LA MARCIA DEL DEMOFASCISMO SULL’ACROPOLI

grelezLa Disordinata riflessione su Antifascismo e anticapitalismo di qualche giorno fa ha suscitato presso qualche lettore questo tipo di perplessità: «Bene l’anticapitalismo. Ma perché essere indifferenti nei confronti del fascismo? Perché non combatterlo, magari sul terreno che esso predilige, ossia la violenza?». La perplessità è benvenuta perché mi permette di chiarire un punto importante riguardante la scottante faccenda.

Lungi dal condividere qualsiasi forma di indifferentismo per ciò che riguarda i fenomeni sociali in generale, e il fenomeno fascista in particolare, sono piuttosto fra i cultori della materia, se così posso esprimermi, nel senso che da sempre cerco di studiare la genesi storico-sociale del fascismo, per capirne le cause lontane e immediate, materiali e ideologiche, politiche e psicologiche.

Ad esempio, la psicologia di massa del fascismo (come peraltro quella della democrazia e dello stalinismo) mi intriga assai, soprattutto in quanto sintomatologia delle contraddizioni sociali e, cosa che a me interessa particolarmente, dell’impotenza delle classi dominate, ridotte appunto alla condizione di masse manipolate sotto ogni rispetto: da quello organico a quello spirituale, da quello somatico a quello psicologico.

Trovo molto istruttivo leggere Mein Kampf di Hitler, non per cercarvi le patologiche perversioni del noto vegetariano assetato di sangue giudaico, ma per capire il momento storico che l’ha trasformato nel «tamburino» della potente tendenza sociale che gli stava dietro: «l’irresistibile supremazia del potenziale industriale» (W. Adorno, Minima moralia). Sotto quest’aspetto, consiglio di leggere I due volti della Germania, un interessantissimo libro scritto nel 1932, alla vigilia dei noti eventi, dal giornalista americano H. R. Knickerbocker.

Quando la crisi capitalistica si acuisce, il conflitto sociale, sempre latente in questa società piena di antagonismi d’ogni sorta, si radicalizza, e alla fine trova la sua espressione politico-ideologica, magari attraverso un sindacato, come accadde in Polonia nei primi anni Ottanta con Solidarność, oppure in guisa di movimento politico-ideologico neonazista, come sta accadendo oggi in Grecia e in altri Paesi del Vecchio Continente. In ogni caso la materialità del processo sociale trova sempre la sua fenomenologia politico-ideologica, e il pensiero critico-radicale, per mantenersi all’altezza della complessità sociale, non deve mai perdere i nessi che legano la fenomenologia alla sua essenza.

Ad esempio, e così ci avviciniamo al focus della questione, quel pensiero non può farsi distrarre dal folcloristico razzismo della Lega Nord al punto da perdere la strada che conduce alla sua radice materiale, al suo momento genetico: il peculiare sviluppo capitalistico italiano, dal 1861 in poi, naturalmente nel suo necessario rapporto con i processi storico-sociali mondiali – vedi la geopolitica del Vecchio Continente post-muro di Berlino e l’ulteriore accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica. Oggi è facile cogliere il rapporto che insiste fra il gap sistemico Nord-Sud del Paese e le “istanze” leghiste, ma vent’anni fa si correva il rischio di passare per filo-leghisti se si metteva in primo piano nell’analisi del fenomeno in questione, non gli sguaiati slogan antimeridionali di Umberto Bossi e dei suoi verdi accoliti, ma lo sviluppo ineguale del Capitalismo dentro e fuori i confini nazionali, con tutte le conseguenze, anche d’ordine psicologico (“sentirsi” più tedeschi o più tunisini a ragione della ricchezza prodotta e consumata), a esso necessariamente correlate. Chi non voleva correre il rischio di passare per un “legista oggettivo”, nei primi anni Novanta doveva fare un solenne giuramento antileghista, che postulava di individuare nei rozzi Lumbard il nemico numero uno dell’umanità. Poi venne Berlusconi… E poi arrivò anche Monti…

anazzSostenere che il fascismo non è che una delle forme politico-ideologiche del Dominio sociale capitalistico, non significa rimanere disarmati dal punto di vista politico nei confronti dei movimenti fascisti – parlo di quelli veri, non di quelli immaginari. Significa piuttosto contrastarli, con tutti i mezzi necessari, non nel nome della democrazia, o per “ripristinare” la democrazia, ossia l’altra faccia della cattiva medaglia, ma in quanto espressione degli interessi delle classi dominanti, o di una parte di essi. Questo significa respingere alla radice l’idea, ultrareazionaria, secondo la quale dinanzi al fascismo la lotta di classe “pura” deve fare un passo indietro: si tratta invece di spingerla due passi in avanti, proprio perché quel fenomeno ci testimonia la radicalizzazione del conflitto sociale, con tutto ciò che la cosa presuppone e pone. Non si abbandona, di fatto, il terreno classista proprio quando il processo sociale ci sfida apertamente confermando la tesi secondo la quale al peggio non può esservi fine, nel Capitalismo.

L’antifascismo interclassista, alla partigiana, tanto per intenderci, per un verso non estirpa le radici sociali del fascismo, e per altro verso consegna le classi subalterne nelle mani delle fazioni capitalistiche vincenti, che magari sono le stesse che prima hanno aizzato il cane fascista contro i lavoratori, i disoccupati, gli immigrati e via di seguito. Proprio l’antifascismo interclassista del PSI rafforzò politicamente e ideologicamente il movimento fascista nella sua fase genetica, mentre indebolì fortemente la capacità di resistenza del proletariato agli attacchi demofascisti  della
borghesia liberale ed ex liberale del Bel Paese.

Il problema non è, in primo luogo, il cane, ma la mano che lo tiene saldamente al guinzaglio, e che lo usa quando c’è bisogno di “lavorare sporco”. E del cane, che ne facciamo? Occorre difendersi dai suoi morsi, è ovvio, ma senza dimenticare la potenza sociale che la malabestia serve. Solo in questo modo la difesa diventa un attacco, per dirla con il maestro di Wing Chun Ip Man.

arAltro che Insieme in Europa per la democrazia, come recita l’appello dei politici e degli intellettuali antifascisti radunati oggi ad Atene! Piuttosto insieme in Europa e nel mondo contro il Capitalismo, contro la sua crisi e contro il Leviatano posto a sua difesa, qualunque sia la sua contingente coloritura politica: democratica, fascista, neostalinista – in Grecia i nipotini di Stalin sono ancora molto forti, e la crisi rischia di irrobustirli ulteriormente. È su questa base che, a mio avviso, occorre lavorare per la costruzione di un associazionismo di classe “a 360 gradi”: politico, “economico”, culturale e quant’altro; il solo in grado di togliere dall’attuale stato di impotenza gli strati sociali subalterni e di rispondere adeguatamente all’associazionismo antiproletario del tipo di quello promosso ad esempio in Grecia da Alba Dorata.

Ovviamente su questo terreno ci si scontrerà anche con i fascisti. Ma su questo terreno, non su quello della democrazia o della «difesa dei diritti dell’uomo» (oscena ideologia che cela la reale disumanità della Civiltà capitalistica: vedi, come Eccezione che rivela la Regola, l’ennesima “strage degli innocenti” di ieri a Newtown), ossia sul terreno delle classi dominanti.

Proprio l’antifascismo interclassista può diventare un eccellente cemento ideologico per tenere insieme gli strati sociali più azzannati dalla crisi (occhio soprattutto ai ceti medi in via di rapida proletarizzazione), i quali, in mancanza di un’alternativa autenticamente anticapitalistica, rischiano di venir reclutati, tragica coazione a ripetere, dagli opposti ma socialmente convergenti eserciti: di qua i fascisti, di là gli antifascisti. In mezzo, schiacciata come sempre, la possibilità dell’emancipazione di tutti e di ciascuno.