Questa guerra ci sta insegnando che c’è sempre un
dolore peggiore dietro l’angolo. Quanto dolore può
sopportare il cuore umano? (Oleksandr Mykhed).
Lo spirito di Monaco
Un anno fa l’esercito russo aggrediva l’Ucraina con l’ordine tassativo di prendere Kiev nel giro di pochi giorni e di provocare un immediato cambio di regime – la cosiddetta “denazificazione”, colossale balla propagandistica che ha molto eccitato i vetero e i neo stalinisti di casa nostra. Mosca ha usato le minoranze etniche russe del Donbass e della Crimea, certamente discriminate e vessate (soprattutto sul piano linguistico e culturale) dal nazionalismo ucraino (1), come scusa per autorizzare interventi militari contro l’Ucraina, colpevole agli occhi dell’imperialismo russo di voler entrare nella sfera di influenza del cosiddetto mondo occidentale. Si tratta probabilmente dell’ultimo tentativo che Mosca può mettere in campo per evitare il definitivo slittamento dell’Ucraina verso Ovest. Ci riuscirà? Un insuccesso potrebbe aprire altre falle non solo all’interno del proprio cortile di casa, ma anche dentro gli attuali confini della Federazione Russa. Che per mantenere nella sua sfera di influenza i Paesi confinanti la Russia è costretta a usare lo strumento militare come principale forza attrattiva e dissuasiva, questo la dice lunga sulla debolezza strutturale (economica, tecnoscientifica) dell’imperialismo russo, anche in questo in continuità con il suo passato “sovietico”. Non bisogna essere dei “marxisti” per capire che la potenza sistemica di un Paese si fonda in primo luogo sulla sua potenza economica, e su questo aspetto il capitalismo russo, da Stalin a Putin, esibisce debolezze, contraddizioni, inefficienze e magagne di vario tipo che ne azzoppano la capacità di competere con i capitalismi ben più strutturati e sviluppati sotto tutti i punti di vista. Non è la Nato, in primo luogo, che minaccia la Russia ma la superiorità del capitalismo europeo e statunitense – e, potenzialmente, cinese.
Com’è noto la pretesa del Cremlino si è presto capovolta in un fallimento di proporzioni strategiche, e la “guerra lampo” iniziata il 24 febbraio 2022 si è trasformata in una lunga guerra “vecchio stampo” di cui non si riesce ancora a scorgere nemmeno l’inizio della fine. Putin intanto ammassa truppe e mezzi al confine con l’Ucraina per la prevista “seconda invasione” di primavera. Prevedere un’ulteriore escalation militare e un incremento della già fin troppo abbondante carneficina è fin troppo facile.
La Cina persevera nella sua “ambiguità strategica”, linea politica che le consente di muoversi liberamente sullo scacchiere della contesa giocando di rimessa, almeno fin quando l’esito della guerra rimarrà incerto. Certamente pesano sul suo comportamento “ondivago” le relazioni commerciali che il gigante asiatico ha con gli europei (700 miliardi di euro di interscambio commerciale) e con gli Stati Uniti (2). Il ministro degli Esteri cinese Wang Yi ha annunciato a Monaco una prossima «iniziativa di pace» ad opera di Pechino. «Questa guerra non può continuare. Bisogna dare una chance alla pace». Non si conosce la reazione dello spettro di John Lennon… Zelensky ha subito fatto sapere che per lui non esistono esiti accettabili del conflitto che non prevedano «la vittoria ucraina sul campo di battaglia», un messaggio forte e chiaro lanciato soprattutto ai suoi alleati europei e statunitensi.
Vittorio Emanuele Parsi, professore di Relazioni internazionali nella facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha messo in luce il legame che indubbiamente stringe insieme la guerra in Ucraina e la crisi taiwanese: «Se la Russia dovesse prevalere in Ucraina possiamo firmare adesso che ci sarà una corsa verso il conflitto a Taiwan. Quindi è fondamentale mandare il messaggio giusto a tutti, oltre che difendere un principio su cui non ci possono essere compromessi» (Il Giornale). Ovviamente si tratta del punto di vista del cosiddetto Occidente; un punto di vista che mette in luce la dimensione mondiale della guerra che si combatte con le armi sul suolo ucraino.
«Nel frattempo, il Pentagono ha inviato il sottosegretario per gli affari cinesi, Michael Chase, a Taiwan. Scordiamoci di Sun Tzu e ricordiamo i classici latini: si vis pacem, para bellum. (M. Liconti, Il Giornale). È lo spirito di Monaco, lo spirito del tempo.
Alla ricerca di un punto di vista indipendente sulla guerra
Come tradurre il punto di vista disfattista, internazionalista e antimperialista che ho cercato di elaborare nel corso dell’ultimo anno in una concreta linea politica da praticare in Ucraina e in Russia, ossia in una specifica situazione sociale? A questa domanda non so rispondere, di più: non voglio rispondere, semplicemente perché non vivo in quei due Paesi. Potrei cavarmela ripetendo slogan presi in prestito dal glorioso passato del movimento operaio, ma sarei ridicolo più che velleitario. Solo chi è presente in quelle due realtà può infatti avere chiaro il quadro della situazione; può cioè valutare bene il rapporto di forza fra le classi, le dinamiche interne ai rispettivi regimi, la “dialettica” interna alle classi dominanti, la condizione psicologica dell’esercito e della popolazione e così via; e su questa base formulare la linea politica d’azione più adeguata alla realtà. Non basta conoscere attraverso libri e riviste la storia, lontana e recente, della società di un Paese, per ricavarne delle corrette indicazioni politiche da “calare” nella sua concreta realtà, tanto più quando si tratta di fronteggiare un evento di eccezionale importanza com’è indubbiamente una guerra, la quale mette in gioco moltissime vite e genera inaudite sofferenze.
Ciò di cui personalmente sono assolutamente certo riguarda invece la natura storico-sociale del conflitto militare in corso in Ucraina: si tratta di un conflitto (ancora) localizzato sul terreno squisitamente militare che è parte di una guerra sistemica (economica, tecnoscientifica, geopolitica, ideologica) ben più vasta, di proporzioni mondiali. Poco importa, a mio avviso, se quel conflitto ha avuto immediatamente, già a partire dal 24 febbraio del 2022, questo connotato o se lo ha assunto nel corso del tempo; ciò che importa è la sua attuale configurazione sociale e politica: si tratta, appunto, di un evento maturato all’interno della competizione capitalistica/imperialista mondiale, e come tale esso va spiegato e valutato. Credo che su quest’analisi di fondo l’anticapitalista che osserva dall’esterno la situazione in Ucraina e in Russia e l’anticapitalista che vi agisce dall’interno debbano pensarla allo stesso modo.
Ad esempio, nessuno mi convincerà che il punto di vista politico qui abbozzato possa tradursi nello specifico ucraino in un sostegno, ancorché “tattico e critico”, offerto allo Stato ucraino, al suo esercito, all’alleanza imperialista che con armi e denaro difende gli interessi della nazione ucraina. La nazione è una realtà storica, politica e sociale ultrareazionaria e ostile agli interessi delle classi subalterne, e che tale rimane anche quando lotta per non farsi ingoiare da una potenza imperialista – mentre per sopravvivere magari essa “sceglie” di finire nelle viscere della potenza imperialista nemica del suo nemico, perché di questo si tratta nella realtà geopolitica del XXI secolo: altro che diritto di autodeterminazione dei popoli e delle nazioni! Parlare del «diritto degli ucraini di scegliere la Nato» o di «necessità di fare dell’Ucraina un Paese neutrale» significa appunto, e senza entrare nel merito (nella fattibilità) delle due “opzioni”, assumere il punto di vista del nemico di classe. Dal mio punto di vista non esiste un popolo ucraino (o russo, o italiano, ecc.) astrattamente inteso: esistono classi sociali, mezze classi, e stratificazioni sociali di ogni genere portatrici di interessi materiali che si esprimono attraverso le più disparate fenomenologie politico-ideologiche. È proprio quando si tratta di fronteggiare le grandi crisi sociali che il concetto borghese di Popolo acquista una connotazione ideologica particolarmente incline alla mistificazione. Nazione, Patria, Popolo: contro questi Moloch politico-ideologici l’anticapitalista si trova a dover combattere ovunque nel mondo.
Il fatto che oggi le classi subalterne ucraine aderiscano con entusiasmo al nazionalismo e al patriottismo significa che ieri gli anticapitalisti ucraini non hanno saputo o potuto farsi ascoltare. Ma questa è una sconfitta politica che sento come mia, che mi riguarda, che mi appartiene in quanto proletario anticapitalista, internazionalista e antimperialista. Il proletariato rivoluzionario non ha nazione, ed è per questo che vuole dire la sua su quanto accade in ogni parte del mondo, tanto più che esso è stato unificato dal rapporto sociale capitalistico.
Lo stesso discorso va dunque applicato anche alla Russia e a tutti i Paesi coinvolti a vario titolo in questo conflitto, a cominciare dall’Italia. Qui da noi il proletariato non ha mostrato alcuna sensibilità nei confronti della popolazione ucraina e dei soldati ucraini e russi che muoiono per difendere interessi che sono estranei e ostili alla loro esistenza. Il nazionalismo è un micidiale veleno che riguarda le classi subalterne di tutti i Paesi, grandi, medi o piccoli che siano.
Anche in questo conflitto le ideologie sono messe al servizio degli opposti interessi imperialistici, e non giocano alcun ruolo autonomo, al contrario di quanto invece sostengono diversi intellettuali europei – come il filosofo sloveno Slavoj Žižek, secondo il quale «la guerra tra Russia e Ucraina va inquadrata come parte di un conflitto ideologico globale, in cui lo stesso Vladimir Putin sta stringendo amicizia con altri regimi autoritari per creare un nuovo asse di potere globale ultra-conservatore» (Meduza). Qui siamo ancora dentro la logica dello scontro di civiltà; logica che appare tanto più infondata e reazionaria alla luce di un fatto che per me è incontestabile: il mondo del XXI secolo ha a che fare con una sola civiltà, quella che vede il Moloch capitalistico al centro della scena. Io vedo agire nel mondo un solo, gigantesco e mostruoso Asse del Male: l’imperialismo unitario. Chi tifa per l’Occidente, magari a guida europea e non più statunitense, e chi tifa per l’Oriente, magari a guida cinese, sono insomma parte del problema che arreca sofferenze e minacce d’ogni genere all’umanità, a cominciare da quella parte di umanità che per vivere è costretta a vendere sul mercato una capacità lavorativa di qualche tipo.
Assumere il punto di vista nazionale (o nazionalista che dir si voglia: ciò che conta è la sostanza politica della cosa) dell’Ucraina e dei Paesi europei Centro-Orientali non significa fare dell’antimperialismo “concreto”, tutt’altro: significa, il concetto merita a mio avviso di venir ribadito, difendere il punto di vista delle classi dominanti di quei Paesi e dello schieramento imperialistico di cui essi fanno parte, esattamente come fanno gli ultrareazionari (perlopiù vetero o neo stalinisti nostalgici della Guerra Fredda e tifosi del Celeste Imperialismo) che difendono il punto di vista dell’imperialismo russo. Si tratta di due facce di una stessa medaglia, la quale ha, come scrivevo appena sopra, un nome preciso: imperialismo unitario. Imperialismo unitario in un duplice senso: abbiamo a che fare con una sola gigantesca e mostruosa struttura sociale altamente violenta, contraddittoria e conflittuale; tutti i Paesi del mondo sono coalizzati contro l’umanità, in generale, e contro le classi subalterne in particolare. Paesi grandi, medi e piccoli non sono che nodi di una gigantesca, fitta e complessa rete di relazioni economiche e sociali informate dal rapporto sociale capitalistico di produzione, un rapporto di dominio e di sfruttamento dell’uomo e della natura che necessariamente genera sempre di nuovo catastrofi d’ogni genere: dai conflitti armati alle pandemie, dalle crisi economiche devastanti alla distruzione dell’ambiente naturale ridotto a mera risorsa da sfruttare sempre più scientificamente. Come si vede il problema qui discusso non ha una natura puramente o principalmente geopolitica, ma una natura essenzialmente (radicalmente) storico-sociale.
Non esiste oggi un imperialismo meno imperialista degli altri, per così dire; un imperialismo che meriti di venir sostenuto “strumentalmente” e “tatticamente” (come blaterano le solite mosche cocchiere): la teoria del nemico principale non aveva senso ieri e non ha senso a maggior ragione oggi, nel XXI secolo, nell’epoca del dominio totale e totalitario (qui il concetto di globalizzazione impallidisce) del Capitale, dei rapporti sociali capitalistici.
«È tutto nel sangue, è tutto nella memoria», ha scritto Oleksandr Mykhed, uno scrittore ucraino che si è arruolato come volontario nelle forze di difesa territoriale locali. Ma la memoria da sola non sempre, anzi piuttosto raramente, orienta il pensiero nella giusta direzione, così che possa afferrare il vero significato del sangue versato ad opera del carnefice di turno. Lo vediamo a proposito delle guerre lontane e vicine, per non parlare dello sterminio degli ebrei e degli altri individui «indegni di vivere» portato avanti con metodi capitalisticamente razionali. Se la coscienza anticapitalista non ha modo di illuminare la memoria indirizzandola verso la corretta prospettiva, corriamo sempre il rischio di passare da un orrore senza fine a una fine piena di orrore.
Utopie di seconda e terza mano? No, trattasi di chimere
Cito da Le Condizioni Economiche per la Pace, un appello di stampo neokeynesiano «promosso da Emiliano Brancaccio e Robert Skidelsky e sottoscritto da autorevoli esponenti della comunità accademica internazionale»: «È trascorso un anno dall’inizio del conflitto in Ucraina e nulla sembra indicare che i venti di guerra si stiano affievolendo. Perché la guerra continua? Perché le tensioni militari aumentano a livello globale? Noi respingiamo la tesi di uno “scontro di civiltà”. Piuttosto, occorre riconoscere che le contraddizioni del sistema economico globale deregolamentato hanno reso le tensioni geopolitiche estremamente più acute». Si vuol forse sostenere la bontà di un «sistema economico globale» regolamentato, anziché «deregolamentato»? Andiamo avanti: «Uno dei principali guasti dell’attuale sistema mondiale risiede nello squilibrio delle relazioni economiche ereditato dall’era della globalizzazione deregolata». Ecco rispuntare il – presunto – vizio d’origine, la causa dei «guasti» e delle contraddizioni che spingono verso una carneficina mondiale l’«attuale sistema mondiale»: la «globalizzazione deregolata». Ma è poi possibile anche solo pensare l’esistenza di un capitalismo che non crei sempre di nuovo squilibri economico-sociali d’ogni genere? È certamente possibile se si respinge come falsa la tesi marxiana, che personalmente sostengo, secondo la quale il concetto stesso di capitale postula la disarmonia del e nel processo economico, che avanza appunto tra squilibri, contraddizioni, sperequazioni e quant’altro. Di qui il concetto marxiano di crisi capitalistica, la quale rientra nella fisiologia del capitalismo: «le crisi sono sempre e soltanto delle temporanee e violente soluzioni delle contraddizioni esistenti». Ma di qui anche il concetto, elaborato soprattutto da Lenin contro tutte le teorie armoniciste e pacifiste del suo tempo, di sviluppo ineguale del capitalismo, realtà che riguarda anche la relazione tra i Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta, e non solo la relazione Nord-Sud, per usare un linguaggio superato dal tempo. Nella competizione intercapitalistica nessuna posizione predominante, anche in singoli settori economici (che si tratti di industria, di commercio o di finanza), è acquisita per sempre, ma deve sempre essere difesa e per quanto possibile rafforzata e ampliata. O si avanza o si indietreggia, oppure si scompare a vantaggio dei rivali: di qui il concetto fondamentale, valorizzato anche da Brancaccio e colleghi, di centralizzazione capitalistica. Come mi capita spesso di scrivere, e di questo mi scuso con chi mi degna della sua attenzione, il capitale ha una natura espansiva, aggressiva, conflittuale, totalitaria (in un’accezione squisitamente sociale e non politologica) che nessuna forza (a cominciare da quella che può dispiegare lo Stato) è in grado di dominare e ancor meno di eliminare senza eliminare il rapporto sociale che lo fonda sempre di nuovo. Il capitalismo è un modo di produzione imperialista (nell’accezione prima delineata) per necessità e vocazione, e non ha dunque alcun fondamento, tanto sul terreno sociale quanto su quello geopolitico, la speranza di costruire una società capitalistica pacificata. E questo ci riporta all’appello qui preso di mira.
L’appello continua riprendendo la tesi del conflitto tra Paesi creditori e Paesi debitori esposta da Brancaccio, Giammetti e Lucarelli ne La Guerra capitalista e da me commentata su un post dell’8 febbraio.
Citazione finale: «Per avviare un realistico processo di pacificazione, è oggi dunque necessaria una nuova iniziativa di politica economica internazionale. Occorre un piano per regolare gli squilibri delle partite correnti, che si ispiri al progetto di Keynes di una international clearing union (3). Lo sviluppo di questo meccanismo dovrebbe partire da una duplice rinuncia: gli Stati Uniti e i loro alleati dovrebbero [sic!] abbandonare il protezionismo unilaterale del “friend shoring”, mentre la Cina e gli altri creditori dovrebbero [risic!] abbandonare la loro adesione al libero scambio». Il grande Massimo Troisi avrebbe detto: «Mo’ me lo segno, me lo segno proprio!» «Siamo consapevoli di evocare una soluzione di “capitalismo illuminato” che venne delineata solo dopo lo scoppio di due guerre mondiali e sotto il pungolo dell’alternativa sovietica. Ma è proprio questo l’urgente compito del nostro tempo: occorre verificare se sia possibile creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale, prima che le tensioni militari raggiungano un punto di non ritorno».
Siamo a mio avviso dinanzi a una proposta “pacifista” che oltre ad essere ultrareazionaria sul piano politico, perché non mette minimamente in questione l’esistenza del capitalismo e dell’imperialismo, ossia la causa delle moderne guerre, e perché accredita come condizione pacifica la mera assenza del conflitto armato; oltre ad essere ultrareazionaria quella proposta rivela una concezione oltremodo ingenua del processo sociale mondiale. Altro che «realistico processo di pacificazione»: al confronto è più realistica l’idea della rivoluzione sociale anticapitalista su scala mondiale, che è poi la sola strada percorribile per «creare le condizioni economiche per la pacificazione mondiale», una pacificazione che presuppone il superamento della dimensione classista della società: non è infatti possibile un’autentica pace nella realtà che conosce la divisione classista degli individui. Più che di «capitalismo illuminato», che è esistito ed esiste solo nella testa degli economisti illuminati e progressisti, peraltro già abbondantemente bastonati criticamente da Marx e da Engels, dovremmo piuttosto parlare di capitalismo fantasticato.
Tra l’altro, rivendicare un’economia capitalistica mondiale (perché di questo si tratta, e di nient’altro) più regolamentata, più pianificata e meno “selvaggia” significa sostenere di fatto un’ulteriore rafforzamento dello Stato capitalistico, cane da guardia dello status quo sociale su scala locale (nazionale) e planetaria. Ma è ovvio che questo giudizio ha un significato “dottrinario” e politico solo per gli anticapitalisti, e certamente non per chi ha scritto e per chi sostiene Le Condizioni Economiche per la Pace. Sostiene infatti Brancaccio in un intervista rilasciata all’Identità: «Contro le tesi dei marxisti, Keynes riteneva che fosse possibile salvare il capitalismo dalle sue dinamiche più perniciose e distruttive, guerra inclusa. Che i fatti gli abbiano dato ragione oppure no è questione aperta, e nostro malgrado sta tornando alla ribalta. L’attuale aggravamento delle tensioni militari a livello mondiale sarà un nuovo, tremendo banco di prova, anche per verificare se nel mondo ci sia ancora spazio per un capitalismo “illuminato” di stampo keynesiano» (intervista all’Identità). Nulla di nuovo sotto il cielo sul piano “dottrinario”, verrebbe da dire ripensando a quanto ebbe a dire Lenin nel dicembre del 1915: «In particolare, in Kautsky l’evidente rottura con il marxismo ha assunto la forma non dell’apologia dell’imperialismo, ma del sogno di un capitalismo “pacifico”» (4). Inutile dire che per chi scrive quel “sogno” ha la sostanza di un incubo. Naturalmente non intendo accostare Brancaccio a Kautsky nella sua famigerata qualità di “traditore” del marxismo, giudizio che peraltro a mio avviso non coglie la reale parabola teorica e politica della socialdemocrazia tedesca ed europea, ma solo al suo «sogno di un capitalismo “pacifico”».
Scrive il filosofo francese Edgar Morin, autore del saggio appena uscito Di guerra in guerra (Raffaello Cortina Editore): «Il Donbass russificato dovrebbe essere riconosciuto nella sua specificità: solo una Ucraina federale potrebbe integrarlo, non l’Ucraina attuale. Quale che sia l’esito politico per il suo territorio, l’industria del Donbass potrebbe dipendere da un condominio russo-ucraino. Le città portuali come Mariupol, e anche altre, potrebbero diventare dei porti franchi come lo fu Tangeri. In breve, io non faccio altro che indicare delle possibilità di un compromesso, che è necessario in ogni guerra dove non ci siano né vincitori né vinti». Ma la storia ha mai conosciuto una sola guerra dove non ci siano stati né vincitori né vinti? Per quanto ne so un simile risultato bellico non si è mai verificato, ma naturalmente posso sempre sbagliarmi. Tra l’altro sulle «vere responsabilità» del conflitto in Ucraina il filosofo francese la pensa esattamente come Silvio Berlusconi (che non riesce a nascondere le sue simpatie per l’autocrate di Mosca e le sue antipatie per il Presidente ucraino), non a caso salito straordinariamente nella considerazione dei putiniani di casa nostra. Paradossi della storia? Nient’affatto: sviluppi logici e “dialettici”, trattandosi di personaggi egualmente escrementizi. Ben sapendo che presso gran parte dell’opinione pubblica italiana la guerra in Ucraina non gode di alcun consenso, il leader di Forza Italia ha cercato di intercettare in chiave elettorale un po’ degli umori popolari, pare con scarsi risultarti. In compenso il ministro degli Esteri Antonio Tajani si è visto costretto a correre ai ripari rassicurando gli ucraini e gli alleati del G7: «La posizione del governo italiano a difesa dell’Ucraina e in favore di una pace giusta non è mai cambiata».
«Non credo che questa guerra diventerà uno di quei conflitti congelati. Credo che una parte vincerà e un’altra sarà sconfitta. E credo che l’Ucraina sconfiggerà la Russia». Lo ha detto il ministro degli Esteri ucraino Dmitro Kuleba a Monaco. Ovviamente i russi credono che alla fine (quando? come?) sarà invece la Russia a prevalere, non solo sull’Ucraina ma sull’intero Occidente. Quasi nessuno crede insomma che la partita bellica possa chiudersi con un “pareggio”. Secondo Cesare Martinetti la soluzione proposta da Morin al momento appare più utopica che realistica. Ma è questo il compito dei grandi vecchi: miscelare utopia e realismo» (La Stampa). Buona miscelazione, allora! Quanto ad “utopia”, continuo a preferire la mia, anche se non ne vuole sapere di diventare un po’ – solo un pochino! – più realista, probabilmente perché considera di gran lunga più fantasmagoriche le altrui “utopie” – che sarebbe forse meglio chiamare chimere. Nella mia “concezione del mondo” l’utopia è la Comunità umana (umanizzata) che ancora non c’è, ma che potrebbe vedere la luce poste determinate condizioni e circostanze; la chimera è invece una mostruosità, una bizzarria fabbricata dalla testa di qualcuno che non ha alcun fondamento sociale nel passato e nel presente.
E a proposito di chimere presentate in guisa di utopie, per il presidente dell’Acli Emiliano Manfredonia, “teorico” della Pace Integrale, bisogna «abolire la guerra per sempre, a prescindere, così da far trionfare la fraternità e la giustizia» (Avvenire). E soprattutto senza abolire, diciamo così, il capitalismo. Vade retro Marx! «Vasto programma», avrebbe detto qualcuno. Vasto e soprattutto “poco realistico”, mi permetto di aggiungere con un briciolo – solo un briciolo – di ironia.
Anche il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini coltiva la stessa “utopia pacifista”: «Sono sinceramente preoccupato – e contrariato – da un summit europeo che oggi, anziché esplorare tutte le possibilità per arrivare a un negoziato di pace in Ucraina, si occupa solo di quali e quante armi fornire a Kiev. Se vogliamo abbiamo anche un obiettivo utopico: quello di affermare che per dare un futuro al nostro pianeta la guerra va cancellata, va superata del tutto come strumento di regolazione dei rapporti tra le persone e tra gli Stati. Anche perché quello che non può essere taciuto è che siamo sull’orlo del baratro di una guerra nucleare. Un rischio che può mettere a repentaglio la vita stessa del genere umano sul pianeta. Mobilitarsi per la pace, allora, non è né velleitario né illusorio, ma rappresenta il massimo di realismo che si può mettere in campo. L’Europa – che proprio sulla pace si è ritrovata e unita dopo la seconda guerra mondiale – ha in questo percorso una responsabilità ancora più grande» (Avvenire). L’”utopia pacifista” è dunque affidata all’Europa, il cui “pacifismo”, è sempre bene ricordarlo, ha avuto come suo fondamento non l’adesione a un astratto ideale, non una presa di coscienza eticamente fondata, ma la vittoria delle due superpotenze imperialistiche (Stati Uniti e Unione Sovietica) uscite vincitrici dal Secondo macello mondiale. Se si vuole comprendere la natura della postura “pacifista” dell’Europa (e del Giappone), e quindi capirne le interne contraddizioni e le tendenze di sviluppo non si può prescindere dal prendere in considerazione quanto appena affermato. Tifare per il “pacifico” imperialismo europeo significa portare acqua al mulino della guerra, semplicemente perché si dà forza a una componente fondamentale del sistema imperialistico mondiale qual è appunto l’Europa.
Guerra alla guerra
L’unità che il cosiddetto Occidente ha esibito a Monaco è soltanto un’unità di facciata, propagandistica, che comunque non riesce a nascondere le profonde divisioni esistenti tra gli europei e gli statunitensi, come tra i diversi Paesi europei, sia fra quelli appartenenti al nucleo forte centrale (Germania, Francia, Italia), sia fra questi e i Paesi che un tempo orbitavano intorno all’Unione Sovietica, i quali per ovvie ragioni costituiscono la punta di lancia più robusta e avanzata dello schieramento antirusso. Per Macron «Se l’Europa vuole difendersi, deve armarsi». «Il presidente francese ha poi lanciato l’idea di una conferenza sulla difesa aerea in Europa, una delle vulnerabilità nel Vecchio continente. (G. Sarcina, Il Corriere della Sera). Parigi non smette di sognare la nascita di un imperialismo unitario europeo a guida franco-tedesca. Miliardi di euro dovranno dunque essere spremuti alle classi subalterne d’Europa in vista di un rafforzamento degli eserciti europei. La corsa al riarmo riguarda tutti i maggiori Paesi del mondo, e anche l’Italia, “nel suo piccolo”, dovrà fare la sua parte, anche per poter rivendicare con qualche probabilità di successo una sedia al futuro “tavolo della pace”. La guerra economica che i governi europei fanno ai lavoratori europei per crescere in potenza militare non è diversa, qualitativamente parlando, dal conflitto armato vero e proprio: l’una prepara l’altro. Nel capitalismo la “pace” è la continuazione della guerra con altri mezzi, e viceversa. La cosa appare tanto più evidente oggi a proposito della guerra in Ucraina, quando l’invio di armi a Kiev è accompagnato dalle “pacifiche” sanzioni economiche contro Mosca. Sanzioni che in qualche modo si ripercuotono pesantemente anche sulle nostre condizioni di vita.
Ecco perché in Italia e in Europa essere contro la guerra in Ucraina significa battersi contro l’invio delle armi a Kiev (dando per scontata la solita sciocca quanto menzognera critica di chi sostiene le ragioni dell’Ucraina e del cosiddetto Occidente: «Ma allora oggettivamente fate il gioco di Mosca!»), contro l’intera strategia bellica (militare ed economica), contro il riarmo, contro i sacrifici imposti dal militarismo. Significa esprimere solidarietà incondizionata alla popolazione ucraina che si trova nel tritacarne bellico, senza dimenticare i giovani russi mandati dal regime putiniano a morire a migliaia – si parla di duecentomila morti. Significa insomma auspicare l’unione fraterna dei proletari ucraini e russi, contro gli opposti interessi nazionali e gli opposti patriottismi. La patria, in Ucraina, in Russia, in Italia e ovunque nel mondo, è la galera materiale, spirituale e psicologica delle classi subalterne: bisogna combatterla, non amarla e difenderla. È questo il vero antidoto contro il mare di veleno ideologico che accompagna la propaganda guerrafondaia.
È da questa peculiare prospettiva, oggi estremamente minoritaria (dalle mie parti le illusioni e l’”ottimismo della rivoluzione” stanno a zero!), che a mio avviso occorre accostarsi al legittimo e spontaneo sentimento pacifista di chi dalla guerra ha solo da perdere e nulla da guadagnare. Il “pacifismo” di chi auspica un capitalismo più “umano” e “illuminato” lo lascio volentieri ai (cosiddetti) realisti.
(1) Va detto che lo stesso Zelensky, appena diventato Presidente dell’Ucraina, riconobbe come fondato il “disagio” delle minoranze russe che vivevano nel Paese, e auspicò l’approvazione di leggi intese a risolvere il problema con un “accettabile compromesso”, cosa che gli attirò le aspre critiche dei nazionalisti ucraini, i quali lo accusarono apertamente di essere un servo al servizio del Cremlino. L’aggressione russa ha ovviamente mutato radicalmente i termini del problema.
(2) Dal Quotidiano del Popolo Online del 13 febbraio 2023: «Mentre le relazioni tra Stati Uniti e Cina devono ancora scongelarsi dopo anni di crescenti tensioni, i legami commerciali bilaterali si stanno espandendo, con il valore delle importazioni e esportazioni che ha raggiunto un nuovo massimo lo scorso anno. La Cina ha mantenuto la sua posizione come terzo partner commerciale degli Stati Uniti per le merci nel 2022, rappresentando il 13% del commercio totale, dopo il Canada, con il 14,9%, e il Messico con il 14,7%, indicano i dati diffusi martedì 7 febbraio dal Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. “L’approfondimento mostra che le forze economiche sono più forti dei discorsi politici”, ha dichiarato mercoledì al China Daily Gary Hufbauer, un docente anziano ed esperto di commercio presso il Peterson Institute for International Economics di Washington, DC. “L’economia statunitense è molto forte e le aziende statunitensi hanno bisogno di ottenere beni intermedi e finali da fornitori affidabili che offrano alta qualità e prezzi bassi. Ciò significa Cina”, ha affermato. Il valore delle esportazioni di merci statunitensi verso la Cina è aumentato di 2,4 miliardi di dollari su base annua, raggiungendo un livello record di 153,8 miliardi di dollari, con un aumento delle importazioni di 31,8 miliardi di dollari per raggiungere i 536,8 miliardi di dollari lo scorso anno, indicano i dati statunitensi. Il commercio bidirezionale di merci tra le due maggiori economie mondiali è salito a 690,6 miliardi di dollari l’anno scorso, superando il record stabilito nel 2018, secondo il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti».
(3) «Piano di riforma del sistema monetario internazionale presentato nel luglio 1944 alla Conferenza di Bretton Woods dall’economista J.M. Keynes, capo della delegazione inglese. Il piano, che si contrapponeva a quello sostenuto dalla delegazione statunitense guidata da H.D. White, prevedeva la creazione di una stanza di compensazione internazionale (international clearing union), nella quale ogni Paese avrebbe accumulato saldi attivi (riserve) o passivi (indebitamenti) in ragione dei saldi di bilancia dei pagamenti. Attività e passività presso la stanza sarebbero state denominate in una nuova unità di conto, il bancor. Il piano comprendeva limiti e penalizzazioni sull’accumulo sia di riserve sia di debiti, rendendo cosi il sistema simmetrico e scoraggiando l’insorgere di squilibri esterni nei Paesi partecipanti (a quell’epoca, principalmente gli Stati Uniti). Secondo il piano di K., la stanza avrebbe funzionato come una banca centrale, con facoltà di espandere l’offerta di bancor in rapporto alle necessità dell’economia internazionale» (Treccani). In realtà Keynes si fece interprete degli interessi britannici che andavano nel senso di un riequilibrio della posizione internazionale della Gran Bretagna, ormai surclassata su tutti i piani dagli Stati Uniti, la cui egemonia imperialistica (militare, industriale, finanziaria, tecnoscientifica, ideologica) trovò a Bretton Woods una sua puntuale conferma.
(4) Lenin, Prefazione all’opuscolo di Bukharin L’economia mondiale e l’imperialismo, p. 110, Opere, XXII, Editori Riuniti, 1966. «Si può negare che sia astrattamente “concepibile” una nuova fase del capitalismo che segua quella dell’imperialismo. No. Astrattamente si può concepirla. In pratica però ciò significa diventare un opportunista che nega i problemi acuti del presente in nome di sogni su problemi futuri non acuti» (p. 111).