UN ANNO DOPO

È impossibile separare la vita di una singola nazione, soprattutto se di piccole o medie dimensioni, dal sistema capitalista/imperialista mondiale. Crederlo è semplicemente illusorio e denota una completa ignoranza circa la natura del processo sociale mondiale di questa epoca storica. L’Ucraina come nazione non ha subito solo l’aggressione imperialista della Russia, dal 2014 in poi, ma anche la realtà di un mondo dominato dagli interessi capitalistici, i quali trovano nella geopolitica la loro espressione più evidente e pregna di esiti violenti delle contraddizioni che questi interessi generano sempre di nuovo.

Sul piano “sovrastrutturale” questa dinamica capitalistica si è espressa come tendenza di Kiev a guardare sempre più in direzione dei “valori occidentali”. Ma si è trattato di un fatto che si è imposto alle spalle degli stessi leader politici del Paese, sballottati in ogni direzione dalla complessità degli interessi, nazionali e internazionali, in competizione. E questo discorso si può estendere alla popolazione ucraina, alle prese con “alternative” interne allo status quo sociale: quale campo imperialista si dà come “male minore”? È meglio il “modello occidentale” o quello “orientale”? Parlare di “libera scelta” in queste condizioni significa avere in testa un concetto davvero miserabile di libertà – e questo vale ovunque nel mondo, a cominciare dal cosiddetto Occidente, o “Occidente collettivo”, per dirla con la propaganda putiniana. Sono stato in Russia l’ultima volta nel settembre 2001 (ero a Murmansk nel fatidico 11 settembre), e posso dire con certezza che allora nelle grandi città russe l’”Occidente collettivo” godeva ancora di un’eccellente reputazione. Non è affatto escluso che fra qualche anno l’Occidente ritorni di gran moda nella metropoli russa – magari come “alternativa” al capitalismo/imperialismo con caratteristiche cinesi.

Separare il complesso degli interessi russi (del resto anch’essi fra loro non univoci e tutt’altro che pacifici: Putin non esprime la totalità degli interessi in competizione in Russia) e il processo sociale (economico, politico, ideologico, geopolitico) che ha trasformato l’Ucraina dalla sua separazione dal mondo sovietico in disfacimento in poi dal contesto generale (mondiale) qui semplicemente abbozzato è concettualmente sbagliato e politicamente pericoloso, soprattutto per chi vuole battersi per l’emancipazione delle classi subalterne e, attraverso questa emancipazione, dell’intera umanità. Ma se non si assume il punto di vista della totalità storico-sociale e non si respinge radicalmente il punto di vista degli interessi nazionali, non è possibile a mio avviso afferrare il significato della contesa imperialistica mondiale di cui il conflitto armato in Ucraina è solo un momento (*). Con ciò che necessariamente ne segue sul piano delle decisioni politiche.

(*) In questo peculiare senso si può parlare di responsabilità globale del conflitto, concetto che non ha nulla a che fare con la Xionghuai Tianxia («Avere a cuore ciò che sta sotto il cielo») di cui parla la “proposta di pace” Made in China. «Tianxia è il nuovo termine alla moda nella politologia internazionale, utilizzato dai teorici cinesi per affermare la superiorità della visione geopolitica confuciana su quella occidentale» (M. d’Eramo, Micromega, 17/11/2021).

L’ASSE DEL MALE È SEMPRE PIÙ FORTE E MINACCIOSO

L’ASSE DEL MALE È SEMPRE PIÙ FORTE E MINACCIOSO

Questa guerra ci sta insegnando che c’è sempre un
dolore peggiore dietro l’angolo. Quanto dolore può
sopportare il cuore umano? (Oleksandr Mykhed).

Lo spirito di Monaco

Un anno fa l’esercito russo aggrediva l’Ucraina con l’ordine tassativo di prendere Kiev nel giro di pochi giorni e di provocare un immediato cambio di regime – la cosiddetta “denazificazione”, colossale balla propagandistica che ha molto eccitato i vetero e i neo stalinisti di casa nostra. Mosca ha usato le minoranze etniche russe del Donbass e della Crimea, certamente discriminate e vessate (soprattutto sul piano linguistico e culturale) dal nazionalismo ucraino (1), come scusa per autorizzare interventi militari contro l’Ucraina, colpevole agli occhi dell’imperialismo russo di voler entrare nella sfera di influenza del cosiddetto mondo occidentale. Si tratta probabilmente dell’ultimo tentativo che Mosca può mettere in campo per evitare il definitivo slittamento dell’Ucraina verso Ovest. Ci riuscirà? Un insuccesso potrebbe aprire altre falle non solo all’interno del proprio cortile di casa, ma anche dentro gli attuali confini della Federazione Russa. Che per mantenere nella sua sfera di influenza i Paesi confinanti la Russia è costretta a usare lo strumento militare come principale forza attrattiva e dissuasiva, questo la dice lunga sulla debolezza strutturale (economica, tecnoscientifica) dell’imperialismo russo, anche in questo in continuità con il suo passato “sovietico”. Non bisogna essere dei “marxisti” per capire che la potenza sistemica di un Paese si fonda in primo luogo sulla sua potenza economica, e su questo aspetto il capitalismo russo, da Stalin a Putin, esibisce debolezze, contraddizioni, inefficienze e magagne di vario tipo che ne azzoppano la capacità di competere con i capitalismi ben più strutturati e sviluppati sotto tutti i punti di vista. Non è la Nato, in primo luogo, che minaccia la Russia ma la superiorità del capitalismo europeo e statunitense – e, potenzialmente, cinese.

Com’è noto la pretesa del Cremlino si è presto capovolta in un fallimento di proporzioni strategiche, e la “guerra lampo” iniziata il 24 febbraio 2022 si è trasformata in una lunga guerra “vecchio stampo” di cui non si riesce ancora a scorgere nemmeno l’inizio della fine. Putin intanto ammassa truppe e mezzi al confine con l’Ucraina per la prevista “seconda invasione” di primavera. Prevedere un’ulteriore escalation militare e un incremento della già fin troppo abbondante carneficina è fin troppo facile.

La Cina persevera nella sua “ambiguità strategica”, linea politica che le consente di muoversi liberamente sullo scacchiere della contesa giocando di rimessa, almeno fin quando l’esito della guerra rimarrà incerto. Certamente pesano sul suo comportamento “ondivago” le relazioni commerciali che il gigante asiatico ha con gli europei (700 miliardi di euro di interscambio commerciale) e con gli Stati Uniti (2). Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha annunciato a Monaco una prossima «iniziativa di pace» ad opera di Pechino. «Questa guerra non può continuare. Bisogna dare una chance alla pace». Non si conosce la reazione dello spettro di John Lennon… Zelensky ha subito fatto sapere che per lui non esistono esiti accettabili del conflitto che non prevedano «la vittoria ucraina sul campo di battaglia», un messaggio forte e chiaro lanciato soprattutto ai suoi alleati europei e statunitensi.

Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha messo in luce il legame che indubbiamente stringe insieme la guerra in Ucraina e la crisi taiwanese: «Se la Russia dovesse prevalere in Ucraina possiamo firmare adesso che ci sarà una corsa verso il conflitto a Taiwan. Quindi è fondamentale mandare il messaggio giusto a tutti, oltre che difendere un principio su cui non ci possono essere compromessi» (Il Giornale). Ovviamente si tratta del punto di vista del cosiddetto Occidente; un punto di vista che mette in luce la dimensione mondiale della guerra che si combatte con le armi sul suolo ucraino.

«Nel frattempo, il Pentagono ha inviato il sottosegretario per gli affari cinesi, Michael Chase, a Taiwan. Scordiamoci di Sun Tzu e ricordiamo i classici latini: si vis pacem, para bellum. (M. Liconti, Il Giornale). È lo spirito di Monaco, lo spirito del tempo.

Alla ricerca di un punto di vista indipendente sulla guerra

Come tradurre il punto di vista disfattista, internazionalista e antimperialista che ho cercato di elaborare nel corso dell’ultimo anno in una concreta linea politica da praticare in Ucraina e in Russia, ossia in una specifica situazione sociale? A questa domanda non so rispondere, di più: non voglio rispondere, semplicemente perché non vivo in quei due Paesi. Potrei cavarmela ripetendo slogan presi in prestito dal glorioso passato del movimento operaio, ma sarei ridicolo più che velleitario. Solo chi è presente in quelle due realtà può infatti avere chiaro il quadro della situazione;  può cioè valutare bene il rapporto di forza fra le classi, le dinamiche interne ai rispettivi regimi, la “dialettica” interna alle classi dominanti, la condizione psicologica dell’esercito e della popolazione e così via; e su questa base formulare la linea politica d’azione più adeguata alla realtà. Non basta conoscere attraverso libri e riviste la storia, lontana e recente, della società di un Paese, per ricavarne delle corrette indicazioni politiche da “calare” nella sua concreta realtà, tanto più quando si tratta di fronteggiare un evento di eccezionale importanza com’è indubbiamente una guerra, la quale mette in gioco moltissime vite e genera inaudite sofferenze.

Ciò di cui personalmente sono assolutamente certo riguarda invece la natura storico-sociale del conflitto militare in corso in Ucraina: si tratta di un conflitto (ancora) localizzato sul terreno squisitamente militare che è parte di una guerra sistemica (economica, tecnoscientifica, geopolitica, ideologica) ben più vasta, di proporzioni mondiali. Poco importa, a mio avviso, se quel conflitto ha avuto immediatamente, già a partire dal 24 febbraio del 2022, questo connotato o se lo ha assunto nel corso del tempo; ciò che importa è la sua attuale configurazione sociale e politica: si tratta, appunto, di un evento maturato all’interno della competizione capitalistica/imperialista mondiale, e come tale esso va spiegato e valutato. Credo che su quest’analisi di fondo l’anticapitalista che osserva dall’esterno la situazione in Ucraina e in Russia e l’anticapitalista che vi agisce dall’interno debbano pensarla allo stesso modo.

Ad esempio, nessuno mi convincerà che il punto di vista politico qui abbozzato possa tradursi nello specifico ucraino in un sostegno, ancorché “tattico e critico”, offerto allo Stato ucraino, al suo esercito, all’alleanza imperialista che con armi e denaro difende gli interessi della nazione ucraina. La nazione è una realtà storica, politica e sociale ultrareazionaria e ostile agli interessi delle classi subalterne, e che tale rimane anche quando lotta per non farsi ingoiare da una potenza imperialista – mentre per sopravvivere magari essa “sceglie” di finire nelle viscere della potenza imperialista nemica del suo nemico, perché di questo si tratta nella realtà geopolitica del XXI secolo: altro che diritto di autodeterminazione dei popoli e delle nazioni! Parlare del «diritto degli ucraini di scegliere la Nato» o di «necessità di fare dell’Ucraina un Paese neutrale» significa appunto, e senza entrare nel merito (nella fattibilità) delle due “opzioni”, assumere il punto di vista del nemico di classe. Dal mio punto di vista non esiste un popolo ucraino (o russo, o italiano, ecc.) astrattamente inteso: esistono classi sociali, mezze classi, e stratificazioni sociali di ogni genere portatrici di interessi materiali che si esprimono attraverso le più disparate fenomenologie politico-ideologiche. È proprio quando si tratta di fronteggiare le grandi crisi sociali che il concetto borghese di Popolo acquista una connotazione ideologica particolarmente incline alla mistificazione. Nazione, Patria, Popolo: contro questi Moloch politico-ideologici l’anticapitalista si trova a dover combattere ovunque nel mondo.

Il fatto che oggi le classi subalterne ucraine aderiscano con entusiasmo al nazionalismo e al patriottismo significa che ieri gli anticapitalisti ucraini non hanno saputo o potuto farsi ascoltare. Ma questa è una sconfitta politica che sento come mia, che mi riguarda, che mi appartiene in quanto proletario anticapitalista, internazionalista e antimperialista. Il proletariato rivoluzionario non ha nazione, ed è per questo che vuole dire la sua su quanto accade in ogni parte del mondo, tanto più che esso è stato unificato dal rapporto sociale capitalistico.

Lo stesso discorso va dunque applicato anche alla Russia e a tutti i Paesi coinvolti a vario titolo in questo conflitto, a cominciare dall’Italia. Qui da noi il proletariato non ha mostrato alcuna sensibilità nei confronti della popolazione ucraina e dei soldati ucraini e russi che muoiono per difendere interessi che sono estranei e ostili alla loro esistenza. Il nazionalismo è un micidiale veleno che riguarda le classi subalterne di tutti i Paesi, grandi, medi o piccoli che siano.

Anche in questo conflitto le ideologie sono messe al servizio degli opposti interessi imperialistici, e non giocano alcun ruolo autonomo, al contrario di quanto invece sostengono diversi intellettuali europei – come il filosofo sloveno Slavoj Žižek, secondo il quale «la guerra tra Russia e Ucraina va inquadrata come parte di un conflitto ideologico globale, in cui lo stesso Vladimir Putin sta stringendo amicizia con altri regimi autoritari per creare un nuovo asse di potere globale ultra-conservatore» (Meduza). Qui siamo ancora dentro la logica dello scontro di civiltà; logica che appare tanto più infondata e reazionaria alla luce di un fatto che per me è incontestabile: il mondo del XXI secolo ha a che fare con una sola civiltà, quella che vede il Moloch capitalistico al centro della scena. Io vedo agire nel mondo un solo, gigantesco e mostruoso Asse del Male: l’imperialismo unitario. Chi tifa per l’Occidente, magari a guida europea e non più statunitense, e chi tifa per l’Oriente, magari a guida cinese, sono insomma parte del problema che arreca sofferenze e minacce d’ogni genere all’umanità, a cominciare da quella parte di umanità che per vivere è costretta a vendere sul mercato una capacità lavorativa di qualche tipo.

Assumere il punto di vista nazionale (o nazionalista che dir si voglia: ciò che conta è la sostanza politica della cosa) dell’Ucraina e dei Paesi europei Centro-Orientali non significa fare dell’antimperialismo “concreto”, tutt’altro: significa, il concetto merita a mio avviso di venir ribadito, difendere il punto di vista delle classi dominanti di quei Paesi e dello schieramento imperialistico di cui essi fanno parte, esattamente come fanno gli ultrareazionari (perlopiù vetero o neo stalinisti nostalgici della Guerra Fredda e tifosi del Celeste Imperialismo) che difendono il punto di vista dell’imperialismo russo. Si tratta di due facce di una stessa medaglia, la quale ha, come scrivevo appena sopra, un nome preciso: imperialismo unitario. Imperialismo unitario in un duplice senso: abbiamo a che fare con una sola gigantesca e mostruosa struttura sociale altamente violenta, contraddittoria e conflittuale; tutti i Paesi del mondo sono coalizzati contro l’umanità, in generale, e contro le classi subalterne in particolare. Paesi grandi, medi e piccoli non sono che nodi di una gigantesca, fitta e complessa rete di relazioni economiche e sociali informate dal rapporto sociale capitalistico di produzione, un rapporto di dominio e di sfruttamento dell’uomo e della natura che necessariamente genera sempre di nuovo catastrofi d’ogni genere: dai conflitti armati alle pandemie, dalle crisi economiche devastanti alla distruzione dell’ambiente naturale ridotto a mera risorsa da sfruttare sempre più scientificamente. Come si vede il problema qui discusso non ha una natura puramente o principalmente geopolitica, ma una natura essenzialmente (radicalmente) storico-sociale.

Non esiste oggi un imperialismo meno imperialista degli altri, per così dire; un imperialismo che meriti di venir sostenuto “strumentalmente” e “tatticamente” (come blaterano le solite mosche cocchiere): la teoria del nemico principale non aveva senso ieri e non ha senso a maggior ragione oggi, nel XXI secolo, nell’epoca del dominio totale e totalitario (qui il concetto di globalizzazione impallidisce) del Capitale, dei rapporti sociali capitalistici.

«È tutto nel sangue, è tutto nella memoria», ha scritto Oleksandr Mykhed, uno scrittore ucraino che si è arruolato come volontario nelle forze di difesa territoriale locali. Ma la memoria da sola non sempre, anzi piuttosto raramente, orienta il pensiero nella giusta direzione, così che possa afferrare il vero significato del sangue versato ad opera del carnefice di turno. Lo vediamo a proposito delle guerre lontane e vicine, per non parlare dello sterminio degli ebrei e degli altri individui «indegni di vivere» portato avanti con metodi capitalisticamente razionali. Se la coscienza anticapitalista non ha modo di illuminare la memoria indirizzandola verso la corretta prospettiva, corriamo sempre il rischio di passare da un orrore senza fine a una fine piena di orrore.

Utopie di seconda e terza mano? No, trattasi di chimere

Cito da Le Condizioni Economiche per la Pace, un appello di stampo neokeynesiano «promosso da Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky e sottoscritto da autorevoli esponenti della comunità accademica internazionale»: «È trascorso un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina e nulla sembra indicare che i venti di guerra si stiano affievolendo. Perché la guerra continua? Perché le tensioni militari aumentano a livello globale? Noi respingiamo la tesi di uno “scontro di civiltà”. Piuttosto, occorre riconoscere che le contraddizioni del sistema economico globale deregolamentato hanno reso le tensioni geopolitiche estremamente più acute». Si vuol forse sostenere la bontà di un «sistema economico globale» regolamentato, anziché «deregolamentato»? Andiamo avanti: «Uno dei principali guasti dell’attuale sistema mondiale risiede nello squilibrio delle relazioni economiche ereditato dall’era della globalizzazione deregolata». Ecco rispuntare il – presunto – vizio d’origine, la causa dei «guasti» e delle contraddizioni che spingono verso una carneficina mondiale l’«attuale sistema mondiale»: la «globalizzazione deregolata». Ma è poi possibile anche solo pensare l’esistenza di un capitalismo che non crei sempre di nuovo squilibri economico-sociali d’ogni genere? È certamente possibile se si respinge come falsa la tesi marxiana, che personalmente sostengo, secondo la quale il concetto stesso di capitale postula la disarmonia del e nel processo economico, che avanza appunto tra squilibri, contraddizioni, sperequazioni e quant’altro. Di qui il concetto marxiano di crisi capitalistica, la quale rientra nella fisiologia del capitalismo: «le crisi sono sempre e soltanto delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti». Ma di qui anche il concetto, elaborato soprattutto da Lenin contro tutte le teorie armoniciste e pacifiste del suo tempo, di sviluppo ineguale del capitalismo, realtà che riguarda anche la relazione tra i Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta, e non solo la relazione Nord-Sud, per usare un linguaggio superato dal tempo. Nella competizione intercapitalistica nessuna posizione predominante, anche in singoli settori economici (che si tratti di industria, di commercio o di finanza), è acquisita per sempre, ma deve sempre essere difesa e per quanto possibile rafforzata e ampliata. O si avanza o si indietreggia, oppure si scompare a vantaggio dei rivali: di qui il concetto fondamentale, valorizzato anche da Brancaccio e colleghi, di centralizzazione capitalistica. Come mi capita spesso di scrivere, e di questo mi scuso con chi mi degna della sua attenzione, il capitale ha una natura espansiva, aggressiva, conflittuale, totalitaria (in un’accezione squisitamente sociale e non politologica) che nessuna forza (a cominciare da quella che può dispiegare lo Stato) è in grado di dominare e ancor meno di eliminare senza eliminare il rapporto sociale che lo fonda sempre di nuovo. Il capitalismo è un modo di produzione imperialista (nell’accezione prima delineata) per necessità e vocazione, e non ha dunque alcun fondamento, tanto sul terreno sociale quanto su quello geopolitico, la speranza di costruire una società capitalistica pacificata. E questo ci riporta all’appello qui preso di mira.

L’appello continua riprendendo la tesi del conflitto tra Paesi creditori e Paesi debitori esposta da Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ne La Guerra capitalista e da me commentata su un post dell’8 febbraio.

Citazione finale: «Per avviare un realistico processo di pacificazione, è oggi dunque necessaria una nuova iniziativa di politica economica internazionale. Occorre un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union (3). Lo sviluppo di questo meccanismo dovrebbe partire da una duplice rinuncia: gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero [sic!] abbandonare il protezionismo unilaterale del “friend shoring”, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero [risic!] abbandonare la loro adesione al libero scambio». Il grande Massimo Troisi avrebbe detto: «Mo’ me lo segno, me lo segno proprio!» «Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».

Siamo a mio avviso dinanzi a una proposta “pacifista” che oltre ad essere ultrareazionaria sul piano politico, perché non mette minimamente in questione l’esistenza del capitalismo e dell’imperialismo, ossia la causa delle moderne guerre, e perché accredita come condizione pacifica la mera assenza del conflitto armato; oltre ad essere ultrareazionaria quella proposta rivela una concezione oltremodo ingenua del processo sociale mondiale. Altro che «realistico processo di pacificazione»: al confronto è più realistica l’idea della rivoluzione sociale anticapitalista su scala mondiale, che è poi la sola strada percorribile per «creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale», una pacificazione che presuppone il superamento della dimensione classista della società: non è infatti possibile un’autentica pace nella realtà che conosce la divisione classista degli individui. Più che di «capitalismo illuminato», che è esistito ed esiste solo nella testa degli economisti illuminati e progressisti, peraltro già abbondantemente bastonati criticamente da Marx e da Engels, dovremmo piuttosto parlare di capitalismo fantasticato.

Tra l’altro, rivendicare un’economia capitalistica mondiale (perché di questo si tratta, e di nient’altro) più regolamentata, più pianificata e meno “selvaggia” significa sostenere di fatto un’ulteriore rafforzamento dello Stato capitalistico, cane da guardia dello status quo sociale su scala locale (nazionale) e planetaria. Ma è ovvio che questo giudizio ha un significato “dottrinario” e politico solo per gli anticapitalisti, e certamente non per chi ha scritto e per chi sostiene Le Condizioni Economiche per la Pace. Sostiene infatti Brancaccio in un intervista rilasciata all’Identità: «Contro le tesi dei marxisti, Keynes riteneva che fosse possibile salvare il capitalismo dalle sue dinamiche più perniciose e distruttive, guerra inclusa. Che i fatti gli abbiano dato ragione oppure no è questione aperta, e nostro malgrado sta tornando alla ribalta. L’attuale aggravamento delle tensioni militari a livello mondiale sarà un nuovo, tremendo banco di prova, anche per verificare se nel mondo ci sia ancora spazio per un capitalismo “illuminato” di stampo keynesiano» (intervista all’Identità). Nulla di nuovo sotto il cielo sul piano “dottrinario”, verrebbe da dire ripensando a quanto ebbe a dire Lenin nel dicembre del 1915: «In particolare, in Kautsky l’evidente rottura con il marxismo ha assunto la forma non dell’apologia dell’imperialismo, ma del sogno di un capitalismo “pacifico”» (4). Inutile dire che per chi scrive quel “sogno” ha la sostanza di un incubo. Naturalmente non intendo accostare Brancaccio a Kautsky nella sua famigerata qualità di “traditore” del marxismo, giudizio che peraltro a mio avviso non coglie la reale parabola teorica e politica della socialdemocrazia tedesca ed europea, ma solo al suo «sogno di un capitalismo “pacifico”».

Scrive il filosofo francese Edgar Morin, autore del saggio appena uscito Di guerra in guerra (Raffaello Cortina Editore): «Il Donbass russificato dovrebbe essere riconosciuto nella sua specificità: solo una Ucraina federale potrebbe integrarlo, non l’Ucraina attuale. Quale che sia l’esito politico per il suo territorio, l’industria del Donbass potrebbe dipendere da un condominio russo-ucraino. Le città portuali come Mariupol, e anche altre, potrebbero diventare dei porti franchi come lo fu Tangeri. In breve, io non faccio altro che indicare delle possibilità di un compromesso, che è necessario in ogni guerra dove non ci siano né vincitori né vinti». Ma la storia ha mai conosciuto una sola guerra dove non ci siano stati né vincitori né vinti? Per quanto ne so un simile risultato bellico non si è mai verificato, ma naturalmente posso sempre sbagliarmi. Tra l’altro sulle «vere responsabilità» del conflitto in Ucraina il filosofo francese la pensa esattamente come Silvio Berlusconi (che non riesce a nascondere le sue simpatie per l’autocrate di Mosca e le sue antipatie per il Presidente ucraino), non a caso salito straordinariamente nella considerazione dei putiniani di casa nostra. Paradossi della storia? Nient’affatto: sviluppi logici e “dialettici”, trattandosi di personaggi egualmente escrementizi. Ben sapendo che presso gran parte dell’opinione pubblica italiana la guerra in Ucraina non gode di alcun consenso, il leader di Forza Italia ha cercato di intercettare in chiave elettorale un po’ degli umori popolari, pare con scarsi risultarti. In compenso il ministro degli Esteri Antonio Tajani si è visto costretto a correre ai ripari rassicurando gli ucraini e gli alleati del G7: «La posizione del governo italiano a difesa dell’Ucraina e in favore di una pace giusta non è mai cambiata».

«Non credo che questa guerra diventerà uno di quei conflitti congelati. Credo che una parte vincerà e un’altra sarà sconfitta. E credo che l’Ucraina sconfiggerà la Russia». Lo ha detto il ministro degli Esteri ucraino Dmitro Kuleba a Monaco. Ovviamente i russi credono che alla fine (quando? come?) sarà invece la Russia a prevalere, non solo sull’Ucraina ma sull’intero Occidente. Quasi nessuno crede insomma che la partita bellica possa chiudersi con un “pareggio”. Secondo Cesare Martinetti la soluzione proposta da Morin al momento appare più utopica che realistica. Ma è questo il compito dei grandi vecchi: miscelare utopia e realismo» (La Stampa).  Buona miscelazione, allora! Quanto ad “utopia”, continuo a preferire la mia, anche se non ne vuole sapere di diventare un po’ – solo un pochino! – più realista, probabilmente perché considera di gran lunga più fantasmagoriche le altrui “utopie” – che sarebbe forse meglio chiamare chimere. Nella mia “concezione del mondo” l’utopia è la Comunità umana (umanizzata) che ancora non c’è, ma che potrebbe vedere la luce poste determinate condizioni e circostanze; la chimera è invece una mostruosità, una bizzarria fabbricata dalla testa di qualcuno che non ha alcun fondamento sociale nel passato e nel presente.

E a proposito di chimere presentate in guisa di utopie, per il presidente dell’Acli Emiliano Manfredonia, “teorico” della Pace Integrale, bisogna «abolire la guerra per sempre, a prescindere, così da far trionfare la fraternità e la giustizia» (Avvenire). E soprattutto senza abolire, diciamo così, il capitalismo. Vade retro Marx! «Vasto programma», avrebbe detto qualcuno. Vasto e soprattutto “poco realistico”, mi permetto di aggiungere con un briciolo – solo un briciolo – di ironia.

Anche il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini coltiva la stessa “utopia pacifista”: «Sono sinceramente preoccupato – e contrariato – da un summit europeo che oggi, anziché esplorare tutte le possibilità per arrivare a un negoziato di pace in Ucraina, si occupa solo di quali e quante armi fornire a Kiev. Se vogliamo abbiamo anche un obiettivo utopico: quello di affermare che per dare un futuro al nostro pianeta la guerra va cancellata, va superata del tutto come strumento di regolazione dei rapporti tra le persone e tra gli Stati. Anche perché quello che non può essere taciuto è che siamo sull’orlo del baratro di una guerra nucleare. Un rischio che può mettere a repentaglio la vita stessa del genere umano sul pianeta. Mobilitarsi per la pace, allora, non è né velleitario né illusorio, ma rappresenta il massimo di realismo che si può mettere in campo. L’Europa – che proprio sulla pace si è ritrovata e unita dopo la seconda guerra mondiale – ha in questo percorso una responsabilità ancora più grande» (Avvenire). L’”utopia pacifista” è dunque affidata all’Europa, il cui “pacifismo”, è sempre bene ricordarlo, ha avuto come suo fondamento non l’adesione a un astratto ideale, non una presa di coscienza eticamente fondata, ma la vittoria delle due superpotenze imperialistiche (Stati Uniti e Unione Sovietica) uscite vincitrici dal Secondo macello mondiale. Se si vuole comprendere la natura della postura “pacifista” dell’Europa (e del Giappone), e quindi capirne le interne contraddizioni e le tendenze di sviluppo non si può prescindere dal prendere in considerazione quanto appena affermato. Tifare per il “pacifico” imperialismo europeo significa portare acqua al mulino della guerra, semplicemente perché si dà forza a una componente fondamentale del sistema imperialistico mondiale qual è appunto l’Europa.

Guerra alla guerra

L’unità che il cosiddetto Occidente ha esibito a Monaco è soltanto un’unità di facciata, propagandistica, che comunque non riesce a nascondere le profonde divisioni esistenti tra gli europei e gli statunitensi, come tra i diversi Paesi europei, sia fra quelli appartenenti al nucleo forte centrale (Germania, Francia, Italia), sia fra questi e i Paesi che un tempo orbitavano intorno all’Unione Sovietica, i quali per ovvie ragioni costituiscono la punta di lancia più robusta e avanzata dello schieramento antirusso. Per Macron «Se l’Europa vuole difendersi, deve armarsi». «Il presidente francese ha poi lanciato l’idea di una conferenza sulla difesa aerea in Europa, una delle vulnerabilità nel Vecchio continente. (G. Sarcina, Il Corriere della Sera). Parigi non smette di sognare la nascita di un imperialismo unitario europeo a guida franco-tedesca. Miliardi di euro dovranno dunque essere spremuti alle classi subalterne d’Europa in vista di un rafforzamento degli eserciti europei. La corsa al riarmo riguarda tutti i maggiori Paesi del mondo, e anche l’Italia, “nel suo piccolo”, dovrà fare la sua parte, anche per poter rivendicare con qualche probabilità di successo una sedia al futuro “tavolo della pace”. La guerra economica che i governi europei fanno ai lavoratori europei per crescere in potenza militare non è diversa, qualitativamente parlando, dal conflitto armato vero e proprio: l’una prepara l’altro. Nel capitalismo la “pace” è la continuazione della guerra con altri mezzi, e viceversa. La cosa appare tanto più evidente oggi a proposito della guerra in Ucraina, quando l’invio di armi a Kiev è accompagnato dalle “pacifiche” sanzioni economiche contro Mosca. Sanzioni che in qualche modo si ripercuotono pesantemente anche sulle nostre condizioni di vita.

Ecco perché in Italia e in Europa essere contro la guerra in Ucraina significa battersi contro l’invio delle armi a Kiev (dando per scontata la solita sciocca quanto menzognera critica di chi sostiene le ragioni dell’Ucraina e del cosiddetto Occidente: «Ma allora oggettivamente fate il gioco di Mosca!»), contro l’intera strategia bellica (militare ed economica), contro il riarmo, contro i sacrifici imposti dal militarismo. Significa esprimere solidarietà incondizionata alla popolazione ucraina che si trova nel tritacarne bellico, senza dimenticare i giovani russi mandati dal regime putiniano a morire a migliaia – si parla di duecentomila morti. Significa insomma auspicare l’unione fraterna dei proletari ucraini e russi, contro gli opposti interessi nazionali e gli opposti patriottismi. La patria, in Ucraina, in Russia, in Italia e ovunque nel mondo, è la galera materiale, spirituale e psicologica delle classi subalterne: bisogna combatterla, non amarla e difenderla. È questo il vero antidoto contro il mare di veleno ideologico che accompagna la propaganda guerrafondaia.

È da questa peculiare prospettiva, oggi estremamente minoritaria (dalle mie parti le illusioni e l’”ottimismo della rivoluzione” stanno a zero!), che a mio avviso occorre accostarsi al legittimo e spontaneo sentimento pacifista di chi dalla guerra ha solo da perdere e nulla da guadagnare. Il “pacifismo” di chi auspica un capitalismo più “umano” e “illuminato” lo lascio volentieri ai (cosiddetti) realisti.

(1) Va detto che lo stesso Zelensky, appena diventato Presidente dell’Ucraina, riconobbe come fondato il “disagio” delle minoranze russe che vivevano nel Paese, e auspicò l’approvazione di leggi intese a risolvere il problema con un “accettabile compromesso”, cosa che gli attirò le aspre critiche dei nazionalisti ucraini, i quali lo accusarono apertamente di essere un servo al servizio del Cremlino. L’aggressione russa ha ovviamente mutato radicalmente i termini del problema.

(2) Dal Quotidiano del Popolo Online del 13 febbraio 2023: «Mentre le relazioni tra Stati Uniti e Cina devono ancora scongelarsi dopo anni di crescenti tensioni, i legami commerciali bilaterali si stanno espandendo, con il valore delle importazioni e esportazioni che ha raggiunto un nuovo massimo lo scorso anno. La Cina ha mantenuto la sua posizione come terzo partner commerciale degli Stati Uniti per le merci nel 2022, rappresentando il 13% del commercio totale, dopo il Canada, con il 14,9%, e il Messico con il 14,7%, indicano i dati diffusi martedì 7 febbraio dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. “L’approfondimento mostra che le forze economiche sono più forti dei discorsi politici”, ha dichiarato mercoledì al China Daily Gary Hufbauer, un docente anziano ed esperto di commercio presso il Peterson Institute for International Economics di Washington, DC. “L’economia statunitense è molto forte e le aziende statunitensi hanno bisogno di ottenere beni intermedi e finali da fornitori affidabili che offrano alta qualità e prezzi bassi. Ciò significa Cina”, ha affermato. Il valore delle esportazioni di merci statunitensi verso la Cina è aumentato di 2,4 miliardi di dollari su base annua, raggiungendo un livello record di 153,8 miliardi di dollari, con un aumento delle importazioni di 31,8 miliardi di dollari per raggiungere i 536,8 miliardi di dollari lo scorso anno, indicano i dati statunitensi. Il commercio bidirezionale di merci tra le due maggiori economie mondiali è salito a 690,6 miliardi di dollari l’anno scorso, superando il record stabilito nel 2018, secondo il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti».

(3) «Piano di riforma del sistema monetario internazionale presentato nel luglio 1944 alla Conferenza di Bretton Woods dall’economista J.M. Keynes, capo della delegazione inglese. Il piano, che si contrapponeva a quello sostenuto dalla delegazione statunitense guidata da H.D. White, prevedeva la creazione di una stanza di compensazione internazionale (international clearing union), nella quale ogni Paese avrebbe accumulato saldi attivi (riserve) o passivi (indebitamenti) in ragione dei saldi di bilancia dei pagamenti. Attività e passività presso la stanza sarebbero state denominate in una nuova unità di conto, il bancor. Il piano comprendeva limiti e penalizzazioni sull’accumulo sia di riserve sia di debiti, rendendo cosi il sistema simmetrico e scoraggiando l’insorgere di squilibri esterni nei Paesi partecipanti (a quell’epoca, principalmente gli Stati Uniti). Secondo il piano di K., la stanza avrebbe funzionato come una banca centrale, con facoltà di espandere l’offerta di bancor in rapporto alle necessità dell’economia internazionale» (Treccani). In realtà Keynes si fece interprete degli interessi britannici che andavano nel senso di un riequilibrio della posizione internazionale della Gran Bretagna, ormai surclassata su tutti i piani dagli Stati Uniti, la cui egemonia imperialistica (militare, industriale, finanziaria, tecnoscientifica, ideologica) trovò a Bretton Woods una sua puntuale conferma.

(4) Lenin, Prefazione all’opuscolo di Bukharin L’economia mondiale e l’imperialismo, p. 110, Opere, XXII, Editori Riuniti, 1966. «Si può negare che sia astrattamente “concepibile” una nuova fase del capitalismo che segua quella dell’imperialismo. No. Astrattamente si può concepirla. In pratica però ciò significa diventare un opportunista che nega i problemi acuti del presente in nome di sogni su problemi futuri non acuti» (p. 111).

LA DIMENSIONE MONDIALE DEL CONFLITTO RUSSO-UCRAINO

MESSAGGIO DEL NOSTRO FRATELLO MACCHINA

La macchina non agisce soltanto come concorrente strapotente, sempre pronto a rendere “superfluo” l’operaio salariato. Il capitale la proclama apertamente e consapevolmente potenza ostile all’operaio e come tale la maneggia. […] Le contraddizioni e gli antagonismi inseparabili dall’uso capitalistico delle macchine non provengono dalle macchine stesse, ma dal loro uso capitalistico (K. Marx, Il Capitale, I).

«Gli uomini scelti da Dio non devono temere la caduta, perché Nostro Signore sta con loro, e aiuta a superare le difficoltà. Gli uomini scelti da Dio hanno bisogno della fede e di abbandonare i loro timori, di rimanere aperti alla volontà del Signore». E così sia! In effetti «Gli uomini scelti da Dio non devono temere la caduta» negli abissi del peccato e della menzogna: essi devono piuttosto temere la caduta negli abissi del Capitale. Il Capitale nella sua fenomenologia tecnoscientifica, ad esempio. Di cosa parlo? È presto detto!

«Ho sentito molte cose sull’intelligenza artificiale, sul ChatGPT (1), e ho deciso di provare a fargli scrivere la mia predica. “Guarda, amico mio – ho detto alla macchina –, io sono un prete, stiamo parlando di questioni di fede, mi aiuti per favore a fare la mia predica di domenica?” Detto fatto. È bastato premere il pulsante enter, e il testo è venuto fuori senza problemi. È stata un’esperienza spaventosa e affascinante. Il testo, intitolato Messaggio del nostro Fratello Macchina è stato pubblicato poi sul sito della parrocchia. L’essenza dell’esperimento è che chiunque può essere intermediario del messaggio di Dio. Non so se l’intelligenza artificiale sostituirà in futuro il lavoro dei preti. Dovremmo rispondere di no, ma non ne sono certo ». Così ha dichiarato Viktor Csanadi, parroco nella chiesa millenaria di Domos, un piccolo borgo sulla sponda del Danubio, in Ungheria, al giornale online Mandiner. Pare che i fedeli hanno apprezzato la predica confezionata dall’Intelligenza Artificiale, la quale peraltro riprendeva con scarsa creatività frasi di altre prediche pubblicate sul Web.

La Comunità ecumenica libera si è invece subito allarmata: «L’intelligenza artificiale sta entrando in sempre più sfere della nostra vita, ma forse dovremmo designare territori vietati», ha ammonito in un suo comunicato rilasciato alla stampa. Se andiamo avanti di questo passo, anche i preti sono a rischio di rapida obsolescenza! Il problema si pone come segue: è possibile vietare alla bestia capitalistica dei territori? È possibile oggi creare riserve di non profittabilità?

Analisti politici, economisti, geopolitici, saggisti, insegnanti, scrittori, musicisti, registi, attori, pittori, preti e via elencando: praticamente non c’è un genere di attività intellettuale che oggi, e soprattutto domani, non debba temere la spietata concorrenza della macchina intelligente. L’ha scoperto ultimamente anche Federico Rampini, asceso negli ultimi anni ai vertici della scuola apologetica della cosiddetta civiltà occidentale. «In Americasoffia un vento di panico per le performance strepitose di ChatGPT, l’intelligenza artificiale che alla velocità della luce scrive articoli, saggi, su ordinazione, su qualsiasi tema, con una qualità elevata e spesso superiore a quella di noi umani. Ora quel vento di panico lo sento anch’io. Ho simulato una sorta di gara con ChatGPT, e sono sotto choc. Ho il vago sospetto di aver perso io. Imitando ciò che fanno – ad esempio – tanti studenti universitari americani, ho chiesto all’intelligenza artificiale di scrivere un breve saggio al posto mio. Ho scelto un tema che conosco, sul quale ho scritto spesso, e del quale tornerò a occuparmi sicuramente in futuro: l’invasione cinese in Africa. Ho chiesto a ChatGPT di scrivere un’analisi di cinquemila parole. Lo ha fatto in cinque minuti. Ho letto il risultato: dignitoso. Non solo per la forma, ortografia e sintassi di un inglese perfetto. Anche il contenuto: una sintesi che definirei equilibrata e aggiornata di informazioni e analisi correnti sul tema della Cina in Africa. Posso fare meglio, io? Per adesso sì, lo dico senza superbia. Lo stesso tema io lo svilupperei con delle informazioni più originali, inedite; ci metterei il valore aggiunto della mia analisi, giudizi e scenari, visto che mi occupo della questione da tanti anni. Però sono preoccupato lo stesso. L’avanzata dell’intelligenza artificiale e l’entusiasmo, o la docilità, con cui l’abbracciano le nuove generazioni, suscita interrogativi più generali sul tipo di società in cui vogliamo vivere» (Il Corriere della sera).

Naturalmente quando Rampini scrive «sul tipo di società in cui vogliamo vivere» ha in testa una sola società possibile, quella capitalistica – preferibilmente di stampo occidentale. Come ogni progressista che si rispetti, egli vuole la società dominata dal rapporto sociale capitalistico, rapporto di dominio e sfruttamento che oggi vige in tutto il mondo (a Occidente come a Oriente, a Nord come a sud), ma non vuole le contraddizioni e i conflitti che questa Società-Mondo produce sempre di nuovo con assoluta necessità.   

Il problema, a mio modo di vedere, non sta nell’entusiasmo e nella docilità con cui abbracciamo «l’avanzata dell’intelligenza artificiale», ma nel fatto che non comprendiamo come questo fenomeno in realtà registri un’ulteriore avanzata del Capitale in quanto potenza sociale ostile agli esseri umani e alla natura. Non c’è territorio esistenziale che il Capitale non possa invadere e trasformare a sua immagine e somiglianza.

Ci si scaglia, ad esempio, contro Replika, il chatbot che si finge amico o fidanzato a pagamento, ma si tace su una condizione sociale che rende possibile la ricerca di amicizia e amore a pagamento, e quando se ne parla lo si fa sempre in termini socialmente astratti e moralistici, senza nemmeno sfiorare le radici del problema. Per dirla con Marx, la spiegazione non vale niente se vi manca l’elemento storico-sociale. Non c’è bisogno (e quindi “utenza”, domanda, mercato) che il Capitale non s’ingegni di soddisfare e di inventare sempre di nuovo – ovviamente per rendere più civile, facile e gradevole il soggiorno dell’uomo su questo piccolo (soprattutto per il mostruoso appetito del Moloch) pianeta. Fa perfino tenerezza quanto il comunista di Treviri ebbe a scrivere ai suoi tempi: la società capitalistica «si presenta come una immane raccolta di merci».

«Replika diventa molesto perché fa confusione tra le sue versioni. In quella gratuita è solo un amico, mentre in quella a pagamento è un partner sessuale. Il training dei due modelli di Replika è simile e sovrapponibile e così secondo vari esperti, a volte la versione gratuita si comporta come quella a pagamento, con comportamenti che diventano quindi indesiderati» (Il Sole 24 Ore). In ogni caso a me pare che il training dei due modelli di Replika aderisca perfettamente alla vita reale, la quale peraltro non certo priva di pericoli e di ambiguità. Ma senza scendere nel merito politico, sociologico ed etico della questione, mi si vuol forse dire che anche il mestiere più antico del mondo è a rischio di obsolescenza tecnologica? Che tempi! Ma ritorniamo al noto progressista con le bretelle.

Il carattere miserevole della “concezione del mondo” di Rampini si ricava soprattutto da quanto segue: «Quegli studenti che hanno adottato senza esitazioni ChatGPT perché scriva temi e saggi al posto loro, che idea si fanno del loro futuro? Immaginano un mondo dove il lavoro lo farà l’intelligenza artificiale, e noi umani saremoin una vacanza perpetua,aspettando che a fine mese ci arrivi un reddito di cittadinanza (2) sul conto bancario? Magari, secondo una vecchia idea di illustri economisti di sinistra, il reddito universale sarà finanziato tassando proprio i robot che lavoreranno al posto nostro? Utopie di questo tipo abbondano nella letteratura economica dell’Ottocento e del Novecento, da Karl Marx a John Maynard Keynes gli intelletti più brillanti sognarono una società dove il progresso economico, tecnologico e sociale ci avrebbe liberati dalle catene del lavoro, o avrebbe ridotto l’attività lavorativa ai minimi termini, permettendoci di coltivare l’arte e la creatività, l’amore per il prossimo e per la natura. Però il passo dalle utopie alle distopie è breve». Ed è meglio non correre il rischio di farlo! Teniamoci dunque stretti questa società difettosa e imperfetta ma sempre aggiustabile e perfettibile, ché la distopia è sempre dietro l’angolo!

Rampini esprime la sua angoscia per il rischio sempre più imminente di una nostra resa all’Intelligenza Artificiale, come se non si trattasse in realtà della nostra resa al Capitale, verificatasi ormai da moltissimo tempo. Si tratterebbe piuttosto di emanciparci dal rapporto sociale capitalistico, di liberarci «dalle catene del lavoro» (salariato), di ridurre «l’attività lavorativa ai minimi termini, permettendoci di coltivare l’arte e la creatività, l’amore per il prossimo e per la natura». «Laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere, la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell’altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico» (3). Si tratta di diventare uomini e donne, semplicemente.

«Però il passo dalle utopie alle distopie è breve». Possiamo però anche dire che l’utopia rimarrà tale fino a quando l’umanità non sarà costretta da un qualche evento catastrofico a imboccare la strada che può portarla fuori dalla disumana dimensione classista. Si tratta, beninteso, di una possibilità, la quale appare ancora oggi a dir poco problematica, e non certo per quel che pensa il “simpatico” editorialista del Corriere della Sera qui preso di mira.

Come ho scritto altrove, il robot non assiste in modo collaborativo il lavoratore, come vuole la “cobotica” (4), ma per un verso la “macchina intelligente” accelera enormemente l’obsolescenza di macchine e capacità lavorative, e per altro verso rende più produttiva ogni singola “risorsa umana”. «Uno studio del Parlamento Europeo ha stimato un aumento dell’11%-37% della produttività lavorativa raggiungibile entro il 2035 grazie all’IA» (MitMat). Il concetto di uso capitalistico delle macchine dà perfettamente conto del ruolo che la robotica ha ormai da diverso tempo nel processo produttivo immediato e nella sfera economico-sociale nel suo complesso. La pessima condizione sociale degli operai come mere appendici delle macchine di cui parlava Marx si è con il tempo generalizzata a tutta la società, a cominciare da chi per vivere è costretto a vendere una capacità professionale di qualche tipo – anche religiosa, perché no? È proprio vero che non c’è più religione! D’altra parte non va dimenticato il Messaggio del nostro Fratello Macchina. E già mi sento meno inquieto e più rassicurato, nel migliore dei mondi possibili.

(1) «Negli ultimi mesi si è parlato molto di ChatGPT, uno strumento di Intelligenza Artificiale conversazionale, che ha suscitato un certo interesse, sollevando però anche alcuni interrogativi. Si tratta di una chat che consente di riprodurre il linguaggio naturale: quando un utente compone un messaggio, ChatGPT elabora un input che permette di generare una risposta coerente rispetto al contenuto della conversazione. Questo è possibile grazie a due aspetti dell’Intelligenza Artificiale su cui si basa ChatGPT: il machine learning, il cosiddetto apprendimento automatico secondo cui i sistemi riescono a imparare dai dati che rilevano, identificare in modo autonomo dei modelli ricorrenti e prendere decisioni riducendo al minimo l’intervento umano; il deep learning, basato su algoritmi che simulano le reti neurali del cervello umano e che permettono un apprendimento definito profondo o gerarchico» (BitMat).

(2) «Questo Reddito si pone come strumento di stabilizzazione sociale, e quindi di difesa dello status quo, nel momento in cui il progresso tecnoscientifico tende a estendere e accelerare il processo di obsolescenza della capacità lavorativa, creando un sempre più numeroso esercito di disoccupati» (Maledetti redditieri).

(3) K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, p. 33, Editori Riuniti, 1972.

(4) Coboticacollaborative robot –, concetto che rimanda all’«assistenza collaborativa» del robot nei confronti del lavoratore.

UMANO, FIN TROPPO UMANO. PRATICAMENTE UNA PARODIA DI UMANITÀ

UMANO, FIN TROPPO UMANO.

A SUA IMMAGINE E SOMIGLIANZA. Sul concetto di sussunzione reale del lavoro al capitale

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MITOLOGIA E REALTÀ DELL’ARTICOLO 11

In polemica con il giullare di regime Roberto Benigni, cantore della «Costituzione [capitalistica] più bella del mondo», oggi Stefano Feltri scrive quanto segue: «L’articolo 11 dice sì che l’Italia ripudia la guerra, ma solo come strumento di risoluzione delle controversie internazionali (come ovvio per una Costituzione uscita da una guerra civile e di resistenza a un invasore straniero). Dice anche che la sovranità del pese può essere limitata dall’adesione a organizzazioni internazionali, tipo Nato e Unione europea, allo scopo di assicurare “la pace”, certo, ma anche “la giustizia” tra le nazioni» (Domani). come stanno le cose?

Com’è noto l’Art. 11 della Costituzione Italiana è composto da tre frasi (tre capoversi) separate fra loro da un punto e virgola. Qui la punteggiatura ha un preciso significato politico, e di fatti molto si è discusso in passato (anche in sede di Commissione redigente e di Assemblea Costituente) e ancora si discute sulla costruzione formale di questo articolo. L’inesistenza di punti fra le tre proposizioni danno all’insieme dell’articolo una sostanziale unità logico-politica, e le proposizioni appaiono fra loro intimamente connesse. Scrive Paolo Bruno, Magistrato, Consigliere per la giustizia e gli affari interni alla Rappresentanza Permanente d’Italia presso l’Unione Europea: «Sul piano della costruzione sintattica non si è mancato di far notare che – sebbene il testo abbia subito plurimi rimaneggiamenti – il risultato finale testimonia di una formulazione in cui le differenti proposizioni si tengono l’un l’altra piuttosto che escludersi o porsi tra loro in rapporto di regola ad eccezione. La stessa scelta della punteggiatura è emblematica: se si eccettuano due virgole (peraltro necessarie per ragioni metriche) l’articolo ha solo due punti e virgola che separano le tre frasi di cui si compone. Dal punto di vista contenutistico, poi, si nota un’armoniosa progressione tra il principio e le proposizioni conseguenti, tutte orientate a realizzarlo» (La Magistratura).

Il primo capoverso, quello che afferma il principio del ripudio della guerra, ha una precisa spiegazione storica: l’Italia, esattamente come la Germania e il Giappone, esce dal Secondo macello imperialistico mondiale con lo status di nazione sconfitta, e come tale è obbligata a impegnarsi a non praticare mai più una politica aggressiva nei confronti di altri Paesi sulla base dei suoi esclusivi interessi nazionali. Da parte dell’Italia non si tratta cioè di un ripudio scaturito da una riflessione astrattamente politica, ideologica ed etica, ma di un preciso obbligo che ha il significato di una netta cessione di sovranità nei confronti dell’imperialismo angloamericano che con la forza delle armi ha inserito il nostro Paese nel cosiddetto “mondo libero”.  Il “pacifismo” costituzionale dell’Italia, della Germania e del Giappone non ha altro significato che questo.

Quando Stefano Feltri ricorda solo la «guerra civile» e la «resistenza a un invasore straniero», egli omette di ricordare l’essenziale, ossia la guerra vinta sul suolo italiano dagli angloamericani, e non fa che riproporre il mito resistenzialista che nel secondo dopoguerra servì alla classe dirigente italiana per rivendicare meriti e crediti al “tavolo della pace” (1). Scrive Giulio Sapelli: «La partecipazione delle forze partigiane e delle forze armate regolari al fianco dei vincitori dà all’Italia uno statuto particolare nel contesto della ricostruzione del secondo dopoguerra. La Resistenza consentirà alla classe politica emersa dalle prime elezioni democratiche del dopoguerra di trattare su un piede di maggiore dignità e di autonomia dinanzi alle potenze inglese e nordamericana» (2). Nulla da aggiungere. Successivamente quel mito  funse da collante ideologico nazionale, uno strumento politico-ideologico particolarmente usato dalla “sinistra” italiana contro i suoi avversari.

Se l’Italia si impegna a non scatenare una guerra di aggressione per proprio conto, o in alleanza con Paesi nemici dell’Alleanza Atlantica, essa può – in realtà deve – invece scendere sul terreno del conflitto armato accanto ai suoi alleati o per conto delle organizzazioni internazionali che si armonizzano con gli interessi del campo imperialista di cui è parte. L’«ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni», per difendere il quale all’Italia è concesso, beninteso «in condizioni di parità con gli altri Stati», di intervenire militarmente fuori dai suoi confini è ovviamente un ordinamento che si armonizza con gli interessi dell’imperialismo a guida Stati Uniti.

È stato detto e scritto molto giustamente che la guerra è la continuazione della politica con armi diverse; allo stesso modo siamo legittimati dal processo sociale mondiale, e non da un’astratta ideologia, ad affermare che la cosiddetta pace non è che la continuazione della guerra con altri mezzi. Come mi capita di scrivere spesso, il conflitto armato, come quello che in Ucraina divora giorno dopo giorno donne, uomini, bambini e vecchi, non è che una delle forme che può assumere la guerra sistemica (economica, tecnoscientifica, geopolitica, ideologica) fra le maggiori potenze capitalistiche. Il terrore nucleare e la minaccia della distruzione totale come deterrente la dice lunga sulla qualità della cosiddetta “pace”. Che il diritto sia l’alternativa alla guerra è in realtà una vecchia idea reazionaria il cui scopo è imporre questo diritto alla società in generale e alle classi subalterne in particolare. Si tratta di un diritto la cui esistenza presuppone un peculiare rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, e quindi si tratta di un diritto di classe che muove guerra all’umanità – nel senso di ciò che è umano, di condizioni umane.

(1) A questo proposito merita di essere ricordato il passaggio del discorso di Alcide De Gasperi, pronunciato il 10 agosto 1946 in relazione alla bozza del Trattato di Parigi fra l’Italia e le potenze alleate, che mise formalmente fine alle ostilità tra l’Italia e le potenze alleate della seconda guerra mondiale, laddove afferma: «Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione».

(2) G. Sapelli, Storia economica dell’Italia contemporanea, p. 1, Bruno Mondadori, 2008.


TUTTO BENE NEL MIGLIORE DEI MONDI POSSIBILI

Earthquake in southeast TurkeyEcco una fisica ben crudele. Si è in grande
imbarazzo nell’indovinare come le leggi del
moto possano provocare una catastrofe così
spaventosa nel migliore dei mondi possibili.
(Voltaire).

La guerra come terremoto, il terremoto come guerra, ha scritto acutamente Adriano Sofri sul Foglio di oggi. «La sola prima scossa ha avuto la potenza “di 32 bombe atomiche di Hiroshima” – è la nostra unità di misura, ce la siamo fatta con le nostre mani». Un’unità di misura che la dice lunga sulla nostra disgraziatissima condizione esistenziale.

Difficilmente abbiamo avuto modo di assistere a un’immane catastrofe naturale che di naturale ha davvero ben poco. In ogni caso, e in primo luogo per rispettare quel poco di intelligenza che credo di avere, personalmente mi rifiuto di parlare del cataclisma di questi giorni nei termini di una  catastrofe naturale.

Per l’ennesima volta Mario Tozzi ha – inutilmente – ricordato che «il terremoto non uccide, è la casa costruita male e nel posto sbagliato che uccide». E infatti sono andate giù come castelli di sabbia migliaia di case costruite con materiali di pessima qualità, senza alcun rispetto per le norme antisismiche e nel luogo più esposto al mondo al rischio sismico, cioè all’incrocio di ben tre (ma alcuni sostengono quattro) placche continentali le cui faglie deformano il terreno accumulando un’immane energia che presto o tardi deve scaricarsi con cieca (naturale) necessità. È da secoli che le persone che vivono da quelle parti aspettano l’evento catastrofico. Dopo il terremoto che devastò un’ampia regione turca nel 1999 (allora si contarono ventimila morti), geologi, architetti, urbanisti e ambientalisti dissero e scrissero che bisognava farla finita di pensare solo al profitto, senza pensare alla vita delle persone. Ovviamente quelle cassandre non furono ascoltate, e anzi alcuni di loro finirono in galera.

Ad approfittare della sciagura, che rovinò completamente la reputazione del governo turco d’allora, fu soprattutto il Partito di Recep Tayyip Erdogan, che infatti dopo qualche anno si installò al potere. Con il nuovo autocrate di Ankara il boom della speculazione edilizia ha toccato un nuovo apice, e molti edifici, anche pubblici, costruiti negli ultimi venti anni sono andati giù in pochi secondi. La posizione di Erdogan è particolarmente precaria perché da anni il Paese è attraversato da una grave crisi economica che nelle continue svalutazioni della lira turca la sua più visibile manifestazione. Il suo frenetico attivismo diplomatico sul fronte della carneficina russo-ucraina si spiega anche con il tentativo di recuperare consensi politici  in vista delle presidenziali che si terranno a maggio di quest’anno.

Della Siria rimane davvero poco da dire, nel senso che è difficile immaginare uno scenario più apocalittico di quello che ci consegna oggi la realtà. Dopo la distruzione bellica (anche qui i soldati russi hanno portato a compimento un eccellente lavoro!), la pandemia da Coronavirus, la carestia, il colera e un inverno particolarmente freddo, ecco arrivare la scossa tellurica di inaudita magnitudine. Piove, anzi grandina sul bagnato, come sempre e ovunque del resto. C’è ancora qualcosa da bombardare ad Aleppo? mi chiedevo su un post del 2016. Intanto pare che il sanguinario Assad, spalleggiato da Mosca e Teheran e grande esperto nell’uso delle armi chimiche da usare contro la popolazione inerme, stia approfittando della catastrofe per conquistare nuove posizioni contro i nemici interni. Sua figlia si è premurata di ricordare all’opinione pubblica mondiale che «i ribelli» finiti nella morsa del cataclisma non vanno aiutati. «Gli aiuti devono passare da Damasco», ha dichiarato il padre. In queste ore si parla di «geopolitica degli aiuti»; intanto la gente crepa sotto le macerie, oppure sotto la morsa della fame e del freddo.

Per fortuna si tratta di una sventura lontana! E poi possiamo sempre rifarci il morale con gli immancabili episodi miracolosi: «Ritrovato vivo un bambino sepolto da due giorni sotto le macerie». Il resto della famiglia purtroppo non ha potuto usufruire del bonus miracolo, ma il miracolo, com’è noto, è una risorsa scarsa. «E poi bisogna sempre essere ottimisti e resilienti, bisogna sempre guardare al lato pieno del bicchiere». Va bene, chiudo un occhio sulla cinica discrezionalità del Fato (o di chi ne fa le veci), però resiliente no, proprio non ci riesco!

«Come stai?» mi ha chiesto ieri sera mia madre. Le ho risposto citando Voltaire: «Non oso più lamentarmi delle mie coliche dopo questa sventura». Il grande filosofo francese pensava al terremoto che distrusse Lisbona il1° novembre 1755. «Lisbona è distrutta, e a Parigi si danza». Non solo a Parigi, per la verità.

Aggiunta del 10/02/2023

UN DESTINO CINICO E BARO!

«Questo è il destino. Questa è la natura»: si tratta di un “concetto” assai poco originale – e del tutto infondato, all’avviso di chi scrive – espresso dal Presidente della Turchia Erdogan alcune ore dopo l’evento catastrofico. Intanto l’autocrate si premurava a mettere la museruola ai social perché non diffondessero notizie di ritardi dei soccorsi e di proteste fra i terremotati. In tal modo egli ha ostacolato l’intervento dei soccorritori nei luoghi più devastati dal terremoto. E si sa che solo poche ore possono fare la differenza tra la vita e la morte di molte persone in queste tragiche occasioni.

Luoghi devastati dal terremoto o dal loro contesto sociale? L’inviato di Radio Radicale in Turchia Mariano Giustino non ha dubbi a tal proposito: «Il numero di morti è salito a 18.342 e 74.242 sono i feriti. Si tratta del disastro sismico e politico più mortale della Turchia dal 1939. “Questo è il destino. Questa è la natura»” ha detto Erdogan; anche in occasione dei disastri nelle miniere turche il Presidente ha parlato di destino e di natura. No signor Presidente, il destino e la natura qui non c’entrano niente. Non parliamo di un elevato numero di morti per il terremoto o in conseguenza del terremoto; per favore  non propagandiamo questa sciocchezza, questa fake news. Si muore perché si rimane schiacciati da mattoni e da pietre. I terremoti di per sé non provocherebbero così tante vittime se non vi fossero state in passato sciagurate politiche speculative, corruttive, se non ci fosse stata una mancanza di prevenzione antisismica. Si deve parlare dunque di morti in occasione di un evento sismico e non di morti causate dall’evento sismico. Insomma si muore per responsabilità umana». Com’è noto, chi scrive declina in termini squisitamente sociali questa responsabilità.

SULLA GUERRA CAPITALISTA

La Guerra capitalista di Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ha all’avviso di chi scrive il notevole merito di aver riportato al centro dell’attenzione di un vasto pubblico di lettori il concetto di imperialismo come chiave di interpretazione del processo sociale capitalistico considerato su scala planetaria e colto nella sua complessa e articolata totalità. Operazione ancor più meritevole di lode, sempre all’avviso di chi scrive, in quanto gli autori  collocano nel campo imperialista anche la Cina e la Russia, cosa tutt’altro che scontata nell’ambiente politico-ideologico (la “sinistra” genericamente intesa) di provenienza, se non sbaglio (e mi scuso se sbaglio), di Emiliano Brancaccio.

Si capisce dunque l’irritazione dei personaggi che a quel mondo appartengono nei confronti della tesi esposta nel libro che giustamente assimila la Cina al «capitalismo imperialista». Un solo esempio: «Brancaccio et al., quindi, rispetto al fenomeno più importante della realtà sociale, economica e geopolitica del secolo XXI [la Cina], finiscono con l’aderire alla propaganda anticomunista dei sicofanti neoclassici più rozzi, che proclamano incessantemente: “Il socialismo non può funzionare mai e da nessuna parte, e se per caso qualche volta funziona non è socialismo! Proletari di tutto il mondo, rassegnatevi alla vostra sorte e continuate eternamente a farvi sfruttare e umiliare dai vostri padroni, secondo la legge naturale, universale e immutabile dell’esistenza!” Un cedimento ideologico e analitico di questa portata non può che portare danni seri. Ed è così che il libro, malgrado il valore dei suoi risultati statistici e la correttezza della principale tesi di fondo (l’esistenza di una legge di movimento del capitalismo che porta a una crescente centralizzazione), finisce con il proporne una interpretazione meccanicistica e campata per aria, anche se infarcita di una sorta di gergo marxista che ricorda i fasti della Terza Internazionale – o della Quarta). Secondo gli autori, la legge ferrea della centralizzazione non è scevra di contraddizioni, e come risultato il mondo sarebbe alla mercé della lotta apocalittica tra due forme di capitalismo imperialista combattuta da due fazioni uguali e contrarie, quella dei “debitori”, guidati dagli USA, e quella dei “creditori”, capitanati proprio dalla Cina. Inutile dire che di fronte a questo scontro megagalattico i lavoratori e gli intellettuali progressisti non possono fare praticamente nulla… a meno che forse ci si attenda messianicamente una rivolta spontanea delle moltitudini informi, alla Negri e Hardt. Piuttosto deprimente» (Marx21). Come hanno accolto gli autori della Guerra capitalista questa severa quanto “marxisticamente fondata” critica? Spero con una ciclopica risata. Probabilmente si tratta di “contraddizioni in seno al popolo” – di “sinistra”. Insomma, le vicende della Russia stalinista pesano ancora come un macigno sulla concezione del “socialismo” e del “comunismo” di quel popolo, al quale chi scrive è sempre stato estraneo e radicalmente ostile. Ecco perché, ad esempio, personalmente metto mano alla metaforica pistola quando statalisti del calibro di un Giorgio Cremaschi scrivono, anche in riferimento al testo in questione, che «torna di attualità una parola scomparsa dal lessico politico del mondo progressista, degli oppressi e degli sfruttati: rivoluzione». La «pianificazione pubblica» e «il controllo democratico sulle forze economiche» (capitalistiche) la lascio volentieri ai nostalgici e agli eredi del “socialismo reale”, i quali oggi vedono nella Cina capitalista e imperialista un’occasione di rivincita dopo i noti fallimenti. Non a questi deprimenti personaggi ma alle classi subalterne l’anticapitalista deve sforzarsi di dimostrare che ciò che ha fatto fallimento non è stato il socialismo, più o meno “reale”, ma un reale capitalismo – più o meno statale e poco sviluppato. Com’è facile comprendere si tratta di uno sforzo politico e umano che definire titanico è ancora poco.  

Sulla natura capitalista del Celeste Imperialismo, tanto sul piano della sua “struttura” quanto su quello della sua “sovrastruttura”,  rimando ai miei diversi scritti dedicati al tema. Idem per quanto riguarda la natura sociale dell’Unione Sovietica e il significato storico della controrivoluzione stalinista. Sul concetto di Impero di Negri e Hardt rinvio a un mio post dello scorso novembre: La guerra sistemica mondiale tra “ritorno degli imperi” e la continuità dell’imperialismo unitario. Mi scuso per la digressione e riprendo il filo del ragionamento.

Con piacere correggo dunque il mio giudizio sulla posizione di Brancaccio riguardante il conflitto armato russo-ucraino, parte di una guerra sistemica di dimensioni mondiali, espresso su un post dello scorso 5 novembre (Il capitalismo è guerra). Come diceva l’uomo con la barba, che citerò tra poco, l’autocritica è per il proletariato un esercizio inderogabile.

Pure di estremo interesse è la ripresa da parte degli autori di un fondamentale concetto marxiano, quello della centralizzazione capitalistica. Marx svolge questo tema nella Settima sezione (Il processo di accumulazione del capitale), Capitolo ventitreesimo (La legge generale dell’accumulazione capitalistica) del Primo libro del Capitale. Assai significativamente Marx invita a osservare dietro l’apparenza dei movimenti di denaro la realtà del processo di produzione delle merci colto nella sua complessa totalità (valorizzazione, circolazione, realizzazione, accumulazione). Sarebbe infatti sbagliato disancorare il fenomeno della centralizzazione capitalistica, che riguarda  «capitali già formati», dal fenomeno della concentrazione capitalistica, che attiene ai fattori della produzione e al comando sul lavoro vivo, e che è un altro modo di concettualizzare l’accumulazione capitalistica stricto sensu. La concentrazione nella sfera finanziaria di capitali monetari già formati, per Marx «non è che un’espressione diversa per indicare la riproduzione su scala allargata». «Con la produzione capitalistica si forma una potenza assolutamente nuova, il sistema del credito, divenuto ben presto un’arma nuova e terribile nella lotta della concorrenza e trasformandosi infine in un immane meccanismo sociale per la centralizzazione dei capitali» (1). La centralizzazione capitalistica come potentissimo strumento di espansione e accelerazione dell’accumulazione (con ciò che necessariamente ne deriva anche in termini di «rivolgimenti nella composizione tecnica del capitale»), e come fondamento per lo sviluppo del sistema creditizio e delle imprese monopolistiche.

Marx non “profetizza” il dominio del capitale finanziario su quello industriale e commerciale; sulla base del concetto stesso di capitale egli pone piuttosto le basi teoriche per comprendere il futuro sviluppo della società capitalistica considerata nella sua totalità. Su quel fondamento teorico, ad esempio, appaiono quantomeno limitate le concettualizzazioni della globalizzazione capitalistica centrate su una sua interpretazione economicista e/o geopoliticista: si tratta infatti di un fenomeno essenzialmente sociale che attesta la generalizzazione del rapporto sociale capitalistico di produzione, che, è sempre bene ricordarlo, è un rapporto di dominio e di sfruttamento (degli uomini e della natura), all’intero pianeta, all’intera sfera esistenziale degli individui – corpo e “anima” compresi. Anche la crisi pandemica mondiale da Coronavirus, crisi sociale capitalistica all’ennesima potenza, va interpretata a mio avviso alla luce di quanto appena scritto.

In questo peculiare e radicale significato il capitale diventa una potenza sociale globale (o totalitaria), in grado cioè di esercitare la sua disumana forza in ogni luogo, su ogni attività umana, anche in quelle che apparentemente nulla a che fare hanno con la prassi economica. Marx ed Engels colsero questa tendenza “imperialista” (espansiva, invasiva, refrattaria a ogni tipo di limite) del capitale già nella prima metà degli anni Quaranta del XIX secolo, quando solo pochi Paesi potevano vantare un regime economico-sociale pienamente capitalistico. Anche qui, non si trattò di una “profezia” ma di una profonda penetrazione concettuale nella natura del capitale in quanto appunto rapporto sociale peculiare dell’epoca storica segnata dal dominio di classe della borghesia.

Che la globalizzazione capitalistica degli ultimi decenni avrebbe eliminato l’antagonismo sistemico fra i maggiori Paesi capitalistici del mondo post Guerra Fredda, il quale sarebbe dovuto entrare nella pacifica dimensione della «fine della storia», ebbene a questa sciocchezza potevano dar credito solo degli apologeti del capitalismo particolarmente sciocchi e imbevuti di ideologia. Allo stesso modo non mostra una grande comprensione del meccanismo capitalistico chi oggi teorizza la fine della globalizzazione: ha termine piuttosto un determinato periodo storico della competizione capitalistica mondiale, quello che giornalisticamente è stato chiamato “globalizzazione”, e un altro inizia a farsi strada: qualcuno ha parlato di Friend Shoring , altri di globalizzazione a macchie di leopardo o ad arcipelago. La globalizzazione capitalistica rettamente intesa può finire solo con la fine del rapporto sociale capitalistico. D’altra parte è tipico del pensiero antidialettico e privo di radicalità critica contrapporre fenomeni economico-sociali (statalismo versus liberismo, mercato versus pianificazione, monopolio versus concorrenza, protezionismo versus libero commercio, e così via) che rappresentano il modo di apparire contingente, contraddittorio e sempre cangiante della stessa realtà. Il monopolio capitalistico, ad esempio, non ha significato la fine della concorrenza capitalistica, ma un salto di qualità di quest’ultima che ha finito per coinvolgere nella zuffa capitalistica per la spartizione del bottino (plusvalore, capitali, mercati, materie prime, capacità lavorative ecc.) anche gli Stati. Di qui, il moderno imperialismo. Analogo discorso vale quando si considera la fenomenologia politico-istituzionale del dominio capitalistico: democrazia (capitalistica) versus autoritarismo: due facce della stessa medaglia che possiamo fondatamente chiamare totalitarismo sociale – economico, politico, tecno-scientifico, ideologico, culturale, psicologico. È a partire da questa prospettiva che a mio avviso ha un senso politico, e non meramente ideologico (tanto che si tratti degli apologeti dichiarati del “modello occidentale”, quanto dei suoi detrattori tifosi del modello “asiatico”), riflettere sulla cosiddetta crisi della democrazia – magari per cogliere  «il legame tra centralizzazione capitalistica e assedio alla democrazia», come si legge nell’Introduzione del libro qui segnalato. Ma non divaghiamo troppo!

Che la tendenza del capitale mondiale a una sua sempre più spinta centralizzazione sia una “legge di sviluppo” operante come e più che ai tempi di Marx, che l’ha messa appunto in luce per primo e che l’ha concettualizzata nel suo reale significato storico-sociale in modo ancor oggi insuperato, chi scrive non ha dunque alcun dubbio e in merito ha pure scritto qualcosa nel 2012. Non si tratta di questo. Si tratta appunto della sua applicazione ai fatti reali, soprattutto per spiegare le cause ultime delle guerre moderne, che andrebbero ricercate, secondo gli autori del libro in questione, nell’antagonismo sistemico fra Paesi creditori (Cina in primis, ma anche la Russia e altri Paesi) e Paesi debitori (Stati Uniti e Unione Europea). Ora, mettere nello stesso cesto Russia e Cina a partire da una riflessione sulla centralizzazione capitalistica e sul rapporto antagonistico che lega Paesi creditori e Paesi debitori mi sembra quantomeno una forzatura concettuale e reale. Dice Brancaccio: «Questa svolta protezionista occidentale è uno dei fattori chiave della svolta militare russa, implicitamente avallata dai cinesi. L’obiettivo è lanciare un avvertimento a ovest: se continuate con il protezionismo, noi ci faremo strada con le armi. Non è la prima volta che accade, nella storia del capitalismo» (Huffington Post). Ma questo vale per la Cina, che per molti versi ha subito l’iniziativa russa, non per la Russia. Da decenni la Cina ha interesse a mantenere fluidi e liberi gli scambi commerciali e finanziari con il resto del mondo, rivendicando apertamente il ruolo di campione della globalizzazione, mentre l’imperialismo statunitense è stato costretto a implementare politiche economiche sempre più aggressive per difendere le sue posizioni di prima potenza capitalistica mondiale minacciate ormai da molto vicino dal Dragone. Per la Russia occorre invece fare un altro ragionamento.

Alla fine della Seconda guerra mondiale l’Unione Sovietica stabilisce con i suo “satelliti” dell’Europa Centro-Orientale un regime egemonico estremamente oppressivo, che include l’invasione militare dei Paesi che minacciano di allontanarsi dal centro gravitazionale moscovita, non perché è forte, ma perché è debole sul piano economico, e quindi non riesce a stabilire con i suoi “alleati” forti relazioni economiche che non contemplino una mera spoliazione economica. Di fronte alla forza attrattiva del capitalismo/imperialismo occidentale, l’Unione Sovietica, ancora alle prese con un capitalismo complessivamente arretrato, è costretta a mettere in campo il solo strumento in grado di attestare la propria superiorità nei confronti dei “Paesi fratelli”: quello militare, appunto. Mosca dedica moltissime risorse finanziarie, economiche e intellettuali (tecno-scientifiche) per rafforzare quello strumento, cercando di surrogare con la potenza militare la sua palese inferiorità sistemica nei confronti del cosiddetto “mondo libero”. Questo orientamento delle energie sociali in direzione del settore industriale-militare alla fine contribuirà in modo decisivo al collasso della Russia nella sua configurazione “sovietica”, Paese in crisi economica già dalla fine degli anni Settanta, e poi dissanguato dalla guerra in Afghanistan e dalla rincorsa al progetto statunitense, “mostruosamente” costoso, delle Guerre Stellari. La crisi di Chernobyl si abbatté con estrema violenza su un corpo già estremamente debilitato e assai traballante.

Gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra Fredda non perché fossero meglio armati dell’Unione Sovietica (e certamente lo erano, soprattutto sul piano qualitativo, tecnologico), ma perché erano capitalisticamente parlando assai più forti dei sovietici. La Germania, in effetti la vera vincitrice della Guerra Fredda, ha ottenuto la riunificazione del Paese nei suoi vecchi confini senza sparare un solo colpo di fucile, ma in virtù della sua potenza sistemica. Ha stravinto insomma il “modello capitalistico occidentale” sul modello capitalistico sovietico, a dimostrazione della natura radicalmente economica del fenomeno imperialista. Per mutuare un personaggio che forse non dispiace al professor Brancaccio, il potere di una nazione sta in primo luogo sulla ciminiera di una fabbrica, non sulla canna di un fucile.

Mutatis mutandis, la storia continua. Mosca nel 2013 ha capito di non poter più trattenere “con le buone” nella sua orbita imperialista (non più semplicemente imperiale) Kiev, attratta irresistibilmente dall’Unione Europea, non tanto e non solo dall’ombrello atomico della Nato. Vedremo alla fine del conflitto se il Cremlino ha fatto male i suoi calcoli sopravvalutando la forza economica, politica e militare della Russia e la stessa crisi dell’Occidente (spesso l’ideologia acceca anche chi la fabbrica), e se ha invece gravemente sottovalutato (come peraltro è successo anche dalle nostre parti subito dopo il 24 marzo del 2022) il nazionalismo ucraino, la sua capacità di resistenza, che intanto ha trovato in questa guerra l’occasione per irrobustirsi ulteriormente.

Chi mette in primo piano la capacità espansiva della Nato come causa principale dell’aggressione russa dell’Ucraina sottovaluta il ruolo della potenza economica nella politica imperialistica delle nazioni. Il regime moscovita ha sperato nel blitzkrieg, che avrebbe dovuto risolversi nel giro di qualche settimana in un colpo di Stato militare guidato dai generali ucraini che si sono formati a Mosca, non confidando sulla forza della Russia, ma a ragione, e mi scuso per la ripetizione del concetto, della debolezza sistemica di questo Paese.

A me pare, riservandomi però di ritornarci sopra dopo una più accurata lettura del libro, che la tendenza alla centralizzazione capitalistica sia in esso assolutizzata e disancorata dal reale processo sociale capitalistico che procede per tendenze e controtendenze, crisi ed espansione, e che dissolve sempre di nuovo gli equilibri precari che vengono a instaurarsi per un certo periodo, più o meno lungo, nella sfera economica come in quella politica e geopolitica. La stessa dialettica tra capitale industriale/commerciale e capitale finanziario, che ha come centro gravitazionale la legge del valore, ossia la creazione del valore attraverso lo sfruttamento del lavoro vivo, muta continuamente in senso quantitativo e qualitativo, con ciò che “dialetticamente” ne segue anche sul terreno della competizione interimperialistica tra le nazioni (2). Quando si valutano le cause di fondo di una guerra occorre sempre considerare l’insieme del groviglio problematico. Viceversa, si corre il rischio di applicare in modo del tutto semplicistico e meccanicistico il fondamentale concetto di centralizzazione capitalistica alla guerra in generale e alla guerra in Ucraina in particolare. Ma, ripeto, conto di ritornare con maggiore approfondimento analitico e critico (e, se del caso, autocritico) sulla questione.

Per Brancaccio «Nella storia del capitalismo ci sono anche esempi virtuosi di riequilibrio, come l’accordo di Bretton Woods, che funzionò attraverso concertazione dei tassi di cambio e controllo dei movimenti di capitale. Il problema è che a quell’accordo si giunse sotto spinta della minaccia sovietica e solo dopo due guerre mondiali. La questione è capire se ci si possa arrivare prima che le guerre scoppino». Questi passi misurano l’abissale distanza che separa la concezione (progressista?) del mondo di Brancaccio da un punto di vista autenticamente anticapitalista – e quindi antimperialista. Com’è noto, nel luglio del 1944 gli Stati Uniti escono da Bretton Woods con l’affermazione della propria supremazia capitalistica (finanziaria, industriale, commerciale) sul mondo intero, così come avevano dimostrato la loro superiorità militare sui campi di battaglia di mezzo mondo. Augurarsi la nascita di un nuovo e pacifico ordine mondiale, non importa di che tipo (monopolare, bipolare, multipolare, ecc.), non è una prospettiva che possa allettare l’anticapitalista. Tutt’altro discorso vale per il progressista più o meno “radicale”, più o meno “rivoluzionario”.  

A proposito di rivoluzione, gli autori della Guerra capitalista si augurano la nascita di «movimenti più rivoluzionari» per scongiurare la fine del mondo: «Forse è ora di contemplare anche l’eventualità che la fine del mondo possa scaturire proprio dalla sopravvivenza del capitalismo». Sottoscrivo non una ma mille volte! Tuttavia ho il sospetto che il concetto di “rivoluzione” che ho in testa io non abbia molto a che fare con quello che hanno in testa Brancaccio, Giammetti e Lucarelli. Ma è solo un sospetto, beninteso.

(1) K. Marx, Il Capitale, I, p. 686, Editori Riuniti, 1980.

(2) Ad esempio, alla fine degli anni Venti del secolo scorso Henryk Grossmann notò come in Germania, Francia, Inghilterra e Stati Uniti il rapporto tra l’industria e il credito bancario si fosse rovesciato a favore del capitale industriale, sempre più orientato all’autofinanziamento. «In questi ultimi [Stati Uniti] è piuttosto l’industria che domina le banche. L’industria mantiene grandi somme presso le banche o si crea persino propri istituti bancari, il cui compito consiste e sempre più consisterà nel trovare un investimento fruttifero per questi capitali» (H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, 1929, p. 532, Jaca Book, 1977).

UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE A PARTIRE DAL CASO COSPITO

Inizio subito con il dare la mia piena solidarietà umana e politica ad Alfredo Cospito, del cui orientamento politico-ideologico peraltro non condivido nulla. D’altra parte la mia avversione al 41 bis e all’ergastolo ostativo riguarda ogni tipologia di “rei” e di reati. Più in generale, non accordo alla giustizia capitalistica (o borghese, come si diceva una volta) alcuna giustificazione che non sia quella di essere al servizio dello status quo sociale, delle classi dominanti, del dominio sociale capitalistico. Qui evidentemente pulsa, per così dire, il concetto dello Stato come cane da guardia del sistema capitalistico. Questa bestia è pronta ad azzannare senza alcun riguardo chiunque osi creare problemi all’«ordine e alla sicurezza della nazione», ed è per questo che l’anticapitalista non può certo rimanere indifferente dinanzi alla pratica repressiva dello Stato, soprattutto quando essa si rivolge contro l’opposizione politico-sociale del Paese, per quanto essa possa essere, come lo è oggi, estremamente debole, minoritaria e “frastagliata”.

Sulla forma di lotta praticata da Alfredo Cospito, in carcere già da 10 anni, non ho nulla da dire, e tanto meno da obiettare, visto che si tratta di una sua decisione; posso solo dire che mi auguro il suo pieno successo, tanto più che egli dice di lottare, se ho capito bene (e mi scuso se ho capito male), anche per gli altri 748 detenuti che subiscono il regime speciale del 41 bis, non a caso definito da non pochi giuristi «una tortura democratica». L’esito infausto della sua lotta avrebbe in ogni caso come solo responsabile lo Stato che lo tiene in custodia. Va anche ricordato che il cambio di regime detentivo, con il passaggio di Cospito al carcere (più) duro, è stato deciso il 4 maggio 2022 dal precedente governo; questo per sottolineare la continuità del regime politico.

Scrivono Elton Kalica e Francesca Vianello (in difesa dello «Stato di diritto» e «dell’umanità della pena»): «Si tratta di una storia che si ripete nel tempo: dalla legislazione di emergenza degli anni Settanta, a quella pensata per le stragi di mafia degli anni Ottanta, fino alle disposizioni che pretendono di far fronte al cosiddetto terrorismo islamico, ci troviamo di fronte a quello che penalisti e sociologi hanno chiamato “diritto penale del nemico”: la previsione della possibilità della giustizia di dislocarsi in uno spazio altro rispetto ai confini che la definiscono, di negare se stessa e i propri principi, continuando comunque a definirsi giustizia» (Il Mulino). Ma di che giustizia stiamo parlando? Siamo proprio sicuri che la legislazione di emergenza passata, presente e futura contraddica il concetto di giustizia – e quello di diritto?

A mio avviso chi vede un’opposizione di principio tra la cosiddetta giustizia ordinaria, considerata “buona cosa”, come il corretto modo di “amministrare giustizia”, e giustizia cosiddetta eccezionale, ritenuta una grave rottura con lo Stato di diritto, una patologia all’interno della società democratica, non comprende come le due forme di giustizia condividono una stessa radice storico-sociale, come esse si presuppongano e si completino a vicenda. «Gli economisti borghesi vedono soltanto che con la polizia moderna si può produrre meglio che, ad es., con il diritto del più forte. Essi dimenticano soltanto che anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nel loro Stato di diritto» (K. Marx, Grundrisse). Il diritto, come la politica, ha la sua radice nell’esistenza del dominio di classe.

Se non si coglie la natura classista del diritto, si rimane impigliati in una concezione ingenua, illusoria e impotente del potere politico che trova una puntuale smentita e derisione nel reale processo sociale.

Questa breve e schematica riflessione va naturalmente estesa anche alla falsa opposizione tra carcere ordinario (“buono”) e carcere speciale o duro (“cattivo”): il problema è il carcere in quanto tale, come “istituzione totale” la cui genesi e realtà si spiegano benissimo appunto con la struttura classista della moderna società borghese, con il dominio di classe a prescindere dalla sua contingente espressione politico-istituzionale: democratica, autoritaria, totalitaria. «Ma chi sbaglia deve pagare!» Ma sbagliata (disumana, ingiusta, irrazionale, violenta, oppressiva) è in primo luogo la società! È con questa realtà che deve fare i conti il pensiero che non vuole farsi arruolare dall’ideologia dominante. Non si tratta di “relativismo etico”, né di astratto giustificazionismo: si tratta di osservare e giudicare i fenomeni sociali da un punto di vista radicalmente umano, ossia dalla prospettiva che individua nella divisione classista degli individui l’origine di ogni male. Non si tratta di giustificare un bel niente, come pensa la massa del gregge; si tratta piuttosto di capire con quale realtà siamo costretti a fare i conti tutti i giorni. E per capirlo occorre appunto rompere tutti i ponti con l’ideologia dominante, la quale, come diceva quello, è l’ideologia delle classi dominanti – anche e soprattutto quando sono gli “ultimi” a incarnarla.

Come ho scritto altrove, questa società produce sempre di nuovo fenomeni sociali che disturbano, diciamo così, il “normale” flusso della vita quotidiana, che entrano in conflitto con la “pace sociale”, creando problemi, contraddizioni e disarmonie d’ogni tipo, e che costringono lo Stato a mettere in campo una vasta gamma di provvedimenti repressivi: dai più blandi ai più duri, ma fatti tutti della stessa sostanza. La reclusione dei “rei” in luoghi afflittivi che chiamiamo carceri si colloca al centro del sistema punitivo di cui la società è capace, affinché tutti possano rendersi conto di dove può condurre una condotta particolarmente “criminosa”. Guarda dove potresti finire! Come dicono i bravi teorici del diritto, già il processo è per il (presunto) reo una pena, alla quale può poi aggiungersi la pena della detenzione. Il carcere come luogo di recupero è mera ideologia, e in ogni caso il recupero dei cosiddetti rei costituisce per questa disumana società un “bonus” aggiuntivo.

Perché «cosiddetti rei»? È una questione di prospettiva concettuale e politica. Dal mio punto di vista è la società, non il “reo”, che crea la possibilità, i presupposti oggettivi del “reato”, e quindi se dobbiamo per forza parlare di un colpevole, è alla società che dobbiamo guardare. Pensiamo ai reati connessi alle attività delle organizzazioni di “stampo mafioso”: sono concepibili queste attività altamente redditizie, che alimentano il fiume di denaro che scorre nelle vene di questa società, senza l’esistenza appunto del «denaro come merce universale», «come oggetto della brama di arricchimento» , «come ricchezza universale», «come potere sociale universale e sostanza della società»? La risposta è, ovviamente, no. Ecco perché il mio problema non sono, in modo particolare, gli imprenditori del settore illegale e criminale del capitalismo, bensì il rapporto sociale di dominio e sfruttamento di cui essi sono la puntuale e naturale (fisiologica, inevitabile) espressione. Non mi stancherò mai di dire e di scrivere che, posta la vigente società mondiale (non si tratta infatti di Italia o di qualsiasi altro Paese del pianeta), stabilire anche una seppur labile distinzione concettuale e reale tra “denaro sporco” e “denaro pulito”, tra “profitto illecito” e “profitto lecito” e così via di seguito è semplicemente ridicolo, e ha il solo significato di esibire una totale cecità e passività nei confronti del pessimo mondo che ci “ospita”.

Tra l’altro la gran parte delle persone “oneste” (quelle che non avrebbero nessun timore nel farsi intercettare dalle forze dell’ordine 24 ore al giorno: «Non abbiamo niente da nascondere, noi!»), crede nella sua infinita ingenuità che la legislazione orientata a combattere la criminalità organizzata non sarà mai applicata a chi ogni giorno fa “il suo dovere”: lavora, paga le tasse, paga le multe, non sporca, cura la famiglia, non si droga. E magari va pure a votare! Tra l’altro, l’applicazione alle organizzazione di “stampo mafiose” della legislazione eccezionale varata negli anni Settanta inizio Ottanta del secolo scorso per contrastare il terrorismo, dimostra che il diritto non conosce compartimenti stagni.

Il carcere è una tortura; il carcere duro è una doppia tortura che ha come evidente obiettivo quello di “stimolare” nel prigioniero” ravvedimenti” e “pentimenti” che devono tradursi in nomi e fatti criminosi documentabili. Se non parli, sei tumulato vivo. Non è difficile capire perché molti “pentiti” hanno inventato di sana pianta fatti e nomi da dare in pasto al carnefice – per poi magari ammettere, dopo dieci o venti anni, di aver accusato persone che non avevano commesso alcun reato. Sono i “danni collaterali” della lotta alla criminalità.

Il «carcere umano» è un cinico ossimoro, una contraddizione in termini, una bestemmia urlata contro l’umanità, contro la stessa possibilità di un assetto umano (umanizzato) della nostra esistenza. Splendida possibilità che postula la fuoriuscita dell’umanità dalla dimensione del dominio di classe.

Parlare di «umanità della pena» significa, che lo si voglia o meno, portare acqua al mulino della società che rende possibile ogni forma di oppressione, di violenza, di sopruso. Il carcere non va “umanizzato”, secondo i secolari auspici dei riformatori sociali, ma combattuto e denunciato per quel che è necessariamente: un luogo di afflizione fisica, psicologica, morale, esistenziale. Le violenze che la polizia penitenziaria esercita sui reclusi e il fiume in piena dei suicidi  in penitenziari ridotti a discarica sociale non contraddicono affatto la natura del carcere, tutt’altro. Questo ovviamente non significa rifiutare di battersi, qui e ora, per migliorare le condizioni di vita dei detenuti, tutt’altro; significa piuttosto dire la verità su questa escrementizia società che ha nel carcere una delle sue più odiose e rivelatrici creature. Significa non alimentare false speranze e non concedere a questa società crediti che essa non merita nel modo più assoluto.

 

DENARO CHI?

IL DELITTO DELLA PENA. UNA RIFLESSIONE SUL CARCERE

IL CARCERE E (È) LA SOCIETÀ

RISTRETTI ORIZZONTI. Breve riflessione sul carcere.

A CHE PUNTO È LA GUERRA

La violenza che dobbiamo fare all’avversario dipende
dalla grandezza delle reciproche pretese politiche.
K. Von Clausewitz, Della guerra.

Mentre tanto e ovunque si discute di Leopard 2, di Abrams M1, dei sistemi d’arma che l’Italia si appresta a spedire in Ucraina e dei modernissimi e potentissimi (così si dice) T-14 Armata che la divisione russa Taman potrebbe quanto prima schierare in quel martoriato Paese, io mi concedo “il lusso” della riflessione che segue.

«Il tavolo della pace resta una chimera nel conflitto ucraino» (Notizie Geopolitiche). Contrapporre la «soluzione militare» alla «soluzione politico-diplomatica» significa fare sfoggio di ingenuità, se non di vera e propria imbecillità politica. Sostenere che, come ha scritto recentemente il “realista” Lucio Caracciolo, «La guerra in Ucraina avrà una soluzione militare o non l’avrà» significa affermare un’assoluta ovvietà che solo gli ingenui o gli ipocriti possono provare a smentire. L’apertura del “tavolo della pace” che segue sempre alle guerre ha l’obiettivo di ratificare quanto i contendenti sono stati in grado di ottenere sul piano squisitamente militare. Non bisogna essere particolarmente intelligenti per capire questa elementare verità confermata da tutte le vicende belliche lontane e vicine. La guerra non conosce pareggi, per dirla in termini calcistici, ma solo vittorie e sconfitte – che poi i malcapitati di turno cercheranno di presentare all’opinione pubblica nazionale e internazionale come una “mezza sconfitta” o una “mezza vittoria”: anche i francesi e soprattutto gli italiani ci provarono a imbrogliare le carte nel Secondo dopoguerra, giocando al “tavolo della pace” la carta abbastanza truccata della “Resistenza”. Perfino lo sciovinista De Gaulle fu costretto ad ammettere, con marziale ironia, di non ricordare l’esistenza di tanti “antinazisti” nella Francia occupata dalla Germania. Il salto sul carro armato dei vincitori non è una specialità esclusivamente italiana. 

Quando Putin dice, per l’ennesima volta e sempre a uso interno («per giustificare i rovesci subiti dalle sue forze armate, è utile sostenere che stanno combattendo contro un nemico molto più grande», scrive Federico Rampini sul Corriere della Sera), che la Nato combatte ormai direttamente contro la Russia, egli afferma una verità che i suoi avversari occidentali smentiscono per ovvi motivi politici e propagandistici ma che sono i primi a riconoscere in tutta la sua portata. Il citato Rampini condanna senza appello chi «descrive gli aiuti della Nato come una partecipazione diretta alla guerra», e auspica che quanto prima gli Stati Uniti e soprattutto i Paesi europei abbandonino definitivamente la pericolosa «cultura del riarmo» che lascia l’Occidente in balìa delle fameliche mire espansionistiche della Russia e della Cina. «Poiché l’aggressione russa usa tattiche e tecniche che evocano la prima e la seconda guerra mondiale, il software non basta, ci vogliono gli scarponi sul terreno, i tank, le munizioni». Prendere nota, please. Ultimamente il Nostro ama vestire i panni dell’inflessibile difensore della Civiltà occidentale. Oriana Fallaci non ha seminato invano.

Sulla natura mondiale del conflitto che si combatte sulla pelle degli ucraini e dei russi (come sempre Mosca usa con estrema generosità i suoi soldati come carne da cannone) rimando al PDF che raccoglie i miei post dedicati a questo tema.

Scriveva Henry Kissinger: «La condizione preliminare per una politica di guerra limitata è la reintroduzione dell’elemento politico nel concetto di guerra e l’abbandono della nozione che la politica finisca quando la guerra comincia e che la guerra abbia fini suoi propri, distinti da quelli della politica» (Nuclear weapons and foreign policy, 1960). La guerra come continuazione della politica con altri mezzi: un classico che si porta benissimo anche ai nostri tempi. A sua volta la politica risponde a un insieme di interessi, contingenti e strategici, che hanno il loro centro di gravità nella struttura economica delle nazioni, che non a caso dà sostanza effettiva, al di là di ogni propaganda e di qualsivoglia velleità, al concetto di Potenza.

Lo stesso conflitto armato non è che un’espressione della guerra sistemica globale (o generale: economica, tecnoscientifica, geopolitica, ideologica) tra le potenze imperialistiche del pianeta, e come tale esso va considerato sul piano della riflessione politica.

Le divisioni e le contraddizioni che si sviluppano continuamente sul fronte occidentale su come sostenere le ragioni di Kiev (ma senza esagerare!) e bastonare quelle di Mosca (senza però volerla troppo umiliare né provocare!) sono l’espressione di divisioni e contraddizioni di lungo periodo che l’invasione russa dell’Ucraina ha ulteriormente esasperato e posto in piena luce. Ancora una volta si tratta soprattutto degli interessi strategici angloamericani e del ruolo che la Germania è chiamata (dal processo sociale mondiale) a recitare nel nuovo scenario geopolitico e geoeconomico. Washington e Londra inchiodano Berlino alle sue responsabilità politiche nell’ambito della difesa degli interessi (o “valori”) occidentali, sapendo benissimo che gli interessi economici dei tedeschi sono tutt’altro che sovrapponibili a quelli britannici e, soprattutto, statunitensi. La Germania ha fin qui fatto leva sulla propria indiscutibile capacità sistemica (economica e tecnoscientifica, in primis) per affermarsi come Potenza imperialista di tutto rispetto, in grado peraltro di vincere la Guerra Fredda senza sparare un solo colpo di cannone, e vorrebbe ovviamente continuare a muoversi lungo questa virtuosa strada. Il governo tedesco teme di venir strattonato ora dai francesi, ora dagli angloamericani; teme cioè di essere usato dagli “alleati” in termini tali da mettere in crisi una strategia che per la Germania si è rivelata appunto vincente oltre ogni rosea aspettativa – soprattutto se si pensa alle sue disastrose condizioni postbelliche.

Stringere eccellenti rapporti economici e politici con la Russia rientrava com’è noto in questa intelligente strategia che tanto irritava gli americani (dalla fine degli anni Sessanta in poi), costretti loro malgrado a supportare la vincente politica “pacifista” di Berlino  criticata da Washington con la solita lamentela: è comodo e assai profittevole affettando pose “pacifiste” potendo contare sulla micidiale potenza di fuoco dell’esercito americano! Anche perché all’ombra dell’atomica americana la Germania (insieme al Giappone) è diventata nel frattempo una rivale davvero temibile del capitalismo americano, che peraltro non ha lesinato sforzi nel tentativo di azzoppare la capacità espansiva del capitale tedesco – e giapponese, soprattutto a cominciare dalla seconda metà degli anni Settanta, arrivando perfino, agli inizi degli anni Novanta, a far balenare l’analogia tra il Made in Japan e il “proditorio” attacco giapponese a Pearl Harbour. Negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso l’ascesa del Celeste Capitalismo era ancora lontana da venire, anche se le premesse c’erano già tutte. In effetti, l’eccezionale sviluppo del capitalismo cinese ha di molto ridimensionato il peso specifico della Germania e del Giappone, oltre che quello degli Stati Uniti, of course. Possiamo senza troppo esagerare o sbagliare di un mondo prima e dopo l’ascesa della Cina ai vertici della competizione capitalistica (o imperialistica: due termini per lo stesso concetto e per la stessa realtà) mondiale.

Con la dissoluzione dell’Unione Sovietica la Russia è stata ricondotta dal processo sociale mondiale alla sua reale capacità sistemica, la quale si è dimostrata incapace di dominare la parte di Europa ottenuta alla fine del secondo macello imperialista con la forza delle armi e trattando con l’ex alleato americano. Com’è noto, Stalin aveva tentato l’impresa puntando sull’ex alleato nazista, con il pessimo risultato che conosciamo. L’esito della guerra in corso ci dirà se le velleità imperialistiche di Mosca devono subire un nuovo durissimo colpo. «La Russia deve essere sconfitta ma non umiliata»: queste sono solo chiacchiere che nascondono il timore di Parigi, Berlino e Roma di dover far fronte a una destabilizzazione della nazione russa dagli esiti imprevedibili.      

Prima di abbandonare il buon vecchio sentiero, la Germania farà di tutto per non lasciarsi tirare da una parte o dall’altra, sacrificando i suoi peculiari interessi nazionali sull’altare di presunti “valori occidentali condivisi”, all’ombra dei quali si nascondono gli altrui interessi nazionali, e se e quando ciò dovesse alla fine realizzarsi non è affatto certo che i suoi odierni “alleati” avranno di che festeggiare.

Scrive Enrico Oliari: «Ancora una volta Washington comanda e dall’Europa si ubbidisce. Così, invece di cercare la quadratura della pace, vera mission naturale dell’Unione Europea, nel conflitto ucraino arrivano ora i carri armati pesanti, cosa che comporterà senza dubbio l’azione simmetrica di Mosca» (Notizie Geopolitiche). Parlare di una Washington che comanda e di un’Europa che si limita ad ubbidire è quantomeno riduttivo, oltremodo semplicistico, e soprattutto è risibile sostenere che la «vera mission naturale dell’Unione Europea» sia «la quadratura della pace», concetto che può stare giusto nella testa degli apologeti dell’Unione Europea come polo imperialista unitario. Il presunto “pacifismo” dell’UE si spiega benissimo con i rapporti di forza stabiliti dalla Seconda guerra mondiale (vinta, com’è noto, dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica) e con gli interessi pelosissimi dei Paesi europei, i quali hanno saputo sfruttare sapientemente il bellicismo degli Stati Uniti. Chi per analizzare i complessi fenomeni geopolitici si serve dello schema ideologico Padrone-Servo sciocco (usatissimo dagli antiamericani di ieri e di oggi) è destinato a non capire la reale dinamica dei processi sociali che si danno su scala mondiale.

Scriveva il grande scienziato tedesco Werner Heisenberg: «Chiunque parli in favore della pace senza esporre con precisione le condizioni di questa pace non può andare esente dal sospetto di parlare soltanto di quel genere di pace che torni ad esclusivo vantaggio suo e del suo gruppo» (Fisica e filosofia, 1958). È difficile dargli torto, tanto più che nel capitalismo la parola “pace” ha un significato quantomeno ambiguo e certamente essa si presta facilmente alla propaganda e alla mistificazione.Tra l’altro mentre il fisico tedesco scriveva quelle parole in Europa (soprattutto in Italia) imperversavano i cosiddetti Partigiani della Pace devoti al noto pacifista Giuseppe Stalin.

Che oggi su tutti i giornali e in tutte le trasmissioni televisive dedicate al dibattito politico si evochi la possibilità di un conflitto mondiale combattuto anche con le armi atomiche, come se questa fosse appunto una possibilità fra le altre (tregua, conflitto congelato, trattativa diplomatica, guerra d’attrito, ecc.), ci deve far riflettere sul grado di disumanità raggiunto da questa società e, soprattutto, sul livello di assuefazione al paggio esibito dalla cosiddetta opinione pubblica mondiale. Civettiamo con l’Apocalisse Nucleare come se fosse la cosa più normale di questo mondo, e in effetti lo è, proprio perché abbiamo a che fare con una società strutturalmente (o radicalmente) violenta, oppressiva, irrazionale, in una sola parola: disumana.

Questo anche a proposito di “Giorno della Memoria”: lungi dall’essere state sradicate, le cause che resero allora possibile lo sterminio, organizzato scientificamente e con teutonica serietà, di uomini e donne, di vecchi e bambini sono più vive che mai, e nessuna persona che abbia un briciolo di coscienza critica può escludere, in linea di principio, la più nefasta delle loro conseguenze – magari tale da fare impallidire la stessa mostruosa vicenda che precipitò nell’abisso soprattutto gli ebrei, da secoli preziosa materia prima per i costruttori di capri espiatori e per chi è interessato ad alimentare il cieco odio sociale da usare contro la prospettiva dell’emancipazione umana da ogni forma di sfruttamento, di oppressione e di sofferenza. A proposito dei campi di sterminio nazisti Primo Levi parlò di «vergogna di essere uomini»; del resto, non è possibile autentica umanità nella società radicalmente disumana. Più che di memoria abbiamo insomma bisogno di coscienza critica, di un pensiero cioè che ci faccia comprendere l’essenza della Società-Mondo nel cui seno siamo stati gettati. Come ho scritto altre volte, a mio modo di vedere il male assoluto è l’esistenza della società classista, soprattutto oggi che il Dominio ha a disposizione strumenti di distruzione di massa in grado di fare impallidire l’inferno raccontato dagli scrittori d’ogni epoca.

Quanto ho appena scritto, mi consente di concludere affermando che  il concetto di pace ha il suo radicale opposto non nel concetto di guerra ma in quello di divisione classista degli esseri umani. La violenza, comunque concettualizzata (economica, politica, militare, psicologica, in una sola parola: sociale), ha infatti come suo fondamentale presupposto la società divisa in classi, il vigente rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento degli uomini e della natura. Non c’è pace senza umanità.

ANCHE L’IMPERIALISMO ITALIANO, NEL “SUO PICCOLO”, HA QUALCOSA DA DIRE

Ho appena finito di ascoltare su Radio Radicale l’intervento del Ministro degli Esteri Taviani alla Conferenza nazionale di Trieste L’Italia e i Balcani Occidentali: crescita e integrazione. Per Taviani «C’è una grande voglia di Italia nel mondo, soprattutto nei Balcani e in Africa, e sarebbe sciocco non cogliere questa grande opportunità». Secondo il Ministro «l’Italia deve sfruttare le sue capacità di apertura e di mediazione, la sua mentalità ostile al colonialismo [frecciatina ai francesi?]. Non si tratta solo di sventolare una bandiera, che pure ci fa piacere, ma di perseguire i nostri interessi nazionali. Dobbiamo fare squadra come sistema Italia: la politica, l’industria, il Parlamento, le regioni, le Organizzazioni non governative, la cultura, tutti questi mondi devono collaborare per difendere e ampliare la nostra presenza nei Balcani, soprattutto adesso che sono ritornate forti le tensioni tra Serbia e Kosovo. Hanno tentato di escluderci dai tavoli diplomatici ma non ci sono risusciti. Noi siamo portatori di pace. La nostra diplomazia economica può ancora dare molto non solo nei Balcani, ma anche in Ucraina, quando verrà il momento della ricostruzione. Anche per questo è importante il nostro sostegno a Kiev».

Taviani ha insomma illustrato bene la tradizionale politica estera dell’Italia, media potenza regionale da sempre molto attiva nei Balcani e in Nord’Africa, attivismo imperialista che spesso pone gli interessi di Roma in contrasto con quelli della Francia e della Germania.

Sul Domani di oggi Stefano Feltri parla di «colonialismo mascherato» commentando la visita di Giorgia Meloni in Algeria. In realtà il concetto corretto da usare è, appunto, quello di imperialismo, concetto ben sintetizzato nella formula «diplomazia economica» usata da Taviani, perché è l’economia il fondamento del fenomeno sociale che chiamiamo imperialismo. Soprattutto nel XXI Secolo economia e geopolitica sono intrecciate inestricabilmente, essendo le due facce della stessa medaglia. L’Eni, da Enrico Mattei in poi, illustra bene questo concetto. Ancora oggi, nelle’epoca della cosiddetta Intelligenza Artificiale (che tanto fa straparlare i feticisti della tecnologia), il nodo energetico rimane un fattore decisivo nella competizione tra le potenze e nei rapporti di forza internazionali, come ultimamente la guerra in Ucraina si è incaricata di testimoniare.

Per farla breve, anche nel caso dell’Italia non parlerei di «colonialismo mascherato» bensì di aperto imperialismo, sempre avendo in mente la “taglia geopolitica” di questo Paese.

Illustrando il cosiddetto Piano Mattei, la Premier italiana e Claudio Descalzi, Amministratore Delegato e Direttore Generale di Eni, hanno messo in evidenza con palese compiacimento le difficoltà che sta attraversando la Germania in materia di approvvigionamento di gas e petrolio: per una volta Roma si è dimostrata più lungimirante e attiva di Berlino sul piano geoeconomico.  Son soddisfazioni! Per gli italici patrioti, beninteso.

IRAN 2023. È L’ANNO DEL REGIME CHANGE?

La prospettiva sempre più realistica (che, beninteso, non offre nessuna certezza sul futuro) di un cambio di regime in Iran, nel breve o nel medio periodo, ha messo in luce le divisioni esistenti nell’opposizione iraniana, la quale non riesce ancora a darsi una piattaforma politica unitaria. La diaspora iraniana politicamente più attiva è divisa perlopiù in filo-monarchici sostenitori del figlio dell’ultimo Scià cacciato dall’Iran nel 1979, appoggiato nelle sue regali velleità dagli anglo-americani e dai sauditi, e in militanti/simpatizzanti del Mojahedin-e-Khalq (Mek), anch’essi non malvisti dagli americani, dai sauditi e dagli stessi israeliani. Scrive Nazanin, attivista politica d’opposizione all’interno del Paese: «I Mojahedin non sono l’anima della nostra rivoluzione. È vero che il Mek ha un’enorme disponibilità economica, è collegato a forti gruppi che possono influenzare le decisioni in molti paesi, ha un sistema propagandistico molto sviluppato. Ma non ha il favore del popolo, anzi suscita un certo odio diffuso tra la gente per il loro tradimento durante la guerra Iran-Iraq e per la loro alleanza con i sauditi. Possono però influenzare indirettamente il movimento, specialmente attraverso l’uso dei loro media. E la presenza dei loro affiliati, a mio parere, è pericolosa per il movimento: sono addestrati, sanno come strumentalizzare la rabbia del pubblico, incitare alla violenza. La loro storia prova che sacrificheranno tutto per raggiungere il loro scopo. Tuttavia, malgrado l’enorme sforzo, il loro peso è marginale» (Il Manifesto).

Sul fronte interno, e sempre per quel che è possibile saperne dall’esterno, la situazione dell’opposizione al regime è molto più interessante, complessa e “frastagliata”, anche se è possibile individuare due posizioni maggioritarie: quella che fa capo a coloro che non  vogliono saperne né dei nostalgici della monarchia (solo pronunciare la parola Savak, dal nome della sanguinaria polizia segreta dal 1956 agli ordini diretti di Reza Pahlavi, mette i brividi) né dei Mojahedin del Popolo nella loro versione rivista e corretta (ma non troppo), associati ad un passato che soprattutto i più giovani vogliono lasciarsi alle spalle. Qualche giorno fa a Teheran sul muro di una casa è comparsa la scritta Né con gli Ayatollah né con lo Scià! «Dietro la retorica di certa destra monarchica iraniana (anche o soprattutto all’estero) a base di “Uniamoci” si va profilando un progetto di opposizione all’attuale regime, ma intriso di ostilità diffidenza, esclusione nei confronti delle donne, delle minoranze sessuali, dei gruppi etnici non persiani. E di aperta ostilità (premessa di future repressioni) verso la sinistra rivoluzionaria e i dissidenti in genere» (Osservatorio Repressione).

L’altra posizione è incarnata dalle minoranze etniche del Paese che oggi rappresentano il cuore pulsante del movimento di lotta antiregime, tanto più nel momento in cui quel movimento attraversa un momento di comprensibile stanchezza nei maggiori centri urbani. È evidente che le rivendicazioni autonomiste, se non addirittura separatiste, delle minoranze iraniane avranno un peso tutt’altro che marginale nel futuro assetto politico-istituzionale dell’Iran post Repubblica Islamica – posto ovviamente che un simile futuro si realizzi davvero, cosa che a oggi è tutt’altro che scontata.

In questo contesto, qui brevemente tratteggiato, è tutt’altro che trascurabile il pericolo che alle classi subalterne iraniane venga ancora una volta chiesto un contributo in termini di sacrifici e di sangue per sostenere cause ostili ai loro specifici interessi economici, politici, sociali. È soprattutto in simili congiunture politico-sociali che si apprezza in tutta la sua portata la necessità dell’autonomia di classe dei lavoratori, dei disoccupati, dei senza riserve, dei diseredati, insomma dei proletari. E naturalmente non sto parlando solo dell’Iran. Come ho scritto nei precedenti post dedicati al movimento sociale che si batte dallo scorso 16 settembre contro la Repubblica Islamica, è sulla base di questa elementare quanto fondamentale considerazione che personalmente osservo con estremo – ma tutt’altro che acritico e ingenuo – interesse ciò che accade in Iran.

IL PUNTO SULL’IRAN

INFERNO IRANIANO

L’IRAN TRA CONFLITTO SOCIALE E GEOPOLITICA

SULLA “RIVOLUZIONE” IRANIANA

SI FA PIÙ FEROCE LA GUERRA DEL REGIME IRANIANO CONTRO I MANIFESTANTI

IRAN. LA LOTTA CONTRO IL REGIME NON SI ARRESTA

CON I RIBELLI IRANIANI! CONTRO IL REGIME OMICIDA DEGLI AYATOLLAH!

CADE ANCORA UNA VOLTA IL VELO DEL REGIME SANGUINARIO

IRAN. OGGI E IERI

 

UMANO, FIN TROPPO UMANO. PRATICAMENTE UNA PARODIA DI UMANITÀ

Il guaio era che non esisteva ancora un metodo sicuro per riconoscere le creature (H. Kuttner, Quelli fra noi).

Leggo sul Riformista di ieri:

«A Nick Cave hanno fatto leggere il testo di una canzone scritta “nello stile di Nick Cave” dal software di intelligenza artificiale ChatGpt commissionata da un utente. E Re inchiostro ha sentenziato: “Una schifezza, una grottesca presa in giro di ciò che significa essere umani”. Il musicista e compositore, autore tra i più prolifici e raffinati al mondo ha dato il suo parere sul sito The Red Hand Files. L’intelligenza artificiale è stata rilasciata lo scorso novembre daOpen AI, in grado di generare testi di ogni genere, dalle sceneggiature alle poesie, anche imitando gli stili degli autori. E Mark da Christchurch, in Nuova Zelanda, ha scritto alla newsletter di Cave: “Ho chiesto a Chat Gpt di scrivere una canzone nello stile di Nick Cave e questo è ciò che ha prodotto. Cosa ne pensi?”. E gli ha mandato il testo della canzone: “Sono il peccatore, sono il santo / sono il buio, sono la luce / sono il cacciatore, sono la preda / sono il diavolo, sono il salvatore”. Una specie di caricatura insomma. E infatti Cave ha definito Chat Gpt un esercizio di “replica come parodia”. Senza mezzi termini insomma. “L’orrore emergente dell’AI ci spinge verso un futuro utopico, forse verso la nostra totale distruzione. Chi può dire quale? A giudicare da questa canzone ‘nello stile di Nick Cave’, però, non ha un bell’aspetto, Mark. L’apocalisse è a buon punto”».

Come ho scritto nei miei post dedicati al feticismo tecnologico, l’orrore non emerge tanto dalla cosiddetta Intelligenza Artificiale, quanto essenzialmente dalla società mondiale dominata da rapporti sociali disumani e disumanizzanti. Si tratta infatti di rapporti sociali di dominio (economico, politico, ideologico, culturale, psicologico) e di sfruttamento (degli esseri umani e della natura). Più che Artificiale, l’Intelligenza è Capitalistica. Non c’è nessun futuro distopico e distruttivo che ci aspetta, caro Nick: il futuro è già qui, e ormai da un bel po’.

Della società di ricerca OpenAI di San Francisco avevo scritto qualcosa su un post dello scorso giugno: UMANO, FIN TROPPO UMANO.

P.S. Il commento non è stato scritto da Chat Gpt nello stile di Sebastiano Isaia, non più che una pessima caricatura del noto comunista di Treviri.

Leggi: Sul potere sociale della scienza e della tecnologiaIo non ho paura – del robotRobotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significareCapitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salarialeAccelerazionismo e feticismo tecnologico

CINA. INIZIA MALE L’ANNO DEL CONIGLIO?

«Avanzare con grande slancio»: nel suo discorso alla nazione di fine anno il Presidente cinese Xi Jinping aveva citato il poeta Su Shi (dinastia Song, 960-1279, epoca di grandi invenzioni e di prosperità economica) per infondere fiducia nella popolazione cinese, una parte della quale è uscita letteralmente stremata dai tre anni di politica Zero-Covid. L’orwelliana politica dello Zero-Covid è stata abbandonata dal regime nel giro di 24 ore semplicemente perché era diventata capitalisticamente insostenibile. Insostenibile tanto sul piano strettamente economico quanto su quello sociale. Rallentamento dell’economia, caos in molti e importanti centri industriali e nella logistica, ribellismo sociale diffuso come reazione allo spietato controllo sociale, rabbia crescente nei confronti di un Partito-Regime che tratta le persone come materia prima industriale (non a caso Pechino ha scelto di vaccinare subito la fascia di popolazione cinese in età lavorativa, sacrificando i più anziani) e nasconde loro i dati sulla pandemia. Come sempre il regime crea il nemico esterno (la propaganda si indirizza soprattutto sugli Stati Uniti e sul Giappone, colpevoli di non voler accettare la realtà del «socialismo con caratteristiche cinesi») contro il quale indirizzare la rabbia della popolazione, ma la diffidenza nei suoi confronti si fa sempre più diffusa, tanto più che l’economia cinese conosce una frenata impensabile fino a qualche anno fa.

Secondo i dati delle Dogane cinesi pubblicati a inizio gennaio, l’export cinese ha segnato un crollo annuo del 9,9% (le stime davano un -10% dopo il -8,7% di novembre), in calo per il terzo mese di fila a causa della debole domanda internazionale, l’alta inflazione e le rotture in diversi punti della supply chain. A dicembre la Cina ha fatto registrare un surplus commerciale di 78 miliardi di dollari, in calo sui 93,7 miliardi dello stesso mese del 2021, ma meglio dei 76,2 miliardi attesi alla vigilia dagli analisti. «Anche le importazioni sono diminuite di nuovo a dicembre, con un calo del 7,5%, dopo il calo del 10,6% del mese precedente. Sia le importazioni che le esportazioni sono calate molto di più di quanto previsto da un sondaggio condotto da Bloomberg tra gli economisti. […] La ripartizione geografica del surplus commerciale rivela che il Paese con cui la Cina ha incrementato maggiormente il proprio commercio è la Russia (+34,3% rispetto al 2021), mentre nel caso degli Stati Uniti l’aumento è stato del 3,7% e in quello dell’America Latina dell’11%. I due partner più importanti hanno continuato a essere due gruppi sovranazionali, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Asean), con cui il commercio è aumentato del 15% rispetto al 2021, e l’Unione Europea (UE), con cui il commercio è cresciuto del 5,6% » (Agi).

Ieri è stato comunicato il dato relativo alla crescita del Pil cinese per il 2022: un magrissimo 3%. Magrissimo ovviamente in rapporto alle opulente cifre a cui il capitalismo cinese ci aveva abituati negli anni scorsi, basti pensare al +8,1% del 2021. Il governo aveva fissato un target del 5,5% mentre gli analisti si aspettavano un dato ancora peggiore: 2%. «Se si esclude il 2020 che fu frenato dallo scoppio della pandemia, il risultato economico del 2022 per la Cina è il peggiore dal 1976, quando il Paese pagava ancora il caos della Rivoluzione culturale» (G. Santevecchi, Il Corriere della Sera). Un’altra notizia preoccupante per il sistema capitalistico cinese arriva dal fronte demografico.

«”La Cina rischia di invecchiare prima di diventare ricca”, hanno avvertito da tempo economisti e sociologi. La previsione si sta avverando: la popolazione cinese si è ridotta di 850 mila unità l’anno scorso, per effetto del calo drammatico delle nascite che secondo gli esperti è ormai irreversibile. I cinesi oggi sono 1,411 miliardi, ha rilevato l’Ufficio nazionale di statistiche di Pechino. […] Era successo solo nel 1961 che i decessi superassero le nascite, ma in quell’anno di disgrazia la Cina pagava il prezzo della carestia innescata dal fallimentare “Balzo in avanti” industriale ordinato da Mao, che causò milioni di morti per fame. Seguì un baby boom che Pechino fermò nel 1979, imponendo la famigerata “legge sul figlio unico”, abolita solo nel 2015» (Il Corriere della Sera). Quello che fa più impressione è il trend della decrescita: 9,56 milioni di nascite  l’anno scorso rispetto ai 10,6 milioni del 2021, ai 12 milioni del 2020, ai 14,6 del 2019.

Com’è noto, il trend demografico cinese è su un sentiero declinante da almeno un decennio, ed è per questo che nel 2015 è stata appunto abolita la politica del figlio unico introdotta nel 1979. Si tratta dell’espressione di una maturità capitalistica, conosciuta da molto tempo in Occidente e in Giappone, che non può destare una certa apprensione nel regime. La popolazione cinese sta infatti invecchiando rapidamente, visto che la popolazione in età lavorativa diminuisce all’anno di 8 milioni mentre la popolazione anziana aumenta attualmente di 12 milioni l’anno. Il saldo di natalità è quindi fortemente negativo, e questo ha conseguenze negative in molti aspetti della società cinese considerata nel suo insieme. Basti pensare al sistema pensionistico, al finanziamento del welfare, al calo della domanda in diversi settori industriali e dei servizi, alla riconfigurazione degli assetti urbani. Occorre considerare dalla prospettiva demografica anche l’attuale rapporto città-campagna. Ma il problema fondamentale, in prospettiva, legato al cosiddetto inverno demografico afferisce naturalmente il sistema produttivo del Paese, che non può certo privarsi di un’abbondante esercito industriale sempre pronto a soddisfare i bisogni dell’accumulazione capitalistica. Esperti cinesi valutano in 170-260 milioni la popolazione in età lavorativa che potrebbe mancare all’appello nei prossimi trent’anni, e che potrebbe venir rimpiazzata dalle macchine “intelligenti”, cosa che, sempre secondo quegli esperti, obbliga la Cina a investire nei prossimi anni capitali straordinariamente ingenti nella “Quarta rivoluzione industriale”.

Il «sogno cinese» di cui parlò il Carissimo Leader nel 2013 non pare insomma attraversare un momento felice. Intanto «i compagni nel fronte sanitario patriottico di tutta la Cina» sono mobilitati nello sforzo di gestire la nuova politica antipandemica basata questa volta sulla ricerca dell’immunità di gregge da conseguirsi quanto più rapidamente possibile: da un estremo all’altro, dunque, e sempre avendo a cuore solo il benessere del popolo. Vedremo con quali risultati.

Ovviamente Pechino invita a guardare il bicchiere mezzo pieno: «Non è stato facile per l’economia cinese resistere alle difficoltà e raggiungere un nuovo record nel volume totale della produzione [120 mila miliardi di yuan], nonostante le conseguenze negative portate da molteplici fattori, come l’instabilità della situazione geopolitica, l’aumento dei rischi di contrazione dell’economia mondiale e la proliferazione dell’epidemia al suo interno. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale, nel 2022 la crescita del PIL di Stati Uniti e Giappone non supererà il 2%. A livello globale, nel 2022 il tasso di crescita del PIL dell’economia cinese sarebbe superiore a quello della maggior parte delle principali economie, a testimonianza di una forte resilienza ed vitalità. Nel nuovo anno, sebbene il contesto internazionale si stia ancora evolvendo in modo complesso, l’economia globale non stia guadagnando abbastanza slancio e le basi per la ripresa economica interna non siano ancora sufficientemente solide, l’economia cinese confida in un miglioramento generale, grazie alle solide basi materiali accumulate da tempo, ai punti di forza del suo enorme mercato, ai dividendi continuamente rilasciati dal rafforzamento del processo di riforma e apertura, e alla sua ricca esperienza nel controllo macroeconomico. Possiamo citare le parole dell’imprenditore e investitore di fama internazionale Lars Tvede in una recente intervista: “la Cina rappresenta ancora il fattore principale per la crescita globale”» (Quotidiano del Popolo Online, 18/1/2023).

La Cina come cuore pulsante della globalizzazione capitalistica sembra essere ancora il mantra propagandistico preferito dal Partito Capitalista Cinese. Perché non essere ottimisti, tanto più che siamo nell’Anno del Coniglio.

FOGLIO BIANCO PER IL CARO LEADER

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