BALCANI. SFIDE E OPPORTUNITÀ PER L’ITALIA

south_streamSu un post del marzo 2014 facevo notare la crescente presenza nell’Europa dell’Est del capitale battente bandiera italiana (sempre al netto dei limiti che una tale locuzione ha nell’epoca del Capitalismo Globale del XXI secolo). Oggi ho letto un interessante articolo di Matteo Tacconi, animatore di Rassegna Est, pubblicato lo scorso 5 novembre sull’Unità e dedicato ai Balcani considerati come una ghiotta opportunità per le imprese italiane. Soprattutto, mi permetto di aggiungere, nel momento in cui l’economia tedesca globalmente considerata (vedi i due casi più discussi nelle ultime settimane: Deutsche Bank e Volkswagen) sembra accusare qualche battuta d’arresto: se non ora, quando?

Quasi a voler invogliare gli italici imprenditori a investire nell’altra sponda dell’Adriatico, Tacconi ricorda quanto quell’area del vasto mondo sia vicina al Belpaese: «Gorizia, fondamentalmente, è un’unica città con Nova Gorica. Le separa solo un ormai flebile confine di stato. La frontiera slovena lambisce anche Trieste, da cui in poco più di cinque ore d’auto si arriva a Belgrado. Da Otranto, quando soffia il vento giusto, si intravedono le montagne dell’Albania. Persino da Ancona, dove l’Adriatico è più largo, si può scorgere la costa oltre il mare. Quella croata, in questo caso. Questo per dire che i Balcani sono molti vicini all’Italia».

Piccola parentesi autobiografica. Della vicinanza dei Balcani personalmente feci esperienza nel 1999, quando imbarcato su un rimorchiatore d’altura chiamato a offrire supporto logistico a una piattaforma petrolifera italiana piantata al largo di Brindisi (piattaforma Aquila, se non ricordo male), ebbi modo di vedere l’intenso traffico di uomini, di donne (destinate al noto antico mestiere), di sigarette, di armi, di droghe e di quant’altro si svolgeva fra la disastrata Albania, ultimo avamposto europeo dello stalinismo più miserabile, oppressivo e chiuso (cosa che si spiega anche con gli appetiti geopolitici dei “compagni” dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia) e il nostro Paese. Era un periodo in cui ci si chiedeva se l’Albania rischiasse di fare la fine della Somalia: «Il paese delle Aquile veniva presentato fino a poche settimane fa come un Eldorado per gli imprenditori italiani», scriveva Nicolò Carnimeo nel 1997, «e adesso rischia di crollare sulla Puglia» (Limes). Poi le cose sono cambiate, e anche l’Albania è diventata terra di investimento per il Made in Italy. Ma si tratta ancora di poca cosa! Nel suo piccolo il nostro Capitalismo può e, dice Tacconi, deve fare di più, non solo nella nostra ex colonia ma in tutta l’area balcanica, erroneamente associata «al concetto della polveriera». Chissà poi perché…

Sarebbe riduttivo, osserva Tacconi, ragionare solo in termini di vicinanza geografia: «Il rapporto tra l’Italia e gli otto paesi che affollano la penisola balcanica – intesa in quest’occasione come l’ex Jugoslavia più l’Albania – è anche [!] di natura economica.  La regione è stata e ancora è un formidabile terreno di conquista per l’impresa italiana, anche grazie ai costi produttivi bassi [soprattutto per ciò che riguarda il “capitale umano”: quant’è bello il “capitale umano” a basso costo!*]. Da un’analisi della banca dati Ice/Reprint, un’efficace “visura” sulla presenza economica italiana all’estero, emerge che al dicembre 2013 c’erano nei Balcani 1116 aziende partecipate da imprese italiane. Davano lavoro a 40.908 persone e generavano un fatturato pari a 5,9 miliardi di euro. Numeri che divengono strabilianti se paragonati a quelli totalizzati dalle imprese italiane operanti in Cina: 1268 partecipate, 64049 lavoratori, 7,8 miliardi di fatturato. L’ex Jugoslavia e l’Albania valgono quasi quanto la seconda potenza mondiale quanto a proiezione economica all’estero».

balcaniLa Cina è molto interessata ai Balcani, ma non tanto come potenziale mercato di sbocco per le sue merci a basso costo, e solo in parte per le risorse minerarie che pure quella regione possiede e che non possono lasciare indifferente  un’economia perennemente affamata di materie prime, nonostante il recente rallentamento; Pechino guarda ai Balcani soprattutto alla luce del suo progetto strategico in campo logistico chiamato Nuova via della seta, suggestiva etichetta che ha l’evidente intenzione di evocare il percorso che un tempo battevano i mercanti occidentali per raggiungere il quasi mitico Celeste Impero. Si parla della costruzione di importanti infrastrutture finanziata con capitale cinese: porti, aeroporti, linee ferroviarie ad alta velocità (ad esempio fra Belgrado e Bucarest), autostrade, e così via. Su questo terreno il capitale italiano non può certo competere, ed è per questo che esso deve puntare su una penetrazione economicamente più “leggera”, dinamica e sofisticata, cosa che la porterà sempre più a confrontarsi con la concorrenza tedesca, austriaca e francese. Su questo versante il Made in Italy può sperare di competere alla pari con i suoi concorrenti e financo di vincere qualche importante partita, come difatti è successo nel recente passato.

Ma, come si dice, non son tutte rose e fiori, anche perché la crisi economica internazionale degli ultimi anni si è fatta sentire in entrambe le sponde dell’Adriatico**, senza contare la recente crisi degli immigrati e dei rifugiati che rischia davvero di gettare benzina su un tessuto sociale già abbastanza surriscaldato. Scrive Tacconi: «La Slovenia è stata a un passo dal bailout, la Croazia ha avuto sei anni consecutivi di recessione, la Serbia ha fatto su e giù come l’ottovolante. L’Albania e la Macedonia hanno retto, ma hanno visto schizzare in alto il debito pubblico: una variabile tutt’altro che “fredda”. In tutta la regione ci sono tassi di disoccupazione insostenibili, si va molto spesso sopra il 20% e questo fa sì che frustrazione e rabbia si accumulino. Il pericolo è che la crisi economico-sociale si incroci con l’emergenza migranti, generando tensione e riaprendo conflitti politici mai sopiti, quali quelli tra Serbia e Kosovo o quello interni di Macedonia e Bosnia, dove il confronto tra le nazionalità va di pari passo con quello nelle istituzioni politiche.  La tensione potrebbe poi dare benzina al mondo della criminalità (le cosche balcaniche hanno rapporti rodati e costanti con quelle italiane) e a quello del terrorismo (non sono pochi i foreign fighters che dai Balcani sono andati a combattere in Siria)». In Albania e in altri Paesi balcanici è pure attivo un movimento studentesco che si batte contro le riforme del sistema universitario tese a modernizzare un sistema formativo ancora inchiodato al precedente regime statalista, e i cui costi si abbatteranno come sempre soprattutto sugli strati sociali proletari e sulla piccola borghesia.

Si dirà: ecco ritornare dalla finestra lo spettro della polveriera che abbiamo cercato di mettere fuori dalla porta.  Ma il nostro articolista è pronto a rincuorarci, a esorcizzare lo spettro: «A scanso di equivoci va precisato che i Balcani non sono portatori di minacce concrete [in primis per chi lì vuole investire, beninteso]. Il contesto di oggi è molto migliore di quello di ieri [già mi sento più sereno, ma purtroppo non ho capitali da investire!]. C’è una cornice di maggiore stabilità, la cooperazione regionale ha preso quota, l’interscambio economico tra i paesi dell’area cresce continuamente, i vertici di alto livello tra capi di governo sono ormai un fatto consolidato. Eppure l’Italia è tenuta a tenere dritte le antenne, osservando con attenzione quanto avviene sulla sponda orientale dell’Adriatico e spendendosi, con rinnovata convinzione, affinché il cammino dei Balcani verso l’Europa si accorci. Ed è probabilmente questo, il tempo, la troppo lunga anticamera per l’Europa, il limbo in cui la regione è parcheggiata, il fattore più destabilizzante per i Balcani». Insomma, l’Italia deve prendere sul serio, anche in chiave rigorosamente europeista (e già la cosa assume un tono più politicamente corretto), la funzione economica e geopolitica che le deriva dal retaggio storico, dalla geografia e dagli interessi – Non solo economici: la rotta del flusso migratorio «potrebbe saturarsi e c’è chi paventa, se ciò accadesse, la deviazione verso Italia. Intanto l’Austria sta chiudendo la frontiera con la Slovenia», e forse anche noi, aggiungo io, dovremmo inventarci qualcosa in quel senso (un’operazione di “polizia internazionale”, una “missione di pace”, una nuova Operazione Pellicano***, qualcosa insomma). Prevenire è meglio che curare!

In conclusione, dobbiamo prenderci più cura del nostro Estero Vicino, o cortile di casa che dir si voglia; guardando a Est e a Sud, secondo la migliore tradizione geopolitica italiana. Quanto mi piace dare consigli – gratuiti e soprattutto non richiesti – all’Imperialismo tricolore!

* A questo proposito su Europa del 3 novembre 2014 si poteva leggere la perla apologetica che segue: «Ancora una volta, a partire da una inchiesta sulla Moncler [mandata in onda da Report, la trasmissione di Milena Gabanelli], è emersa l’immagine delle imprese italiane in fuga, dello spostamento all’estero di segmenti della filiera produttiva, del deserto industriale che nel nostro paese guadagna chilometri e dell’Est come grande prateria, pronta a offrire condizioni industriali favolose e stipendi miseri. Esiste anche questo, ma non è solo questo». Intanto, a proposito di stipendi, ci si potrebbe chiedere: se mai un’azienda svedese investisse in Italia, pagherebbe i suoi dipendenti italiani con i salari che circolano a Stoccolma? No di certo. Le buste paga non seguono il principio del paese d’origine. Ne consegue che le imprese italiane che aprono fabbriche nell’Europa ex comunista o si appoggiano a ditte locali remunerano generalmente i propri dipendenti secondo le dinamiche salariali dei mercati dove vanno a operare. Non automaticamente si sconfina del campo dello sfruttamento, volendo tagliare corto». Non c’è dubbio: nel Capitalismo tutto è relativo, tranne l’imperativo categorico e assoluto della ricerca del massimo profitto. Detto per inciso, lo sfruttamento capitalistico si realizza anche con salari altissimi, in virtù del “semplice” rapporto sociale Capitale-Lavoro salariato. Ma nessuno ovviamente è obbligato a pensarla come Marx.

* * Secondo i dati pubblicati lo scorso anno dalla Cgia di Mestre la crisi economica ha di molto frenato il processo di delocalizzazione delle imprese italiane nei Balcani. Nel periodo 2008-2011 le imprese con fatturato superiore a 2,5 milioni di euro che hanno trasferito all’estero segmenti di produzione sono state 27.100, appena il 4,5% del totale. Percentuale molto ridotta, rispetto al 65% del periodo 2000-2011.

*** Nel settembre del 1991 furono spediti a Durazzo e Valona circa 800 militari italiani per impedire che la popolazione albanese, ridotta in una intollerabile condizione di miseria dall’ex regime stalinista, invadesse, letteralmente, le italiche e opulente sponde. L’intervento militare chiamato appunto Operazione Pellicano si concluse nel dicembre 1993. All’Operazione Pellicano seguì la missione Alba, e poi altre missioni militari sotto l’egida dell’ONU e dell’OSCE.

COSE ALBANESI!

enver_hoxha_agrarian_reformDopo l’umiliante Caporetto calcistica in terra brasiliana, consoliamoci con il brillante successo geopolitico che l’italico imperialismo ha fatto registrare in sede UE: «Come preannunciato lo scorso 6 giugno, il Consiglio Ue ha dato il via libera allo status di Paese candidato all’ingresso nell’Unione europea all’Albania, cosa che verrà ufficializzata dai capi di Stato e di governo nel vertice di Ypres di giovedì e venerdì. A differenza di Francia, Germania, Gran Bretagna, Danimarca e Olanda, che si sono sempre detti contrari, l’Italia, è stata sempre in prima linea per chiedere l’adesione di Tirana all’Ue ed oggi a Lussemburgo il sottosegretario per gli Affari europei Sandro Gozi ha confermato che “riteniamo sia assolutamente fondamentale riconoscere all’Albania lo status di paese candidato e accelerare il processo di adesione di tutti i Balcani occidentali, a partire da Albania e Serbia”» (Notizie Geopolitiche, 24 giugno 2014).

Sulla presenza del capitale del Bel Paese nell’Est europeo rimando a Il capitale italiano guarda sempre più a Est.

Compulsando Limes, la nota rivista di geopolitica, per avere altri ragguagli sulla confortante notizia di cui sopra, mi sono imbattuto in uno spassosissimo articolo di Giovanni Armillotta (da me preso di mira in un post del 2013: Geopolitica e coscienza di classe) dedicato nientemeno che alla difesa di Enver Hoxha, l’ultimo dittatore “comunista” dell’Albania.

La cosa più curiosa è che il buon Armillotta non è uno dei tanti “comunisti” nostalgici che appestano Miserabilandia, ma un ex (?) socialista che ci tiene a farci sapere di essere stato «uno dei tre cittadini del nostro paese – tutt’e tre iscritti al Partito socialista italiano, che allora esprimeva il vertice governativo – che si vide pubblicare ufficialmente sulla stampa albanese il formale telegramma di condoglianze per la scomparsa di Enver Hoxha (11 aprile 1985). Fui in compagnia di Sandro Pertini e Bettino Craxi» (L’Albania e il Pci in ginocchio da Tito, Limes, 8 settembre 2009).

Enver-Hoxha-a-destra-con-StalinPer farla breve, Armillotta rinfaccia ai “comunisti” italiani di aver sempre sputacchiato su Enver Hoxha, trattato come un rozzo e violento tiranno, mentre al contempo leccavano le suole delle scarpe di Stalin e (successivamente) di Tito e di altri dittatori “comunisti” lorde del sangue di centinaia di migliaia di poveri disgraziati finiti per qualche motivo nel tritacarne del “comunismo rispettabile”.

«Mentre il nostro Partito comunista incensava il brutale regime di Tito, gli stessi politici condannavano Hoxha, colpevole di non essersi allineato a Mosca e di resistere alle mire espansionistiche della vicina Jugoslavia, un immenso campo di concentramento a cielo aperto. Chi era il vero mostro?» Armillotta ricorda con perfida ironia agli ex compagni del PCI i massacri perpetrati nella «“democrazia” titista, i campi di concentramento del socialismo jugoslavo» e altre magagne occorse nei «Paesi socialisti» (dalla Russia alla Cina, dalla Romania alla Corea del Nord) da essi frequentati senza alcun senso di colpa e anzi con colpevole complicità politica.

«In Yugoslavia e non in Albania iniziarono a sorgere i famigerati campi di concentramento del tipo Goli-otok (isola calva), una specie di Auschwitz nelle condizioni del “socialismo jugoslavo”. In quei campi non patirono sofferenze, non furono mutilati e sterminati solo i cominformisti, ma pure i semplici oppositori e, fra loro, anche centinaia di cossovari e altri albanesi residenti nelle repubbliche di Montenegro e Macedonia, nonché alcuni illusi comunisti italiani che si erano rifugiati nel “paradiso” titista portandosi il tricolore con la stella rossa sul campo bianco. In totale nei Goli-otok furono internate 30 mila persone, delle quali circa 4 mila trovarono la morte per torture o sfinimento (i campi furono chiusi nel 1988. Però la direzione jugoslava aveva la sfrontatezza di accusare l’Albania che aveva trasformato il paese in una “caserma dove regnava lo stivale dei militari!”». Ecco dunque quale era la “democrazia titista”, esaltata nel nostro paese dalla seconda metà degli anni Cinquanta sino al 1990».

Armillotta ne ha anche per quelli del Manifesto: «ai filocinesi all’amatriciana non andava giù che gli albanesi avessero mandato a quel paese anche Mao. Basta far mente locale alle patetiche lacrime di circostanza [versate] all’indomani di Piazza Tiananmen». Che spasso, questo difensore dello stalinismo con caratteristiche albanesi! Guardate adesso come egli recupera in chiave geopolitica la funzione di Enver Hoxha: «Riusciamo a frenare un moto d’irritazione nel ricordare le ingiurie de Il manifesto, che si preoccupava per il Canale d’Otranto, bloccato da un regime autoritario. Forse per i radiati di ieri sarebbe stato auspicabile il problema finanziario e geopolitico che avrebbe rappresentato per l’Italia e la Nato la presenza dei Sovietici a tre minuti di MIG dalla Puglia?». Non c’è che dire, un capolavoro “dialettico” degno di un Gianni De Michelis!

Seguono alcuni passi tratti da un mio articolo del 1991 (Catastrofe del “modello jugoslavo”) pubblicato su Filo Rosso. Giusto per non incorrere nelle ire antititoiste di Armillotta.

mulegreeceQuando il 25 febbraio 1980 la Jugoslavia firmò a Bruxelles l’accordo di cooperazione con la CEE, il quale prevedeva un prestito di 300 milioni di dollari e una serie di agevolazioni nella sfera commerciale per la traballante Federazione, a tutti gli analisti (tranne ai soliti patetici ricercatori di “Terze Vie”) apparve chiaro come in quel giorno si ufficializzasse il completo fallimento di quello che nel secondo dopoguerra era passato alla storia come “modello jugoslavo di socialismo”.

Ciò che Pintor e compagni oggi definiscono «la straordinaria architettura politica e sociale realizzata da Tito», metteva finalmente a nudo le magagne strutturali del cosiddetto “socialismo autogestionario”, durato quattro decenni con il sostegno politico-ideologico di quei “comunisti critici” occidentali che non volevano rassegnarsi a un modello sovietico sempre meno presentabile alle classi subalterne come credibile e auspicabile alternativa al capitalismo. Ogni velleità di autonomia politico-economica, fatta pagare soprattutto al proletariato delle repubbliche meridionali, mostrava definitivamente la corda e presentava il salatissimo conto.

La Yugoslavia, anticipando di qualche anno il miserrimo destino degli altri Paesi oggi “ex socialisti” del Vecchio Continente, iniziava a ruotare intorno ai capitalismi più forti d’Europa.

Ma cosa aveva di socialista quella «straordinaria architettura» venuta fuori dal secondo macello mondiale? Naturalmente niente, nel modo più assoluto. Si trattava di un’architettura capitalistica centrata su un apparato politico assai dispotico e centralizzato che aveva nella Serbia il suo centro di gravità.

[…]

Il tanto celebrato e mitizzato «modello autogestionario» elaborato dal gruppo dirigente titino, lungi dall’essere stato un esperimento originale di costruzione del socialismo, non fu altro che il tentativo di modernizzare un Paese plurinazionale che in trent’anni di storia “unitaria” non era riuscito a creare un omogeneo terreno economico, politico, etnico, ecc. dai confini con l’Austria a quelli con l’Albania. […] La cosiddetta autogestione aziendale non si sostanziò mai in una esaltazione della «democrazia aziendale», all’interno della quale l’operaio veniva a recitare un ruolo di comando e non di mera forza-lavoro sussunta sotto il capitale, come invece sostennero molti antistalinisti italiani ed europei (insomma, i soliti terzisti smentiti puntualmente dal processo sociale); essa all’opposto finì per esaltare grandi e piccoli interessi aziendali, locali, nazionali, e le magagne strutturali vennero a galla non appena l’opera di ricostruzione postbellica fu conclusa, peraltro con un certo successo. […] Alla fine il sistema non ha più retto: disorganizzazione produttiva, deperimento tecnologico, alta inflazione, alta disoccupazione, bassi salari, gap crescente fra il Nord sviluppato (Slovenia e Croazia) e il Sud “depresso” e assistito dallo Stato.

[…]

Scrive Vladimir Dapcevic: «Nel 1948, una parte dei dirigenti jugoslavi, soprattutto Tito e Kardelj, ha completamente liquidato la politica internazionalista ed è passata su posizioni nazionaliste borghesi. Questa politica jugoslava nazional-borghese non poteva alla fine che provocare, subito dopo, l’esplosione del nazionalismo in tutte le repubbliche» (Il Manifesto, 6 agosto 1991). In realtà il gruppo dirigente che si formò intorno al carismatico Tito fu sempre, al di là della retorica “internazionalista” comune agli stalinisti d’ogni latitudine, «su posizioni nazionaliste borghesi», e lo dimostrò al di là di ogni ragionevole dubbio appena la situazione glielo permise.

Mutatis mutandis, il maresciallissimo Tito non fece che applicare alla situazione jugoslava l’arcinota teoria della «via nazionale al socialismo» a suo tempo teorizzata a Mosca per dare un sostegno ideologico all’accumulazione capitalistica a tappe forzate e a ritmi accelerati. Questa teoria postulava la necessità per ogni Paese conquistato al “socialismo” di muoversi lungo il sentiero più congeniale al proprio retaggio storico, alla propria struttura sociale, alla propria cultura e, last but not least, ai propri interessi nazionali.

[…]

Già la Costituzione del 1974 sancì il dato di fatto di una Federazione che non era riuscita a far convivere nel suo seno differenti nazionalità, etnie, culture. «La sfortuna della Jugoslavia», sostiene Jovan Miric, un serbo contrario a ogni genere di nazionalismo, «è stata quella di non essere mai riuscita la Federazione a diventare uno Stato moderno e democratico. A dirigerla c’è sempre stato un pugno d’uomini» (Il Manifesto, 14 settembre 1991).

Lo sciovinismo grande serbo non solo non è morto con la Costituzione del ’48, ma si è dato anche una prospettiva più ampia e ambiziosa, che alla fine si è dimostrata velleitaria, dando corpo a una politica estera che guardava oltre il vecchio e angusto orticello balcanico, per proiettarsi nel grande gioco fra le potenze. Alludiamo alla politica titina volta a costituire il cosiddetto fronte dei non allineati, un polo imperialista “terzista” in grado di smarcarsi dall’influenza geopolitica delle due superpotenze mondiali.

Oggi solo i “comunisti” rifondati delle nostre poco amate sponde sembrano versare nostalgiche lacrime sul «ruolo importante della Jugoslavia nel movimento dei non allineati», come si legge su un loro documento del 20 agosto ’91, e c’è da scommettere che molti di loro rimpiangono il ruolo di grande potenza recitato dall’Unione Sovietica nel corso del mezzo secolo che ci sta alle spalle.