1921-2021. CENTENARI CHE SUONANO MENZOGNERI

La celebrazione della data di fondazione del cosiddetto Partito Comunista Cinese probabilmente non è mai stata così importante come oggi, per il suo virtuale centenario. Infatti, dopo oltre un anno di pandemia questa celebrazione lungamente preparata dal Partito-Regime assume un significato particolare non solo per la Cina, ma per tutto il mondo, visto che essa cade nel momento in cui il grande Paese asiatico si presenta agli occhi di tutti come la potenza che esce trionfante dalla guerra pandemica, la sola grande nazione che non ha fatto registrare indici di sviluppo negativi (nel 2020 il Pil cinese è cresciuto di circa il 2,3%) e che si appresta a farne registrare di fortemente positivi già quest’anno. Spesso il Presidente Xi Jinping ha ricordato i cosiddetti due obiettivi del centenario: la costruzione di una «società moderatamente prospera» entro il 2021, centesimo anniversario della fondazione del PCC, e la creazione di «un’economia prospera e avanzata» entro il 2049, centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. Obiettivi molto ambiziosi, non c’è dubbio.

«La Cina dichiara vinta la battaglia contro la povertà assoluta. La provincia Sud-Occidentale del Guizhou ha cancellato le ultime nove contee dalla lista delle aree che versano in stato di povertà. La linea ufficiale di povertà in Cina è stata fissata nel 2010 al di sotto di un reddito annuo di 2.300 yuan (294,18 euro al cambio attuale) più bassa quindi della soglia fissata dalla Banca Mondiale di 1,90 dollari al giorno. L’obiettivo fissato nel 2015, e da raggiungere entro la fine di quest’anno, era di eliminare la povertà assoluta, ma il governo cinese deve fare ancora i conti con il forte divario di reddito tra la popolazione urbana e quella rurale e le disparità tra le varie province» (Agi). Sulla reale condizione di vita e di lavoro dei migranti cinesi, cioè del grande esercito di lavoratori che tutti gli anni si sposta dalle zone rurali del Paese per raggiungere i distretti industriali cinesi, dove sarà sfruttato a dovere dal capitale nazionale e internazionale, rimando al post La pessima condizione dei migranti cinesi.

All’inizio di questo breve post ho scritto «cosiddetto Partito Comunista Cinese» e «suo virtuale centenario»: perché?  Perché quello che oggi si chiama Partito Comunista Cinese, e che costituisce l’impalcatura politica, ideologica e burocratica dello Stato (capitalista/imperialista) cinese, non ha nulla a che fare con il Partito fondato il Iº luglio 1921 a Shanghai da alcuni esponenti del Movimento del 4 maggio (1919), tra i quali ricordo Ch’en Tu-hsiu,  professore di filologia che fu il primo segretario del PCC, caduto in disgrazia dopo i sanguinosi eventi del 1927, e Li Ta-chao, tra i fondatori nel 1918 della Società per lo studio del marxismo. Catturato da un Signore della guerra nel 1927, Li Ta-chao venne strangolato dalla polizia dopo lunghe torture.  Il Movimento del 4 maggio si caratterizzò per un acceso antimperialismo rivolto contro le potenze occidentali e contro il Giappone, il quale grazie alla Conferenza di Versailles ereditò tutti i diritti acquisiti nel corso degli anni dalla Germania, la potenza battuta dall’Intesa.

Mao Tse-tung, «un povero studente hunanese, sempre avvolto in un’unica vestaglia nera, ancora preso dai complessi di inferiorità del contadino da poco giunto nella capitale» (E. C. Pischel), partecipò al congresso di fondazione del PCC, ma non vi ebbe un ruolo rilevante. Solo alla fine degli anni Venti Mao crebbe in statura politica, per acquisire nel gennaio del 1935 quel ruolo centrale nella vita del PCC che manterrà per molto tempo, tra cadute mai rovinose e risalite sempre “prodigiose”. A quel punto si trattava però di un soggetto politico, certamente rivoluzionario, ma di natura borghese – nazionalista e antimperialista.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere della Cina, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il più grande, se non l’unico, esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al contesto storico e sociale cinese. Il PCC di Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. La politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese in Cina, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata da Lenin per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale. Tale politica era centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti avrebbero dovuto difendere come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima significativa dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute e conferme sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

L’accesa conflittualità che si manifesterà a partire dai primi anni Sessanta tra l’Unione Sovietica “revisionista” e la Cina ”maoista” si spiega non tirando in ballo dispute politico-ideologiche, ma con la natura capitalistica dei due Paesi: il primo saldamente al vertice della competizione imperialistica mondiale, insieme agli Stati Uniti, e il secondo che cercherà di svilupparsi come grande nazione sottraendosi dall’influenza economica e militare delle due Super Potenze.

Il nuovo PCC degli anni Trenta non fu, dal punto di vista sociologico, sociale, politico e ideologico, il Partito dei contadini, ossia l’espressione diretta dei loro interessi di classe, ma piuttosto un Partito borghese-nazionale che cercò nei contadini la sua fondamentale base sociale d’appoggio per centrare obiettivi di natura squisitamente borghese-nazionale: in primis, l’indipendenza nazionale e lo sviluppo del capitalismo – anche attraverso una riforma agraria più o meno radicale. Scrive Arturo Peregalli nella sua ottima Introduzione alla storia della Cina: «È quindi a giusto titolo che Mao può richiamarsi a Sun Yat-sen, dichiarandosi suo discepolo e continuatore della sua politica. Se Mao è il “vero Dio” della rivoluzione cinese, Sun Yat-sen fu il suo profeta».

Il particolare rapporto politico-sociale che strinse il PCC e i contadini spiega, non solo la completa esclusione della classe operaia del Paese dalla strategia rivoluzionaria dei “comunisti” cinesi, il cui esclusivo obiettivo era, al di là della fuffa ideologica tipica dei soggetti politici d’ispirazione stalinista, l’ascesa della Cina nel “concerto” mondiale in quanto grande nazione capitalistica; ma spiega anche l’andamento contraddittorio, e spesso conflittuale (fino alla violenza armata), di quel rapporto, dal momento che il mondo rurale cinese presentava una complessa stratificazione sociale – a cominciare dalla storica divisione tra contadini poveri e contadini ricchi.

Sulla natura borghese-nazionale della Rivoluzione cinese e del PCC, nonché sulla natura capitalistica della Cina (da Mao a Xi), tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ad alcuni miei scritti dedicati al grande Paese asiatico:  Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Sulla campagna cinese; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.

Sotto ogni punto di vista (sociale, politico, ideale) non solo non si scorge alcuna continuità tra il PCC del 1921 e il Partito che cento anni dopo porta lo stesso nome e dice di volerne celebrare la nascita, ma quest’ultimo rappresenta piuttosto la più radicale negazione del Partito di Ch’en Tu-hsiu e Li Ta-chao, il quale ancora fragile dal punto di vista sociale e politico, e ancora immaturo da quello dottrinario, mosse nondimeno i primi promettenti passi in un momento in cui la rivoluzione proletaria internazionale sembrava ancora possibile. Scriveva Li Ta-chao nel 1918: «Il fine dei bolscevichi è di distruggere i confini che sono ostacoli al socialismo e di distruggere il sistema di produzione in cui il profitto è monopolizzato dal capitalista. I soviet uniranno il proletariato del mondo e creeranno la libertà universale. Questa è la teoria della rivoluzione del nostro secolo!  La rivoluzione russa non è che una delle rivoluzioni del mondo. La campana ha suonato l’ora dell’umanità, l’alba della libertà è arrivata». Solo retrospettivamente è possibile comprendere come nel 1921, l’anno di nascita del Partito Comunista Cinese e del Partito Comunista d’Italia, la marea della rivoluzione mondiale si stesse rapidamente ritirando, lasciando i bolscevichi isolati nell’oceano del capitalismo mondiale e a dover fare i conti con la catastrofe sociale creata dalla guerra imperialista e dalla guerra civile. La controrivoluzione antiproletaria che porterà il nome di Stalin (ma che non ha a che fare con la cattiva personalità di chicchessia) ebbe in quel tragico isolamento i suoi fondamentali presupposti, e a farne le spese saranno anche i proletari e i comunisti degli altri Paesi, Cina e Italia compresi.

Mutatis mutandis, la celebrazione del centenario della nascita del Partito Comunista Cinese e quella del Partito Comunista Italiano hanno un comune risvolto ideologico, si celebra cioè  una grande menzogna che affonda le sue radici, appunto, nello stalinismo internazionale e nella sconfitta del movimento operaio internazionale, della quale il primo fu, al contempo, una delle principali cause e la più verace e odiosa espressione. Odiosa soprattutto perché siamo ancora qui a parlare del cosiddetto “comunismo” cinese e italiano.

Dal Partito Comunista Cinese del 1921 al Partito Capitalista Cinese del 2021: cosa marca la continuità storica tra i due soggetti politici? L’acronimo!

Scriveva ieri Le Monde: «La Cina crede già di aver vinto la partita con gli Stati Uniti, e forse sta qui il suo maggiore errore di valutazione». Vedremo chi si sbaglia. Di certo non sbaglia chi lotta, “senza se e senza ma”, contro l’Imperialismo Unitario (*).

(*) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporta con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. Sul concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale

La cooperazione degli operai comincia soltanto nel
processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno
già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono
incorporati nel capitale (K. Marx).

 

1. Studiare l’Industrial Smart Working e la cosiddetta Fabbrica Intelligente (cioè robotizzata e digitalizzata), chiamata anche Industria 4.0 e in altri mille modi (tutti ugualmente suggestivi e idonei alla mistificazione del rapporto sociale capitalistico da parte di economisti, sociologi e politici “modernisti”), ha avuto per me soprattutto il significato di ritornare a riflettere su un fondamentale concetto marxiano: la sussunzione reale del lavoro sotto il capitale, con annessa dialettica tra sussunzione formale e sussunzione reale. Una dialettica che peraltro si presta benissimo, a mio avviso, come chiave di interpretazione analogica di molti e importanti fenomeni sociali che si danno fuori dai luoghi immediati della produzione del valore, e che investono appunto aspetti della nostra vita che sembrano non avere nulla a che fare con la sfera immediatamente economica. Di più: è proprio questa dialettica che, a mio avviso, giustifica l’uso – si spera non ideologico – del concetto di sussunzione totale della vita da parte del capitale, anche se è nella sfera produttiva (di plusvalore) che tale concetto trova il suo più pregnante e puntuale riscontro.

I teorici della Fabbrica Intelligente affermano che a differenza della vecchia fabbrica, quella di nuova concezione richiede agli operai non solo di eseguire gli ordini ma soprattutto di pensare (nientedimeno!), anche in “modalità creativa” e, addirittura, “critica” [1]. Ma si tratta di una truffa ideologica (vedi, ad esempio, il concetto di Coboticacollaborative robot –, che rimanda all’«assistenza collaborativa» del robot nei confronti del lavoratore), di un guazzabuglio terminologico inteso a capovolgere i termini della questione, a mistificare la realtà, la quale vede il capitale assorbire sempre più completamente nel proprio corpo il lavoratore. Marx parlava di lavoro vivo incorporato nel capitale – e il mio fin troppo suscettibile pensiero evoca subito certe scene particolarmente agghiaccianti del film La cosa! Certo, anche di Alien.

Il robot non assiste in modo collaborativo il lavoratore, come vuole la “cobotitica”, ma per un verso accelera enormemente l’obsolescenza di macchine e capacità lavorative, e per altro verso rende più produttiva ogni singola “risorsa umana”. Il concetto di uso capitalistico delle macchine dà perfettamente conto del ruolo che la robotica ha ormai da diverso tempo nel processo produttivo immediato e nella sfera economica nel suo complesso.

«Il futuro del lavoro è nelle nostre mani e l’intelligenza artificiale è solo l’ultimo anello di una lunga catena di straordinari sviluppi concepiti e realizzati dall’uomo» [2]. Mi permetto una piccolissima correzione: posto l’attuale status quo sociale il futuro è sempre più saldamente nelle mani del capitale, per conto del quale gli individui realizzano la  «lunga catena di straordinari sviluppi» tecno-scientifici che concorrono a tenerci ben stretti al carro del Dominio. Nella cosiddetta fabbrica digitale, come e più che nella fabbrica “analogica”, si parla una lingua sola: quella, appunto, del capitale – e non quella dell’Algoritmo, come vuole un certo pensiero feticistico. E unità di linguaggio significa dominio totale sui lavoratori, la loro totale integrazione nelle disumane necessità del Moloch.

«Da un lato l’economia digitalizzata e globalizzata ha delle esigenze, soprattutto in termini di flessibilità e professionalità, ignote alla società industriale novecentesca, dall’altra il lavoro intrecciato sempre di più con la conoscenza da un lato, e con la dequalificazione

e la precarietà dall’altro, pongono esigenze di personalizzazione dei rapporti di lavoro che vanno al di là della mera conservazione del posto (l’istituto chiave del diritto novecentesco)» Questa «personalizzazione» non si traduce affatto in un adattamento della “tecnologia intelligente” alle qualità e alle necessità dei lavoratori, ma, all’opposto, realizza una più completa adattabilità dal lavoro vivo al lavoro morto, alla “macchina intelligente” [3]. Il comando sul lavoro da parte del capitale è dunque il perno concettuale e – soprattutto – reale che ci permette di capire la società-mondo del XXI secolo e le molteplici/contraddittorie dinamiche (economiche, politiche, geopolitiche, ideologiche, ecc.) che lo modellano e rimodellano sempre di nuovo (più che “liquida”, oggi la vita appare gassosa), e con una rapidità che può sorprendere solo chi sottovaluta la potenza sociale del Moloch.

2. Sviluppando il concetto marxiano di sussunzione reale sulla base della società capitalistica del XXI secolo, quasi “naturalmente” giungiamo all’elaborazione del concetto di sussunzione totale, ossia di una piena integrazione del lavoro vivo nella prassi del capitale, che sembra non lasciare ai lavoratori che residuali brandelli di autonomia esistenziale. Tale concetto appare adeguato, sebbene assai più problematico dal punto di vista della teoria del valore (mi riferisco alla marxiana distinzione tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo), anche quando volgiamo l’attenzione sulla sfera economica considerata nella sua compatta (e disumana) totalità sociale e sulla vita quotidiana di tutti gli individui, sempre più asservita, fin nei minimi dettagli, alle esigenze del Moloch sociale. È proprio qui, a questo livello “esistenziale”, che il concetto adorniano di composizione organica dell’individuo, elaborato dal filosofo tedesco in analogia – in realtà si tratta di ben più che di una semplice analogia – con il noto concetto marxiano di composizione organica del capitale, trova a mio avviso una sua puntuale applicazione: «Novissimum organum. È stato dimostrato da tempo che il lavoro salariato ha foggiato le masse dell’età moderna, e ha prodotto l’operaio come tale. In generale, l’individuo non è solo il sostrato biologico, ma – nello stesso tempo – la forma riflessa del processo sociale, e la sua coscienza di se stesso come un essente-in-sé è l’apparenza di cui ha bisogno per intensificare la propria produttività, mentre di fatto l’individuo, nell’economia moderna, funge da semplice agente del valore. […] Decisiva, nella fase attuale, è la categoria della composizione organica del capitale. Con questa espressione la teoria dell’accumulazione intendeva “l’aumento della massa dei mezzi di produzione a paragone della massa della forza-lavoro che li anima”. Quando l’integrazione della società, soprattutto negli stati totalitari, determina i soggetti, sempre più esclusivamente, come momenti parziali nel contesto della produzione materiale, la “modificazione nella composizione organica del capitale” si continua negli individui. Cresce così, la composizione organica dell’uomo. […] La tesi corrente della “meccanizzazione” dell’uomo è ingannevole, in quanto concepisce l’uomo come ente statico, sottoposto a certe deformazioni ad opera di un “influsso” esterno, e attraverso l’adattamento a condizioni di produzione esterne al suo essere. In realtà, non c’è nessun sostrato di queste “deformazioni”, non c’è un’interiorità sostanziale, su cui opererebbero – dall’esterno – determinati meccanismi sociali: la deformazione non è una malattia che colpisce gli uomini, ma è la malattia della società, che produce i suoi figli come la proiezione biologistica vuole che li produca la natura: e cioè “gravandoli di tare ereditarie”» [4]. Quando parliamo di mercificazione della vita umana (a partire dalla capacità lavorativa venduta e acquistata in guisa di merce) evochiamo un mondo (fatto di attività, di relazioni, di affetti, di speranze e di sogni) radicalmente disumano e disumanizzante che lascia ben poco oltre i suoi confini, i quali sono fatti della nostra stessa sostanza, e difatti nemmeno li consideriamo come tali. Quantomeno, chi è in carcere sa di essere segregato fisicamente dentro una dimensione che può toccare, vedere, annusare, concepire facilmente.

È con questa pessima realtà, che certamente non invita all’”ottimismo della rivoluzione”, che l’anticapitalista della nostra epoca deve fare i conti. Naturalmente a chi è incline alla facile depressione, è vivamente sconsigliato di approcciare il nostro respingente mondo senza una cospicua scorta di sostanze ideologiche – ma in questo caso egli si confronterebbe con un mondo che esiste solo dentro la sua testa “rivoluzionaria”. L’ideologia è l’oppio del “rivoluzionario” che soffre e non comprende: non pochi teorici della “biopolitica” condividono questa triste condizione.

Dall’organizzazione scientifica della produzione (taylorista, fordista e toyotista), siamo dunque passati all’organizzazione scientifica della vita di tutti e in tutto il mondo – essendo beninteso la scienza, insieme al suo “risvolto” tecnologico, una potente espressione del capitale. Ciò che fa della scienza della natura di questa epoca storica una scienza capitalistica non è, ovviamente (ma anche questo solo fino a un certo punto), l’oggetto del suo interesse, ossia la natura, ma i rapporti sociali dominanti che la rendono di fatto possibile e la potenza sociale (il Capitale) che la usa come un potente strumento di dominio e di sfruttamento dell’uomo e della natura. La natura capitalistica della scienza non ha dunque nulla a che fare con la volontà dei singoli scienziati: si tratta piuttosto di una determinazione oggettiva che si dà alle loro spalle e contro la loro stessa coscienza di individui desiderosi di lavorare per il bene dell’umanità.

Fin qui ho cercato di introdurre, lo ammetto un po’ alla rinfusa, alcuni concetti che adesso cercherò di chiarire.

Sussunzione formale, sussunzione reale: di che si tratta? La domanda è rivolta in primo luogo a me stesso, come retorica sollecitazione a ordinare meglio le idee, ma anche a chi non avesse ancora approfondito il fondamentale tema, con il consiglio di rivolgersi direttamente ai testi marxiani qui citati.

Nel Capitolo XIV della V Sezione del Primo libro del Capitale, Marx si sofferma sulla distinzione, reale e concettuale, che insiste tra  plusvalore relativo e plusvalore assoluto – la cui genesi egli tratta nella III Sezione (La produzione del plusvalore assoluto) e nella IV Sezione (La produzione del plusvalore relativo). In queste pagine egli nelle quali si dimostra come in regime capitalistico il processo lavorativo, che attiene all’aspetto oggettivo (tecnico, materiale, organizzativo) della produzione, è anche e fondamentalmente un processo di valorizzazione, ossia di creazione di un valore (espresso in denaro) maggiore  (un plus di valore) rispetto a quello investito nella produzione di una merce. Il concetto fondamentale da tenere bene in mente è che per Marx «La produzione capitalistica non è soltanto produzione di merce, è essenzialmente produzione di plusvalore. […] Quindi non basta più che l’operaio produca in genere. Deve produrre plusvalore. È produttivo solo quell’operaio che produce plusvalore per il capitalista, ossia che serva all’autovalorizzazione del capitale. […] Il concetto di operaio produttivo non implica dunque affatto soltanto una relazione fra attività ed effetto utile, fra operaio e prodotto del lavoro, ma implica anche un rapporto di produzione specificamente sociale, di origine storica, che imprime all’operaio il marchio di mezzo diretto di valorizzazione del capitale. Dunque, esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia» [5]. I concetti di lavoro produttivo e lavoro improduttivo, che Marx riprende dall’economia politica “classica” [6], hanno un significato solo se riferiti al modo di produzione capitalistico e non intendono esprimere alcun giudizio di valore – se non nel senso appena visto: «esser operaio produttivo non è una fortuna ma una disgrazia». Il concetto di lavoro salariato (il lavoro di cui parla anche la Costituzione Italiana all’Art 1) come maledizione sociale è al cuore della teoria marxiana del valore, e sotto questo aspetto i critici borghesi di Marx non hanno affatto torto, ovviamente sempre all’avviso di chi scrive, quando sostengono che il comunista di Treviri anche in campo economico non ha fatto scienza, ma piuttosto (tradotto nella “mia” vetusta terminologia) coscienza rivoluzionaria, coscienza di classe. Naturalmente qui si prende per buono il significato (ideologico nell’accezione marxiana del termine: pensiero falso, capovolto, “a testa in giù”) di scienza stabilito dal pensiero oggi socialmente dominante.

Purtroppo la pessima condizione dei nullatenenti non crea spontaneamente in loro una coscienza rivoluzionaria, non fa di essi una soggettività “ontologicamente” anticapitalista, come forse credono gli intellettuali sempre a caccia di nuovi “soggetti rivoluzionari” – del genere “operaio sociale”, “proletariato cognitivo” e via di seguito. Ma non divaghiamo!

Per quanto riguarda i concetti di lavoro produttivo e lavoro improduttivo, c’è da dire che la produzione e la vendita dei servizi in modalità mercantile (il servizio-merce) [7] non muta il carattere improduttivo della sfera dei servizi, la quale si appropria, sottoforma di profitto (commerciale, finanziario, genericamente “terziario”) una parte del plusvalore generato nella sfera capitalisticamente produttiva, cioè nell’industria e nel settore agricolo – distinzione, questa, puramente formale, soprattutto nel Capitalismo del XXI secolo.

Tutte le attività che per il capitale industriale rappresentano un mero costo, delle spese improduttive, pur essendo necessarie al processo di produzione considerato nella sua totalità («faux frais della produzione») [8], presto o tardi subiscono un processo di esternalizzazione che crea nuove attività per i capitali in cerca di profitti fuori della sfera industriale. La divisione sociale del lavoro si allarga e diventa sempre più complessa, finendo per rendere problematica la stessa individuazione della sua genesi, delle cause che l’hanno generata, e ciò confonde nella testa dell’economista superficiale (o volgare/triviale, per dirla con Marx) la fondamentale distinzione che passa tra attività produttive e attività improduttive – sempre capitalisticamente parlando. La complessità sul terreno economico è la madre di tutti i feticismi.

Tra l’altro, la mitizzazione feticistica dell’economia “immateriale” che domina la scienza economica dei nostri giorni, trascura una realtà che sta sotto gli occhi di tutti: la gigantesca varietà di merci che esistono oggi, la quale fa impallidire l’immane raccolta di merci di cui parlava Marx ai suoi tempi. Per non parlare della loro quantità. La continua moltiplicazione dei bisogni “artificiali” (ma sarebbe più corretto definirli senz’altro sociali) realizza la moltiplicazione delle merci chiamate a soddisfarli, e qui il marketing si fa davvero scienza sociale di prima grandezza. È sufficiente pensare, ad esempio, al numero di elementi materiali che compongono uno smartphone, per capire che soffochiamo, letteralmente e molto più di prima, dentro una «immane raccolta di merci». L’”Internet delle cose” realizza lunghissime catene del valore che coinvolgono, per ogni singolo prodotto, molti Paesi del primissimo come dell’ultimissimo mondo – pensiamo all’economia che gira intorno alla produzione del cobalto, del litio, delle terre rare, un’economia peraltro che odora molto di Imperialismo [9].

Il rapporto capitalistico di produzione (di “beni e servizi”) domina, in modo sempre più totalitario, l’intera sfera economica, ma questa realtà non ha significato il superamento della “vecchia” distinzione tra lavoro produttivo e improduttivo (e tra plusvalore e profitto, essendo il primo la base “valoriale” di ogni tipologia di profitto e di rendita): si tratta di un limite storico insuperabile perché è immanente al concetto stesso di capitale.

Il fatto che il rapporto sociale capitalistico abbia sussunto sotto di sé qualsiasi attività lavorativa, producendo anche i servizi in guisa di “merci immateriali”, non significa affatto, come già detto, che qualsiasi attività lavorativa sia diventata produttiva – almeno nell’accezione marxiana del concetto, o, ancora più precisamente, all’idea che chi scrive si è fatto di quel concetto. Non tutti i lavori sottomessi al rapporto capitalistico sono per ciò stesso lavori produttivi.  Non lo sono, a mio avviso, quei lavori che producono a favore del capitale non plusvalore ma profitto, il quale è una forma derivata (secondaria) del primo, è una sua decurtazione (pensiamo al profitto commerciale che drena una fetta del plusvalore industriale). Il lavoro che produce profitto valorizza il capitale che lo sfrutta, e in questo ristretto senso tale lavoro può essere considerato produttivo; ma questo profitto non rappresenta la creazione di nuovo valore prima inesistente nella società, anzi ne rappresenta una diminuzione, appunto perché esso sorge attingendo a un plusvalore già esistente, e in questo senso quel lavoro è da considerarsi improduttivo se considerato socialmente, che poi è il solo punto di vista che permette di apprezzare la complessa dialettica tra plusvalore e profitto, tra valorizzazione primaria (basica) e valorizzazione secondaria (derivata). Questa dialettica ha un preciso riscontro nella guerra intercapitalista per la spartizione del plusvalore (che molti capitali incamerano sotto forma di profitto, di rendita e altro) e nella contraddittoria dinamica dell’accumulazione capitalistica – un problema che qui non è il caso neanche di sfiorare. Come sosteneva Marx, con la trasformazione del plusvalore in profitto si «nasconde sempre più la vera natura del plusvalore e quindi l’effettivo meccanismo del capitale», e questo già nel processo di formazione del saggio generale del profitto, ossia nell’esistenza del capitale che opera nella sfera produttiva di plusvalore come capitale sociale – media sociale dei capitali individuali [10].

È vero che ai tempi di Marx solo poche attività generatrici di servizi erano assoggettate al rapporto capitalistico, ma la distinzione marxiana tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo non riguarda l’estensione, più o meno grande, di quel rapporto alla sfera dei servizi, ma la stessa natura di essi, il loro essere «prodotto inseparabile dall’atto del produrre» [11]. La filiera capitalistica del valore fecondato dal lavoro vivo è la seguente: pluslavoro → plusprodotto → plusvalore; ossia: tempo (di lavoro) → prodotto (del lavoro) → denaro (espressione e sintesi dell’intero processo produttivo considerato socialmente). Per essere capitalisticamente produttivo il lavoro deve produrre plusvalore, non “semplice” profitto, il quale deriva concettualmente e realmente dal primo. La definizione marxiana del lavoro produttivo non è cioè riferita né ai valori d’uso dei prodotti del lavoro (materiali o immateriali che essi siano), né al profitto genericamente inteso, ossia a un generico arricchimento del capitale che sfrutta il lavoro.

Lo sviluppo capitalistico non è riuscito a superare i limiti oggettivi immanenti alla dialettica plusvalore-profitto, e solo la gigantesca circolazione di capitale fittizio in ogni sfera economica e sociale nasconde la natura storicamente vecchia e decrepita del capitale, cosa che appare evidente nelle crisi economiche generali, quando il gigantesco castello di carta costruito con valori economici puramente nominali crolla, lasciando a terra morti e feriti – metaforici e reali. È allora che la radice “valoriale” che tiene insieme la baracca capitalistica appare in tutta la sua putrescente e limitata esistenza. Naturalmente occorrono occhi giusti per vedere l’enormità della cosa. E qui ritorniamo al concetto di coscienza di classe che abbiamo già incontrato.

«Ogni lavoratore produttivo è un salariato, ma non per questo ogni salariato è un lavoratore produttivo. Se il lavoro viene comperato per essere consumato come valore d’uso, come servizio, anziché sostituirlo, come fattore vivente, al valore del capitale variabile e incorporarlo al processo di produzione capitalistico, questo lavoro non è un lavoro produttivo ed il salariato non è un lavoratore produttivo. Il suo lavoro, allora, è consumato in ragione del suo valore d’uso, non in quanto pone valore di scambio» [12]. L’uso del lavoro improduttivo crea un servizio di qualche tipo; l’uso del lavoro produttivo, invece, conserva il vecchio valore («capitale morto») e ne crea uno interamente nuovo (plusvalore), inesistente nella società prima dell’atto produttivo, oltre naturalmente ad aggiungere il suo proprio valore («capitale variabile», salario). Il profitto che il lavoratore improduttivo permette di incassare al suo padrone, non solo non rappresenta un valore assolutamente nuovo, ma si spiega, logicamente ed economicamente, solo a partire dalla creazione del plusvalore, la cui essenziale caratteristica è quella di provenire solo dal lavoro vivo, dall’atto immediato della valorizzazione attraverso la produzione, e da nient’altro. Il plusvalore appartiene interamente alla sfera della produzione; il profitto (quando non coincide, come accadeva soprattutto nella fase infantile del capitalismo, con il profitto industriale) nasce nella sfera della circolazione, nel cui seno prende corpo la produzione dei servizi.

«Questo fenomeno, che cioè con lo sviluppo della produzione capitalistica tutti i servizi si trasformano in lavoro salariato e tutti gli esecutori di questi servizi si trasformano in lavoratori salariati, che cioè essi hanno in comune questa caratteristica con i lavoratori produttivi, permette di scambiare i due termini tanto più perché è un fenomeno che caratterizza la produzione capitalistica e che è da questa creato. D’altra parte, permette agli apologeti di trasformare il lavoratore produttivo, poiché è un lavoratore salariato, in un lavoratore che scambia semplicemente i suoi servizi contro denaro. Con ciò viene felicemente ignorata la diversità specifica di questo “lavoratore produttivo” e della produzione capitalistica – come produzione di plusvalore, processo di autovalorizzazione del capitale il cui semplice agente incorporato è il lavoro vivo. […] Certi lavori improduttivi possono incidentalmente essere collegati al processo produttivo e il loro prezzo stesso può entrare nel prezzo delle merci e quindi il denaro speso per essi può rappresentare una parte del capitale anticipato ed il loro lavoro apparire come un lavoro che si scambia non con reddito ma direttamente con capitale» [13]. È lo stesso sviluppo capitalistico basato sullo sfruttamento sempre più scientifico della forza-lavoro a creare i presupposti per un’espansione dell’area capitalisticamente improduttiva: «Lo straordinario aumento raggiunto dalla forza-lavoro produttiva nelle sfere della grande industria, accompagnato com’è da un aumento, tanto in estensione che in intensità, dello sfruttamento della forza-lavoro in tutte le restanti sfere della produzione, permette di adoperare improduttivamente una parte sempre maggiore della classe operaia» [14]. Teniamo presente che Marx scriveva nel 1867, cioè sulla scorta di una base tecnoscientifica del capitalismo che oggi ci appare “preistorica” in tutti i sensi, e quindi non bisogna sorprendersi dell’enorme rigonfiamento dell’area improduttiva dell’economia capitalistica, al contrario! Piuttosto occorre mettere questa tendenza in intima relazione con la crescita della composizione organica del capitale e con il processo allargato dell’accumulazione capitalistica, per capire come tutta questa complessa e contraddittoria dialettica incide sul saggio medio sociale del profitto e, quindi, con l’andamento dei cicli economici – con ciò che ne segue, in linea di principio, sulla dinamica politica e sociale.

Sui concetti di valore, lavoro e denaro rinvio chi legge ai miei appunti di studio raccolti in due PDF: Il dominio dell’astratto (2019), Capitale monetario e capitale operante (2014).

3. Il processo produttivo capitalistico colto nella sua totalità sociale è in effetti qualcosa di molto complesso, ma l’analisi critica dei suoi molteplici momenti consente al pensiero che si sforza di afferrarne l’essenza (il processo produttivo capitalistico come processo di produzione di plusvalore) di farsi strada nella complessità senza rimanere incagliato nella sua caotica e contraddittoria fenomenologia. Quando non si vuole fare questo sforzo, o si ha in testa un’idea (meglio, un’ideologia) che per forza si vuol fare corrispondere alla realtà, si possono scrivere passi solo apparentemente radicali come quelli che seguono: «Nel contesto bioeconomico la produzione della ricchezza (valore aggiunto o surplus) ha cha fare sia con l’attività di produzione che di riproduzione della vita sociale stessa: diventa così molto più complicato distinguere tra lavoro produttivo, riproduttivo e improduttivo». Certo, difficile, ma non impossibile, tutt’altro, e certamente lo sforzo appare fondamentale per comprendere la reale dinamica del processo capitalistico, del conflitto sociale e delle politiche “suggerite” alla politica dalle classi dominanti. Riprendo la citazione: «Il lavoro – materiale, immateriale, cognitivo, corporale – produce e riproduce la vita sociale. L’impossibilità di distinguere produzione e riproduzione implica l’incommensurabilità del tempo e del valore. Un esempio eclatante è costituito proprio dal lavoro cognitivo, nel quale il ruolo della scienza, del sapere, degli affetti e della comunicazione sono tutte variabili che influenzano la dinamica della produttività, ma la cui origine non è declinabile a livello di singolo essere umano, ma solo come esito di un processo di cooperazione sociale. È ciò che Marx definisce il “general intellect”. Secondo Marx, ad un certo punto dello sviluppo capitalistico (che Marx proietta nel futuro), la forza-lavoro verrà fortemente intrisa della scienza, della comunicazione e del linguaggio. Il General Intellect è collettivo, intelligenza sociale creata dal processo di cumulazione del sapere, della tecnologia e del “know-how”. Il General Intellect è un bene comune, il cui valore non è misurabile».[15] È corretto scrivere che si tratta di «un punto dello sviluppo capitalistico che Marx proietta nel Futuro»? No. L’analisi marxiana presuppone infatti già nel presente (seconda metà degli anni Sessanta del XIX secolo) l’esistenza del carattere sociale («collettivo») della produzione capitalistica. Per il comunista di Treviri già allora il general intellect si dava come una forma di esistenza del capitale e come una sua formidabile forza produttiva, esattamente come lo è la cooperazione del lavoro che si sviluppa su basi capitalistiche: «La cooperazione degli operai comincia soltanto nel processo lavorativo, ma nel processo lavorativo hanno già cessato d’appartenere a se stessi. Entrandovi, sono incorporati nel capitale. Dunque, la forza produttiva sviluppata dall’operaio come operaio sociale è forza produttiva del capitale. La forza produttiva sociale del lavoro si sviluppa gratuitamente appena gli operai vengono posti in certe condizioni; e il capitale li pone in quelle condizioni. […] Come la forza produttiva sociale del lavoro sviluppata mediante la cooperazione si presenta quale forza produttiva del capitale, così la cooperazione stessa si presenta quale forma specifica del processo produttivo capitalistico, in opposizione al processo produttivo dei singoli operai indipendenti o anche dei piccoli maestri artigiani. È il primo cambiamento al quale soggiace il reale processo di lavoro per il fatto della sua sussunzione sotto il capitale» [16]. Ciò che a mio avviso rende attuale, oggi più di ieri, la marxiana teoria del valore (che, è bene sempre precisarlo, è la teoria dello sfruttamento del lavoro vivo da parte del capitale mediante l’uso del capitale morto: macchine e quant’altro), è appunto il suo respiro sociale, il suo presupporre il carattere assolutamente sociale («collettivo») del capitale, e questo in un’epoca storica in cui nello stesso Vecchio Continente permanevano larghe sacche di economia precapitalistica.

È partendo da questo presupposto concettuale e reale (sebbene ai suoi tempi non ancora del tutto dispiegato) che Marx ha potuto sviluppare il fondamentale concetto di saggio medio –  sociale – di profitto che sta alla base del prezzo di produzione  e che fa della legge del valore una legge della produzione sociale in regime capitalistico. Produzione non di cose, di oggetti d’uso, ma di valore e di plusvalore, non dimentichiamolo mai – anche solo per non rimanere impigliati nel feticismo della Cosa che è anch’esso un dato strutturale (non meramente ideologico) di questa società. Ecco cosa Marx scriveva, ad esempio, a proposito della «Formazione di società per azioni»: «Il capitale, che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale, e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro, acquista qui direttamente la forma di capitale sociale contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso» [17]. Prima di andare oltre Marx, impresa peraltro ammirevole proprio perché non del tutto agevole, bisogna prima averne compreso le opere e il metodo critico-analitico, cosa che moltissimi innovatori della legge del valore mostrano di non saper fare.

Insomma, altro che «bene comune»! Piuttosto, bene del e per il capitale: «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate  in conformità ad esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» [18]. Marx non allude a una semplice tendenza storica, ma piuttosto a un modo necessario di essere del capitalismo nell’epoca della sussunzione reale del lavoro: egli si riferisce al suo presente, non al futuro. Ovviamente questa realtà non smette di svilupparsi, di approfondirsi, di radicalizzarsi, di espandersi (fino a inglobare l’intero pianeta e la nostra stessa “nuda vita”) senza tuttavia modificare i suoi tratti peculiari ed essenziali.

Ecco invece il futuro come viene fuori, sempre secondo il nostro comunista preferito, sul fondamento del presente capitalistico (e, ovviamente, dopo la rivoluzione sociale vittoriosa): «Il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa. Non appena il lavoro in forma immediata ha cessato di essere la grande fonte della ricchezza, il tempo di lavoro cessa e deve cessare di essere la misura del valore d’uso. Il pluslavoro della massa ha cessato di essere la condizione dello sviluppo della ricchezza generale, così come il non-lavoro dei pochi ha cessato di essere condizione dello sviluppo delle forze generali della mente umana. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla, e il processo di produzione materiale immediato viene a perdere anche la forma della miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque in generale la riduzione del lavoro necessario della società ad un minimo, a cui corrisponde poi la formazione e lo sviluppo artistico, scientifico ecc. degli individui grazie al tempo divenuto libero e ai mezzi creati per tutti loro. Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre il tempo di lavoro a un minimo, mentre, dall’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica misura e fonte di ricchezza. […] Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura, come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa. Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come valore il valore creato. Le forze produttive e le relazioni sociali – entrambi lati diversi dello sviluppo dell’individuo sociale – figurano per il capitale solo come mezzi, e sono per esso solo mezzi per produrre sulla sua base limitata» [19]. Tutto quello (la scienza, la tecnologia, la cooperazione sociale del lavoro, ecc.) che potrebbe emancipare i nullatenenti e, con essi, l’intera umanità, si presenta sul miserabile fondamento della società capitalistica come un formidabile strumento di dominio e di sfruttamento: solo la rivoluzione sociale anticapitalista è in grado, per Marx (e, assai più modestamente, per chi scrive), di liberare il processo di emancipazione universale oggi incatenato alla «base miserabile» di una società fondata sul «furto del tempo di lavoro altrui».

Detto solo en passant, va rilevato come nella concezione marxiana della Comunità umana (umanizzata) del futuro l’individuo («ogni individuo», «ogni membro di essa», «il libero sviluppo delle individualità») occupi il centro della scena, non sia cioè subordinato alla totalità sociale (magari rubricata come “bene comune”), come accade invece nella società capitalistica, il cui tanto propagandato “individualismo” cela la realtà di individui socializzati in senso atomistico e massificato. La libertà di ciascuno, il pieno sviluppo delle molteplici capacità individuali, la piena soddisfazione dei bisogni di ogni singolo membro della comunità: tutto questo rappresenta per Marx il fondamento di una Comunità autenticamente umana, creazione della libera e fraterna collaborazione degli individui che non conoscono la divisione classista degli individui, la divisione sociale del lavoro stabilità autoritariamente da qualcuno o da qualcosa (ad esempio, dallo stesso processo produttivo), lo Stato e tutto quello che connota una società informata da rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – la relazione di dominio di classe implica necessariamente la relazione di sfruttamento di classe, e viceversa.

«Col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo» [20]: è il Programma Comunista di Marx – e di chi scrive.

I teorici della fine del lavoro [21] ai tempi della sua robotizzazione più spinta e generalizzata, sono vittima di un grave abbaglio ideologico che spesso smotta senz’altro nel ridicolo. La centralità del lavoro vivo come esclusivo mezzo per la creazione del plusvalore è, come detto sopra, una maledetta realtà del XXI secolo che solo il pensiero incapace di profondità e radicalità critico-analitica non è in grado di comprendere. Mentre è dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso che quei fini intellettuali parlano, appunto, di fine del lavoro, decine di milioni di individui in tutto il mondo sono entrati ogni anno nella disumana dimensione del lavoro produttivo: dalla Cina all’india, dall’Africa ai Paesi cosiddetti in via di sviluppo dell’Asia, contribuendo peraltro direttamente (nel mercato del lavoro) e indirettamente (con la svalorizzazione delle merci che compongono il paniere-salario) a una brusca svalorizzazione del lavoro vivo nelle società capitalisticamente avanzate dell’Occidente. La tesi della fine del lavoro si basa su una lettura superficiale e affrettata, oltre che ideologicamente orientata, dei fenomeni che travagliano il mondo della produzione negli ultimi trenta anni, come la precarizzazione del lavoro, l’esternalizzazione delle attività non immediatamente produttive un tempo svolte dalle imprese industriali, l’accelerazione nei processi di ristrutturazione tecnologica di quelle imprese, la delocalizzazione delle multinazionali, la globalizzazione capitalistica genericamente considerata, la finanziarizzazione di molte attività economiche, e così via.

4. Capitalisticamente parlando, è produttivo solo il lavoro che produce plusvalore, e non oggetti utili alla vita degli esseri umani, secondo una classica definizione dell’economia politica volgare. Scrive Marx: «Il prodotto specifico del processo di produzione capitalistico – il plusvalore – viene creato dallo scambio con lavoro produttivo» [22]. Il corpo della merce nasconde questa essenziale verità, per afferrare la quale occorre sottoporre la forma merce a un’analisi critica per così dire antifeticistica. Per capire il concetto di plusvalore occorre pensare la giornata lavorativa (ad esempio 7 ore di lavoro) come se fosse composta dalla somma di due distinte attività lavorative: in una (della durata ad esempio di 3 ore), il lavoratore riproduce il suo proprio valore [23], nell’altra (le rimanenti 4 ore) egli produce un plus di valore che il capitalista intasca a titolo puramente gratuito. Marx chiama tempo di lavoro necessario (a riprodurre la forza-lavoro) la prima parte della giornata di lavoro (3 ore), e tempo di lavoro superfluo quello erogato nel corso della seconda (4); ovviamente quello che appare superfluo dal punto di vista del lavoratore, è assolutamente necessario dal punto di vista di chi ne usa le capacità lavorative in vista di un profitto – nel nostro esempio elementare profitto e plusvalore si equivalgono. Si tratta di due punti di vista inconciliabili, ancorché entrambi legittimi sul fondamento della società capitalistica; due differenti prospettive “esistenziali” (sociali) che stanno alla base dell’antagonismo Capitale-Lavoro immanente al concetto stesso di capitale – il quale include quello di lavoro salariato. Il fondamento oggettivo (e al contempo soggettivo, perché afferisce al solo lavoro vivo) del plusvalore è il pluslavoro, che come abbiamo visto Marx chiama anche lavoro superfluo. L’oggettivazione “cosificata” del pluslavoro si ha nel plusprodotto, secondo la filiera del valore che abbiamo già incontrata. Il plusprodotto naturalmente lo incontriamo anche nelle economie precapitalistiche, mentre il plusvalore è un prodotto tipico dell’economia capitalistica, la quale generalizza la forma-merce (a partire dal lavoro) e la forma-denaro.

Il capitalista ha due modi per incrementare il plusvalore smunto al lavoratore: o allunga in modo assoluto la giornata lavorativa (portandola, nel nostro esempio, da 7 a 8), oppure, a parità di giornata lavorativa, la allunga solo relativamente al tempo di lavoro superfluo (da da 4 a 5), il che implica necessariamente un simultaneo accorciamento del tempo di lavoro necessario (da 3 a 2). Ma come può realizzarsi questo spostamento temporale senza toccare i limiti della giornata lavorativa?  Con l’introduzione delle macchine, e non in una singola impresa, o in un solo ramo industriale, ma in tutta la sfera industriale e, in linea di principio (è la realtà del XXI secolo), in tutte le attività sociali. Infatti, l’uso delle macchine rende molto più produttivo il lavoro, riducendo in tal modo il tempo di lavoro necessario a riprodurre la vita del lavoratore – e della sua famiglia. È chiaro che qui si affaccia una dinamica storico-sociale che riguarda il processo capitalistico considerato nel suo sviluppo, nel suo incessante rivoluzionamento tecnologico e sociale, almeno a partire dalla Prima rivoluzione industriale – la cui datazione non è univoca: alcuni la fanno iniziare dal primo decennio successivo alla metà del XVIII secolo, altri ne individuano l’inizio già nel XVII secolo.

La sottomissione del processo lavorativo al capitale sulla base di un processo lavorativo preesistente e non modificato, accomuna il capitalismo dell’infanzia ai precedenti modi di produzione, tutti basati sullo sfruttamento di chi per vivere è costretto a lavorare sotto un padrone di qualche tipo.

Prima di andare avanti, ritengo utile una rapida precisazione riguardante l’uso che Marx fa del termine “capitalista”: «Il capitalista stesso è solo un detentore di potere in quanto personificazione del capitale (per cui, nella contabilità italiana, appare sempre come doppia figura, per esempio come debitore del suo proprio capitale)» [24]. Ciò che nella marxiana analisi critica della società capitalistica è essenziale non è il singolo capitalista, e nemmeno la classe dei capitalisti, ma il rapporto sociale capitalistico di produzione, il quale dà corpo, come già sappiamo, a una relazione di dominio e di sfruttamento – degli individui e della natura. Anche in questo senso per Marx non fa alcuna differenza se a sfruttare la capacità lavorativa è un singolo capitalista, un consorzio di capitalisti, oppure lo Stato come «capitalista collettivo», secondo la celebre definizione di Engels. Anche ai capitalisti il prodotto della prassi sociale considerata nella sua totalità appare come una potenza sociale che sfugge al loro controllo, come un Moloch cresciuto alle loro spalle e che essi possono vedere solo post festum, a cose fatte. Ed è per questo che la razionalità capitalistica, che si fonda su un uso sempre più esteso e capillare della tecnoscienza, in ogni attività umana, ha necessariamente come suo più autentico prodotto una condizione umana essenzialmente irrazionale. Marx tratta l’operaio e il suo padrone «come funzionari personificati» del rapporto sociale di produzione capitalistico. Ovviamente questa complessa dialettica sociale non ha lo stesso impatto sulla classe dominante, che ha tutto l’interesse a difendere il rapporto sociale capitalistico, e sulla classe dominata, che ha l’interesse esattamente opposto. Nella buia notte del dominio capitalistico non tutte le vacche hanno lo stesso colore. E infatti Marx osserva che «sbagliano coloro che intendono sussumere operai e capitalisti sotto il rapporto generale di possessori di merci facendone l’apologia e cancellando la loro differentia specifica» [25]. Un conto è la merce non vivente, un conto affatto diverso è la merce vivente (il lavoratore), il cui valore d’uso realizza la sua disgrazia sociale e la fortuna e il potere del suo acquirente – del capitalista. Su questi temi rimando al PDF Dialettica del dominio capitalistico – che vedi Testi scaricabili.

5. Con l’uso della tecnoscienza e lo sviluppo della capacità di lavoro socialmente combinata («lavoro collettivo») la società, qui considerata come una gigantesca fabbrica che produce lavoratori, accorcia dunque il tempo di lavoro necessario a produrre un lavoratore (e la sua famiglia). «Quando un singolo capitalista riduce più a buon mercato p. es. le camicie mediante un aumento della forza produttiva del lavoro, non è affatto necessario che si proponga il fine di far calare pro tanto il valore della forza-lavoro e quindi il tempo di lavoro necessario; ma egli contribuisce ad aumentare il saggio generale del plusvalore solo in quanto e per quanto finisce per contribuire a quel risultato di far calare il valore della forza-lavoro» [26]. Il singolo capitalista non lo sa, ma lo fa. La riduzione del prezzo di tutte le merci e i servizi che finiscono nel paniere che alimenta la vita dei lavoratori e delle loro famiglie presto o tardi finiscono per ridurre il prezzo della stessa capacità lavorativa, e questo causa la contrazione del tempo necessario del lavoro che consente al tempo di lavoro superfluo di espandersi senza arrecare danno alla “sana” e “civile” produzione della capacità lavorativa, del lavoratore, il quale ha bisogno di cibo, di vestiario, di alloggio, di istruzione, di qualche divertimento e di tutto quello che gli serve per vivere in quanto lavoratore.

Diminuisce il lavoro necessario a produrre i lavoratori, e cresce il pluslavoro, e quindi il plusvalore. Storicamente il rapporto tra pluslavoro e lavoro necessario tende a crescere, anche a parità di paniere-salario o con un relativo incremento di esso. Infatti, «il prolungamento del pluslavoro deve derivare dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario, e non viceversa, cioè l’accorciamento del tempo di lavoro necessario non deve derivare dal prolungamento del pluslavoro» [27]. Ovvero, e come già sappiamo, è l’accorciamento del tempo di lavoro necessario che consente al pluslavoro di crescere, perché viceversa il lavoratore non potrebbe riprodursi giorno dopo giorno come lavoratore salariato, e presto diventerebbe una risorsa inutile per il capitale.

Nel primo esempio fatto sopra (produzione di plusvalore assoluto a composizione tecnica del capitale invariata), per incrementare il plusvalore il capitalista può scegliere sia un’intensificazione del lavoro  a parità di ore lavorate che un prolungamento assoluto della giornata di lavoro, oppure può fare entrambe le cose, scelta che implica un rapido logoramento fisico e psichico della forza-lavoro, che deve essere rimpiazzata continuamente con forza-lavoro ancora “fresca”. In questo modo il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale aumenta in modo assoluto tanto per ciò che concerne il tempo (da 7 a 8 ore di lavoro), quanto per ciò che riguarda la densità del lavoro: si lavora più a lungo e di più.

Come ricorda Marx, il superamento della produzione manifatturiera [28] attraverso l’introduzione delle macchine nel processo produttivo, e quindi con la creazione della moderna industria capitalistica, in un primo momento sortì l’effetto di 1) allargare enormemente la base del lavoro vivo pronto a venir impiegato produttivamente, e di 2) declassare i lavoratori prima impiegati nella manifattura e nella produzione artigianale vera e propria. «In quanto le macchine permettono di fare a meno della forza muscolare, esse diventano il mezzo per adoperare operai senza forza muscolare o di sviluppo fisico immaturo, ma di membra flessibili. Quindi lavoro delle donne e dei fanciulli è stata la prima parola dell’uso capitalistico delle macchine! […] Le macchine, gettando sul mercato del lavoro tutti i membri della famiglia operaia, distribuiscono su tutta la famiglia il valore della forza-lavoro dell’uomo, e quindi svalorizzano la forza-lavoro di quest’ultimo. […] Così le macchine allargano fin dal principio anche il grado di sfruttamento, assieme al materiale umano da sfruttamento che è il più proprio campo di sfruttamento del capitale» [29]. Marx riporta le inchieste parlamentari e mediche ufficiali che documentavano il terribile grado di deterioramento fisico, psicologico e morale della famiglia operaia: «Come ha dimostrato un’inchiesta medica ufficiale nel 1861, gli alti indici di mortalità si devono, prescindendo dalle condizioni locali, prevalentemente all’occupazione extradomestica delle madri, donde deriva che i bambini sono trascurati, maltrattati, fra l’altro sono nutriti in modo inadatto, mancano di nutrizione, vengono riempiti di oppiacei, ecc; al che si aggiunge l’innaturale estraniamento delle madri nei riguardi dei loro figli, con la conseguenza dell’affamamento e dell’avvelenamento intenzionale» [30]. Dinanzi alla cieca brama di plusvalore del singolo capitalista, che distruggeva con sorprendente rapidità la stessa materia prima che rende possibile la creazione del valore, cioè i lavoratoti, lo Stato, in quanto organo che difende gli interessi generali del capitale; lo Stato come difensore massimo e di ultima istanza del rapporto sociale capitalistico, si vide costretto a porre degli argini legali all’«autocrazia del capitale» che non conosceva alcun limite. Si iniziò così a legiferare sull’orario massimo di lavoro, sul lavoro dei bambini e delle donne, sull’igiene nei posti di lavoro e così via, anche perché i lavoratori iniziarono a capire che interrompendo il lavoro arrecavano un grave danno ai loro padroni, cosa che dava loro una importante carta da giocare contro gli istinti più brutali del Moloch. Lo sviluppo di una coscienza di classe, sebbene ancora debole e confusa, non poteva non richiamare l’attenzione della politica, almeno della sua parte più intelligente e lungimirante, fatta di gente che capiva fino a che punto poteva essere distruttivo un capitalismo del tutto privo di regole. Fin dall’inizio il riformismo si sviluppa come il più intelligente e duttile strumento di conservazione sociale, perché non si può esercitare il potere sociale sui nullatenenti solo con il bastone. Anche la democrazia capitalistica ha questo fondamentale significato socialmente conservativo.

6. Storicamente parlando, il capitale prende possesso di una determinata attività lavorativa già esistente, ma non la trasforma radicalmente dal punto di vista tecnologico e organizzativo: il contadino e l’artigiano vengono sussunti sotto il rapporto sociale di produzione capitalistico, ma continuano a lavorare sostanzialmente come prima, senza cioè modificare di molto il loro modo di produrre e di organizzarsi. Il contadino e l’artigiano trasformati in salariati hanno, per così dire, un piede ancora dentro il vecchio mondo, quanto a strumenti di lavoro (con una dotazione tecnologica assai scarsa) e a organizzazione del lavoro, e l’altro dentro il nuovo mondo, quello capitalistico, appunto, quanto a rapporto sociale di produzione. Il lavoratore salariato, manifatturiero o agricolo che sia, conserva ancora un certo grado di autonomia esistenziale rispetto al processo tecnico-organizzativo. In questo quadro, e come abbiamo visto nell’esempio riportato sopra, se il capitale vuole estorcere al lavoratore agricolo o manifatturiero una maggiore quantità di plusvalore deve farlo lavorare più intensamente, logorandone più rapidamente le capacità psicofisiche, oppure deve usarlo (sfruttarlo) per un tempo più lungo, cosa che comunque alla lunga produce anch’essa un grave deterioramento delle capacità produttive del lavoratore. Naturalmente può fare entrambe le cose, soprattutto quando può contare su una massa quasi illimitata di forza-lavoro da cui attingere. Come già sappiamo, Marx chiama il plusvalore estorto in questa modalità plusvalore assoluto, e definisce sussunzione formale del lavoro sotto il capitale la relazione che si stabilisce tra capitale e lavoro. Il termine formale si riferisce in realtà all’essenza sociale stessa del Capitalismo, ossia alla vigenza del rapporto sociale di produzione capitalistico, la cui genesi ha come cuore pulsante il progressivo, e spesso brutale, allontanamento del produttore immediato (il lavoratore) dalle condizioni oggettive della produzione, le quali cadono, insieme al prodotto del lavoro, nell’esclusiva (monopolistica) disponibilità del capitale. Una parte del prodotto incamerato dal capitale ritorna al lavoratore sotto forma di salario. Che la proprietà delle condizioni oggettive della produzione (macchine, materie prime, edifici, mezzi di trasporto, ecc.) abbia una natura giuridica privata o pubblica (statale), ciò non muta di un solo atomo l’essenza del rapporto sociale capitalistico, il cui significato consiste nell’esistenza di esseri umani che per vivere sono costretti a vendere in guisa di merce capacità intellettuali e manuali, mercificando con ciò stesso la loro intera esistenza – e non solo la loro attività lavorativa. Il lavoro salariato non rende liberi, né dà dignità a chi è costretto a praticarlo. Questo è bene precisarlo contro gli statalisti (di “destra” e di “sinistra”) e contro gli apologeti dell’”onesto lavoro”, del salario portato a casa con il volto imperlato di sudore e la coscienza piena di dignità: miseria del pensiero etico dominante!

Scrive Marx: «La produzione del plusvalore relativo presuppone un modo di produzione specificamente capitalistico. […] Al posto della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale subentra quella reale. […] Le forze produttive del lavoro storicamente sviluppate, cioè sociali, si presentano come forze produttive del capitale al quale il lavoro viene incorporato» [31]. Il capitale si crea un ambiente tecnologico e organizzativo del tutto peculiare rispetto ai modi di produzione precapitalistici, un ambiente produttivo creato a sua immagine e somiglianza. Mentre noi possiamo benissimo concepire un capitalismo che in certe epoche o in determinate condizioni nazionali di arretratezza economico-sociale usi tecnologia storicamente superata, non possiamo invece concepire una società precapitalistica che faccia uso della tecnologia sviluppata sulla base del moderno capitalismo: questo ci suona infatti francamente anacronistico. Nell’antichità non era affatto sconosciuta la potenza straordinaria del vapore, ma essa non venne mai applicata nella produzione, la cui base tecnica continuò per secoli a basarsi soprattutto sulla forza muscolare degli uomini; la forza del vapore fu invece applicata per scopi ludici, o in attività del tutto secondarie e in ogni caso mai per soppiantare la forza umana o per renderla più produttiva: mancavo il concetto stesso di un simile uso della tecnologia. In epoca di sussunzione reale, caratterizzata dall’estrazione del plusvalore relativo, la rivoluzione del processo produttivo diventa un dato strutturale e permanente, ed è anche per questo che ha poco senso parlare oggi di quarta o quinta “rivoluzione industriale”.

Apro una breve parentesi “utopica” – relativa cioè a quello che ancora non esiste e che forse non esisterà mai, pur avendo questa “cosa” nel presente le sue solidissime premesse. Come il capitalismo si è creato un ambiente tecnologico e organizzativo adeguato alla sua natura, analogamente una futura ipotetica Comunità umana (umanizzata) non potrebbe non realizzare un ambiente produttivo a sua immagine e somiglianza. Così come c’è un uso capitalistico della tecnoscienza e una struttura organizzativa adeguata a questo uso, allo stesso modo deve esserci un  uso umano (umanizzato) delle tecnologie e una corrispondente organizzazione comunitaria del lavoro. Non esistono tecnologie e modelli organizzativi buoni per tutte le epoche storiche, e una Comunità che fosse centrata sulla piena autorealizzazione degli individui che collaborano per il bene, la felicità e la libertà di ciascuno e di tutti, saprebbe a mio avviso creare un ambiente produttivo in grado di soddisfare questo assoluto imperativo umano, accettando l’uso di determinate tecnologie e di determinati “paradigmi” organizzativi e scartandone altri. In una Comunità umana, non tutto ciò che è possibile realizzare e usare viene effettivamente realizzato e impiegato, ma solo quello che, per così dire, supera il vaglio dell’ufficio Qualità Umana. Chiudo la parentesi “utopica” e ritorno alla miseria dell’oggi.

7. Scrive Marx: «Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento, tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione, sia questo proprietario [nobile] ateniese», teocrate etrusco, civis romanus, barone normanno, negriero americano, boiardo valacco, proprietario agrario moderno, o capitalista» [32]. Marx osserva che nell’epoca della sussunzione formale (la quale, non dimentichiamolo, ha posto le basi per l’epoca successiva e ha lasciato sul corpo di quest’ultima ferite profondissime e ancora oggi sanguinanti) nel capitalista «la voracità di plusvalore si presenta nell’impulso a uno smodato prolungamento della giornata lavorativa»; e questo anche perché «il capitale, come abbiamo già osservato, è in un primo momento indifferente di fronte al carattere tecnico del processo di lavoro del quale si impadronisce: in un primo momento lo prende come lo trova» [33].

Marx trattò diffusamente il passaggio dalla sussunzione solo formale a quella reale in un quaderno che portava il titolo che segue: Libro primo. Il processo di produzione del capitale. Capitolo sesto. Risultati del processo di produzione immediato. Questo Capitolo sesto, scritto intorno al 1865 (secondo alcuni traduttori sarebbe stato scritto fra il 1863 e il 1866, secondo altri nel 1864), e che Marx non incluse nell’opera pubblicata nel 1867 (Il Capitale), rimase inedito fino al 1933; esso rappresenta all’avviso di tutti gli studiosi del Capitale un concentrato di elaborazione teorica intorno alla concezione marxiana del plusvalore davvero eccezionale. Mi unisco umilmente al loro autorevole giudizio. Leggiamone allora qualche altro passo.

La «sottomissione reale del lavoro al capitale» segnala la nascita «di un modo di produzione specificamente capitalistico (anche dal punto di vista tecnologico) sulla base del quale e con il quale si sviluppano contemporaneamente e subito i rapporti di produzione, corrispondenti al processo di produzione capitalistico, tra i diversi agenti della produzione, e, specialmente, tra capitalista e salariato. […] Le forze produttive sociali del lavoro, ovvero le forze produttive del lavoro direttamente sociale, socializzato (comunitario) mediante la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno della fabbrica, l’uso delle macchina e, soprattutto, la trasformazione del processo produttivo in utilizzazione consapevole delle scienze naturali, meccanica, chimica, tecnologica etc. per scopi precisi; […] questo sviluppo della forza produttiva del lavoro associato, in opposizione al lavoro isolato dei singoli etc., e, con esso, l’applicazione della scienza al processo di produzione immediato, tutto ciò si presenta come forza produttiva del capitale, non come forza produttiva del lavoro, nella misura in cui esso è identico al capitale. La mistificazione propria del rapporto capitalistico si sviluppa ora molto di più di quanto avvenisse o potesse avvenire nel caso della sottomissione solo formale del lavoro al capitale» [34]. La tecnica e la scienza (la tecnoscienza) vengono ad assumere un ruolo fondamentale nella sottomissione reale, a cominciare dal fatto che esse rendono possibile la creazione del plusvalore relativo attraverso una continua crescita della produttività del lavoro. Se è vero che la produzione del plusvalore relativo rappresenta il paradigma del moderno capitalismo, la creazione del plusvalore assoluto attraverso un prolungamento “fisico” (temporale) della giornata lavorativa non esce affatto dall’orizzonte capitalistico del XXI secolo, anche se questa modalità estorsiva rimane confinata nei settori industriali (agricoltura compresa) tecnologicamente meno avanzati.

A proposito: sussunzione o sottomissione? I due termini si equivalgono? Scrive Marx: «Nella manifattura e nell’artigianato [sussunzione formale] l’operaio si serve dello strumento, nella fabbrica [sussunzione reale] è l’operaio che serve la macchina. Là dall’operaio parte il movimento del mezzo di lavoro, il cui movimento qui egli deve seguire. Nella manifattura gli operai costituiscono le articolazioni di un meccanismo vivente. Nella fabbrica esiste un meccanismo morto indipendente da essi, e gli operai gli sono incorporati come appendici umane» [35]. «Gli operai gli sono incorporati come appendici umane»; «il lavoro vivo – all’interno del processo produttivo – è già incorporato al capitale»; assistiamo alla «reale incorporazione del lavoro vivo nella forma d’esistenza oggettiva del capitale», al suo «reale assorbimento» [36]: qui gira, per così dire, a pieno regime il concetto di sussunzione reale non come mera sottomissione/subordinazione del lavoro al capitale, ma soprattutto come inclusione del primo nella sfera del secondo.  Il concetto marxiano di autovalorizzazione del capitale, del capitale che valorizza se stesso senza il bisogno di qualcosa che arrivi dall’esterno, si comprende solo alla luce dell’assorbimento del lavoro vivo nel concetto di capitale. Il lavoro vivo “si fa” capitale, è capitale.

È Marx che usa due diversi termini (Subsumtion e Einreichung) per esprimere lo stesso concetto (il pieno dominio del capitale sul lavoro) oppure sono i suoi traduttori a scegliere discrezionalmente i due corrispondenti termini italiani (sussunzione e sottomissione, spesso anche subordinazione)? Penso cha la prima ipotesi sia quella corretta. In ogni caso personalmente trovo più conforme al concetto marxiano sopra richiamato il termine sussunzione, tanto più alla luce della società capitalistica del XXI secolo.

Come spiegano i dizionari, sussumere deriva dal latino sumĕre, ossia prendere, assumere. «Sussumere: nella logica formale, ricondurre un concetto nell’ambito di un concetto più generale nella cui estensione esso è compreso». È questo l’uso che di questo concetto fa la filosofia idealistica tedesca: da Kant a Hegel, passando per Schelling. Soprattutto Hegel adopera il concetto di sussunzione in modo fecondo, perché lo problematizza ponendo il focus nella relazione che insiste tra ciò che sussume (l’universale) e ciò che viene sussunto (il particolare). Marx trasporta il concetto di sussunzione definito dalla logica nell’ambito dei rapporti sociali di produzione. Il capitale domina e fa suo il lavoro non come se quest’ultimo si trovasse al suo esterno, come se gli fosse ontologicamente estraneo, ma come qualcosa che gli appartiene organicamente, come una sua fenomenologia, una realtà fatta della sua stessa sostanza. «Il lavoro vivo – all’interno del processo produttivo – è incorporato al capitale» [37]. Incorporare, portare dentro, inglobare, in una sola parola: sussumere. La relazione di sussunzione è insomma una relazione di dominio che si consuma senza residui all’interno della forma-capitale. Lo stesso antagonismo tra capitale e lavoro salariato, che sta alla base della lotta di classe nella moderna società capitalistica, “cade” a mio avviso nella dimensione concettuale e reale qui sommariamente delineata.

8. Abbiamo visto che nel passaggio dalla sussunzione formale del lavoro sotto il capitale a quella reale centrale è il concetto di uso capitalistico della scienza e della tecnologia [38]: «La scienza, come prodotto intellettuale generale dello sviluppo sociale, appare qui come direttamente incorporato al capitale. […] Nella macchina la scienza realizzata appare di fronte agli operai come capitale» [39]. E a proposito di uso capitalistico della tecnoscienza, ecco una tipica manifestazione di pensiero feticista che crede di essere un pensiero critico-radicale: «Per decenni, il movimento ambientalista anti-industriale radicale ha esposto la doppia aggressione tecno-industriale: la distruzione della natura, che è inseparabile dalla distruzione della libertà. […] Nella “guerra” contro il virus, è la Macchina che vince. La Macchina Madre ci tiene in funzione e si prende cura di noi. […] La crisi sta aprendo finestre di opportunità per il potere tecnocratico di intensificare la sua presa tecnologica. Quelli che ancora aspirano a una vita libera hanno contro di loro il tecno-totalitarismo, le masse mimetiche, la volontà di potenza. Sopravvivono su una Terra devastata. Non importa quanto sia brutta la situazione, deve rafforzare la nostra determinazione a vivere contro il nostro tempo; finché rimane possibile essere qualcuno, non solo qualcosa. Una persona, non una machina» [40]. Se non si comprende che «l’organizzazione sociale basata sul primato dell’efficienza e della razionalità tecnica» è l’organizzazione sociale che il capitale ha imposto a tutti i Paesi del mondo; se non si capisce che chi sta vincendo la partita non è «la Macchina» ma, appunto, il Capitale; che il tecno-totalitarismo è l’espressione socialmente più “sofisticata” del totalitarismo capitalistico, ossia del dominio totalitario dei rapporti sociali capitalistici; ebbene, se non si comprende questo, che rappresenta a mio avviso l’ABC di un pensiero autenticamente critico-radicale, «vivere contro il nostro tempo» rimane una vuota quanto suggestiva frase che non si avvicina di un solo millimetro alla verità delle cose – e quindi all’elaborazione di una prassi politica adeguata a questa epoca storica.

«Del macchinario si abusa per trasformare l’operaio stesso, fin dall’infanzia, nella parte di una macchina parziale», scrive Marx analizzando il modo in cui le «potenze mentali» della scienza si sono trasformate in poteri del capitale sul lavoro» [41]. Questo solo per dire che non viviamo in una «società tecno-industriale» astrattamente considerata, priva di una peculiare determinazione storico-sociale: viviamo in una società capitalistica dalle dimensioni planetarie – ma forse il Collettivo francese qui citato è vittima della menzogna colossale che riguarda il “socialismo reale” (leggi: reale capitalismo), la cui «società tecno-industriale» non era (e non è: vedi la Cina di Xi Jinping!) poi meno cattiva di quella occidentale.

 

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[1] «Nel lavoro taylorista la produttività era legata all’implementazione da parte dell’operaio del modello ‘scientifico’ dell’attività lavorativa ritenuto più efficiente e stabilito dalla direzione. Il modello era composta da una serie di atti finalizzati alla realizzazione ‘razionale’ del prodotto, cioè col maggiore risparmio di tempo e quindi al minor costo possibile. Finalità di efficienza ovviamente presenti, anzi incrementate con quella della qualità del prodotto, nell’Industria 4.0. Ma il fordismo, dal punto di vista dell’operaio, era il trionfo del comportamentismo, gli stati mentali venivano sempre dopo, mentre nel 4.0 si pone al centro la questione del coinvolgimento emotivo e personale del lavoratore, valorizzando al massimo questo tipo di obiettivi già avanzati nei decenni precedenti dalla lean production. D’altra parte, senza partecipazione attiva non è possibile implementare l’innovazione. L’innovazione tecnologica richiede in maniera non occasionale e strutturale il “coinvolgimento” e la “partecipazione” del lavoratore» (G. Mari, Introduzione a Il lavoro 4.0 La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, p. XXX Firenze University Press, 2018).
[2] Il futuro del lavoro tra intelligenza artificiale e automazione, Industria Italiana, 18 ottobre 2018.
[3] G. Mari, Introduzione a Il lavoro 4.0 La Quarta Rivoluzione industriale e le trasformazioni delle attività lavorative, p. XXIV.
[4] T. W. Adorno, Minima moralia, p. 278, Einaudi, 1994.
[5] Karl Marx, Il Capitale, I, p. 556, Editori Riuniti, 1980.
[6] «Nel quarto libro di quest’opera, che tratterà la storia della teoria, si vedrà più da vicino come l’economia classica abbia sempre fatto della produzione del plusvalore la caratteristica decisiva dell’operaio produttivo. E quindi la sua definizione dell’operaio produttivo varia col variare della sua concezione della natura del plusvalore. Così i fisiocrati dichiararono che solo il lavoro agricolo è produttivo, perché esso soltanto fornisce un plusvalore. Ma il fatto è che per i fisiocrati il plusvalore esiste esclusivamente nella forma di rendita fondiaria» (Ibidem, p. 556). I manoscritti marxiani che trattavano la storia della teoria del plusvalore vennero pubblicate da Karl Kautsky tra il 1905 e il 1910, col titolo di Teorie del plusvaloreStoria delle teorie economiche, Einaudi, 1954.
[7] «La produzione capitalistica rende la merce la forma generale di ogni prodotto» (Karl Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 96, Newton Compton, 1976). Di ogni prodotto, “materiale” o “immateriale” che sia.
[8] «In quanto forma ibrida che si colloca tra la sfera produttiva e quella della circolazione, il settore della logistica merita una trattazione particolare, che qui è il caso di tralasciare. […] Scrive Marx: “L’industria dei trasporti costituisce da un lato un ramo autonomo della produzione, e perciò una particolare sfera di investimento del capitale produttivo. D’altro lato, si distingue perché appare come la continuazione di un processo di produzione entro il processo di circolazione e per il processo di circolazione» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 156, Editori Riuniti, 1980). […] Per Marx il mutamento di luogo dell’oggetto di lavoro è assimilabile a un mutamento nella sostanza di questo stesso oggetto, e questo perché “il valore d’uso delle cose si attua soltanto nel loro consumo, e il loro consumo può rendere necessario il loro mutamento di luogo, cioè l’aggiunto processo di produzione dell’industria dei trasporti. […] All’interno di ogni processo di produzione il mutamento di luogo dell’oggetto di lavoro e i mezzi di lavoro e le forze-lavoro a ciò necessari – ad es., cotone che dalla sala di cardatura passa alla sala di filatura, carbone che dal pozzo viene portato alla superficie – hanno una parte di grande importanza. Il passaggio del prodotto finito in quanto merce finita da un luogo di produzione autonomo in un altro da questo spazialmente distante mostra lo stesso fenomeno, solo su una scala più grande. Al trasporto dei prodotti da un luogo di produzione in un altro segue ancora quello dei prodotti finiti dalla sfera della produzione nella sfera del consumo. Il prodotto è pronto per il consumo solo quando ha compiuto questo movimento” (ibidem, p. 154)» (S. Isaia, Dacci oggi il nostro pane quotidiano, 2012, pp. 131-133, 2012).
[9] «Tutti noi oggi facciamo largo uso di cellulari, tablet, computer portatili e altri dispositivi elettronici portatili e tutti noi spesso imprechiamo a causa della scarsa durata delle batterie al litio ricaricabili che li fanno funzionare. Pochi di noi però hanno la consapevolezza del fatto che il cobalto, elemento grazie al quale si riesce a produrre quelle batterie, viene ottenuto attraverso il lavoro sottopagato e inumano di adulti e bambini nelle miniere della Repubblica democratica del Congo» (La repubblica, 27 gennaio 2016). «La Repubblica Democratica del Congo produce più del cinquanta per cento del cobalto di tutto il mondo e secondo un recente rapporto disponibile su ResearchGate circa il venti per cento viene estratto a mano con un processo chiamato “estrazione artigianale e su piccola scala”. La restante parte viene prodotta in miniere industriali su larga scala solitamente di proprietà di aziende straniere, principalmente cinesi. Il settore di estrazione mineraria in Congo dipende dal lavoro minorile, e i bambini svolgono i lavori più pericolosi tra cui lo scavo dei tunnel in miniere di cobalto arretrate» (Lifegate, 25 giun 2020). Questo sempre a proposito di capitalismo intelligente – fin troppo intelligente!
[10] K. Marx, Il Capitale, III, pp. 208-209, Editori Riuniti, 1980.
[11] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 76. «In generale, i lavori di cui si fruisce solo in quanto servizi, malgrado possano essere sfruttati direttamente in modo capitalistico, non si trasformano in prodotti separabili dagli operai ed esistenti come merci autonome al di fuori di essi. […] [Questi lavori] vanno trattati nella categoria del lavoro salariato che non è nello stesso tempo lavoro produttivo» (pp. 72-73). «La definizione del lavoro produttivo (e perciò anche del lavoro improduttivo, come suo contrario) poggia sul fatto che la produzione del capitale è produzione di plusvalore ed il lavoro da essa impiegato è un lavoro che produce plusvalore, […] che il fine della produzione capitalistica sia il prodotto netto, di fatto puramente nella forma del plusprodotto, in cui si rappresenta il plusvalore, deriva dal fatto che la produzione capitalistica è essenzialmente produzione di plusvalore (pp. 77-78).
[12] Ibidem, p. 69.
[13] Ibidem, pp. 70-71.
[14] K. Marx, Il Capitale, I, p. 491.
[15] A.  Fumagalli, Scambio di lavoro, conoscenza e bioeconomia, in Autori vari, Atti del workshop internazionale Lavoro cognitivo e produzione immateriale. Quali prospettive per la teoria del valore?, p. 29, Università di Pavia, 2005.
[16] K. Marx, Il Capitale, I, pp. 374-376.
[17] K. Marx, Il Capitale, III, p. 518, Editori Riuniti, 1980.
[18] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), II, p. 403, La Nuova Italia, 1978.
[19] Ibidem, 401-402.
[20] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 36, Editori Riuniti, 1972.
[21] Per Andrè Gorz, uno degli esponenti di punta di quella scuola di pensiero, «la crisi della misurazione dell’orario di lavoro genera inevitabilmente la crisi della misurazione del valore», cosa che starebbe appunto portando alla rapida estinzione del lavoro umano, sostituito dal “lavoro” dei robot. «La ricchezza sociale prodotta è un bene collettivo nella creazione del quale il contributo di ciascuno non è mai stato ed è oggi meno che mai misurabile, e il diritto a un reddito sufficiente, incondizionato e universale equivale, in fin dei conti, alla messa in comune di una parte di ciò che è prodotto in comune, consapevolmente o no» (A. Gorz, L’Immateriale, p. 72, Bollati Boringhieri, 2003). Anche qui troviamo la “bizzarra” concezione della ricchezza sociale capitalistica come «bene collettivo». Posso anche condividere la rivendicazione di un reddito, di un sussidio per disoccupati e precari, soprattutto se questa rivendicazione è veicolata attraverso la lotta autonoma dei diretti interessati; è l’ideologia che c’è dietro molte di queste rivendicazioni che non mi sento di condividere affatto. Sul “capitalismo cognitivo” rimando ad alcuni PDF: Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
[22] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 71.
[23] «Il valore d’un uomo è, come per tutte le altre cose, il suo prezzo; vale a dire, quanto si per usare la sua forza» (T. Hobbes, Il Leviatano, citato da K. Marx, Il Capitale, I, p. 203).
[24] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 81.
[25] Ibidem, p. 91. «Per dimostrare che il rapporto tra capitalista e operaio non è altro che un rapporto tra possessori di merci che si scambiano vicendevolmente denaro e merce con vantaggio reciproco e mediante un libero contratto, basta isolare il primo processo e pervenire al suo carattere formale. Questo semplice trucco non è stregoneria, ma rappresenta l’intero patrimonio di sapienza dell’economia volgare» (ibidem, p. 31). Il trucco consiste appunto nel considerare la merce-lavoro solo dal punto di vista del suo valore di scambio, espresso nel salario, tralasciando di considerarne il valore d’uso, ossia il suo consumo nel processo produttivo, che è in primo luogo un processo di valorizzazione, ossia di sfruttamento, sia che la paga sia “alta”, sia che la paga sia “bassa”. «Il salario reale può rimanere immutato, anzi può anche aumentare, e ciò nonostante il salario relativo può diminuire. […] Quantunque l’operaio disponga di una maggiore quantità di merci che non prima, il suo salario però è diminuito in rapporto al guadagno del capitalista. […] Se dunque con il rapido aumento del capitale aumentano le entrate dell’operaio, nello stesso tempo però si approfondisce l’abisso sociale che separa l’operaio dal capitalista, aumenta il potere del capitale sul lavoro, la dipendenza del lavoro dal capitale. […] La situazione materiale dell’operaio è migliorata, ma a scapito della sua situazione sociale. L’abisso sociale che lo separa dal capitalista si è approfondito» (K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 64-68, Newton, 1978). «Il sistema del lavoro salariato è un sistema di schiavitù e di una schiavitù che diventa sempre più intollerabile nella misura in cui si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro, tanto se l’operaio riceve paghe migliori, tanto se ne riceve di peggiori» (K. Marx, Critica al programma di Gotha, p. 49, Savelli, 1975).
[26] K. Marx, Il Capitale, I, p. 355.
[27] Ibidem, p. 353.
[28] Marx colloca storicamente il periodo della manifattura, «come forma caratteristica del processo di produzione capitalistico», tra la metà del secolo XVI e l’ultimo terzo del secolo XVIII, e descrive il processo attraverso il quale la divisione del lavoro si trasforma in una struttura sociale consolidata, in «un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini. […] Questa base tecnica ristretta esclude una analisi realmente scientifica del processo di produzione» (ibidem, p. 381). Tuttavia è nel periodo manifatturiere che avviene il progressivo superamento della cooperazione semplice in direzione di una cooperazione sempre più caratterizzata dalla presenza delle macchine nel luogo di lavoro, con ciò che ne seguì in termini di divisione del lavoro e di subordinazione del lavoratore alle macchine.
[29] Ibidem, pp. 437-438.
[30] Ibidem, p. 441. A proposito del consumo sempre più diffuso dell’oppio «fra le operaie e gli operai adulti e anche nei distretti agricoli», così che i droghieri consideravano gli oppiacei «l’articolo di più facile smercio», Marx commenta con amara ironia: «Ecco la vendetta dell’India e della Cina contro l’Inghilterra» (p. 443). Una vendetta che colpiva soprattutto il “popolo degli abissi”, affamato e degradato a tal punto da cercare una via di fuga nello stordimento dei sensi: evidentemente, la religione come «oppio dei popoli» non dava alcun sollievo al popolo lavoratore…
[31] Ibidem, pp. 557-563.
[32] Ibidem, p. 269.
[33] Ibidem, pp. 271-283.
[34] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, pp. 51-52.
[35] K. Marx, Il Capitale, I, p. 467.
[36] K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo VI inedito, p. 80-87.
[37] Ibidem, p. 80.
[38] Su questo tema rinvio al PDF Sul potere sociale della scienza e della tecnologia (2017).
[39] Ibidem, pp. 81-83.
[40] Contro l’organizzazione scientifica del mondo, intervista a Pièces et main d’œuvre, La Décroissance, estate 2020. «Parts and Labour, spesso abbreviato in PMO, è un gruppo con sede a Grenoble impegnato in una critica radicale della ricerca scientifica, del complesso militare-industriale, della cardatura, dell’industria nucleare, delle biotecnologie e delle nanotecnologie» (Wikipedia).
[41] Il Capitale, I, pp. 466-467.

MA IL PCI DI GRAMSCI E TOGLIATTI NON NACQUE A LIVORNO

Il supplemento letterario del Corriere della Sera, curato oggi da Marcello Flores, ci porta a visitare, per così dire, il centenario della “mitica” scissione di Livorno, ma lo fa seguendo una strada poco battuta, per non dire altro, dalla storiografia nostrana, in larghissima parte di matrice gramsciana/togliattiana. Tra le poche eccezioni si segnala certamente la Storia del PCI di Giorgio Galli, scomparso lo scorso 27 dicembre (*).

Scrive Flores: «1921. Fra i militanti che aderirono cento anni fa alla scissione del PSI da cui nacque il PCI nella città toscana, molti furono poi vittima del terrore staliniano in URSS. I comunisti fucilati furono 23, 12 morirono di stenti nei lager, e altri 12 arrestati e deportati riuscirono a sopravvivere. Alla repressione parteciparono anche Togliatti e i dirigenti italiani che segnalarono gli elementi eretici sospetti di eresie trotzkiste e bordighiste». E, infatti, furono gli “eretici” a fondare il Partito Comunista d’Italia (non Italiano) come sezione nazionale dell’Internazionale Comunista. Com’è noto, la storia la scrivono i vincitori, e alla fine del ciclo rivoluzionario che si era aperto nel 1914 con lo scoppio della Grande Guerra Imperialista, e che ebbe nel nostro Paese un’impennata nel “biennio rosso” 1919-20, l’alloro della vittoria andò ai molti nemici degli “eretici”: fascisti, socialisti, liberaldemocratici, stalinisti…

Insomma, oggi la Repubblica Italiana celebra i vincitori (i padri, i figli e i nipoti dello stalinismo con caratteristiche italiane), non certo gli “eretici”, gli sconfitti, com’è del resto ovvio. Sulla Verità (Pravda, in russo… ) Antonello Piroso si chiede invece cosa ci sia da celebrare, e offre ai lettori una «Guida ragionata per non partecipare alle celebrazioni dei 100 anni dalla nascita del Partito comunista italiano». Un Partito, continua Piroso, che eccelleva nell’arte della menzogna: «Connivenza con lo stalinismo? Ma quando mai. Il silenzio sulla repressione in Ungheria nel 1956 e in Cecoslovacchia nel 1968? Passiamo oltre. Si arrivò alla peraltro contorta ammissione berlingueriana solo nel 1981: “La capacità di rinnovamento delle società dell’Est ha esaurito la sua spinta propulsiva”». Sic! E che comicità involontaria!

Si è già capito, spero, che chi scrive non ha bisogno della «Guida ragionata» del simpatico giornalista (il quale ovviamente dà per scontata l’identità sostanziale tra comunismo e stalinismo) per assumere un’adeguata “postura” nei confronti della celebrazione Repubblicana qui brevemente richiamata.

(*) Scriveva Giorgio Galli nella sua Storia del PCI a proposito del Comitato esecutivo del partito comunista a guida gramsciana (1925): «Il linguaggio, che riecheggia quello dell’apparato staliniano che in quegli stessi mesi sta preparando il terreno per il XIV Congresso del partito che ormai controlla, corrisponde a un nuovo concetto per il quale i dirigenti in carica si identificano col partito. […] Dunque, da nemico della Centrale, cioè del partito, l’oppositore [l’antistalinista] è già trasformato in “agente provocatore”. E alle parole seguono i provvedimenti disciplinari: nel giugno Ugo Girone viene espulso. […] Nello stesso mese di luglio Terracini viene arrestato, ma in agosto Togliatti, scarcerato per amnistia, torna a fianco di Gramsci per dirigere con lui la battaglia contro le superstiti velleità bordighiane. […] Alla presunta ragione che la Russia conferiva all’argomentazione di Gramsci, la grande maggioranza dello stato dirigente del Pci sacrificò il principio dell’esame critico, tollerando le falsificazioni e le sopraffazioni» (Storia del PCI, pp. 112-118, Bompiani, 1976). «Soltanto con il III Congresso di Lione del 1926, Gramsci scalzerà definitivamente Bordiga dalle posizioni di predominio, dentro il Pci, avviando quella pericolosa deriva verso l’imitazione dei modelli staliniani che minerà a fondo l’indipendenza e l’originalità del partito italiano» (Gino Longo, figlio del più celebre Luigi; cit. tratta da R. Festorazzi, Rivoluzionari. Il secolo comunista raccontato da Gino Longo, p. 20, Pietro Macchione Editore, Varese, 2016). La leggenda metropolitana del Gramsci antistalinista della prima ora non regge un solo istante alla prova dei fatti – ha invece retto benissimo alla luce dell’ideologia togliattiana.

IL PASSAGGIO ALL’ATTO SECONDO MANUEL DE PEDROLO

Si deve sapere che cosa si vuole e che lo si vuole.
(F. Nietzsche).

Esistono delle situazioni – tragiche situazioni –
nelle quali è impossibile agire senza attirare su
di sé una colpa (G. Lukács).

Non c’è legge, vi dico. La città ne vuole una nuova…
Tutti si sono chiusi in casa, persino la polizia.
(M. De Pedrolo).

Quella che segue non è una recensione, ma una “libera” riflessione sollecitata dalla lettura del bel romanzo di Manuel De Pedrolo Atto di violenza (Paginaotto, 2020), finito dallo scrittore catalano nel 1961 e pubblicato solo dopo la morte del dittatore Francisco Franco (1975), dopo anni di ostinata censura da parte del regime (1). Nonostante tutto, l’opera di Pedrolo vince il premio Prudenci Bertrana nel 1968 con un titolo differente ma molto significativo ed evocativo: Estat d’excepció. Ed è un vero e proprio stato di eccezione che si realizza nella città “immaginaria” governata con il pugno di ferro dal Giudice Domina; una lacerazione nel tessuto della normalità che si compie sotto l’egida di una parola d’ordine tanto semplice quanto socialmente “impattante”: «È molto semplice: restate tutti a casa». Qui forse trovano appiglio le parole di Slavoj Žižek tratte da un suo saggio del 2007: «Talvolta, non fare nulla è la cosa più violenta da fare. Meglio non fare nulla che impegnarsi in atti che in definitiva servono a far funzionare meglio il sistema».

L’intellettuale sloveno non alludeva all’astensione dal lavoro, come nel caso presentato da Atto di violenza, ma a quella dal voto: «L’astensione dal voto si pone come un autentico atto politico: ci obbliga a confrontarci con la vacuità delle odierne democrazie» (La violenza invisibile, Rizzoli, 2008). Personalmente sono da sempre un “astensionista strategico” e un critico radicale della democrazia capitalistica, e quindi non faccio fatica a comprendere la «vacuità delle odierne democrazie» di cui parla Žižek e la straordinaria portata politica dell’idea da egli fatta balenare – peraltro sulla scia di un romanzo di Josè Saramago, Saggio sulla lucidità (Einaudi, 2004), nel quale si narra appunto di una tornata elettorale che, tra astensionismo e schede nulle, evoca agli occhi dei politici (tanto di “destra” quanto di “sinistra”) lo spettro della delegittimazione del sistema democratico nel suo insieme.

Il romanzo di De Pedrolo e il saggio di Žižek mettono insomma al centro della riflessione la violenza oggettiva del Potere, sia quella visibile, legata immediatamente al potere politico e ai suoi “dispositivi” di controllo e di repressione, sia quella invisibile, della quale «è necessario tenere conto se si vuole trovare una spiegazione a quelle che altrimenti sembrano esplosioni “irrazionali” di violenza soggettiva» (La violenza invisibile). La realtà è che il corpo sociale trasuda violenza sistemica (politica, fisica, psicologica, “esistenziale”) da tutti i pori, in alto come in basso, al centro come alla sua periferia e, cosa molto difficile da accettare per il pensiero comune, con stringente necessità. È con questa verità davvero sconvolgente che ci confrontiamo tutti i giorni. Il fatto che nella routine quotidiana appariamo tutt’altro che sconvolti, è forse l’elemento più inquietante della nostra attuale tragica condizione umana – e di certo ciò che alimenta il sempre più rigoglioso commercio di psicofarmaci e il mercato delle razionalizzazioni “pur che sia”. Come diceva Friedrich Nietzsche, quando si ha a che fare con l’ignoto «è meglio una spiegazione qualsiasi che nessuna spiegazione»: «Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza. Ciò che è ignoto equivale a pericolo, inquietudine, pena – il primo istinto è quello di eliminare queste sgradevoli situazioni» (Il crepuscoli degli idoli). Forse ciò che più irrita e destabilizza lo scienziato che ama sparare a palle incatenate sulle ridicole certezze dei “negazionisti” (ad esempio sul Coronavirus, sui vaccini, eccetera) e dei “complottisti” è il fatto che la sua merce razionalizzante è considerata da tante persone alla stregua di qualsiasi altra merce avente lo stesso “valore d’uso”. Nella notte dell’irrazionalità capitalistica, tutte le razionalizzazioni appaiono accettabili, purché esse raggiungano lo scopo, come ci conferma il filosofo e fine psicologo già citato: quando si tratta «di liberarsi da rappresentazioni opprimenti, non si guarda troppo per il sottile circa i mezzi per liberarsene». Ma qui si divaga! Forse.

Il luogo (o location, visto il «taglio quasi cinematografico» del racconto) immaginato da Pedrolo per la sua storia ricorda molto da vicino la Spagna (soprattutto ricorda Barcellona) alle prese con il tardo franchismo, un regime desideroso, per così dire, di avviare una stagione di “riforme” sociali e politiche necessarie alla modernizzazione capitalistica del Paese e alla stessa sopravvivenza di una classe dirigente che sente di non aver più alcuna solida base sociale su cui contare né una sponda politica internazionale che le facesse da supporto e da scudo; un regime ormai declinante eppure ancora così violentemente repressivo nei confronti degli oppositori politici e sociali. “Riformismo”, certo, ma dall’alto e con giudizio. La “lunga transizione” alla democrazia in Spagna non fu certo un pranzo di gala, sebbene l’epoca franchista si concludesse in modo abbastanza ridicolo, cioè con il fallito golpe del 23 febbraio 1981. Mi fa ancora ridere il ricordo del tenente colonnello Antonio Tejero Molina che si aggira spaesato alla Camera dei deputati di Madrid mentre agita nervosamente la pistola d’ordinanza in direzione dei deputati che cercano riparo sotto i loro scranni. Il poverino, esponente fantasmatico di una Spagna che non esisteva più, non solo scambiò la Camera dei deputati per il vero centro del Potere, ma soprattutto non capì come l’Esercito spagnolo, del quale credeva di essere un’avanguardia, fosse diventato lo strumento e il supporto di una borghesia desiderosa di partecipare al grande gioco del business globale, e sicuramente di quello europeo – magari sotto le ali protettive della Germania (2).

«Caratterizzato fortemente dai temi della disobbedienza civile, dello sciopero e del conflitto, Acte de violència non solo si scontra con lo zelo censorio del regime ma non si trova in sintonia neppure con l’opposizione rappresentata dal PCE, ormai passato a sostenere la politica di riconciliazione nazionale» (Catalunyasenzarticolo). E dove c’è «riconciliazione nazionale», c’è reazione, controrivoluzione, conservazione sociale, e su questo terreno franchismo e stalinismo (con caratteristiche spagnole) si davano la mano. La stessa cosa vale per l’Italia e per il PCI, beninteso.

Nelle pagine di Atto di violenza viene insomma fuori con forza il violento tramonto di un’epoca. Scrive Paco Camara su Courmayeur noir in festival: «Franco muore il 20 Novembre 1975 (quel giorno ci fu il massimo consumo di champagne di tutta la storia della Spagna), ma non si può dimenticare che soltanto due mesi prima aveva firmato ancora cinque condanne a morte. Cinque antifranchisti morirono fucilati». L’ultimo ordine impartito dal Giudice Domina in fuga dalla città insubordinata descritta da De Pedrolo riguarda la fucilazione di un giornalista: «Un uomo come me non si può permettere debolezze! Né adesso né mai! Non voglio che la storia mi giudichi per un’azione da perdente. Fucilatelo». Non sappiamo se l’ordine è stato eseguito dagli ex collaboratori di un perdente che non vuole arrendersi alla realtà: «Non sto scappando! Ho pianificato tutto, ricomincerò come quindici anni fa, dalle montagne se necessario…». Ci penserà, suo malgrado, Batxera, l’autista incaricato di mettere in salvo l’ex uomo forte in fuga, a mettere fine alla vicenda del Giudice Domina con la sola pistolettata che De Pedrolo concede nel suo racconto a favore dei subordinati. «Ero pronto a portarla alla Casetta Verde, alla frontiera, dove avesse voluto. Non ho mai avuto l’intenzione di ucciderla. […]«Perché non ha scelto di andare via davvero? Perché? Perché questa ambizione distruttiva? La città non vuole sangue, vuole vivere…». Poi la pistola che impugna Batxera si abbassa verso il «maledetto vigliacco» che adesso implora clemenza mentre anche il cielo piange, non si sa per tristezza o per gioia; parte un colpo, poi «una seconda vampa esplode, precisa e totale, nell’oscurità della sua carne lontana, che non sentirà mai più la pioggia».

«È molto semplice: restate tutti a casa»: come suona male, malissimo, questa “parola d’ordine” in tempi di pandemia e di segregazione domiciliare imposta alla gente dal governo! Lo stesso effetto deve aver fatto ad Alberto Prunetti, il quale nella sua Postfazione al racconto di De Pedrolo scrive: «Chiudo questo prologo pensando alle strade vuote dei giorni del Covid. Non è l’idea di Atto di violenza ma sarà impossibile, sfogliandolo, che certi ricordi recenti del nostro confino domestico non vengano a galla. Leggiamo De Pedrolo e chiediamoci quanto le nostre democrazie siano diverse da quello spettacolo fatiscente di potere che Domina offriva ai suoi sottoposti. E se ci obbligano di nuovo a chiuderci a casa, bene, stiamo a casa, ma rifiutiamoci di lavorare. Niente telelavoro, niente dirette web, niente didattica a distanza, niente cura. Per vedere l’effetto che fa». Stando in casa oppure altrove (nelle strade, nei posti di lavoro, ovunque esercitiamo le nostre molteplici attività lavorative e ricreative) rifiutiamoci di collaborare con il Potere: «Per vedere l’effetto che fa»! In ogni caso, lo stare in casa del libro in questione si configura come un atto di insubordinazione e di liberazione, anche psicologica, non certo di confinamento obbligato (o lockdown, nella sua espressione “neutrale”, cioè ipocrita) come quello che ci tocca vivere in questi cupi giorni. «A pensarci bene, è ammirevole che, impauriti o no, tutti quanti abbiamo deciso di ribellarci al Giudice. Perché questa è ribellione»: come invidio i ribelli di De Pedrolo!

Come si può immaginare oggi una rivoluzione sociale? Credo che il libro di De Pedrolo abbia a che fare, di fatto, “oggettivamente”, attraverso i mille fili invisibili che legano le esperienze del passato a quelle del presente, con questa domanda di eccezionale portata storica, sociale e politica. Questo libro ha a che fare anche con la risposta a questa domanda così impegnativa? Questo non so dirlo, anche perché la trasformazione sociale che aveva in testa il suo autore è probabilmente molto diversa da quella che ho in testa io; nondimeno subisco il fascino dell’idea che sta al centro di questo romanzo “utopico”: l’azione di insubordinazione collettiva che disorienta il Potere e gli toglie qualsiasi fondamento sociale, qualsiasi legittimazione politica o di altro tipo. Certo, poi si tratta, appunto, di precisare la natura di questo potere, di chiarire come dovremmo “declinarlo” per averne un’adeguata comprensione; e si tratterebbe anche di chiarire in vista di che cosa intendiamo superare lo stato di cose esistente, o Potere che dir si voglia. Ma entrare nel merito di queste importanti “problematiche” ci condurrebbe, forse, troppo fuori tema, e di certo non mancherà occasione di ritornarci sopra – anche perché i miei modesti scritti non sono che una variazione su un unico tema: la vigenza del Dominio e la possibilità di metterlo definitivamente fuori dalla dimensione storica. Ho scritto Dominio, non Domina.

Leggendo il romanzo di Manuel De Pedrolo, mi è tornato subito alla mente quello che scrisse Marx in una sua lettera a L. Kugelmann datata 11 luglio 1868: «Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane, ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa». In fondo, di cosa parla essenzialmente il libro di De Pedrolo se non di una sospensione generale del lavoro orientata a rendere impraticabile la vita normale di una comunità, e per questa via privare il potere politico di ogni sua ragion d’essere, e così costringerlo ad abbandonare la scena? Disertare le fabbriche, disertare gli uffici, disertare le scuole, disertare i negozi e ogni altra attività che possa in qualche modo sostenere, appunto, la normalità del vivere e con essa il Potere che se ne nutre. Astenendosi dal lavoro, il “popolo” apre di fatto, “oggettivamente”, le porte all’evento eccezionale che improvvisamente svuota di contenuti sostanziali il regime, che ad un tratto scopre di essere un colosso dai piedi d’argilla. La tradizione cinese parla di «revoca del mandato popolare». Purtroppo i limiti di questa revoca stavano nel fatto che a un Imperatore “revocato” (spesso con la violenza) dal popolo seguiva un altro Imperatore, e così via lungo i secoli e sempre sotto l’attenta sorveglianza delle Potenze Celesti, perché da quando si dà storia delle civiltà tutto ciò che accade, accade sotto il Cielo – del Dominio. Chi prenderà il posto del Giudice Domina, caduto in disgrazia dopo quindici anni di incontrastato potere? Questo non lo sapremo mai!

Su quegli anni “controversi” conosciamo però il giudizio di Tara, un capitalista di “destra” alle prese con lo sciopero dei suoi operai: «Mai, sentimi bene, mai c’era stata una legislazione tanto progressista! Durante i quindici anni di cui parli abbiamo fatto un balzo in avanti che neppure i più ottimisti si azzardavano a sperare». Tara discute con il suo socio Bran, un capitalista di “sinistra”, il quale ascoltando l’adirato collega ride e scuote il capo: «No, Tara, no! Queste sono tutte chiacchiere. Per progresso sociale intendo non solamente il miglioramento delle condizioni materiali degli operai e di tutti quanti. […] L’uomo non vive di solo pane… Persino noi vogliamo qualcosa di più». Perle di saggezza progressista che però non schioderanno il collega reazionario dalle sue convinzioni, peraltro subito soddisfatte dall’arrivo della polizia nella fabbrica vuota di operai: «Tenente Orsia, delle forze di polizia. Abbiamo l’ordine di fare un rapporto su tutti i vostri operai che non si sono presentati al lavoro». Tara non si fa pregare: «”Sì. Entrate, entrate!”. Mentre l’altro poliziotto accosta la porta alle sue spalle, il tenente spiega: “L’ordine non riguarda soltanto la sua azienda, signor Flixa; sono stati presi provvedimenti per tutte le imprese con più di cinquanta Lavoratori”. Il sorriso di Tara si accentua.“Naturalmente. E, se me lo consente, le dirò che era ora”. Indica le poltrone. “Ma, prego, accomodatevi mentre cerchiamo l’elenco del personale”». Questo significa essere collaborativi!

Nella fabbrica di Tara e Bran si sono presentati «solo tre operai»: «Nel capannone non c’è anima viva. Solo decine e decine di macchine da scrivere, in diverse fasi di montaggio, giacciono allineate sui banchi degli operai, accanto a mucchi di pezzi e di arnesi invecchiati dall’uso». Tutto profitto andato a male. «Quale triste logorio morale del capitale!», avrebbe chiosato ironicamente l’ubriacone di Treviri dinanzi a una siffatta «distruzione di capitale»: «In quanto il processo di produzione si arresta e il processo lavorativo viene limitato o, in certi luoghi, completamente fermato, vi è distruzione di capitale reale. Il macchinario, che non viene usato, non è capitale. Il lavoro, che non viene sfruttato, equivale a una perdita di produzione. Le materie prime, che giacciono inutilizzate, non sono capitale. I valori d’uso (come pure le macchine di nuova costruzione), che restano o inutilizzati o incompiuti, le merci che imputridiscono nei magazzini, tutto ciò è una distruzione di capitale. [..]. Il loro valore d’uso e il loro valore di scambio se ne vanno al diavolo» (Il Capitale, II). Si può dunque rimproverare Tara per il suo zelo collaborativo? «È grazie al Giudice che c’è disciplina e possiamo lavorare senza la paura di disordini», osserva senza tanti fronzoli “progressisti” il nostro «funzionario personificato del capitale» (Marx). Ciò che invano cerca di fargli capire il collega “progressista” , Bran, è che l’ordine sociale, che per un capitalista è di gran lunga il genere di ordine che occorre preservare a tutti i costi, va tutelato in modo “intelligente”, “pragmatico”, adeguato alle contingenze, in altre parole tenendo conto dei cambiamenti che si verificano nella società, nella sua “struttura” come nella sua “sovrastruttura”. «Questo istinto di conservazione ci ha fatto guadagnare quindici anni», osserva Bran, ma adesso è venuto il momento di cambiare pelle, non certo natura. Non si tratta di una libera scelta, ma di un fatto che si impone alla volontà dei due capitalisti, a quello “buono” come a quello “cattivo”, con assoluta necessità, se vogliono continuare a smungere con una certa serenità la vacca del profitto. Questa assoluta necessità è vissuta da chi non vuole mutamenti sociali e politici significativi come un vero e proprio atto di violenza.

Anche lo sciopero della fame condotto fino alle estreme conseguenze, ad esempio dai detenuti per ottenere migliori condizioni di detenzione, estrema forma di lotta che esprime un’incolmabile squilibrio di forza tra lo Stato e chi ne subisce l’oppressione, è spesso condannato dai governanti come un atto di violenza: «Ma così ci ricattate, ci sparate contro il vostro stesso corpo, e venite a parlarci di pacifica disobbedienza civile!» Evidentemente il concetto di violenza si presta a diverse letture; come sempre, è una questione di punti di vista – e di interessi.

A proposito: chi ha dato l’ordine di sospendere in modo generalizzato e a oltranza il lavoro, così da paralizzare qualsiasi attività economica? A quanto pare nessuno. E com’è possibile? Qualcuno avrà pure scritto l’ordine di rimanere tutti a casa! Dove c’è un muro si legge la famosa, o famigerata, scritta. Anche i muri delle toilette non vengono risparmiati: «Mentre si sbottona la patta dei pantaloni legge la frase che qualcuno ha scritto sulle mattonelle bianche: “È molto semplice: restate a casa”, scuote il capo e, mentre orina, fruga nella tasca interna della giacca in cerca della matita che porta sempre con sé. Si riabbottona, con una mano sola. Poi, inclinato sulla tazza, aggiunge un “tutti” alla frase, cercando di imitare la grafia dello sconosciuto». Restate tutti a casa: suona meglio! Va bene, ma chi è stato il primo a pensare, a dire e a scrivere quell’idea diventata tanto popolare (virale!) in così poco tempo?

Insomma, chi c’è dietro la cosa cospirativa? O si tratta forse di un movimento spontaneo? Tara, a differenza di Bran, non lo crede possibile: «Spontaneo? Non farmi ridere! Credi davvero che qualche migliaio, qualche milione di persone possano mettersi d’accordo in questa maniera… Spontanea? Sicuramente c’è qualcuno dietro. Vedrai se non è così! Tutte le cose hanno un motivo e qui, come ovunque, ci sono interessi privati, inconfessabili, che si servono di quei disgraziati per i loro scopi». Per Tara i «disgraziati» che se ne stanno a casa ad annoiarsi e a non guadagnare sono essi stessi vittime di qualcuno che persegue «interessi privati, inconfessabili»: è la logica del potere che parla con la bocca del capitalista smaliziato. E poi, quando mai gente che si accontenta di portare a casa la pagnotta quotidiana, magari mentre esalta la propria squadra di calcio e sputa sulle altre, è stata in grado di simili azioni generalizzate, coordinate e organizzate? Anche Domina naturalmente è dello stesso parere: «I popoli sono incapaci di prendere iniziative se nessuno li dirige. La storia ce lo dimostra chiaramente». Eppure questa volta sembra che la spontaneità delle masse abbia avuto la meglio sul “momento organizzativo” e sulla stessa storia!

La natura astratta – inafferrabile, impalpabile, eppure tremendamente concreta – del dominio sociale capitalistico forse ha qualcosa a che fare con il carattere anonimo dell’insubordinazione raccontata da De Pedrolo. Forse. C’è da riflettere anche sul fatto che ai tempi in cui egli scriveva il suo libro non c’era niente che possa far ricordare i nostri mezzi di comunicazione, a cominciare dai cosiddetti “social”. Forse è proprio per questo che una singola “parola d’ordine” è potuta diventare, nella sua asciutta semplicità, così potente e dirompente? Non sono in grado di dire cose intelligenti su questo punto – perché, sul resto?

Il dottor Morns, dopo aver visitato una giovane donna ferita dalla polizia, «va verso il lavabo, apre il rubinetto. Ma [l’infermiera] interviene: “Attenzione, dottore. Quando i serbatoi si saranno svuotati non avremo neanche l’acqua”». Chissà come sono messi ad alcol, Amuchina e a dispositivi sanitari di vario genere: occhio ai virus! Ma che dico! Purtroppo l’attualità si infila da tutte le parti: mi scuso! La benzina è finita, quasi tutti i negozi sono chiusi perché non hanno più nulla da vendere («La maggior parte delle famiglie si è attrezzata per resistere a questo strano assedio e già da giorni ha fatto scorte, al punto che molti negozi di alimentari e affini sono ormai vuoti»); scarseggia il cibo, le scuole sono chiuse. «I miracoli non li so fare», confessa il cuoco Pots al vecchio cameriere Carbi, entrambi “crumiri” evidentemente; «Non c’è gas, non c’è energia, non abbiamo quasi più legna, manca il carbone. E il cibo? Cosa vuole che cucini se non c’è niente?». «Questo si chiama fare le cose per bene…».

D’altra parte, se tutti si astengono dal lavoro, “materiale” e “immateriale”, chi produce e commercializza i “beni e servizi” di cui una società ha quotidianamente bisogno? Nessuno, è ovvio! Chi c’è lungo le strade della città insubordinata? Nessuno. Chi c’è nelle fabbriche? Nessuno. E negli uffici? Nessuno! «Non si può nemmeno telefonare al paese accanto. Non c’è nessuno!» Si materializza insomma una condizione che potremmo chiamare, appunto, Niente e Nessuno; una contingenza straordinaria in grado di mettere il Potere (peraltro ancora tutto da decifrare quanto a natura) con le spalle al muro. Nessuno decide di non ubbidire più al Potere e con questa sola decisione ne minaccia la continuità. Ricordate la “suggestiva” vicenda di Polifemo e Odisseo? «Amici, Nessuno mi vuol uccidere per via d’inganni e non con la forza». Chi vinse dunque il possente ciclope con la sola forza dell’intelletto? «Nessuno fu». Parola di Omero. «La rivoluzione si rialzerà tremenda, ma anonima», disse una volta Amadeo Bordiga, il “vero fondatore” del PC d’Italia (Livorno 1921); e aggiunse: «Gli operai vinceranno se capiranno che nessuno deve venire». Accostare Bordiga a De Pedrolo può suonare ideologicamente “blasfemo” ed “esteticamente” dissonante, ed è esattamente per questo che al mio bizzarro orecchio la cosa suona benissimo! Nessuno deve arrivare: chissà se, alla fine, Nessuno arriverà…

Il treno non si muove, la stazione è praticamente deserta di viaggiatori indaffarati con i riti della partenza: biglietti da pagare, valigie da spostare, richieste di informazione da formulare, qualche panino da addentare frettolosamente. Niente di tutto questo. «Tutti. Macchinista, fuochista, bigliettaio… hanno abbandonato tutti il treno». E non c’è uno straccio di macchina che supplisca alla bisogna, né locande che possano ospitare anche solo per poche ore i pochi e stanchi viaggiatori presenti nella stazione. Uno di questi si lamenta: «Capisco che il personale delle ferrovie sia solidale con tutta la popolazione. Io stesso, e immagino anche voi, stavo tornando a casa prima di aver finito il mio giro per collaborare, per essere uno di più… Ma questi stronzi potevano almeno arrivare in città per non creare problemi a nessuno». Ma il disservizio è implicito nel concetto stesso di sciopero, direbbe a questo punto un sociologo. «Forse vivono qui», azzarda un «omone». Non si sa. Improvvisamente il silenzio è rotto da «violenti colpi, accompagnati da un brusio di voci concitate». Alcune persone cercano di forzare la porta del bar della stazione: «Le otto mani stringono forte la sbarra e il rappresentante comincia a contare: “Uno… due… e tre!”». Quantomeno si può bere e mangiare qualcosa alla faccia dell’ordine costituito. Non si vive di sola disobbedienza civile!

Il professor Jurt Nadia invece non approva l’azione; secondo lui quell’«atto di vandalismo» ai danni del bar non si armonizza con lo spirito della pacifica e civile insubordinazione ai danni del Giudice Domina. «Una delle donne fa: “Se le Ferrovie ci hanno abbandonati in questo posto sperduto è naturale che cerchiamo di difenderci”. L’uomo maturo la appoggia: “Ha ragione. Qui ci deve essere da mangiare e da bere. Perché dovremmo digiunare?”». Già, perché? «Ma possibile che nessuno si renda conto che, comportandoci così, ci mettiamo allo stesso livello della mentalità che stiamo combattendo?». «”Si spieghi meglio!”, esclama un’altra delle donne». A questo punto subentra nella discussione Job, l’amico di Jurt (i due si sono incontrati nella sala d’attesa della stazione casualmente): «Sappiamo tutti che, in molti quartieri, la polizia e i soldati sono intervenuti per sfondare le porte dei negozi che avevano chiuso e fare irruzione nelle case… Anche se la finalità è diversa, i procedimenti sono gli stessi. È questo che voleva dire il mio amico». Ciò che per Job e Jurt conta è salvaguardare il carattere pacifico della «resistenza passiva», ed estendere questo carattere a tutte le azioni che in qualche modo hanno a che fare con quella forma di lotta.

«Dobbiamo evitare a ogni costo che questa resistenza passiva venga stravolta da momenti di impazienza, malumori o difficoltà momentanee. Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta. Sì, avete ragione. È un episodio minimo che coinvolge appena una decina di persone in un posto fuori dal mondo. E che, lo ammetto, non ha nessuna importanza. Ma non ci siamo soltanto noi. Qui, là, ovunque, ci sono gruppetti, alcuni addirittura più piccoli del nostro, che si trovano di fronte a tentazioni molto simili. Ora, se ciascuno di quei gruppi si convince che ciò che fa non conta, perché è un atto isolato, irrilevante nell’insieme delle cose, alla fine potremmo scoprire che la società intera si è allontanata da una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa…». L’”intellettuale” della situazione alla fine riesce a convincere gli affamati e arrabbiati viaggiatori: «”Tutti abbiamo capito. Non siamo così ignoranti”…. Quello con la sciarpa rossa, accigliato come se stesse facendo un grosso sforzo di concentrazione, interviene: “Adesso quello che manca è che in ciascun gruppo ci sia una persona come voi per mettere le cose in carreggiata…”». La funzione sociale dell’intellettuale dissidente trova qui una puntuale conferma, per la grande soddisfazione di Job: «Per fortuna qui quella persona l’abbiamo». Si decide di comune accordo di richiudere la porta del bar appena sfondata: «”Forse io vi posso aiutare. Sono fabbro”. Scoppiano tutti a ridere di cuore».

A proposito di cuore, non c’è dubbio che abbiamo appena toccato, almeno credo, il cuore politico ed etico che pulsa nelle pagine di Atto di violenza. Alludo alla scottante questione circa la relazione che stringe, o dovrebbe farlo, i mezzi ai fini. Anche il problema della responsabilità individuale nel contesto di un’azione collettiva è senza dubbio evocato, eccome.

«Se si vuole uno scopo, allora bisogna volere anche i mezzi», soleva dire giustamente Friedrich Nietzsche. E non c’è dubbio che tra lo scopo che si persegue e i mezzi idonei a praticarlo deve insistere una qualche “relazione dialettica”; si tratta di precisare, magari attraverso una serie di approssimazioni, i termini teorici e politici di questa relazione. Ad esempio, in che senso e fino a che punto i mezzi devono – e possono – essere adeguati allo scopo che si vuole conseguire? Di più, e più radicalmente: è possibile una tale corrispondenza? De Pedrolo immagina un’insubordinazione generale nei termini di «un’azione solidale e passiva a braccia incrociate»; argomenta il professor Jurt: «Adottare i procedimenti propri del nemico ci equipara moralmente al nemico stesso e, di conseguenza, indebolisce le nostre posizioni. Avere ragione, essere i migliori, non è una questione di forza bruta. […] Se adesso noi, dopo aver scardinato quella porta, andiamo a saccheggiare le scorte del bar, ci macchiamo di un atto di violenza che ci compromette e compromette la nostra lotta». La non-violenza è «una norma di condotta che consideriamo giusta perché è l’unica che ci colloca moralmente al di sopra del nostro nemico, l’unica che ci può portare a una vittoria dignitosa». È un punto di vista che ovviamente rispetto ma che mi sembra passibile di un approfondimento critico. La stessa conclusione della storia narrata da De Pedrolo credo che spinga in quel senso. Commenta  Prunetti nella sua Postfazione: «Il dispositivo di potere si sta svuotando: non ci credono più neanche i soldati a quel potere. Il gigante ha le gambe d’argilla. Eppure, per farlo crollare, servirà un atto di violenza. Un atto di violenza che squarcia ogni illusione di fare i conti in forma pacifica con la violenza del potere». Sembra insomma che la ribellione non possa fare a meno di misurarsi con il problema della violenza.

Scriveva György Lukács nel 1919: «Esistono delle situazioni – tragiche situazioni – nelle quali è impossibile agire senza attirare su di sé una colpa» (Tattica ed etica) Questo è, a mio giudizio, il modo politicamente serio di affrontare il problema della violenza rivoluzionaria, il quale si fa carico di assumere su di sé tutta la portata politica ed etica che quel problema necessariamente racchiude. La violenza, qualunque natura essa venga ad assumere in una data situazione storica, ruota sempre e ossessivamente nell’orbita del male. Marx scrisse una volta che «Il diritto non può essere mai superiore alla configurazione economica ed allo sviluppo, da esso condizionato, della società» (Critica al programma di Gotha). Mutatis mutandis, credo che questa considerazione valga anche per quello che possiamo chiamare “diritto rivoluzionario”: il diritto dei dominati alla rivoluzione, il diritto della rivoluzione e il diritto generato dalla rivoluzione trionfante – si spera… In altri termini, la rivoluzione sociale non può non portare le maligne stigmate del Dominio, e solo avendo piena coscienza di ciò si può tenere a bada, si può “gestire” al meglio, quanto di cattivo, anche moralmente ed eticamente parlando, cercherà di insinuarsi nel processo rivoluzionario. Ma su questa importantissima e assai divisiva “problematica” rinvio a due miei scritti: L’Angelo Nero sfida il Dominio e Mezzi e fini considerati dal punto di vista umano. Concludo questa riflessione, già fin troppo lunga, dicendo che bisogna porre – anche – la relazione mezzi-fini su un terreno non ideologico, perché l’ideologia fa delle convinzioni, perfino di quelle che consideriamo giuste, una prigione che non permette al pensiero critico-radicale di trovare le risposte adeguate ai problemi che esso si trova a dover affrontare nella realtà, e non nel cielo degli astratti principi.

 

(1) Durante la Guerra civile spagnola, Manuel de Pedrolo combatté per la Repubblica tra gli anarcosindacalisti e fu maestro rurale in una zona mineraria. «Marxista eterodosso e deciso sostenitore dell’indipendenza di Catalunya, per Manuel Pedrolo la liberazione di classe e quella nazionale sono due facce della stessa medaglia. In questa prospettiva Pedrolo si esprime chiaramente in un’intervista televisiva realizzata nel 1983: “Ciò che sembra intollerabile è che partiti che in principio sostengono la libertà, la libertà per tutti, nel senso di liberare i lavoratori dal loro giogo, liberare le donne dal loro giogo (che esiste), liberare le razze e liberare anche i popoli, quando si tratta di liberare una porzione di questo concetto geografico chiamato Spagna che non si accorda con la cultura spagnola perché ne ha un’altra, che ha un’altra lingua e che perciò non ha motivo di adottare quella spagnola, allora questi stessi partiti girano la schiena e dimenticano tutto ciò che significa libertà”. Un vero e proprio invito alla riflessione, rivolto a quella parte della sinistra che ancora si mostra scettica sulla repubblica catalana e sull’indipendenza dei Països Catalans, oggi più che mai all’ordine del giorno» (Catalunyasenzarticolo). Sulla questione catalana ho scritto diversi post, ai quali rimando chi fosse interessato alla mia opinione in materia.
(2) « Dopo la seconda guerra mondiale, la Spagna è sottoposta dalla comunità internazionale a misure di ritorsione politiche ed economiche a causa del suo regime autoritario. Il suo isolamento viene spezzato dagli Stati Uniti che, nel 1953, stipulano con il paese un accordo bilaterale per l’installazione di basi militari. Nella seconda metà degli anni cinquanta la Spagna viene ammessa nell’organizzazione europea per la cooperazione economica (OECE) e, nel 1962 avanza una richiesta di ingresso nella Comunità Economica Europea. Il timore di una contrazione delle esportazioni agricole della Spagna verso i Paesi della Comunità, a seguito della politica agricola protezionista dei sei, ha un peso importante nell’indurre il paese a questo passo. La Comunità, considerando l’adesione ai principi democratici come prerequisito indispensabile per l’ammissione di nuovi membri respinge la richiesta, ma stipula più tardi (1970) con il paese un accordo preferenziale di tipo economico. Dopo la costituzione della Junta democratica (1975), il dialogo con la Comunità viene ripreso. Nel 1986 la Spagna diventa, assieme al Portogallo, membro della Comunità Europea» (PuntoEuropa).

CHUANG E IL «REGIME DI SVILUPPO SOCIALISTA» NELLA CINA DI MAO

La “Questione Cinese” come momento centrale
nella riflessione anticapitalistica del XXI secolo

 

Prima di entrare nel merito della questione che intendo affrontare, credo che sia opportuno premettere quanto segue. Considero molto interessante il lavoro politico e analitico portato avanti dal Collettivo Chuang per almeno due motivi. In primo luogo perché tale Collettivo (che spesso chiamerò semplicemente Chuang) non sostiene in alcun modo, e anzi combatte, il Capitalismo/Imperialismo cinese, non aderendo esso alla miserrima tesi del “socialismo con caratteristiche cinesi” [1]. «La nazione che illustriamo è la Cina che vediamo oggi, una Cina che tiene insieme l’economia globale alle sue radici in disgregazione. Una Cina che, speriamo, sarà finalmente distrutta da più milioni di cinesi, insieme a miliardi di altri che distruggeranno le loro nazioni e, con esse, questa mostruosa economia che lega tutti a tutti e tutti a nessuno». Anch’io, nel mio infinitamente piccolo, mi sento parte di questo straordinario e umanissimo progetto rivoluzionario che riguarda le classi subalterne di tutto il mondo, oggi sottomesse (materialmente, ideologicamente, politicamente e psicologicamente)  allo stesso dominio sociale: quello capitalistico. Mai come oggi, il grido di guerra Proletari di tutto il mondo, unitevi! ha avuto un significato così vero e così importante per il futuro dell’intera umanità.

In secondo luogo, ritengo che gli scritti di Chuang offrano agli anticapitalisti che operano in Occidente un prezioso contributo di analisi sulla società cinese, potendo i suoi esponenti accedere a un vasto materiale documentario redatto anche in lingua cinese. La conoscenza della difficile – e graficamente assai bella – lingua cinese consente di attingere anche alla cosiddetta microstoria, ossia alla storia che dà conto della vita quotidiana delle masse: del loro lavoro, delle lolle loro relazioni, dei loro conflitti interni e con il potere, della loro cultura, ideologia, psicologia, eccetera. Particolarmente interessanti trovo, ad esempio, le analisi di Chuang che hanno per oggetto la differenza tra proletariato urbano e lavoratori rurali nella Cina del XXI secolo.

Non c’è dubbio che quello cinese sia oggi, nel contesto dei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, lo Stato di gran lunga più autoritario, diciamo pure totalitario, visto anche il ruolo esclusivo che nella Cina ha sempre avuto il Partito-Regime; questo ovviamente non induce gli autentici anticapitalisti a pensare per un solo istante di poter accordare il loro sostegno “tattico” agli Stati meno totalitari sul terreno della “democrazia” e dei “diritti umani”. Personalmente ho mantenuto questa posizione anche nei confronti della crisi che da anni travaglia Hong Kong. Ciò che per me fa premio su tutto è la natura totalitaria del rapporto sociale capitalistico di sfruttamento (dell’uomo e della natura) che oggi domina l’intero pianeta.

La puntuale e approfondita conoscenza di quanto accade nel Paese che è diventato uno dei pilastri centrali del dominio capitalistico mondiale, con ciò che ne segue – o ne dovrebbe auspicabilmente seguire – anche sul terreno della lotta di classe internazionale, consente all’anticapitalista occidentale di condurre una guerra efficace contro i sostenitori del Partito-Regime cosiddetto comunista attivi da questa parte del mondo. «Chuang è un collettivo di comunisti che ritengono che la “questione cinese” sia di importanza centrale nelle contraddizioni del sistema economico globale e nelle potenzialità per un suo superamento. […] Per i proletari al di fuori della Cina, vorremmo sottolineare che, nel XXI secolo, siamo tutti più o meno connessi alla Cina. Soprattutto per quanto riguarda le prospettive di una rivoluzione comunista, i proletari cinesi saranno centrali in un modo o nell’altro a causa del ruolo della Cina e dei lavoratori cinesi nell’economia globale, per non parlare della semplice magnitudine della popolazione cinese» [2]. Non c’è dubbio. È appunto perché considero la “questione cinese” un momento centrale nell’iniziativa anticapitalistica internazionale che da sempre dedico molta attenzione a quanto avviene nella società cinese a tutti i livelli della prassi sociale: dai conflitti sociali alle tensioni etniche, dalla crisi ambientale (inquinamento, distruzione degli ecosistemi, ecc.) alle politiche di repressione e controllo, per non parlare dell’attivismo (economico, militare, politico, ideologico) del Celeste Imperialismo.

Diversi tifosi italiani del «socialismo con caratteristiche cinesi» hanno polemizzato con questa mia insistenza, la quale a loro dire farebbe il gioco dell’imperialismo occidentale (anche nelle loro risibili accuse i nipotini di Stalin e di Mao peccano di originalità); qualcuno è perfino arrivato ad accusarmi di disprezzare il «popolo cinese», sorvolando sulla stratificazione classista della società cinese, e sulla natura capitalista/imperialista di essa – nonché della sua “sovrastruttura” politico-istituzionale. Un dettaglio! Peraltro, e detto en passant, ho avuto sempre in massima considerazione la millenaria storia del grande Paese asiatico – grande anche in termini di civiltà, nell’accezione più alta e meno banale del termine.

Anche questo aspetto politico-ideologico (una società ultracapitalista definita, da amici e nemici, “Comunista”, o quantomeno “Socialista”) conferisce alla “Questione Cinese” una particolare centralità: demistificare il falso socialismo/comunismo è purtroppo un rognosissimo compito che l’anticapitalista di questa epoca non può non assumersi, se intende portare acqua al mulino della possibilità rivoluzionaria: la Comunità umana è davvero possibile, oltre che auspicabile, oggi ancora più che nel passato, nonostante tutto sembra negarlo nel modo più radicale, violento e doloroso. Nella misura in cui i lavori di Chuang offrono materiale prezioso a chi intende dimostrare la natura pienamente Capitalista/Imperialista della Cina (sia nel suo fondamento “strutturale”, sia nella sua architettura politico-istituzionale), tale lavoro va nella direzione che possiamo caratterizzare con il seguente slogan: ripristinare il futuro, accreditare cioè l’idea che il Capitalismo non è, nel modo più assoluto, il solo mondo concretamente possibile – al punto che oggi la fine del mondo, magari per via epidemica, appare agli occhi della gente più credibile della fine del Capitalismo per via rivoluzionaria.

È insomma da questa prospettiva tutt’altro che preconcetta e ostile nei confronti dei compagni di Chuang che mi accingo a mettere in chiaro ciò che non condivido della posizione da essi sostenuta circa quello che chiamano «periodo socialista» dello sviluppo economico-sociale della Cina. Per quanto mi riguarda, non si tratta affatto, come temono questi compagni, di «resuscitare antiche faide intestine alla sinistra», della quale peraltro chi scrive non ha mai fatto parte (se si allude alla “sinistra” che in qualche modo ha avuto a che fare con lo stalinismo, con il maoismo e con le altre correnti politico-ideologiche imparentate con il cosiddetto “Comunismo Novecentesco” e con il “socialismo reale”); si tratta piuttosto di capire cosa intendiamo oggi per “socialismo”, “comunismo”, “progetto comunista” e così via. Polemizzare con il passato ovviamente non ha alcun senso, ma capire una posizione politica attuale anche attraverso il giudizio che essa dà della storia passata, non credo  equivalga a «proporre un gioco di replay storico»: tutt’altro. In ogni caso, mi limito a criticare delle posizioni espresse da Chuang nell’ambito della sua ricostruzione della storia della Cina moderna, tutto qui. Possiamo anche considerare la critica che mi accingo a svolgere come il mio personale contributo a quella ricostruzione.

Per il resto, le analisi e le riflessioni di Chuang sulla Cina e sul mondo mi trovano in larga parte consenziente.

Ho letto Sorghum and Steel: The Socialist Developmental Regime and the Forging of China, Red Dust: The Transition to Capitalism in China, più altri scritti brevi; quasi tutte le citazioni di Chuang che compaiono in questo scritto sono tratte da Sorghum and Steel. Mi scuso in anticipo, soprattutto con gli autori, se la mia traduzione fosse, soprattutto per quanto riguarda la sostanza, eccessivamente difettosa. Spero che la lettera non tradisca troppo lo spirito. Leggendo gli scritti di Chuang ho preso degli appunti, che adesso “socializzo” tali e quali per economia di pensiero e per esigenze di sintesi. Mi auguro che la ripetizione di formule e di concetti non disturbi oltremodo i lettori. Per una più approfondita conoscenza del mio punto di vista sulla Cina rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema [3].

Se ho capito bene, la tesi fondamentale che sta al centro della riflessione del Collettivo Chuang sulla Rivoluzione cinese è che a un certo punto della tentata transizione della Cina al socialismo, la polvere rossa della produzione capitalistica globale avrebbe soffocato quella straordinaria esperienza, lasciando in campo solo la tendenza capitalistica. Chuang parla, infatti, di «fallimento del regime di sviluppo socialista»; di «fallimento del progetto comunista in Cina». Un fallimento che avrebbe appunto reso possibile «l’integrazione globale della Cina al commercio mondiale e la sua transizione al capitalismo negli anni ‘70». Quando si sarebbe manifestato in tutta la sua drammatica e dirompente ampiezza questo fallimento? «Il regime evolutivo socialista» sarebbe entrato in crisi alla fine degli anni Sessanta: «L’anno 1969 ha segnato lo sfaldamento del socialismo in Cina».

Scrive Chuang: «Ciò significava che il periodo di sviluppo socialista in Cina vide alla fine soppiantare lo stesso progetto comunista, poiché sempre di più veniva sacrificato alla linea di fondo della costruzione di un’economia nazionale. Questo è stato il fallimento strutturale dall’epoca. La mitologia del movimento operaio ha contribuito a rendere possibile questo errore, poiché tendeva a fondere in modo teleologico l’espansione della produzione e dell’occupazione industriale con il progresso storico della società verso il comunismo. Ma di gran lunga più importante era la condizione assediata e isolata in cui si svolgeva questo esperimento. A partire da una povertà così estrema, è difficile criticare i primi comunisti per aver enfatizzato lo sviluppo». A mio avviso ciò che fallì, e comunque occorre precisare i contorni di questo fallimento, non fu il tentativo di costruire il socialismo in un solo Paese (la Cina), ma piuttosto l’ipotesi di uno sviluppo autarchico del capitalismo cinese, ipotesi che prese corpo non sulla base di una precisa scelta ideologica, sebbene sarà presentata dal Partito-Stato proprio in questi termini (prassi del resto tipica nello stalinismo e nel maoismo), ma a causa di fattori interni e internazionali che lo stesso Chuang ha ben individuato. In poche parole, il fallimento del «periodo socialista» dello sviluppo economico cinese appare tale solo dalla prospettiva di chi concede credito alla natura socialista della Rivoluzione cinese, del Partito che la diresse e, più in generale, del mondo del cosiddetto “socialismo realismo”. Dal mio punto di vista l’esperienza del periodo maoista (individuo un nome solo per economia di pensiero) appare invece complessivamente vincente sul piano storico, perché essa riuscì, pur con molti limiti e contraddizioni, a portare il Paese sostanzialmente unito alle soglie del suo definitivo decollo capitalistico: come ho scritto altrove, si tratta di un successo interamente conseguito sul terreno capitalistico, il solo praticato dal PCC e dalla Rivoluzione cinese. Il «progetto socialista cinese» non è fallito semplicemente perché esso non è mai esistito – se non nella versione ideologica del PCC, il quale di Comunista aveva solo il nome.

Io ho sempre rigettato la tesi del fallimento in Cina della transizione dal capitalismo (o dal precapitalismo o come altro vogliamo chiamarlo) al socialismo, semplicemente perché a mio avviso all’ordine del giorno nella Cina moderna c’è sempre stato il problema della transizione al capitalismo, dello sviluppo economico-sociale cinese fondato sui rapporti sociali di produzione capitalistici, mentre tutti i discorsi intorno alla possibilità del socialismo nel grande Paese asiatico nascevano sul terreno dell’ideologia stalinista tradotta nella lingua di Mao Tse-tung. Mascherare i reali antagonismi di classe con fumose fraseologie e risibili giochi di parole: fu questo il significato politico-ideologico più importante del maoismo, espressione di un populismo “con caratteristiche cinesi” (vedi teoria delle quattro classi [4]) che amava presentarsi in (goffi) abiti “marxisti”.

A differenza di quanto avvenne in Russia, dove una rivoluzione proletaria venne effettivamente portata a termine, pur tra mille contraddizioni e limiti, e in stretta connessione con il movimento operaio internazionale, e dove si verificò una devastante controrivoluzione (quella passata alla storia con il nome di Stalin), in Cina non si verificò nulla di tutto questo, e quindi nel contesto della sua storia recente (dal 1949 in poi) il concetto di controrivoluzione è del tutto fuori luogo. Quel concetto, nel contesto cinese, non spiega nulla che possa avere un legame con il reale processo sociale.

Quello che Chuang definisce «regime di sviluppo socialista» io lo considero come un momento interno al processo di sviluppo del capitalismo cinese, un momento particolarmente complesso e contraddittorio dell’accumulazione capitalistica originaria. Le cause della complessa contraddittorietà che ha caratterizzato la prima fase della “modernizzazione” capitalistica della Cina vanno ricercate nella struttura economico-sociale del Paese e nella sua collocazione internazionale, come del resto i compagni di Chuang hanno ben dimostrato con i loro approfonditi studi.

«Il regime di sviluppo socialista» non è stato «smantellato e incorporato nell’economia capitalista» semplicemente perché tale regime in Cina (e altrove nel mondo) non si è mai realizzato, nemmeno in una forma semplicemente abbozzata. Ciò che Chuang concettualizza come «smantellamento» di un progetto socialista, io lo interpreto appunto come uno sviluppo e un’accelerazione interni al reale processo di accumulazione capitalistica dopo la proclamazione della Repubblica Popolare. È evidente che il concetto di “socialismo” che ho in testa io è diverso da quello che hanno in testa i compagni del Collettivo Chuang.

Ad esempio, e sempre se ho ben compreso, Chuang interpreta lo stalinismo come un fenomeno di ossificazione e di sclerosi burocratica interna alla transizione “socialista” dell’Unione Sovietica; per me si deve invece parlare di una vera e propria controrivoluzione capitalistica, la quale distrusse completamente, alle radici, il potere rivoluzionario che aveva trovato nei Soviet e nel Partito di Lenin la sua più verace espressione. Per questo non condivido la tesi trotskista della «degenerazione burocratica» del Partito bolscevico e del regime sovietico che avrebbe comunque lasciato sostanzialmente in vita le conquiste sociali dell’Ottobre rivoluzionario. Affronto la questione della burocrazia (e oggi della tecnocrazia) come – supposta – nuova classe dominante in uno scritto intitolato Dialettica del dominio capitalistico.

Controrivoluzionario sul terreno della rivoluzione sociale anticapitalista, e rivoluzionario sul terreno dello sviluppo capitalistico: è questa, a mio avviso, la natura storicamente “dialettica” dello stalinismo, la quale ha conferito a questo fenomeno, tutt’altro che riducibile alla personalità di un singolo individuo (Joseph Stalin), un carattere particolarmente difficile da comprendere per chi non ha compreso l’essenza del Capitalismo e, quindi, dell’anticapitalismo. In ogni caso il comunismo occidentale antistalinista non ha dovuto aspettare decenni per denunciare il carattere controrivoluzionario dello stalinismo, visto che vi si oppose appena esso si manifestò come il pieno dispiegarsi di una crisi che era iniziata ben prima, già alla fine del cosiddetto Comunismo di guerra, quando apparve drammaticamente chiaro che il proletariato più avanzato d’Europa (quello tedesco, in primis) non sarebbe andato tanto presto, come la situazione imponeva, in soccorso dell’eroico ma assai traballante potere sovietico. Come scrivo in uno studio sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (Lo scoglio e il mare) [5], l’isolamento del Paese dei Soviet lasciò che le onde generate dallo scatenarsi delle forze sociali capitalistiche si abbattessero in modo distruttivo sul piccolo scoglio proletario – già sfiancato dalla guerra imperialista e dalla guerra civile.

«Al tempo dell’invasione giapponese, il Guomindang (GMD) trovò la sua principale opposizione sotto forma di un esercito contadino mobilitato da un reinventato Partito Comunista Cinese (PCC). Ma lo stesso PCC aveva iniziato decenni prima, nato dallo stesso tumultuoso ambiente intellettuale del Guomindang, entrambi nati sul fondamento di interessi prevalentemente urbani. Il congresso di fondazione del PCC del 1921 doveva originariamente tenersi a Shanghai. Interrotta dalla polizia, la riunione fu spostata a nord, a Jiaxing, dove dodici delegati hanno fondato il PCC come ramo dell’Internazionale comunista. Con la crescita di questo primo PCC, rimase in auge un progetto prevalentemente urbano, gestito da intellettuali e lavoratori industriali qualificati. Sei anni dopo la sua fondazione, fu di nuovo a Shanghai che questa prima incarnazione del PCC giunse alla sua fine violenta. In un’alleanza sostenuta dalla Russia con il GMD, i rivoluzionari hanno preso il controllo della maggior parte delle città chiave della Cina in una serie di insurrezioni con personale operaio. Dopo che la vittoria fu assicurata con il successo dell’insurrezione di Shanghai del 1927, il GMD si rivoltò contro i comunisti, arrestando un migliaio di membri del PCC e leader dei sindacati locali, uccidendone ufficialmente circa trecento e facendone sparire altre migliaia. Il “massacro di Shanghai” ha avviato la distruzione a livello nazionale del movimento comunista urbano. Le rivolte a Guangzhou, Changsha e Nanchang furono represse. Nello spazio di venti giorni, più di diecimila comunisti nelle province meridionali della Cina sono stati arrestati e giustiziati sommariamente. Nel complesso, nell’anno successivo all’aprile 1927, si stima che ben trecentomila persone morirono nella campagna di sterminio anticomunista del GMD. Gli unici frammenti sopravvissuti del PCC erano le sue basi rurali tra i contadini. Alla conclusione della Lunga Marcia, sette anni dopo, il Partito si era ricomposto reclutando contadini, espropriando terre e concentrando la sua agitazione sulle tensioni di lunga data nelle campagne commercializzate, espandendo così questa base rurale. Trasformato in un esercito contadino, il nuovo partito gestiva solo un’ala urbana marginale e sotterranea anche dopo aver riconquistato l’influenza nazionale».

La ricostruzione storica di Chuang lascia molto a desiderare su un punto che a me appare fondamentale: essa non dice nulla sulle enormi responsabilità che il Partito Bolscevico di Stalin e Bucharin ebbe sui sanguinosi fatti del 1927. Mi piacerebbe sapere come  Chuang giudica la lotta che soprattutto Trotsky e Zinoviev condussero contro la linea politica fissata dal Partito di Stalin e Bucharin, e fatta sua da un Comintern ormai russificato, circa l’atteggiamento che il PCC avrebbe dovuto assumere nei confronti del Kuomintang di Chiang Kai-shek e, in generale, della rivoluzione nazionale-borghese allora all’ordine del giorno in Cina.

Quello che determinò la trasformazione del PCC da soggetto rivoluzionario urbano (proletario) a soggetto rivoluzionario contadino (nazionale-borghese) non fu tanto l’eliminazione fisica dei comunisti che agivano nelle città e il venir meno dei suoi contatti con il mondo della metropoli: la causa della sua “mutazione genetica” (in realtà sociale) va ricercata più in profondità, ossia nella distruzione della sua precedente identità di classe autonoma che bisognava preservare a tutti i costi anche nel corso della rivoluzione nazionale-borghese (antimperialista) [6]. Ma questo fu possibile perché nel biennio cruciale 1926-1927 il Partito Bolscevico riuscì nell’intento di fare del PCC l’ala sinistra del Kuomintang, ossia di una soggettività politica borghese. Scriveva Trotsky in una lettera del 4 marzo 1927 indirizzata a Karl Radek: «Abbiamo trasformato il Partito comunista cinese in una varietà di menscevismo e quel che peggio, non nella varietà migliore, cioè non nel menscevismo del 1905, quando si unì temporaneamente al bolscevismo, ma nel menscevismo del 1917, quando si alleò con i Socialisti Rivoluzionari di destra e sostenne i cadetti. […] Temo che le cose, in larga misura, stano appunto così[7]. Voja Vujovič, segretario generale dell’Internazionale giovanile dal 1922, espulso dal Comintern nel settembre 1927 e pochi mesi dopo deportato in Siberia (un “classico” dello stalinismo), nel maggio del ’27 riassumeva in questi termini l’atteggiamento del Partito Bolscevico e del Comintern nei confronti del PCC: «Il PCC ha cercato ripetutamente di correggere la propria linea e di uscire dal “blocco ad ogni costo” con Chiang Kai-shek. Purtroppo, tutti i tentativi del Partito cinese di correggere la propria linea politica e la propria tattica errata si sono scontrati ogni volta nella decisa opposizione del comp. Borodin e del rappresentante del CE dell’IC in Cina» [8].

Il mutamento nella composizione sociale del movimento comunista cinese registrò una sua ben più radicale trasformazione: infatti, da promettente soggetto rivoluzionario proletario, il Partito Comunista Cinese, fondato nel giugno del 1921 e sottoposto alle “amorevoli” cure dello stalinismo (espressione più emblematica della controrivoluzione in Russia e nel mondo), diventò un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese. In altre parole, con il PCC di Mao non siamo dinanzi a un semplice cambiamento nella strategia politica dei comunisti, intesa ad adeguarla alla nuova situazione; ci troviamo piuttosto di fronte alla morte della natura proletaria (nell’accezione teorico-politica, e non meramente sociologica, del concetto) di quel Partito, nonostante esso conservasse il vecchio nome – secondo l’esempio sovietico. Il PCC dopo la sanguinosa controrivoluzione del 1927 era diverso dal PCC esistente prima di quella data nel senso più radicale – sociale – possibile. Il Partito del 1921non «era stato riformattato dai suoi anni nelle campagne cinesi», come scrive Chuang: esso si era estinto come soggetto proletario rivoluzionario. Proletario, beninteso, nell’accezione storico-sociale, e non sociologica, del termine. Soggetto proletario nel senso marxiano del concetto, tanto per intenderci.

Scrive Chuang: «Mentre il vecchio PCC si è formato in un’era di rivoluzione internazionale in cui il rovesciamento dei regimi nel cuore dell’Europa sembrava ancora plausibile, il nuovo PCC è emerso in un mondo schiacciato sotto il tallone degli imperialisti reazionari, in cui i movimenti rivoluzionari più promettenti erano stati smembrati e le forze armate dei paesi imperialisti erano gonfie di guerra»: ecco l’essenziale! Sotto le macerie causate dalla controrivoluzione capitalistica internazionale rimasero sia il Partito di Lenin sia il Partito dei comunisti cinesi che «furono screditati, retrocessi e sostituiti da figure la cui strategia prevedeva un ruolo molto più primario per il progetto di sviluppo nazionale rispetto all’espansione internazionale della rivoluzione comunista». Mutatis mutandis, al PCC toccò la stessa sorte del PCR (B) e degli altri ex Partiti Comunisti che nella seconda metà degli anni Venti subiranno il trattamento della famigerata bolscevizzazione.

L’esito disastroso del lungo ciclo rivoluzionario cinese (1920-1927) non ci parla solo della tragedia del giovane ma già molto combattivo proletariato cinese, ma anche, e direi soprattutto dalla mia prospettiva “occidentale”, della tragedia del proletariato europeo di allora, che passava da una sconfitta all’altra sotto i pessimi auspici dello stalinismo: anche dall’Oriente arrivavano cattive notizie, le quali seppellivano le speranze dell’ultimo Lenin.

«Il periodo di sviluppo industriale urbano (1949-1957), associato all’era della riforma agraria nelle campagne, può quindi essere visto come la momentanea continuazione della transizione al capitalismo che era stata abbandonata e riavviata più volte nella storia recente del paese. Il Partito lo ha inteso come tale, designando questo periodo come il completamento della “rivoluzione borghese” nelle città portuali. Ciò diede al fenomeno un perfetto adattamento alla mitologia determinista dell’alto stalinismo, ma questo adattamento era semplicemente l’uso delle risorse teoriche disponibili per giustificare l’azione pragmatica mentre era in corso. La fedeltà teorica allo stalinismo fu, semmai, il risultato piuttosto che la causa delle tendenze industriali viste negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra civile». E che ci dice questo dato “sovrastrutturale” sul reale processo sociale cinese di quel periodo?

Ci parla di un adattamento dello stalinismo alle condizioni storico-sociali della Cina, e ciò confermava in pieno il nocciolo “dottrinario” di esso: la teoria delle «vie nazionali al socialismo». La «via cinese al socialismo» aderisce insomma come un guanto all’ideologia stalinista, ed è perciò corretto, sotto questo fondamentale aspetto, definire il maoismo come la traduzione in cinese dello stalinismo, come un suo adattamento alle condizioni storiche e sociali della Cina. La fusione dell’ideologia stalinista (che nulla aveva a che fare con il “marxismo occidentale”, ma ne era piuttosto la negazione) con le ideologie (laiche e religiose) prese dalla storia cinese, che ha prodotto quel “bizzarro” guazzabuglio ideologico che tanto successo ebbe presso l’intellighentia “marxista” occidentale, non contraddice, ma piuttosto conferma la tesi qui sostenuta.

Quella che Chuang caratterizza come una «momentanea continuazione della transizione al capitalismo» ha per me invece la natura di un processo che, tra alti e bassi, cadute e riprese, arretramenti e avanzamenti, non cessò di dispiegarsi, di precisarsi e di rafforzarsi. Lo ribadisco: tra mille contraddizioni, nel contesto di una realtà sociale estremamente complessa e contraddittoria, e all’interno di un quadro internazionale che di certo non rendeva più agevole la transizione della Cina alla “modernizzazione” capitalistica.

Secondo Chuang, il regime di sviluppo della Cina nel primo periodo (quello definito appunto “socialista”) non si configura come un vero e proprio modo di produzione, né come “capitalismo di Stato” né come “capitalismo burocratico”. «Il tentativo di adornare il capitalismo con aggettivi è semplicemente una cortina fumogena che oscura una scarsa comprensione delle sue dinamiche fondamentali»: concordo e sottoscrivo. «E il regime socialista dello sviluppo non era capitalista»: qui invece non concordo affatto e polemizzo. «Coloro che sostengono che il risultato finale della transizione dimostra in qualche modo l’essenza capitalista preesistente nell’era socialista, fanno una bizzarra presunzione logica che difficilmente sarebbe tollerata in nessuna disciplina al di fuori della teologia: essi confondono la fine di un processo con le sue forme precedenti, come se il germe della specie umana fosse presente agli albori della vita». Forse Chuang potrebbe averla vinta sul piano “dialettico” con chi solo oggi riconosce il carattere capitalistico della cosiddetta “fase socialista” proiettandovi sopra la realtà del presente; ma di certo fallirebbe se si confrontasse con chi già nel 1949 definì la Rivoluzione cinese come una rivoluzione nazionale-antimperialista-borghese, avente il compito storicamente progressivo di unificare il Paese (e il mercato), avviare lo sviluppo capitalistico della Cina e la complessiva “modernizzazione” del Paese. I comunisti occidentali antistalinisti, così come non hanno dovuto aspettare il crollo dell’Unione Sovietica e la caduta del famigerato Muro per dichiarare il fallimento del “socialismo reale”, allo stesso modo non hanno dovuto aspettare le “riforme” di Deng Xiaoping per parlare di transizione della Cina in direzione del capitalismo, le cui premesse essi avevano ottimamente individuato, appunto, già nel 1949.

I compagni di Chuang certamente conoscono la Sinistra Comunista europea che denunciò il progressivo e purtroppo inarrestabile venir meno della spinta propulsiva rivoluzionaria dell’Ottobre Sovietico già negli anni Venti, quelli che Lenin ebbe a definire, a mio avviso del tutto infondatamente, “estremisti infantili”; ebbene, chi scrive ha avuto la fortuna di leggere, ancora giovanissimo, gli scritti di quei comunisti, i quali con l’ascesa dello stalinismo saranno vittima, prima di una violenta campagna calunniosa, e poi di una ottusa damnatio memoriae. Non sempre, anzi assai raramente, il successo sorride a chi dice la verità – la quale è, per dirla con Lenin, rivoluzionaria. Scrivo questo per non affettare sulla natura sociale dell’URSS un’originalità di pensiero che non ho: sulla controrivoluzione stalinista impasto una farina che ho trovato nel sacco altrui – per mia fortuna! Il modo in cui impasto quella farina ricade invece ovviamente sotto la mia esclusiva responsabilità. Ma ritorniamo sul punto!

Dato il presupposto oggettivo (l’arretratezza economico-sociale della Cina del 1949) e quello soggettivo (il cosiddetto Partito Comunista Cinese, “Comunista” solo nominalmente), la fine del processo non poteva che essere la Cina come Paese capitalistico. Non si tratta né di teologia, né di teleologia, né di determinismo meccanicistico o latro: poste determinate condizioni, determinate premesse storiche e sociali, di natura interna e sovranazionale, le conseguenze sono dialetticamente necessarie.

Pensare a uno sviluppo economico-sociale lineare e deterministicamente prevedibile in ogni suo essenziale aspetto, risponde a un’idea di progresso che è del tutto estranea alla mia concezione del processo storico-sociale; si tratta di un’idea “evoluzionista” che peraltro ha trovato decisive smentite in tutti i Paesi del mondo, a cominciare da quelli considerati come la “culla” del Capitalismo. Io sostengo un’altra tesi. La mia tesi è che la complessità, la contraddittorietà, la multiformità e l’originalità che hanno caratterizzato lo sviluppo economico-sociale della Cina non hanno mai oltrepassato in avanti i limiti del Capitalismo, mentre è avvenuto qualche volta che lo oltrepassassero con un movimento all’indietro. Si è trattato di un fatto, poi variamente interpretato e ideologizzato, non di una scelta – al più, si può scomodare l’ambiguo concetto di “scelta obbligata”. Per usare un’immagine “agonica”, è come l’atleta che fa alcuni passi indietro (nella fattispecie: verso forme economiche più arretrate) per poter spiccare un più vigoroso salto in avanti (nella fattispecie: verso il moderno capitalismo). Anche la molla si carica di energia (potenziale) con un analogo movimento. Ma non vorrei impigliarmi in analogie mal congegnate!

Qui si tratta di considerare i problemi posti dall’«accumulazione originaria di capitale» a un Paese drammaticamente indigente di capitali e in cui, dopo la rottura con l’Unione Sovietica “revisionista”, l’investimento estero è praticamente inesistente. «Non solo la Cina aveva perso il suo principale partner commerciale e fonte di aiuti internazionali, ma, nel 1969, le scaramucce di confine avrebbero persino portato i due Paesi sull’orlo della guerra. Nel corso degli anni ‘60, quindi, la Cina si è trovata sempre più isolata. Con la perdita del suo principale partner commerciale, la somma delle importazioni e delle esportazioni cinesi si era ridotta a un misero 5% del PIL entro il 1970» (Sorghum and Steel). Come ho scritto altrove (La campagna cinese), a un certo punto della transizione del Paese al moderno capitalismo il Partito-Stato si trovò nella poco invidiabile situazione di dover fare della necessità una virtù, ossia di dover “mettere a valore” tutte le forme economico-sociali allora presenti nella società cinese, in primo luogo nella fondamentale area rurale. Ciò si imponeva come un’urgentissima  “scelta obbligata” per difendere e consolidare le conquiste politiche della rivoluzione nazionale-antimperialista, e per procedere in qualche modo lungo la strada dello sviluppo economico-sociale del Paese, quasi del tutto privo delle basilari infrastrutture necessarie a supportare il suo sforzo di “modernizzazione”. Occorreva quantomeno realizzare le premesse strutturali di una più o meno rapida accumulazione capitalistica. Si trattava di uno sviluppo e di una “modernizzazione” con caratteristiche capitalistiche? A mio avviso non può esserci dubbio circa la natura capitalistica di quel titanico sforzo: semplicemente non si davano allora altre possibilità, e ciò sempre al netto delle credenze ideologiche coltivate in ottima fede in Cina e altrove intorno alla concreta possibilità di un’originalissima transizione del Paese al socialismo. È dai tempi di Marx che nei Paesi capitalisticamente “ritardatari” assai facilmente si fa strada negli ambienti rivoluzionari l’idea – che il più delle volte ha avuto il volto dell’illusione, dell’utopia piccolo-borghese – di risparmiare alla società le sofferenze connesse con lo sviluppo capitalistico, e di giungere al socialismo o, addirittura, al comunismo percorrendo strade originali. Saltare la fase capitalistica dello sviluppo economico-sociale: un’idea davvero affascinante! Nei confronti di questo più che comprensibile desiderio Marx ed Engels non svilupparono mai una critica astrattamente deterministica basata sulla teoria delle “fasi di sviluppo”: poste alcune eccezionali condizioni, di natura interna e internazionale, la “fase capitalistica” dello sviluppo poteva effettivamente venir risparmiata ai Paesi capitalisticamente arretrati. Classico esempio, la Russia zarista: «In Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e assieme alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, oltre la metà del suolo si trova sotto forma di proprietà comune dei contadini. Si presenta, quindi, il problema: la comunità rurale russa, questa forma – è vero – in gran parte già dissolta dell’originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera? O dovrà attraversare, prima, lo stesso processo di dissoluzione che ha costituito lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista». Com’è noto, questa eccezionale condizione non si realizzò, è già al tempo in cui il giovane Lenin scriveva i suoi saggi dedicati allo sviluppo capitalistico in Russia (e alla critica dell’ideologia populista), «la più bella possibilità» colta da Marx nel 1882 era sostanzialmente tramontata [9]. La possibilità della via non capitalistica di sviluppo della Russia rurale era quindi da Marx e da Engels direttamente connessa allo sviluppo della rivoluzione proletaria internazionale. Mutatis mutandis, un analogo ragionamento vale anche per la Cina del 1949: il processo sociale mondiale a quella data spingeva la Cina in una sola direzione, quella dello sviluppo capitalistico, e in questa valutazione centrale è l’assenza di una prospettiva rivoluzionaria nei Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta. Ancora ai tempi di Lenin quel legame era dato per assolutamente scontato dai marxisti, e difatti la strategia rivoluzionaria leniniana (vedi il concetto di “doppia rivoluzione” o di “rivoluzione permanente”) era interamente concepita come un momento della più generale rivoluzione sociale europea. Con lo stalinismo questo legame fu spezzato, perché esso esprimeva una tendenza sociale interamente nazionale, al cui servizio venne messo anche il Comintern. È corretto parlare di «arresto della transizione al capitalismo», nel caso della Cina dei primi anni Cinquanta, nel senso che l’intera macchia economica cinese allora appariva, oltre che arretrata, bloccata, in parte distrutta, disorganizzata, disarticolata e, soprattutto, priva di carburante (di capitali).

Apro una breve parentesi. Durante il cosiddetto Comunismo di guerra nella Russia sovietica, la gran parte dei bolscevichi (Lenin compreso, che confesserà il madornale abbaglio alla fine del 1920) interpretò la catastrofe economica che si era realizzata come conseguenza della guerra imperialista e della successiva guerra civile come transizione al socialismo, e i teorici del partito si sbizzarrirono a commentare la cosa in chiave di “ortodossia marxista”. Era invece accaduto che nella Russia dei Soviet l’economia come la intendiamo modernamente si era quasi del tutto estinta: denaro fuoricorso, mercati quasi del tutto inesistenti, produzione industriale ridotta ai minimi termini, produzione agricola orientata alla pura sussistenza delle aree rurali, infrastrutture distrutte o inservibili e via di seguito. «Abbiamo mandato in soffitta la legge del valore!»: Lenin rise molto ricordando questa sciocchezza “anticapitalista” mentre abbozzava la Nuova Politica Economica. Chiudo la parentesi “storica”.

Scrive Chuang a proposito della fine degli anni Cinquanta: «Nel frattempo, non c’erano prove di alcuna transizione verso il comunismo, che è rimasto un orizzonte meramente ideologico. La forza lavoro si espanse, l’orario di lavoro tendeva ad aumentare e la socializzazione della produzione creò unità produttive locali autarchiche e atomizzate, offrendo le condizioni per una vita collettiva su piccola scala ma non riuscendo a creare la nuova società comunitaria che era stata promessa. La libertà di movimento è diminuita con il proliferare delle crisi, mentre si rendevano evidenti la formazione di due classi d’élite distinte, l’ampliamento del divario urbano-rurale e la formazione di una classe di lavoratori diseredati». Mi si permetta un’aggiunta che riprende le parole di Chuang: nel frattempo, non c’erano prove di alcuna transizione verso il socialismo (non solo verso il comunismo), che è rimasto un orizzonte meramente ideologico. «Il completamento della transizione capitalista sotto gli auspici dello Stato stesso» non fu «un rischio», come sostiene Chuang, ma piuttosto un fatto celato sotto una fraseologia che era essa stessa una caricatura del “marxismo” – si trattava infatti dello stalinismo tradotto in cinese.

«Le tendenze più salienti emerse durante gli anni del Grande Balzo in Avanti possono essere viste come un’evoluzione distintamente cinese dell’alto stalinismo. Era il periodo in cui il modello sovietico e il modello della Cina orientale erano di uguale grandezza e si scontravano. Ma questo non significa che questi esperimenti di breve durata tendessero al comunismo, come sosteneva la propaganda dell’epoca. Invece, erano ancora un’altra dimensione della natura fondamentalmente instabile del regime di sviluppo socialista – questa volta segnalando una forte tendenza verso una reinvenzione delle pratiche produttive tradizionali. Il GBA ha visto un tentativo di rilanciare le reti di produzione rurale, ora sotto gli auspici del nuovo Stato piuttosto che del mercato rurale, orientandole verso i suoi fini di sviluppo».

Non si comprende perché Chuang chiama “socialismo” quello che non riesce a definire come “capitalismo” stricto sensu. Banalmente: non tutto quello che non può essere rubricato come Capitalismo cade nella sfera del Socialismo. Non vedo alcun motivo per definire “socialista” la condizione creata da questo contingente e relativo ritorno indietro della Cina verso forme economiche precapitalistiche o semicapitalistiche. Ma Chuang la pensa in modo diverso: «Il regime di sviluppo socialista designa il crollo di qualsiasi modo di produzione. […] Il periodo non capitalista della Cina fu caratterizzato dal movimento popolare guidato dal Partito Comunista Cinese e riuscì sia a distruggere il vecchio regime che ad arrestare la transizione al capitalismo, lasciando la regione bloccata in una stasi concepita all’epoca come “socialismo”». Ma si trattò davvero di socialismo? E si può davvero parlare di un crollo di qualsiasi modo di produzione? Ma finiamo la citazione: «Il sistema socialista, a cui ci riferiamo come a un “regime di sviluppo”, non era né un modo di produzione né uno “stadio di transizione” tra capitalismo e comunismo, e nemmeno tra il modo di produzione tributario e il capitalismo. Dal momento che non era un modo di produzione, non era nemmeno una forma di “capitalismo di stato”, in cui gli imperativi capitalistici erano perseguiti sotto le spoglie dello stato, con la classe capitalista semplicemente sostituita nella forma ma non nella funzione dalla gerarchia del governo dei burocrati. Al contrario, il regime di sviluppo socialista designa il crollo di qualsiasi modo di produzione e la scomparsa dei meccanismi estrattivi (siano essi tributari, filiali o commerciali) che governano i modi di produzione in quanto tali. In queste condizioni, solo forti strategie di sviluppo guidate dallo Stato erano in grado di guidare lo sviluppo delle forze produttive. La burocrazia è cresciuta perché la borghesia non poteva assolvere questo compito. Data la povertà e la posizione della Cina rispetto al lungo arco dell’espansione capitalista, solo i programmi di industrializzazione “big push” di uno Stato forte, accoppiati a resilienti configurazioni di potere locali, erano in grado di costruire con successo un sistema industriale. Ma la costruzione di un sistema industriale non è la stessa cosa del passaggio con successo a un nuovo modo di produzione».

Nel suo eccellente saggio del 1976 Introduzione alla storia della Cina, Arturo Peregalli individua addirittura ben sette «rapporti di produzione»in un arco di tempo che va dal 1949 al 1974: si va dal rapporto di produzione tipico del capitalismo (Lavoro salariato/Capitale) a rapporti che attestano la «sopravvivenza del mutuo aiuto comunitario di tipo precapitalistico». «I dirigenti cinesi hanno presentato il processo di centralizzazione nell’industria e nell’agricoltura come progressiva introduzione del socialismo. Ma se si esamina storicamente il succedersi delle forme di produzione ed i rapporti sottostanti questo elemento ideologico viene smentito categoricamente. […] I rapporti di produzione fondamentali della società cinese non sono mai usciti dai rapporti capitalistici di produzione [10].

Scrive Chuang: «Anche al culmine della sua diversità, tuttavia, questo progetto è stato infine definito da un particolare orizzonte comunista che era emerso dalla combinazione del movimento operaio europeo e dalla storia stessa della regione con le sue millenarie rivolte contadine. Oggi questo orizzonte comunista non esiste più. Non ha senso “schierarsi” su queste questioni storiche, semplicemente perché non c’è simmetria tra allora e adesso». A mio avviso l’orizzonte di cui parlano i compagni di Chuang non è mai esistito, e ciò chiama in causa, che lo si voglia o no, il giudizio sulla storia «del movimento operaio europeo» dopo l’ascesa dello stalinismo, il quale ha avuto moltissimo a che fare con il PCC e la rivoluzione cinese degli anni Venti.

È vero che «non c’è simmetria tra allora e adesso», talmente diverso è il quadro di riferimento sociale che abbiamo dinanzi a noi rispetto a quello con cui si confrontarono i comunisti (solo di nome?) del passato; ma il giudizio sulla “Russia di Stalin” e sulla “Cina di Mao” non ha perso la sua decisiva importanza perché ci dice quale idea di “comunismo” abbiamo in testa, cosa intendiamo quando parliamo di rivoluzione sociale e di emancipazione del proletariato. Come ho già chiarito, il giudizio sullo stalinismo e sul maoismo è fondamentale, almeno per chi scrive, non in chiave di polemica storiografica, o per una critica politico-ideologica svolta con il viso rivolto al passato e avente l’obiettivo di individuare quale corrente politico-ideologica attiva nel passato ha avuto ragione alla luce del presente: non si tratta affatto di questo. Personalmente non faccio nemmeno parte di nessuna corrente politica più o meno organizzata. Si tratta piuttosto di capire, e mi scuso per la ripetizione, che cosa intendiamo oggi per lotta di classe, rivoluzione sociale, socialismo, comunismo. Ad esempio, il “socialismo” e il “comunismo” di cui parla la stragrande maggioranza di quelli che si definiscono “socialisti” e “comunisti” non mi piace nemmeno un poco e mi appare come la bruttissima copia del capitalismo. Moltissimi cosiddetti “comunisti” non sono che dei miserabili tifosi del Capitalismo di Stato. Non si tratta dunque di schierarsi su «questioni storiche», ma di far comprendere il più possibile agli interlocutori il significato che attribuiamo alle parole, capire a quali concetti esse rimandano. In vista di questo sforzo tutt’altro che dottrinario e intellettualistico personalmente mi sono occupato, ad esempio, della storia del cosiddetto Partito Comunista Italiano di Togliatti, un Partito borghese al cento per cento.

«Allo stesso tempo, l’URSS era considerata un esempio emblematico, anche se profondamente imperfetto, di un sistema non capitalista che era stato in grado di sopravvivere in relativo isolamento, scongiurando sia l’invasione militare che l’embargo economico. La burocrazia e la brutalità che accompagnavano i cambiamenti interni di potere all’interno dell’URSS non erano affatto invisibili ai comunisti cinesi. […] Tuttavia, l’URSS era l’unico esempio mondano di una società moderna che era anche sostanzialmente non capitalista». Ma Chuang condivide il giudizio sull’URSS dei «comunisti cinesi» dell’epoca? La formula «sostanzialmente non capitalista» appare quantomeno ambigua e fumosa, soprattutto alla luce del capitalismo mondiale del XX secolo e della stessa storia russa. L’Unione Sovietica era, a mio modo di vedere, «sostanzialmente capitalista». L’economia russa considerata nel suo complesso si distanziava enormemente dal modello di capitalismo di Stato “puro” o integrale possibile in linea teorica. Solo il settore industriale (industria pesante) e una piccola parte dell’economia agraria (i Sovchos, le fattorie statali) possono infatti essere inclusi senza forzature nel concetto di capitalismo di Stato; per il resto siamo alla presenza di forme miste e ibride di rapporti proprietari (tutte rigorosamente capitalistiche): dalla proprietà privata, più o meno mascherata sul piano politico e giuridico, a quella cooperativistica, con tutti i gradi intermedi tra le due forme. Senza parlare della cosiddetta economia informale (o “nera”), molto diffusa soprattutto nella campagna russa come luogo di produzione – con sbocchi mercantili nelle città del Paese. Il Kolchoz non era una forma di capitalismo di Stato; era piuttosto una forma “mista” che metteva insieme la proprietà statale e quella individuale (sotto forma di un pezzo di terra e qualche capo di bestiame), il lavoro salariato e il piccolo azionariato, visto che il piccolo produttore rurale russo riceveva oltre al salario una piccola parte del profitto generato dall’impresa kolchoziana. Per questa sua peculiare condizione sociale il kolchoziano sviluppò una coscienza e una psicologia tutt’altro che inclini alla rivoluzione. Tuttavia sbaglieremmo a dipingere a tinte rosee la vita dei kolchoziani, che infatti fu sempre dura, anche a causa della scarsa produttività del sistema kolchoziano. Ma qui rischio di divagare!

«Ma questo non vuol dire che l’era socialista non avesse una dimensione globale. È stata la più grande di un’ondata mondiale di rivoluzioni socialiste»: quelle che Chuang definisce «rivoluzioni socialiste» io le definisco rivoluzioni nazionali-borghesi-antimperialiste, rivoluzioni cioè che ebbero la stessa natura storico-sociale della rivoluzione cinese. Diciamo che non si tratta di una differenza poco significativa, tutt’altro. Ecco perché non posso condividere passi di questo genere: «In Cina, la mitologia industriale del movimento operaio si sarebbe fusa con la realtà della rivoluzione rurale in modo più fluido di quanto non fosse accaduto nell’Unione Sovietica. Il prodotto era una cultura socialista in cui l’escatologia marxista si fondeva con secoli di millenarismo contadino. Questa combinazione si è dimostrata in grado di innescare una delle più grandi esplosioni di sviluppo nella storia umana». Condivido solo l’ultima frase: in Cina abbiamo assistito a «una delle più grandi esplosioni di sviluppo nella storia umana»; si tratta di capirne il significato storico e sociale.

Per la Cina degli anni Cinquanta si può parlare correttamente di «una società sostanzialmente non capitalista», soprattutto nel suo gigantesco retroterra rurale, se si precisa che in quel Paese economicamente arretrato era all’ordine del giorno la transizione al capitalismo. La lunga sospensione della transizione al capitalismo di cui parla Chuang, e che sarebbe ripresa nel 1978, dopo la definitiva sconfitta dalle corrente maoista interna al PCC, realizzò le premesse generali del decollo capitalistico del Paese e in ogni caso tale periodo non significò un suo seppur momentaneo passaggio nella dimensione socialista. «I primi anni dopo il 1949 furono anche un periodo in cui al partito fu concesso il tempo di sperimentare le proprie forme di amministrazione industriale e prepararsi per l’arresto della transizione capitalista»: se arresto vi fu, esso non segnò affatto l’inizio della transizione al socialismo, ma piuttosto un contingente ritorno a forme precapitalistiche, più o meno idealizzate – soprattutto dagli intellettuali progressisti occidentali, sempre assetati di nuove e originalissime “terze vie”. A questo proposito scriveva Simon Leys nel 1971: «I nostri filosofi d’oggi, paiono egualmente poco desiderosi d’indagare sulla verità storica del maoismo, temendo, senza dubbio, che un confronto con la realtà, si riveli d’annoso a questo mito, che li dispensa dal pensare di testa proprio» [11]. I “marxisti” occidentali che allora opposero il modello maoista (“movimentista”) a quello stalinista (“sclerotizzato”) non afferrarono la profonda radice che legava i due “modelli”, essendo il primo una derivazione modificata del secondo. Tra l’altro essi non compresero il significato sociale e geopolitico del “movimentismo” e del “volontarismo” maoista, i cui termini essenziali credo di aver toccato in queste pagine.

Da quanto sopra affermato, si comprende bene perché chi scrive non può condividere ciò che scrive Chuang a proposito del «blocco socialista»: «Anche se nel 1969 [incidente dell’isola di Zhenbao] la guerra sino-sovietica fu scongiurata, questo fu il punto in cui i legami sino-sovietici furono definitivamente recisi, concludendo il periodo di diplomazia precaria tra i due più grandi membri del blocco socialista». Chuang parla di «nazioni socialiste» anche per quel che riguarda le nazioni che caddero nell’area di influenza dell’imperialismo sovietico: il “socialismo” imposto ai Paesi dell’Est europeo dall’Armata Russa! I lettori hanno già capito: per chi scrive, non è mai esistito alcun «blocco socialista», comunque lo si voglia intendere dal punto di vista sociale, politico e geopolitico. «Nel contesto della guerra fredda, l’incidente di Zhenbao ha anche segnalato le prime ouverture della Cina verso gli Stati Uniti»: non c’è dubbio. Il movimento della Cina verso gli Stati Uniti si spiega in larga parte con la crescente conflittualità politico-militare tra i due giganti del “socialismo reale”. Sotto l’aspetto economico, la contesa interimperialistica si dipanò invece quasi interamente nel cosiddetto “mondo libero”. Almeno dagli anni settanta in poi, il «blocco democratico» fu il teatro di un’accesa contesa industriale, commerciale e finanziaria tra i Paesi che ne facevano parte, soprattutto tra Giappone, Germania e Stati Uniti. Alla fine degli anni Ottanta, ad esempio, i rapporti commerciali tra Stati Uniti e Giappone giunsero a un punto davvero critico, e contro il Made in Japan e il capitale finanziario nipponico Washington rispolverò perfino la tragedia dell’«attacco proditorio» a Peel Harbour: «Il Giappone vuole conquistare il nostro mercato, le nostre fabbriche, le nostre banche e i nostri grattacieli!». Si spiega anche con la crescente concorrenza portata dal capitale europeo e giapponese al capitale statunitense l’avvicinamento di Washington a Pechino alla fine degli anni Sessanta, che troverà una “sorprendente” accelerazione nel decennio successivo. Ma su queste aspetti Chuang ha scritto analisi molto approfondite che in larghissima parte condivido.

Ma ritorniamo, per concludere rapidamente, al «periodo socialista dello sviluppo cinese». Per quanto paradossale possa apparire a prima vista, gli «esperimenti con forme di produzione non capitaliste» furono poste al servizio dell’accumulazione capitalistica in un contesto sociale fortemente problematico, reso ancor più difficile dalla mancanza di capitale nazionale e dal “soccorso” tutt’altro che fraterno dell’imperialismo russo. La Cina si trovò di fatto isolata nella sua profonda arretratezza economico-sociale e minacciata nella sua sovranità da tutte le parti: dai sovietici e dagli statunitensi. La difesa della sovranità nazionale non è un pranzo di gala!

Lo ripeto: non nego affatto l’originalità dello sviluppo economico-sociale della Cina moderna; ciò che io sostengo è che questa originalità, del tutto comprensibile alla luce della storia di quel Paese nel suo rapporto con il mondo esterno (Occidente incluso, ovviamente) e con le sue caratteristiche fisiche, demografiche, etniche e quant’altro; questa originalità, dicevo, non ha mai toccato, e nemmeno sfiorato, la dimensione socialista, e si è data interamente dentro il solco dell’accumulazione capitalistica, anche quando essa ha assunto le sembianze di prassi economiche precapitalistiche – non postcapitalistiche.

La Cina che uscì dalla catastrofica esperienza del Grande Balzo in Avanti conobbe una drammatica condizione di stallo, dalla quale il Paese sarebbe potuto uscire solo in due modi: o schiantandosi al suolo come entità economica e nazionale sovrana (sempre nei limiti consentiti dalla natura sovranazionale del Capitale), oppure accelerando e potenziando la sua ascesa capitalistica, rendendo definitivo e stabile il proprio decollo economico-sociale. O lo schianto, o il decollo: sappiamo com’è andato a finire l’autaut che i fatti (di natura interna e internazionale, economica e sociale, nazionale e politica) hanno imposto alla Cina. Pur fallendo clamorosamente il suo principale obiettivo (accrescere l’accumulazione e la produttività agricola), il Grande Balzo in Avanti ebbe comunque il merito di mobilitare e scatenare le immense forze sociali esistenti soprattutto nel mondo rurale, mettendole al servizio dello sviluppo economico (soprattutto per quanto riguardava la realizzazione di importanti opere infrastrutturali) nei limiti imposti dalla complessa situazione venutasi a determinare.

Tutte le contorsioni, le contraddizioni, le lotte, spesso sanguinose, interne al Partito-Stato si spiegano, a mio avviso, con la natura nazionale-borghese di quel Partito e della rivoluzione che esso si sforzò di guidare (in conflitto con un altro Partito borghese, il Kuomintang), e con le eccezionali difficoltà che subito vi si pararono dinanzi. Difficoltà di vario genere (economiche, demografiche, geopolitiche, etniche: in una sola parola sociali) che ammettevano più di una soluzione, diverse possibili linee politiche (ad esempio: più o meno stataliste, più o meno filosovietiche, più o meno centraliste, più o meno federaliste, e così via); linee politiche in concorrenza, a volte anche feroce, che erano del tutto interne al regime di sviluppo capitalistico della Cina. Anche il «marxismo più meccanico e ingenuamente ottimista» di cui parla Chuang con riferimento a una corrente interna al PCC degli anni Cinquanta particolarmente incline allo stalinismo, non era che una caricatura del “marxismo” che nulla a che fare aveva con la teoria e con la prassi del comunismo. Qui nuovamente viene in luce l’importanza del giudizio storico sullo stalinismo inteso come fatto (meglio: processo) storico-sociale, al di là, come già detto, della personalità di un particolare individuo. Ho parlato di “stalinismo” e di “maoismo” (nonché della «Cina di Mao») solo per individuare rapidamente la costellazione di idee e di eventi cronologicamente determinati, e non in ossequio alla plechanoviana «funzione della personalità nella storia» – che peraltro sono lungi dal sottovalutare, soprattutto in chiave sintomatica.

Non è certo facile ricostruire in tutte le sue parti, un processo sociale di portata storica così grande ed estremamente complesso e contraddittorio, già nei suoi presupposti storici, sociali e geopolitici, come è stato indubbiamente quello cinese. Per certi versi la transizione dalla vecchia alla nuova Cina è avvenuta, quantomeno nel primo decennio successivo alla proclamazione della Repubblica Popolare nel 1949, nelle condizioni peggiori possibili sotto diversi e importanti aspetti, di natura interna e internazionale, e questo ha impresso a tale transizione un carattere particolarmente aggrovigliato, per così dire, e difficile da decifrare in ogni suo aspetto. Difficile ma tuttavia non impossibile, e difatti è possibile individuare in questo passaggio alcune fondamentali linee di sviluppo, alcune tendenze oggettive riconducibili a una chiara matrice storico-sociale: quella capitalista.

«L’apertura della Cina è stata l’inizio di un ampio processo di una sua sottomissione alla comunità materiale del capitale, processo guidato dalla crescente necessità delle economie sviluppate, che soffrivano di sovrapproduzione, di esportare prima beni e, in seguito, capitale. Questo processo rimane lo sfondo storico per la sottomissione della Cina all’interno dei circuiti globali di accumulazione». Questa riflessione è a mio avviso corretta se si tiene conto che non solo la Cina, ma tutti i Paesi del mondo sono sottomessi «alla comunità materiale del capitale», e se si coglie il cuore pulsante di questa comunità: il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento capitalistico, ossia la sottomissione del lavoro salariato al Capitale. La sottomissione della Cina «alla comunità materiale del capitale» deve intendersi, sempre all’avviso di chi scrive, il necessario epilogo di una vicenda scritta dalla storia del capitalismo mondiale, dalle cui pagine il grande Paese asiatico non poteva più rimanere fuori dopo l’espansione colonialista e imperialista dell’Occidente – e, da questo punto di vista, la storia del Giappone del XIX secolo è molto istruttiva.

Le tesi di Chuang sulla cosiddetta «era socialista», o «periodo socialista di sviluppo» in Cina, sono dunque a mio avviso in larga misura viziate da un grave errore di fondo: considerare l’Unione Sovietica “di Stalin” e la Cina rivoluzionaria “di Mao” come due Paesi che, in tempi e forme diverse, hanno avuto in qualche modo a che fare con il socialismo, ossia con il tentativo messo in essere dalle classi subalterne di quelle due grandi nazioni di fuoriuscire dal Capitalismo; un tentativo non riuscito o riuscito solo in parte e non definitivamente. Di qui, la tesi del «blocco socialista». Si tratta di capire, almeno per chi scrive, come si ripercuote questo grave errore di valutazione, di natura non semplicemente storica (tutt’altro), sulla posizione politica del Collettivo qui analizzato per un aspetto specifico. Esiste anche un’altra possibilità, e cioè che io non abbia ben compreso la posizione dei compagni di Chuang sul «periodo socialista» di sviluppo della società cinese e, in generale, sul «blocco socialista». In questo caso non mi dispiacerebbe scoprire di aver “clamorosamente” toppato.

 

[1] Dal Blog Chuang ho ripreso e pubblicato sul mio Blog Social Contagion e l’introduzione a Delivery Riders. Trapped in the System.
[2] Intervista rilasciata dal Collettivo Chuang a Global Projet, 29/2/2016.
[3] Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        
[4] Per il maoismo il blocco delle quattro classi (operai, contadini, piccola borghesia e borghesia nazionale “patriottica”) partecipa alla costruzione del “socialismo” e ne è il fondamento sociale. Ma il socialismo non è un processo che tende alla eliminazione delle classi? non è «la soppressione delle classi» (Lenin)? Sì, ma nel lunghissimo periodo. Lungo quanto? A piacere…
[5] Sulla Rivoluzione d’Ottobre rinvio anche ai PDF Lenin e la profezia smenaviekhista; Il Grande Azzardo.
[6] «Il carattere antimperialista della rivoluzione cinese non contraddice in alcun modo la natura borghese di questa rivoluzione, né ha impedito alla Cina di diventare a sua volta un Paese imperialista di primissimo rilievo, fino a collocarsi al vertice della piramide del Potere Mondiale, in conflittuale coabitazione con gli Stati Uniti d’America. L’antimperialismo della rivoluzione cinese registra piuttosto un “ritardo storico”, nel senso che lo sviluppo capitalistico in Cina, come in tanti altri Paesi del mondo, si è realizzato nell’epoca imperialista del capitalismo internazionale, e ha dovuto fare i conti con la politica di sfruttamento e di dominio politico-militare perseguita in primo luogo dai Paesi occidentali. Nel caso cinese, soprattutto dopo la Liberazione del 1949 è stata la tenaglia rappresentata dall’imperialismo statunitense e da quello “sovietico” a rendere particolarmente difficile, contraddittoria e generatrice di vere e proprie catastrofi sociali (carestie, violente persecuzioni etniche e politiche, ecc.) la modernizzazione capitalistica della Cina. La rivoluzione cinese aderiva perfettamente alla teoria leniniana dell’ineguale sviluppo capitalistico. «È necessario lottare con energia contro il tentativo di applicare nei paesi arretrati un’etichetta comunista ai movimenti rivoluzionari di liberazione che tali non sono effettivamente» (Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, 14 luglio 1920, Opere, XXXI, p. 164, Editori Riuniti, 1967). Anche questa preoccupazione leniniana colpisce nel segno, se pensiamo al cosiddetto “comunismo” del Partito di Mao» (La campagna cinese).
[7] Trotsky, Vujovič, Zinoviev, Cina 1927, p. 49, Iskra, 1977.
[8] Ivi, p. 224. «Nell’ottobre 1923 Michael Borodin, il comunista di lingua inglese che era già stato attivamente utilizzato negli affari del Comintern, giunse a Canton per invito di Sun Yat-sen. Sembra che fosse designato non dal governo sovietico o dal Comintern, ma dal partito comunista russo. La sua funzione fu quella di consigliere politico di Sun Yat-sen. Dopo sei anni dalla rivoluzione bolscevica, la Russia sovietica era emersa dalla penombra della confusione e dell’impotenza, e interveniva in modo decisivo nella politica di un grande paese asiatico» (E. H. Carr, La rivoluzione bolscevica, 1917-1923, p. 1311, Einaudi, 1964). I frutti velenosi di quell’intervento saranno raccolti dai proletari cinesi e dagli internazionalisti di tutto il mondo nel 1927.
[9] K. Marx, F. Engels, Prefazione alla nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 663, Editori Riuniti, 1973.
[10] A. Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, pp. 89-101, Ceidem, 1976.
[11] S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, pp. 15-16, Edizioni Antistato, 1977.

BAJKAL. LA PERLA DELLA SIBERIA MINACCIATA DAL CAPITALE

Che mistero pervade una sorgente!
Tanto remota è la vita dell’acqua,
simile a una compagna ultraterrena
racchiusa in una brocca di cui

nessuno ha mai veduto il fondo,
solo il coperchio di vetro – come

se si guardasse a volontà nel volto
di un abisso! 

 

Confesso che fino all’altro ieri non avevo mai sentito parlare del lago Bajkal, e la cosa mi appare tanto più imbarazzante alla luce del correttore automatico che controlla il file che sto digitando: il suo algoritmo conosce quel nome! Io invece quell’esotico nome l’ho scoperto appunto da pochissimo, del tutto casualmente, leggendo un interessante libro scritto nel 1966 dall’americano Harrison E. Salisbury (1908-1993), allora «il più autorevole degli inviati e corrispondenti del New York Times». Provo a ridimensionare la grave pecca balbettando, con una lieve modifica, il celebre motto socratico: quantomeno so di non sapere!

Il libro si intitola L’orbita della Cina, e fu pubblicato da Bompiani nel 1967. Era il periodo in cui nel mondo non si parlavo d’altro che dell’escalation nella guerra d’aggressione americana contro il Vietnam e della crisi di potere che in Cina travagliava il Partito-Stato cosiddetto comunista, diviso tra maoisti e “revisionisti”, e che proprio allora stava uscendo dalle profondità delle “dialettica” interna per dilagare come un fiume in piena sotto la grottesca e violenta forma della “Rivoluzione Culturale Proletaria”. Nel ’66 Salisbury compie un lunghissimo periplo che da Hong Kong lo porta in Siberia, dopo aver visitato la Cambogia, la Tailandia, il Laos, la Birmania, la Mongolia esterna, il Sikkim, l’India, il Giappone. Ne venne fuori il punto di vista dell’americano liberal “obiettivo” e “amante della pace” su quanto avveniva nella vivacissima Asia degli anni Sessanta, polarizzata intorno agli interessi delle Potenze che si confrontavano (non solo diplomaticamente ed economicamente) in quel quadrante: Stati Uniti, Unione Sovietica, Cina e India. Quel punto di vista, che rivelava al mondo la pessima coscienza dell’imperialismo americano, probabilmente impedì a Salisbury di portare a casa l’ambitissimo premio Pulitzer per l’anno 1967, dopo che nei suoi confronti il governo degli Stati Uniti (Presidenza Johnson) e la destra repubblicana imbastirono una rozza polemica intesa a far passare il giornalista del New York Times come una vittima della propaganda pacifista orchestrata da Ho Chi Minh (1). Il Presidente americano nel ’66 aveva negato il bombardamento della popolazione civile nordvietnamita da parte dell’aviazione militare statunitense: «I nostri aerei colpiscono solo l’acciaio e il cemento armato». Salisbury si limitò a descrivere quello che aveva visto con i suoi occhi durante due settimane di permanenza in Nord Vietnam: le bombe Made in USA non colpivano solo obiettivi militari, ma anche «obiettivi di nessun rilievo bellico: alcune aree residenziali di Hanoi, quartieri di negozi e di piccole botteghe, scuole. Se le bombe non sono state lanciate di proposito, l’effetto è identico a quello di un attacco intenzionale». Il vecchio Eisenhower se ne uscì con una battuta degna della sua grandissima esperienza e del suo realismo imperialista, il quale ieri come oggi, e a differenza del cosiddetto idealismo politico avvezzo a piangere solo sugli effetti, non si sforza nemmeno di addolcire l’amara pillola: «La guerra è guerra, e civili ce ne sono dappertutto». Come dargli torto! Come sempre, per evitare antipatici fraintendimenti occorre ricordare (soprattutto ai buoni di spirito) che in primo luogo cinica è la realtà (capitalistica); a mio avviso solo alla luce di questa solare verità ha un senso criticare il cinismo di chi a quella realtà dà una voce e un corpo. Ma qui si divaga! Veniamo dunque alla mia tardiva scoperta – meglio tardi…

Salisbury lasciò la capitale della Mongolia esterna Ulan Bator nell’estate del 1966, per raggiungere Irkutsk, nella Siberia meridionale, porta d’accesso al lago Bajkal, e dove fino a qualche anno prima «c’erano agevolazioni speciali per i funzionari e i turisti cinesi», mentre adesso di cinesi se ne vedevano pochissimi, segno che «la tensione tra Mosca e Pechino si sentiva anche lì». Ma, continuava il nostro corrispondente, «a Irkutsk erano assai più preoccupati per un problema che li riguardava più da vicino: l’inquinamento del lago Bajkal. Questo lago ha circa venti milioni di anni. Era un tempo una zona vulcanica ed è ancora oggi soggetta a terremoti. È sostanzialmente un’enorme catena di montagne delle quali emergono solo le punte, che nelle loro valli racchiudono quantità impressionanti di acqua dolce. È lungo circa 650 chilometri e largo un massimo di cento. La profondità massima è di 1741 metri. L’ecologia del Bajkal è particolarissima. È il più grande ammasso d’acqua dolce che esista al mondo, ed è un’acqua di purezza incredibile, ciò che esiste in natura di più simile all’acqua distillata». Salisbury ci parla insomma di un’assoluta meraviglia della natura. Ma ecco la magagna che la minaccia: «Tutto questo è ora minacciato dall’avidità del trust sovietico della carta. Sulla sponda meridionale del lago, nelle vicinanze di una zona fittamente alberata, il trust sovietico della carta sta costruendo una delle più grandi fabbriche di polpa di legno del mondo. Si prevede di completarla nel 1966 o all’inizio del 1967, e scaricherà nel Bajkal miliardi di litri di rifiuti solforosi. “Adesso capisce perché la fabbrica di polpa di legno ci preoccupa tanto”, mi disse un giovane scienziato dell’Istituto limnologico. “Al trust della carta interessa produrre e ricavare profitti. Nessuno finora sembra voler impedire questo delitto”». Maledetto capitalismo! Capite che la mia coscienza ecologica radicalmente anticapitalista si è subito alquanto irritata e allarmata, tanto più che mi è balenato alla mente il tragico destino toccato in sorte al lago d’Aral, il grande lago salato di origine oceanica, situato alla frontiera tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, Paesi che un tempo facevano parte dell’Unione Sovietica, e che oggi è ridotto praticamente a uno sputo (2).

«Che fine avrà fatto il lago Bajkal?», mi sono chiesto sinceramente preoccupato. Purtroppo la mia preoccupazione era fondata: «Il lago più profondo della Terra è in crisi. La più grave crisi che abbia mai sopportato. Le cause sono, secondo un’inchiesta dell’Agence France Press, l’eccessiva antropizzazione delle sue coste, il turismo e le attività economiche che si sono create negli anni, aumentando l’inquinamento» (Rinnovabili.it). Si scrive antropizzazione ma si legge capitalismo, oggi come negli anni Sessanta, quando il trust sovietico della carta pensò bene di costruire una cartiera sulla sponda meridionale del Bajkal: è l’odiosa legge del profitto, Greta Thunberg, e tu non puoi farci niente! A proposito: quella cartiera ha chiuso i battenti nel 2013. Si è forse trattato di una tardiva eppur apprezzabile presa di coscienza ecologista da parte di capitalisti e governanti? No: si è trattato di una bancarotta.

Il lago contiene ancora circa il 20% delle riserve d’acqua dolce del pianeta, e può ancora vantare una bellezza che toglie il fiato, un fascino che giustifica ancora il suo vecchio nome (Dalai-Nor, Mare Sacro) e una biodiversità forse senza pari (il suo ecosistema ospita più di 3.600 specie vegetali e animali, e ogni anno si scoprono nuove specie endemiche); il lago Bajkal è insomma ancora la «perla della Siberia». Ma la morte delle sue rinomate spugne, rimpiazzate dalle alghe (si tratta della spirogira, un’alga considerata indicatore di contaminazione fecale), e la drastica riduzione della popolazione di omul, un salmone presente solo nel Bajkal (e la cui pesca ora è vietata, visto che la biomassa totale dell’omul si è più che dimezzata rispetto a 15 anni fa), sono solo il sintomo più evidente di una crisi ecologica che con il tempo non può che aggravarsi, e già oggi lo stesso governo russo parla di una possibile catastrofe ecologica in tempi brevi. «Le acque del Bajkal appartengono all’intero pianeta», disse qualche anno fa il virile Vladimir Putin lasciandosi «immortalare a torso nudo mentre catturava un pesce di mezzo metro» (Corriere della Sera). Il problema, caro Vladimir, è che il pianeta è saldamente nelle mani del Moloch capitalistico, il quale vede nelle acque del Bajkal, e in tutto quello che vi vive e vi prospera da millenni, non più che fresco cibo da ingurgitare per placare la sua insaziabile fame di profitti: «Nulla di personale, amici, è nella mia natura mercificare tutto e tutti». Il mostro ci invita a considerarlo come una creatura che ha a che fare con la mera oggettività delle cose, non con la cattiva volontà soggettiva, e personalmente concordo con questo approccio.

«Certo è», scrive Marina Forti, «che il turismo sta già trasformando il paesaggio umano. Kuzhir, al centro di Olhon, dove approdano i traghetti dalla terraferma (d’estate) e l’autostrada di ghiaccio (d’inverno), era fino a una decina d’anni fa uno sperduto villaggio di poche case di legno, con l’unico ufficio postale dell’isola, la scuola elementare e un paio di negozi. Strade sterrate, gelido d’inverno e polveroso d’estate. Ora il villaggio sembra in preda a una frenesia di capitalismo selvaggio» (Internazionale). No, non si tratta di «capitalismo selvaggio»; piuttosto mi sembra più corretto dire che è il capitalismo in quanto tale ad essere selvaggio. Ma questa è come sempre una mia personalissima opinione. Certo è che chi parla di «capitalismo selvaggio» il più delle volte perora l’escrementizia causa di un “capitalismo dal volto umano”, magari chiamando la stessa Cosa con un altro nome.

«Mikhail Shapov, governatore di Irkutsk, a 70 chilometri dal lago, ha chiarito che si pensa di limitare l’accesso in alcune zone più critiche, ma in altre aree sarà aumentata l’offerta turistica. “Non c’è un ordine di importanza delle minacce al lago”, spiega Mikhail Kreindlin, di Greenpeace Russia. “È un insieme di turismo incontrollato, hotel senza impianti di depurazione, inquinamento dalle città vicine, industrie senza impianti di trattamento delle acque di scarico, navigazione senza regole, disboscamento e incendi delle foreste» (Il Corriere della Sera). Il problema ha una natura “sistemica”, come piace dire agli analisti di problemi strategici.

Inutile dire che il capitale cinese è molto attivo anche dalle parti del lago Bajkal, al punto che la popolazione locale parla apertamente di «occupazione straniera», e negli ultimi anni diverse sono state le manifestazioni di protesta contro l’apertura di Hotel e di aziende controllate dagli investitori cinesi. Scrive Anna Lotti: «La presenza cinese nella regione è esplosa dopo il crollo del rublo nel 2014 e il governo russo ha allentato le restrizioni sui visti turistici. Con la crescita del turismo e degli affari, è cresciuta anche la diffidenza locale verso i cinesi considerati come delle cavallette aliene, la cui presenza depaupera solo il territorio. Negli ultimi dieci anni gli investimenti cinesi in Russia sono aumentati di quasi nove volte, raggiungendo i 13,8 miliardi di dollari. Due terzi di tale importo sono stati destinati alle risorse naturali russe, coinvolgendo i settori minerario, forestale, della pesca e agricolo. Sul terreno, però, invece di favorire relazioni amichevoli, gli investimenti cinesi hanno alimentato risentimento e tensioni, soprattutto in Siberia e nell’Estremo oriente russo. L’attività di disboscamento in espansione ha suscitato nell’opinione pubblica il timore che i cinesi stiano distruggendo le antiche foreste della Russia, il più grande fornitore cinese di legname. Centinaia di migliaia di ettari di terreni incolti che sono stati affittati a società cinesi per l’agricoltura, hanno dato luogo a campagne mediatiche “contro l’annessione di Pechino”. Gli investitori cinesi inoltre stanno comprando gli hotel sulle rive del lago Baikal. Un progetto finanziato dalla Cina per imbottigliare l’acqua del lago Baikal in Russia ha causato un contraccolpo in Siberia, dove stanno montando le proteste per quello che è considerato come un esproprio fatto dai cinesi. Gli ecologisti e le autorità locali avevano già parlato in precedenza dell’imbottigliamento dell’acqua del lago più grande del mondo come un modo “verde” per sfruttare le risorse naturali della Siberia» (www.agcnews).

L’ho già detto: per il Capitale tutta quell’acqua, tutta quella biodiversità e tutta quella abbacinante bellezza rappresentano un imperdonabile spreco se non vengono trasformate in fonti di profitti e di successo economico. Senza parlare, nel caso specifico, degli interessi di natura geopolitica che da sempre dividono la Russia dalla Cina, la quale già negli anni Sessanta del secolo scorso si era liberata dal senso di inferiorità che nutriva nei confronti dell’imperialismo russo e rivendicava ciò che riteneva le appartenesse di diritto. Scriveva Salisbury: «Lungo l’Amur mi accorsi che i cinesi venivano presi sul serio. Nessuno pensava che la Cina intendesse soltanto fare un po’ di chiasso quando diceva che dei nove iniqui trattati che l’avevano costretta a rinunciare a parte del suo territorio tre le erano stati imposti dalla Russia. Nessuno riteneva che la Cina stesse scherzando quando attaccava la posizione sovietica in Mongolia, o quando dichiarava che metà dell’Asia centrale sovietica era sua di diritto». Allora la Cina di Mao mostrava agli ex “amici fraterni” dell’Unione Sovietica i suoi denti e i suoi muscoli (militari, politici e propagandistici), non potendo contare su un’adeguata forza dell’economia; oggi l’imperialismo cinese è capitalisticamente così forte, da permettersi il lusso di mostrarsi ai russi e al mondo intero con un bonario sorriso stampato sulla faccia (vedi il “simpatico” Xi Jinping): «La nostra economia non vuole dominare nessuna nazione. È dal libero commercio che germoglia la pace e l’armonia tra i popoli». Come no!

«La presenza umana lungo il lago di Bajkal si intensifica», scrive preoccupata la già citata Marina Forti; ma qui il problema non è affatto la presenza umana! Piuttosto si dovrebbe parlare di presenza disumana. Il problema è infatti la presenza del Capitale che «si intensifica» ovunque, con gli effetti devastanti sugli uomini e sulla natura che tutti possono vedere. Capire è tutto un altro discorso.

«”Levushka, te lo chiediamo a nome della Russia: vieni a salvare il lago Bajkal”. L’appello non esce dalle pagine di Dostoevskij e Levushka, che in russo sta per Leonardino, non è uno dei fratelli Karamazov ma Leonardo DiCaprio, che compare in un accorato post su Instagram vestito da zar. L’attore americano, che aveva raccontato di avere due bisnonni di origine russa, nei giorni scorsi ha visto il suo profilo social inondato di messaggi in cirillico. Il premio Oscar è da anni un attivista ambientale. A coloro che hanno a cuore la sorte del lago Bajkal è parso il testimonial adatto per sensibilizzare sulla sorte della maggiore riserva di acqua dolce del mondo (ghiacciai esclusi)» (Corriere della Sera). Dinanzi a Leonardo DiCaprio il mio anticapitalismo parolaio non può che arrossire e nascondersi da qualche parte. Dalle parti del Bajkal però no, patisco il freddo! Ma sì, Levushka, salva il Bajkal! Per una volta nella mia vita voglio dar credito al sano (?) realismo: che tempi!

(1) «Ho Chi Minh era l’uomo delle contraddizioni e delle sorprese, talvolta programmatiche. Si è discusso a non finire se fosse prima di tutto un nazionalista o un comunista, ma la risposta è ovvia: era l’uno e l’altro. Fu nazionalista prima che comunista, ma divenne comunista perché i comunisti gli sembravano più impegnati a lottare per la libertà e l’indipendenza dell’Indocina» (H. E. Salisbury). L’ovvietà di Salisbury non mi convince per niente: a mio avviso Ho Chi Minh non fu mai un comunista, ma piuttosto un rivoluzionario nazionalista borghese (secondo una definizione storico-sociale, non sociologica) sostenuto da chi allora si proclamava ed era considerato quasi unanimemente “comunista”. Mutatis mutandis, la stessa cosa si può dire di Mao Tse-tung e della sua rivoluzione.
(2) «Nei primi anni sessanta il governo dell’Unione Sovietica decise di prelevare, tramite l’uso di canali, l’acqua dei due fiumi che sfociavano nel lago nel tentativo di irrigare il deserto per coltivare riso, meloni, cereali, ed irrigare i neonati vasti campi di cotone delle aree circostanti. Ciò faceva parte del piano di coltura intensiva per il cotone voluto dal regime sovietico, che aveva il fine di far diventare la Russia una delle maggiori esportatrici. La costruzione dei canali d’irrigazione cominciò in larga scala negli anni quaranta. La maggior parte di essi è stata costruita in modo sbrigativo, permettendo all’acqua di filtrare o evaporare. Sin dal 1950 si poterono osservare i primi vistosi abbassamenti del livello delle acque del lago. Già nel 1952  alcuni rami della grande foce a delta dell’Amu Darya non avevano più abbastanza acqua per poter sfociare nel lago. Nel 1960 una quantità d’acqua stimabile tra i 20 ed i 60 km³ veniva deviata nell’entroterra. Dal 1961 al 1970 il livello del lago scese ad una media di 20 cm all’anno, e negli anni settanta la media triplicò arrivando a 50-60 cm all’anno, mentre negli anni ottanta la media era compresa fra gli 80 e i 90 cm annui. Il tasso di utilizzo d’acqua per scopi irrigui continuò a crescere: l’acqua deviata dai fiumi duplicò tra il 1960 e il 2000, così come la produzione di cotone. […] La progressiva scomparsa del lago non sorprese i sovietici, che avevano previsto l’evento all’inizio dei lavori e ritenevano che l’Aral, una volta ridotto ad una grande palude  acquitrinosa, sarebbe stato facilmente utilizzabile per la coltivazione del riso. Già nel 1964 Aleksandr Asarin dell’istituto Hydroproject evidenziava il fatto che il lago era condannato, spiegando che “ciò fa parte dei piani quinquennali approvati dal Consiglio dei ministri e dal Politburo”. Nessun appartenente a un livello inferiore avrebbe osato contraddire questi piani, anche se così il destino del lago fu segnato. Il piano di sfruttamento delle acque dei fiumi a scopo agricolo aveva come responsabile Grigory Voropaev che, durante una conferenza sui lavori dichiarò, a chi osservava che le conseguenze per il lago sarebbero state nefaste, che il suo scopo era proprio quello di “far morire serenamente il lago d’Aral”. Era infatti così abbondante la necessità di acqua che i pianificatori arrivarono a dichiarare che l’enorme lago era ritenuto uno spreco di risorse idriche utili all’agricoltura e, testualmente, “un errore della natura” che andava corretto. Un ingegnere sovietico ha dichiarato nel 1968: “è evidente a tutti che l’evaporazione del lago d’Aral è inevitabile”» (Wikipedia). Il capitalismo con caratteristiche “sovietiche” è stato particolarmente ostile agli uomini e alla natura, superato in questo solo dal capitalismo con caratteristiche cinesi.

 

DIALETTICA DEL DOMINIO CAPITALISTICO. Sui concetti di classe dominante e dominio di classe

Nel concetto del capitale è insito che le condizioni oggettive
del lavoro assumano una personalità contrapposta al lavoro,
o, ciò che è lo stesso, che esse siano poste come proprietà
di una personalità estranea all’operaio (Karl Marx) [1]

 

Per comprendere come nel Capitalismo del XXI secolo si configura la struttura di classe della società e in quali forme si dà il dominio di classe, occorre a mio avviso dotarsi di uno strumento teorico (di una “concezione”) in grado di spingere il pensiero critico-radicale oltre la caotica palude della mera apparenza, la quale, come ammoniva il comunista di Treviri, spesso ci restituisce la realtà in termini capovolti. Sebbene abbia un taglio molto particolare occasionato, come detto sopra, dalla lettura di un determinato libro, questo scritto rappresenta il mio contributo a questo prezioso sforzo teorico e politico.

Qui il PDF

[1] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (Grundrisse), II, p. 146, La Nuova Italia, 1978. Nel precedente post ho definito la «personalità» di cui parlava Marx nei termini di un soggetto sociale che impone la sua volontà a tutta la comunità.

OGGI COME ALLORA. ADORNO E IL NUOVO RADICALISMO DI DESTRA

Chi non vuole parlare di capitalismo non deve
parlare nemmeno di fascismo. […] L’ordine
totalitario non è altro che l’ordine precedente
senza i suoi freni. […] Oggi combattere il
fascismo richiamandosi al pensiero liberale
significa appellarsi all’istanza attraverso cui
il fascismo ha vinto (Max Horkheimer).

Ho letto l’interessante breve saggio sugli Aspetti del nuovo radicalismo di destra (Marsilio, 2020) ricavato dalla registrazione di una conferenza che Theodor W. Adorno tenne il 6 aprile del 1967 all’Unità di Vienna su invito dell’Unione degli studenti socialisti dell’Austria. Il testo della conferenza è rimasto «pressoché sconosciuto» per oltre mezzo secolo, come ricorda lo storico Volker Veiss nella sua postfazione. Pare che il libro stia riscuotendo un notevole successo non solo in Germania ma un po’ in tutta Europa, e leggendolo i motivi di un tale consenso appaiono subito chiarissimi.
In effetti, per molti aspetti le “problematiche” affrontate da Adorno nel 1967 appaiono più attuali oggi che allora; eccone un esempio: «Nonostante la piena occupazione e nonostante tutti i segni di prosperità, lo spettro della disoccupazione tecnologica continua ad aggirarsi tanto che, nell’epoca dell’automazione, anche gli esseri umani che si trovano all’interno del processo produttivo in realtà si sentono già potenzialmente superflui o potenziali disoccupati (pp. 15-16). Bisogna tener presente che ancora nel 1967 l’eccezionale fase espansiva dell’economia iniziata nel secondo dopoguerra faceva sentire i suoi “benefici” effetti, sebbene il processo di accumulazione avesse di molto rallentato la sua “spinta propulsiva” e si avviasse alla prima seria battuta d’arresto postbellica anticipata in qualche modo dai movimenti del ’68. Allora – come oggi – la Germania era la locomotiva del capitalismo europeo.

Oggi, nell’epoca della cosiddetta Intelligenza Artificiale, lo spettro della “disoccupazione tecnologica” alita sul collo del lavoratore (“manuale” o “intellettuale” che sia) fondando economicamente una precarietà esistenziale sempre più acuta e difficile da gestire emotivamente e psicologicamente. È fortissima la tentazione di cadere nel feticismo tecnologico, ossia di accedere alla cattivissima idea di attribuire una volontà, e quindi una responsabilità di qualche tipo, alla cosa, e non alla relazione sociale di cui essa è l’espressione. Detto en passant, di questi tempi è molto diffuso il feticismo virale, ossia l’idea malsana di attribuire al coronavirus la crisi sociale internazionale che ha avuto nella pandemia solo la sua miccia d’innesco, senza contare la stessa natura squisitamente sociale della pandemia già nel suo momento genetico – a cominciare dalla distruzione capitalistica degli ecosistemi. «Un invisibile virus ha messo in ginocchio l’economia mondiale»: sciocchezze! Le contraddizioni tipiche del capitalismo e le sue leggi di movimento hanno messo in ginocchio l’economia mondiale: il nemico invisibile si chiama rapporto sociale capitalistico. Questo solo per dire che abbiamo a che fare con un clima sociale che rende possibile, oggi come allora, la diffusione di quelle idee irrazionali che sono la premessa del successo dei «cosiddetti sistemi di massa di stampo fascista», i quali hanno senza alcun dubbio una profonda relazione strutturale con i sistemi della follia» (p. 30).

La disoccupazione causata dall’introduzione nel processo produttivo (di “beni e servizi”) di tecnologie che risparmiano lavoro per molti è una triste realtà, e per molti altri è, appunto, uno spettro sempre presente e minaccioso. Oggi assai più di ieri il rischio della rapida obsolescenza tocca tutti i settori di attività, e financo il “mestiere più antico del mondo” (sì, proprio quello!) sembra poter fare a meno di personale in carne ed ossa per soddisfare le esigenze del cliente, e con una discrezione e un’igienicità che nel contesto della “nuova normalità” rappresentano requisiti senz’altro molto apprezzati dagli utenti del sesso a pagamento. La “prostituzione robotica” (o “intelligente”) sembra corrispondere puntualmente a quel concetto di distanziamento (a)sociale che coglie perfettamente un aspetto fondamentale della nostra disgraziata epoca, oggi come e più di ieri.

Anche il discorso sull’avanzata delle destre ci suona incredibilmente attuale, anche se il cuore del problema, per Adorno e certamente per chi scrive, è rappresentato soprattutto dalle cause sociali che, «oggi come allora», rendono possibile e perfino inevitabile (almeno per chi scrive) il comparire sulla scena sociale di movimenti politici apertamente nazionalisti (o “sovranisti”), razzisti, antisemiti, autoritari.
Adorno lo dichiara subito: «Nel 1959 ho tenuto una conferenza dal titolo Che cosa significa elaborazione del passato nella quale ho illustrato la tesi secondo cui il radicalismo di destra, o il potenziale di un radicalismo di questo genere, può essere spiegato con il fatto che, oggi come allora, continuano a sussistere le premesse sociali del fascismo. Vorrei partire dall’idea che, nonostante il loro crollo, le premesse dei movimenti fascisti continuano a sussistere sul piano sociale, se non anche su quello direttamente politico» (pp. 13-14). Soprattutto nel caso italiano, la radicale continuità tra regime fascista e regime postfascista non ha avuto solo un carattere sociale, ma per non pochi aspetti essa ha riguardato anche il piano politico-istituzionale, come attesta, ad esempio, la sopravvivenza in epoca repubblicana del diritto penale elaborato sotto il fascismo. Anche la struttura economica, con i suoi robusti e “intimi” legami con il mondo politico-sindacale, esibisce un’evidente continuità fra i due regimi. Lo stesso passaggio di non pochi militanti del Partito Fascista nel cosiddetto Partito Comunista di Togliatti alla fine della Seconda guerra mondiale non si spiega solo con il proverbiale opportunismo italiano, con l’italico salto sul carro del vincitore, ma anche, e forse soprattutto, con la comune matrice psico-sociale di fascismo e stalinismo, che facevano presa su una personalità desiderosa di un forte e rigido inquadramento. Adorno parla di «personalità autoritaria». Detto in altri termini, stalinisti e fascisti hanno impastato lo stesso materiale umano caratterizzato da una forte propensione gregaria/autoritaria. Credo che il successo che il «nuovo radicalismo di destra» sta avendo soprattutto nei Länder Orientali della Germania, le regioni che formavano la Repubblica Democratica Tedesca (1), si spieghi, mutatis mutandis, anche con quanto appena accennato, oltre che con i problemi economico-sociali e con la delusione che hanno interessato la popolazione che vive in quei Länder. Diciamo che i due aspetti si incrociano. Radicalismo di destra e Ostalgie, la nostalgia per la Germania dell’Est, sono due fenomenologie dello stesso problema sociale (dimensione psicologica compresa), almeno per come la vedo io. Per dirla sempre con Adorno, «qui gioca un ruolo essenziale il concetto di organizzazione, […] l’elemento del rigore e del centralismo. […] Fa parte degli elementi di base dell’ideologia tedesca il fatto che non si debba agire da soli. […] Si vuole avere qualcosa alle spalle. […] Qui gioca un ruolo il fatto che proprio nella Repubblica Federale lo Stato nazionale si è realizzato con un ritardo colossale, soprattutto rispetto all’Inghilterra o alla Francia. E le persone in Germania sembrano vivere in un perenne stato di paura per la propria identità nazionale» (pp. 24-26).

Attualissima suona anche la denuncia adorniana del nazionalismo (che oggi ama appunto definirsi “sovranismo”), il quale è tanto più velenoso, quanto più le sue basi oggettive diventano sempre più inconsistenti e spettrali: nel contesto dei «due enormi blocchi [USA e URSS] i singoli Stati giocano un ruolo subordinato. Nessuno ci crede più davvero. La singola nazione è straordinariamente limitata nella sua libertà di movimento dall’integrazione nei grandi blocchi di potere. Ma non bisogna trarne la conseguenza affrettata che il nazionalismo, in quanto superato, non giochi più un ruolo chiave; viceversa, accade spesso che alcune convinzioni o ideologie assumano un aspetto demoniaco o autenticamente distruttivo proprio quando non risultano più sostanziali in base alla situazione oggettiva» (p. 17). Perdendo il proprio ancoraggio oggettivo (economico, geopolitico, culturale: in una sola parola: sociale), il nazionalismo si espande senza più limiti in guisa di bolla speculativa ideologica. Adorno parla dello «spettro di uno spettro», una superfetazione ideologica che cresce seguendo l’espandersi delle paure, delle angosce, delle frustrazioni e dei risentimenti che la situazione reale non cessa di generare sempre di nuovo, sebbene con ritmi diversi nelle diverse congiunture del ciclo economico e investendo i più disparati strati sociali.
Per quanto mi riguarda la freccia critica antinazionalista colpisce tanto il sovranismo di “destra”, quanto il sovranismo di “sinistra”, due facce della stessa escrementizia medaglia. Oggi molti sovranisti di “sinistra” sono schierati dalla parte dell’imperialismo cinese, che nel frattempo ha sostituito l’imperialismo “sovietico” nel ruolo di nemico strategico dell’imperialismo americano. I nostalgici piagnucolosi della “Russia socialista” oggi possono consolarsi con il “socialismo con caratteristiche cinesi”, il cui sistema autoritario con caratteristiche orwelliane è segretamente apprezzato anche da molti leader politici occidentali che si definiscono liberali. Quanto a controllo sociale la Cina è oggi il modello da imitare. Il sistema di controllo e repressione realizzato dal regime nello Xinjiang, la “regione autonoma” della Cina nordoccidentale (un carcere a cielo aperto che contiene al suo interno numerosi “campi di rieducazione e lavoro”), sarebbe piaciuto moltissimo alla «cricca nazista», in particolar modo a quei personaggi che, come Eichmann e Himmler, avevano «una prospettiva strettamente tecnologica» (p. 30).

Adorno coglie bene anche il carattere reazionario «dell’antiamericanismo» e della «paura nei confronti della Comunità economica europea» che caratterizzavano il radicalismo di destra dei suoi tempi: «È evidente come nell’ideologia un ruolo molto forte venga giocato dall’antiamericanismo, il quale era già prefigurato in epoca nazista in espressioni come nazione “plutocratica” e simili. Nella prospettiva di questo antiamericanismo si tenta di usurpare l’idea di un’Europa come “terza forza”» (p. 41). Oggi l’antiamericanismo destrorso in generale non usurpa più, in Germania e in tutto il Vecchio Continente, «l’idea di un’Europa come “terza forza”», ma anzi combina antiamericanismo e antieuropeismo e avanza un programma decisamente “sovranista”. Invece, quell’idea si fa strada a partire da un processo sociale oggettivo che potrebbe culminare nella formazione di un autentico polo imperialista europeo, e ovviamente in tutto ciò la Germania ha un ruolo centrale, e qui naturalmente si registra una grande differenza con il contesto politico e geopolitico che Adorno aveva dinanzi: «In ogni caso la Germania di oggi non è più un soggetto politico, anche solo in termini di possibilità, come invece lo era ai tempi di Weimar. C’è addirittura il rischio […] che la Germania devii dagli orientamenti della politica mondiale, dalle sue tendenze generali e venga ridotta a provincia» (p. 32). Come sappiamo, le cose sono andate diversamente e personalmente concordo con chi sostiene che la Germania sia stata la vera vincitrice della lunga Guerra Fredda. Certo, anche oggi «manca completamente la prospettiva “oggi qui, domani tutto il mondo”» (p. 43); ma non c’è dubbio che la Germania può coltivare ambizioni geopolitiche inimmaginabili mezzo secolo fa, e bisogna anche dire che quel Paese ha in parte moderato le proprie pretese politiche sia perché non ha dimenticato le dure lezioni apprese nel “Secolo breve”, e sia per beneficiare di una difesa militare quasi interamente pagata dagli Stati Uniti. Ma oggi la Germania sembra sul punto di voler e poter assumere le “responsabilità politiche” che le derivano dalla sua potenza economico-sociale. Che la Germania diventi «un soggetto politico» di grande rilevanza internazionale (soprattutto attraverso la mediazione dell’Unione Europea), oggi è più che una possibilità.

Devo d’altra parte dire che non condivido neanche un po’ le pur timide simpatie politiche che Adorno manifesta, sebbene implicitamente, per l’Europa e per gli Stati Uniti, i cui sistemi politico-sociali gli appaiono in ogni caso meno cattivi di quelli di matrice sovietica o maoista – cosa che, tra l’altro, lo porterà a polemizzare nel ’68 con una certa area del “radicalismo di sinistra”, accusata giustamente (da lui e da Horkheimer, contro l’opinione di Marcuse) di lavorare per conto delle potenze sociali che tengono incatenati al carro del dominio sociale gli individui, a cominciare da quelli appartenenti alle classi subalterne.

Per “legittima difesa” Adorno e Horkheimer teorizzarono la sospensione della prassi nell’ambito della «teoria critica». Un errore concettuale, certo, ma quale «prassi di riferimento» i due avevano allora dinanzi? Quella ultrareazionaria dello stalinismo internazionale. Prendendo congedo dalla prassi essi intesero mettere al riparo quella teoria dall’omologazione stalinista, e questo lo considero un grandissimo merito, fondato però su una cattiva interpretazione del «fenomeno-stalinismo», associato in qualche modo dai due filosofi francofortesi al pensiero marxiano, sebbene in una sua variante particolarmente volgare. «Per questa prassi – illiberale e antiumana – ha preso partito il materialismo arrivato al potere politico non meno del mondo che esso un tempo voleva mutare. Esso incatena ancora la coscienza invece di comprenderla e di mutarla a sua volta. Apparati terroristici dello stato si barricano, divenendo istituzioni stabili, dietro il potere frustro di una dittatura (ormai perdurante da cinquant’anni) del proletariato da tempo amministrato […] Ciò che, nell’attesa della rivoluzione imminente, voleva liquidare la filosofia, era già allora rimasto dietro ad essa, impaziente con la sua pretesa. […] Il materialismo diventa ricaduta nella barbarie, che voleva impedire; lavorare contro questa tendenza è uno dei compiti meno indifferenti di una teoria critica» (2). Nella misura in cui, per un verso il «materialismo storico» di Marx non aveva nulla a che spartire con il «materialismo dialettico» diventato l’ideologia di Stato dell’Unione Sovietica; e per altro verso il cosiddetto «Socialismo reale» non era che un capitalismo (più o meno di Stato) assai agguerrito sul piano dell’agone imperialistico, quella posizione di Adorno ha un po’ il significato di gettare «il bagno col bambino dentro», per usare le sue stesse parole – Minima Moralia. Allora non si trattava certo di sospendere la prassi rivoluzionaria, ma piuttosto di elaborarne una coerente con i suoi presupposti teorici e adeguata alla situazione oggettiva. La stessa cosa vale oggi come e più di allora.

A proposito di antiamericanismo, c’è da dire che un certo “radicalismo di sinistra” ama nascondere quella posizione politico-ideologica sotto i panni di un “antimperialismo” tanto gridato quanto mai praticato, come dimostra l’accesa simpatia per l’imperialismo cinese molto diffusa in quell’ambiente politico.

«Oggi come allora»: ho trovato particolarmente pregnante questa locuzione che, se non ho sbaglio a contare, compare quattro volte nel testo adorniano. Si nota anche un «oggi come ai tempi di Hitler» con riferimento alla tecnica propagandistica usata dal radicalismo di destra. Scrive Adorno: «Vorrei puntualizzare en passant che la questione non implica affatto che tutti gli elementi di questa ideologia siano falsi, ma che anche il vero [il disagio sociale, ad esempio] può essere messo al servizio di un’ideologia falsa. […] La tecnica più importante grazie alla quale la verità viene messa al servizio della non verità è quella di separare osservazioni in sé vere o corrette dal loro contesto, isolandole così da poter affermare: “Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra”, senza vedere invece che l’intera congiuntura degli anni dal 1933 al 1939 è stata possibile solo grazie a una frenetica economia di guerra, alla preparazione della guerra (3). E ci sono cento altri esempi. […] Vorrei ribadire peraltro che nel fascismo non vi fu mai un’ideologia in senso proprio e che resta sempre sottointeso che in esso la questione fosse quella del potere. Naturalmente, proprio questo ha conferito a tali movimenti sul piano ideologico quella flessibilità che è facile osservare. Del resto, il primato di una prassi a-concettuale è nello spirito del tempo [oggi più che allora]. Oggi come ai tempi di Hitler la loro unità sta in questo appello alla personalità autoritaria» (4) (pp. 41-44). A qualcuno sembra di dire qualcosa di particolarmente originale e geniale affermando: «Il nostro movimento non è né di destra né di sinistra» (5), una frase coniata a suo tempo dall’ex socialista Benito Mussolini, teorico del “pensiero antidogmatico” (sic!).

Ci fu un tempo in cui il termine sinistra connotava, in linea di principio, una posizione anticapitalista. Quel tempo si è chiuso con il trionfo in quello che una volta si chiamava movimento operaio internazionale del riformismo socialista e dello stalinismo, due ideologie radicalmente borghesi. Oggi l’anticapitalista non è “più a sinistra” della “sinistra ufficiale”, ma piuttosto collocato su un altro e opposto terreno di classe, e in questo peculiare senso egli è davvero né di “destra” né di “sinistra”. Quando si usano certi termini, bisogna innanzitutto intendersi sui concetti che essi sono chiamati a esprimere, e quest’opera di chiarificazione concettuale ha anche molto a che fare con la lotta al radicalismo di destra come a ogni forma di autoritarismo – che spesso assume un aspetto sinistrorso.

Se, come osservava giustamente adorno, «il comunismo è diventato solo una parola che suscita spavento», di ciò le classi dominanti occidentali devono ringraziare soprattutto i cosiddetti “comunisti”, portatori di un modello sociale che quanto a sfruttamento, oppressione, alienazione, violenza, disumanità e quant’altro regge benissimo il confronto con la prassi delle società capitalistiche “conclamate”., le quali ai miei occhi hanno almeno il pregio, per così dire, di non millantare crediti che hanno a che fare con le idee di emancipazione delle classi subalterne e, più in generale, dell’umanità.

Sempre a proposito delle premesse sociali dei movimenti fascisti, Adorno pensa «in primis alla tendenza del capitale alla concentrazione, dominante oggi come allora, della quale non si può affatto dubitare, per quanto la statistica, con tutti i suoi artifici, tenti di farla scomparire dalla faccia della terra [oggi come allora!]. Questa tendenza alla concentrazione significa, d’altro canto, oggi come allora, che resta sempre possibile il declassamento di strati sociali che dal punto di vista della loro coscienza di classe soggettiva risultano del tutto borghesi» (p. 14). Sappiamo il peso che questo declassamento ha avuto nella genesi dei movimenti autoritari in Italia e in Germania nel primo dopoguerra. Ma, oggi come ieri, il demagogo non pesca solo nel mare della media e piccola borghesia declassata dal processo sociale, ceto sociale che certamente offre al suo movimento politico la gran parte dei quadri dirigenziali: egli rivolge la sua “profetica” parola a tutti gli individui maltrattati dal Moloch capitalistico, la cui marcia diventa particolarmente distruttiva durante le crisi economiche. Ed è nel corso delle più gravi crisi economiche che nella società inizia a dilagare il «sentimento della catastrofe sociale» a cui i movimenti neofascisti cercano di dare una soddisfazione e una prospettiva politica: «Si potrebbe parlare di una distorsione della teoria marxiana del collasso, la quale avrebbe luogo in questa coscienza falsa e mutilata. […] “Com’è possibile andare avanti, se c’è una grande crisi?”, e questi movimenti si propongono appunto come una risposta a tale situazione. Essi hanno qualcosa in comune con quella specie di odierna astrologia manipolativa (6) che io considero un sintomo fortemente caratteristico e importante dal punto di vista della psicologia sociale del fatto che, in un certo senso, essi vogliono la catastrofe, che si nutrono di fantasie di tramonto del mondo, cosa che del resto – come sappiamo dai documenti – non era affatto estranea alla cricca che prima guidava il partito nazionalsocialista. […] A chi non vede nulla davanti a sé e a chi non vuole la trasformazione delle basi sociali non resta nient’altro se non ciò che afferma il Wotan di Richard Wagner: “Sai che cosa vuole Wotan? La fine”; a partire dalla sua situazione sociale vuole il tramonto, e non il tramonto del proprio gruppo, ma, se possibile, il tramonto tout court» (pp. 22-24). La situazione disperata genera sentimenti di disperazione: la domenica di Pasqua del 1932 l’editorialista della Frankfurter Zeitung pubblicava, a mo’ di augurio, le parole pronunciate nel 1809 dal maggiore Schill, l’eroe della fallita insurrezione antinapoleonica: «Meglio una fine nell’orrore che un orrore senza fine». Su questo aspetto della storia tedesca rimando il lettore a un mio post di qualche anno fa: La Germania e la sindrome di Cartagine.

Adorno invita giustamente a «essere scettici nei confronti di un’interpretazione meramente psicologica dei fenomeni sociali e politici», perché l’espandersi di una psicologia di massa orientata in senso irrazionale «ha anche un fondamento oggettivo» (7). L’organizzazione sociale capitalistica, oggi come e più di ieri, genera sempre di nuovo i presupposti materiali, culturali e psicologici di quella che Adorno e Horkheimer definirono negli anni Quaranta del secolo scorso (e sul fondamento di una ricerca sociale empirica condotta negli Stati Uniti) «personalità autoritaria», ossia la personalità dell’individuo atomizzato che non oppone alcuna resistenza critica alle imperiose esigenze della totalità sociale e che, anzi, solo all’interno di un ingranaggio che schiaccia ogni autentica libertà e ogni decisione umanamente razionale e responsabile si sente al riparo da minacce che egli non comprende e che travisa nel modo più rozzo secondo le direttive impartite alle masse dai capi. Solo nella massa l’individuo atomizzato, che nella Personalità autoritaria Adorno definisce «tipo manipolativo» (che si lascia cioè manipolare e che, a sua volta, tende a manipolare gli altri), si sente protetto e in armonia con il mondo creato dalle sue paure, dalle sue angosce, dalle sue aspirazioni. Ovviamente questa condizione psicologica ha delle cause sociali precise e riconoscibili, ed è a queste cause che bisogna arrivare seguendo le indicazioni che la “sovrastruttura psicologica” ci indica. È per questo che è importante imparare il linguaggio di questa “sovrastruttura”, capirne la complessa e spesso paradossale grammatica.

Scrive Adorno: «Fino a oggi, da nessuna parte la democrazia si è concretizzata in modo effettivo e completo dal punto di vista del contenuto economico-sociale, ma è rimasta sul piano formale. E, in questo senso, i movimenti fascisti potrebbero essere indicati come le piaghe, le cicatrici di una democrazia che non è ancora pienamente all’altezza del proprio compito» (p. 21). Ma la democrazia storicamente sorge sul disumano fondamento della divisione classista degli individui – e nella Grecia Antica gli schiavi non erano considerati nemmeno uomini in senso proprio. Concettualmente e praticamente la democrazia è radicata nella dimensione politica, ossia nella dimensione del conflitto sociale, il cui presupposto è appunto la divisione degli individui in dominati (la massa che lavora) e dominanti (la ristretta elite che si appropria del prodotto del lavoro altrui). Non a caso il comunismo immaginato da Marx postulava il superamento della politica, almeno nell’accezione che essa ha avuto e continua ad avere nella società classista. Per questo, a mio avviso, tanto il fascismo quanto la democrazia capitalistica rappresentano due modi diversi e intercambiabili (dipende dalle circostanze, nazionali e internazionali) di amministrare la società per conto delle classi dominanti e in vista del supremo obiettivo perseguito dalla politica (al cui vertice si colloca lo Stato): la continuità del rapporto sociale di dominio e di sfruttamento. Questo obiettivo può anche dar luogo alla completa statalizzazione dell’economia (ciò che il volgare pensiero borghese, di “destra” e di “sinistra”, concepisce come “socialismo”) nel caso in cui una catastrofica crisi economica innescasse pericolosi movimenti sociali. Pericolosi, beninteso, dal punto di vista dello status quo sociale. Anche ai nostri giorni possiamo osservare in tutti i maggiori Paesi del mondo un interventismo statale che la dice lunga sulla gravità della crisi economica che erroneamente il pensiero mainstream attribuisce al Coronavirus. Interventismo statale e “deriva autoritaria” (8) sono, oggi come allora, due fatti intimamente correlati fra loro, e la stessa cosa si può dire per le politiche assistenzialiste di lunga durata. Come scriveva Max Horkheimer, il dominio sociale «non più conservabile con i mezzi economici, essendo la proprietà privata sopravvissuta a se stessa, è conservato con mezzi direttamente politici» (9).

La democrazia capitalistica (perché non esiste un’astratta e astorica democrazia) «è pienamente all’altezza del proprio concetto» se è in grado di assicurare la stabilità sociale, e ciò, come sappiamo, si realizza attraverso un accurato uso di carota e di bastone, di mezzi che ricercano il consenso dei cittadini e di mezzi immediatamente coercitivi e repressivi – quelli che giustificano il concetto, tutt’altro che “mostruoso” e contraddittorio, di democrazia fascista. È per questo che non condivido affatto ciò che Adorno dice a proposito del modo concreto in cui è possibile fronteggiare il pericolo nazifascista: «occorre anche tentare di trovare dei mezzi legali attraverso cui uno Stato democratico possa procedere contro di esso» (p. 39). A mio avviso per un verso lo Stato democratico è parte del problema qui in oggetto, e non della sua soluzione; e per altro verso, e sempre a mio avviso, è solo incoraggiando l’autonoma iniziativa antifascista delle classi subalterne e di quanti intendono lottare contro i movimenti autoritari di qualsiasi tendenza politica (inclusi quelli che sostengano regimi come quelli cinesi, cubani, venezuelani, ecc.) che si creano negli individui gli anticorpi idonei a proteggerli in qualche modo dalla personalità autoritaria. Giustamente Adorno dice che nella lotta al radicalismo di destra «non bisogna contrapporre menzogna a menzogna»; dal mio punto di vista contrapponendo lo Stato democratico ai movimenti di “stampo fascista” si scivola appunto nella menzogna, tanto sul piano storico (vedi la responsabilità che la liberaldemocrazia ha avuto negli anni Venti e Trenta del secolo scorso nella sconfitta del movimento operaio e nel trionfo del fascismo e del nazismo), quanto su quello politico.

Tra l’altro Adorno e Horkheimer già negli anni Trenta non mancarono di denunciare il lavoro preparatorio al trionfo del nazifascismo svolto dalla borghesia liberale: «Oggi combattere il fascismo richiamandosi al pensiero liberale significa appellarsi all’istanza attraverso cui il fascismo ha vinto» (10). Adorno sostiene giustamente che la stessa grande industria che foraggiò il nazismo soprattutto in chiave controrivoluzionaria subì il processo di autonomizzazione del movimento hitleriano, una dinamica che ricorda molto il caso italiano. L’autonomizzarsi del manganello anche dagli interessi economici dominanti non era stato previsto dai politici liberali che pensavano di potersi disfare facilmente della “triviale” e violenta azione politica fascista dopo averla usata contro i lavoratori. Mussolini e Hitler passarono invece all’incasso, favoriti da una devastante crisi economico-sociale. «In tutte queste faccende – osserva Adorno – bisogna prestare molta attenzione a non pensare in modo troppo schematico e a non operare in maniera molto avventata»: un consiglio valido anche oggi. «In Germania – conclude Adorno – si è arrivati al fascismo come ultima ratio, ossia nel momento in cui la crisi economica si era ingigantita e non lasciava nessun’altra possibilità per quell’industria della Ruhr che allora risultava già in bancarotta» (p. 19). Sappiamo bene come la corsa al riarmo in vista della guerra risollevò le sorti dell’industria pesante tedesca (e dell’occupazione) prostrata dalla crisi economica e costretta ad agire, di fatto, entro i ridotti limiti fissati soprattutto dalla Francia. Anche la Germania ebbe il suo “boom” economico che preparò il boom dei cannoni e delle bombe. «Sotto Hitler le cose ci andavano bene, a parte quella stupida guerra»…

Segno dei tempi: la copertina dell’Economist del 25 giugno ci invita a riflettere sulla «prossima catastrofe – e a come sopravvivervi». La prossima catastrofe può arrivare sotto forma di eruzioni solari, di asteroidi, di eruzioni vulcaniche, di tsunami, di cambiamento climatico, di epidemia virale (l’ennesima!), di guerra atomica, o di altro ancora, ma di certo essa ci farà visita entro un ragionevole arco di tempo, e quindi dobbiamo prepararci al peggio avvantaggiandoci degli errori commessi in passato. E se invece lavorassimo pensando al meglio, in vista del meglio, costruendo il meglio? Detto in altri termini, anziché impegnarci per la sopravvivenza in un mondo ostile, non potremmo come umanità operare per uscire fuori dalla millenaria dimensione classista che rende possibile ogni forma di catastrofe sociale? «Quasi tutti i grandi asteroidi che possono avvicinarsi alla Terra sono stati ora trovati. Nessuno è una minaccia a breve termine. Il mondo non è solo un luogo manifestamente più sicuro di quanto sembrasse. È anche un posto migliore» (The Economist). Ma ciò che minaccia in mille modi (alcuni dei quali oggi non riusciamo neanche a immaginarli) non è la natura, ma una prassi sociale il cui funzionamento per l’essenziale non riusciamo né a capire né a controllare.
Civettando con Adorno svolgo la seguente riflessione: alla luce dei problemi e delle contraddizioni che segnano la nostra epoca «forse alcuni di voi mi chiederanno cosa penso del futuro» dell’umanità. Ebbene, «credo che questa sia una domanda sbagliata perché eccessivamente contemplativa. In quel modo di pensare che sin dal principio vede queste faccende come catastrofi naturali, sulle quali è possibile fare previsioni come per le trombe d’aria o i disastri meteorologici, si cela già una forma di rassegnazione che ci mette in realtà fuori gioco come soggetti politici; vi si cela, cioè, un comportamento da cattivi spettatori di fronte alla realtà. Come queste cose proseguiranno e la responsabilità per come andranno avanti ricade, in ultima istanza, su di noi» (pp. 56-57). Siamo talmente deboli di fantasia e di immaginazione, oltre che di pensiero critico, che riusciamo a concepire senza eccessivi sforzi concettuali la fine del mondo, mentre la fine di questo capitalistico mondo non riusciamo nemmeno a farla entrare nel campo delle ipotesi.

Scrivendo «oggi come allora», personalmente ho inteso sottolineare, non credo distaccandomi troppo dalle intenzioni di Adorno, la radicale continuità del dominio sociale che rende possibile ogni genere di sofferenza e di evento catastrofico: dalle guerre mondiali alle pandemie, dallo sterminio “industriale” di «persone indegne di vivere» (in linea di principio l’ebreo non manca mai nella lista nera: «Non possiamo dire nulla a riguardo, ma tra noi ci capiamo») alle crisi economiche, dalle emigrazioni di massa alla distruzione degli ecosistemi – a cominciare dall’ecosistema a noi più prossimo, il nostro corpo.

(1) «Sembra paradossale ma le formazioni di estrema destra in Germania nascono nei Länder orientali cioè nei territori della Repubblica Democratica Tedesca che oggi rappresentano i bastioni elettorali dell’Alternative für Deutschland. Perché? Per un motivo poco noto fuori dalla Germania: la riunificazione del 1990 – concretizzatasi nell’assorbimento della DDR nella Repubblica Federale – ha avuto costi altissimi non solo per le casse statali, ma anche per i sedici milioni di tedesco-orientali. La ristrutturazione del sistema economico-produttivo ha portato ad un’impennata della disoccupazione, ad un aumento del costo della vita, all’aumento dell’immigrazione interna ed al crollo della natalità. Una crisi che fa sentire i suoi effetti ancora oggi, a trent’anni ormai dalla riunificazione. Questo ha generato in molti elettori dell’est la disponibilità a sostenere le forze che, di volta in volta, si sono presentate come di opposizione totale al duopolio Cdu/Spd. C’è, poi, un altro aspetto: molti tedesco-orientali nel 1989-’90 ambivano a “ritornare” tedeschi piuttosto che a diventare occidentali, ovvero a recuperare un’identità nazionale condivisa. Questa è una delle speranze tradite della riunificazione, messa ancora più in crisi dall’avanzare della globalizzazione: facile per una forza come AfD, che fa della riscoperta e valorizzazione dell’identità tedesca uno dei suoi elementi forza, intercettare questi consensi» (Opiniojuris).
(2) T. W. Adorno, Dialettica negativa, p. 254. Einaudi 1970.
(3) Si trattò di una tendenza generale. Scriveva Paul Mattick nell’agosto del 1937: «Riassumendo, possiamo dunque individuare come caratteristica del presente sviluppo economico la tendenza verso la monopolizzazione, la concentrazione capitalistica e l’estensione del controllo statale. […] Sempre più evidente si fa, quindi, l’inevitabilità di una soluzione violenta delle difficoltà del capitalismo odierno, che solo attraverso l’eliminazione delle nazioni più deboli a vantaggio delle potenze capitalistiche più forti può sperare di prolungare la sua esistenza» ( in AA., VV., Capitalismo e fascismo verso la guerra, pp. 78-79, La Nuova Italia, 1976). Non dimentichiamo che anche John Maynard Keynes non mancò di lodare l’interventismo economico della Germania. «Ciò che il seguente libro intende illustrare, si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, piuttosto che a condizioni di libera concorrenza e di ampie misure di laissez-faire» (J. M. Keynes, Prefazione all’edizione tedesca del 1936 della General Theory). Non a caso, come ricorda la storica dell’economia Amity Shlaes ne L’uomo dimenticato. Una nuova storia della Grande Depressione (Feltrinelli, 2011), i politici e gli intellettuali del New Deal guardavano con estremo interesse, chi alla Russia di Stalin, chi alla Germania di Hitler. Molti guardavano con simpatia a entrambi i regimi, non disdegnando nemmeno di studiare il promettente «caso italiano».
(4) «I 5 Stelle sono un patchwork, una combinazione delle caratteristiche di diversi “storici” movimenti populisti (argentino, peruviano, venezuelano, boliviano, brasiliano) che hanno prosperato per decenni in America Latina. Come i loro parenti latinoamericani, sono sorti per combattere la “oligarchia”, i ricchi, i potenti ( le caste). Come i loro parenti, sono statalisti e giustizialisti. Le loro politiche assistenzialiste, ridistributive, a favore dei descamisados, dei poveri, consentono a chi non va molto per il sottile di definirli “di sinistra”. Il loro antiparlamentarismo li accomuna a tanti movimenti del passato (non solo latinoamericani) sia di estrema sinistra che di estrema destra» (A. Panebianco, Il Corriere della Sera).
(5) «I trucchi retorici sono sempre gli stessi. […] Il pensiero rigido, stereotipato, e la ripetizione incessante costituiscono i mezzi della pubblicità di stile hitleriano. Essi smussano i modi di reazione, rendono a suo modo ovvio quel che è piattamente banale, e mettono fuori gioco le resistenze della coscienza critica. Da tutti questi discorsi e manualetti dell’odio si può così sceverare, proprio come nel caso della propaganda del Terzo Reich, un numero assai ristretto di trucchi impiegati di continuo, standardizzati e legati tra loro in modo meccanico» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, La personalità autoritaria, in AA. VV., La scuola di Francoforte. La storia e i testi, Einaudi, 2005).
(6) «Erano tempi grami per tutti, tranne forse per gli indovini, i maghi, i cartomanti e simili, che videro aumentare la clientela. […] Fritz Lang condivideva con altri registi dell’epoca un debole evidente per determinati temi: il suicidio, l’inesorabilità del fato, la pazzia, la morte. […] Tra le catastrofi recentissime e i pericoli della nuova civiltà tecnologica, non rimaneva molto posto per l’ottimismo» (W. Laqueur, La Repubblica di Weimar, pp. 291-294, Rizzoli, 1979).
(7) «Molto si discorre, e non senza ragione, della tecnica del dominio delle masse. Ma bisogna guardarsi dall’idea che i demagoghi che ne usano sorgano ai margini della società, e poi quasi per caso o mercé l’impiego abusivo di strumenti tecnici ottengono un potere sugli altri uomini, per il resto pacifici e giusti. […] Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato. […] In un mondo ampiamente dominato da leggi economiche su cui gli individui umani hanno ben poco potere, l’individuo è assai più impotente di quel che sappia confessarsi» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 95, Einaudi, 2004).
(8) Ecco l’ultima denuncia della “deriva autoritaria” che mi è capitato di leggere: «Le crisi svolgono essenzialmente una funzione maieutica, la loro arte è quella della levatrice, traggono fuori da noi ciò che già in noi era in germe, maturava. Piccole o grandi sono sempre apocalissi, che significa rivelazioni: ciò che si nascondeva dietro il sipario e che ancora ci sforzavamo di ignorare, ecco ora si palesa, inaggirabile, infuggibile. Si capisce allora la formidabile idiozia dell’interrogarsi se saremo migliori, peggiori o uguali a prima. […] L’epoca in cui ogni distanza deve venire meno, in cui appare intollerabile alla nostra ansia di simultaneità ogni confine spaziale, si specchia perfettamente nello slogan osceno del “social distancing”. La pandemia e l’esigenza di contrastarla non c’entrano nulla in quanto tali. Ciò che è rivelatore sono i modi in cui esse vengono narrate e gestite. […] L’attacco al ruolo delle assemblee rappresentative funziona perché queste assemblee non funzionano, e non funzionano da decenni. O i democratici sanno riformarle o vincerà chi democratico non è. Tertium non datur» (Massimo Cacciari, L’Espresso). Questo pianto riformista quasi mi commuove. Ho detto quasi.
(9) M. Horkheimer, Gli ebrei e l’Europa, in Crisi della ragione e trasformazione dello Stato, p. 42, Savelli, 1978.
(10) Ivi, p. 55.

SULLA CAMPAGNA CINESE

Qiao Wanying, il pittore contadino

Ho raccolto in questo scritto gli appunti che mi sono stati “sollecitati” dalla lettura di un breve saggio sulla Cina scritto nel 2013 da Samir Amin, l’economista franco-egiziano scomparso nel 2018, e pubblicato da Antiper il 16 marzo 2020.

Come spesso mi capita, anche questa volta non ho avuto il tempo di rivedere il testo, per eliminare errori e ripetizioni, e di questo naturalmente mi scuso con i lettori. Anche la scansione temporale degli eventi qui trattati non segue sempre una direzione cronologicamente lineare, anche perché ciò che qui mi interessa mettere in primo piano è la dimensione storico-sociale essenziale di quegli eventi, più che il loro concatenarsi e susseguirsi nel tempo, cosa che d’altra parte è possibile trovare in moltissime e perlopiù assai apprezzabili ricostruzioni storiche, passate e recenti, dedicate alla Cina. Il titolo che ho dato a questo scritto è puramente indicativo, proprio in ragione della complessa trama di questioni (economiche, politiche, geopolitiche, teoriche), intimamente intrecciate tra loro, qui affrontata – spero con risultati non del tutto disprezzabili: come sempre le mie aspettative sono realistiche… Non si può capire il presente senza capire il passato: è, questa, un’affermazione che certamente suonerà banale a molti lettori, ma alla quale nessuno può negare almeno un briciolo di verità. D’altra parte, la comprensione del passato ha sempre bisogno di una strumentazione (mediazione) concettuale che naturalmente non è politicamente neutra, ed è per questo che sulla storia passata non esiste un solo punto di vista, ma diversi, non di rado troppi, e spesso essi sono più radicati su ciò che siamo e pensiamo oggi, che sugli effettivi fatti del passato più o meno remoto che ci troviamo ad analizzare e commentare. C’è chi dice che non esistono fatti, ma solo una loro interpretazione, la quale in ogni caso non può fare a meno di fare i conti con l’oggettività delle cose, secondo quella dialettica di oggetto e soggetto che a mio avviso realizza la sola realtà a cui possiamo accedere. Inutile dire che anche il mio punto di vista “storico” sulla Cina moderna deve essere giudicato secondo quanto ho appena sostenuto, e mi auguro solo che in ogni caso esso sia di un qualche interesse per chi avrà la bontà di prenderlo in considerazione.

Scrive Samir Amin: «Dire, come si sente alla nausea, che il successo della Cina dovrebbe essere attribuito all’abbandono del maoismo (il cui “fallimento” era ovvio), e all’apertura verso l’esterno, con l’ingresso di capitali stranieri è semplicemente idiota. La costruzione maoista ha posto le basi senza le quali l’apertura non avrebbe raggiunto il suo noto successo». Concordo! ». Chi scrive non ha mai né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”.

«La Cina non ha seguito un percorso particolare solo dal 1980, ma dal 1950, sebbene questo percorso abbia attraversato fasi che sono fra loro diverse sotto molti aspetti. La Cina ha sviluppato un progetto sovrano coerente, adeguato alle proprie esigenze. Questo non è certamente il capitalismo, la cui logica richiede che la terra agricola sia trattata come una merce. Questo progetto rimane sovrano in quanto la Cina rimane al di fuori della globalizzazione finanziaria contemporanea. Il fatto che il progetto cinese non sia capitalista non significa che sia “socialista”, ma solo che consente di avanzare sulla lunga strada del socialismo. Tuttavia, è ancora minacciato da una deriva che lo sposta da quella strada e finisce con un ritorno, puro e semplice, al capitalismo». Concordo sulla sostanziale continuità storico-sociale della Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping, mentre le altre tesi di Samir, a cominciare dalla supposta deriva che minaccerebbe il «progetto cinese», mi appaiano del tutto infondate, a dir poco. Qui di seguito cercherò di spiegare perché. Non prima di aver detto, con una certa ironia, che esattamente come la Cina, tutti i Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta hanno una struttura economico-sociale che, “oggettivamente” parlando, consente loro «di avanzare sulla lunga strada del socialismo». Ed esattamente come negli altri Paesi del mondo, anche in Cina la splendida possibilità dell’emancipazione umana è violentemente negata dalle classi dominanti, in primis mediante il loro cane da guardia più terribile e minaccioso: lo Stato capitalistico. Com’è noto, in Cina lo Stato coincide con il cosiddetto Partito Comunista Cinese, un Partito-Regime con spiccatissime caratteristiche orwelliane – un modello molto apprezzato anche in Occidente, come abbiamo visto durante la recente crisi pandemica.

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1. Scrive l’economista franco-egiziano: «In realtà la domanda “la Cina è capitalista o socialista?” è mal posta, è troppo generale e astratta perché qualsiasi risposta abbia senso nei termini dell’alternativa assoluta posta da quella domanda. In effetti, la Cina ha effettivamente seguito un percorso originale dal 1950, e forse anche dalla rivoluzione Taiping nel diciannovesimo secolo» [1]. A mio avviso invece quella domanda è perfettamente legittima, sia sul piano storico come su quello politico-sociale, mentre convengo sull’originalità di cui parla Samir. Si tratta piuttosto di afferrare la natura storica e sociale di quell’originalità, di comprenderne la dinamica e la direzione di marcia. L’obiezione di Samir lascia tuttavia intendere che nel caso della Cina le categorie storico-sociali di capitalismo e socialismo non colgono, o lo fanno solo parzialmente e in modo non adeguato, la reale dinamica del processo sociale che ha radicalmente cambiato il volto della Cina dopo la Liberazione del 1949. Personalmente concordo anche sul carattere estremamente complesso e contraddittorio di quel processo sociale, soprattutto per ciò che concerne il primo decennio del regime maoista, e tuttavia ritengo che esso possa venir ricondotto senza alcuna forzatura nell’alveo dell’alternativa secca (“la Cina è capitalista o socialista?”) rifiutata da Samir.
Gli Stati Uniti d’America sono un Paese capitalista o socialista? Ecco, questa “bizzarra” domanda, che ad alcuni può suonare come provocatoria, per molti e fondamentali aspetti ha per me la stessa consistenza (o inconsistenza) della domanda che Samir giudica «mal posta», e tra poco si capirà il senso di questa polemica affermazione.

Approcciamo il problema prendendola alla lontana, come si dice, per cercare di dare alla “problematica” un inquadramento teorico generale. Com’è noto, quando alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta del XIX secolo Marx si rese conto che nel movimento che si richiamava alle sue opere si stava affermando una tendenza volgarmente determinista, egli subito cercò di precisare il suo punto di vista sulla necessità storica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico in ogni parte del mondo. Marx negò questa necessità considerata in senso astratto, a prescindere dalla storia reale dei vari Paesi e Continenti, e lo fece ad esempio, e nel modo più chiaro, in relazione alla proprietà comune della terra nella Russia zarista.

Soprattutto Marx fu assai sfavorevolmente colpito nel costatare che Il Capitale stava diventando in Russia una sorta di “Bibbia” dei sostenitori dello sviluppo capitalistico, i quali lo usavano soprattutto per sostenere la fatalità storica della trasformazione in senso capitalistico della campagna russa. «Signor redattore», scriveva Marx nel novembre del 1877 alla redazione di Otiecestvennye Zapiski, «l’autore dell’articolo Karl Marx al tribunale di Shukovskij, è evidentemente un uomo di spirito, e se egli avesse trovato nella mia esposizione dell’accumulazione originaria, un solo passo in appoggio alle sue conclusioni, l’avrebbe citato. […] Infine, poiché non mi piace lasciare adito a supposizioni, parlerò senza ambagi. Per poter giudicare con cognizione di causa lo sviluppo economico della Russia, ho appreso il russo, e ho studiato, durante lunghi anni, le pubblicazioni ufficiali e altre che riguardavano questa materia. Sono arrivato a questo risultato: se la Russia continua a camminare sul sentiero percorso dopo il 1861, essa perderà la più bella possibilità che la storia abbia mai offerto a un popolo, e subirà tutte le fatali peripezie del regime capitalista». Le «fatali peripezie» hanno dunque per Marx un ben preciso presupposto («se la Russia continua a camminare sul sentiero percorso dopo il 1861») che non ha nulla di deterministicamente necessitato. «Il capitolo sull’accumulazione originaria», continua Marx, «vuole solo tracciare la via attraverso la quale, nell’Europa occidentale, l’ordinamento economico capitalistico è uscito dal seno dell’ordinamento economico feudale. Esso espone quindi il movimento storico che, separando i produttori dai loro mezzi di produzione, trasforma i primi in salariati (proletari nel senso moderno della parola), e i detentori dei mezzi di produzione in capitalisti. […] Il mio critico ha assolutamente bisogno di trasformare il mio schizzo storico della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica del cammino generale, fatalmente imposto a tutti i popoli, quali che siano le circostanze storiche in cui essi si trovano, per arrivare infine a questa formazione economica che assicura, col più grande sviluppo delle capacità produttive del lavoro sociale, lo sviluppo più integrale dell’uomo. […] Avvenimenti la cui analogia colpisce, ma che si svolgono in ambienti storici differenti, conducono a dei risultati del tutto differenti. Studiando a parte ognuno di questi processi, e paragonandoli poi, si troverà facilmente la chiave di questo fenomeno, ma non si arriverà mai col grimaldello di una teoria storico-filosofica generale, la cui suprema virtù consiste nell’essere sopra-storica» [2]. Altro che determinismo economico! Contro i limpidi chiarimenti di Marx circa la sua concezione materialistica (non deterministica) della storia, nel cosiddetto “marxismo” degli epigoni iniziò ad affermarsi una corrente di pensiero contraria a quella concezione e che farà della stessa transizione dal capitalismo al socialismo una “inevitabile fatalità storica” che altrettanto fatalmente non verrà mai ricercata da quegli epigoni – un nome su tutti: Karl Kautsky.

Interrogato da Vera Zasulič circa i destini della comune agricola russa (Obščina) nel contesto dello sviluppo economico-sociale della Russia [3], Marx rispose che la sua analisi  esposta nel Capitale non poteva venir semplicemente generalizzata in guisa di schema valido per tutte le situazioni storico-sociali: la sua analisi era da lui «espressamente limitata ai paesi dell’Europa occidentale. […] L’analisi presente nel Capitale non offre dunque ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale» [4]. Tuttavia, ciò che a Marx appariva chiaro e incontestabile era che, al punto in cui si trovava il processo sociale capitalistico considerato da una prospettiva mondiale, la sola dimensione geosociale adeguata alla natura di quel processo, l’Obščina avrebbe dovuto comunque, in ogni caso, conoscere una sua radicale trasformazione: si trattava di vedere sotto quali condizioni storico-sociali sarebbe potuta avvenire questa trasformazione: sotto il capitalismo o sotto il socialismo? Marx chiarì la sua posizione nel gennaio del 1882, nella Prefazione alla nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista: «In Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e assieme alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, oltre la metà del suolo si trova sotto forma di proprietà comune dei contadini. Si presenta, quindi, il problema: la comunità rurale russa, questa forma – è vero – in gran parte già dissolta dell’originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera? O dovrà attraversare, prima, lo stesso processo di dissoluzione che ha costituito lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista» [5]. Come si vede, se uno si chiedesse quale fosse il retroterra concettuale delle strategie rivoluzionarie da applicare alla Russia elaborate da Lenin («doppia rivoluzione») e da Trotsky («rivoluzione permanente») nei primi anni del Novecento, è in Marx che troverebbe la risposta.

Come scrive Marcello Musto, «Diversi sono stati gli autori che hanno proposto una lettura “terzomondista” dell’elaborazione dell’ultimo Marx, con conseguente presunto mutamento del soggetto rivoluzionario dagli operai delle fabbriche alle masse delle campagne e delle periferie» [6]. Presunto, appunto. Come afferma giustamente Marian Sawer, citata dallo stesso Musto, «Ciò che accade, in particolare nel corso degli anni Settanta, non fu che Marx cambiò la sua opinione sul carattere delle comuni di villaggio, né decise che esse avrebbero potuto diventare la base del socialismo così com’erano; piuttosto egli prese a considerare la possibilità che le comuni avrebbero potuto essere rivoluzionate non dal capitalismo, ma dal socialismo. […] Con l’intensificazione della comunicazione sociale e la modernizzazione dei metodi di produzione, il sistema di villaggio avrebbe potuto essere incorporato in una società socialista. Nel 1882, questo appariva a Marx ancora come una genuina alternativa alla completa disintegrazione dell’Obščina sotto l’impatto del capitalismo» [7]. Le cose andarono altrimenti, ed è possibile analizzare il processo di trasformazione della campagna russa leggendo il ricco materiale prodotto dalla socialdemocrazia russa, perlopiù in polemica con il populismo. Al tempo in cui il giovane Lenin scriveva i suoi saggi dedicati allo sviluppo capitalistico in Russia (e alla critica dell’ideologia populista), «la più bella possibilità» colta da Marx era sostanzialmente tramontata.

Qui mi sembra di poter rimarcare due punti importanti: in primo luogo Marx respinse ogni concezione determinista del processo storico basata su una metafisica (nell’accezione dispregiativa del termine) «teoria storico-filosofica del cammino generale»; in secondo luogo, egli legò strettamente e indissolubilmente il “destino” della comune rurale russa al più vasto movimento rivoluzionario internazionale, perché già ai suoi tempi la prospettiva del «socialismo in un solo Paese», tanto più se socialmente arretrato, appariva del tutto infondata e risibile.

Mutatis mutandis, e in realtà non poco, la prospettiva marxiana qui appena considerata conserva la sua forza analitica anche per ciò che riguarda la Cina della seconda metà del XIX secolo. Infatti, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, cioè da quando la Cina (insieme al Giappone) venne trascinata a forza nel vortice del processo sociale mondiale dalle potenze imperialiste/colonialiste del tempo,  andò progressivamente chiudendosi per la Cina la possibilità di evitare lo sviluppo economico con caratteristiche occidentali, cioè capitalistiche. Il futuro capitalistico di quel grande (in tutti sensi) Paese non era dunque iscritto nel destino; esso non era nelle mani delle leggi fatali e inesorabili del Progresso, e solo da un certo momento in poi la trasformazione della società cinese dovette necessariamente imboccare la strada del capitalismo. In Russia, per un breve periodo (1917-1921), sembrò potersi realizzare la “profezia marxiana” («la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente»); in Cina le cose andarono fin dall’inizio (disfatta del movimento contadino-operaio del 1927, Rivoluzione nazionale-borghese del 1949) in tutt’altro modo. Intanto ho introdotto, quasi di soppiatto, il concetto di Rivoluzione nazionale-borghese in riferimento all’esperienza maoista. È lo stesso Mao che ci mette sulla pista corretta: «La nostra rivoluzione è sostanzialmente una rivoluzione contadina e l’attuale resistenza antigiapponese è la resistenza contadina antigiapponese. […] L’80 per cento della popolazione cinese è costituito da contadini; il problema contadino è diventato perciò il problema principale della rivoluzione cinese e la forza dei contadini è la forza principale della rivoluzione cinese» [8]. Se la «forza principale» di una rivoluzione che prende corpo nel XX secolo è costituita dai contadini; se «il problema contadino» rappresenta il motore propulsivo di quella rivoluzione, ebbene essa deve essere necessariamente una rivoluzione borghese, perché dalla campagna si sviluppano le condizioni “naturali” dell’accumulazione capitalistica: non si tratta di ideologia, ma di processi sociali materiali [9]. La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 può essere definita proletaria, e non contadina, perché essa aveva al centro il programma politico del proletariato, e non solo di quello russo, ma del proletariato internazionale; a questo programma fu subordinato «il problema contadino», che per il proletariato russo (e quindi internazionale) rappresentò, al contempo, un fattore di estrema forza (perché rese possibile il suo rapido successo) e un fattore di estrema debolezza, perché ne condizionò fin da subito la politica e alla fine ne determinò la sconfitta. Su questo punto ritornerò dopo.

Nella seconda metà del XIX secolo la Cina appare – ed è – un Paese ritardatario non in assoluto, non in relazione a un mitico Calendario della Storia e del Progresso, che ovviamente non esiste, ma rispetto ai Paesi occidentali che con sempre maggiore insistenza e violenza si adoperarono ad “aprirla al mondo”, ossia  ai loro traffici mercantili. Com’è noto, la millenaria storia cinese fa segnare invece molti e significativi “anticipi” rispetto alla storia occidentale, a cominciare dal precocissimo sviluppo in Cina del feudalesimo, quando l’Occidente era ancora immerso in piena epoca schiavista, con il passaggio già nel III secolo a.C.  dal feudalesimo aristocratico, che apparirà in Europa dopo parecchi secoli, a quello che alcuni storici hanno definito «feudalesimo di Stato», attraverso la soppressione della vecchia e rissosa aristocrazia terriera e la presa in carico di tutta la terra da parte della celebre burocrazia statale (imperiale) cinese. Per farsi un’idea anche solo approssimativa della civiltà cinese considerata nel momento in cui l’Europa usciva a fatica dai secoli più bui seguiti al disfacimento dell’Impero Romano, è sufficiente leggere la famosa testimonianza resa da Marco Polo, che visitò la Cina dal 1275 al 1291 [10]. Ma facciamo adesso un grande balzo in avanti nella storia!

Per tutto il Settecento la Cina dei Qing rivaleggiò con successo con la Russia e con i maggiori Paesi europei per il controllo dell’Asia, ma già all’inizio del secolo successivo apparve chiaro che il Celeste Impero non riusciva più a reggere il confronto con i più dinamici Paesi occidentali, il cui dinamismo economico sopravanzava di molto l’espansionismo cinese, il quale aveva il suo motore principale nell’esigenza di rafforzare i confini terrestri dell’Impero per tenere a bada la pressione esercitata su di essi dai popoli “barbari”, la cui stessa esistenza minacciava la struttura sociale della Cina. Con la guerra dell’oppio (1840-1842) imposta dagli inglesi [11], alla classe dominante cinese apparve drammaticamente chiaro che la tradizionale economia autarchica non poteva più reggere, e che la piena integrazione della Cina nella divisione internazionale del lavoro era diventata solo una questione di tempo. Si trattava piuttosto di capire quale posizione il Paese avrebbe occupato in essa. A differenza del Giappone però la Cina non seppe rispondere prontamente e adeguatamente all’epoca mutamento dei tempi.

Da sempre la figura del «piccolo produttore di merci» ha avuto un ruolo molto importante nella struttura economico-sociale della Cina, soprattutto nelle sue campagne. «Il piccolo produttore di merci può essere considerato, in prima approssimazione, come una “categoria sociale mediana”, cioè né capitalista né proletario» Il piccolo produttore di merci sfrutta se stesso e la propria famiglia (moglie e figli sottomessi al marito-padre-padrone): egli è, per così dire, il capitalista e il proletario di sé stesso, e in ciò risalta il carattere impersonale, astratto (e potentemente concreto) del rapporto sociale capitalistico. La piccola produzione di merci è dominata da quel rapporto esattamente come lo sono la grande produzione agricola e quella industriale – posto che tale distinzione abbia un senso nel moderno capitalismo. «Tale categoria è caratterizzata da lavoro familiare, proprietà privata dei mezzi di produzione, e dipendenza dai mercati per la sua produzione e riproduzione» [12]. Qui abbiamo il concetto di piccola produzione come “incubatrice” di capitalismo, di borghesia, di rapporti sociali capitalistici; concetto che, a mio avviso, invita a non contrapporre schematicamente piccola e grande produzione di merci, ma a considerarle piuttosto nella loro intima, dinamica e complessa dialettica. Beninteso, si tratta di una dialettica sociale non priva di contraddizioni, come del resto ogni altra dialettica capitalistica.

La penetrazione economica occidentale in Cina mise in crisi la struttura economico-sociale della campagna cinese, la quale per molti versi assomigliava molto alla struttura del mondo rurale giapponese, a cominciare appunto dalla presenza dei cosiddetti «piccoli produttori di merci»: «L’analisi del rapido sviluppo del Giappone dal 1868 in poi ha a lungo sottovalutato la funzione che l’accumulazione non solo di ricchezza, ma anche di conoscenze tecnico-scientifiche e di esperienza manageriale, ha avuto nelle campagne giapponesi durante il periodo Tokugawa (1603-1868) [13]. Alla metà dell’800 quando lo scontro con l’Occidente e poi la decisione di una classe dirigente decisa ad evitare la colonizzazione iniziarono la modernizzazione del Giappone, le campagne giapponesi avevano già subito una trasformazione che, nonostante la formale assenza di proprietà privata della terra, aveva determinato una vivace commercializzazione e una marcata differenziazione sociale. Questa diffusa “piccola produzione di merci” sarà alla base dopo il 1868 di un vasto fenomeno di accumulazione di capitale riversato nell’industria locale; fino alla fine della Seconda guerra mondiale le tasse pagate dalle campagne hanno finanziato tutta la modernizzazione del Giappone. Dalla “piccola produzione di merci”, per effetto di una politica fiscale che penalizzava gli strati rurali più poveri, emerse una miriade di padroncini di piccole aziende industriali e di terre date in affitto che gestì in modo autoritario e paternalistico il potere nelle campagne. Il capitale accumulato dai “piccoli produttori di merci” fu così la molla indispensabile per rendere possibile lo sviluppo moderno che fu poi gestito al centro da uno strato superiore della classe dirigente  dotato di una cultura cosmopolita e dalla conoscenza dei meccanismi finanziari internazionali» [14]. Una simile modernizzazione capitalistica in Cina non ebbe modo di verificarsi per il “combinato disposto” realizzato dall’aggressiva politica imperialista/colonialista dell’Occidente e dalla risposta che le classi dominanti cinesi diedero alle sfide sistemiche che piombarono addosso al Paese. Forse l’essere stata per lunghissimo tempo al vertice della civiltà mondiale, condusse la Cina a un’imperdonabile sottovalutazione del pericolo che veniva da Ovest.

Come si legge nel Manifesto del 1848 di Marx ed Engels, «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi», e nessun Paese si presta meglio della Cina come esempio e conferma di quella tesi, con lo straordinario numero di guerre contadine e di rivolte sociali, più o meno vaste e generalizzate, che ne hanno costituire il vero motore del progresso sociale. Ancora oggi uno degli obiettivi dichiarati ufficialmente dallo Stato cinese in sede di programmazione economica annuale, è quello di evitare a tutti i costi la formazione di presupposti economico-sociali (carestie, epidemie, disoccupazione, sovrappopolazione, ecc.) che possano originare rivolte sociali. In passato il tramonto delle dinastie imperiali era legato, in modo più o meno diretto, a peridi di gravi turbolenze sociali che scuotevano il Paese dalle fondamenta, e questo retaggio storico evidentemente continua a pesare sul suo presente. Le rivolte contadine hanno sempre funzionato da monito nei confronti delle dinastie cinesi che si sono succedute nel tempo, sviluppando tra l’altro la concezione del mandato popolare conferito dai sudditi ai governanti e revocato tutte le volte che questi ultimi non riuscivano a soddisfare i bisogni primari del popolo. «Il popolo cinese non può essere conquistato e dominato se non con il suo consenso»: era un po’ questo il principio tradizionale universalmente accettato in Cina dai tempi più remoti e che, dietro la sottilissima (ma molto funzionale ed efficace) patina del “consenso”, confermava la struttura di dominio e di sfruttamento delle classi inferiori della società. «Tu Sovrano mi puoi dominare e sfruttare ma solo con il mio consenso, che io suddito ti accordo fin quando garantisci a me e alla mia famiglia un vitto sufficiente, un alloggio adeguato e quanto occorre per sostenere un’esistenza dignitosa e onesta». Naturalmente il concetto di «vita dignitosa» (o di «tenore di vita») mutava con il tempo, anche se molto lentamente, soprattutto nel mondo rurale cinese, i cui tempi di cambiamento si misuravano in secoli. Ancora oggi il Partito-Regime tiene fermo quel principio di consenso/revoca del mandato.

2. «Mao – scrive Samir Amin descrisse la natura della rivoluzione attuata in Cina dal suo Partito Comunista come una rivoluzione antimperialista/antifeudale che guardava al socialismo. Mao non ha mai pensato che, dopo aver affrontato l’imperialismo e il feudalesimo, il popolo cinese avesse “costruito” una società socialista. Ha sempre caratterizzato questa costruzione come la prima fase del lungo percorso verso il socialismo». Questo è il punto di vista maoista sulla rivoluzione cinese come lo presenta Samir. Tra poco cercherò di spiegare qual è invece il mio punto di vista. Per l’economista franco-egiziano è possibile individuare nell’esperienza cinese post 1949 una «specificità cinese» (ad esempio rispetto all’esperienza rivoluzionaria russa del 1917) che ci impedirebbe nel modo più assoluto di caratterizzare la Cina contemporanea (anche nel 2013) come “capitalista”: «La terra non è stata trasformata in una merce». Secondo il Nostro la mancata mercificazione della terra in quel grande Paese asiatico non ci permetterebbe di poter parlare della «Cina contemporanea» come di una società capitalistica, quantomeno in senso stretto, e ciò appunto «perché la strada capitalistica si basa sulla trasformazione della terra in merce». Qui credo che ci si riferisca alla possibilità di scambiare liberamente la terra in cambio di denaro. Per Samir in Cina «la terra delle comunità del villaggio» rimane «un bene comune», le cui forme di utilizzo sono state nel tempo le più diverse. Ciò che egli definisce come «stato di non merce della terra» (mi scuso se dovessi tradurre in modo non del tutto corretto dall’inglese) si riferisce in realtà alla natura statale della proprietà della terra, la quale ha conosciuto nel tempo diverse fenomenologie – come quella cosiddetta collettiva rappresentata dalle comuni di villaggio. Il supposto principio della non mercificazione della terra si base dunque sulla natura statale della proprietà terriera: è sufficiente la forma statale di quella proprietà per negare alla terra il carattere mercantile e a escludere la Cina dal novero dei Paesi pienamente capitalistici? A mio avviso no, nel modo più assoluto. Ciò che determina la natura sociale dell’agricoltura non è né la forma giuridica della proprietà della terra, né la sua contingente condizione giuridica legata alla possibilità di essere alienata in cambio di denaro, ma piuttosto la relazione sociale che stringe il capitale agricolo (privato, statale o “collettivo” [15] che sia) al lavoratore della terra. Se il capitale agricolo, cioè il capitale che sfrutta direttamente i lavoratori della campagna, coincide con il proprietario fondiario, magari in forma monopolistica, come nel caso della proprietà statale della terra, ciò significa semplicemente che il capitale agricolo incamera interamente il plusvalore estorto ai lavoratori, senza spartirlo con un proprietario fondiario.

La proprietà fondiaria è un titolo giuridico che dà il diritto a chi lo possiede di intascare una parte del valore creato dal lavoro [16]. Che la rendita sia intascata dal “privato” o dallo Stato, sempre in pieno capitalismo rimaniamo. Anche se la proprietà della terra è interamente nella disponibilità dello Stato, il quale si oppone a che essa diventi un articolo di commercio, il lavoratore agricolo salariato rimane in ogni caso separato dalle condizioni materiali della propria esistenza, a partire dalla prassi lavorativa, ed è questo, come sostiene giustamente Marx [17], che fa di quel lavoratore un salariato, ossia un individuo asservito ai rapporti sociali di dominio e di sfruttamento peculiari dell’epoca capitalistica. Questi rapporti sociali determinano la natura storico-sociale della proprietà capitalistica, non la sua contingente e cangiante espressione formale/giuridica.

Scrive Marx: «Se il modo di produzione capitalistico presuppone in generale che i lavoratori siano espropriati delle condizioni di lavoro, esso presuppone per l’agricoltura che i lavoratori rurali vangano espropriati della terra e subordinati a un capitalista, il quale esercita l’agricoltura in vista del profitto» [18]. Queste due condizioni si realizzano in una precisa epoca storica (quella capitalistica) e prescindono, in linea di principio (senza cioè prendere in considerazione la storia di ogni singola nazione), dalla natura del «capitalista» – che per Marx non è una persona fisica, ma una funzione sociale, che può venir assolta dal “privato” come dallo Stato. «Il capitalista è il funzionario non solo necessario, ma dominante della produzione. Invece il proprietario fondiario è, in questo sistema di produzione, del tutto superfluo. Ciò che è necessario, è che la terra non sia proprietà comune, che essa si contrapponga alla classe lavoratrice come mezzo di produzione che non le appartiene, e questo scopo è completamente raggiunto quando essa diventa proprietà statale, e quindi lo Stato percepisce la rendita fondiaria. Il proprietario fondiario, agente essenziale della produzione nel mondo antico e medievale, nel mondo industriale è un’escrescenza inutile. Il borghese radicale, che segretamente vagheggia la soppressione di tutte le altre imposte, arriva quindi teoreticamente alla negazione della proprietà fondiaria privata, di cui egli vorrebbe fare, sotto la forma di proprietà statale, la proprietà comune della classe borghese, del capitale» [19]. Qui il comunista di Treviri non potrebbe essere più chiaro circa la sua concezione della proprietà statale; una concezione che rappresenta la critica più radicale dell’ideologia statalista che informa la concezione e la prassi di molti suoi supposti epigoni – maoisti compresi [20].

Lungi dall’essere una misura di “stampo socialista”, la nazionalizzazione della terra (e la conseguente abolizione della rendita fondiaria pagata dai capitalisti agricoli alla classe dei proprietari terrieri, rendita che storicamente ha agito da freno sull’accumulazione capitalistica) è una misura che rientra nello schema ideale dello sviluppo capitalistico, schema che si ritrova nei grandi teorici dell’economia classica, da Quesnay a Ricardo. Questo schema ideale classico prevedeva lo sviluppo di un prevalente settore industriale, fortemente concentrato sul piano finanziario, la presenza di grandi aziende agricole assoggettate ai moderni metodi di produzione e l’esistenza di un assai ristretto strato sociale intermedio capitalisticamente improduttivo. Si trattava appunto di uno schema ideale, contraddetto in parte o in tutto dal reale processo di sviluppo capitalistico che ha avuto luogo nei diversi Paesi del mondo in periodi diversi. Lo stesso capitalismo di Stato reale come quello che ad esempio abbiamo conosciuto in Unione Sovietica, differiva da quello ideale per la presenza nella sua economia di un’assai diffuso settore cosiddetto informale, quando non “illegale”, la cui produzione (soprattutto agricola e artigianale) non rientrava nelle statistiche ufficiali pur essendo molto importante – anche ai fini della stabilità sociale. È stato nel settore agricolo che il quadro reale del processo economico si è maggiormente allontanato da quello ideale: l’agricoltura capitalistica ha visto, infatti, la compresenza di differenti forme proprietarie e organizzative: grande conduzione, piccola conduzione, mezzadria, cooperativa, grande azienda meccanizzata statale, piccola proprietà familiare, ecc.

Sul populismo cinese, che in parte sarà incarnato dal Partito di Mao, e su tutte le idee egualitarie (molte delle quali del tutto illusorie) coltivate dai contadini cinesi affamati di terra, vale a mio avviso la riflessione che Lenin dedicò nel 1912 a Sun Yat-sen, che si conclude affrontando proprio lo scottante problema della nazionalizzazione della terra. Scriveva Lenin: «L’esempio di Sun Yat-sen ci mostra in che cosa consiste “il significato sociale” delle idee nate da un profondo movimento rivoluzionario di centinaia e centinaia di milioni di uomini i quali sono oggi definitivamente entrati nella corrente della civiltà mondiale capitalistica. Uno spirito democratico combattivo, sincero pervade ogni riga della piattaforma di Sun Yat-sen. […] Una democrazia integrale con la rivendicazione della repubblica. Una impostazione netta del problema delle masse, un’ardente simpatia per i lavoratori e gli sfruttati, la fede nel loro diritto, nella loro forza. Dinanzi a noi sta effettivamente la grande ideologia di un popolo effettivamente grande, il quale sa non soltanto lagnarsi della sua secolare schiavitù, sa non soltanto sognare la libertà e l’uguaglianza, ma anche battersi contro i secolari oppressori della Cina. […] Il rappresentante principale o il principale appoggio sociale di questa borghesia asiatica, ancora capace di un’opera storicamente progressiva, è il contadino» (Lenin, Democrazia e populismo in Cina, Opere, XVIII, p. 152, Editori Riuniti, 1966). E tutto questo quadro, continuava Lenin, appare agli occhi dei marxisti tanto più significativo e apprezzabile se messo a confronto con la «putrefatta borghesia occidentale», con i «Paesi a civiltà progredita», ossia pienamente capitalistici e artefici della politica imperialista che saccheggiava le risorse fisiche e umane di molte regioni del mondo tenendole politicamente in uno stato di minorità nazionale.

Per Lenin il populismo è dunque l’ideologia della democrazia borghese che si appoggia sui contadini. La sostanza oggettiva (storica, sociale) di questa ideologia è «la distruzione del solo sfruttamento feudale», e ciò rappresenta un fatto rivoluzionario in un Paese «arretrato, agricolo, semifeudale come la Cina».Ecco adesso il risvolto, per così dire, reazionario del populismo, sempre secondo Lenin: «Ma questa ideologia della democrazia militante si accoppia, nel populismo cinese, innanzi tutto con dei sogni socialisti, con la speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo, e, in secondo luogo, col progetto e con la propaganda di una riforma agraria radicale» (p. 154). Lenin giudica in primo luogo «assolutamente reazionaria, piccolo-borghese l’illusione che in Cina sia possibile “prevenire” il capitalismo».  Fin quando il linguaggio del populismo rimane sul terreno della rivoluzione borghese radicale, ed esprime un’oggettiva tendenza storica, il populismo appare ai marxisti un fenomeno storicamente rivoluzionario; non appena questo movimento politico-sociale affetta pose socialisteggianti e pone obiettivi irrealizzabili, esso svela tutti i suoi limiti oggettivi e soggettivi e si apre alla critica del proletariato rivoluzionario, il quale ha tutto l’interesse a chiarire i reali termini della “questione sociale” come si pone storicamente e nel presente. E questo non semplicemente per una questione puramente dottrinale, ma soprattutto per una ragione squisitamente pratica: la difesa dell’autonomia politica, organizzativa, ideale e psicologica dei lavoratori. Come sempre, teoria e prassi sono le due facce di una stessa medaglia, sono l’una la continuazione dialettica dell’altra.

Ancora Lenin: «In sostanza, a che cosa conduce la “rivoluzione economica” di cui parla Sun Yat-sen in modo così ampolloso ed oscuro all’inizio dell’articolo? Al passaggio della rendita fondiaria allo Stato, cioè la nazionalizzazione della terra, a trasmettere la proprietà della terra allo Stato. È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto. Marx lo rilevò nella Miseria della filosofia, lo dimostrò particolareggiatamente nel III volume del capitale e sviluppò questa tesi in modo particolarmente chiaro in polemica con Rodbertus nelle Teorie del plusvalore. […] L’ironia della storia sta nel fatto che il populismo, in nome della “lotta contro il capitalismo”, applica all’agricoltura un programma agrario la cui piena attuazione comporterebbe il più rapido sviluppo del capitalismo nell’agricoltura» (pp. 156-167).

La questione circa la natura giuridica e politica della proprietà della terra non ha dunque assolutamente niente a che vedere con quella della formazione della rendita fondiaria, la quale presuppone l’esistenza del lavoro agricolo salariato, ossia del rapporto capitalistico di produzione. Ad esempio, la rendita differenziale indagata da Marx, la quale dipende dalla fertilità e dalla posizione della terra, ha come suo esclusivo presupposto lo sfruttamento capitalistico del lavoro. Contro la famosa formula trinitaria, che faceva dipendere l’origine della rendita fondiaria, del profitto e del salario rispettivamente dalla terra, dal capitale e dal lavoro, Marx spiegò che solo il lavoro è il “fattore della produzione” capace di creare valore e plusvalore. «In una esatta concezione della rendita, la prima cosa era naturalmente il concetto che essa non deriva dalla terra, ma dal prodotto del lavoro, dal prezzo del prodotto del lavoro» [21]. Questo semplicemente per dire che la natura giuridica della proprietà fondiaria e la qualità della terra “in sé” [22] non ci dicono nulla intorno alla natura sociale che domina il lavoro umano in agricoltura. È qui che la famosa distinzione tra struttura (il rapporto sociale dominante) e sovrastruttura (la forma giuridico-istituzionale che tale dominio assume) mostra tutta la sua potenza concettuale. Molti cosiddetti “marxisti” hanno peraltro gravemente frainteso quei concetti dandone una lettura volgare e meccanicistica [23]. Per quanto mi riguardo, considero struttura la società capitalistica colta nella sua complessa, contraddittoria e inscindibile totalità.

La trasformazione dei rapporti di proprietà non ha dunque niente a che vedere con il passaggio dal capitalismo al socialismo, il quale presuppone invece la trasformazione dei rapporti sociali di produzione, ossia il superamento del rapporto capitale-lavoro salariato. I passi che seguono mostrano nel modo più chiaro la confusione maoista circa la differenza abissale che corre tra quelle due fondamentali categorie economico-sociali: «Alla riunione allargata dell’Ufficio politico del Partito comunista cinese, tenutasi a Chengtu nel marzo del 1958, fu presa la decisione di ristampare una parte delle note introduttive [agli scritti raccolti nel testo Alta marea del socialismo nelle campagne cinesi], e Mao Tse-tung il 19 marzo scrisse una nota esplicativa. Eccone il testo integrale: “Queste note introduttive si trovano nel libro Alta marea del socialismo nelle campagne cinesi e sono state scritte nel settembre e nel dicembre del 1955; alcune di esse anche oggi non hanno perso il loro significato. C’è tuttavia un punto in cui si afferma che il 1955 è stato l’anno in cui si è sostanzialmente conquistata la vittoria decisiva nella lotta tra socialismo e capitalismo: questa formulazione non è appropriata. Bisognava dire: il 1955 è l’anno in cui si è conquistata sostanzialmente la vittoria per quanto riguarda quell’aspetto dei rapporti di produzione che è il regime di proprietà; negli altri aspetti e in alcuni settori della sovrastruttura, ossia sul fronte ideologico e su quello politico, la vittoria non era stata essenzialmente conquistata, o non era completa: erano necessari ulteriori sforzi”» [24]. Secondo Mao la rivoluzione cinese aveva trionfato sul piano della “struttura” economico-sociale, mentre sul piano della “sovrastruttura” politico-ideologica «erano necessari ulteriori sforzi». In questo modo egli poteva anche giustificare le aspre battaglie politiche che le fazioni che esprimevano interessi diversi e linee politiche di sviluppo economico-sociali reciprocamente alternative conducevano nel seno del PCC, il quale era invece monolitico in primo luogo nei confronti e contro le classi subalterne del Paese, e in secondo luogo per quanto riguardava la difesa della sovranità nazionale: due fronti che facevano scomparire ogni dissidio interno.

Quando Lin Piao, che nel 1969 si affermò come leader del PCC al posto di Mao, scriveva in un suo Rapporto che «nel 1956 la trasformazione socialista della proprietà dei mezzi di produzione nell’agricoltura, nell’artigianato, nell’industria e nel commercio capitalistici era in complesso completata», egli registrava il processo si statalizzazione dell’economia cinese servendosi del consueto armamentario fraseologico “marxista-leninista”. Detto en passant, la nazionalizzazione della terra si trova anche nel primo programma di Sun Yat-sen. Arturo Peregalli mette in luce il retroscena, per così dire, di questa statalizzazione: «Nel giugno del ’56 il Congresso del Popolo approva che, come risarcimento ai vecchi proprietari, venga dato un interesse fisso sul capitale “espropriato” del 5% annuo per la durata di 7 anni, cioè sino al 1962. Ma giunta la scadenza del percepimento di questi interessi la borghesia pensò bene di prorogarsela. […] Il termine del rimborso è di nuovo scaduto ma nonostante ciò i capitalisti ricevono ancora il loro 5% di interesse che viene poi investito in obbligazioni di stato oppure in altri prestiti statali. […] La borghesia cinese ha cambiato la sua “forma”: da borghesia direttamente industriale è diventata borghesia “rentier”. Il vecchio si è mischiato e fuso, data la particolarità dello sviluppo sociale in Cina, col nuovo. Questo processo di trasformazione della borghesia nella fase dell’imperialismo mondiale avanzato è stato descritto magistralmente più di cent’anni fa da Engels nell’Antidühring. […] I dirigenti cinesi hanno presentato il processo di centralizzazione nell’industria e nell’agricoltura come progressiva introduzione del socialismo. Ma se si esamina storicamente il succedersi delle forme di produzione ed i rapporti sottostanti questo elemento ideologico viene smentito. […] I rapporti di produzione fondamentali della società cinese non sono mai usciti dai rapporti capitalistici di produzione» (A Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, p. 86, Ceidem, 1976). Nella sua «Analisi critica della società cinese» Peregalli offre un quadro sinottico dei rapporti di produzione nell’industria e nell’agricoltura estremamente semplice, dettagliato ed esaustivo.

La rivista Chuang ha pubblicato nel 2015 un interessante studio sulla campagna cinese come si presenta oggi [25]; eccone una sintesi:

«L’articolo di Zhang Qian Forrest (Il posto centrale del cambiamento agricolo negli studi sulla Cina rurale) è un primo tentativo di sviluppare un’analisi di classe, che sottolinea gli aspetti dinamici della logica di classe del cambiamento capitalistico agricolo. Sostiene che la Cina rurale sta subendo una trasformazione drammatica, che manca alla maggior parte degli studiosi, sotto la pressione delle strategie di accumulazione capitalista. […] La premessa più importante dell’argomento di Zhang è che la Cina rurale sia capitalista. Uno dei motivi per cui alcuni sostengono ancora che la Cina sia socialista o almeno non capitalista è che la terra rurale è nominalmente di proprietà del collettivo rurale e non è una forma di proprietà privata. Nel complesso, Zhang sostiene che il capitale domina ciascuno dei quattro settori di mercificazione che osserva: terra, lavoro, produzioni e input. A causa di questo dominio, la società rurale cinese ha subito una rapida differenziazione di classe […] Le cinque classi rurali sono: datori di lavoro capitalisti (compresi gestori di aziende agricole e agricoltori imprenditoriali), piccoli agricoltori commerciali borghesi, famiglie a doppia occupazione, lavoratori salariati e agricoltori di sussistenza. Gli agricoltori imprenditori sono i preferiti dallo Stato, che li ha fortemente sostenuti finanziariamente e politicamente, anche a livello locale. […] Il sistema salariale è stato in altri termini usato per capitalizzare e mercificare l’agricoltura familiare e quella di sussistenza. Alcuni lavoratori salariati (la quarta classe rurale) “mantengono la proprietà nominale dei loro diritti sulla terra assegnata”, ma hanno preso in affitto la loro terra e diventano lavoratori a pieno titolo. Altri sono diventati lavoratori salariati a causa della perdita di tutta la loro terra. Zhang conclude che ciò che è ampiamente trascurato nelle discussioni sulla Cina rurale è che essa è stata fondamentalmente trasformata dal capitalismo, e sostiene che “l’agricoltura familiare nell’odierna Cina non è meno capitalistica dell’agricoltura aziendale organizzata che usa il lavoro salariato”. Sottolinea inoltre che non possiamo comprendere i disordini rurali senza prestare attenzione alle faglie delle classi rurali. […] Yan Hairong e Chen Yiyuan (Capitalizzazione agraria senza capitalismo? Dinamica capitalista dall’alto e dal basso in Cina) vedono la piccola produzione di merci come un “semenzaio per il capitalismo agricolo dal basso, che è stato sostenuto dallo Stato. Le fattorie familiari specializzate, che emergono dai piccoli agricoltori borghesi delle materie prime, rappresentano il “capitalismo dal basso”. Pertanto, le fattorie familiari di successo non rappresentano un’alternativa al capitalismo ma un agente chiave del suo sviluppo […] Ye Jinzhong (Il trasferimento di terra e la ricerca della modernizzazione agricola in Cina) cita le statistiche del Ministero dell’Agricoltura che indicano che alla fine del 2013 23 milioni di ettari, ovvero il 26% del totale dei terreni appaltati, erano stati trasferiti alla fine del 2013 a tutte le famiglie di contadini. La quantità di terreni trasferiti a imprese industriali e commerciali è aumentata di 40% dal 2012, dopo un aumento del 34% tra il 2011 e il 2012. Ciò ha effettivamente diviso la proprietà fondiaria, i contratti e i diritti d’uso, Per noi, i trasferimenti di terra rappresentano anche una nuova forma di mercificazione e accumulazione, guidata da un capitale urbano “esterno”, con conseguenze disastrose per i contadini. I trasferimenti di terra provocano cambiamenti nel reddito delle famiglie contadine, della mobilità del lavoro e della struttura sociale rurale, e quindi interrompono l’ordine dei villaggi convenzionali, differenziando i contadini e intensificando i conflitti all’interno dei villaggi. […] Il documento di Shaohua Zhan (Dal corporativismo statale locale al regime delle entrate fondiarie: l’urbanizzazione e la recente transizione dell’industria rurale in Cina) continua lo studio della dinamica della terra e dell’accumulazione. Egli osserva il fenomeno relativamente recente delle entrate fondiarie (tudi caizheng), in cui i governi locali generano surplus “espropriando terreni rurali e vendendoli a società molto grandi”. Secondo Zhan il regime delle entrate fondiarie rappresenta un allontanamento dal regime corporativo statale locale che lo ha preceduto.  Mentre il corporativismo statale locale ha promosso l’industria rurale sostenendo e coinvolgendo la maggior parte dei residenti rurali nella produzione industriale, il regime delle entrate fondiarie ha costretto a chiudere quasi tutte le imprese rurali basate sui villaggi e le ha sostituite con un piccolo numero di società molto grandi, concentrate in parchi industriali. Di conseguenza, i residenti rurali hanno perso le loro imprese e posti di lavoro mentre allo stesso tempo sono stati esclusi dalle grandi società industriali e dai settori urbani redditizi. […] Sotto il regime del corporativismo statale locale, i residenti rurali avevano il diritto di accedere alla terra e ai mezzi di sostentamento basati sulle risorse del villaggio. Quando un governo locale ha preso le risorse del villaggio come terra, acqua e materie prime per lo sviluppo dell’industria rurale, ha dovuto coinvolgere i residenti rurali perché i diritti e i mezzi di sussistenza di quest’ultimo erano collegati a tali risorse. In base ai regimi di entrate fondiarie i diritti e i mezzi di sussistenza dei residenti rurali sono separati dalle risorse del villaggio. […] Lo studio sull’acquacoltura di gamberetti a Leizhou di Huang Yu (Le fattorie capitaliste possono sconfiggere le fattorie familiari? La dinamica dell’accumulazione capitalista nell’acquacoltura di gamberetti nel sud della Cina) illustra come, negli ultimi dieci anni, la concorrenza abbia spinto la piccola produzione familiare a tentare dapprima aggiornamenti tecnici biologicamente rischiosi, e infine a rinunciare alla produzione domestica e diventare lavoratori salariati per l’agroindustria. Huang teorizza questo come un “passaggio del capitale agricolo dalla sottomissione formale del lavoro alla sua  sottomissione reale” [26]. La penisola di Leizhou è rinomata come “la capitale cinese dei gamberetti”, ma anche una delle parti più povere del Guangdong – la provincia più ricca della Cina e pioniera delle riforme economiche di Deng Xiaoping dagli anni ‘80. Leizhou è il più grande centro di acquacoltura di gamberi in Cina sia per la vendita interna che per l’esportazione; a partire dal 2011 l’industria impiega oltre un milione di persone (tra cui 400.000 coltivatori di gamberi). “La prosperità del settore e la difficile situazione dei produttori incarnano i due circoli viziosi in cui cadono i coltivatori di gamberetti: la concorrenza ha spinto gli agricoltori ad aumentare l’intensità di allevamento, portando a crisi sia ecologiche che economiche. Ecologicamente, l’agricoltura ad alta intensità ha degradato l’ambiente dello stagno e ha reso i gamberetti più stressati, rendendoli più vulnerabili alle malattie. […] Economicamente, la sovrapproduzione provoca un deprezzamento del valore dei gamberetti, rendendo difficile per gli agricoltori uscire dalla povertà”. Nel frattempo, le nascenti industrie agroalimentari della regione hanno tratto profitto da questa situazione affermando il controllo “del settore a monte dei crediti e degli input per i gamberetti ancora piccoli, i mangimi composti, le macchine di aerazione e i prodotti farmaceutici a base di gamberi, nonché il settore a valle della trasformazione, della commercializzazione e delle vendite”. Questo è ciò che Huang chiama la “sussunzione reale” del lavoro agricolo nell’industria dei gamberetti all’agro-capitale. […] Secondo Henry Bernstein (Alcune riflessioni sul cambiamento agricolo in Cina) le domande sulla mercificazione, differenziazione e accumulazione dal basso e dall’alto nella campagna cinese ”hanno rilevanza continua nei processi di cambiamento agricolo in corso in Cina”. […] Bernstein spiega innanzitutto il concetto di “cambiamento agricolo” o “transizione” (al capitalismo) introducendo una serie di dieci domande euristiche che riguardano: 1. la mercificazione della sussistenza degli “agricoltori (contadini)”; 2. la mercificazione dei terreni; 3. la formazione delle nuove classi (proprietà fondiaria capitalista, capitale agricolo e lavoro salariato); 4. il procedere dell’accumulazione del capitale in agricoltura (terra, mezzi di produzione, strumenti di lavoro); 5. la differenziazione di classe degli agricoltori attraverso l’accumulazione “dal basso” e “dall’alto”; 6. effetti della crescita della produzione in agricoltura; 7. effetti del capitale urbano che investe nella produzione agricola; 8. “significato del lavoro rurale oltre la fattoria, che determina l’industrializzazione rurale e la regolare migrazione del lavoro rurale come elementi vitali dei redditi e della riproduzione delle classi nelle campagne”; 9. i contributi dell’agricoltura all’industrializzazione; 10), “effetti della formazione e delle interazioni con la divisioni internazionali del lavoro nella produzione agricola, nel commercio internazionale di materie prime agricole e negli investimenti internazionali in agricoltura, e con il sistema statale internazionale”. […] Per quanto riguarda la prima domanda, secondo Bernstein “Dallo smantellamento delle comuni si è verificato un processo più o meno completo di mercificazione della sussistenza degli agricoltori, con la necessità di pagare per i servizi di istruzione e sanitari forniti in precedenza dalle comuni e anche per l’acquisto dei nuovi beni di consumo; e, non ultimo, con l’enorme portata dell’occupazione salariale sia nell’industria rurale, sia attraverso la migrazione dei lavoratori rurali in luoghi distanti”» [27].

Ma ritorniamo a Samir Amin. «La prima etichetta che viene in mente per descrivere la realtà cinese è il capitalismo di stato. Molto bene, ma questa etichetta rimane vaga e superficiale fintanto che il contenuto specifico non viene analizzato. Si tratta davvero di capitalismo, nel senso che la relazione a cui i lavoratori sono soggetti alle autorità che organizzano la produzione è simile [semplicemente “simile”?] a quella che caratterizza il capitalismo: lavoro sottomesso e alienato, estrazione di lavoro in eccesso [plusvalore, per dirla con Marx]. Esistono forme brutali di estremo sfruttamento dei lavoratori in Cina, ad esempio nelle miniere di carbone o nel ritmo furioso degli stabilimenti che impiegano donne». C’è bisogno di aggiungere altro per qualificare come pienamente capitalista la società cinese? A me pare di no, ed è per questo che trovo risibile, per non dire altro, il «simile» di cui sopra. «Questo è scandaloso per un paese che afferma di voler avanzare sulla strada del socialismo»: in buona sostanza, il mio interlocutore accetta come oro colato le affermazioni del Partito-Regime cinese, il quale appunto «afferma di voler avanzare sulla strada del socialismo». Lo scandalo esiste dunque solo nella testa di chi dà come quantomeno plausibili (mentre per chi scrive sono semplicemente risibili) le dichiarazioni dei leader cinesi intorno alla millenaria transizione della società cinese al socialismo – d’altra parte, la Cina è il Paese dai tempi lunghissimi… Ma non si tratta affatto di malafede! Coloro che guardano con simpatia al “socialismo con caratteristiche cinesi” credono davvero che il “socialismo” non sia altro che un capitalismo che veda lo Stato come unico padrone; essi sconoscono del tutto l’abissale distinzione che corre tra statalizzazione e socializzazione, e quindi credono in ottima fede che la socializzazione dei mezzi di produzione ecc. si realizza quando la loro proprietà passa allo Stato (possibilmente autodefinitosi “socialista” o “comunista”): che volgare e ultrareazionaria sciocchezza! Purtroppo questo veleno ideologico di marca stalinista è ancora in circolazione nelle vene del corpo sociale mondiale.

L’accumulazione “socialista” nella fraseologia che Mao riprese interamente dallo stalinismo: «Il fine della rivoluzione socialista è quello di liberare le forze produttive. La trasformazione della proprietà individuale in proprietà collettiva socialista negli ambiti dell’agricoltura e dell’artigianato, e quella della proprietà capitalista in proprietà socialista nell’industria e nel commercio privati porteranno necessariamente a una considerevole liberazione delle forze produttive. Verranno cosi create le condizioni sociali per un enorme sviluppo della produzione industriale e agricola» [28]. Per Mao «Il fine della rivoluzione socialista» non sarebbe dunque l’eliminazione del rapporto sociale capitalistico Capitale-Lavoro, con ciò che ne segue in ogni ambito della prassi economico-sociale, ma la «liberazione delle forze produttive», ossia il compito storico che, com’è noto, Marx individuò nel capitalismo: «Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono. […] Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale costituisce la missione storica e la ragione d’essere del capitale» [29]. Mao non dice «liberare le forze produttive» dal dominio capitalistico per assoggettarle alla volontà di un’umanità che intende emanciparsi dalla divisione classista degli individui; egli si limita invece a sottolineare, del tutto genericamente (ma in realtà assai significativamente), la necessità di liberare appunto le forze produttive da fattori pregressi e contingenti che ne impediscono il pieno sviluppo tanto nel settore industriale, quanto in quello agricolo, e ciò corrisponde esattamente alla situazione cinese ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese. Mao sottolinea infatti la necessità di  un «enorme sviluppo della produzione industriale e agricola», ossia di uno sviluppo capitalistico adeguato alle arretrate condizioni di partenza dell’economia cinese, e l’urgenza di passare dalla proprietà privata a quella statale, che lui in piena ortodossia stalinista definisce «proprietà collettiva socialista». Nella prospettiva maoista la statalizzazione dell’intera economia cinese avrebbe, per un verso, consentito un rapido decollo capitalistico della Cina, perché lo Stato avrebbe surrogato la mancanza di una robusta e indipendente borghesia nazionale; e per altro verso avrebbe reso possibile la trasformazione del PCC in un vero e proprio regime politico-istituzionale, consentendogli la permanenza al potere per molto tempo: previsione azzeccata!

Naturalmente chi non comprende i concetti che le parole dovrebbero esprimere, non può che prendere acriticamente atto della volontà maoista: «La trasformazione della proprietà individuale in proprietà collettiva socialista»: come no!

«Tuttavia», continua Samir Amin, «l’istituzione di un regime capitalista di stato è inevitabile e rimarrà tale ovunque. Gli stessi paesi capitalisti sviluppati non saranno in grado di entrare in un percorso socialista (che non è oggi all’ordine del giorno) senza passare attraverso questa prima fase. È la fase preliminare del potenziale impegno di qualsiasi società a liberarsi dal capitalismo storico sulla lunga strada verso il socialismo/comunismo. La socializzazione e la riorganizzazione del sistema economico a tutti i livelli, dall’impresa (l’unità elementare) alla nazione e al mondo, richiedono una lunga lotta durante un periodo storico che non può avere scorciatoie». Quindi Samir accredita la gigantesca panzana ideologica secondo la quale la Cina si troverebbe sul lunghissimo (quasi infinito…) cammino che potrebbe portarla «verso il socialismo/comunismo». Il fatto che Samir parli di Paesi, di imprese e di nazioni, e non di classi subalterne che si liberano del potere politico-sociale delle classi dominanti per poter iniziare a costruire le condizioni di un reale superamento dei rapporti sociali capitalistici, già solo questo fatto la dice lunga sui concetti di “socialismo”, “comunismo”, “rivoluzione” ecc. che egli aveva in testa. L’economista franco-egiziano parla genericamente di Stato; la natura di classe di questo Stato non sembra avere per lui nessuna importanza, mentre per me è un fatto dirimente: quale classe si pone alla testa della trasformazione rivoluzionaria della società, ossia al suo radicale superamento in vista della Comunità umana che non conosce la divisione classista degli individui? Forse il Nostro risponderebbe: «È il popolo che si mette alla testa di una simile rivoluzione sociale». Da Marx in poi, i comunisti sanno che quando si parla di “popolo” in relazione alla rivoluzione sociale anticapitalistica, si evoca un concetto che non supera i limiti concettuali e sociali del capitalismo. Il “popolo”, soprattutto nell’epoca del dominio totalitario e mondiale del rapporto sociale capitalistico, è una parola che rimanda direttamente alla conservazione dello status quo sociale. Dal punto di vista anticapitalista il termine “popolo” non è che una vuota e mistificante astrazione concettuale intesa a celare l’esistenza delle classi sociali, della complessa stratificazione sociale, fatta di sfruttatori e di sfruttati, di ricchi e di poveri, di garantiti e di precari, di dominanti e dominati, con cui ci confrontiamo nel XXI secolo. Ovviamente per chi ritiene che la divisione in classi sociali degli individui sia un dato storico-sociale ineliminabile, per forza di cose può tranquillamente sorvolare sulla maledetta (disumana) realtà sopra richiamata, o deve considerarla alla stregua di un mero dato sociologico/politologico, e non invece il cuore di tutti i problemi sociali – compresi quelli trattati dalla medicina e dalla psicoanalisi.

Nel XXI secolo tutti i più grandi Paesi del mondo sono oggettivamente maturi per la “transizione anticapitalistica”, né più né meno della Cina. Francamente mi riesce difficile capire come qualcuno, soprattutto se dice di essere un “marxista”, possa davvero credere che il PCC abbia qualcosa a che fare, anche solo lontanamente, con quella transizione. La cosa si spiega in un solo modo: quel qualcuno ha in testa un “socialismo” che in realtà non solo non ha niente a che fare con ciò che personalmente penso debba essere il socialismo, ma ne è l’esatto contrario. Il “socialismo” di cui parlano i simpatizzanti del “socialismo con caratteristiche cinesi” non è in realtà che il capitalismo di Stato più o meno integrale.

«Ciò che il capitalismo di stato cinese ha raggiunto tra il 1950 e il 2012 è semplicemente sorprendente»: su questo concordo con Samir. «In effetti, è riuscito a costruire un sistema produttivo moderno sovrano e integrato alla portata di questo gigantesco paese, che può essere paragonato solo a quello degli Stati Uniti. È riuscito a lasciarsi alle spalle la stretta dipendenza tecnologica delle sue origini (importazione di modelli sovietici, quindi occidentali) attraverso lo sviluppo della propria capacità di produrre invenzioni tecnologiche»: sottoscrivo! «Tuttavia, non ha (ancora?) avviato la riorganizzazione del lavoro dal punto di vista della socializzazione della gestione economica»: qui invece mi metto a ridacchiare, anche se so che non è politicamente corretto farlo – e dirlo.

Come vedremo, la mia tesi è che quanto nella campagna cinese (e nella società cinese in generale) non fosse riconducibile, più o meno direttamente, al modo di produzione capitalistico non si trovasse oltre il capitalismo, ma piuttosto prima di esso. Detto in altri termini, molte forme economico-sociali presenti nella Cina di Mao, sia che fossero il retaggio della precedente epoca, sia che fossero realtà di nuovo conio, erano in ogni caso forme che attestavano una transizione del Paese non verso il socialismo, come sosteneva l’ideologia maoista, ma verso il capitalismo. La stessa proprietà cosiddetta collettiva fu una delle diverse forme che nella Cina maoista assunse la proprietà statale. Analogamente alla campagna russa dei tempi di Stalin, per quanto riguarda la campagna cinese ai tempi di Mao possiamo dire che tutte le forme “spurie” di proprietà contadina, ossia non riconducibili immediatamente alla “pura” forma capitalistica di proprietà (non importa se statale o privata), non andavano in direzione del socialismo, ma piuttosto in direzione di una condizione precapitalistica, realizzando cioè un relativo e momentaneo arretramento in vista di un futuro avanzamento, oppure in direzione del capitalismo. In ogni caso tali forme rimanevano confinate nel recinto dell’accumulazione “originaria” del capitale. Al netto dell’alluvionale propaganda politico-ideologica e della fraseologia pseudo rivoluzionaria che connotava il maoismo (in Cina e nel mondo), anche l’esperimento “comunardo” che prese corpo al tempo del cosiddetto Grande Balzo in Avanti (1958-1961) va inquadrato nel processo sociale che possiamo chiamare appunto via cinese all’accumulazione capitalistica – o accumulazione capitalistica con caratteristiche cinesi. Processo sociale questo, e ciò va precisato con cura, legato in mille modi alla contesa interimperialistica del tempo.

«La monografia di Wen Tiejun sull’origine del problema rurale in Cina, dimostra che dal XIX secolo l’aggressione imperialista straniera ha costretto la Cina ad imitare, per poter sopravvivere, i percorsi di industrializzazione degli  Stati capitalisti. Ma la Cina non poteva, così come i paesi “sviluppati” hanno fatto, saccheggiare altri paesi per acquisire il capitale necessario per iniziare l‘industrializzazione su scala nazionale. L’unica soluzione era “l’auto-sfruttamento”, cioè aumentare temporaneamente l’estrazione del surplus dal settore agricolo pre-industrializzato alfine di raggiungere un livello sufficiente per supportare la rapida espansione dell’industria» [30].  Anche posto in questi termini il problema dello sviluppo economico in Cina, la natura sociale dell’accumulazione primitiva capitalistica “con caratteristiche cinesi” non ha un solo atomo che possa venir definito in qualche modo socialista. A cominciare dal fatto che il cosiddetto “autosfruttamento” si concretizzò naturalmente in un brutale sfruttamento di contadini e operai, una prassi, questa, molto nazionale-borghese, e assai poco (per nulla!) socialista. Ma la rivista qui citata non può certo condividere questo punto di vista, dal momento che essa è nostalgica del periodo maoista, come ben si evince da quanto segue: «Allo stesso modo, riteniamo che i collettivi parzialmente “socialisti” di oggi, come Nanjie, dovrebbero essere studiati per trovare soluzioni ai problemi del mondo rurale, ma devono anche essere considerati come esperimenti limitati dal contesto capitalistico in cui operano. L’analisi di Liu Yongji su Nanjie, ci dice che i suddetti collettivi sono in primo luogo delle imprese commerciali concorrenti sul mercato capitalista. Per mettere la questione in termini marxiani, questi collettivi, se vogliono sopravvivere, devono operare secondo la logica capitalistica di costante accelerazione dello sfruttamento o di auto-sfruttamento dei loro membri. […] Tuttavia, come con le Comuni dell’epoca di Mao, riteniamo che i collettivi di maggior successo posseggano una duplice natura sia di sfruttamento che di comunitarismo e che quest’ultimo aspetto può essere liberato dal primo e addirittura rafforzato se si adottassero le riforme proposte da Liu. […] Pensiamo che le Comuni maoiste e alcuni dei collettivi rurali odierni offrano delle lezioni importanti circa l’egualitarismo, la partecipazione democratica e la gestione della produzione e della distribuzione orientate al miglioramento duraturo dello standard di vita dei membri in circostanze di risorse limitate e di terreni collettivizzati». Non c’è dubbio, lo standard di vita è un concetto assai relativo: «in circostanze di risorse limitate» (da chi? da cosa?) perfino una ciotola di riso può avere la consistenza di un ricco pranzo di gala. Bisogna moderare le proprie pretese, secondo una frugalità che si opponga al consumismo capitalistico. Scherzo! In ogni caso, secondo M. G. Longo, «L’egalitarismo non impedì il verificarsi di diseguaglianze tra varie arie del paese. Molte fonti mostrano ad esempio che il divario tra redditi rurali e urbani aumentò notevolmente durante il periodo maoista» [31].

A mio avviso, se si vuole parlare correttamente di trasformazione capitalistica della campagna cinese dopo la breve esperienza delle comuni agricole collettive (statali), e soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, si deve prima di tutto osservare il carattere precapitalistico che in parte ebbero le misure politico-economiche che stavano alla base del cosiddetto Grande Balzo in Avanti – il quale, com’è noto, si concretizzò in larga misura in un drammatico balzo all’indietro, con conseguenze nefaste su ogni aspetto della vita sociale, soprattutto nelle campagne cinesi. Lungi dall’andare oltre il capitalismo, in direzione del socialismo, la Comune rurale cinese fu per molti versi l’espressione, appunto, di un’economia precapitalistica posta al servizio di una rapida accumulazione capitalistica – rapida, beninteso, nella volontà dei decisori politici che allora dirigevano il Partito-Regime. La radice di questo apparente paradosso va ricercata nelle condizioni sociali della Cina del tempo e nella collocazione che questo Paese venne ad avere nello scenario geopolitico realizzato dalla Seconda guerra mondiale. Analogamente, quando si parla dell’integrazione della Cina nel capitalismo globale a partire da una certa data, non si deve intendere il passaggio dell’economia di quel Paese dalla forma socialista, che non ha mai preso corpo nemmeno in forma embrionale, a quella capitalistica, ma si deve piuttosto alludere alla definitiva integrazione del capitalismo nazionale cinese (o capitalismo con caratteristiche cinesi, tanto per fare il verso alla fraseologia cara ai leader cinesi e ai loro simpatizzanti occidentali) nel mercato mondiale e nella divisione internazionale del lavoro. In questo caso si tratta di una transizione tutta interna ai rapporti sociali capitalistici basati sul dominio e sullo sfruttamento dei salariati da parte del Capitale – che qui scrivo con la “c” maiuscola per evidenziarne la natura astrattamente e potentemente sociale, indifferente cioè alle forme giuridiche di proprietà che le imprese capitalistiche possono avere: che si tratti di impresa (industriale, agricola, terziaria, finanziaria) pubblica (statale) o privata, non cambia nulla ai fini della definizione della natura storico-sociale dell’economica che oggi crea e distribuisce la ricchezza in ogni parte del mondo. Anche nel caso della Cina, la “sovrastruttura” politico-istituzionale posta al servizio del mantenimento dello status quo sociale è perfettamente corrispondente e adeguata alla “struttura” economico-sociale: il cosiddetto Partito Comunista Cinese è al servizio del capitalismo cinese semplicemente perché è sempre stato (da Mao in poi, tanto per esser chiari) un partito nazionale-borghese. Naturalmente un conto è essere un Partito nazionale-borghese ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese, e un conto affatto diverso è esserlo ai tempi dell’accumulazione capitalistica, dello sviluppo economico e della piena maturazione del capitalismo – vedi alla voce imperialismo. Il Partito di Mao è stato un partito nazionale-borghese che ha dominato la scena politica, istituzionale e ideologico-culturale della Cina in questi tre diversi momenti storici, trasformandosi da partito borghese rivoluzionario (nazionale e antimperialista) quale era stato dagli anni Trenta fino agli inizi degli anni Sessanta, a partito borghese reazionario, esattamente come è accaduto per altri soggetti politici borghesi attivi in Occidente. La natura rivoluzionaria o reazionaria di un soggetto politico non è un dato ideologico, non ha a che fare con la coscienza che questo soggetto ha di se stesso, quanto piuttosto, ed essenzialmente, con la sua funzione storico-sociale nei diversi momenti storici. Che il PCC di Mao credesse in ottima fede di essere e di agire come un autentico partito comunista, questo bisogna darlo per scontato; si tratta piuttosto di capire il tipo di “comunismo” che quel Partito aveva in testa e la sua reale funzione nel processo sociale. Fare dello Stato, in tutte le sue articolazioni centrali e periferiche, il proprietario monopolista della terra, come accadde alla fine del Primo Piano Quinquennale, significò trasformare tutti i contadini cinesi in lavoratori salariati dallo Stato. Tutto questo però non ci porta al di là del capitalismo, ma ci fa vedere un processo di transizione verso il capitalismo, il cui sviluppo certamente realizza le condizioni materiali (e solo quelle) per la costruzione del socialismo.

Nel suo libro del 1966 L’orbita della Cina, Harrison E. Salisbury, allora prestigioso inviato speciale in Asia del New York Times, fornisce alla riflessione dei lettori un’interessante intreccio problematico che tiene insieme economia, politica (con la politica estera come continuazione della politica interna), geopolitica e ideologia. Scriveva Salisbury: «La popolazione cinese aumentava con tanta rapidità che sembrava in grado da sola di mutare il sistema d’equilibrio mondiale. Le enormi riserve di mano d’opera avrebbero fatto inevitabilmente della Cina la potenza mondiale numero uno, a patto che i suoi quadri dirigenti fossero in grado di controllare questo Niagara di umanità. Ma, mentre la popolazione si moltiplicava con rapidità malthusiana, la produzione dei viveri andava di male in peggio. Il paese si era riavuto dagli effetti più disastrosi dell’introduzione del sistema delle comuni e da certi tentativi rudimentali di organizzare sistematicamente la produzione agricola. I raccolti avevano raggiunto il livello precedente le inondazioni e le siccità del 1963 e del 1964. Nel 1965 produsse complessivamente circa 179 milioni di tonnellate di grano, più o meno quanto aveva prodotto nelle migliori stagioni degli anni cinquanta. Ma nel 1965 la Cina aveva da 75 a 100 milioni di abitanti più che nel 1955, e per alimentare questa popolazione doveva acquistare all’estero cinque o sei milioni di tonnellate di grano, a un costo variabile tra i 400 e i 500 milioni di dollari in valuta pregiata. Era il segreto dell’esistenza di Hong Kong. Scoprii con mia grande sorpresa che con le vendite a Hong Kong la Cina si procurava la quantità esatta di valuta pregiata che le serviva per comprare il grano. E se la procurava in gran parte con la vendita di commestibili. Il paradosso era soltanto apparente. La Cina vendeva a Hong Kong viveri costosi, come il latte, le uova, la frutta, il burro, le verdure e la carne. E le somme che incassava le adoperava per acquistare grano e riso. […]  Viaggiando nella Siberia orientale e nello splendido territorio agricolo delle Marittime [URSS] vidi chilometri di terra ricca e non ancora contaminata dall’aratro; intere province di terre vergini. Non si poteva attraversarle senza capire quanto dovessero irritarsi i cinesi nel vedere milioni di ettari di bella terra coltivabile ancora non toccati dallo sforzo umano, in regioni dove sarebbe stato possibile far crescere milioni di tonnellate di grano e di piante commestibili e insediare milioni di cinesi che ora vivevano nelle terre sovraffollate e sovraccoltivate delle regioni centrali e nordoccidentali. Poi c’era la Mongolia che ai cinesi suggeriva sostanzialmente lo stesso discorso. La steppa erbosa mongola, se fosse stata arata anziché essere adibita al pascolo, poteva diventare fertilissima. […] Ma non era soltanto a nord e a ovest che i cinesi tenevano d’occhio le regioni che avrebbero potuto contribuire ad alimentarli. Se si volgevano verso sud sud-ovest e se contemplavano le grandi regioni risicole, come il Vietnam, la Cambogia, la Tailandia e la Birmania, era ben difficile che non vedessero in esse un’arma utile ad affrontare la crisi che incombeva su di loro. […] Per quanto tempo una Cina affamata sarebbe rimasta quieta mentre i suoi deboli vicini avrebbero continuato a produrre quelle eccedenze di viveri necessarie alla sua sopravvivenza? Se prendevo in considerazione la dinamica della Cina, il grafico della sua crescente popolazione, gli inefficaci provvedimenti per diminuire il tasso di natalità, i sistemi relativamente inefficaci per aumentare la produzione di viveri, mi sembrava possibile indicare sulla carta l’anno in cui i dirigenti cinesi sarebbero stati costretti a un’azione aggressiva aldilà delle frontiere a cercarvi riso per le ciotole della loro gente. […] Non stupiva perciò che i russi avessero schierato nutriti contingenti di uomini su tutta la Siberia orientale e avessero aiutato la Mongolia a meglio presidiare la sua lunga frontiera con la Cina. […] Non potevamo già considerare la virulenza delle guardie rosse, la violenta xenofobia della politica cinese, la visione schizofrenica del mondo secondo Pechino, i primi sintomi di questo futuro cataclisma?» (H. E. Salisbury, L’orbita della Cina, pp. 191-193, Bompiani, 1967).

La rapida modernizzazione della campagna cinese si ripresentò come un’assoluta necessità alla fine del ciclo maoista, e ancora oggi lo sviluppo di una produzione agricola capitalisticamente avanzata rappresenta per il regime cinese un obiettivo centrale. Ancora Salisbury: «Soltanto tre o quattro anni prima i Cinesi sostenevano dogmaticamente che Malthus si era sbagliato, che non esisteva il problema della sovrappopolazione ma solo quello della sottodistribuzione. In questo prendevano le mosse dal marxismo più puro. […] L’incubo delle carestie li aveva però costretti a rinunciare alle teorie anti-malthusiane di Marx e a compiere qualsiasi sforzo pur di limitare l’incremento della popolazione. Li aveva costretti a rinunciare alle comuni per tentare di rendere più produttiva l’agricoltura. Li aveva costretti ad acquistare valute straniere e a trattare con gli odiati paesi capitalistici per ottenerne viveri» (pp. 185-192). In tutto questo il «marxismo più puro» non c’entra assolutamente nulla, mentre vengono in piena luce l’arretratezza capitalistica della Cina, con che ne seguiva anche in termini di pianificazione demografica, la disastrosa politica del Grande Balzo (Indietro) e la propaganda ideologica maoista intesa a cancellare la pessima realtà facendo ricorso alla fumisteria pseudomarxista intesa a magnificare il “socialismo con caratteristiche cinesi”, salvo poi ricorrere ai riti dell’”autocritica” o invocare la malvagità dei nemici interni ed esterni del “socialismo” cinese.

3. Il carattere antimperialista della rivoluzione cinese non contraddice in alcun modo la natura borghese di questa rivoluzione, né ha impedito alla Cina di diventare a sua volta un Paese imperialista di primissimo rilievo, fino a collocarsi al vertice della piramide del Potere Mondiale, in conflittuale coabitazione con gli Stati Uniti d’America. L’antimperialismo della rivoluzione cinese registra piuttosto un “ritardo storico”, nel senso che lo sviluppo capitalistico in Cina, come in tanti altri Paesi del mondo, si è realizzato nell’epoca imperialista del capitalismo internazionale, e ha dovuto fare i conti con la politica di sfruttamento e di dominio politico-militare perseguita in primo luogo dai Paesi occidentali. Nel caso cinese, soprattutto dopo la Liberazione del 1949 è stata la tenaglia rappresentata dall’imperialismo statunitense e da quello “sovietico” a rendere particolarmente difficile, contraddittoria e generatrice di vere e proprie catastrofi sociali (carestie, violente persecuzioni etniche e politiche, ecc.) la modernizzazione capitalistica della Cina. La rivoluzione cinese aderiva perfettamente alla teoria leniniana dell’ineguale sviluppo capitalistico. «È necessario lottare con energia contro il tentativo di applicare nei paesi arretrati un’etichetta comunista ai movimenti rivoluzionari di liberazione che tali non sono effettivamente» [32]. Anche questa preoccupazione leniniana colpisce nel segno, se pensiamo al cosiddetto “comunismo” del Partito di Mao.

L’antimperialismo maoista era radicato insomma sul terreno delle condizioni oggettive della Cina e del mondo dell’epoca, più che su un’astratta concezione ideologica, la quale in ogni caso non superava di un millimetro la concezione borghese (spesso piccolo-borghese, populista) del mondo, e questo sempre al netto della fraseologia pseudomarxista che la veicolava – che  peraltro il maoismo aveva ereditato in larghissima parte dallo stalinismo [33], e che aveva “aggiornato” con quegli innesti presi dalla millenaria cultura cinese che tanto piacevano agli intellettuali “marxisti” del tempo che non ne potevano più del rigido dogmatismo sovietico [34].

L’antimperialismo nelle parole di Sun Yat-sen: «La mia esperienza in quarant’anni di lotta mi ha convinto che per elevare la Cina ad una posizione di libertà e di eguaglianza tra le nazioni noi dobbiamo suscitare un completo risveglio del nostro popolo ed allearci in lotta comune con tutti quei popoli del mondo che ci trattino da eguali» [35]. Qui possiamo leggere la concezione – e il programma politico – maoista al netto della fraseologia pseudomarxista di cui sopra. «Noi abbiamo portato a termine la rivoluzione democratica che il dottor Sun Yat-sen aveva lasciato incompiuta e l’abbiamo inoltre sviluppata in una rivoluzione socialista, che è in via di attuazione» [36]. Naturalmente lo “sviluppo socialista” della rivoluzione democratica è una mera illazione maoista. Almeno così io credo.

Considerati storicamente, antimperialismo e internazionalismo, nel senso marxiano del concetto («Proletari di tutto il mondo, unitivi»; «I proletari non hanno nazione»), non sono affatto sinonimi, non sono due termini che esprimono lo stesso concetto, semplicemente perché l’antimperialismo può benissimo sposarsi con il più gretto e xenofobo dei nazionalismi, e questo abbiamo potuto verificarlo nelle diverse rivoluzioni anticoloniali che si sono succedute nel corso del tempo dopo la Seconda guerra mondiale, quando il vecchio sistema imperialista-coloniale centrato sulla Francia e sull’Inghilterra andò in frantumi. In Cambogia, appoggiata dalla Cina, il nazionalismo posto al servizio della guerra di liberazione antimperialista raggiunse punte  di parossismo xenofobo e di violenza (stiamo parlando di centinaia di migliaia di cambogiani uccisi perché sospettati di intelligenza con il nemico occidentale) mai viste prime.

Apro una parentesi. La Cambogia dei Khmer rossi, la Corea del Nord e l’Albania di Enver Hoxha rappresentano tre esempi di “indipendentismo nazionale” portato fino all’esasperazione e al parossismo. Certo, mutatis mutandis, anche la Germania dell’Est può insegnarci qualcosa in quel senso. Perché spesso la paura di venir ingoiati dal pesce più grosso si trasforma in paranoia, ed è a questo punto che la società diventa un vero e proprio inferno, o, nella migliore delle ipotesi (si fa per dire!), in un carcere a cielo aperto, e certamente in un incubo. Chiudo la parentesi.

L’antimperialismo della Cina ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese pose dunque le basi per il futuro imperialismo cinese, che iniziò a manifestarsi nella seconda metà degli anni Sessanta, quando Pechino elaborò un’intelligente quanto spregiudicata strategia di espansione politico-ideologica che aveva come obiettivo il vasto mondo dei movimenti e dei Paesi in conflitto con l’imperialismo occidentale, i quali avevano trovato un sostegno politico, militare e finanziario nell’Unione Sovietica. La Cina decise insomma di fare concorrenza all’ex “amico fraterno”, di occupare almeno una fetta del “campo antimperialista” egemonizzato da Mosca, e ciò non poteva non portare i due Paesi del “socialismo reale” sulla strada del conflitto totale.

Per Lenin a suo tempo si trattò di “cavalcare” la rivoluzione democratico-borghese nel tentativo di portare il proletariato russo al potere in alleanza con i contadini poveri (che nel corso del 1917 avevano dato inizio alla guerra rivoluzionaria contro la grande proprietà terriera indipendentemente dal Partito Comunista Russo), così da imprimere alla rivoluzione sociale in Occidente un decisivo impulso. Com’è noto, Lenin concepiva la rivoluzione in Russia come parte della generale rivoluzione proletaria internazionale, secondo la teoria, già abbozzata da Marx, della Russia socialmente arretrata e baluardo reazionario come anello debole della catena capitalistica europea.

«La rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino», avevano scritto Marx ed Engels nella Prefazione alla nuova edizione russa (1882) del Manifesto del Partito comunista. Naturalmente per i due comunisti tedeschi si trattava di una possibilità, non di una certezza. Lenin si mosse secondo la complessa prospettiva della «doppia rivoluzione» (o «rivoluzione in permanenza», secondo la definizione che ne darà Trotsky) già nel 1905, all’epoca della prima rivoluzione russa.

Com’è noto, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 non innescò la sperata e vitale rivoluzione proletaria internazionale, e ben presto il fragile potere proletario centrato sui Soviet fu travolto dalla marea controrivoluzionaria (cioè dalle potenti forze sociali capitalistiche che premevano da tutte le parti), e lo stesso Partito Bolscevico ne rimase sotto le macerie, riconvertendosi come struttura organizzativa in un potente strumento al servizio dell’accumulazione capitalistica e della rinascente potenza Russa – chiamata nel frattempo “Sovietica”.

Niente di tutto questo accadde con Mao, nonostante alcune superficiali analogie con l’esperienza leniniana potrebbero far pensare il contrario. Il suo Partito si mosse ben dentro i confini della rivoluzione nazionale-borghese, e questo semplicemente perché la sua natura era nazionale-borghese (antimperialista). Soprattutto quando si parla di stalinismo e di maoismo bisogna fare una netta distinzione fra la realtà dei fatti e la propaganda ideologica, tra ciò che gli individui e i soggetti politici sono, e ciò che essi dicono e credono di essere, e questa è un’altra grande lezione politica che ci ha dato Marx. Il fatto che, all’opposto della strategia leniniana, quella maoista vedesse nei contadini, e non nel proletariato, il cuore pulsante della rivoluzione cinese, ciò non si spiega con una mera diversità tattica dovuta alle specifiche condizioni sociali della Cina, ma alla natura della rivoluzione che il PCC si trovò a organizzare e dirigere anche in concorrenza e in conflitto aperto con un altro soggetto nazionale-borghese, il Kuomintang [37], il quale uscì sconfitto dal confronto con i “comunisti” perché del tutto incapace di esercitare un controllo sulla campagna e troppo legato alla borghesia cinese in affari con l’imperialismo occidentale.

La teoria maoista dell’«accerchiamento delle città da parte delle campagne», non fu una trovata strategica dovuta al geniale e originale pensiero di Mao, così dialettico da impressionare le deboli menti dell’intellighenzia sinistrorsa occidentale, ma l’espressione ideologica della modernizzazione capitalistica della Cina come si dava concretamente in quel Paese in un peculiare momento storico.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il solo esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al reale contesto storico e sociale cinese. Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. Com’è noto, la politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale; tale politica è centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti difendono come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica[38]. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima eclatante dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

Se noi osserviamo il processo rivoluzionario nella Francia del XVIII secolo, vediamo che la borghesia francese lasciò ai contadini l’iniziativa di prendersi e distribuirsi le terre appartenenti ai proprietari fondiari, in attesa che il processo economico (libero commercio, indebitamento dei piccoli e medi contadini, ecc.) portasse nelle sue mani gran parte di quella terra. In Cina le cose stavano altrimenti. In quel Paese da moltissimo tempo (stiamo parlando di decine di secoli) si praticava il libero commercio della terra, la quale in gran parte era dunque finita nelle mani non dei nobili feudatari o dello Stato, ma in quelle degli usurai di villaggio, i quali trafficavano con i commercianti europei i prodotti della terra e affittavano ai contadini cinesi microscopici lotti di quella terra. Questa realtà storica depotenziava il ruolo rivoluzionario della borghesia cinese, la quale non era in alcun modo interessata a una radicale riforma agraria, e anzi guardava con ostilità la prospettiva di una confisca e ripartizione della terra da parte dei contadini. La borghesia cinese manifestava una risoluta ostilità sia nei confronti degli operai che dei contadini, e la sua “missione rivoluzionaria” si esauriva nella ricerca dell’unità nazionale della Cina, presupposto per un suo ulteriore sviluppo in un contesto mondiale affollato di grandi potenze bramose di mercati e di materie prime. Tutte le volte che il movimento di unificazione nazionale incrociava il movimento sociale degli operai e dei contadini, la borghesia cinese lasciava che i “signori della guerra” provvedessero a reprimere nel sangue quel movimento, ed è per questo che la rivoluzione del 1911-1912, che mise fine alla dinastia imperiale con la proclamazione della Repubblica (Presidente Sun Yat-sen), si risolse in un sostanziale fallimento, anche grazie alla politica nazionalista/antimperialista di Sun Yat-sen che vedeva nei contadini poveri e negli operai solo una massa bruta da usare per conseguire l’obiettivo dell’unità nazionale, senza concedere loro nulla di significativo sul piano sociale e politico. Per questo nel 1922 Sun rifiutò il fronte Unico fra il PCC, non ancora stalinizzato, e il Kuomintang, che deteneva il potere a Canton. Le cose cambieranno con l’ascesa al potere dello stalinismo in Unione Sovietica. Già nel 1923 l’Internazionale Comunista capovolge l’impostazione leniniana della questione nazionale-coloniale (Tesi del 1920), e riconosce apertamente che la sola rivoluzione all’ordine del giorno in Cina era quella borghese-nazionale: «In considerazione del fatto che la classe operaia cinese non è ancora sufficientemente differenziata come forza completamente autonoma, L’Esecutivo [del 12 gennaio 1923] ritiene necessario che il giovane partito comunista cinese coordini le sue attività con quelle del Kuomintang». Col tempo questo “coordinamento”, giustificato con l’arretratezza sociale della Cina, con la debolezza del proletariato cinese e con l’esiguità numerica del PCC, si trasformerà in una completa subordinazione di quel Partito al Kuomintang. Il PCC era sì numericamente piccolo, ma era tutt’altro che ininfluente fra il proletariato urbano, che andava organizzandosi in sindacati molto combattivi, e i contadini poveri, che odiavano il Kuomintang che tanto li disprezzava e temeva.

4. Nel 1949 la strada che portava la Cina verso l’integrazione nel blocco del capitalismo di Stato sovietico, integrazione realizzata magari nei modi e nei tempi più consoni alla realtà del Paese, apparve al nuovo regime come la sola via praticabile per dotarlo di quel capitale fisso e di quelle conoscenze tecniche indispensabili per avviare la modernizzazione capitalistica della Cina (e soprattutto della sua campagna), e che essa non possedeva, se non in infima parte. E difatti, nel febbraio del 1950 Cina e Russia sottoscrivono un trattato di reciproca assistenza del valore di 300 milioni di dollari; ne seguirà un altro nel 1950, del valore di 430 milioni. I due Paesi individuarono nella ricostruzione della zona industriale della Manciuria il primo obiettivo da conseguire, e il Primo Piano Quinquennale sfornato a Pechino indirizzò in quel senso i crediti ricevuti dall’Unione Sovietica.

Gli Stati Uniti d’America, che nel 1945 avevano cercato di mediare fra Kuomintang e PCC, e che nel caso di un loro “ragionevole compromesso” [39] erano pronti a implementare un “generoso” Piano Marshall per la Cina, assistettero al trionfo del movimento maoista con sconcerto e frustrazione. Washington temeva ovviamente che l’intero Sud-Est asiatico cadesse nella sfera di influenza dell’imperialismo avversario, l’Unione Sovietica, la quale appariva allora in grado di poter ingoiare la Cina maoista in un sol boccone. La preoccupazione sembrò concretizzarsi quando, il 25 giugno del 1950, la Corea settentrionale cercò di unificare con la forza l’intera penisola coreana, impresa appoggiata dai sovietici e dai cinesi, che inviarono in Corea truppe di “volontari”. Com’è noto, il “mitico” generale Mac Arthur propose a Truman di bombardare (non escludendo l’impiego dell’arma atomica) le truppe cinesi che si erano concentrate oltre il confine, avendone come risposta il suo richiamo in patria il 10 aprile 1951 – ma dopo qualche esitazione da parte del Presidente, cosa che alimentò in tutto il mondo la paura per un’imminente Terza guerra mondiale. La forte e aggressiva inimicizia manifestata dagli americani nei confronti della nuova Cina rese più urgente agli occhi del PCC la necessità di stringere una forte e immediata alleanza con l’Unione Sovietica, il cui arsenale militare e il cui prestigio politico potevano costituire un valido deterrente nei confronti degli Stati Uniti.

Scrive Charles Reeve: «La guerra di Corea rappresenta una fase importante per il consolidamento dello Stato cinese. Corrispondendo allo sviluppo della Guerra Fredda e alla determinazione del capitalismo americano di bloccare l’espansione del Capitalismo di Stato nel Sud-Est asiatico, la guerra di Corea accentua il processo di centralizzazione del capitalismo cinese. […] Questo fenomeno può essere paragonato, per esempio, alla costituzione, durante le guerre rivoluzionarie del 1789, della ideologia e dell’apparato amministrativo che furono necessari all’avviamento del capitalismo francese: la Nazione Francese e il suo Stato centralizzato» [40]. Il paragone naturalmente regge mutatis mutandis, considerato che la formazione della Nazione cinese si colloca nell’epoca imperialistica dello sviluppo capitalistico.

La linea politico-economica stabilita da Mao all’indomani della liberazione è riassunta nei passi che seguono: «Per un lungo periodo, dopo la vittoria della rivoluzione, bisognerà utilizzare al massimo gli aspetti positivi del capitalismo privato delle città e delle campagne, per incrementare lo sviluppo dell’economia nazionale. Durante tale fase, tutti gli elementi capitalisti privati delle città e delle campagne, che non siano di ostacolo all’economia nazionale e che, al contrario, possono arrecarle beneficio, devono essere autorizzati a sopravvivere e svilupparsi […] Noi dobbiamo considerare la maggior parte dei democratici che stanno al di fuori del Partito, alla stregua dei nostri propri quadri; dobbiamo dar loro lavoro e concedergli posizione e autorità».

Le piccole aziende agricole a conduzione familiare rappresentavano la spina dorsale dell’economia rurale cinese, ed era dal loro sviluppo che il PCC dei primissimi anni di potere si attendeva una rapida modernizzazione della campagna cinese, la conditio sine qua dello sviluppo capitalistico cinese complessivamente considerato. La generale arretratezza in cui versava la campagna cinese all’indomani della proclamazione della Repubblica pesava come un macigno sulle prospettive di un rapido sviluppo industriale della Cina, il quale necessitava di un settore agricolo molto produttivo, così da realizzare un virtuoso scambio tra città e campagna, tra prodotti industriali e prodotti agricoli. La scarsa produttività della campagna e l’espansione demografica della popolazione rurale dovuta all’introduzione dei moderni criteri di profilassi e ad altre riforme sociali, rendevano impossibile l’accumulazione di un surplus da riversare nel settore industriale. L’agricoltura cinese ancora nel 1957, alla vigilia del cosiddetto Grande Balzo in Avanti, conosceva una condizione di estrema arretratezza, nella quale era prevalente l’economia di pura sussistenza. L’enorme massa di popolazione rurale giovanile in larghissima parte si limitava a consumare la produzione agricola, mentre l’industria non riusciva ad assorbirne che una minima parte, proprio perché non trovava nel settore agricolo un fattore di sviluppo: si trattava di un vero e proprio circolo vizioso che generava forti tensioni sociali, le quali trovavano una puntuale espressione nel vivace dibattito politico-ideologico interno al Partito-Regime – il cui monolitismo politico è sempre stato un mito. Proprio nel 1957 la componente agricola all’accumulazione di capitali registra una brusca frenata, la quale risalta ancor di più se messa a confronto con il relativo sviluppo del settore industriale. Per un Paese come la Cina, la modernizzazione capitalistica della campagna era (e in parte rimane, mutatis mutandis) un problema cruciale, decisivo, addirittura vitale, anche considerata la sua alta densità demografica.

Alla fine degli anni Cinquanta si rendevano disponibili per il mercato del lavoro cinese circa 10 milioni di giovani lavoratori all’anno, ma il settore industriale ne riusciva ad assorbire solo 500 mila, e quindi una grossa fetta della forza-lavoro di origine contadina rimaneva nella campagna in una funzione improduttiva, ossia come esercito di consumatori di una considerevole porzione del surplus agricolo. Sempre più cucchiai attingevano da una scodella che conteneva pressappoco sempre la stessa quantità di cibo. Questa metafora può forse ricordare Malthus, ma essa non ha niente a che fare con le sue teorie circa il naturale divario tra il tendenziale incremento della popolazione e l’aumento effettivo dei mezzi di sussistenza. Ma qui rimando alla critica marxiana di quella «insulsa» teoria. Come ho già accennato, il surplus consumato improduttivamente non si trasformava in investimenti idonei a far crescere la produzione agricola, e ciò influenzava assai negativamente l’intero processo di accumulazione del capitale. La forza-lavoro che si riversava nelle città andava invece a costituire un numeroso «esercito industriale di riserva» che andava a premere sui salari degli operai, le cui condizioni di vita infatti peggiorarono. Nel 1958 gli operai rappresentavano solo il 9% della popolazione in grado di svolgere un lavoro.

Alla luce delle condizioni economico-sociali della Cina del tempo, l’accumulazione capitalistica doveva necessariamente risolversi in una violenta e massiva estrazione di surplus agricolo, e a farne le spese furono soprattutto quegli strati contadini che più degli altri (borghesia nazionale, proletariato urbano, piccola borghesia, ecc.) avevano appoggiato la Rivoluzione cinese. Scriveva il già citato Charles Reeve nel suo importante saggio del 1973 dedicato allo «sviluppo del capitalismo in Cina dal 1949 al 1972»: «È interessante nella rivoluzione cinese, e nella sua ideologia, osservare come il ceto contadino, la base sociale più importante dalla quale ottenne il più valido appoggio durante la guerra civile (appoggio dovuto alla politica di distribuzione delle terre dei grandi proprietari) sia diventato la prima vittima dello sviluppo industriale “socialista”. Così la nuova Costituzione proclamata dal governo nel 1954 annuncia l’inizio della trasformazione “socialista” della società; ciò vuol dire nella pratica la nazionalizzazione dell’industria e la collettivizzazione (statalizzazione) dell’agricoltura. E, per ciò che concerne il controllo sulla produzione sociale, il ruolo del proletariato restava quello di produttore di plus-valore. Come è precisato nel testo stesso del Piano Quinquennale: “In Cina come in Unione Sovietica, spetta all’autorità centrale il compito di determinare la quantità e l’attribuzione delle risorse”» [41]. «In Cina come in Russia»: il carattere stalinista del Primo Piano Quinquennale è dunque affermato apertamente. D’altra parte per Mao «La teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin ha un valore universale» [42].

Come ho accennato, solo dopo, nell’estate del 1960, Mao prenderà le distanze per poi rompere del tutto con l’ex “Paese fratello”, e non per ragioni di natura ideologica, come chi non fosse stato ammalato di ideologismo “marxista-leninista” già allora poteva facilmente comprendere (e infatti comprendeva), ma in ragione di problemi che avevano a che fare con lo sviluppo capitalistico in Cina e con la sua collocazione internazionale, a partire dalla sua prossimità con l’ingombrante e aggressivo imperialismo russo, il quale da sempre aspirava a mettere le proprie zampe sul Paese confinante, approfittando delle sue divisioni interne. La Cina di Mao però si rivelò un osso troppo duro per i denti dell’orso sovietico, molto forte sul piano politico-militare, ma assai debole su quello, alla fine decisivo, della potenza economica. Come non farsi schiacciare dai due colossi imperialistici usciti trionfanti dalla Seconda guerra mondiale (USA e URSS): non si comprende la complessa, contraddittoria e spiazzante (sfuggente, “anguillosa”) politica estera maoista se non si pone mente a quella vitale necessità. Vitale, beninteso, per il dominio sociale capitalistico “con caratteristiche cinesi”. Dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, il sedicente antimperialismo maoista, fortemente polemico nei confronti del “revisionismo socialimperialista” di Mosca [43], mascherò l’ambizione del padre della patria di portare la Cina su un terreno geopolitico già occupato dall’Unione Sovietica

Alla fine degli anni Cinquanta si manifestò in tutta la sua problematicità il circolo vizioso dell’accumulazione accelerata del capitale basata fondamentalmente sull’estorsione di surplus agricolo attraverso gli strumenti della coercizione politica, delle misure erariali e della politica dei prezzi che avvantaggiava il settore industriale ai danni di quello agricolo – secondo la famosa “forbice dei prezzi” che a suo tempo molto inquietò i dirigenti sovietici alle prese con la cosiddetta “accumulazione socialista originaria” [44]. Nella fase finale del Primo Piano Quinquennale il processo di nazionalizzazione delle imprese e dell’agricoltura conobbe un’improvvisa accelerazione, e ciò rese possibile l’emarginazione dalle leve del potere politico della borghesia nazionale che aveva sostenuto il governo cinese secondo la teoria delle quattro classi. Nel 1957 oltre il 96% della produzione agricola era già controllata dallo Stato.

È in questo scenario complesso, contraddittorio e foriero di gravi tensioni sociali che la fazione maoista decise di imboccare la strada, per molti aspetti originale (per altri semplicemente obbligata), chiamata Grande Balzo in Avanti. Come vedremo, si trattò di un temerario e finanche azzardato tentativo inteso soprattutto a preservare l’autonomia e l’integrità della nazione evitando al contempo di farla precipitare nel più completo sottosviluppo economico-sociale, foriero di eventi catastrofici (carestie, epidemie, conflitti sociali, guerre separatiste, ecc.) che avrebbero messo la Cina dinanzi alla tragica necessità di inchinarsi senza riserve a una delle due superpotenze che dominavano la scena mondiale. L’ideologia populista in salsa “marxista-leninista” cucinata da Mao (e ingoiata dalla sinistra europea come una succulente pietanza dottrinaria che declinava il “marxismo” in termini creativi) si prestò come collante ideologico al servizio dell’ardua impresa.

Rispetto alla linea politica filosovietica che informò la stesura del Primo Piano Quinquennale (1953-1957), il cosiddetto Grande Balzo realizzò per alcuni e importanti aspetti un netto arretramento sul terreno del processo di accumulazione capitalistica, ma fu un passo indietro in parte obbligato e che intendeva creare le condizioni per un successivo passo in avanti, tentato sempre su quel terreno, che non pregiudicasse la stabilità sociale, l’unità nazionale e l’indipendenza della Cina, tre principi-guida che mettevano d’accordo tutte le fazioni del PCC; tre Moloch a cui il Partito-Regime era disposto a sacrificare qualsiasi cosa. Allora esattamente come oggi. Un Moloch che nel periodo maoista del regime ha divorato decine di milioni di vite tra carestie, conflitti sociali, conflitti etnici, conflitti politici interni al PCC – vedi la cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale.

La strategia maoista intesa a sottrarre la Cina dalla divisione internazionale del lavoro e dalla sua piena integrazione nel mercato capitalistico mondiale, in attesa che il gracile corpo del capitalismo cinese si rafforzasse, non poteva durare in eterno, e soprattutto essa fu pagata a carissimo prezzo dalle masse contadine, in particolare, e da tutti gli strati sociali subalterni, in generale.

La Comune rurale cinese può anche essere considerata, in parte o in tutto, una forma economico-sociale non capitalista, ma non nel senso che essa uscisse fuori dai confini del capitalismo e andasse verso il socialismo, come da propaganda maoista nazionale e internazionale, ma in ben altro senso, ossia nel senso che la Comune rurale prese corpo sulla base di una struttura economica della campagna cinese ancora largamente precapitalistica, quella ereditata appunto dalla Cina moderna nata con la rivoluzione nazionale-borghese, e che su quel fondamento essa cercò di procedere in direzione del capitalismo organizzando un’accumulazione capitalistica “con caratteristiche maoiste”, per così dire.  Alla fine questo complicato e per molti aspetti drammatico tentativo si rivelò perlopiù fallimentare. Con la Comune rurale cinese non siamo insomma oltre il capitalismo, ma prima e verso di esso.

Per capire questa complessa e contraddittoria esperienza non bisogna tenere presente solo le condizioni economiche della Cina del tempo, ma anche il quadro geopolitico all’interno del quale era inserito quel Paese. Fu infatti l’impossibilità di trovare nell’Unione Sovietica un “Paese fratello”, una valida sponda in grado di arginare l’ostracismo americano, che alla fine degli anni Cinquanta costrinse la fazione maoista del PCC ad emarginare la fazione filosovietica e a puntare tutte le carte dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati sul fronte interno: «Dobbiamo contare solo sulle nostre forze», si disse allora con la solita enfasi volontaristica tipica dei regimi di stampo stalinista. Fare di necessità virtù, come si dice. Mobilitare, razionalizzare e “mettere a valore” tutte le energie e le risorse a disposizione. L’importazione di beni strumentali per la modernizzazione agricola era ormai diventata quasi impossibile, dato il deterioramento delle relazioni della Cina con l’Unione Sovietica e i suoi alleati. L’ambiente internazionale ostile significava anche che sarebbe stato rischioso affidarsi ai pochi centri industriali esistenti in Cina per questo compito, dato che essi o si trovavano lungo il confine con l’Unione Sovietica, o insistevano lungo la costa, dove erano esposti al potere militare degli Stati Uniti. In quelle circostanze la tentazione di un ripiegamento autarchico, di una ritirata strategica “introvertita” diventò irresistibile, e per molti aspetti essa può forse essere interpretata come l’espressione di una “scelta obbligata”.

D’altra parte il regime di vita autarchico e introverso era parte integrante del retaggio storico della Cina imperiale, e il nuovo regime “socialista” poteva rifarsi a quel retaggio quantomeno sul piano ideologico e psicologico [45]. In realtà quel piano si dimostrò ben presto del tutto inconsistente nella realtà cinese del XX secolo, e la sbandierata autosufficienza della Cina si risolverà in una serie di politiche economiche in larga parte velleitarie e fallimentari, politiche che alla fine degli anni Settanta obbligheranno il Paese a un drammatico mutamento di rotta, il quale si sostanzierà soprattutto in una sua rapida apertura al commercio mondiale. Il processo sociale racchiuso nella metaforica bottiglia aveva raggiunto la sua pressione critica già da tempo, e il tappo doveva necessariamente saltare, se si voleva mettere in salvo il contenitore, ossia l’architettura politico-istituzionale del regime e la stessa unità nazionale della Cina. Per il PCC si trattava di rendere possibile un’esplosione controllata, per così dire, e le riforme economiche elaborate nel 1978 dalla fazione del PCC organizzata intorno a Deng Xiaoping riuscirono nell’ardua impresa, ottennero un completo e nient’affatto scontato successo. Il movimento sociale represso nel sangue nell’estate del 1989, testimonia dell’estrema complessità e criticità del “processo riformista” intrapreso dal Partito-Regime alla morte di Mao. Si trattava di passare, con una certa gradualità ed entro limiti geografici da ampliare gradatamente (vedi la creazione delle Zone economiche speciali), da un capitalismo di Stato integrale e “autarchico”, con non poche eccezioni nella campagna cinese, a un capitalismo dinamico, diffuso, controllato certamente dallo Stato, ma in larga parte non più diretto da esso e, cosa fondamentale, orientato quasi completamente all’esportazione. Le famose Tigri Asiatiche offrirono a Pechino il modello vincente da seguire. Si trattò insomma, e come già detto, di una transizione economica tutta interna al regime sociale capitalistico. Si passò dal “capitalismo eremita” di Mao Tse-tung al “capitalismo cosmopolita” di Deng Xiaoping. In realtà anche il capitalismo di Stato dei tempi di Mao subì le influenze del capitalismo globale e della contesa interimperialista, ma in quel periodo prevalsero in Cina le spinte a preservare l’autonomia esistenziale della nazione, la quale in quel momento storico avrebbe potuto integrarsi nell’economia mondiale solo pagando un caro prezzo in termini appunto di agibilità geopolitica. ««Anche se la vittoria della linea riformista può essere datata alla fine del 1978 (quando la minaccia sovietica sembrava estremamente intensa), essa si affermò nel corpo della società rurale a partire dal 1980, quando era apparso chiaro che l’URSS non poteva o non voleva mettere in discussione la sovranità cinese e gli Stati Uniti avevano ormai da dieci anni cessato di farlo. Da quel momento i privilegi reali che la gestione del potere aveva consentito ai “quadri” del PCC, potevano portare ai loro detentori maggiori vantaggi in una società aperta al mercato che in un regime collettivistico. […] Così si spiega l’immediato e largo consenso in seno al partito alla scelta politica di consentire “ad alcuni contadini di diventare ricchi prima di altri”, cioè di dare pieno slancio alla “piccola produzione di merci”» [46].

Ma ritorniamo ancora una volta indietro. È alla fine del Primo Piano Quinquennale che la tendenza integralmente statalista si impone sulle altre tendenze politico-ideologiche presenti nel PCC – alcune delle quali non escludevano in linea di principio la ricerca di una conciliazione di interessi perfino con l’imperialismo americano: «Non importa il colore dell’imperialismo, purché esso faccia affari con noi e non voglia trasformarci in una sua colonia!». Lo stesso Mao dopotutto cercherà agli inizi degli anni Settanta di “fare sponda” con gli Stati Uniti in funzione antisovietica.

La Comune rurale fu la forma che assunse la proprietà statale nella cellula economico-sociale fondamentale della campagna cinese: il villaggio. «Vi erano due grandi categorie d’impresa: in primo luogo le imprese pubbliche, che per lungo tempo avranno una posizione largamente dominante, poi le imprese collettive, i cui metodi di gestione non sono affatto differenti, ma che non gravano sul bilancio dello Stato, hanno generalmente un giro di affari modesto e sono poste sotto la tutela delle autorità locali» [47]. La proprietà cosiddetta collettiva («corporativismo statale locale», secondo la puntuale definizione di Shaohua Zhan) attiene dunque a questa particolare articolazione dello Stato; essa fu, come già detto, una delle forme che la proprietà statale ha assunto nella moderna società cinese – cioè dal 1949 in poi. In questo preciso senso non ha alcun senso porre la distinzione tra proprietà collettiva e proprietà statale, se non si chiarisce che entrambe sono la fenomenologia della stessa sostanza: lo Stato come padrone unico (o monopolista), come capitalista-collettivo. La collettivizzazione (statalizzazione) delle campagne determinò la rapida estensione del sistema salariale, fondamento del capitalismo, perché le famiglie che lavoravano un appezzamento di loro proprietà e che possedevano qualche capo di bestiame furono appunto costrette a passare al lavoro salariato delle fattorie collettive – cioè statali. Che questo salario venisse pagato dallo Stato (nella sua articolazione periferico-rurale) solo in parte in denaro, e in altra parte in derrate alimentari e servizi, ciò non muta minimamente la natura del rapporto capitalistico, e in ogni caso rimaniamo ben aldiquà del capitalismo, non oltre. Lungi dal rappresentare un decentramento della produzione, sempre come da propaganda ideologica (e come sempre accettata acriticamente dal sinistrismo occidentale), il sistema delle comuni rurali realizzò piuttosto le condizioni ideali per un controllo profondo, invasivo e capillare delle campagne da parte del Partito-regime. Infatti, la Comune venne organizzata su un modello di stampo militare; essa contava una media di 20 mila abitanti, e non era solo un centro di produzione agricola, ma aveva l’ambizione di poter sviluppare un sistema di piccola – e spesso piccolissima – produzione industriale legato al territorio. Soprattutto sotto quest’ultimo aspetto il risultato fu a dir poco pessimo, sotto ogni punto di vista – quantitativo, qualitativo, sociale [48]. Tra l’altro, il gonfiamento abnorme della bolla burocratica anche nella campagna ebbe come conseguenza l’estorsione di una rilevante quota di surplus generato dai contadini per il profitto personale dei burocrati delle sezioni locali del PCC. Una dinamica ancora attiva che produce periodiche campagne moralizzatrici che in realtà non sono che il pretesto per regolamenti di conti interni al Partito. L’asfissiante e capillare rete burocratica “comunista” rendeva impossibile lo svilupparsi di una reale discussione all’interno delle Comuni, soffocando sul nascere ogni forma di dissenso circa i metodi di lavoro, gli obiettivi, le condizioni di lavoro e di vita e così via. Altro che “modello di democrazia popolare dal basso”!

La Comune non aveva solo funzioni economiche e amministrative, ma come abbiamo accennato essa venne concepita anche in vista di esigenze militari, e la stessa coltivazione dei cereali fu considerata dal regime come un fondamentale settore strategico in vista di una sempre possibile guerra. «Le politiche radicali si basarono sulle due roccaforti ideologiche dell’autosufficienza e dell’egualitarismo. Il particolare, la politica dell’autosufficienza fu adottata in Cina anche nel timore di invasione da parte delle potenze occidentali. Il suo scopo principale era di rendere ogni provincia autosufficiente nella produzione di cereali. Il governo forzò l’adozione di questa politica nelle campagne attraverso una serie di misure, quali la soppressione dei mercati rurali, la riduzione delle vendite di grano alle province deficitarie da parte delle agenzie statali, la limitazione dei trasferimenti di cereali da una provincia all’altra, ed infine pretendendo il pagamento di tasse agricole sotto forma di cereali, piuttosto che in contanti o in altri prodotti. Ne conseguì che molte zone, precedentemente specializzate in coltivazioni industriali altamente redditizie o in altre attività agricole come l’allevamento, la pesca o la produzione di ortaggi ecc., furono costrette a produrre cereali su terreni le cui condizioni naturali non consentivano rese soddisfacenti. Perciò, non solo la disponibilità di altri prodotti agricoli diminuirono, ma persino le rese medie di cereali calarono drasticamente. Allo stesso tempo, i contadini che vivevano nelle zone specializzate nella produzione di cereali furono costretti a coltivare a coltivare altri prodotti agricoli per autoconsumo, a causa delle restrizioni negli scambi commerciali di questi prodotti tra le province. Si verificò di conseguenza un generale aumento dei costi di produzione nel settore agricolo, e una diminuzione della produttività dei fattori. In altre parole, le politiche di autosufficienza eliminarono la specializzazione e la differenziazione della produzione agricola, distruggendo tecniche agrarie vecchie di secoli, e trasformando molte zone precedentemente ricche e prospere, in aree sottosviluppate e a basso reddito» [49]. Le esigenze extraeconomiche ebbero dunque un impatto assai negativo sullo sviluppo economico della Cina, in primo luogo sulla sua enorme realtà rurale.

Una rilevante percentuale dei contadini cinesi per vivere non poteva contare su quello che gli spettava per il lavoro svolto sulle terre collettive (statali), e questi contadini integravano il loro magro reddito coltivando piccoli lotti privati di terra e allevando non più di una vacca, di un maiale e di pochi polli. Le nuove direttive maoiste tendevano a ridurre drasticamente l’entità di quei lotti e ad eliminare ogni scorta supplementare di cibo a disposizione dei contadini. Lo scopo era quello di costringere i contadini a lavorare esclusivamente le terre collettive, ed essere quindi alle complete dipendenze dello Stato-Padrone, oppure ad abbandonare la campagna per trasferirsi nei centri urbani, così da alimentare l’esercito di forza-lavoro a disposizione dell’industria.

«Un’altra conseguenza negativa della mobilitazione di massa della forza rurale nelle attività industriali ed infrastrutturali fu che un gran numero di contadini venne sottratto al normale lavoro dei campi. Secondo C. Y. Cheng (1963, negli anni 1958 e 1959 si verificò una carenza di forza lavoro pari fino al 30-50% durante la stagione dei raccolti. Il calo della produzione agricola fu perciò dovuto anche alla poco cura prestata in attività quali la mietitura, la trebbiatura e l’immagazzinamento delle derrate. Inoltre, i campi furono infestati da insetti nocivi e da erbacce, poiché i contadini, impegnati in altre attività, non avevano avuto il tempo di curarsene. Nonostante questi problemi, le fonti ufficiali registrarono cifre altissime, ovviamente gonfiate, per la produzione agricola. Nel 1958 per la produzione agricola nel 1958, e obiettivi ancora più irrealistici furono fissati per gli anni successivi. […] La quantità di cereali pro capite che rimaneva a disposizione delle aree rurali in seguito all’aumento degli approvvigionamenti pubblici, unito al calo della produttività, era ben al di sotto del livello medio di sostentamento. […] Di conseguenza, fame e carestie iniziarono a colpire molte zone della Cina rurale fin dall’autunno del 1959. […] L’abolizione degli orti familiari e delle produzioni collaterali tolse ai contadini l’unica fonte integrativa dei propri redditi. Quest’ultima misura, in particolare, si dimostrò un enorme spreco di risorse, poiché la terra che era stata precedentemente usata per gli orti familiari spesso non era adatta alla produzione di cereali, e perciò rimaneva in coltivata. […] Inoltre, in seguito all’abolizione degli orti familiari e della conseguente scarsità di foraggi, vi fu una drastica riduzione nel numero di suini. Questo costituì un problema anche per la produzione di cereali, perché la quantità di fertilizzante organici disponibile diminuì sensibilmente. Tutto ciò contribuì ad instaurare un circolo vizioso, per cui la produzione agricola diminuiva anno dopo anno» [50]. Dopo un’accesa discussione interna al PCC, come sempre rappresentata dalle fazioni in lotta in guisa di battaglia ideologica per il trionfo dei sacri principi socialisti/comunisti, nel settembre del1962 il Partito-Regime riaffermò l’importanza per l’economia cinese degli orti familiari, delle occupazioni sussidiarie e dei mercati privati rurali. La resistenza dei contadini al supersfruttamento nei campi e nelle piccole industrie rurali fu notevolissima e si manifestò in più modi, e ciò spinse il governo a cambiare repentinamente la sua politica economica per prevenire un’ennesima rivolta contadina, cosa che avrebbe destabilizzato l’intera società cinese. Ancora una volta la questione contadina dettava l’agenda politico-sociale del Paese, e ciò manifestava nel modo più evidente la sua perdurante arretratezza.

«Il divario rurale-urbano ha definito il regime di sviluppo ed è stato regolato da un alto tasso di accumulazione, in cui i consumi sono stati mantenuti bassi in modo che gli investimenti, in particolare nell’industria pesante, potessero essere mantenuti elevati. L’aumento dei consumi è stato costantemente mantenuto al di sotto del tasso di crescita del PIL; durante il Primo piano quinquennale iniziato nel 1953 la quota dell’industria sul PIL è aumentata dal 25,9 percento al 43,2 percento. Un altro modo di vedere questo fatto è che, sebbene oltre l’80% della popolazione lavorasse nell’agricoltura, quel settore ha ricevuto meno del 10% degli investimenti in tre decenni, dal 1953 al 1985, mentre nello stesso periodo il 45% è andato all’industria pesante. Mentre lo Stato cinese ha tentato di sviluppare rapidamente l’industria pesante, la produzione agricola è rimasta un limite molto grave all’industrializzazione. La riforma agraria intrapresa nei primi anni del regime ha rimosso il principale consumatore rurale in grado di competere con lo Stato per il surplus agricolo: l’élite rurale (compresi proprietari terrieri, funzionari locali, commercianti e contadini relativamente benestanti). Alla fine del 1953, lo Stato ha istituito un meccanismo per estrarre questo surplus. Chiamato “acquisto unificato e marketing”, il sistema implicava il controllo completo dello Stato sul mercato del grano, schiacciando tutti i commercianti privati. Questa era considerata la migliore tra le varie opzioni imperfette all’epoca, necessaria se il la fase di sviluppo doveva rimanere indipendente dal mercato globale del dopoguerra saldamente nelle mani degli Stati Uniti. Ecco come Chen Yun, che faceva parte del comitato di redazione del Primo Piano, spiegò la logica alla base del controllo Statale sul grano all’epoca: “Ci sono carenze? Sì. Potrebbe smorzare l’entusiasmo della produzione, perseguitare le persone fino alla morte […] e provocare insurrezioni in alcune aree. Ma sarebbe peggio se non lo implementassimo. Ciò significherebbe percorrere la vecchia strada della Cina che importava grano”. Dopo l’implementazione del monopolio di Stato, i dibattiti politici tra il 1955 e il 1980 si spostarono sulla questione di come sviluppare la produzione agricola per produrre un surplus maggiore. […] Il Grande Balzo in Avanti del 1958-1961 fu un tentativo di rispondere a questa domanda. L’autosufficienza e la mobilitazione del lavoro rurale in eccedenza avrebbero dovuto compensare la mancanza di investimenti statali nella produzione agricola attraverso la partecipazione collettiva alla costruzione del capitale agricolo. Nel frattempo, ciò avrebbe consentito un elevato tasso di accumulazione, senza rischiare un rilancio dei mercati rurali. Tale politica di sviluppo si basava sulla collettivizzazione rapida e su larga scala, egualitarismo, industrializzazione rurale di successo e motivazione politica. Su molti di questi obiettivi, il tentativo è stato un chiaro fallimento. Al contrario, una politica di modernizzazione agricola che si basasse su investimenti più consistenti da parte dello Stato, con la creazione di condizioni idonee all’agricoltura scientifica, meccanizzata e su larga scala, era un’altra opzione possibile. Tuttavia, ciò inizialmente avrebbe rallentato il processo di industrializzazione, poiché gli investimenti statali in agricoltura sarebbero stati molto più elevati, limitando in tal modo i fondi disponibili per l’industria pesante. In definitiva, la pressione della rapida industrializzazione nel contesto di una guerra fredda che spesso diventava calda ha spinto la leadership nella prima direzione, anche se non senza disaccordi. […] Poiché la carestia ha devastato il paese per tre anni a partire dal 1959, i leader centrali hanno identificato non solo le sale da pranzo pubbliche e le fornaci in acciaio del cortile, ma anche la svolta verso le attività non agricole in generale come cause essenziali del disastro, piuttosto che il sequestro statale di grano e la sua esportazione in URSS anche dopo che la carestia era diventata evidente. […] All’alba del nuovo regime nel 1949, il valore della produzione rurale “secondaria” (principalmente artigianato tradizionale) ammontava a 1,16 miliardi di yuan ai prezzi del 1957. Il movimento di riforma agraria ha aiutato tali industrie a riprendersi un po’ e persino a crescere su base familiare, con oltre dieci milioni di contadini che lavoravano a tempo parziale nell’artigianato commerciale a partire dal 1954, e con una produzione quasi raddoppiata del valore di 2,2 miliardi di yuan. L’introduzione nel 1953 del sistema unificato di acquisto e commercializzazione ha interrotto il “legame organico” tra queste attività agricole e la commercializzazione dei prodotti agricoli trasformati, causando la caduta dei redditi rurali in aree specializzate nella produzione artigianale. Quando lo Stato stabilì il monopolio sui prodotti agricoli, le imprese di trasformazione rurale furono inevitabilmente tagliate fuori dalle loro forniture. Grano, cotone, seta, arachidi e semi di soia – le forniture di base delle imprese non agricole – sono stati confiscati dallo Stato immediatamente dopo il raccolto. In effetti, durante gli anni ‘50 la campagna divenne deindustrializzata. La creazione delle Comuni e delle Brigate di produzione ha segnato il primo tentativo sistematico dello Stato di promuovere l’industria rurale in quanto tale. Se l’artigianato aveva precedentemente intrecciato le economie familiari dei contadini con i mercati locali e regionali attraverso la trasformazione dei prodotti agricoli, le comuni hanno sostanzialmente trasformato l’industria rurale rendendola asservita ai mutevoli dettami della politica statale, politica che rispondeva a sua volta al mutare delle condizioni internazionali. La carestia ha devastato il paese per tre anni a partire dal 1959; il sequestro statale di il grano e la sua esportazione in URSS continuarono anche dopo che la carestia era diventata evidente. […] Dopo due anni di forti cali della produzione agricola (1959 e 1960), l’agricoltura ha ripreso a crescere dal 1961, quando i prezzi degli acquisti agricoli statali sono stati aumentati di oltre il venti per cento, incentivando gli investimenti del lavoro. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’60 fino alla fine degli anni ‘70, è stato provato un sistema di retribuzione del lavoro dopo l’altro al fine di mantenere intensi gli input di lavoro necessari per aumentare i rendimenti. Con una politica di autosufficienza locale che è rimasta forte negli anni ‘60 e nei primi anni ‘70 a spese della modernizzazione agricola, tuttavia, gli investimenti statali nella costruzione di capitali agricoli sono rimasti sostanzialmente stagnanti, essendo stato il 1964 l’unico anno con un significativo aumento degli investimenti. La mobilitazione del lavoro insieme a nuove varietà di sementi provocò tassi di crescita agricola relativamente elevati tra il 1962 e il 1966, ma questa crescita non fu sostenuta alla fine degli anni ‘60, con il 1968 che in realtà registrava un declino. Né la produttività del lavoro è aumentata significativamente durante questo periodo» [51].

Il divario di produttività fra le diverse forme organizzative esistenti nella campagna cinese emerge molto chiaramente da quanto segue: «Secondo stime ufficiali, nel 1974, il settore collettivo “fornì, sull’88,8% della terra arabile, il 66% della produzione di cereali, patate e ortaggi; le aziende agricole di Stato, sul 4,8% della terra arabile, il 4% della produzione, e i contadini, nei loro orti familiari, corrispondenti al 6,4 della terra arabile, il 30% della produzione” (J. Domes, 1980)» [52]. In fin dei conti, lo statalismo con caratteristiche cinesi dei tempi di Mao, considerato in tutte le sue forme più o meno originali, si è dimostrato non più che una tigre di carta.

Sempre secondo M. Giura Longo, «Un conclusivo argomento a favore degli orti familiari è rappresentato dalla constatazione che, durante l’era maoista, tutte le volte che era possibile, i contadini cercarono di allargare i loro orti, o di aprirne di nuovi. […] In sostanza, l’agricoltura familiare, quella che noi chiamiamo piccola produzione di merci, riuscì non solo a sopravvivere ai molti attacchi del regime maoista, ma persino ad aumentare e a migliorare la propria efficienza economica, dimostrando di essere più potente e persistente dell’ideologia marxista che tentò di abolirla. Paradossalmente, si potrebbe affermare che, nel lungo periodo, non sia stato il comunismo a cambiare i rapporti di produzione nelle campagne cinesi, ma piuttosto furono i contadini a cambiare il comunismo» [53]. Naturalmente il supposto paradosso esiste solo nella testa di chi accredita la natura “comunista” della società cinese complessivamente considerata e «dell’ideologia marxista» di cui parla l’autrice nel suo peraltro interessante saggio. Piuttosto si deve dire che, come accadde in Unione Sovietica, il settore privato, più o meno tollerato e sostenuto dallo Stato, rivaleggiò con successo con il settore statale, il quale si dimostrò largamente inefficiente e poco produttivo, anche perché esso rispondeva soprattutto ad esigenze di natura sociale (stabilizzare il regime, prevenire l’insorgere di gravi tensioni sociali garantendo alla massa dei lavoratori il minimo vitale indispensabile) e geopolitica: è con l’industria pesante che si costruiscono navi militari, carri armati, fucili, aerei e via di seguito.

Bisogna anche dire che il modello agricolo sovietico si dimostrò per lo più inapplicabile alla campagna cinese, e quando venne applicato forzando la realtà, esso creò solo danni al corpo economico e sociale del mondo rurale; danni che richiesero molto tempo per venir in qualche modo riparati.

«L’impiego massiccio di una mano d‘opera non qualificata, della semplice forza-lavoro, è presentato ufficialmente come un nuovo aspetto della formazione dell’”uomo comunista”. I lavori di irrigazione, i cantieri pubblici e il sistema di vie di comunicazione erano sempre stati, in Cina, compiuti nello stesso identico modo sotto le diverse dinastie. La differenza risiede nel fatto che questa immensa forza-lavoro prepara ora la via ad un accrescimento della produttività del lavoro. La proliferazione delle piccole imprese e delle piccole industrie nelle Comuni è più un segno dell’arretramento delle forze produttive che di una qualunque “decentralizzazione”. La mancanza di capitali da investire in grossi complessi industriali fu all’origine di questa “soluzione”, che permise anche di assorbire sul posto il surplus di mano d’opera agricola. […] Nel primo anno del Grande Balzo in Avanti, nel 1958, la produzione agricola raggiunse un buon livello, e si può dire che questa utilizzazione massiccia di forza-lavoro si dimostrò produttiva. Ma presto i problemi cominciarono ad accumularsi più rapidamente dell’accumulazione stessa. I contadini che avevano già perso tutti i loro appezzamenti privati ed erano obbligati a lavorare esclusivamente nei campi come nelle piccole industrie da poco create, cominciarono a eludere il super-sfruttamento. […] Verso l’autunno 1960 la situazione divenne catastrofica sul piano nazionale. Nelle zone rurali i contadini rifiutavano il lavoro intenso, e anche il tentativo di creare una piccola industria decentralizzata svanì: la sua scarsa produttività, la qualità  eccessivamente mediocre dei suoi prodotti (al punto che essi erano praticamente inutilizzabili) divenivano sempre più evidenti» [54] (pp.64-65). La propaganda ideologica del Partito-Regime intesa ad esaltare «la politica al posto del comando», il «lavoro socialista» e i «premi di incoraggiamento ideologico» [sic!] evidentemente non riuscì a far breccia nella massa dei contadini, i quali in tutti i modi possibili iniziarono a  rifiutare il super-sfruttamento. Anche la classe operaia delle città iniziò a dimostrarsi sempre più insofferente nei confronti di una situazione che vedeva il rapido deteriorarsi delle sue condizioni di vita e di lavoro.

5. Nel dicembre del ’58 Mao si vide costretto a fare un passo indietro, e lasciò il suo posto di Capo di Stato a Liu Shao-ci, decisione che sarà ratificata e ufficializzata nel marzo del 1959. Liu Shao-ci era un classico uomo d’apparato tutt’altro che ostile a Mao, cosa che lascia intendere quanto l’intero Partito temesse una troppo brusca uscita di scena di quello che dal 1935 era stato l’indiscusso leader della rivoluzione nazionale, e che ancora godeva di un vasto consenso popolare, sebbene tale consenso stesse entrando in una fase declinante. L’ideologia maoista poteva ancora svolgere una preziosa funzione al servizio del controllo sociale, tanto più nel momento in cui la catastrofica situazione economico-sociale aveva di molto indebolito il regime. Mao poteva e doveva recitare la sua parte di leader carismatico e di padre della patria, ma la sua influenza politico-ideologica non doveva avere alcun peso nelle future scelte di politica economica. In ogni caso le fazioni più ostili a Mao lasciarono al maresciallo Peng Dehuai, una figura per certi versi leggendaria e popolare quasi quanto lo stesso Mao, il rischioso compito di assestare un duro colpo alla fama di infallibilità di quest’ultimo.

Nel luglio del 1959, nel corso di una “sessione plenaria” dell’VIII Comitato Centrale del PCC tenutosi a Lushan, Peng lasciò circolare una lettera indirizzata a Mao dal significato inequivocabile, sebbene redatta secondo tutti i crismi del galateo “comunista”: «Nel 1958, la trasformazione dei centri rurali in Comuni, fu un fatto che ha rivestito un grandioso significato. […] Il Grande balzo in avanti del 1958 ha risolto il problema della disoccupazione. In un paese sovrappopolato come il nostro e con un’economia tanto arretrata, la rapida soluzione di questo problema non è cosa di poco conto e costituisce, anzi, un risultato considerevole. […] Nel movimento di mobilitazione delle masse per la produzione dell’acciaio, la moltiplicazione dei piccoli altiforni improvvisati, ha provocato uno spreco di risorse (materie prime, investimenti e mano d’opera), cosa che costituisce, naturalmente, una perdita non insignificante. […] Quando si tratta di prendere delle decisioni in materia di costruzione economica, nel complesso siamo ancora ben lontani dal possedere quella sicurezza che invece abbiamo in campo politico (si tratti, ad esempio, di bombardare Quemoy o di sedare l’insurrezione tibetana). Per quanto concerne, invece, i fattori obiettivi, il nostro paese è in uno stato di miseria (c’è ancora una parte della popolazione che non si nutre a sufficienza) e di arretramento tali, da determinare nella popolazione una pressante esigenza di rinnovamento . […] Secondo il modo di vedere di certi compagni, basterebbe dare “la priorità al politico”, per disporre della panacea universale. Ma la “priorità al politico” non può sostituire le leggi economiche e soprattutto le misure pratiche di attuazione degli impegni economici; al principio “precedenza al politico”, bisogna abbinare delle misure realmente efficaci di natura economica» [55]. Mao reagì alle critiche dicendo che «se l’esercito popolare di liberazione dovesse schierarsi dalla parte di Peng Dehuai [definito «scaltro», «ambizioso» e «ipocrita»], altro non mi resterebbe che ridarmi alla macchia». Il messaggio non ammetteva interpretazioni dubbiose.

A dimostrazione di quanto fosse ancora lontana la resa dei conti finale con Mao, evidentemente sottovalutato da non pochi notabili del PCC, l’attacco di Peng rimase isolato e lui stesso fu costretto a un’umiliante lettera di “autocritica” indirizzata a Mao, la cui lettura è davvero preziosa per chi intendesse farsi un’attendibile idea del clima ideologico che regnava nel PCC dell’epoca e, più in generale, della concezione “comunista” di quel Partito di stampo stalinista/orwelliano: «Signor Presidente, l’ottava sessione plenaria dell’VIII Comitato Centrale e la riunione allargata della Commissione militare, hanno per esteso esposto e denunciato i miei crimini; e così facendo, hanno eliminato una piaga, fomite di discordie all’interno del Partito. […] La denuncia storica e sistematica delle mie colpe, operata dal Partito, era assolutamente necessaria. Solo in questo modo era possibile farmi prendere realmente coscienza del carattere incredibilmente letale dei miei crimini e neutralizzare la loro esecrabile influenza nel Partito. […] In passato, sotto la diabolica influenza delle mie concezioni borghesi, avevo sempre considerato come altrettanti attacchi personali, le denunce sincere che avete avuto la bontà di formulare contro di me. Ho offeso il Partito, ho offeso il popolo ed ho offeso persino voi stesso. D’ora in poi dovrò applicarmi con gran fervore onde portare a termine l’esame approfondito delle mie colpe, e studiare con zelo la teoria marxista, in modo da emendarmi sotto il profilo ideologico» [56]. La cosa mi appare, al contempo, agghiacciante e farsesca. L’Inquisizione cattolica e il culto della personalità di stampo stalinista impallidiscono dinanzi a questa ideologia portata al parossismo. Ma i vertici di questa “deriva orwelliana” verranno toccati durante la cosiddetta Rivoluzione Culturale Proletaria (giugno 1966), la quale non fu mai né rivoluzionaria, né culturale, né proletaria. Già nel 1962 Mao avviò il suo contrattacco che sarebbe culminato nel 1966, con l’avvio appunto della “Rivoluzione Cultura”, alla fine della quale il Paese si ritrovò nuovamente sull’orlo della catastrofe economica e sociale.

«L’andamento economico complessivo dei primi 30 anni della Repubblica popolare cinese è stato piuttosto deludente, e ciò è vero in particolare per il settore agricolo. Ad eccezione degli anni immediatamente successivi alla liberazione, e del periodo 1952-57, in cui si registrò un certo progresso, i due decenni di vera e propria collettivizzazione (1957-77) non comportarono alcun miglioramento sostanziale. In questo periodo, la produzione agricola pro capite fu quasi stagnante. Il reddito pro capite derivante dalle attività collettive nelle zone rurali passò dai 57 yuan del 1957 a solo 65 nel 1977. Anche la produttività del lavoro aumentò molto poco. La produttività per lavoratore aumentò solo dell’1% durante il periodo 1852-77, ed ebbe un andamento negativo durante gli anni 1957-77 (-0,5% secondo la Banca Mondiale). Inoltre, la superficie coltivata diminuì da 112 milioni di ettari nel 1957 a 100 milioni di ettari nel 1977» [57].

[1] S. Amin, China 2013, Antiper, 16 marzo 2020.
[2] K. Marx, lettera alla redazione di Otiecestvennye Zapiski del novembre 1877, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale,  pp.155-158, Laterza, 1971.
[3] Vera Zasulič aveva scritto a Marx il 16 febbraio 1881: «Quale servizio Lei ci renderebbe, se ci dicesse la Sua opinione sul possibile destino della nostra comune rurale e sulla teoria secondo la quale tutti i paesi del mondo devono attraversare tutte le fasi della produzione capitalistica con necessità storica» (ivi, p. 164).
[4] Lettera di K. Marx a V. Zasulič dell’8 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale,  p. 165.
[5] K. Marx, F. Engels, Prefazione alla nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 663, Editori Riuniti, 1973.
[6] C. Musto, L’ultimo Marx, 1881-1883, p. 68, Donzelli, 2016.
[7] M. Sawer, Marxism and the Question of the Asiatic of Production, ivi.
[8] Mao Tse-tung, La nuova democrazia, 1940, in Scritti scelti, III, p. 177, Editori Riuniti, 1955.
[9] Scriveva Zinoviev nel 1927, proprio a proposito della rivoluzione cinese e in aspra polemica con la linea politica sostenuta da Stalin e Bucharin sulla “questione cinese”: «Tutti i movimenti nazional-rivoluzionari sono movimenti borghesi, come tutte le rivoluzioni contadine sono rivoluzioni borghesi, ma non viceversa» (G. Zinoviev, Tesi sulla rivoluzione cinese, in AA. VV. Cina 1927, p. 75, Iskra, 1977).
[10] «Quando l’uomo si parte di qui e va verso iscirocco quindici miglia, l’uomo truova una città ch’ha nome Sigui (Singiu): ma non è troppo grande, ma è di grande mercatanzia e di grande navilio. E sono del Gran Cane. La moneta hanno di carta. E sappiate ch’ell’è sul maggiore fiume del mondo, ch’è chiamato Quian (Chian). […] Questo fiume e questa città hanno molte navi, che sono del Gran Cane; è di grande rendita per la mercatanzia che v’ha molta, che va su e giù e quivi si riposa. E per molte città, che sono lungo quel fiume, vi va più mercatanzia che per tutti gli altri fiumi de’ cristiani, e più cara mercatanzia; e fu nel loro mare, ch’io vidi una volta quindicimila navi che trasportavano mercatanzia» (M. Polo, Il Milione, p. 191, Astra Editrice, 1956).
[11] Il trattato di Nanchino (1842), spezzava il monopolio commerciale di Canton e apriva al commercio ben cinque porti: Shamian, Xiamen, Fuzhou, Ningbo e Shanghai con il libero accesso ai prodotti delle province meridionali con basse tariffe doganali. Il commercio dell’oppio vene liberalizzato e, cosa fondamentale, venne regolarizzata anche la situazione diplomatica, in quanto fu stabilito che gli inglesi potessero risiedere nelle aree dei porti aperti e prendervi in affitto le terre e costruirvi. Fu imposto, inoltre, un pagamento di ben 21 milioni di dollari e per i danni di guerra e per risarcire i commercianti che avevano subito le confische di Lin Zexu. Infine fu ceduta in perpetuo agli inglesi l’isola di Hong Kong. In virtù della clausola della “nazione più favorita” veniva estesa alla Gran Bretagna qualunque privilegio concesso ad altra potenza. Si capisce perché le guerre dell’oppio esacerbarono fino al parossismo (e alla xenofobia) l’umiliato nazionalismo cinese .
[12] M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme: la piccola produzione di merci in Cina, 1842-1996, p. 39, FrancoAngeli, 1998 ).
[13] «Per oltre due secoli e mezzo, prima della Restaurazione del 1868, il Giappone visse sotto un regime chiamato comunemente lo shogunato dei Tokugawa. Il regime si costituì formalmente nel 1603, dopo la battaglia di Sekigahara (1600), nella quale la famiglia dei Tokugawa guidò alla vittoria una coalizione di signori feudali. […] In breve, nel periodo dei Tokugawa la conservazione del modo di produzione feudale si combinò con il rapido sviluppo del controllo borghese sull’accumulazione del capitale» (J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo, dal 1850 a oggi, pp. 4-12, Einaudi, 1979 ).
[14] E. Collotti Pischel, Introduzione a, M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 13.
[15] Già Engels parlava dello «Stato capitalista [come] l’ideale capitalista complessivo» (o collettivo): «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiarò senz’altro socialista. […] Lo Stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato capitalista, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Avanti Edizioni, 1925).
[16] «La proprietà fondiaria diventa, al pari del capitale, un assegno su lavoro non pagato, su lavoro gratuito, […] che mette in grado il suo proprietario di strappare al capitalista una parte del lavoro non pagato. Ciò spiega la moderna rendita» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 190, Einaudi, 1955). «Il prezzo della terra non è altro che la rendita capitalizzata e quindi anticipata» (K. Marx, Il Capitale, III, p. 920, Editori Riuniti, 1980).
[17] «È sempre nel rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti che noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento» (Ivi, p. 903).
[18] K. Marx, Il Capitale, III, pp. 713-714, Editori Riuniti, 1980.
[19] K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 192.
[20] La volgare convinzione che il socialismo equivalga sostanzialmente alla proprietà statale dei mezzi di produzione e al controllo statale di ogni tipo di attività economica (e non solo economica), all’interno del movimento operaio si è fatta strada assai precocemente, e ciò è testimoniato dal fatto che Marx ed Engels si videro costretti a prendere apertamente le distanze dal cosiddetto «socialismo di Stato» (di lassalliana memoria), criticandolo aspramente in quanto espressione di una concezione borghese (e/o piccolo borghese) che niente a che fare aveva con l’emancipazione del proletariato. «Definire “socialismo” le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza – ovvero dazi protettivi, corporazioni, monopolio del tabacco, statalizzazioni di rami dell’industria, commercio marittimo, regia manifattura di porcellane – è una mera falsificazione voluta dalla borghesia di Manchester. Noi non dobbiamo credere a tutto ciò, ma criticarlo. Se ci crediamo e intorno a essa costruiamo una teoria, quest’ultima crollerà insieme alle sue premesse […] quando si dimostrerà che questo presunto socialismo non è altro che, da un lato, una reazione feudale e, dall’altro, un pretesto per estorcere denaro, con il secondo fine di trasformare il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dallo Stato, così da organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di militari, un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio imposto dai superiori statali invece che dai sorveglianti di fabbrica… che bel socialismo!» (Lettera di F. Engels a E. Bernstein, 12 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere 1880-1883, p. 60, Lotta Comunista, 2008).  «Secondo Marx, ad accomunare tutte queste figure di pseudo-socialisti vi era l’intento di “lasciare il lavoro salariato, e quindi anche la produzione capitalistica, volendo far credere a se stessi e al mondo che, con la trasformazione della rendita fondiaria in imposta pagata allo Stato, scompariranno automaticamente tutte le ingiustizie della produzione capitalistica”» (lettera di Marx a F. A. Sorge del 20 giugno 1881, in M. Musto, L’ultimo Marx, pp. 38-39).
[21] Ivi, p. 303.
[22] Per Marx «La terra si trova ad essere, senza contributo dell’uomo, l’oggetto generale del lavoro umano. […] La terra stessa è un mezzo di lavoro, eppure presuppone a sua volta, prima di poter servire come mezzo di lavoro nell’agricoltura, tutta una serie di altri mezzi di lavoro e uno sviluppo della forza lavorativa relativamente già elevato». Per Marx la terra è, di volta in volta, oggetto di lavoro, mezzo di lavoro, materia prima (carbone, petrolio, gas, ecc.), e così via.
[23] Su questa importante questione si può consultare il breve ma assai interessante saggio di Ludovico Silva Lo stile letterario di Marx (Bompiani, 1973).
[24] Introduzione a Opere di Mao Tse-tung, Vol. XIII, PDF, p. 2.
[25] La trasformazione capitalista della Cina rurale: prove del “cambiamento agricolo nella Cina contemporanea”, Chuang, 18 agosto 2015. Mi scuso per la traduzione “non impeccabile” dall’inglese. «Ai comunisti di oggi, tra i quali siamo inclusi, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come altri all’interno di questa corrente comunista storica) sembrano nella migliore delle ipotesi aliene e, nella peggiore delle ipotesi, disgustose. Nonostante i duri limiti materiali del tempo, possiamo dire chiaramente che molte azioni del PCC sono semplicemente ingiustificabili. Altre sono arcane o incomprensibilmente troppo fiduciose. Ma questo tipo di giudizi di valore ha poca funzionalità analitica. Numerosi resoconti sono già stati scritti su quella realtà descrivendola in termini di “falsi” comunisti che tradiscono quelli “veri”, o semplicemente come il prodotto di leader zelanti e avidi. La storia che esaminiamo non è una storia morale. Per il nostro approccio materialista, le domande di tradimento o rettitudine hanno solo il minimo di rilevanza. Il progetto comunista cinese era un fenomeno collettivo, creato dallo sforzo e dal sostegno di milioni di persone. Tentiamo di scrivere una storia di questo progetto collettivo e della sua fine definitiva» (Chuang). Anch’io non ne faccio una questione di rettitudine morale o di coerenza ideologica, ma di dinamica sociale, di interessi materiali, di lotta di classe; solo che per il mio “approccio materialista”  il PCC, da Mao in poi, non ha avuto nulla a che fare con il comunismo. Salvo che per «corrente comunista storica» non si intenda lo stalinismo internazionale, del quale infatti il “comunismo” maoista fu la traduzione cinese.
[26] Per Marx si può parlare di capitalismo nell’accezione moderna del concetto solo con l’uso metodico e sempre più diffuso della scienza e della tecnologia – una distinzione peraltro molto relativa e anzi sempre più evanescente – nel processo allargato della produzione. È questa rivoluzione tecnoscientifica che, sempre secondo Marx, segna il passaggio dalla «sottomissione formale del lavoro al capitale» (caratterizzata dall’estorsione di plusvalore assoluto) a quella «reale» (caratterizzata dall’estorsione di plusvalore relativo): «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976).
[27] Chuang, http://chuangcn.org/2015/08/jac-review
[28] Mao Tse-tung, Discorso alla conferenza suprema dì Stato, 25 gennaio 1956, da Il libro delle guardie rosse, p. 5, PDF.
[29] K. Marx, Il Capitale, III, pp. 303-313, Editori Riuniti, 1980.
[30] La privatizzazione delle terre in Cina, China Left Review, 2008.
[31] M. G. Longo, Contadini, mercati e riforme: la piccola produzione di merci in Cina, p. 120.
[32] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, 14 luglio 1920, Opere, XXXI, p. 164, Editori Riuniti, 1967. Come fece notare con ironia Zinoviev nel 1927, l’Internazionale Comunista tendeva a presentare al movimento operaio internazionale il Kuomintang come la Comune cinese, degna erede della Comune di Parigi. «L’organo dei comunisti tedeschi, la “Rote Fahne”, il 17 marzo 1927 ha pubblicato una foto di Chiang Kai-shek presentandolo come il capo degli operai rivoluzionari in Cina, senza spiegare agli operai tedeschi chi sia veramente Chiang Kai-shek» (G. Zinoviev, Tesi sulla rivoluzione cinese, p. 112).
[33] «In Unione Sovietica coloro che un tempo avevano portato alle stelle Stalin, ora di colpo lo hanno cacciato nell’inferno. Da noi c’è gente che segue le loro orme. Il Comitato centrale del nostro partito sostiene che gli errori di Stalin ammontino solo al 30 per cento del totale e i suoi meriti al 70 per cento e che tutto sommato Stalin resta un grande marxista» (Mao Tse-tung, Sui dieci grandi rapporti, 25 aprile 1956, Opere, XIII, p. 154). Chi sono io per mettere in discussione le percentuali date a suo tempo dal Comitato centrale del PCC?
[34] Se uno legge senza alcun pregiudizio politico-ideologico gli scritti di Mao, si rende conto che la sua “dialettica” non supera il livello della logica più elementare, del tipo: dal male può nascere il bene, la sconfitta di oggi può porre le basi per una vittoria futura, «ciò che è grande è destinato a essere rovesciato da ciò che è piccolo, ciò che è piccolo diventerà grande», e altre simili perle “dialettiche”; ed è davvero incredibile come non pochi intellettuali occidentali avvezzi alla profondità del pensiero dialettico di un Hegel, tanto per fare un esempio, per tacere di quello materialistico-dialettico di un Marx, si siano invaghiti degli scritti del Grande Timoniere.
[35] Sun Yat-sen, Testamento, marzo 1925, in E. Collotti Pischel, Le origini ideologiche della rivoluzione cinese,  p. 117, Einaudi, 1979.
[36] Mao Tse-tung, In memoria del Dottor Sun Yat-sen, 12 novembre 1956, Opere, Vol. XIII, p. 214.
[37] Il partito rivoluzionario nazionale-borghese fondato da Sun Yat-sen (1866-1925). Il Kuomintang nasce formalmente nel 1912 ma diventa attivo come effettivo Partito/Fronte rivoluzionario a partire dal suo Primo Congresso nazionale del 1923. Nel 1923, su consiglio di Sun Yat-sen, Chiang Kai-shek arrivò a Mosca, per studiare l’arte militare occidentale e le istituzioni politiche del Paese. Al suo ritorno dall’URSS, Sun e Chiang riorganizzarono il Kuomintang. Nel 1925, alla morte di Sun, Chiang fu il leader del Kuomintang e capo dell’esercito.
[38] Per Trotsky, Zinoviev, Vujovič e per gli altri oppositori della linea stalinista si trattava in primo luogo di salvaguardare appunto l’autonomia politica, organizzativa e psicologica del proletariato cinese, ma anche di radicalizzare la rivoluzione nazionale-borghese in alleanza con i contadini poveri per strappare quanti più diritti e quanta più agibilità politica fosse possibile, in modo da arrivare alla Repubblica borghese in una posizione di autonomia e di forza. Questa politica avrebbe saggiato la vocazione autenticamente di classe del partito comunista, il quale quando agisce in un Paese capitalisticamente arretrato deve assumere la strategia della “doppia rivoluzione” come una seconda pelle, una seconda natura, come un “istinto naturale”, e ciò a prescindere dalla sua reale praticabilità nella contingenza. D’altra parte, quel soggetto non deve escludere in linea di principio che si possano creare situazioni idonee al perseguimento di quella strategia, e deve agire di conseguenza, senza naturalmente scivolare nel volontarismo e nelle forzature irrealistiche di stampo ideologico, e sempre con gli occhi spalancati sul movimento operaio internazionale di cui è parte.
[39] La tregua conclusa fra le due parti nel gennaio del 1946 già nell’aprile dello stesso anno venne rotta, e nel 1948 l’esercito contadino rivoluzionario guidato da Mao conquistò la Manciuria e tutta la Cina settentrionale. Il 15 gennaio 1949 le forze rivoluzionarie occuparono Pechino, il 20 aprile attraversarono lo Yang Tse e occuparono Nanchino, shanghai e, il 12 ottobre, Canton.
[40] C. Reeve, La Tigre di carta, p. 51, La Fiaccola, 1974.
[41] C. Reeve, La Tigre di carta, pp. 52-53.
[42] «La teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin ha un valore universale. Non va considerata come un dogma, ma come una guida per l’azione. Non bisogna accontentarsi di imparare la terminologia e la fraseologia marxista-leninista, ma studiare il marxismo-leninismo in quanto scienza della rivoluzione» (Mao Tse-tung, Il ruolo del Partito Comunista cinese nella guerra nazionale ottobre 1938,  da Il libro delle guardie rosse, p. 55). Della rivoluzione nazionale-borghese, mi permetto di aggiungere; una pratica rivoluzionaria propagandata con una terminologia e fraseologia prese in prestito dallo stalinismo – o “marxismo-leninismo” che dir si voglia. Com’è noto, alla quaterna «Marx, Engels, Lenin e Stalin» si aggiunse proprio il nome del Caro Leader cinese, del Grande e Celeste Timoniere. Ancora Mao: «Vorrei dire qualcosa sul ventesimo Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Secondo me ci sono due spade: una è Lenin, l’altra è Stalin. Adesso i russi hanno gettato via quella spada che è Stalin. I partiti comunisti di diversi paesi europei criticano anche loro l’Unione Sovietica e il cosiddetto stalinismo. Il loro leader è Togliatti. […] Noi non abbiamo fatto come certuni che hanno cercato di screditare e distruggere Stalin, abbiamo agito in base alla situazione reale» (Discorso alla Seconda sessione plenaria del CC del PCC, 15 novembre 1956, Opere di Mao Tse-tung, Vol. XIII, p. 217).  Mao ebbe indubbiamente ragione a prendersela con Togliatti, un tempo giustamente definito il Migliore degli stalinisti, il quale da perfetto opportunista con caratteristiche italiane passò subito sul carro del nuovo padrone dell’Unione Sovietica. Tuttavia anche lui agì «in base alla situazione reale».
[43] «Dobbiamo impedire ad un revisionismo alla Kruscev di manifestarsi in Cina. […] Insomma, la questione è d’importanza estrema, è una questione di vita o di morte per il nostro Partito e per il nostro Stato. E interessa la causa rivoluzionaria del proletariato per un periodo di cento, mille o diecimila anni [nientedimeno!]. I cambiamenti avvenuti nell’Unione Sovietica hanno indotto i profeti imperialisti a riporre le loro speranze di “evoluzione pacifica” nella terza o quarta generazione del Partito cinese. Dobbiamo far risultare menzognera questa profezia imperialista. Le nostre organizzazioni, ovunque, dai gradi superiori a quelli inferiori, debbono dedicare un’ininterrotta attenzione all’educazione e alla formazione dei continuatori della causa rivoluzionaria. Quali sono le condizioni richieste per essere degni continuatori della causa rivoluzionaria del proletariato? Debbono essere autentici marxisti-leninisti e non, come Kruscev, revisionisti che si fanno belli con le penne del marxismo-leninismo. Debbono essere rivoluzionari che si dedicano corpo ed anima al servizio della schiacciante maggioranza della popolazione della Cina e del mondo, e non agire come Kruscev che serve gli interessi di un pugno di persone, il ceto borghese privilegiato del suo paese, oltreché gli interessi degli imperialisti e dei reazionari del mondo intero» (Mao Tse-tung, Lo pseudo-comunismo di Kruscev e le lezioni storiche che esso impartisce al mondo (14 luglio1964), Il Libro delle guardie rosse, p. 51). Tutta fuffa ideologica, peraltro molto apprezzata dagli intellettuali occidentali delusi da Mosca, intesa a sostenere la battaglia maoista contro gli interessi russi e contro la forte fazione filosovietica interna al PCC.
[44] «Per quanto riguarda il problema dell’agricoltura, l’esperienza di alcuni paesi socialisti dimostra che, dopo la collettivizzazione dell’agricoltura, se non si procede in modo giusto non si riesce lo stesso ad aumentare la produzione; lo stesso succede dopo la meccanizzazione. Il motivo fondamentale per cui alcuni paesi non riescono ad aumentare la produzione agricola sta nei difetti della politica adottata dallo Stato verso i contadini: la politica fiscale assegna oneri troppo pesanti ai contadini; per quanto riguarda i prezzi, i prodotti agricoli sono troppo a buon mercato e quelli industriali troppo cari. Per sviluppare l’industria, e specialmente l’industria pesante, dobbiamo attribuire un posto adeguato all’agricoltura e adottare una giusta politica per l’imposta agraria e per i prezzi dei prodotti industriali» (Mao Tse-tung, Sui dieci grandi rapporti, 25 aprile 1956, Opere, XIII, p. 157).
[45] «Un secondo aspetto che caratterizzò l’indirizzo del “Grande balzo”, è costituito dal suo rifiuto del mondo esterno, della modernità; la sua aspirazione a reintrodurre i costumi della vecchia provincia cinese autarchica, quella terra antica di cui lo stesso Mao era un puro prodotto. […] È in questo universo, antico e chiuso, che Mao si sente completamente a suo agio; è lì che si è svolta tutta la parte più brillante della sua carriera; lì non conosce rivali, l’intuizione soggettiva del suo genio coincidendo naturalmente con l’oggettività del reale. Ma questo stesso radicamento psicologico nel provincialismo della vecchia Cina, se aveva costituito il suo punto di forza prima del 1949, doveva rivelarsi il suo handicap dopo quella data. Tutto ciò è stato messo in luce dalla crisi dei “Cento fiori” [1956]» (S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, p. 22, Ed. Antistato, 1977).
[46] E. Collotti Pischel, Introduzione a M. G. Longo, Contadini, mercati e riforme: la piccola produzione di merci in Cina (1842-1996), p. 20.
[47] F. Lemoine, L’economia cinese”, Il Mulino, 2005.
[48] «Una delle parole d’ordine durante il Grande Balzo in Avanti fu quello di dare priorità alla quantità a scapito della qualità» (M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 112).
[49] Ivi, pp. 126-130.
[50] Ivi, pp. 113-119.
[51] Red Dust, Chuang.
[52] M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 40.
[53] Ivi, pp. 135-136.
[54] C. Reeve, La Tigre di carta, pp. 64-65.
[55] Lettera aperta di Peng Dehuai a Mao Tse-tung, in S. Leys, Gli abiti nuovi del Presidente Mao, pp. 289-292.
[56] Ivi, p. 294.
[57] M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 126.

 

SOCIAL CONTAGION

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro-insurrezione (Chuang).

 

Con “colpevole” ritardo ho letto e oggi pubblico uno scritto (Social Contagion) apparso il 27 febbraio sulla rivista Chuang, una rivista indirizzata a coloro che «vogliono superare i vincoli dell’attuale mattatoio chiamato capitalismo». Trovo molto interessante questo testo, nonostante io sia per diversi e rilevanti aspetti distante dalla concezione “dottrinaria” che lo ispira, e che informa, se ho ben compreso, l’indirizzo politico di fondo della rivista di cui sopra (*). Un solo esempio: «I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato». Come sa chi conosce questo Blog, io nego la natura socialista della Cina, da Mao a Xi. Ciò che Chuang chiama socialismo, io lo chiamo capitalismo di Stato “con caratteristiche cinesi”. Ma ci sarà modo di riprendere la questione. Intanto auguro una buona lettura ai lettori e mi scuso per l’imperfetta traduzione del testo.

 

Le fornaci

Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Sembra che le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.

A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in particolare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering e il disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina, e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.

Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nonostante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist». Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insabbiamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime.

Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisamente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza? Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali riflessioni sullo stato attuale della società cinese.

Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mostrando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana. Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.

L’origine delle pestilenze

Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.

L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroalimentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola (1). Queste epidemie possono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la seconda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo. I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamentate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socioecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali (2).

Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre. Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.

Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» (3). Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi: «Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza (4).

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’aumento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.

Storia ed eziologia

Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili precapitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi, vediamo i primi casi di queste piaghe squisitamente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa.

Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus. Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applicazione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un precipizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.

Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna.

Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetsè che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa (5). E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratteristiche.

Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro delle prime iniziative riformiste liberal-progressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per denunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccupandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi. Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevoli per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo.

Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [6]. In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali.

Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra furono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applicazione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione della produzione agricola, sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia: vedi Furore, 1939, di John Steinbeck], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma.

Se, le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.

Gilded Age

Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra tutta la popolazione cinese. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali, destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al consumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age.

Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melanina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH [virus del papilloma umano]. Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.

Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista5, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.

Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie] risultano residenti permanenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.

Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statunitensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.

Non c’è più la natura selvaggia

Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?

La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epidemia. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici.

In altri casi, le catene di valore agro-ecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano. Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accumulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli ambienti, che «possono aumentare le connessioni tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus maggiori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».

Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi precapitalistici e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causalità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambientale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia, in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo, al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contemporanei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso possiamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore.

L’isolamento come esercizio dell’arte di governo

A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesantemente su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.

Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi generalizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti ). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del governo cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare.

La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini. In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di persone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la quarantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.

Incapacità

Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus12, scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.

Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.

A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni economiche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impossibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile, questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1° marzo è stata stabilita come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.

Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabilmente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.

Una guerra surreale

Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la profonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costruzione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre province – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.

In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.

 

(*) Si tratta di un blog di ricercatori cinesi all’estero. «Chuang è un collettivo di comunisti che considera la “questione della Cina” di importanza centrale per le contraddizioni del sistema economico mondiale e le potenzialità per il suo superamento. Il nostro obiettivo è formulare un corpus di teoria chiara in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. […] Speriamo di vedere la Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è iniziare con un’indagine sulla creazione della “Cina” in quanto tale. Qui, la nostra storia non inizia con una storia presumibilmente antica, né inizia con il romanticismo del progetto rivoluzionario cinese, alternativamente glorificato e demonizzato da quelli di sinistra». Chi scrive, che di “sinistra” non è mai stato, non ha né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”. Se ho ben compreso, secondo Chuang si può parlare di un «progetto comunista» praticato in Cina «durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50: «Durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50, ci riferiamo a questo processo come a un “progetto comunista”. Questo progetto è stato incredibilmente vario durante la sua esistenza ed è stato sempre definito dal suo status di movimento di massa con profonde radici nella popolazione. All’inizio, il suo fondamento teorico e la direzione strategica erano prevalentemente quelli dei comunisti anarchici. Nel tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbe guadagnato l’egemonia, ma ciò significava anche che il PCC stesso assorbiva parte dell’eterogeneità del movimento, che avrebbe assunto la forma di fazioni (e purghe) all’interno del Partito stesso. Questa egemonia non è stata imposta al progetto, tuttavia. Era il risultato di un mandato popolare conferito al PCC, che era stato parte integrante della formazione di un esercito contadino di successo e di un movimento di lavoratori sotterranei durante l’occupazione giapponese. Il PCC mantenne la sua egemonia del progetto comunista nei primi anni del dopoguerra dirigendo campagne di ridistribuzione popolare nelle campagne e ricostruendo le città. Con i fallimenti della fine degli anni ‘50 (carestia nel paese e scioperi nelle città costiere), non solo fu messo in discussione il mandato popolare del PCC, ma il progetto comunista stesso iniziò a ossificarsi. Quando la partecipazione popolare è evaporata in risposta a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si è ridotto ai suoi mezzi: il regime di sviluppo. Questo regime stesso poteva essere mantenuto solo dal sempre più ampio intervento del Partito, che li fondeva entrambi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico di fatto) e ne spezzava il legame con il progetto comunista». Qui mi limito a rinviare i lettori ai miei scritti sulla Cina: TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO); SULLA CAMPAGNA CINESE; ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE; DA MAO ZEDONG A XI JINPING. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi

(1) Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Robert G. Wallace. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
(2) R. G. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, New York, 2016. P. 52.
(3) Ibid, p. 56.
(4) Ibid, pp. 56-57.
(5) Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
(6) Vedi: JF. Brundage, GD Shanks, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections L’importanza delle infezioni batteriche secondary, The Journal of Infectious Diseases, Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719.

LA TRAGEDIA DEL POPOLO CURDO. E LA NOSTRA

Qualche giorno fa Adriano Sofri ricordava sul Foglio un vecchio proverbio curdo: «Solo le montagne sono amiche dei curdi». A giudicare dalla storia, passata e recente, del popolo curdo (un popolo disperso, com’è noto, in ben quattro nazioni: Turchia, Siria, Iraq e Iran) (*) quel proverbio si limita a registrare un’amara verità.

Mi permetto di sintetizzare la secolare tragedia del popolo curdo nei termini brutali che seguono: per sopravvivere esso è stato costretto a stringere alleanze con Potenze mondiali e regionali, secondo l’antica massima che sentenzia: «Il nemico del mio nemico è mio amico»; salvo poi subire dolorosi “tradimenti” da parte delle nazioni che lo hanno prima usato, anche come esercito nelle cosiddette guerre per procura, e poi abbandonato al suo destino di popolo indesiderato e pericoloso – anche per le idee democratiche e progressiste che animano la sua lotta per l’autodeterminazione nazionale (**). Minacciati dal macellaio di Ankara, alleato degli imperialisti americani ed europei, oggi i curdi sono costretti ad allearsi con il nemico di ieri, cioè con il macellaio di Damasco sostenuto dall’imperialismo russo e dagli iraniani. Il fatto che nei giorni scorsi i leader curdi abbiano implorato gli americani di non ritirarsi dal confine turco-siriano e poi, a “tradimento” statunitense consumato, gli europei a sostituirli prontamente nell’opera di “pacificazione”, la dice lunga sul carattere tragico della vicenda curda. Tra l’altro ciò testimonia come sia risibile parlare di “sovranità nazionale” nel XXI secolo, e non alludo solo alla sovranità nazionale ancora oggi negata ai curdi.

«Donald Trump ha di fatto abbandonato al proprio destino le milizie curde che sono state il principale alleato degli Usa nella lotta contro i terroristi dell’ Isis. Così facendo ha posto Putin nelle vesti di arbitro tra il regime siriano e i curdi, costretti a bussare alla porta di Damasco per non essere schiacciati dalla macchina bellica turca. L’accordo favorisce prima di tutto Putin. Senza il sostegno del Cremlino Assad probabilmente non sarebbe neanche più al potere e le aree controllate da Damasco di fatto lo sono anche da Mosca. Assieme ai soldati siriani potrebbero infatti entrare a Kobane anche quelli russi. D’altronde Putin è però in ottimi rapporti pure con il leader turco Erdogan e l’asse Mosca-Ankara non può che uscire ulteriormente rafforzato da questa complessa situazione. Turchia e Russia stanno dalla parte opposta del fronte, ma assieme all’Iran (altro alleato di ferro di Damasco) formano il trio di Astana e da tempo trattano amichevolmente per spartirsi le zone di influenza in Siria. Non è un caso che Erdogan abbia telefonato a Putin poco prima di aprire il fuoco» (G. Agliastro, La Stampa). Ovviamente a pagare a carissimo prezzo questa complessa partita a scacchi geopolitica è la popolazione civile, massacrata e cacciata di casa, colpita in tutti i modi nel contesto di una condizione già molto difficile e precaria. Un abisso politico e umano mi separa da chi oggi versa lacrime sulla “ritirata”, sull’”impotenza”, sulla “vigliaccheria” e sul “tradimento” dell’Occidente mentre assiste al – momentaneo – successo delle Potenze considerate “politicamente scorrette” nei salotti buoni della politica e della cultura occidentali. Per quanto mi riguarda, divido il mondo solo in dominanti e dominati, sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi; tutto il resto è squallida propaganda al servizio dello status quo sociale (da non confondersi con quello geopolitico) nazionale e mondiale. Ciò che mi preoccupa è piuttosto la perdurante impotenza delle classi subalterne, incapaci di un pensiero indipendente e di una iniziativa autonoma, e ciò è anche dimostrato dal consenso che l’operazione Fonte di Pace (notare il cinismo orwelliano) sta ottenendo in Turchia, a dimostrazione che il veleno nazionalista non smette di svolgere la sua odiosa funzione. Il macellaio Recep Tayyp Erdogan, fino a qualche settimana fa in declino nei sondaggi, oggi sembra essere in netta ripresa, tanto più che l’opposizione parlamentare (non legata ai curdi) ha di fatto accettato l’intervento militare in Siria.

Il “tradimento” da parte di qualche Potenza internazionale o regionale è dunque un concetto che i curdi conoscono benissimo e da molto tempo. È sufficiente leggere un solo articolo pubblicato in questi giorni sull’invasione turca della Siria per rendersi conto dei tanti “tradimenti” che il popolo curdo ha dovuto subire nell’ultimo secolo, a partire dal Trattato di Sèvres del 1920 che ridefiniva i confini della Turchia dopo lo sfaldamento dell’impero ottomano. Allora i curdi non solo non ottennero l’agognato Stato nazionale promesso loro da Francia, Regno Unito e Stati Uniti, i padroni del mondo uscito dalla Prima carneficina mondiale; ma dal 1923 (Trattato di Losanna) essi dovettero subire i rigori  nazionalistici dei quattro Paesi (Turchia, Iran, Iraq e Siria) individuati dalla “comunità internazionale” come legittimi padroni dell’area rivendicata dai curdi. In un secolo quell’area ha conosciuto una “sofisticata” opera di ingegneria etnica che si è sostanziata  in deportazioni e pulizie etniche realizzate sulla pelle dei curdi e di altri popoli privati di patria e di diritti.

Scrive Elena Zacchetti (Il Post): «La situazione in Siria si complicò alla fine del 2014. Il governo statunitense, allora guidato da Barack Obama, non voleva impegnarsi con le proprie truppe di terra e aveva bisogno di alleati che combattessero al posto suo. I curdi siriani si erano dimostrati molto abili in battaglia ed erano interessati a recuperare i territori del nord della Siria abitati in prevalenza da curdi, e in quel momento sotto il controllo dell’ISIS. Speravano inoltre che avere l’appoggio di un paese così potente e importante li potesse aiutare nella loro causa per la creazione di uno stato curdo, o per lo meno di un territorio in Siria con grande autonomia dal governo centrale. […] Soltanto ad agosto [2019] Stati Uniti e Turchia avevano firmato un accordo per “stabilizzare” il confine meridionale turco, che prevedeva la creazione di una “safe zone”, una “zona cuscinetto”, che avrebbe dovuto dividere le forze turche da quelle curde. Tra le altre cose, l’accordo prevedeva che i curdi siriani si ritirassero dagli avamposti di confine, di fatto rinunciando a un’importante linea di difesa in caso di attacco turco. In cambio, il governo statunitense avrebbe garantito ai curdi protezione e sicurezza. Alla fine di agosto i curdi avevano iniziato a ritirarsi. Il problema è che, dopo avere garantito sicurezza e protezione ai curdi siriani, e dopo che i curdi siriani di conseguenza si sono ritirati, gli Stati Uniti hanno fatto marcia indietro». Mai fidarsi degli imperialisti! «Gli americani ci avevano garantito la loro protezione, e invece ci hanno abbandonati con la loro ingiusta decisione di ritirare le loro truppe alla frontiera turca»: mai fidarsi delle garanzie offerte dagli imperialisti (americani, europei, russi o cinesi che siano)!

Lo so, la mia è una facile battuta che non tiene conto dei reali rapporti di forza che insistono sul terreno; ma essa intende solo illuminare il quadro della situazione, nel cui seno i curdi possono ritagliarsi un margine di manovra assai ristretto, e sempre contando sul sostegno di qualche Potenza “amica”. Non dimentichiamo che nel 1991, alla fine della Prima Guerra del Golfo, gli Stati Uniti di George Bush lasciarono nelle mani di Saddam Hussein non meno di due milioni di curdi che li avevano sostenuti nella guerra sperando in un’autodeterminazione che arriverà solo nel 2003, con la formazione del Kurdistan iracheno. Si trattò di una vera ecatombe, con migliaia di persone, in maggioranza vecchi e bambini, uccisi ogni giorno dall’esercito iracheno. Nel 1988 questo esercito massacrò non meno di 100mila curdi con un attacco chimico a Halabja; allora gli europei fecero finta di niente, perché l’Iraq era impegnato in una sanguinosissima guerra contro l’Iran komeinista.

Ma ritorniamo alla guerra di questi giorni. Come accade sempre in questi casi la cosiddetta opinione pubblica internazionale lamenta l’impotenza dell’Onu. Ma l’Onu non è affatto impotente: essa è esattamente quello che deve essere, e cioè uno strumento politico-ideologico al servizio degli interessi di grandi, medie e piccole potenze, le quali se ne servono quando occorre per meglio perseguire i loro obiettivi nel quadro della contesa sistemica (economica, scientifica, militare, ideologica) planetaria. Nell’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo non voglia! Naturalmente sono le Potenze maggiori a determinare l’azione (o inazione) di quella escrementizia entità politico-diplomatica, la quale è a tutti gli effetti «un covo di briganti» (Lenin). Secondo Macron l’offensiva di Ankara in Siria può scatenare «conseguenze umanitarie drammatiche». Invece quella scatenata dalla Francia (e dall’Inghilterra) in Libia nel febbraio 2011 ha portato pace, serenità e prosperità per tutti…

Scriveva Alberto Negri sul Manifesto di qualche giorno fa: «Il cartello del Rojava, “fabbrica democratica” al confine turco-siriano, adesso dice: “Chiuso per tradimento americano”». Mi chiedo fino a che punto si possa legittimamente parlare di “tradimento” nell’ambito del “grande gioco geopolitico”, ossia in riferimento alla contesa interimperialistica. Forse non bisognerebbe usare certe categorie morali in contesti dominati dal principio degli interessi e della potenza.

La tragedia dei curdi siriani nelle parole di Lorenzo Cremonesi (Il Corriere della Sera), inviato a Derek: «Stanno qualche ora in fila, attendono pazienti. Salvo poi venire ricacciati indietro con i bambini, le valigie troppo grandi, le mogli troppo coperte che sudano copiosamente sotto il sole ancora caldo di metà ottobre, l’aria secca, le sporte di vestiti pesanti. “Partono adesso quelli di noi che in passato hanno combattuto contro il regime di Bashar Assad, oppure i giovani renitenti alla leva. Non vogliono essere costretti nelle unità di punizione dell’esercito nazionale siriano, mandate subito a combattere e morire in prima linea contro i turchi”, confida un quarantenne dall’aria distinta. Lascia capire di essere un alto esponente dell’intelligence di Rojava. […]  In realtà, sul campo si notano cambiamenti importanti. L’altra sera a Qamishli erano sparite le consuete pattuglie curde che si muovono nei quartieri controllati dai fedeli al regime di Bashar. Damasco ha sempre negato qualsiasi forma di autonomia curda e nulla lascia credere abbia cambiato politica. Tutt’altro. Per la prima volta dal ritiro dopo lo scoppio delle rivolte nel 2011, i suoi soldati tornano a marciare per le strade del Nordest siriano. Nulla lascia credere che smetteranno di farlo. Uno degli articoli in discussione nell’accordo contempla che le unità curde vengano assorbite in quelle dell’esercito regolare. Inoltre su tutti gli edifici pubblici dell’intera Rojava dovrà sventolare la bandiera nazionale. Una mossa non solo simbolica. Il regime espande la sovranità. Non sono pochi adesso i curdi che iniziano a mettere in dubbio il valore del tributo di sangue pagato dalle loro forze armate nella guerra contro Isis: oltre 11.000 morti e quasi il doppio di feriti. Un numero enorme, specie se si pensa che Rojava conta in tutto meno di 60.000 effettivi tra combattenti uomini e donne. “Valeva la pena perdere tanti soldati alla luce del tradimento americano?”, si chiedeva ieri un giovane giornalista della televisione locale. Lo smarrimento è palpabile. Il futuro un’incognita inquietante. Rispondeva disilluso un suo collega: “Possiamo dire che abbiamo vissuto otto anni inebrianti di libertà, almeno saranno un punto fermo nei libri della storia del popolo curdo. Ma li stiamo perdendo”».

Quando la Nazione va in guerra, la Nazionale saluta militarmente. Questi sì che sono autentici patrioti! Altro che pezzi di mErdogan! O no?

(*) «Se il Kurdistan fosse unito politicamente potrebbe essere lo Stato più ricco del Medio Oriente, considerate le materie prime di cui dispone – dal petrolio alle risorse idriche. Il petrolio infatti viene estratto in tutti e quattro i paesi “curdi”. […] Sempre con riguardo al petrolio, l’area curda è coinvolta nel “grande gioco” in atto nelle repubbliche centrasiatiche. Con l’implosione dell’ex Urss è salita alla ribalta geopolitica l’Asia centrale, soprattutto per i ricchi giacimenti di petrolio e gas naturale del Mar Caspio. In gioco c’è lo sfruttamento degli stessi da parte delle grandi multinazionali, ma soprattutto lo sfruttamento dei diritti di passaggio degli oleodotti e dei gasdotti» (M. Franza, Limes, 1999).
(**) In uno scritto del 2014 esprimevo tutto il mio apprezzamento e il mio sostegno politico (peraltro non richiesto da nessuno…) alla lotta democratico-nazionale del popolo curdo, allora soprattutto alle prese con i tagliagole del cosiddetto Califfato Islamico. Ciò naturalmente non mi impediva di prendere una posizione critica nei confronti di chi in Europa straparlava “da sinistra” circa «un nuovo modello socialista» a proposito del Rojava. Sul Manifesto Alberto Negri ha definito l’azione dei progressisti curdi a Rojava come «l’unico esperimento di governo della regione che ricordi uno stato laico europeo»: non c’è dubbio. Cosa abbia però a che fare il “socialismo” con la lotta democratico-nazionale dei curdi è qualcosa che può avere un senso solo nella testa dei teorici del “Socialismo del XXI secolo”, i quali sono sempre alla ricerca di “socialismi originali”, forse per mitigare la nostalgia nei confronti dei “socialismi realizzati”.

 

Aggiunta del 16/10/2019

IL MADE IN ITALY CHE UCCIDE I CURDI

Da Nexquotidiano:

«Agusta A129 Mangusta: l’elicottero italiano che guida l’offensiva della Turchia in Siria. C’è anche un po’ di “orgoglio” italiano nell’offensiva della Turchia in Siria. E riguarda gli elicotteri da combattimento prodotti in patria ma creazioni del made in Italy: la versione avanzata dell’Agusta A129 Mangusta prodotto da Leonardo, che i nostri militari hanno usato in Somalia, Iraq e Afghanistan».

Scrive Gianluca Di Feo su Repubblica:

«Sono macchine micidiali. Piccole, veloci, robuste ma zeppe di apparati hi-tech. Scoprono gli obiettivi con un radar e un sistema infrarossi, a cui non sfugge nulla neppure di notte, nemmeno nei boschi. Hanno una torretta con un cannone a tre canne rotanti: per puntarlo basta che il pilota guardi il bersaglio, l’arma segue il suo occhio e spara 500 colpi in meno di un secondo. Possono lanciare 76 razzi che trasformano il terreno in un inferno. O guidare missili che sbriciolano i bunker. Cabina, motori e trasmissioni sono blindati – un Mangusta italiano in Afghanistan ha incassato cento pallottole senza problemi – e c’è un congegno per deviare i rari missili terra-aria dei guerriglieri. Per i curdi fermarli è quasi impossibile».

Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019: IN CHE SENSO È CORRETTO PARLARE DI “REVISIONISMO STORICO”?

Ho appena letto la Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 «sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa». Si tratta della Risoluzione che equipara nazismo e – cosiddetto – comunismo e che condanna i «crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo». Il documento si presta a diverse considerazioni, ma qui intendo tirare, in modo assai stringato, solo pochi fili polemici.

Giustamente da più parti si è parlato del contenuto di quella Risoluzione come di un rozzo revisionismo storico inteso a supportare un’iniziativa dai chiari connotati politico-ideologici, sintetizzabili nel concetto di superiorità europeista – e atlantista, visti i robusti legami che (ancora) legano i Paesi europei agli Stati Uniti. L’Unione Europea come faro di civiltà, come centro di irradiamento del benessere, della libertà, della tolleranza, dell’apertura, della pace; l’Unione Europea come baluardo contro ogni forma di totalitarismo e di gretto nazionalismo (o sovranismo), fonte di vecchie e nuove forme di razzismo e di derive autoritarie. Si tratta insomma del rancido minestrone ideologico che dovrebbe nutrire le iniziative europeiste intese a fare dell’UE un forte polo imperialistico in grado di reggere il confronto con la Russia, gli Stati Uniti e la Cina. Com’è noto, ormai da diversi anni questo progetto, guidato da Berlino e Parigi, registra una grave battuta d’arresto, cosa che ovviamente delizia la concorrenza.

«La memoria delle vittime dei regimi totalitari e autoritari, il riconoscimento del retaggio europeo comune dei crimini commessi dalla dittatura comunista, nazista e di altro tipo, nonché la sensibilizzazione a tale riguardo, sono di vitale importanza per l’unità dell’Europa e dei suoi cittadini e per costruire la resilienza europea alle moderne minacce esterne» (punto L della Risoluzione). Inutile dire che «la resilienza europea alle moderne minacce esterne» non mi commuove neanche un po’: personalmente combatto tanto la patria chiamata Italia quanto la patria chiamata Europa. Come diceva quello, il proletariato non ha alcuna patria da difendere e un mondo da conquistare. Dicendo questo so di espormi al severo giudizio degli antitotalitari politici di Strasburgo, ma non posso farci niente; né d’altra parte mi sono mai illuso circa la natura dello Stato di diritto.

Scrive Cosimo Francesco Fiori: «Paesi ex membri del Patto di Varsavia, o addirittura compresi nel territorio dell’ex Urss (Paesi baltici) sono oggi sedi di basi della Nato. […] La continuità Urss-Russia porta a notevoli esercizi di revisionismo, come la recente rimembranza dello sbarco in Normandia, tenutasi in Inghilterra alla presenza della Regina Elisabetta, alla quale non erano presenti autorità russe (è vero che l’Urss non partecipò allo sbarco, ma era un paese alleato) ma era invece presente la Cancelliera Merkel (la Germania partecipò allo sbarco, ma invero dalla parte di chi sparava contro gli sbarcati)». Più che di revisionismo, qui parlerei piuttosto di un uso strumentale della storia, un’operazione vecchia quanto la storia stessa, la quale solo raramente si presta a una sua lettura univoca, e ciò vale soprattutto nei periodi di rapide trasformazioni sistemiche, com’è indubbiamente quello che stiamo vivendo, non a caso definito “interessante” da storici e da analisti geopolitici. Si piega la storia dal lato che più conviene in una data situazione: un classico nella vita degli Stati! Ovviamente chi rema contro la società capitalistica deve denunciare questo “revisionismo storico”, deve metterne in luce le reali motivazioni, senza però coltivare nella testa delle persone l’idea di una storia politicamente e socialmente neutra, a cominciare dal fatto che fin qui la storia è stata scritta dalle classi dominanti.

Per un comunista antistalinista (del resto non concepisco altro comunismo che non sia radicalmente antistalinista, antimaoista, ecc.) mettere sullo stesso piano storico-sociale nazismo e stalinismo è cosa assolutamente scontata, come deve risultargli ovvio vedere nel Patto Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto 1939 l’effettivo inizio cronologico (*) del secondo macello imperialistico chiamato dai vincitori d’allora Guerra di Liberazione. Lascio dunque a quelli che personalmente definisco falsi comunisti (i quali non a caso oggi simpatizzano per la Cina, per il Venezuela, per Cuba, e qualcuno anche per la Russia di Putin, l’Iran, la Siria) l’escrementizia incombenza di difendere le ragioni storiche e politiche dello stalinismo, la cui genesi storica va a mio avviso rintracciata nella controrivoluzione politico-sociale che già negli anni Venti annientò l’eccezionale esperienza dei Soviet – con l’aggravante orwelliana di conservarne la simbologia, micidiale carta moschicida per molti intellettuali “comunisti” e “progressisti” europei.

Qui intendo solo osservare che è semplicemente ridicolo voler attribuire la responsabilità della Seconda guerra mondiale esclusivamente ai due totalitarismi europei (e a quello asiatico che reggeva il Giappone): le sue cause di fondo vanno infatti ricercate nella stessa natura del capitalismo mondiale giunto nella sua fase imperialistica. «La Prima guerra mondiale fu certamente “conseguenza immediata” dell’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, ma chi ritenesse tale evento causa sufficiente della guerra avrebbe bisogno di (ri)aprire i libri di storia. Analoga censura si può muovere alla risoluzione del Parlamento europeo, secondo la quale il Patto Molotov-Ribbentrop è sufficiente a spiegare il Secondo conflitto che ne è, appunto, “conseguenza immediata”. Ma non si fa menzione di ciò che lo ha preceduto: né, ad esempio, del riarmo tedesco, né dell’atteggiamento delle potenze occidentali dal Trattato di Versailles del 1919 (criticato fin da subito da Keynes) fino alla conferenza di Monaco del 1938, con la sostanziale acquiescenza all’espansionismo del Terzo Reich» (C. F. Fiori). Se la Germania, l’Italia e il Giappone erano certamente interessati a modificare l’ordine mondiale di quel tempo, questo si spiega non con la natura totalitaria dei rispettivi regimi, ma appunto con gli interessi imperialistici (di natura economica, militare, geopolitica) di quei Paesi, sempre più insofferenti nei confronti degli “equilibri mondiali” difesi da Stati Uniti, Regno Unito e Francia, legittimamente gelosi di un assetto geopolitico e geoeconomico che li favoriva.

L’Unione Sovietica si barcamenava a “destra” e a “sinistra” dello schieramento interimperialistico per conquistare tempo alla sua già spiccata voracità imperialistica non ancora adeguatamente supportata dal suo Capitalismo di Stato – altro che “Socialismo in un solo Paese”! In questa impresa il “Paese dei Soviet” (sic!) poteva d’altra parte contare su una vasta rete “diplomatica” non convenzionale costituita dai Partiti cosiddetti comunisti foraggiati, in tutti i sensi, da Mosca. Com’è noto, in quella rete si distingueva per zelo e servilismo il Partito di Togliatti, quest’ultimo giustamente considerato il migliore fra gli stalinisti, e non solo fra quelli italiani (**).

In secondo luogo, si “dimentica” che la Russia stalinista fu parte integrante e decisiva dello schieramento antinazista, beninteso una volta che il camerata Hitler ebbe la malsana idea di “tradire” il “compagno” Stalin per papparsi i grassi territori dell’Unione Sovietica, un boccone troppo grosso e duro da digerire che risulterà fatale al Terzo Reich – che si voleva Millenario . Si “dimentica” che la spartizione dell’Europa e del mondo fra le potenze vincitrici fu l’epilogo di una guerra che aveva visto gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica ascendere al rango di prime potenze imperialistiche mondiali, e la Gran Bretagna e la Francia discendere mestamente verso più modeste posizioni nella classifica delle Potenze, fino a perdere il loro vecchio e “glorioso” rango di Potenze Globali. Le foto che ritraggono Stalin, Roosevelt (e poi Truman) e Churchill seduti insieme al tavolo dopo un summit più o meno decisivo illustra bene lo spirito di “fraterna collaborazione” che regnava tra i briganti (per dirla con Lenin) dell’Alleanza politico-militare uscita vittoriosa dal conflitto. «Questa fetta di torta a me, e quest’altra a te. Le briciole cadute a terra lasciamole pure al cane sdentato che abbaia pietosamente».

Dal mio punto di vista, una prospettiva del tutto estranea e ostile al cosiddetto “comunismo” di matrice togliattiana, tutti i protagonisti della carneficina mondiale vanno dunque messi su un unico piano: quello del conflitto interimperialistico per la spartizione del bottino.

L’Europa “pacifista” (in realtà “pacificata”, a suon di bombardamenti terrestri, marittimi e aerei) di oggi non sarebbe spiegabile senza gli scarponi militari Made in USA e Made in URSS: solo dopo la guerra e la spartizione del mondo Washington e Mosca “scopriranno” di essere i centri mondiali di due diverse e opposte “concezioni del mondo”, di due diverse e opposte “civiltà”: da una parte il Capitalismo e la democrazia (capitalistica, appunto), dall’altra il “Socialismo” [sic!] e la “dittatura del proletariato” (o del “popolo”, cioè del Partito-Regime: vedi anche la Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping). La lunga Guerra fredda fu il modo in cui le due Super-Potenze cercarono di mantenere inalterato il quadro degli assetti imperialistici disegnato dalla Seconda guerra mondiale; la propaganda ideologica apparecchiata a Mosca e a Washington serviva a rafforzare quel quadro, tenendo viva e calda la minaccia di una guerra termonucleare che avrebbe riportato il mondo ai tempi degli uomini primitivi. Com’è noto, l’Unione Sovietica non fu in grado di reggere il confronto strategico con gli Stati Uniti, i quali peraltro sul versante della competizione economica iniziarono a soffrire l’iniziativa degli “alleati” (della Germania e del Giappone, in primis) già a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta.

Scrive il già citato Fiori: «D’altra parte, quel Patto è piuttosto incongruo, alla luce di quel che è successo sia prima, sia dopo: la Germania nazista si allea coll’unico Paese comunista al mondo dopo aver mandato tutti i comunisti tedeschi nei campi di concentramento, e poi tenta di cancellare il suo alleato dalle cartine geografiche. La guerra mondiale fu diverse cose assieme, e isolare un fatto storico dal suo contesto è errore talmente grossolano che si può spiegare solamente in base al valore polemico che una simile premessa assume». Certo, se si attribuisce all’Unione Sovietica di Stalin una natura comunista, o socialista (ancorché segnata da un “socialismo reale” molto lontano dal “socialismo ideale”), il famigerato Patto nazistalinista può apparire effettivamente «piuttosto incongruo», per non dire assurdo, inspiegabile senza scomodare categorie storiche, politiche e sociologiche di cui personalmente non ho contezza; se invece si attribuisce a quel Paese una natura pienamente capitalistica e imperialista, come peraltro cominciarono a fare alcuni comunisti europei già alla fine degli anni Venti, allora la cosa rientra nella normalità del processo storico-sociale e perde tutti i suoi caratteri misteriosi e “incongrui”.

«È scarsamente euristico catalogare regimi politici sulla base di conteggi e tassonomie che escludono il loro elemento più pregnante, ossia il loro contenuto concettuale. Una fondata analisi deve saper fare distinzioni, senza mescolare il tutto in una stolida e generica critica della violenza in astratto, che di fronte all’erompere della necessità della Storia ha lo stesso grado di utilità che potrebbe avere una critica della legge di gravità» (Fiori). Credo di aver chiarito, con tutti i limiti concettuali e politici che sono il primo a riconoscermi, il «contenuto concettuale» dei due regimi in questione, e di aver riempito di contenuti storici e sociali la violenza dispiegata dal nazismo e dallo stalinismo, la cui natura (capitalistica) è del tutto identica a quella che anima le iniziative dei Paesi che oggi predicano contro il totalitarismo di ieri, di oggi e di domani.

È nella natura totalitaria dei vigenti (su scala mondiale) rapporti sociali capitalistici che, a mio avviso, va ricercata la causa fondamentale della violenza sistemica (materiale, “spirituale”, morale, psicologica, in una sola parola: esistenziale) che, oggi come ieri, si manifesta in mille modi, in ogni aspetto della prassi sociale e della vita di ogni singolo individuo, e che rischia continuamente di dispiegarsi nella sua forma più “pura”. Sulla base di questi rapporti sociali tutto il male è possibile, anche quello che oggi ci appare come inconcepibile: troppo spesso questa apparenza è stata smentita.

Aggiunta del 29 settembre 2019:

La rozzezza dell’operazione non è sfuggita nemmeno a un antitotalitario ed europeista doc come Mattia Feltri, il quale ha letto la Risoluzione del Parlamento europeo come un maldestro tentativo di appiccicare all’UE un’identità che ancora essa non riesce a trovare, divisa com’è al suo interno da interessi nazionali che non riescono a trovare una “sintesi” (Lo spettro dei totalitarismi se l’Europa non riesce a definirsi, La Stampa).

(*) Come storico dello stalinismo Viktor Suvorov, ex ufficiale del controspionaggio militare sovietico il cui vero nome è Vladimir Rezun, lascia alquanto a desiderare. Concordo invece con lui quando scrive: «Curioso davvero: la Germania ha aggredito la Polonia, quindi la Germania ha iniziato e partecipato alla guerra europea e, di conseguenza, mondiale. L’Unione Sovietica ha fatto lo stesso, e nello stesso mese, però di lei non si dice che ha iniziato la guerra. E la sua partecipazione alla guerra mondiale viene calcolata soltanto a partire dal 22 giugno 1941. Perché?» (V. Suvorov, Stalin, Hitler. La rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano 2000). Già chissà perché. Azzardo una capziosa risposta sotto forma di domanda (retorica): non sarà perché la storia è scritta dai vincitori?

(**) «La notizia del Patto Ribbentrop-Molotov firmato il 23 agosto del1939 a Mosca si abbatté come un terribile elettroshock su tutto il corpo del comunismo mondiale. Le parole di Stalin rivolte al ministro degli Esteri nazista: «Io so quanto la nazione tedesca ami il suo Fuhrer, io bevo dunque alla sua salute», sono, per tutti i rivoluzionari professionali, i militanti di base, i simpatizzanti, un insulto e un evento difficile da capire, da accettare, da spiegare. […] Il 23 agosto l’Humanité ha pubblicato, forse ispirata dai rappresentanti del Comintern in Francia, uno strano articolo nel quale si auspica, in nome della pace mondiale, un generale embrassons nous, comprendendo la Germania di Hitler e l’Italia di Mussolini. Il giorno dopo, 24 agosto, il Pcf è già ben allineato mentre l’indignazione dei francesi, senza troppe distinzioni di classe o di credo politico, è al massimo. Gitton sull’Humanité e Louis Aragon su Ce Soir, sostengono la tesi quasi obbligata che il Patto è una vittoria dell’Urss, di Stalin, del pacifismo. Ma le acrobazie dialettiche servono a poco. La situazione per il Pcf diventa di ora in ora più pesante. Fortunatamente c’è a Parigi in quei giorni un ospite d’eccezione: Palmiro Togliatti. Togliatti è stato tra gli ultimi a lasciare la Spagna per raggiungere via Parigi, dopo un viaggio avventuroso nel maggio del 1939 la capitale sovietica. Inaspettatamente Togliatti, uno dei più importanti dirigenti del Comintern, viene rispedito solo tre mesi dopo, alla fine di luglio, a Parigi. Paolo Spriano nella lunga ed esauriente introduzione al IV volume delle Opere di Togliatti (Editori Riuniti) affaccia l’ipotesi del tutto credibile che egli sia stato mandato a Parigi per seguire da vicino la situazione francese in un momento delicato quale è quello del luglio 1939. […] Per i comunisti italiani che vivono in carcere o da fuorusciti la situazione non è meno drammatica. La terribile fotografia in cui si vede Stalin stringere la mano a Ribbentrop, oltretutto, coglie il Pci in un momento di profonda crisi. I rapporti con i cugini socialisti tendono a peggiorare ogni giorno di più. […] Ma a questo punto, per concludere la rievocazione delle ripercussioni del Patto Molotov-Ribbentrop sul mondo comunista, dobbiamo tornare a Parigi. Abbiamo lasciato Togliatti nel carcere della Santé. Dimitrov in prima persona e l’intero apparato del Comintern si sono mobilitati per la sua liberazione, assoldando avvocati di grido e, probabilmente, trattando sottobanco con la polizia e i servizi segreti di Parigi. Uscito dal carcere, e prima di partire per Mosca, Togliatti trascorre un mese nascosto nella casa di Umberto Massola. Ed è qui che il capo dei comunisti italiani prepara quelle Lettere di Spartaco che costituiscono il punto più alto dello stalinismo del Pci, e forse sono la vera ragione della missione di Togliatti a Parigi. In quelle lettere il Patto viene giustificato e preso a pretesto per una serie di attacchi forsennati ai socialfascisti: “Fanno oggi quello che fecero nel corso della guerra imperialistica del 1914-1918. Sono al servizio della borghesia imperialista reazionaria e guerrafondaia, sono all’avanguardia nelle campagne di menzogne, di calunnie, e di provocazioni”. Il 3 settembre del 1939 Francia e Inghilterra dichiarano guerra alla Germania. Comincia la drole de guerre che di lì a pochi mesi si trasformerà nella più spaventosa tragedia di questo secolo. Cinquant’anni sono trascorsi da quel fatale brindisi tra Stalin e Ribbentrop. Ma le scorie del Patto come certe piogge radioattive continuano a manifestare i loro effetti negativi» (G. Corbi, La Repubblica, 18 agosto 1989).