citazione. Anche per quanto riguarda il rapporto tra l’Unione Sovietica e la Cina maoista mi permetto di esporle il mio punto di vista. Dal febbraio 1950 in poi la Cina fu costretta a rivolgersi al “Paese fratello” per ottenere il capitale fisso e le conoscenze tecniche e scientifiche di cui difettava e che le erano assolutamente necessarie per avviare il processo capitalistico di trasformazione della campagna e delle città – «accumulazione capitalistica originaria», per usare la terminologia marxiana, «accumulazione socialista originaria» secondo la già ricordata ideologia stalinista poi ripresa dai “comunisti” cinesi. Ciò appariva tanto più necessario alla luce del lungo ciclo della guerra civile/nazionale che aveva sconvolto il già debole e arretrato tessuto sociale cinese. Al PCC apparve meno rischioso, dal punto di vista della strategia politico-economica di lungo respiro, rivolgersi all’Unione Sovietica piuttosto che agli Stati Uniti, ossia all’Imperialismo egemone nell’area del Sud-Est asiatico dopo la capitolazione del Giappone. Un numero davvero considerevole di industrie vennero impiantate direttamente dai russi, che insieme al capitale fisso portarono una forza-lavoro qualificata. Nei dieci anni seguenti al 1950 oltre 10 mila tecnici russi avranno di fatto la direzione dell’industria pesante cinese.

Col tempo la natura imperialistica dell’«aiuto fraterno» russo si andrà precisando, fino a provocare la rottura fra i due Paesi nel luglio 1960. Ma già da subito nel PCC presero corpo le due linee di politica economica che avranno modo di scontrarsi duramente nel corso degli anni, generando enormi disastri economico-sociali (puntualmente reclamizzati dal regime sotto suggestive insegne, del tipo: Cento Fiori, Grande Balzo in Avanti, Grande Rivoluzione Culturale Proletaria), con relativo cospicuo versamento di sangue operaio e contadino. Com’è noto, l’«accumulazione capitalistica originaria» non è un pranzo di gala! Mao incarnò la fazione autarchica del capitalismo di Stato cinese, quella più ostile all’integrazione del Paese nel Capitalismo internazionale, e quindi ostile pure a un’alleanza strategica con il Capitalismo Russo.

Questa «linea rossa» postulava misure particolarmente pesanti di sfruttamento dei contadini e degli operai, questi ultimi sempre tenuti in pessima considerazione da Mao a causa del loro «scarso senso di responsabilità» nei confronti della «Patria Socialista», ossia dell’ancora arretrata economia capitalistica, la quale esigeva bassissimi salari, un tenore di vita di mera sussistenza e una produttività almeno consona alle ambizioni di potenza della Nuova Cina. Agli operai era chiesto di abbandonare il vecchio «spirito piccolo-borghese e corporativo», e di «servire il popolo», ossia la Nazione impegnata in un colossale sforzo di transizione sociale in direzione del moderno Capitalismo. «Per l’operaio, la coscienza “socialista” è così ridotta all’accettazione del proprio sfruttamento, che è evidentemente una necessità per il successo dell’accumulazione di capitale; ma è una mistificazione politica identificare quest’ultima come il socialismo o il comunismo» (Charles Reeve, La tigre di carta, 1974). Non c’è dubbio. Naturalmente parlo per me, non per lei.

L’opzione a favore dell’industria pesante, secondo il modello staliniano, generò una serie di ripercussioni fortemente negative a livello della produzione dei beni di consumo e dello sviluppo agricolo, e ciò nel momento in cui la demografia, un fattore decisivo nella storia cinese, attestava un’inaspettata accelerazione verso l’alto, rendendo in prospettiva esplosiva la situazione del mercato del lavoro. Secondo Jean Deleyne (L’economia cinese, 1971), alla fine degli anni Cinquanta entravano sul mercato del lavoro dieci milioni di cinesi, mentre la capacità industriale del Paese consentiva l’assorbimento di soli 500 mila. I contadini, che peraltro erano stati la base sociale fondamentale della rivoluzione nazionale-borghese che portò il PCC al potere, reagirono al supersfruttamento (il surplus agricolo avrebbe dovuto sostenere l’accumulazione nell’industria pesante) e al decadimento delle loro già difficili condizioni di esistenza con sommosse e diminuendo la produttività del loro lavoro. Questa reazione compresse anche l’approvvigionamento alle città di beni alimentari, creando nel proletariato industriale nuove ragioni di malumore e di rivendicazioni salariali. Come sempre, Mao denunciò le «tendenze borghesi» in seno alla classe operaia. Tutto questo marasma, che ho cercato di descriverle a grandi linee, ebbe come risultato di prima grandezza anche la rottura della Cina con l’Unione Sovietica, che aveva cercato di inserirla organicamente nella propria sfera di influenza, e il rafforzamento della linea maoista  (che propugnava un più graduale, “armonico” e “originale” sviluppo economico) in seno al Partito-Stato.

L’incontro Mao-Nixon che ebbe luogo nel febbraio del 1972, peraltro in una fase particolarmente sanguinosa della guerra in Vietnam, la dice lunga sulla spregiudicatezza politica del leader cinese e sui difficili, per usare un eufemismo, rapporti tra i due Paesi “comunisti”. Naturalmente se si rimane alla superficie della schiuma ideologica; se si rimane invischiati nella guerra ideologica fra maoismo e “revisionismo sovietico” non è possibile afferrare la reale posta in gioco della contesa.

Come può capire, mi risulta alquanto difficile, diciamo così, concordare con il suo giudizio su Mao come «ultimo grande rivoluzionario marxista della storia mondiale». Né ultimo, né grande, né medio, né piccolo: la radicalità rivoluzionaria di Mao (il Terrore maoista di cui parla in termini più che elogiativi, forse financo apologetici, lo stesso Žižek nel saggio Sulla pratica e sulla contraddizione) (4) fu, infatti, interamente messa al servizio della Cina come moderna, grande (anche a spese di altre nazionalità ed etnie) e indipendente Nazione – e qui occorre ancora una volta ricordare l’aspra lotta che il regime maoista ingaggiò contro le due Super Potenze del tempo. Sotto questo aspetto si può senz’altro parlare del maoismo nei termini di uno stalinismo con caratteristiche cinesi. Né posso applaudire quando lei mette nello stesso sacco “rivoluzionario” «figure come Robespierre, Saint-Just, Babeuf, Blanqui, Bakunin, Marx, Engels, Lenin, Trotzkij, Rosa Luxemburg, Stalin, Mao Tse-tung, Zhou Enlai, Tito, Enver Hoxha, Guevara, Castro e qualche altro (penso in particolare a Aristide)». Mi auguro che ciononostante lei non mi associ «al contesto di criminalizzazione e di aneddoti spettacolari in cui, da sempre, la reazione tenta di chiudere e annullare queste figure». Anche perché attribuisco un peso abbastanza relativo alla «funzione della personalità nella storia»: sono più interessato a capire i processi sociali (psicologia di massa compresa, eccome!) che stanno alla base degli eventi storici che usiamo rubricare con i nomi di Tizio o di Caio: stalinismo, maoismo, castrismo, e via di seguito. Poi naturalmente faccia come crede: me ne farò una ragione. Certo è, che «l’emancipazione egalitaria» di cui lei parla si amalgama assai poco con l’idea di emancipazione universale che ha in testa chi le scrive sulla scorta della critica marxiana dei rapporti sociali capitalistici (certo, nella sua personale ricezione) e del giudizio che ha maturato sullo stalinismo e sul maoismo.

Caro Badiou, bisogna por fine in qualche modo a questa interminabile lettera, mi rendo conto. E allora concludo osservando che più che di un «comunismo sepolcrale», come dice ironicamente lei riferendosi alla vostra (sua e di Žižek) «ipotesi» o «idea comunista», io parlerei piuttosto di una concezione certamente sepolcrale ma che definire “comunista” mi riesce francamente impossibile. Dicendo questo so di non sconvolgerla neanche un po’, né il mio intento era quello di graffiare con le mie deboli e spuntate unghie la sua granitica posizione. D’altra parte, da Stalin in poi quell’aggettivo è stato così abusato, violentato, tradito e svuotato di contenuti autenticamente rivoluzionari che personalmente preferisco farne a meno, se non altro per non finire anch’io dentro imbarazzanti sacchi e sepolcri. Né posso e voglio attribuire o ritirare patenti ideologiche di sorta a chicchessia. E allora mi scuso per le provocatorie virgolette apposte al suo e all’altrui Comunismo e la saluto cordialmente.

Print(1) Tanto per fare un solo esempio, non fu certo un caso se l’astro maoista iniziasse a salire nella costellazione del “movimento operaio internazionale” con caratteristiche staliniste solo dopo la bruciante sconfitta subita nel biennio 1926-1927 dal giovane e ancor debole proletariato cinese a Shangai e negli altri pochi centri industriali della Cina del tempo. Siccome non esistono capi politici buoni per tutte le stagioni, solo dopo il disastro del 1927, auspice anche la politica collaborazionista del Comintern nei confronti del Kuomintang, in Cina si aprì la stagione propizia per Mao.

Per un’approfondita conoscenza della genesi del pensiero politico e filosofico di Mao segnalo l’interessante studio di Paolo Selmi (Il substrato confuciano e tradizionale del “marxismo” di Mao Zedong, Università degli Studi di Napoli L’Orientale, 2011), dal quale cito i passi che seguono:

«Il Pensiero di Mao Zedong è il marxismo-leninismo, che lui conobbe nella variante staliniana, fuso con la filosofia politica confuciana tradizionale, in particolare col pensiero di Mencio focalizzato sulla bontà della natura umana e sulla necessità di lavorare continuamente sulle persone perché seguissero la loro naturale inclinazione. […] Si tenga conto inoltre del fatto che Mao, dopo tale infarinatura di seconda mano ricevuta dai testi anarchici letti in gioventù, lesse testi che citavano i classici del marxismo nell’unica forma all’epoca reperibile in cinese: la versione sovietica (staliniana) del materialismo dialettico. Mao aveva una logica ben precisa, e nel seguito di questo studio saranno sviluppati gli elementi di questo pensiero tradizionale che in Mao tornava a nuova vita. […] Un’arte della guerra antica applicata al fucile mitragliatore, figlia di una concezione dove taoisticamente l’elemento liquido prevale sul solido e diviene metafora della vittoria dell’apparentemente debole sull’apparentemente forte; la necessità di una piena rieducazione dell’esercito prima, e delle masse poi, che di neoconfuciano non ha soltanto il sapore, ma la logica e il metodo, rappresentano soltanto alcuni esempi. In questo modo di ragionare analogico e non strettamente causale, ricombinando elementi vecchi e nuovi in funzione di obbiettivi vitali e concreti, sta la grandezza del pensiero di Mao e dei mentori a cui si ispirò. Quanto affermato ci porta a un’ulteriore conclusione che, per quanto possa risultare scomoda, costituisce però il naturale sviluppo del ragionamento finora svolto: il marxismo-leninismo-pensiero di Mao Zedong non è il marxismo arricchito di un nuovo sviluppo. Tale pensiero è una struttura ideologica che, pur impiegando un lessico tratto dal bagaglio terminologico del pensiero di Marx, Engels e Lenin, di fatto lo riformula sin da subito negli anni Venti e Trenta in maniera del tutto diversa, collocando i vari tasselli su architravi che non sono disposte alla stessa maniera delle originali, ma che bensì rispettano distanze e composizioni antiche.  […] Nel pensiero di Mao, tali concetti divenivano veicoli di un “marxismo” potenzialmente libero di muoversi lungo qualsiasi direzione, recuperando e assumendo in sé schemi tradizionali e modelli di pensiero consolidati, al fine di condurre la trasformazione sociale lungo la strada desiderata. Visto in prospettiva, questo meccanismo costituì uno dei “contributi” maggiori del maoismo al “socialismo con caratteristiche cinesi”: la sua estrema duttilità nel maneggiare concetti e manipolarne strumentalmente ordine e significato in un ordine diverso dall’originale, sarebbe stata ripresa dopo la sua morte da ogni gruppo dirigente il partito, fino alla generazione attuale: come già sottolineato, ciascuno di loro  “avrebbe arricchito” il marxismo di nuovi elementi, riducendo il pensiero originario a un mero discorso formale».

In effetti, per capire il Mao-pensiero non occorre studiare le opere di Marx (né quelle di Hegel, almeno sulla scorta della critica marxiana), mentre è indispensabile studiare la millenaria e densissima storia della società cinese, per un verso, e il “materialismo dialettico” (Dialektičeskij Materializm, ovvero Diamat) canonizzato dalla scuola sovietica, per altro verso.

(2) «Anche per quanto riguarda l’effettiva trasformazione sociale, o “taglio nella sostanza del corpo sociale”, la vera rivoluzione non fu quella di ottobre, ma la collettivizzazione degli ultimi anni Venti. La rivoluzione di ottobre lasciò la sostanza del corpo sociale intatta; da questo punto di vista, essa fu simile alla rivoluzione fascista, la quale impose soltanto una nuova forma di potere esecutivo sulla rete preesistente di relazioni sociali, proprio per mantenere questa rete di relazioni sociali … Fu soltanto la collettivizzazione forzata degli ultimi anni Venti a sovvertire e smembrare completamente la “sostanza sociale” (la rete di relazioni che era stata ereditata dal passato), perturbando e intaccando profondamente i tessuti sociali elementari» (S. Žižek, Il soggetto scabroso, p. 243, Raffaello Cortina ed., 2003).

(3) Nel ‘78 una Cina sull’orlo del disastro sistemico (politico, economico, sociale, nazionale) avviò una rapida transizione verso un Capitalismo sempre più aperto alla concorrenza internazionale e alla gestione delle azienda da parte dei capitalisti privati, cinesi e di altri Paesi. La transizione si dipanò tutta nel segno della continuità capitalistica e, cosa da valutare con grande attenzione, della continuità nazionale, ossia nel segno della Cina come moderna Potenza di rango mondiale, prima in fieri e poi in forma dispiegata. L’unità nazionale cinese non è mai stata garantita una volta per sempre. Sotto questo aspetto, Mao Tse-tung ha lavorato bene in circostanze, interne e internazionali, davvero eccezionali. Una medaglia appesa al petto della Nazione (leggi: del Capitale) cinese, non certo a quello del proletariato – cinese e internazionale. Oggi il Paese di Mezzo si confronta con un’altra difficile sfida: passare dallo sviluppo capitalistico quantitativo, diciamo così, a quello più qualitativo; da un’epoca di eccezionalità capitalistica, segnata da stratosferici tassi di crescita (e da un super sfruttamento degli uomini e della natura: vedi catastrofi ecologiche), a una «nuova normalità».

(4) Mi riesce davvero difficile capire come un intellettuale così sofisticato e intelligente come Žižek possa credere che sia minimamente credibile il tentativo di mobilitare la migliore filosofia occidentale per accreditare di un qualche valore filosofico-politico la concezione del mondo che informa gli scritti di Mao sulla pratica e sulla contraddizione. Eppure, sembra che l’operazione dell’intellettuale sloveno riesca perfettamente in certi ambienti dell’ultrasinistra europea e nei mitici “salotti radical-chic” dell’intellighentia occidentale: buon per lui!

UN CONTRIBUTO ALLA CRITICA DI SLAVOJ ŽIŽEK COME POLITICO “RADICALE”

cappella-sistina-giudizio-universale-dettaglio-angeli-tubiciniPiccola premessa: come sempre polemizzo con una posizione (politica, filosofica e quant’altro) soprattutto per cercare di elaborare e “socializzare” meglio la mia posizione, e non certo per dare addosso a qualcuno che, il più delle volte (come nel caso di specie), vive per così dire su un altro pianeta rispetto a chi scrive. Veniamo al merito!

«Il filosofo italiano Giorgio Agamben ha detto in un’intervista che “il pensiero è il coraggio della disperazione” – un’intuizione pertinente in modo particolare al nostro momento storico, quando di solito anche la diagnosi più pessimista tende a finire con un cenno ottimista a qualche versione della proverbiale luce alla fine del tunnel. Il vero coraggio non sta nell’immaginare un’alternativa, ma nell’accettare le conseguenze del fatto che un’alternativa chiaramente discernibile non c’è: il sogno di un’alternativa indica codardia teorica, funziona come un feticcio, che ci evita di pensare fino in fondo l’impasse delle nostre situazioni di difficoltà. In breve, il vero coraggio consiste nell’ammettere che la luce alla fine del tunnel è molto probabilmente il faro di un altro treno che ci si avvicina dalla direzione opposta. Del bisogno di un tale coraggio non c’è migliore esempio della Grecia, oggi». Così scrive Slavoj Žižek commentando le vicende greche post referendarie. Potrei sottoscrivere ogni parola dei passi citati, se essi non rimandassero a una concezione politica e sociale del conflitto interamente prigioniera del dominio sociale capitalistico. Questo, come sempre quando ci si occupa della cosiddetta sinistra radicale, al netto di una fraseologia che può ingannare chi non fosse avvezzo a ragionare in termini autenticamente anticapitalistici, cosa che, all’avviso di chi scrive, implica l’estraneità più assoluta nei confronti della tradizione “marxista-leninista” (leggi: stalinista, maoista, guevagista, ecc.) che informa la sinistra radicale cui Žižek fa riferimento.

Questa sinistra oggi si trova divisa in due correnti principali: la corrente alter-europeista («Un’altra Europa è possibile») e quella sovranista: il recupero della dimensione nazionale come leva tattica [sic!] per scardinare la globalizzazione neoliberista, e per questa via lavorare per soluzioni politico-sociali «più avanzate»: «esiste una tradizione marxista, in effetti antica, che ha indicato che le lotte per la trasformazione della società possono essere combattute solo nel quadro di uno Stato sovrano» (Jacques Sapir).

Secondo Sapir, che sostiene la rottura con l’europeismo d’ogni colore politico, «per la sinistra radicale l’ora della scelta è arrivata; deve porsi in rottura, o condannarsi a perire». Un aut-aut che non mi riguarda. Forse perché sono politicamente già morto? Può darsi. In ogni caso il mio cadavere non condividerebbe lo scenario politico-ideologico calcato dall’intellettuale francese. E a me, vivo o morto che sia, questa idea mi piace e mi rincuora.

Le due opzioni appena considerate insistono, non saprei dire con quanto realismo, sul terreno dello status quo sociale. L’intellettuale sloveno che oggi rivendica «il coraggio della disperazione» milita nella scuola di pensiero alter-europeista, come si evince dai passi che seguono: «A un livello più profondo, però, non si può evitare il sospetto che il vero obiettivo [dell’UE e della Troika] non sia quello di dare una possibilità alla Grecia, ma di trasformarla in un semi-stato economicamente colonizzato, mantenuto in condizioni permanenti di povertà e dipendenza come avvertimento per gli altri. Ma a un livello ancora più profondo, troviamo di nuovo un fallimento — non della Grecia, ma dell’Europa stessa, dell’anima emancipatrice dell’eredità europea». Come ho scritto altre volte, evocare l’«anima emancipatrice dell’eredità europea» a partire dalla Società-Mondo del XXI secolo, nell’epoca del dominio capitalistico totalitario del pianeta mi sembra quantomeno anacronistico, diciamo. Certo è che, a differenza del celebre intellettuale, chi scrive non si sognerebbe mai di piagnucolare sulla democrazia (borghese!) tradita (al tavolo delle trattative tra il governo greco e i “poteri forti” del neoliberismo europeo e mondiale e nelle urne referendarie) e di perorare la causa di «un aumento della trasparenza democratica dei nostri meccanismi di potere». L’inganno democratico veicolato dal feticcio della «vera democrazia» (“dal basso”? “partecipata”? “trasparente”? “referendaria”?) lo lascio volentieri ai sostenitori del Capitalismo dal volto umano – o quantomeno umanamente più sostenibile: chi troppo vuole…

L’analisi offerta da Žižek della questione greca, che, forse non è ozioso ripeterlo, è parte organica della questione europea (con al centro l’”eterna” Questione Tedesca), è naturalmente informata da quel tipo di lettura ideologica (falsa, capovolta, concentrata più sul cattivo sogno degli «eurocrati» che sugli interessi capitalistici in gioco su scala nazionale, continentale e globale) della guerra sistemica oggi in corso nel Vecchio Continente nel contesto della più generale guerra sistemica che coinvolge l’intero pianeta e la cui posta in gioco è sempre la stessa: il potere globale (economico, militare, scientifico, ideologico) sul mondo. Bisogna certamente denunciare l’esercizio del potere politico nazionale e sovranazionale come si dà oggi («I nostri apparati di stato democraticamente eletti sono sempre più duplicati – di fatto sostituiti – da una spessa rete di “accordi” e di organismi “esperti” non eletti che detengono il reale potere economico – e militare»); ma non certo per gonfiare a nostra volta balle speculative intorno alla possibilità di «una vera democrazia», e così partecipare “dal basso” – o “da sinistra” – all’opera di mistificazione ideologica del potere sociale capitalistico. Ovviamente Žižek non può comprendere i termini di questo discorso, e non per mancanza di intelligenza, che ovviamente in lui abbonda fino a straripare, ma piuttosto per mancanza di autentica radicalità di pensiero critico, per il suo essere organicamente collocato in una dimensione (in una prospettiva) politico-concettuale borghese; è a partire da questa collocazione che egli costruisce i suoi concetti di “rivoluzione”, “reazione”, “lotta di classe” e così via. Ad esempio, per lui Syriza è quanto di più rivoluzionario oggi possa offrire il mercato politico europeo («L’eroismo di Syriza è stato che, dopo aver vinto la battaglia politica democratica, ha rischiato un passo ulteriore nell’andare a perturbare il fluido corso del Capitale»: nientemeno!), così come il No del referendum greco del 5 luglio è stato l’atto più sovversivo concepibile ai nostri cattivi tempi, un «grande atto etico-politico, un autentico gesto di libertà e di autonomia». Io ho rubricato quel referendum come classica scelta dell’albero a cui impiccarsi, almeno dal punto di vista delle classi subalterne, mentre dal punto di vista del «popolo greco» (ossia dalla prospettiva della continuità del dominio sociale in quel Paese capitalisticamente disastrato) sono possibili diverse interpretazioni, come quelle offerte ad esempio da Tsipras, da Varoufakis e dallo stesso Žižek.

A riprova della natura ultrareazionaria della concezione politica dello sloveno cito quanto segue: «Syriza dovrebbe flirtare senza vergogna con la Russia e con la Cina, giocando con l’idea di concedere un’isola alla Russia come base militare nel Mediterraneo, solo per provocare la strizza (scare the shit out) degli strateghi NATO. Per parafrasare Dostoevskij, ora che Dio-UE ha fallito, ogni cosa è permessa». Ogni cosa è permessa, scrive Žižek; salvo, a quanto pare, conquistare un punto di vista autenticamente rivoluzionario, anticapitalista e antimperialista “a 360 gradi”. «C’è poi riprovazione per il fatto che la Grecia cerchi l’aiuto di Russia e Cina – come se non fosse la stessa Europa a spingere la Grecia in quella direzione con la sua pressione umiliante». Egli si muove insomma dentro la logica della lotta politica interna agli interessi capitalistici, sul piano nazionale («L’auto-organizzazione di base non può rimpiazzare lo Stato, e la questione è come riorganizzare l’apparato dello Stato per farlo funzionare diversamente») come su quello internazionale.

Peraltro la posizione di Žižek sulla sponda “tattica” russo-cinese mi sembra un po’ in contraddizione con quanto da egli stesso affermato qualche mese fa in una intervista rilasciata alla rivista tedesca Der Spiegel: «Io sono convinto che abbiamo bisogno più che mai di Europa. Immaginate un mondo senza Europa: rimarrebbero due poli. Da un lato, gli Stati Uniti con il loro neoliberismo selvaggio; dall’altro, il cosiddetto capitalismo asiatico con le sue strutture politiche autoritarie. Al centro, la Russia di Putin che vuole costruire un impero. Senza l’Europa, perderemmo la parte più preziosa del nostro patrimonio, all’interno del quale la democrazia è un compromesso con la libertà d’azione collettiva, in caso contrario l’uguaglianza e la giustizia non sarebbero garantite». Il «coraggio della disperazione» fa brutti scherzi? Quantomeno fa sembrare meno brutte, sporche e cattive la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping.

«C’è poi», scrive ancora Žižek (che, almeno per adesso, non vuole dismettere i panni dell’avvocato d’ufficio di Tsipras), «chi sostiene che fenomeni come Syriza dimostrano come la tradizionale dicotomia destra/sinistra sia superata. Syriza in Grecia è considerata estrema sinistra e Marine le Pen in Francia estrema destra, ma questi due partiti hanno effettivamente molto in comune: entrambi lottano per la sovranità, contro le multinazionali». Ma ciò che accomuna entrambi i soggetti politici è in primo luogo la loro natura politico-sociale (borghese), e difatti sono entrambi soggetti al servizio degli interessi capitalistici – nazionali o sovranazionali poco importa dal punto di vista dei salariati, i quali prima si liberano del veleno nazionalistico comunque declinato (in modo destrorso o sinistrorso), e prima possono sperare di costruire una reale resistenza al Moloch capitalistico. «È perciò del tutto logico», continua il Nostro, «che nella stessa Grecia, Syriza si trovi in coalizione con un piccolo partito di destra pro-sovranità. Il 22 aprile 2015, François Hollande ha detto in TV che Marine le Pen oggi ricorda George Marchais (un leader comunista francese) negli anni ’70 – la stessa patriottica difesa della gente comune francese sfruttata dal capitale internazionale – non c’è meraviglia che Marine le Pen sostenga Syriza… una bizzarra posizione, questa, che non dice molto più del vecchio adagio liberale che anche il fascismo è un tipo di socialismo». Altro che bizzarria, come piace pensare al progressista “radicale” che forse avverte un qualche imbarazzo! Diciamo pure che il fascismo è un tipo di «socialismo di Stato» (quello sbeffeggiato a suo tempo dall’internazionalista di Treviri), nonché di stalinismo, il quale, sempre a giudizio modesto di chi scrive, rappresentò la negazione più assoluta di ogni speranza e di ogni prassi emancipatrici. E qui giungiamo al mio precedente post su Žižek.

Forse la disperazione andrebbe sostenuta da una più coraggiosa (cioè e dire davvero radicale) visione del mondo. Questa visione è forse già nella mia tasca? Magari! Diciamo che mi sforzo di conquistarla sulla base di quel poco che ho già “portato a casa” in termini di comprensione della vigenza del dominio sociale capitalistico e della possibilità, oggi sempre più negata, della liberazione universale. Mi piace chiamarlo punto di vista umano.

LE CATTIVE ANALOGIE STORICHE DEI POST-STALINISTI

guillottineIn linea generale le analogie storiche hanno un certo valore, perché permettono di chiarire a chi ne fa uso passaggi concettuali complessi in forma sintetica e suggestiva, realizzando un’apprezzabile economia di pensiero. Va da sé che l’analogia ha successo, coglie l’obiettivo, solo quando essa non solo appaia, ma sia effettivamente storicamente fondata. Viceversa, da strumento di verità si capovolge immediatamente in strumento ideologico al servizio della menzogna. È questo il caso di Alain Badiou e di Diego Fusaro.

Nel suo libro Il secolo, il filosofo francese Badiou ha scritto che dopo i noti e famigerati (beninteso solo per i “comunisti” di derivazione stalinista e maoista) eventi prodottisi nel 1989 la nostra epoca sta vivendo una «seconda restaurazione», in analogia con la Restaurazione che segnò l’Europa con la fine del lungo ciclo rivoluzionario apertosi con la Grande Rivoluzione del 1789. Badiou, dice Fusaro in un video postato su YouTube, realizza un fecondo accostamento, per analogia storica, tra lo scenario politico e filosofico che si schiuse dopo la fine della rivoluzione francese, segnato dal Congresso di Vienna e dalla vittoria delle potenze conservatrici e controrivoluzionarie, e lo scenario che si è aperto con il 1989. Come la prima restaurazione diede corpo alla criminalizzazione delle concezioni rivoluzionarie (borghesi) che avevano avuto nei giacobini la loro espressione politico-ideologica più avanzata e radicale, analogamente la «seconda restaurazione» post 1989 è segnata da una vera e propria demonizzazione della «passione utopica», criminalizzata come antidemocratica e tendenzialmente totalitaria: «Avete provato a cambiare il mondo, ne sono scaturite le peggiori sciagure sulla terra, non provateci mai più». Così, dice il filosofo made in Italy, ragiona l’ideologia dominante, la quale «si caratterizza esattamente per una sorta di desertificazione dell’immaginario che rende per ciò stesso impossibile le alternative rispetto al presente totalmente saturo della forma merce capitalistica». Non c’è dubbio.

Gran parte di ciò che oggi passa per critica, ad un esame appena più attento si rivela essere non più che una nota di tono diverso nella sinfonia apologetica che accompagna la nostra esistenza nel migliore dei mondi possibili. Ma questo, a mio avviso, vale anche per Badiou e per Fusaro, il quale afferma che «il capitalismo pienamente realizzato» dei nostri tempi «è tornato a trionfare incontrastato perché è venuto meno il colosso sovietico che per più di cinquant’anni lo aveva tenuto a freno, seppure in forma contraddittoria». Insomma, per i nostri due filosofi solo dopo il crollo del miserabile Muro si è affermata nel mondo occidentale la tendenza controrivoluzionaria e restauratrice che criminalizza gli «ideali utopici e rivoluzionari». Niente di più infondato, almeno per come la vedo io.

imagesDG0NK8NMSe vogliamo rimanere con qualche fondamento storico sul terreno analogico, possiamo parlare di «seconda restaurazione» non a proposito del 1989, che segnò il crollo, dopo una lunghissima agonia, di un regime capitalistico particolarmente rognoso (sto alludendo all’Unione Sovietica) e dell’alleanza imperialistica centrata sul suo dominio (alludo al Patto di Varsavia), ma piuttosto in riferimento alla fine degli anni Venti, quando apparve chiaro ai comunisti occidentali che si rifiutarono di aderire all’ideologia controrivoluzionaria elaborata da Bucharin e praticata da Stalin, che il «Nuovo Corso» moscovita costruiva una prospettiva capitalistica e Grande-Russa sulle ceneri dell’Ottobre Rosso di Lenin. Per non scadere nel ridicolo, o nella più ottusa e reazionaria delle ideologie, occorre far retrocedere la «seconda restaurazione» almeno di sessant’anni.

Associare per analogia storica i giacobini agli stalinisti potrebbe avere un senso solo se si collocano entrambi i soggetti sul terreno della società borghese in divenire, e sempre tenendo fermo un punto essenziale, soprattutto in termini politici, cioè a dire la natura controrivoluzionaria dal punto di vista proletario dello stalinismo. Gli stalinisti furono violentemente radicali sul terreno degli interessi della nascente Potenza Russa post-zarista, e questa radicalità capitalistica, spacciata per «un secondo Ottobre», si dispiegò a spese del proletariato interno e internazionale.

Com’è noto, Trotsky lesse la sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre nei termini di un «tradimento» o, in analogia con la Rivoluzione francese, di un «termidoro», ossia di una degenerazione politica del soggetto che aveva promosso la rivoluzione che non poteva cancellare le conquiste sociali di essa.  Obtorto collo, e attraverso mille imbarazzanti contraddizioni che alla fine ne avrebbero generato la fine attraverso una rivoluzione politica (politica, non più sociale), tale soggetto si vedeva costretto a muoversi nel profondo solco tracciato dalle «realizzazioni concrete» prodotte dalla Rivoluzione. Con ciò egli mostrò di non aver compreso la reale portata dei processi sociali, interni e internazionali, che alla fine spezzarono la radice stessa di quella esperienza storica, non lasciando sul terreno delle «realizzazioni concrete» nulla che valesse la pena di difendere e di rivendicare. Seguendo questa pista che lo conduceva direttamente alla capitolazione teorica e politica (cosa assai più grave della sconfitta politica, sempre recuperabile una volta che fossero mutate le circostanze), Trotsky giunge a considerare «il sistema di Stalin […] la forma burocraticamente deformata di autodifesa adottata da un socialismo in via di sviluppo» (L. Trotsky, Introduzione del 1935 a Terrorismo e Comunismo, Sugarco, 1977). Per chi scrive «il sistema di Stalin», con annessa burocrazia e relativa «cricca», fu invece la forma storicamente necessaria di un capitalismo in via di sviluppo.

stalin_gulagNon l’ideologia dominante dei nostri giorni, ma lo stalinismo internazionale (con le sue diverse varianti nazionali: maoismo, titoismo, togliattismo, chevarismo, ecc.) ha assestato il più drammatico e violento colpo alla prospettiva dell’emancipazione del proletariato e dell’intera umanità, semplicemente accreditandosi come soggettività comunista. Ovviamente le classi dominanti del pianeta hanno avuto tutto l’interesse ad assecondare questa colossale menzogna storica, politica, concettuale, sociale. Infatti, solo dalla prospettiva che da sempre mi sforzo di “socializzare” è possibile attaccare in radice la posizione che associa il comunismo al «socialismo reale», il quale non fu, in Russia e ovunque nel mondo, che un reale capitalismo-imperialismo ignobilmente celato dietro bandiere rosso-sangue. Ignobilmente e, aggiungo, assai ridicolmente, almeno all’avviso di chi aveva resistito ai richiami della trionfante sirena stalinista e aveva cercato di scrivere la storia del movimento operaio con l’amaro ma veritiero inchiostro degli sconfitti.

Evidentemente Fusaro, dall’alto della sua concezione dialettica del processo storico, prende per oro colato la tesi stalinista dei «due campi» che si sarebbero confrontati durante la cosiddetta guerra fredda: quello «capitalista», capeggiato dagli Stati Uniti, e quello «socialista», con al vertice Mosca – e poi Pechino per molti “comunisti dissidenti” occidentali. Un confronto interimperialistico declinato in termini di “lotta di classe”: io non potrei mai arrivare a tali cifre dialettiche, nemmeno se leggessi tutti i tomi di Badiou, di Žižek (la cui concezione “post-stalinista” dello stalinismo ho pure criticato in passato) e di Fusaro! E difatti son qui a ridacchiare come il peggiore dei servi dell’Imperialismo alle spalle dei credenti in Chávez, e a sparare a palle incatenate contro quei Socialnazionalisti che ritengono essere massimamente rivoluzionario, o quantomeno “storicamente progressivo”, appoggiare tutti i nemici imperialisti del Grande Satana d’Occidente.

Insomma, quando il buon filosofo italiano ciancia, sempre nel video di cui sopra, di «coscienza rivoluzionaria», e sostiene che bisogna reagire alla «logica illogica» del pensiero dominante riscoprendo «la prospettiva utopica nel senso più alto del termine, nel senso di Marx e di Bloch», egli ha ai miei occhi una credibilità pari allo zero assoluto, e peraltro in ciò sono oltremodo confortato dalle sue posizioni politiche ultrareazionarie – in economia, in politica interna e internazionale e via di seguito.

Vedi anche:

Il Marx dei fasciostalinisti
Essere senza coscienza – di classe
Il katéchon “comunista” di Diego Fusaro
La resa incondizionata degli amici del macellaio di Damasco

IMPICCARSI AL “COMUNISMO” DI BADIOU O AL “COMUNE” DI NEGRI? MEGLIO VIVERE!

alain-badiou-2Nell’ultimo libro Il risveglio della storia. Filosofia delle nuove lotte mondiali (Ponte alle Grazie, 2012) Alain Badiou si è difeso da par suo dalla sanguinosa critica scagliatagli da un altro pezzo grosso del pensiero “alternativo” mondiale, Toni Negri: «Io in definitiva sarei soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non sarei nemmeno attento alle sorprendenti trasformazioni del capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da intenditori, di un “capitalismo postmoderno”. [Negri] mi ha pubblicamente assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti. In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di essere marxisti senza essere nemmeno comunisti» [1]. Chi la spunterà in questa lotta tra giganti del pensiero altermondista?

Quando Badiou bastona le pretese postmoderniste di Negri, e sottolinea la vitalità della critica marxiana dell’economia politica, almeno per i punti essenziali, non posso che battergli le mani, e rimandare il lettore alla mia annosa polemica che ha come oggetto la teoria negriana dell’oltrismo:  oltre Marx, oltre la legge del valore, oltre il socialismo, oltre il comunismo, oltre l’imperialismo, oltre il postmoderno, oltre… l’oltre. Il tutto, forse, per dare l’impressione di essere sempre al passo con i tempi, anzi: decisamente oltre. Scrive Badiou: «La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico».

Evidentemente il bravo intellettuale padovano non ha capito che l’oltremisura è la dimensione concettuale e reale più adeguata al Capitale, la cui natura rivoluzionaria (nell’accezione marxiana del concetto, poi ripresa da Schumpeter) rende quantomeno inutile, se non oziosa, la ricerca di aggettivi da appiccicare al Capitalismo: “nuovo”, “vecchio”, “post”, “classico” e via di seguito. Il Capitalismo è sempre “vecchio” («classico») nei suoi presupposti storico-sociali (alludo al rapporto sociale di dominio e di sfruttamento Capitale-Lavoro) e sempre “nuovo” («post») nella sua dinamica sociale. Per dirla col filosofo “classico”, non si può nuotare due volte nello stesso Capitalismo.

images«Ricordate la legge classica del valore-lavoro? Il capitale variabile diventa forza lavoro produttiva solo quando era sotto il capitale. Tutto questo è finito. Pur restando al centro di ogni processo di produzione, il lavoro è il risultato di un’invenzione e i suoi prodotti sono quelli della libertà e dell’immaginazione» [2]. Siamo andati oltre il Capitalismo e non me ne sono accorto: chiedo umilmente venia! Il fatto è che, essendo io ancora
impigliato nella barba del Grande Vecchio, pensavo in buona fede che l’invenzione non fosse che «capitale costante», non più che un formidabile strumento capitalistico di dominio e di sfruttamento della natura e dell’uomo – dell’individuo ridotto a risorsa totale, a biotecnologia e a biomercato, a «capitale umano» da sfruttare nella sfera della produzione e in quella della circolazione. E invece siamo finiti, sia lode alla Santa Astuzia della Storia!, nel Regno della libertà e dell’immaginazione. Il Sessantotto ha dunque vinto, alla fine, oltre i tempi supplementari? Il marxiano General Intellect alla fine ha conosciuto il dialettico capitombolo?

Badiou non la pensa così, e fa bene: «Un capitalismo insomma alla vigilia della sua metamorfosi in comunismo. Questa è, in maniera un po’ grossolana ma fedele, la posizione di Negri. Più in generale, questa è anche la posizione di tutti quelli che da trent’anni rimangono affascinati dalle mutazioni tecnologiche e dall’espansione continua del capitalismo, e che, ingannati dall’ideologia dominante (“tutto cambia sempre e noi corriamo dietro a questo cambiamento memorabile”), immaginano di assistere a una prodigiosa sequenza della Storia – qualunque sia il loro giudizio finale sulla qualità della suddetta sequenza».

Come ho scritto altrove, il General Intellect è in radice l’intelligenza del Capitale. È vero che, come scrive Marx, «Nella sua nuova forma il capitale s’incorpora gratis il progresso sociale compiuto mentre agiva la sua vecchia forma», ma esso può farlo perché «Scienza e tecnica costituiscono una potenza dell’espansione del capitale» (Il Capitale, I). Lo sviluppo capitalistico promuove sempre di nuovo l’espansione del «cervello sociale» (scuola, università, agenzie formative, pubbliche e private, di vario genere, relazioni sociali mediate tecnologicamente e via di seguito), e questo a sua volta accresce direttamente e indirettamente la potenza sociale del Capitale, il quale sa come mettere a profitto lo sviluppo complessivo della sua società. Solo il rovesciamento rivoluzionario del Dominio può rendere possibile il pieno dispiegamento delle tendenze emancipatrici di cui è gravida, e non da oggi, la società borghese.

zizekScrive Slavoj Žižek: «Poiché ha trascurato la dimensione sociale dell’”intelletto generale”, Marx mancò di immaginare la possibilità della privatizzazione dell’”intel­letto generale” stesso – e questo è ciò che sta al cuore della battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”. Negri ha ragio­ne su questo punto» [3].  Ora, chiunque abbia una seppur superficiale dimestichezza con gli scritti “economici” marxiani sa bene come il critico di Treviri non solo non ha mai mancato di mettere in luce la dimensione sociale del general intellect, ma come tale concetto avesse per lui un significato solo all’interno di quella dimensione. Non si ripeterà mai abbastanza che il punto di vista di Marx è eminen­temente sociale e mondiale perché sociale e mondiale è la dimensione del Capitale, già nella sua genesi storica.

La profit­tabilità (ciò che Žižek chiama, un po’ volgarmente, «privatiz­zazione») dell’intero universo è il respiro economico-sociale immanente al concetto di Capitale, e Marx questo lo ha capito benissimo e ne ha scritto continuamente. Certo, non ha parla­to della «battaglia intorno alla “proprietà intellettuale”», e que­sto, occorre riconoscerlo, è una grave mancanza teorica… Può valere come attenuante per il barbuto di Treviri il fatto che ai suoi tempi il web e le tecnologie “intelligenti” che lo hanno reso possibile non fossero stati ancora inventati? La questione rimane aperta. Intanto ci tocca leggere perle ideologiche di questo tipo: «Il capitale non solo è di­venuto dipendente dal sapere dei salariati, ma deve ottenere una mobilitazione ed una implicazione attiva dell’insieme del­le conoscenze e dei tempi di vita dei salariati». Un capolavoro di pseudo dialettica hegeliana, non c’è che dire. Il servo, in virtù della sua prassi ricca di esperienze e di conoscenze acquisite attraverso la concreta trasformazione della natura, attraverso il lavoro, riesce in qualche modo ad avere la meglio, almeno sul piano etico, sul suo padrone, incapace di vera soggettività e dipendente dal servo per ciò che riguarda la sua stessa esi­stenza quotidiana. Ma ovviamente le cose stanno esattamente al contrario, perché soprattutto nel «Capitalismo cognitivo» il soggetto della prassi economica è il Capitale, mentre i sa­lariati ne sono gli oggetti, e tanto più essi credono di poter dettare le regole al primo, quanto più testimoniano la loro reale impotenza sociale. Sul terreno del general intellect il «velo tecnologico» gioca davvero brutti scherzi, e anche le menti più fervide fanno fatica a capire che «La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio» [4].

Ma veniamo ai punti dolenti a proposito di Badiou.

cinesine belle«Certo, Marx pensava che, sotto la bandiera del comunismo, la rivoluzione proletaria avrebbe bruscamente interrotto questi eventi e ci avrebbe risparmiato il dispiegamento integrale di cui percepiva lucidamente l’orrore. L’alternativa era appunto, secondo lui, comunismo o barbarie […] Dopo circa trent’anni, dopo il crollo degli Stati socialisti come alternative percorribili (il caso dell’Unione Sovietica), o il loro sconvolgimento operato da un violento capitalismo di Stato dopo lo scacco di un movimento di massa esplicitamente comunista (è il caso della Cina tra gli anni 1965 e 1968), abbiamo finalmente il dubbio privilegio di assistere alla verifica di tutte le predizioni di Marx sull’essenza reale del capitalismo e delle società che esso regge. Alla barbarie siamo già arrivati, e vi stiamo sprofondando dentro di gran carriera». Ora, a mio modesto avviso quelli che il filosofo francese definisce « Stati socialisti come alternative percorribili» erano parte integrante della barbarie capitalistica, non ne rappresentavano in alcun modo un’alternativa, seppur pallida e piena di limiti e contraddizioni. Come non mi stanco di ripetere, senza peraltro attribuire proprietà miracolistiche al repetita iuvant, con il cosiddetto «socialismo reale» (Cina maoista inclusa) siamo nel pieno del Libro Nero del Capitalismo, e non averlo compreso a tempo, ben prima del famigerato (per i “comunisti” devoti a Mosca o a Pechino) 1989 ha di molto ritardato la presa di coscienza, soprattutto da parte delle nuove leve di militanti anticapitalisti, circa la reale natura sociale dei regimi che, appunto, avrebbero dovuto rappresentare un’alternativa credibile, e soprattutto auspicabile, al Capitalismo.

«Non si esiti a dirlo: la condanna, da parte di Chruščëv, dello stalinismo non colpiva nel segno e annunciava, col pretesto della democrazia, il deperimento dell’Idea del comunismo al quale abbiamo assistito nei decenni successivi. La critica politica di Stalin e della sua visione terroristica dello Stato doveva essere fatta in modo rigoroso dal punto di vista della politica rivoluzionaria, e Mao ne ha fornito più che un abbozzo in molti suoi testi» [5]. Apprendiamo così da un illustre filosofo che 1. «il deperimento dell’Idea di comunismo» ha avuto a che fare più con la cosiddetta destalinizzazione che con lo stalinismo, espressione politico-ideologica di quella controrivoluzione che spazzò via il carattere proletario della Rivoluzione d’Ottobre; e che 2. Mao, epigono di Stalin e leader di una rivoluzione nazionale-borghese spacciata per socialista (e il senso ideologico più pregnante dello stalinismo riposa proprio in questa mistificazione, non importa se fatta in buona o cattiva fede), avrebbe «fornito più che un abbozzo» di una corretta critica dello stalinismo. Da ciò si evince che bella «Idea di comunismo» ha in testa Badiou.

Cosa che si rende ancora più evidente in questi passi: «La lunga esperienza delle dittature comuniste avrà avuto il merito di mostrare che la mondializzazione finanziaria e il regno senza divisioni dell’universalità vuota del capitale potevano avere come nemico autentico solo un altro progetto universale, anche se deviato e insanguinato; che solamente Lenin e Mao facevano realmente paura […] Lo sprofondamento senile dell’URSS, paradigma degli Stati socialisti, ha provvisoriamente eliminato la paura, scatenato l’astrazione vuota, abbassato il pensiero di tutti» [6]. Appunto, di tutti, autore compreso, come mostra la sua apologia delle dittature capitalistiche sedicenti comuniste e socialiste (eppure da un filosofo ci si attende un minimo sindacale di profondità critica anche per ciò che riguarda il processo storico), e l’accostamento di Lenin a Mao, come se i due uomini non fossero stati l’espressione di due «progetti universali» del tutto diversi tra loro.

D’altra parte, cosa ci si può aspettare da un intellettuale che pensa che «il crollo senza gloria dell’URSS» dopo l’’89 segna «il congedo dell’ipotesi comunista»? Ancora nell’anno di grazia 1989 si poteva dunque parlare di un’«ipotesi comunista», sebbene «deviata e insanguinata», a proposito dell’Unione Sovietica? Prima di «abbandonare le illusioni e prepararsi alla lotta», come ha scritto sempre Badiou mutuando il solito Mao nel suo Manifesto per la filosofia (Cronopio, 2008), forse converrebbe capire meglio la natura di quelle illusioni, per non reiterare vecchi errori teorici e politici e per non trovarsi a dover spalare nuove macerie reali e concettuali e nuove tonnellate di sostanze escrementizie gettate sulla speranza.

Scrive Negri a proposito della Repubblica di Platone di Badiou: «Si capisce, leggendo queste pagine, perché oggi l’opera di Badiou presti talora argomenti nostalgici a coloro che, non sapendo uscire dalla sconfitta del “socialismo reale”, continuano a sognarsi comunisti, pur rifiutando di ricominciare a lottare» [7]. Qui tendo a concordare con lo Scienziato sociale italiano. Tuttavia il problema a mio avviso va posto in questi termini: ricominciare a lottare su presupposti teorici e politici fondati, che possano davvero riaprire lo Stargate, per così dire, della liberazione. Il mio insistere sulla natura capitalistica del cosiddetto «socialismo reale» (da Stalin a Mao)  non ha altro significato che quello di contribuire alla costruzione di quei presupposti.

Per quanto mi riguarda non impegnerei un solo secondo della mia pur modesta esistenza per lottare in vista del “Comunismo” di Badiou o del “Comune” di Negri.

[1] Baso le mie riflessioni sul post Il Capitalismo oggi. Risposta a Toni Negri, pubblicato da Controlacrisi.org, 11 agosto 2013.
[2] La comune di Toni Negri, intervista del 29 marzo 2010 a Negri comparsa sul sito di Comunismo e Comunità.
[3] S. Žižek, First As A Tragedy, Than As A farce, p. 148, Verso, 2009.
[4] M. Horkheimer, T. W. Adorno, L’industria culturale, 1942, in Dialettica dell’illuminismo, p.127, Einaudi, 1997. «Ma questo effetto non si deve ad­debitare a una presunta legge di sviluppo della mera tecnica come tale, ma alla funzione che essa svolge nell’economia» (ivi, p. 128).
[5] A. Badiou, in AAVV, L’Idea di Comunismo, pp. 18-19, Derive Approdi, 2011.
[6] A. Badiou, San Paolo. La fondazione dell’universale, p. 15, Cronopio, 1999.
[7] A. Negri, Il guardiano dell’idea assoluta, Il Manifesto, 27 aprile 2013.

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.

ABBOCCA SEMPRE ALL’AMO!

Benvenuti a Miserabilandia

Siccome non professo la religione antiberlusconiana, e anzi mostro di disprezzarla con tutte le forze in quanto insulsa robaccia, presso diversi miei interlocutori “progressisti” passo per un «berlusconiano», almeno «oggettivamente». E chi se ne frega! Certo, per chi ha eletto il primo ministro del Bel Paese a sentina di tutti i mali l’accusa di «berlusconismo» suona come la più sanguinosa, non potrebbe essere più infamante; ma alle mie sicule e non progressiste orecchie ha più pregnanza l’accusa di cornuto. Cornuto no!

Presi dalla loro cieca – e ridicola – ideologia, ma anche da una robusta invidia sociale, nonché da frustrazioni di vario genere, ultimamente i “progressisti” sono scivolati così in basso, da far impallidire il più retrivo dei moralisti bigotti. Al confronto, il Pastore Tedesco mi appare di gran lunga più simpatico, e almeno le sue ultrareazionarie encicliche si fanno leggere con un certo interesse. Anche quando rappresenta la quintessenza della conservazione sociale un pensiero può stimolare almeno una critica feconda, non banale. Al gossip mediatico, soprattutto se di «sinistra», preferisco dunque di gran lunga la «teologia sociale» della checca (si può dire? è politicamente corretto?) assisa al Sacro Soglio Romano. Vivaddio! Persino un intellettuale solitamente intelligente come Slavoj Žižek ha scritto che «Ahmadinejad non è l’eroe dei poveri islamici (bella scoperta!), ma un corrotto islamico-fascista populista, una specie di Berlusconi iraniano» (Ahmadinejad, Berlusconi e l’era post-democratica, da carta.org., 25 giugno 2009). Bella analogia, non c’è che dire. E bella – si fa sempre per dire – analisi: «Se il nostro cinico pragmatismo ci fa perdere la capacità di riconoscere questa dimensione liberatoria (perché c’è un potenziale di liberazione nell’islam), significa che in Occidente stiamo davvero entrando in un’era post-democratica, preparandoci al nostro Ahmadinejad. Gli italiani già conoscono il suo nome: Berlusconi. Gli altri stanno aspettando in fila». Ma con quali occhi guarda la società italiana il signor Slavoj Žižek ? Anche il teorico del politicamente scorretto ha dunque inforcato gli occhiali del progressismo internazionale? Che peccato!

In effetti, io non ce l’ho – solo o in particolar modo – col Cavaliere Nero, che peraltro trovo divertente alla stregua di un comico più o meno involontario (lascio agli italici patrioti la vergogna che a loro procurano le spassosissime gaffe del premier italiano nei consessi internazionali: son disfattista!); la mia bestia nera è la società capitalistica italiana, europea, mondiale, universale, interstellare… Insomma, è la società borghese tout court. A mio non progressista avviso, il male assoluto non è Berlusconi, né il «berlusconismo», bensì la società mondiale basata sul capitale, sul denaro, sulla merce, sul lavoro salariato – modi diversi di chiamare la stessa sostanza sociale disumana.

Mentre per i cosiddetti progressisti «l’altro mondo possibile» è un’Italia libera dal truce Cavaliere «fascista, mafioso, piduista, ladro-craxiano, corruttore e corrotto, velinista, puttaniere, volgare, pedofilo» («ma chi è senza peccato, scagli la prima pietra!»), la mia utopia è la libera comunità degli uomini in quanto uomini, l’associazione di uomini umani liberi da qualsivoglia dominio di classe. Quisquilie, mi rendo conto. Anzi, pinzillacchere. Vuoi mettere l’odio contro il nano e calvo Berlusconi! Si sa, i “progressisti” sono indigenti e stitici persino quando odiano e quando amano, come aveva fatto in tempo a capire il buon Giorgio Gaber – Ombretta Colli lo aveva capito assai prima di lui. A furia di odiare un nano, sono diventati nani anche costoro. Altro che Brunetta! Ma in realtà nani lo sono sempre stati; diciamo allora che al peggio non c’è davvero limite.

E poi, via, la «rivoluzione sociale» non è mica dietro l’angolo, e qualche soddisfazioncella su questa Terra ce la dobbiamo pure prendere! In attesa del Paradiso in Terra, bisogna cercare di strappare «al sistema» almeno il minor male possibile, magari come momento tattico in vista di più «avanzati equilibri sociali». Altro che «punto di vista umano»! Negli anni Venti del secolo scorso molti comunisti e socialisti, stanchi di «attese messianiche» e desiderosi di pigliarsela subito e rudemente con qualche «potente» (un sindacalista, un «borghese», un intellettuale, un ebreo) si intrupparono nella «Rivoluzione Fascista»: accecati da un cieco «odio di classe» essi scaricarono la loro tensione ideale, politica e psicologica in un movimento politico che prometteva molte soddisfazioncelle a chi voleva «rompere col vecchiume». Per questo, ancor prima di armare le mani, bisogna armare le teste di coloro che avvertono un certo «disagio sociale», affinché essi non vengano bruciati nella lotta tra opposte fazioni borghesi (nazionali e internazionali). Un governo Bertinotti, o Bersani, o Fini – questo nuovo campione del progressismo italiota – sarebbe dunque un «male minore»? Bisogna davvero essere “progressisti” per pensarla in questa indigente maniera. L’ideologia del male minore, o del meglio possibile, non riesce a celare la cattiva condizione umana che la riproduce sempre di nuovo alla stregua di un nuovo oppio dei popoli. Io che non sono un progressista, e che mi sforzo di guardare la società dalla prospettiva che coglie la possibilità della liberazione nell’attualità del dominio, vedo tutti i competitori politici in campo agitarsi su un solo, comune terreno: la società basata sullo sfruttamento scientifico degli uomini e della natura. Da questa – bizzarra? – prospettiva il mondo di chi fischia e di chi applaude l’Ahmadinejad di Arcore appare come una Miserabilandia.

Ma allora, qual è il significato non banale – cioè non “progressista” – della «guerra civile virtuale» che ormai dalla “mitica” (e naturalmente per molti famigerata) «discesa in campo» del capitalista di Arcore non sembra poter conoscere alcuna tregua, nonostante il lavoro di pontieri, pompieri e colombe di diversa collocazione politico-istituzionale? Veramente si confrontano, come ci sentiamo ripetere tutti i santi giorni dai massmedia e dai militanti delle opposte miserie, il «partito della democrazia e della legalità» e il «partito del populismo e dell’illegalità»? Naturalmente no, al netto del fatto che entrambi i partiti, dal punto di vista umano, sono quanto di più reazionario e rivoltante si possa trovare nel peraltro vomitevole panorama politico internazionale. Scrive Piero Ostellino:

«La politica, parafrasando Marx, sta implodendo sotto il peso delle contraddizioni capitalistiche: fra grandi interessi economici in conflitto – non secondariamente per il controllo delle telecomunicazioni che riguardano anche Rai e Telecom – cui fanno da cornice, sul piano parlamentare, il confronto fra il “partito del rigore” e il “partito della spesa pubblica” e, su quello sociale, fra il “Paese produttivo” e il “Paese parassitario”. È in corso una guerra per la redistribuzione del potere fra capitalismi, sulla quale si è innestato un confronto politico-sociale per la redistribuzione delle risorse pubbliche. Sotto il profilo sociologico, si potrebbe dire che ci troviamo di fronte all’accelerazione del processo di modernizzazione del Paese. Nella guerra fra capitalismi e nel confronto sulla spesa pubblica, la parte più impegnata politicamente della magistratura – la sola isola ideologica rimasta – rischia di recitare il ruolo della mosca cocchiera e la politica di finire in una posizione di totale subalternità» (Il Corriere della Sera, 30 novembre 2009).

La contesa borghese intorno al potere economico e politico: ecco a quale guerra stanno partecipando le opposte tifoserie politiche; alcuni sono ben consapevoli della posta in palio, altri sono animati da chissà quali illusioni, tutti comunque sono invitati a recitare il tristo e impotente ruolo di massa di manovra al servizio delle classi dominanti di questo Paese. Il buon Ostellino, da onesto e liberale cittadino qual è, teme «le conseguenze devastanti per la nostra stessa democrazia» della guerra politica, sociale, mediatica e giudiziaria; io, che non aspiro certo al rango di difensore della democrazia e della legalità, temo piuttosto il perdurare della situazione sociale che devasta giorno dopo giorno l’esistenza degli strati sociali subalterni e di tutti gli individui umanamente sensibili di Miserabilandia.


Slavoj Žižek

Slavoj Žižek – Ahmadinejad, Berlusconi e l’era post-democratica

Quando un regime autoritario approda alla crisi finale, di solito la sua dissoluzione segue due passi. Prima del collasso, si verifica una misteriosa rottura: tutto all’improvviso le persone sanno che il gioco è finito, e semplicemente non hanno più paura. Non solo il regime perde la sua legittimità, il suo potere stesso viene percepito come un’impotente reazione di panico. Tutti conosciamo le classiche scene dei cartoni animati: il gatto raggiunge il precipizio ma continua a camminare, ignorando il fatto che non ha la terra sotto i piedi; comincia a cadere solo quando guarda in basso e si accorge dell’abisso. Quando perde la sua autorità, il regime è come un gatto sul precipizio: sta per cadere, e ha solo bisogno che gli si ricordi di guardare in basso.

In «Shah in Shah», un classico racconto della rivoluzione di Khomeini di Ryszard Kapuscinski, si colloca il preciso momento di questa rottura: a un incrocio di Tehran, un manifestante si rifiuta di spostarsi quando un poliziotto gli ordina di muoversi, e il poliziotto imbarazzato si limita a voltarsi di spalle; in un paio d’ore, tutta Tehran seppe dell’accaduto, e sebbene ci fossero scontri in strada che continuavano da settimane, ognuno seppe che la partita era finita. Sta accadendo adesso qualcosa di simile?

Ci sono molte versioni sui fatti di Tehran. Alcuni vedono nelle proteste il culmine del «movimento riformista» a favore dell’Occidente, sulla scia delle «rivoluzioni arancioni» di Ucraina, Georgia, eccetera – una reazione secolare alla rivoluzione di Khomeini. Costoro supportano le proteste come il primo passo verso un nuovo Iran liberaldemocratico, liberato dal fondamentalismo musulmano. Sono contraddetti dagli scettici che pensano che davvero Ahmadinejad ha vinto davvero: lui è la voce della maggioranza, mentre il supporto a Mousavi arriva dal ceto medio e dalla sua gioventù dorata. In breve: scacciamo le illusioni e affrontiamo il fatto che, con Ahmadinejad, l’Iran ha il presidente che merita. Ci sono poi quelli che liquidano Mousavi come un membro dell’establishment religioso, con differenze solo apparenti con Ahmadinejad: Mousavi vuole proseguire col programma energetico nucleare, è contrario al riconoscimento di Israele, in più ha ricevuto il pieno appoggio di Khomeini come primo ministro ai tempi della guerra contro l’Iraq.

Infine, i più tristi di tutti sono quelli che supportano Ahmadinejad da sinistra: la vera posta in palio sarebbe per loro l’indipendenza dell’Iran. Ahmadinejad ha vinto perché ha combattuto per l’indipendenza del paese, smascherato la corruzione delle élite, e utilizzato le ricchezze petrolifere per incrementare il reddito della maggioranza dei poveri – questo è il vero Ahmadinejad, ci dicono, oltre l’immagine dei media occidentali di un fanatico negazionista dell’Olocausto. Seguendo questo punto di vista, ciò che sta davvero accadendo in Iran è una replica dell’abbattimento di Mossadegh del 1953: un golpe finanziato dall’Occidente contro un presidente legittimo. Questa lettura non solo ignora i fatti: l’alta affluenza alle urne – dal 55 per cento all’88 per cento – si spiega solo con il voto di protesta. Ma mostra anche la cecità nei confronti di una genuina dimostrazione della volontà popolare, assumendo con condiscendenza che per gli arretrati iraniani, Ahmadinejad va benissimo, non sono sufficientemente maturi per avere una sinistra secolare.

Per quanto opposte, tutte queste interpretazioni leggono le proteste iraniane come scontro tra integralisti islamici e riformisti liberali pro-Occidente, che è il motivo per cui hanno difficoltà a collocare Mousavi: si tratta di un riformista spalleggiato dall’Occidente che chiede libertà personali ed economia di mercato o un membro delle gerarchie religiose la cui eventuale vittoria non influenzerebbe seriamente la natura del regime? Queste oscillazioni così estreme mostrano che nessuna delle letture di cui sopra ha capito la vera natura della protesta.

Il colore verde adottato dai sostenitori di Mousavi, le grida «Allah akbar!» che rimbombano dai tetti di Tehran al calare della sera, indicano nitidamente che questi si vedono in continuità con la rivoluzione di Khomeini del 1979, come ritorno alle sue origini, cancellazione della corruzione che ne è seguita. Questo ritorno alle radici non è solo nelle rivendicazioni; riguarda piuttosto il modo in cui la folla agisce: l’enfatica unione della gente, la loro solidarietà onnicomprensiva, l’auto-organizzazione creativa, l’improvvisazione nei modi di articolare la protesta, l’accoppiata unica di spontaneità e disciplina, come la minacciosa marcia di migliaia di persone in completo silenzio. Stiamo avendo a che fare con una sollevazione popolare genuina da parte dei delusi dalla rivoluzione di Khomeini.

Dobbiamo trarre un paio di conseguenze cruciali da questo quadro. Innanzitutto, Ahmadinejad non è l’eroe dei poveri islamici, ma un corrotto islamico-fascista populista, una specie di Berlusconi iraniano la cui mescolanza di pose da clown e spietata gestione del potere sta causando disagio persino presso la maggioranza degli ayatollah. La distribuzione demagogica di briciole ai poveri non ci deve ingannare: dietro di lui non ci sono solo gli organi di polizia e un apparato di public relations molto occidentale, ci sono anche i nuovi ricchi, il risultato della corruzione di regime [la Guardia rivoluzionaria iraniana non è una milizia operaia, ma una mega-coroporation, il più forte centro di potere del paese].

Inoltre, bisogna tracciare una differenza tra i due candidati principali opposti ad Ahmadinejad, Mehdi Karroubi e Mousavi. Karroubi è effettivamente un riformista, fondamentalmente propone la versione iraniana della politica identitaria e promette favori a tutti i gruppi particolaristi. Mousavi è completamente diverso: si batte in nome della resurrezione del sogno popolare che ha sostenuto la rivoluzione di Khomeini. Anche se questo sogno era un’utopia, bisognerebbe riconoscere in esso l’utopia della rivoluzione. Significa che la rivoluzione del 1979 non può essere ridotta a un’insurrezione integralista, si trattava di molto di più.

È il momento di ricordare l’incredibile effervescenza dei primi anni dopo la rivoluzione, con l’esplosione mozzafiato di creatività sociale e politica. Il solo fatto che questa esplosione è stata soffocata dimostra che la rivoluzione era un autentico evento politico, una momentanea apertura che ha scatenato una forza di trasformazione sociale inaudita, un momento in cui «ogni cosa sembrava possibile». Quello che seguì è stata una chiusura graduale tramite la presa del potere dell’establishment islamico. Per metterla in termini freudiani, le proteste di questi giorni sono il «ritorno del rimosso» della rivoluzione khomeinista.

E, last but not least, ciò significa che c’è un potenziale di liberazione nell’Islam, per trovare un «Islam buono» non c’è bisogno di tornare all’anno Mille, ce l’abbiamo giusto qui, davanti a noi.

Il futuro è incerto, con ogni probabilità chi starà al potere conterrà l’esplosione popolare, e il gatto non cadrà nel precipizio ma riguadagnerà la terra ferma. Comunque, non sarà più lo stesso regime, ma un governo autoritario e corrotto tra gli altri. Qualunque sia l’esito, è di vitale importanza che teniamo a mente di aver assistito a un grande evento emancipatorio che non rientra nello schema della lotta tra liberali pro-Occidente e fondamentalisti anti-Occidente. Se il nostro cinico pragmatismo ci fa perdere la capacità di riconoscere questa dimensione liberatoria, significa che in Occidente stiamo davvero entrando in un’era post-democratica, preparandoci al nostro Ahmadinejad. Gli italiani già conoscono il suo nome: Berlusconi. Gli altri stanno aspettando in fila.