TU NON CI SERVI: VATTENE!

Della serie: per gli ultimi non esistono luoghi sicuri, e i primi a farglielo capire sono peraltro i cosiddetti penultimi, nella miserabile convinzione che calpestando la testa di chi sta appena un po’ più in basso nella scala sociale possa aiutarli a tenere il naso e la bocca appena fuori dalla melma, mentre gli immigrati affogano, in tutti i sensi. Che odiosa illusione!

La Repubblica, 13 agosto 2019
Germania. Rimpatriati con la violenza 1.289 migranti
di Tonia Mastrobuoni

“Migranti legati e sedati” sotto accusa i voli da Berlino. La Germania conferma, numeri alla mano, di far ricorso sempre più spesso a manette, cinghie e nastri per immobilizzare i migranti da respingere. Nei primi sei mesi di quest’anno la polizia ha legato le mani, a volte persino i piedi, a persone rimpatriate nei loro Paesi d’origine o ricollocate in altri Paesi europei per ben 1.289 volte. Quanto nell’intero 2018, dieci volte quanto nell’anno dei profughi 2015, quando circa 850 mila richiedenti asilo raggiunsero la Germania soprattutto dalle zone di guerra del Medio Oriente. La conferma dell’aumento delle violenze nei confronti dei migranti da rimpatriare, di cui Repubblica ha dato per prima notizia, è sostanziata dai numeri forniti dal ministero dell’Interno tedesco alla parlamentare della Linke Ursula Jepke, che ne ha chiesto conto in un’interrogazione al Bundestag. La maggior parte dei migranti respinti con le manette o con altri mezzi di coercizione provengono da Algeria, Marocco, Nigeria e Gambia.
Il ministero guidato da Horst Seehofer giustifica il vertiginoso aumento dell’uso di cinghie o manette col fatto che “sono aumentate le persone che resistono ai respingimenti”. A una domanda del nostro giornale, il ministero aveva già risposto settimane fa di ritenere legittimo il fatto di legare i migranti (nello specifico i profughi dublinanti da respingere in Italia).
Ma la parlamentare Jelpke ritiene “insopportabile che la disperazione di queste persone venga spezzata in modo sempre più implacabile con la violenza, per rimandarle contro la volontà in posti terribili”. In 20 casi i migranti o i richiedenti asilo hanno tentato di suicidarsi o si sono auto-inflitti delle ferite, pur di non dover salire sugli aerei. […] Aumentano, comunque, anche i migranti che lasciano volontariamente la Germania: tra gennaio e fine giugno sono partiti in 14.500. Ma a quella data le persone che il ministero dell’Interno ha condannato al rimpatrio immediato ammontavano ancora a quasi quattro volte tante, 55.620. Due mesi fa il Bundestag ha approvato un giro di vite nei confronti dei profughi che allunga i tempi di permanenza nei “centri di ancoraggio”, consente di rinchiuderli anche nelle carceri normali, alla vigilia della data di rimpatrio, cancella gli aiuti per i dublinanti e rende più severe le regole per chi falsificai documenti di identità. Un pacchetto fortemente voluto da Seehofer, ribattezzato da Ong come Pro Asyl “Legge Vattene”.

A BERLINO CHE GIORNO È?

Ci si può forse stupire della dimensione assunta dal capitombolo socialdemocratico o, all’opposto, per le dimensioni del successo ottenuto dall’estrema destra tedesca; ci si può forse meravigliare del declino elettorale fatto registrare dal partito della Cancelliera di ferro, e tuttavia nel suo insieme il voto delle legislative del 24 marzo non ci consegna un quadro politico del tutto imprevisto, a cominciare ovviamente dall’ennesima “medaglia d’oro” agguantata con una certa facilità da Angela Merkel. Scriveva Der Spiegel il 22 settembre: «L’AfD supererà, con una percentuale a due cifre, la soglia necessaria per entrare in parlamento, mentre la Merkel dovrà fare i conti con la colpa a lei imputata di aver favorito con le sue politiche migratorie l’ascesa del populismo di destra. Un’altra delle colpe ascritte alla Merkel è quella di aver provocato con la sua politica di austerity nei confronti dell’Europa meridionale la divisione dell’Europa». Forse solo gli acritici lettori dei sostenitori della Cancelliera («È l’ultima custode dell’occidente liberale: solo lei può salvarci da Putin, Trump ed Erdogan») e dei sostenitori del suo “competitor” socialdemocratico («Martin Schulz non è affatto scialbo e insignificante come sembra») sono rimasti scioccati e delusi dai risultati elettorali.

L’analisi del voto tedesco ha confermato ciò che anche la scienza sociale “ufficiale” ha sempre saputo: il disagio sociale vota. Come spiegare altrimenti il paradosso per cui Alternative für Deutschland, che pure ha incentrato la sua campagna elettorale praticamente solo sull’avversione alla politica d’immigrazione adottata dal governo tedesco nel 2015, ha raccolto più consensi proprio nelle zone del Paese dove più bassa è la presenza dei migranti? La risposta è abbastanza semplice: perché la paura dello straniero che viene dall’Africa (altra cultura, altra religione, altra concezione del rapporto uomo-donna, altra sensibilità nei confronti della “polisessualità”, ecc. ) ha fatto tracimare paure e frustrazioni che niente a che fare hanno con il razzismo, con la xenofobia e altro ancora. È come se chi in Germania occupa i gradini più bassi della scala sociale avesse detto a Mamma Angela: «Ma come, invece di pensare ai nostri bassi salari, alle nostre povere pensioni, a un welfare tutt’altro che irreprensibile; insomma invece di prenderti cura dei nostri problemi tu pensi agli stranieri? Vogliamo il pane e tu ci dai da mangiare la solidarietà con il diverso, che peraltro viene a rubarci quel poco che abbiamo e a minacciare la nostra sicurezza: hai dimenticato il terrorismo Jihadista? Prima la Germania, prima i tedeschi, non gli stranieri!». Il Presidente Donald Trump ha dunque fatto scuola? Diciamo che il nostro sa come gira il pessimo mondo.

Anche i sinistri della Linke hanno più volte cercato di fare l’occhiolino al razzismo e alla xenofobia del proletariato più disagiato dell’Est, per intercettarne il voto, ma i loro concorrenti di destra sono stati evidentemente più credibili su questo escrementizio terreno, e infatti l’AfD ha rubato un po’ di elettorato anche al partito degli ultra sinistrati, che adesso è costretto a fare “autocritica”.

Circa un mese fa la Merkel dichiarò nel corso di un comizio che «non va bene che alcuni paesi non accolgano rifugiati. Contraddicono lo spirito europeo. Ma supereremo questa impasse. Ci vorrà tempo e pazienza, ma ce la faremo. La diversità ci rende più forti contro le tempeste che ci vengono addosso»; si tratta di vedere fino a che punto questo afflato “umanitario” ed europeista reggerà alla pressione dei “populisti” di estrema destra. «Nel suo sobrio commento dopo l’esito elettorale Angela Merkel ha detto che occorre un controllo più severo degli immigrati privi di requisiti per restare e ha parlato della necessità che “ritornino nella Cdu” gli elettori che se ne sono andati. È una autocritica implicita. […] La posta in gioco dei prossimi mesi e anni sarà la rincorsa a difendere una forte identità nazionale tedesca, attraverso il semplice, ma estremamente evocativo, concetto di Volk/popolo. Un tema che ha potenti capacità suggestive per l’anima tedesca» (G. E. Rusconi, La Stampa). Ma non solo per «l’anima tedesca», come dimostra il dilagare del “populismo” in tutta Europa negli ultimi dieci anni. Certo, «l’anima tedesca» si esprime in un linguaggio che ancora oggi evoca mostri, e anche per questo la leadership tedesca è sempre stata cauta nel maneggiare argomenti di facile impatto popolare. Ma i tempi cambiano, come i giorni e le stagioni. A proposito: a Berlino che giorno è? Ah, saperlo!

A ogni modo il noto germanista Angelo Bolaffi continua a confidare nelle superiori qualità politiche e umane della Cancelliera: «La Cancelliera è la paladina dei diritti umani. O meglio ha difeso più che i diritti umani, i valori occidentali, storicamente difesi dall’“anglo-sfera”, ossia dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti d’America. Paesi, osserviamo, che oggi si sono incamminati su una tradizione politica che non è quella che inaugurarono nella lotta al fascismo» (Left). Senza contare, aggiungo guardando la cosa dal punto di vista degli amici dei valori occidentali (io mi chiamo fuori!), che l’attivismo politico-militare della Russia putiniana punta in modo sempre più sfacciato a dividere il campo occidentale. In Germania si vocifera che Alternative für Deutschland abbia ricevuto consistenti appoggi mediatici e finanziari da Putin, il leader politico più amato dai sovranisti d’Europa.

A proposito di “populisti” di estrema destra! Oggi i quotidiani di “destra” del Belpaese hanno facile gioco nel rinfacciare agli amici dei “populisti” alla Travaglio il loro antico giudizio su Bossi e Berlusconi, trattati dai partiti tradizionali della cosiddetta Prima Repubblica alla stregua di reietti della politica, gente incapace e inadatta a manovrare le sofisticate e delicate leve della politica. Oggi i teorici dell’antiberlusconismo scoprono che «anche chi vota per i partiti di estrema destra va rispettato e capito», e che comunque «gli elettori hanno sempre ragione, anche quando il loro voto non ci piace». In ogni caso è certo che “le destre” di casa nostra hanno di che leccarsi i baffi pensando alla prossima tornata elettorale, mentre “le sinistre”… ma perché ostinarsi a sparare sulla Croce Rotta! Per un “astensionista strategico” come chi scrive tutti questi discorsi sul Volk che ha sempre ragione, come il cliente, provocano solo disgusto e hanno il solo significato di una conferma: viviamo tempi oltremodo sgradevoli, diciamo così, e sotto tutti i punto di vista.

«Dai dati preliminari che avranno bisogno di essere elaborati e raffinati nei prossimi giorni, emerge un ritratto abbastanza chiaro dell’elettore di AfD: sono soprattutto maschi operai, intorno ai 40 anni, residenti nella Germania orientale, con un livello di istruzione medio-basso. Quasi un terzo di loro ha votato AfD per la prima volta, dopo essersi astenuti alle scorse elezioni, mentre un quinto di loro, circa un milione di persone, quattro anni fa aveva votato per Angela Merkel. La gran parte degli elettori ha scelto di votare AfD non perché attirata da programmi estremisti o addirittura neonazisti, ma sopratutto come forma di protesta verso i partiti tradizionali» (Il post). Una specie di grillismo Made in Germany?

Certo, con la Cancelliera «il surplus negli scambi con l’estero ha sfiorato i 300 miliardi, il maggiore al mondo, ma sono raddoppiate a due milioni anche le persone che fanno un doppio lavoro pur di far quadrare i conti. Sotto la cancelliera la crescita è stata costante – benché in media per abitante sia da anni molto sotto all’ 1% – mentre i pensionati in povertà sono aumentati del 30%. Questo Paese mantiene un welfare esemplare, eppure presenta un livello di concentrazione di patrimoni nelle mani dei ricchi inferiore solo a quello dell’America di Trump» (F. Fubini, Il Corriere della Sera). Sappiamo come l’Agenda 2010 varata dal governo Schröder ha dato eccellenti risultati quanto a incremento di produttività, precarizzazione del lavoro e stratificazione nel sistema dei salari. I sindacati di regime (IGM in testa) difendono soprattutto la loro posizione politica contrattuale nei confronti di governo e padronato, garantendo una “responsabile” gestione del “capitale umano” soprattutto nelle grandi imprese, quelle più esposte alla competizione capitalistica mondiale. Il modello tedesco di gestione delle relazioni industriali pare reggere ancora bene all’urto della globalizzazione. Ai lavoratori tedeschi che hanno minori tutele sindacali e che percepiscono salari sempre più bassi, non rimane che orientarsi politicamente verso il “populismo” di destra, ma più per rabbia che per convinzione.

Per il sociologo Luca Ricolfi non ha poi molto senso liquidare l’AfD tirando in ballo l’estremismo di destra: «Più che semplicistico, è sbagliato. Il populismo attuale non può essere confuso con l’estrema destra: se ne differenzia su troppi punti fondamentali. Nazismo e fascismo erano espansionisti, il populismo di destra è isolazionista. Nazismo e fascismo teorizzavano la superiorità razziale, i populisti si limitano a difendere il diritto di ogni popolo a preservare l’identità. Nazismo e fascismo disprezzavano la democrazia, i partiti populisti sono semmai iperdemocratici: non pensano vi sia troppa democrazia, ma che ve ne sia troppo poca. Nazisti e comunisti [leggi: stalinisti] perseguitavano gli omosessuali, diversi partiti populisti di destra difendono coppie di fatto e diritti dei gay, in alcuni casi sono addirittura guidati da leader omosessuali. L’Afd da Alice Weidel, dichiaratamente lesbica. In passato abbiamo avuto la lista di Pim Fortuyn, politico olandese omosessuale assassinato nel 2002, la cui eredità è oggi raccolta dal populista Geert Wilders» (Il Messaggero). Insomma, con le analisi superficiali che si arrestano alla superficie ideologica dei fenomeni sociali non è possibile cogliere la natura strutturale di quei fenomeni, un’elementare lezione “materialistica” che spesso molti sedicenti materialisti mostrano di non aver compreso neanche un poco.

Scrive Riccardo Rinaldi: «Un’analisi di classe deve dunque affrontare seriamente il seguente dilemma: la rottura della UE significherebbe davvero, come alcuni ancora temono, un “arretramento delle posizioni internazionaliste”, o al contrario – dato che la struttura che garantisce lo sfruttamento dei paesi del centro su quelli della periferia è esattamente la stessa che garantisce lo sfruttamento di una classe sull’altra – la lotta contro l’Unione, condotta anche in ogni singolo paese, se proprio non si riesce a farla in modo coordinato, non sia in realtà la lotta di e per tutta la classe lavoratrice europea». Applicando «un’analisi di classe» ai passi appena riportati, se ne ricava a mio avviso quanto segue: trattasi di una riedizione della vecchia tesi ultrareazionaria (di matrice maoista e terzomondista) che auspicava l’alleanza tra il proletariato delle metropoli capitalistiche (il cosiddetto Nord del mondo) e i Paesi arretrati che subivano lo sfruttamento da parte dell’imperialismo occidentale. Se non si rigetta il punto di vista nazionale, sebbene declinato a partire dai Paesi «della Periferia» (Grecia, Spagna e Italia), si rimane intrappolati nel grande gioco della competizione capitalistica internazionale, illudendosi di usare le contraddizioni che dilaniano il “nemico di classe” – peraltro tutto da definire.

Soprattutto oggi, nell’epoca del dominio totale e totalitario del Capitale sugli uomini e sulla natura, è ridicolo pensare alla dialettica centro-periferia negli stessi termini in cui essa si dispiegava quando non pochi paesi della periferia capitalistica dovevano ancora conoscere la rivoluzione borghese-nazionale. Oggi alla scala mondiale (figuriamoci in Europa!) esiste una sola compatta e contraddittoria/conflittuale (com’è nella natura del Capitale) struttura capitalistica, e sperare di poter giocare le inevitabili e sempre crescenti divisioni intercapitalistiche e interimperialistiche in chiave “anticapitalista” è davvero sintomo di una “creatività rivoluzionaria” che ha molto a che fare con la pure e semplice cretineria politica, la quale sovente appare invece come  concretezza politica agli occhi degli analisti che non hanno alcuna dimestichezza con il concetto e con la prassi dell’autonomia di classe.

L’”internazionalismo europeista” alla Toni Negri, Yanis Varoufakis e Slavoj Žižek e l’”internazionalismo antieuropeista” di chi teorizza alleanze “spurie”  (una volta si diceva interclassiste) in vista della “rivoluzione sociale” appaiono ai miei occhi come due facce della stessa medaglia. Il polo imperialista europeo va combattuto ricostruendo l’autonomia di classe sul terreno nazionale e internazionale, e nessun espediente “tattico” può rendere più facile e veloce questo fondamentale, quanto difficilissimo, compito. Tutto il resto è il solito velleitarismo da mosca cocchiera, soprattutto se la mosca cocchiera parla di “anticapitalismo” avendo in testa la costruzione del Capitalismo di Stato.

I mesi che verranno ci diranno fino a che punto la politica incarnata dalla Cancelliera di ferro (o di teflon, come dicono alcuni socialdemocratici tedeschi: «Ogni cosa le scivola addosso. Non fa sbagli. È frustrante!») è uscita indebolita e ridimensionata dalla recente tornata elettorale, incertezza che ha subito messo in agitazione le capitali europee, le quali non sanno se gioire o deprimersi per il nuovo corso politico che si annuncia in Germania. A Berlino che giorno è? Ah, saperlo! Intanto il Presidente francese ha fatto la prima mossa puntando su un indebolimento relativo della Merkel, rilanciando con il discorso tenuto martedì alla Sorbona il tradizionale asse franco-tedesco, ma in una prospettiva marcatamente “europeista”. «Un lungo e magnifico discorso», ha commentato sul Foglio Giuliano Ferrara, il quale vede in Macron e in Trump due opposti politici e antropologici; «Ci vuole energia, ci vuole volontarismo, ci vuole sfacciataggine per dire certe cose». Ma poi dal dire bisogna passare al fare. Fino a quando la Francia non scioglierà i nodi strutturali che ne azzoppano la capacità sistemica (economica, scientifica, tecnologica) la sua credibilità agli occhi della Germania rimarrà appiccicata con lo sputo, nonostante l’Inno alla gioia suonato dal giovane Presidente francese, il quale da tempo studia l’Agenda 2010 di Schröder – peraltro già compulsata con una certa invidia da Hollande e dagli altri Premier europei alle prese con l’«ingessatura del mercato del lavoro e la bassa produttività». Se son sacrifici sociali si vedranno! Già quest’autunno.

TRUMP O MERKEL? CHI DIFENDE MEGLIO I “VALORI OCCIDENTALI”?

L’intervista rilasciata giovedì scorso da Angela Merkel al Corriere della sera si segnalava non tanto per originalità, quanto perché la Cancelliera vi ribadiva e precisava, anche in termini per così dire ideologici, ciò che aveva dichiarato nel corso degli ultimi mesi soprattutto in relazione alla politica economica ed estera di Donald Trump. Leggiamone qualche significativo passo:

«È vero che l’ordine mondiale è in cambiamento e che i rapporti di forza si modificano. Ciò ha a che fare con l’ascesa della Cina, ma anche l’India compie grandi passi con un tasso di crescita di più del 7 per cento, di gran lunga superiore a quello cinese. Entrambi i Paesi hanno 1,3 miliardi di abitanti circa, fattore decisamente significativo. A ciò si aggiunge il fatto che l’amministrazione americana e il presidente Trump giudicano la globalizzazione in modo diverso rispetto a noi tedeschi. Mentre noi cerchiamo di cogliere le possibilità che derivano dalla collaborazione sotto ogni aspetto, agli occhi dell’amministrazione americana la globalizzazione è un processo in cui non possono esserci situazioni win-win, ma solo vincitori e perdenti. [La concezione isolazionista e protezionista del Presidente americano] si oppone totalmente al mio punto di vista. Sicuramente, il presidente Trump è stato eletto da molti che guardano alla globalizzazione in modo scettico, e si sente in obbligo nei confronti di questi elettori. Ma già da molto tempo l’Fmi, l’Ocse e anche il G20 non parlano semplicemente di crescita, bensì di crescita inclusiva e sostenibile. Non vogliamo che siano soltanto in pochi a trarre vantaggio dai progressi economici. Tutti ne devono beneficiare». È la globalizzazione capitalistica “ben temperata” e “potabile” che tanto piace a tipi come Emma Bonino, Romano Prodi e Pierluigi Bersani, il quale l’altro ieri ha detto, giusto per far scompisciare dalle risa l’animaccia dell’avvinazzato di Treviri, che «la vera sinistra è per un’economia di mercato, non per una società di mercato». Porre una simile distinzione nella società capitalistica in generale, e in particolare in quella caratterizzata dal dominio planetario e totalitario del Capitale su tutto e su tutti, qual è appunto la Società-Mondo del XXI secolo, è semplicemente ridicolo, e può al massimo servire ad alimentare le miserabili ideologie “progressiste” che sostengono la possibilità di un Capitalismo/Imperialismo dal volto umano. Ma chiudiamo la parentesi polemica e riprendiamo il discorso della Cancelliera.

«In qualità di rappresentante dello stato dell’economia di mercato sociale, è in questo spirito che voglio condurre il vertice del G20. È sensato che l’Europa unisca le forze. A ciò si accompagna una perdita di importanza di potere degli Stati Uniti? Non saprei. L’importanza del potere deriva dalla forza economica, militare e civile, e in tutti questi tre settori gli americani rappresentano ancora una potenza mondiale, come del resto dimostrano i forti dibattiti interni. Evidentemente, l’amministrazione americana non vuole più rappresentare il “poliziotto” che stabilisce l’ordine in tutte le regioni del mondo. La si può considerare sia una buona che una cattiva notizia, a seconda dei casi. A tale proposito: negli ultimi decenni gli americani si sono presentati ovunque come una potenza. E ciò, per usare un eufemismo, può essere visto anche in maniera critica. […] Ci siamo abituati a questo impegno, poiché sin dai tempi della Guerra Fredda riconoscevamo negli Stati Uniti una grande potenza in opposizione all’Unione Sovietica, e si presumeva che volessero questo ruolo. Dopo la caduta del Muro apparivano l’unica superpotenza rimasta. Oggi il mondo è multipolare. Ma a ragione: effettivamente gli americani non hanno il diritto di intervenire in qualsiasi parte del mondo. Probabilmente gli Stati Uniti non saranno coinvolti nelle misure in Africa, come sarebbe necessario. […] Dobbiamo sempre ricordare i nostri obiettivi quando diciamo che l’Europa dovrebbe prendere il proprio destino nelle proprie mani, ossia: mantenere i nostri valori e interessi europei, creiamo ricchezza e nuovi posti di lavoro negli Stati membri».

A proposito del G20 di Amburgo Matteo Scotto ha parlato di «debutto dell’egemonia tedesca»: «Al G20 di Amburgo culmina un percorso durato oltre settant’anni: Berlino ha preso coscienza di sé ed è pronta a esercitare il suo ruolo di guida, non solo dell’Europa. Grazie anche a Trump e Macron. I paragoni con il Secondo e Terzo Reich sono privi di senso» (Limes). Sono privi di senso, mi permetto di aggiungere, se sono costruiti ideologicamente, se sono paragoni che non tengono conto della complessità del processo sociale considerato nella sua essenziale dimensione storica. Sul ruolo della Germania nel processo di formazione di un polo imperialista unitario europeo rinvio al PDF La guerra in Europa. Il conflitto sistemico nel Vecchio Continente, e al post I tedeschi non scherzano mai.

Le parole della Cancelliera assumono un aspetto ancora più pregnante alla luce del viaggio di Trump in Polonia, il cui significato è stato ben riassunto, a mio avviso, da Federico Petroni, sempre su Limes: «La visita di Trump in Polonia è geopoliticamente più significativa del G20 di Amburgo di venerdì. Quest’ultimo si limiterà a evidenziare le attuali divergenze fra le venti maggiori economie mondiali in ambito commerciale e ambientale; al massimo fornirà un’occasione per ben più interessanti incontri bilaterali (come quello tra lo stesso Trump e Putin). Il viaggio a Varsavia è pensato per attribuire un riconoscimento a un paese gradito a tutti i rami della geopolitica a stelle e strisce. Alla stessa Casa Bianca, per cominciare, in funzione anti-tedesca e anti-Ue. Non per caso Trump terrà il suo discorso di lodi alla Polonia e alla sua capacità di diventare “potenza europea” presso il monumento alla resistenza ai nazisti del 1944. Non per caso presenzierà al secondo summit dell’Iniziativa dei Tre Mari dei 12 paesi dell’Ue dell’Europa centro-orientale. Benché fondato nell’estate 2016 per scopi d’integrazione infrastrutturale (soprattutto energetica) del fianco est dell’Unione, l’attuale gruppo ricalca (Ucraina esclusa) il progetto degli anni Venti dell’Intermarium pensato dalla neo-indipendente Polonia per aggregare attorno a sé l’Europa di mezzo fra Berlino e Mosca. Ora riesumato con l’ambizione – forse l’utopia – di estendere l’influenza di Varsavia a discapito di Bruxelles, non più percepita come fonte di protezione politica (vedi le critiche sulla deriva autoritaria), economica (dopo la crisi del 2008) e militare (causa assertività russa). Al di là delle irrilevanti affinità ideologiche (specie in materia di immigrazione), a Trump le critiche polacche all’Ue piacciono perché sono sostanzialmente rivolte alla Germania. Rendendo Varsavia una carta da giocare nello scontro che va maturando fra Washington e Berlino. La Polonia è utile anche agli occhi del Congresso e degli apparati statunitensi come perno del contenimento della Russia. Nell’elogiare il traguardo del 2% della spesa militare sul pil raggiunto da Varsavia nella Nato, Trump indirettamente giustificherà la russofobia che guida i polacchi in materia di sicurezza. E complicherà i propri propositi di riavvicinamento a Mosca».

Il discorso tenuto giovedì da Trump a Varsavia ha spiazzato non pochi analisti di politica internazionale che nei mesi scorsi avevano alimentato la balla speculativa di un Presidente americano ormai completamente prono ai diktat di Mosca, docile e ricattabile pedina nelle mani del virile Putin, o comunque lontanissimo dalla tradizionale postura antirussa mantenuta dalla Casa Bianca nel corso degli ultimi sette decenni. «È un Donald Trump più anti-russo che mai quello che ha preso la parola a Varsavia, in piazza Krasinski, di fronte a una folla adorante. Trump conferma il suo stile: muscolare, diretto, per nulla incline ai compromessi. Il discorso di Varsavia è l’antipasto di un confronto che si annuncia durissimo. Dalla crisi in Ucraina alla questione energetica, The Donald non fa sconti a Mosca. “Incalziamo la Russia perché smetta la sua attività destabilizzante in Ucraina”, afferma il leader americano. A differenza di quanto avvenuto durante il vertice Nato del maggio scorso, questa volta il presidente ribadisce pubblicamente l’impegno degli Usa “nella difesa dell’Europa centrale e orientale”. Torna così in auge il patto di mutua difesa della Nato – “uno per tutti e tutti per uno” – rappresentato dall’articolo 5 del Trattato dell’Alleanza Atlantica. Gli Stati Uniti – scandisce Trump – “sostengono con forza l’articolo 5 del Trattato Nato”. Mosca è avvertita: Washington è tornata in campo per difendere la Polonia e i suoi vicini dai “comportamenti destabilizzanti” della Russia. Dalla vicina Polonia Trump esorta la Russia a mettere fine alle sue “attività destabilizzanti” in Ucraina e in altri Paesi. Non solo: Mosca deve anche “smettere di sostenere regimi criminali” come la Siria e unirsi “alla comunità delle nazioni responsabili” nella lotta al terrorismo islamico e “in difesa della civilizzazione”. Da Trump anche la promessa che la Polonia, assieme agli altri Paesi della regione orientale europea, “non dovrà mai più essere ostaggio di un unico fornitore di energia”. Gli Stati Uniti garantiranno “l’accesso a tutte le fonti di energia” affinché “la Polonia e i suoi vicini non siano più ostaggio di un solo fornitore”, assicura Trump in un chiaro riferimento all’influenza russa nella regione in materia di energia. […] Acclamato dalla folla di piazza Krasinski, Trump lancia così il suo secondo tour europeo. La piazza teatro della rivolta del 1944 contro l’occupazione nazista diventa così il palcoscenico da cui lanciare il suo appello all’Occidente. “Così come la Polonia non ha potuto essere sconfitta, così l’Occidente non potrà esserlo. I nostri valori vinceranno e la nostra civiltà trionferà. Come i polacchi, lottiamo tutti insieme per la pace, per la libertà, per le famiglie, per il Paese e per Dio. Nel popolo polacco vediamo l’anima dell’Europa La storia della Polonia è la storia di un popolo che non ha mai dimenticato la sua identità”» (G. Belardelli, Huffington post).

Riassumo, con le sue stesse parole, la sfida politico-ideologica che Trump lancia in direzione di amici e nemici: «La domanda fondamentale del nostro tempo è se l’Occidente ha la volontà di sopravvivere. Abbiamo la fiducia nei nostri valori per difenderli ad ogni costo? Abbiamo abbastanza rispetto verso i nostri cittadini per proteggere i confini? Abbiamo il desiderio e il coraggio di preservare la nostra civiltà, in faccia a coloro che vogliono sovvertirla e distruggerla?». Insomma, Trump dice soprattutto alla Germania, al Paese che esibisce anno dopo anno un eccezionale surplus nella sua bilancia commerciale (300 miliardi di dollari nel 2016, se non sbaglio), che non si può recitare indefinitamente il comodo ruolo dei difensori della civiltà occidentale potendo contare sui soldi, sui missili e sul sangue dello Zio d’America.

A questo punto si tratta di capire chi difende meglio gli interessi e i valori dell’Occidente: la Germania della Merkel o gli Stati Uniti di Trump? Naturalmente scherzo; il problema è impostato in quell’insulso modo dagli esponenti politici e dagli intellettuali (*) che fanno capo alle classi dominanti dei vari Paesi, le quali si muovono sul piano economico e su quello politico (soprattutto attraverso la potente leva statale) non per difendere valori e concezioni del mondo, ma per difendere interessi sistemici d’ogni genere: economici, tecnologici, scientifici, geopolitici, ecc, ecc. Insomma, si tratta della ben nota e famigerata contesa interimperialistica, oggi più ingarbugliata e più feroce che mai. In ogni caso, personalmente non faccio parte di nessuna tifoseria imperialista, compresa quella che ciancia di “antimperialismo” solo perché sventola le bandiere delle squadre che giocano contro gli interessi degli americani e dei suoi alleati. Per dirla con il filosofo di Stoccarda, nella buia notte del Capitalismo mondiale tutte le vacche imperialiste mi appaiono dello stesso colore.

Cito dall’«Appello per costruire una mobilitazione internazionale contro il G20»: «Crediamo nelle alternative al di fuori e contro la globalizzazione neoliberale, il nazionalismo e il comando autocratico. Crediamo nella globalizzazione della giustizia e nei diritti per tutti, respingiamo tutte le soluzioni nazionalistiche e xenofobe, che si oppongono alla nostra visione di un mondo giusto, un mondo unito dalla solidarietà. Il contro-vertice, il campo, il presidio transnazionale con decine di migliaia di persone nella città di Amburgo e le azioni di massa di disobbedienza civile ci daranno l’opportunità di incontrarci, discutere e condividere le nostre visioni, idee e pratiche di resistenza per un mondo libero, eguale e solidale». Sul «contro-vertice» di Amburgo cercherò di scrivere qualcosa di intelligente domani, magari in guisa di bilancio complessivo dell’evento internazionale che si concluderà oggi, se non sbaglio. Ma non mi faccio troppe illusioni. Sulla mia intelligenza, intendo dire…

(*) Un solo esempio: «L’Europa è oggi la negazione di duemila anni di storia dei popoli, di civiltà, delle culture e delle lingue europee. Chi ama davvero l’Europa dev’essere nemico di questa Unione Europea, che è la negazione dell’ideale di Europa di Husserl, di Kant, di tutti i grandi teorici dell’Europa. Oggi essere per l’Europa significa essere contro l’Unione Europea delle banche, del capitale, della distruzione pianificata, organizzata dei diritti sociali e del lavoro. Questo è il punto fondamentale. L’Euro è il compimento del capitalismo assoluto che dopo il 1989, venuto meno il Comunismo, dichiara guerra agli stati sovrani nazionali, come luoghi del primato della politica democratica sull’economia spoliticizzata. Sempre più il conflitto sarà tra chi difende le sovranità nazionali e quindi la democrazia, i diritti sociali del lavoro, e chi invece difende il globalismo apolide, sradicante di cui l’Unione Europea è vettore» (D. Fusaro). Il noto “materialista storico-dialettico” ha dimenticato almeno duemila anni di storia di dominio di classe. Capita. Quanto al cosiddetto «Comunismo» che sarebbe venuto meno nell’anno di disgrazia (per gli stalinisti d’ogni tendenza, beninteso!) nel 1989, è meglio stendere un pietosissimo velo. A Varsavia Trump ha ricordato che «i polacchi trovarono la forza di sconfiggere il comunismo quando durante la prima messa celebrata da Giovanni Paolo II dissero che volevano Dio». Una freccia polemica che forse raggiunge anche il fondoschiena del celebre filosofo, il quale comunque potrebbe sempre dire, da par suo, che «la religione è l’oppio dei popoli». Sic!

Post scriptum

Scrive Gianni Riotta: «I dimostranti che al G20 hanno impegnato la polizia, con scontri, arresti e feriti, sono i fieri discendenti del popolo No Global, nato a Seattle 1999 per protestare contro il mercato globale, il Wto, i patti internazionali sul commercio. Le immagini tv sembravano note, meno tragiche che al G8 di Genova, ma sulla stessa falsariga, con giovani e meno giovani contestatori, persuasi che l’economia aperta sia una truffa. La loro filosofia è illustrata da film premio Oscar, con Michael Moore, da premi Nobel vedi il professor Stiglitz, e ha generato grandi firme, da Noam Chomsky alla Naomi Klein, all’economista greco Varoufakis, all’irato filosofo Zizek. Perfino il Papa è scettico sul globalismo. Il successo dei no global ormai unisce destra e sinistra, dalla Le Pen a Grillo e Salvini, dai socialisti Sanders e Corbyn al presidente Donald Trump, che ha stracciato i patti commerciali con Asia ed Europa, e minaccia di riscrivere quello con Canada e Messico. Insomma, il popolo no global ha vinto, il protezionismo è il nuovo “pensiero unico”, chi parla di società aperta e libero scambio, o ricorda come l’economia dell’ultima generazione abbia strappato alla fame miliardi di esseri umani – il salto di benessere più straordinario della storia – passa per prezzolato dai padroni. Dunque, bene le proteste, ma occorre invertire rotta al prossimo summit ragazzi: non fischiare ma applaudire Trump e gli altri leader no global – Erdogan e gli europei dell’Est per esempio – lodandone il protezionismo. No global ieri, trumpiani oggi? La realtà sorprende solo chi ama gli slogan e detesta i fatti» (La Stampa).

Riotta ama invece i fatti, i quali attestano indiscutibilmente 1. il dominio globale, mondiale e totalitario dei rapporti sociali capitalistici e 2. una competizione capitalistico-imperialista sistemica (economica, geopolitica, tecnologica, scientifica, ideologica, ecc.) sempre più aspra e foriera di conseguenze nefaste per le classi subalterne di tutto il mondo e per l’umanità in generale. Il fatto che lo sviluppo capitalistico dell’ultimo mezzo secolo «abbia strappato alla fame miliardi di esseri umani» è cosa che si spiega benissimo sulla scorta delle leggi di un’economia basata sullo sfruttamento/saccheggio sempre più scientifico degli uomini e della natura, e dunque questo fatto, che peraltro interseca altri fatti di segno opposto (vedi la crescente denutrizione che ancora oggi si registra in molte aree del mondo, soprattutto in Africa), non contraddice affatto la natura radicalmente disumana della vigente società mondiale. Non per niente Marx chiarì a suo tempo che il concetto di miseria crescente, così ridicolmente frainteso dai suoi detrattori, non va declinato in termini assoluti ma relativi: il salario-denaro consente al produttore diretto della ricchezza sociale di accedere a una minima parte, relativamente sempre più piccola se confrontata alla crescente produttività del suo lavoro, di quella ricchezza.

Non si tratta del noto problema del bicchiere (lo vedi mezzo vuoto o mezzo pieno?), si tratta piuttosto delle “classiche” contraddizioni capitalistiche. Ad esempio, l’ingresso di Paesi come la Cina e – in parte – l’India nella fascia del Capitalismo sviluppato ha messo in diretta e feroce concorrenza centinaia di milioni di lavoratori in tutto il mondo, livellando verso il basso i salari e le condizioni generali di lavoro e di vita di moltissimi proletari “occidentali”, diventati per questo massa di manovra politico-elettorale per i “populisti” d’ogni tendenza politica – mi riferisco alla cosiddetta “destra” e alla cosiddetta “sinistra”. Bisogna allora lottare contro la «globalizzazione neoliberale»? No, si tratta di lottare contro il Capitalismo tout court, a prescindere dalle fenomenologie, che tanto impressionano gli scienziati sociali incapaci di profondità analitica, che esso assume contingentemente su scala internazionale e nazionale.

Detto questo, debbo anche aggiungere, per concludere, che il sarcasmo del “bravo giornalista” qui citato, il quale cerca di tratteggiare in termini caricaturali il Movimento No Global di ieri, di oggi e di domani, trova a mio avviso un qualche appiglio nelle insufficienze e nelle contraddizioni politiche e “teoriche” (ossia nella “concezione generale del mondo”) manifestate ampiamente nel corso degli anni da quel Movimento, il cui antiglobalismo è parso spesso voler strizzare l’occhio a un periodo ormai superato, e spesso mitizzato, di Capitalismo, cosa che lo ha esposto alla facile strumentalizzazione politico-ideologica operata da una parte delle classi dominanti interessate a imbrigliare in qualche modo il cavallo della “globalizzazione selvaggia”. Ma su questo punto ritornerò un’altra volta.

I TEDESCHI NON SCHERZANO MAI!

«I tedeschi non scherzano mai»: così recita la lapidaria pubblicità di una nota casa automobilistica tedesca. Migliaia di saggi sul carattere nazionale tedesco sintetizzati in uno slogan: è la forza del marketing. E Trump, che ultimamente si è molto lamentato con i «cattivi tedeschi» per l’invasione del mercato americano per opera delle loro automobili, ne sa qualcosa. Scherzi a parte, come dobbiamo interpretare l’impegnativa dichiarazione rilasciata ieri da Angela Merkel in una grande birreria-tendone di Monaco di Baviera? Leggiamo: «I tempi in cui potevamo fare pienamente affidamento sugli altri sono passati da un bel pezzo, questo ho capito negli ultimi giorni. Noi europei dobbiamo davvero prendere il nostro destino nelle nostre mani. […] Dobbiamo sapere che dobbiamo lottare noi stessi per il nostro futuro e il nostro destino di europei». Quando si tratta di scomodare l’impegnativo e “pesante” concetto di destino i tedeschi non scherzano mai. Gian Enrico Rusconi, che di cose tedesche si intende, ha scritto qualche anno fa che «Quando si parla della Germania, i toni drammatici sono d’obbligo». È quindi saggio non attribuire alle parole della Cancelliera di Ferro il significato di un mero esercizio retorico usato a fini elettoralistici, confidando nella scarsa simpatia che il Presidente degli Stati Uniti può “vantare” in Europa in generale e in Germania in particolare – la Russia è un discorso a parte.

Nella divergenza Merkel-Trump Emmanuel Macron ha probabilmente visto la ghiotta opportunità di ritagliarsi il comodo ruolo del mediatore, soprattutto nel contesto della nuova situazione creata dalla Brexit; ma egli deve muoversi con prudenza, deve fare molta attenzione perché potrebbe rimanere stritolato nella morsa di interessi, di contraddizioni e di conflitti di eccezionale portata, tali da poter produrre nuova storia, nuovi equilibri geopolitici. Probabilmente è finito il tempo in cui l’abilità manovriera dei leader politici europei (ad esempio di Francia e Italia) poteva supplire a una debolezza strutturale di fondo, e questo con il tacito consenso degli stessi tedeschi, disposti a chiudere un occhio su velleità che tutto sommato non intaccavano la realtà dei rapporti di forza. Tanto più dal momento che la Germania rifiutava di esporsi più di tanto sul piano squisitamente politico, e lasciava pragmaticamente che a parlare fosse la sua potenza economica: fatti, non parole! Ma oggi la «Potenza riluttante» è strattonata da tutte le parti; da tutte le parti le si chiede di assumersi le sue responsabilità, e c’è il rischio che, prima o poi, essa lo faccia davvero: è sempre pericoloso evocare il genio che dorme dentro la lampada!

Rappresentare i grandi convegni internazionali alla stregua di competizioni sportive alla fine delle quali il pubblico ha la possibilità di applaudire i vincenti e di fischiare i perdenti (alcuni quotidiani italiani hanno persino redatto pagelle di fine vertice, come si fa per le partite di calcio), è cosa che piace molto ai mass media di tutto il mondo, i quali devono pur campare. Ma di certo non è il modo più corretto di approcciare e raccontare i Summit come quello che si è appena concluso nella bellissima location di Taormina. In passato il formato G7 (iniziato ufficialmente come G6 nel 1975, diventato G8 alla fine degli anni Novanta con la presenza della Russia, espulsa dal gruppo dei “Grandi” nel 2014 per le note vicende in Ucraina) per un verso – e nei fatti – si limitava a fotografare lo stato dei rapporti di forza «fra i grandi del mondo libero», e per altro verso cercava di vendere all’opinione pubblica internazionale una narrazione tesa a rassicurarla circa le buone intenzioni dei governi riuniti annualmente per fare il punto della situazione: «È per il vostro bene che stiamo lavorando. Il mondo è in buone mani. Tutto è sotto controllo. Lavorate con zelo e pagate le tasse, dunque». Ed ecco le photo opportunity, ed ecco i chilometrici documenti finali, preparati con millimetrica precisione dai funzionari di fiducia dei Capi di Stato e di Governo (i mitici Sherpa), pieni di buone intenzioni su tutto: sulla futura prosperità dei cittadini, sulla sostenibilità sociale e ambientale dell’economia, sulla pace nel mondo, sulla tolleranza (culturale, religiosa, razziale, sessuale) e su molto altro ancora. L’arrosto dei fatti e il fumo della propaganda, il quale esigeva da parte dei protagonisti un contegno diplomatico inteso a smussare agli occhi dell’opinione pubblica punti di frizione e contraddizioni di vario genere. Alla fine di ogni G7, nella conferenza stampa di chiusura, ciascuno dei protagonisti poteva vantare davanti ai propri cittadini elettori il successo del convegno: «Specialmente il nostro Paese ne esce rafforzato». Come no!

Che fotografia ci consegna il G7 di Taormina? La novità, rispetto ai Summit precedenti, quantomeno a quelli degli ultimi venti anni, è che questa volta l’arrosto dei fatti ha fatto premio, come si dice, sul fumo della propaganda, e ciò non dovrebbe sorprendere nessuno, visto il carattere poco incline agli insulsi canoni del politically correct del Presidente che oggi rappresenta gli interessi della prima potenza capitalistica del pianeta. Ma al di là dei dati personali, è sulla situazione strutturale del cosiddetto mondo libero che si debbono individuare le cause del «fallimento», come sostengono gli analisti più esperti di G7, del vertice di Taormina; «fallimento» che acquista un significato politico e geopolitico ancor più marcato se messo a confronto con l’indubbio successo che Trump ha avuto nella sua missione in Medio Oriente. Chi in Europa si aspettava un Presidente più accomodante, quantomeno per ragioni di garbo diplomatico, ha dovuto ricredersi. Il contenzioso economico e politico fra Stati Uniti e Unione Europea è diventato troppo grande, per essere facilmente nascosto agli occhi dell’opinione pubblica internazionale con qualche espediente diplomatico e per non avere conseguenze politiche di ampio respiro che per adesso personalmente non so prevedere né immaginare – se non sulla scorta di suggestioni che mi vengono da vecchie e poco rassicuranti immagini in bianco e nero. Di certo sono intellettualmente aperto a ogni tipo di conseguenza che sia radicata in una tendenza oggettiva, e oggi la tendenza oggettiva ci parla appunto di un conflitto sistemico tutto interno al cosiddetto «mondo libero».

L’esibita postura muscolare di Donald Trump nasconde in realtà la reale – ma relativa – debolezza economica (industriale, commerciale, finanziaria) degli Stati Uniti, cosa che peraltro non fa registrare un’assoluta novità, anzi. Come ho scritto altre volte, negli anni Ottanta gli USA adottarono una linea politica, commerciale e monetaria molto dura e aggressiva nei confronti della Germania e del Giappone, ossia dei due Paesi che nel secondo dopoguerra si erano assai rafforzati sul piano commerciale e finanziario a spese dell’alleato americano, alle prese con il più grande debito estero del mondo, con un debito pubblico sempre più grande e con una bilancia dei pagamenti costantemente negativa. Sulla The New York Review del maggio 1988 Felix Rohatyn, finanziere e autorevole analista economico e politico di orientamento democratico, scrisse che «Oltre 200 anni dopo la Dichiarazione di Indipendenza gli Stati Uniti hanno perduto la loro posizione di potenza indipendente», e si apprestavano a diventare una «potenza economica di secondo rango». Anche allora la Casa Bianca minacciò di adottare contro l’asse liberista Tokyo-Bonn una politica ampiamente protezionista, confermando la tesi secondo la quale la politica delle porte aperte (possibilmente spalancate) è più congeniale ai forti, mentre la politica opposta segnala una situazione di sofferenza in chi la adotta o minaccia di adottarla. Oggi la politica “liberoscambista” corre soprattutto lungo l’asse Berlino-Pechino, e difatti la Germania di Merkel e la Cina di Xi Jinping sono costantemente nel mirino di Trump: «Prima dell’arrivo dei cinesi, l’acciaio americano andava bene». E qui è facile immaginare una standing ovation di chi alle ultime Presidenziali ha votato Trump e una risata da parte di chi fa l’apologia della nuova rivoluzione tecnologica basata sull’Intelligenza Artificiale. «Donald Trump si è abbattuto come un ciclone sul G7 dopo aver vestito i panni della diplomazia in Medio Oriente. [… ] La differenza di approccio riflette la genesi del movimento elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca: per le famiglie del ceto medio bianco del Mid-West e degli Appalachi, flagellati dalle diseguaglianze, la priorità è solo e soprattutto un sistema economico “più giusto” ovvero radicalmente diverso dall’architettura degli accordi globali creata dalla fine della Guerra Fredda dai presidenti Clinton, Bush e Obama» (M. Molinari, La Stampa).  Tarda ancora ad abbattersi sulla Società-Mondo del XXI secolo il ciclone della lotta di classe orientata a distruggere l’attuale sistema economico, più o meno “giusto” (vedi le santissime parole del Compagno Papa Francesco) che sia. Ma di queste utopistiche cose scriverò un’altra volta. Forse.

«Durante la presidenza Obama si è cercato, senza successo, di stipulare Accordi Transatlantici e Accordi Transpacifici, quasi come se gli Stati Uniti volessero di nuovo protendersi a un dominio del mondo che rafforzasse il loro ruolo di esportatori della sicurezza. Quel tentativo è fallito, come è noto, e il nuovo presidente Trump ha più volte dichiarato che vuol sostituirlo con accordi bilaterali che, in effetti, sono la norma da molti anni su scala globale: una norma che è soprattutto frutto del pesante crollo ventennale del commercio mondiale, per il restringimento della domanda interna, per l’inizio della deflazione secolare, per l’instabilità delle relazioni internazionali e dei rapporti di potenza tra Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Russia e Cina. Alcuni di questi Stati, similmente all’India, sono tanto esportatori di merci industriali, quanto di merci agricole, quanto di servizi al commercio virtuale attraverso le piattaforme di Google, Amazon ecc. Insomma, negli scambi mondiali, c’è un grande disordine sotto il cielo e la navicella liberista veleggia a fatica, come se fosse tra un mare di ghiaccio» (G. Sapelli, Il Messaggero). Insomma, Trump è più un sintomo che una causa.

Scriveva Guido Salerno Aletta alla vigilia del vertice di Taormina: «Il debito federale è in crescita continua, e si prevede che cresca ancora: nel 2016 è stato pari al 107,3% del pil, quest’anno al 108,3%, fino a raggiungere il 117% del 2022. La posizione internazionale netta americana peggiora in continuazione dai -1.279 miliardi di dollari del 2007 è arrivata ai – 8.109 miliardi del 2016. In dieci anni, il debito americano verso l’estero è cresciuto di 6.830 miliardi di dollari: con questo disavanzo commerciale e con questo debito pubblico non si va avanti» (Formiche). Scrive oggi Andrea Montanino su La Stampa: «Il 5 giugno 1947 è una data storica, perché veniva scritto il Piano Marshall e iniziavano le relazioni speciali tra Stati Uniti e Europa occidentale. A 70 anni esatti di distanza, le relazioni transatlantiche sono precipitate e sembra aprirsi una nuova era dopo le dichiarazioni di Angela Merkel e le decisioni del presidente Trump in merito al rispetto degli accordi di Parigi sul clima.  […] Trump è in particolare infastidito dai 68 miliardi di dollari di deficit commerciale con la Germania. Ma è un fatto che la Germania sia molto più competitiva degli Stati Uniti: secondo il Trade Performance Index sviluppato dall’Organizzazione Mondiale del Commercio insieme alle Nazioni Unite, su 14 prodotti nei quali viene suddiviso il commercio mondiale, la Germania è al primo posto in otto per competitività, mentre gli Stati Uniti sono mediamente intorno alla trentesima posizione. I rapporti commerciali tra Germania e Stati Uniti sono poi alquanto articolati: ad esempio, il primo esportatore di automobili dagli Stati Uniti non è la Ford o la General Motors, ma la Bmw con le sue fabbriche della Carolina del Nord.  Attaccare la Germania può essere poi controproducente sul fronte degli investimenti: le aziende tedesche hanno investito negli Stati Uniti circa 255 miliardi di dollari, dando da lavorare a 670 mila persone (dati Bureau of Economic Analysis). Piuttosto che attrarre nuovi investimenti e creare occupazione, la politica di Trump verso la Germania potrebbe far mancare un partner prezioso per fare “l’America nuovamente grande”. Senza contare che il 44 per cento di tutti gli investimenti stranieri in America vengono dai 27 membri dell’Unione Europea». Diciamo pure, anche per irritare i sovranisti economici e politici di “destra” e di “sinistra”, che nel Capitalismo globalizzato del XXI secolo una politica coerentemente protezionista è di problematica attuazione, diciamo così; sempre al netto della velenosissima propaganda sovranista rivolta ai «perdenti della globalizzazione». In ogni caso, la tendenza alla creazione di un polo imperialista europeo a guida tedesca (non vedo oggi altra leadership “sistemica” possibile) si è molto rafforzata. Almeno così mi sembra.

ES IST DER KAPITALISMUS, SCHÖNHEIT!

merkel-profughi-706734Chiunque abbia avuto a che fare per motivi di lavoro con gli organismi americani preposti ai controlli degli standard sanitari, ambientali e di sicurezza sa bene quanto stringenti e pignoli (a volte fino al parossismo!) siano questi controlli. Ricordo che nel porto di Los Angeles, forse correva l’anno 2002, la nave nella quale lavoravo beccò una lunghissima sequela di salatissime multe che sanzionavano magagne d’ogni genere: troppo caldo in sala macchine, troppo fumo in cucina, troppo freddo in coperta, troppo sporco negli alloggi e via di seguito. Ebbene, la nave venne multata anche perché un recipiente posto appena fuori dalla cucina adibito alla raccolta dell’immondizia (beninteso previa oculatissima differenziazione da parte del personale di bordo) non si trovava al posto giusto: distava infatti di un metro (dicasi un metro!) rispetto al punto previsto dai controllori americani – non mi si chieda in base a quale sofisticato criterio. Cose dell’altro mondo, puro terrorismo psicologico, soprattutto per uno abituato ai più rilassati, diciamo così, standard capitalistici della Magna Grecia.

Naturalmente l’ossessivo perfezionismo americano risponde a precise esigenze economiche (e sociali in genere): si tratta di un’ormai ben consolidata e continuamente aggiornata politica industriale che coinvolge tutta l’economia che si dipana sotto il cielo degli Stati Uniti, e che vede mobilita militarmente e capillarmente l’intera piramide del sistema americano preposto al controllo delle attività, delle persone e dei prodotti. Va da sé che la cosa non ha mai impedito “illegalità” e furbizie economiche d’ogni genere, come sappiamo anche dalla “scandalosa” vicenda dei titoli spazzatura scoppiata nel 2007*; la politica particolarmente stringente e assai severa dal lato penale in materia di “correttezza” nelle prassi economiche serve piuttosto ad innalzare lo standard di qualità complessivo della società americana (il cosiddetto orgware), che non a caso si colloca ancora al vertice del sistema capitalistico mondiale. «È un paradosso che dirigenti, azionisti e lavoratori non devono mai dimenticare: il capitalismo Usa adora il libero mercato, ma punisce severamente deviazioni dalle norme etiche, professionali e legali. Il patto non implicito tra il governo Usa e le società è: vi lasciamo in pace, anzi, vi aiutiamo con sgravi fiscali, regole leggere e poca interferenza, ma quando fate un errore vi schiacciamo come un insetto. D’altra parte, la sinistra dice che le punizioni non sono dure abbastanza. La grande critica del governo Obama tra i benpensanti democratici è di non aver messo nessuno dei capi di Wall Street in prigione dopo la crisi del 2008-2009» (F. Guerrera, La Stampa, 24 settembre 2015). Si sa, i benpensanti sinistrorsi si distinguono dappertutto quanto a giustizialismo populista: il loro modello penale è la Cina.

Com’è noto, la sicurezza sul posto di lavoro (secondo lo standard internazionale del Safety First) e il rispetto ambientale delle «attività antropiche» (secondo lo standard internazionale Anti-pollution) sono già da tempo entrate a pieno titolo nelle aggressive strategie concorrenziali delle grandi imprese multinazionali tecnologicamente più avanzate del pianeta: infatti, attraverso le politiche aziendali “rispettose” della sicurezza e dell’ambiente il grande Capitale mette fuori mercato la media e la piccola impresa, ma anche la stessa grande impresa che non riesce a tenere il passo con quelle aggressive e costose politiche “eticamente corrette”. Standard qualitativi e concentrazione capitalistica sono due facce della stessa medaglia**. Sul terreno della competizione capitalistica globale anche le benemerite Organizzazioni Non Governative dedite alla salvezza del pianeta stanno dando un notevole contributo.

«Nonostante gli sforzi la Volkswagen negli Usa continua a faticare rispetto alla concorrenza. Da gennaio ad agosto ha immatricolato 238 mila veicoli, il 2.7% in meno di un anno fa. L’apertura dello stabilimento di Chattanooga con un investimento di un miliardo di dollari non ha prodotto gli effetti sperati: l’obiettivo di un milione di automobili l’anno entro il 2018 appare lontano» (Il Sole 24 Ore). Evidentemente il management della casa automobilistica tedesca oggi nell’occhio del ciclone ha cercato di dare un “aiutino” alla capacità concorrenziale del suo prodotto, «anche per salvare posti di lavoro» (non solo in Germania): «Es ist der Kapitalismus, Schönheit!». Il Capitale statunitense ha risposto per le rime: «Exactly!».

In attesa di ritornare sulla scottante questione, rinvio a un interessante articolo pubblicato sul Sole 24 Ore.

Post Scriptum: Il lettore forse si aspettava che scrivessi qualcosa sull’orgoglio ferito della Cancelliera di Ferro («oggi di plastica!») e sulla spocchia/ipocrisia dei tedeschi che si rivelano essere «poco affidabili esattamente come gli italiani e i greci». Per il livore antitedesco rimando agli specialisti della materia, che in Italia abbondano a “destra” come a “sinistra”. Piuttosto sarà interessante vedere come reagiranno i politici tedeschi e il “popolo” tedesco a questa battaglia persa in modo così rovinoso e umiliante. La guerra sistemica comunque continua, e pare che a Berlino si stanno studiando contromisure e ritorsioni “a 360 gradi”. Non solo contro gli Stati Uniti. Es ist der Kapitalismus, Schönheit!

2015-09-22T175023Z_133044446_LR2EB9M1DJP6B_RTRMADP_3_USA-VOLKSWAGEN-keOE-U43120121429624CH-1224x916@Corriere-Web-Sezioni-593x443* «Nella drammatica vicenda che ha coinvolto Volkswagen e rischia di trascinare nello scandalo altri marchi, c’è paradossalmente un lato positivo. Una speranza perlomeno. Per andare oltre le inevitabili e incalcolabili ripercussioni economiche e industriali dell’intero comparto automobilistico (è prevedibile che crolleranno le vendite dei motori diesel messi così grossolanamente sotto accusa), i maggiori governi europei dovrebbero oggi più che mai fare un sforzo definitivo, serio e soprattutto comune, per dare una spinta alla diffusione delle auto ibride ed elettriche. Quasi tutte le case automobilistiche hanno nella loro gamma vetture a batterie. Le ibride, supportate dal motore termico, hanno vita più facile e si stanno conquistando una loro nicchia di mercato (Toyota docet). Le elettriche pure, quelle veramente a emissioni zero allo scarico, restano praticamente invendute. Mancano le infrastrutture e sufficienti incentivi economici all’acquisto (se si fa eccezione per alcuni Paesi del Nord Europa, la Norvegia prima tra tutti). Ma l’industria è tecnologicamente pronta per dare una svolta concreta alla mobilità nel giro di tre-cinque anni. Ed è pronta anche Volkswagen, come aveva annunciato l’ex CEO Martin Winterkorn prima del terremoto. Non basta? In occasione del recente salone di Francoforte, il grande capo di Mercedes, Dieter Zetsche, ha dichiarato : «Sono disponibile a creare un’alleanza con Audi e Bmw per le batterie delle auto elettriche». Che possa essere davvero questa la via di fuga dell’industria automobilistica europea messa all’indice dagli americani? Come sempre la risposta è nelle mani, speriamo non inquinate, della politica» (M. Donelli, Il Corriere della Sera, 24 settembre 2015 ). Su questi temi rimando a Industria automobilistica e competizione capitalistica totale.

** Per Federico Fubini «Le somiglianze tra la crisi dei subprime del 2007-2008 e Lehman Brothers e lo scandalo Volkswagen sono impressionanti. Volkswagen realizza vendite per oltre 200 miliardi di euro l’anno, è il più grande investitore al mondo in ricerca e sviluppo, assicura in Germania 600 mila posti di lavoro diretti (più milioni di posti indiretti). Il settore auto pesa per 300 miliardi di euro di esportazioni, la prima voce del made in Germany. Anche Volkswagen è “too big to fail”, dunque il governo tedesco interverrà per salvarla: ma lo farà violando e forse demolendo le regole europee sugli aiuti di Stato, quelle che avevano rimesso un minimo d’ordine nel rapporto fra politica e imprese in Italia» (Il Corriere della Sera, 24 settembre 2015).

GIOCHI DI POTERE SULLA PELLE DEI MIGRANTI

bambini-paure-692395Gran gioco tattico della Cancelliera di Ferro, non c’è che dire. Un intelligente gioco che potrebbe avere conseguenze strategiche di grande respiro ancora tutte da verificare, com’è ovvio, ma anche semplicemente da immaginare. Ma è ancora presto per azzardare previsioni: limitiamoci allora alla stretta attualità, e soprattutto teniamoci alla larga dalla facile «compassione per gli ultimi», così irritante soprattutto nell’Anno della Misericordia.

L’imperialismo compassionevole di Angela Merkel ha spiazzato più di un leader politico del Vecchio Continente. L’accoglienza selettiva dei profughi (è benvenuto in Germania solo chi fugge dalle guerre) deliberata da Berlino in un sol colpo ha posto la Cancelliera nelle invidiabili condizioni di poter conquistare i cuori e le menti dei reietti del pianeta, i quali vedono appunto nella Germania la nuova Terra promessa. Dalla Germania “lo straniero” non fugge più, come ai tempi di Hitler, ma all’opposto egli associa a quel Paese i concetti di salvezza, di speranza, di benessere. «Germania! Germania! Germania!»: è il grido dei disperati ammassati in Italia, in Grecia, in Ungheria e altrove. Un capolavoro politico-ideologico! Questo, si badi bene, non esclude affatto che l’attuale governo tedesco non debba pagare dei costi politici, anche salati, sul fronte interno; d’altra parte gli umori dell’opinione pubblica internazionale di questi tempi sono molto volatili, un po’ come le borse. I giorni a venire probabilmente ci diranno qualcosa anche in tal senso.Senza muovere dal suolo patrio un solo soldato teutonico, la Germania bisognosa di “capitale umano” giovane e qualificato (1) si è dunque proiettata al centro della scena geopolitica internazionale, costringendo i colleghi europei di maggior peso politico (Cameron e Hollande) a rincorrerla sullo scottante terreno dei flussi migratori, una patata bollente in termini di consenso elettorale e di gestione delle tensioni sociali. Ma la mossa tedesca ha colto di sorpresa anche e soprattutto i Paesi del fronte del rifiuto, la cui capacità sistemica (economica, culturale, sociale in senso ampio) di integrazione dei migranti è ovviamente assai più modesta. «È facile essere compassionevoli con un Capitalismo così forte», avranno pensato a Varsavia e a Budapest. Di qui la pronta solidarietà accordata da Grillo e da Salvini, che rivaleggiano con i sovranisti europei più arrabbiati quanto a tedescofobia, ai Paesi interessati dallo «sciame migratorio».

«”Il diritto all’asilo politico non ha un limite per quanto riguarda il numero di richiedenti in Germania”. Lo ha detto la cancelliera Angela Merkel in un’intervista pubblicata oggi. “In quanto paese forte, economicamente sano abbiamo la forza di fare quanto è necessario”, ha aggiunto» (ANSA, 5 settembre 2015). Un messaggio indirizzato soprattutto ai tedeschi recalcitranti. Comunque sia, la Germania ha preso l’iniziativa su una questione di grande impatto sociale e di grande significato geopolitico, cosa che sta costringendo i partner europei a mettersi rapidamente in riga, qualche modo, con le buone o con le cattive (leggi sanzioni economiche), oppure a manifestare chiaramente il loro dissenso, cosa che potrebbe avere gravi conseguenze sull’intero progetto europeo. Avere smosso le acque e rotto degli equilibri nel contesto di un dossier così importante e delicato com’è indubbiamente quello dei flussi migratori è di per sé un fatto politicamente importante, le cui conseguenze di breve, medio e lungo periodo sono appunto tutte da verificare e da interpretare. Qui registro solo il rapido contropiede di Berlino e gli affanni delle altre capitali europee.

«Se non sapremo governare questa nuova onda di paura, l’Europa libera e unita che sognavamo alla fine dello scorso secolo si muterà in un grande ghetto»: ha scritto così Lucio Caracciolo su Repubblica del primo settembre. Il giorno prima Angelina aveva espresso lo stesso concetto: «Se non riusciremo a far fronte con intelligenza e solidarietà alla crisi migratoria di questi giorni l’Europa che volevamo rimarrà solo un sogno». Cimentandosi nell’ennesima recriminazione sulla «deriva germanica dell’Unione Europea», qualche giorno fa Giuseppe Cucchi scriveva che «Non è certamente questa l’Europa per cui ci siamo tutti battuti con visione, amore e speranza per tanti decenni!» (Limes, 31 agosto 2015). Analoghi concetti si trovano nei piagnistei europeisti di politici e intellettuali progressisti del Vecchio Continente: «Il sogno europeo è stato tradito, è stato piegato alla logica degli interessi nazionali, è stato sostituito dalla realpolitik che fa capo a leader che non hanno né visione strategica né cultura politica, e che, soprattutto, hanno dimenticato le dure lezioni della storia» (2): questo è il lacrimevole leitmotiv europeista. Non pochi critici della Merkel ai tempi della Tragedia Greca oggi gridano degli Evviva! all’indirizzo della Cancelliera, la quale avrebbe rianimato «il sogno di un’Europa libera, solidale, aperta». Certi personaggi hanno in testa gli Sati Uniti d’Europa, un gigante imperialista (o capitalista: trattasi dello stesso concetto) capace di rivaleggiare con gli Stati Uniti d’America, con la Russia e con la Cina e parlano di “Sogno”! D’altra parte, chi sono io per fare dell’ironia sulle legittime, ancorché “problematiche”, aspettative di una parte della classe dominante del Vecchio Continente?

In forte crisi di autostima, mi sono visto costretto al solito rimedio: leggere qualche famoso “marxista” contemporaneo. La scelta è caduta stavolta su Diego Fusaro(purtroppo non è la prima volta: spero sia l’ultima!: «Credo nel primato della politica e dello Stato sull’economia»: e qui è ben sintetizzato il concetto di “materialismo storico”, diciamo. «Un ritorno a una valuta nazionale sia in Grecia come in Italia sarebbe un modo per riaffermare il potere sovrano dello Stato». Confermo l’impressione del lettore: l’«allievo di Marx e di Hegel, ma anche di Gramsci» sta parlando dello Stato borghese, dello Stato imperialista del XXI secolo (3). Riprendo la citazione: «L’internazionalismo è l’altra faccia della globalizzazione capitalistica. […] Diversamente dai tempi di Marx in cui il capitalismo andava a braccetto con lo Stato-Nazione, oggi è proprio il capitalismo che supporta, per i propri interessi, l’idea di uno Stato sovranazionale» (Lettera 43, 26 agosto 2015). Ma non è stato l’internazionalista di Treviri a sottolineare (già negli anni Cinquanta del XIX secolo!) la dimensione mondiale del Capitale, con tutto quel che, materialisticamente parlando, ne segue sul piano politico? (Ma anche, ovviamente, sul piano dei flussi migratori generati dall’ineguale sviluppo capitalistico e dalle guerre più o meno “regionali”, come quelle che stanno ridisegnando la mappa geopolitica del Nord Africa e del Medio Oriente, una mappa vecchia di un secolo disegnata dalle Potenze del tempo con le armi e con il righello).

europe_is_dead_miguel_villalba_snchez_elchicotriste_1Ritemprata la mia abbacchiata autostima, posso concludere dicendo che la vera tragedia dei migranti non è quella di non avere una patria (4), ma di avere per patria il Capitalismo (quello avanzatissimo del “Nord” e quello relativamente più arretrato del “Sud”), esattamente come tutti i cittadini di questo disumano mondo.

(1) «L’invecchiamento della popolazione e le conseguenti preoccupazioni riguardo alla carenza di manodopera qualificata hanno portato i dirigenti tedeschi a riconoscere i vantaggi di un’immigrazione crescente: rinunciare alle conoscenze, alle competenze e al bagaglio formativo degli immigrati vorrebbe dire sprecare delle risorse. Contrariamente a quanto avveniva durante gli anni del miracolo economico, la Germania è ora disposta a investire e a integrare. Non vuole solo ricevere, ma anche dare e non solo denaro, ma anche indumenti o un tetto sotto cui dormire. È pronta a mostrarsi umana e solidale, a offrire ai nuovi arrivati conforto e senso di appartenenza» (Der Spiegel, 25 luglio 2015). Le vie che menano alla “solidarietà umana” sono infinite!
(2) Si dimentica, ad esempio, quanto ebbe a scrivere «Churchill all’inizio della sua Storia della Seconda Guerra Mondiale, allorché enunciava in poche righe il fatto che “il XXesimo secolo è stato caratterizzato da periodiche esplosioni della ricorrente vitalità teutonica” prima di dedicare alcuni volumi al racconto di come siano stati necessari sei terribili anni per riportare nell’alveo della ragione la più recente di tali esplosioni» (G. Cucchi).
(3) D’altra parte, lo “Stato proletario” che ha in testa il maestro di dialettica di cui si parla ha le miserabili/mostruose sembianze dello Stato capitalistico formato “socialismo reale”. E ho detto tutto! «Matteo Salvini è quello che da un lato dice di voler uscire dall’euro e al tempo stesso assicura gli imprenditori che non vuole farlo»: no, decisamente il leghista con la ruspa non è un marxista, al contrario del Nostro sovranista senza se e senza ma. Mah!
(4) «La nazione invisibile non esiste e non esistono i suoi cittadini. Ma esiste una marea umana che si muove alla ricerca di un posto che li accolga. Sono circa 60 milioni di persone, uomini, donne, minori, la maggior costretti a migrare per motivi economici. Di questi 11,7 milioni scappano dal proprio paese a causa di guerre e persecuzioni» (A. Gussoni, L’Espresso, 6 luglio 2015).

IL PUNTO SULLA CRISI GRECA

tsipras-varoufakis-by-benny-686979Come commentare l’ultima messa in scena parlamentare greca? Il risultato è quello che un po’ tutti gli analisti politici del mondo si attendevano: il famigerato Terzo Memorandum approvato con i voti dell’opposizione, spaccatura di Syriza, cambiamento nella natura politica del governo Tsipras, i leader dell’opposizione “responsabile” pronti a incassare il giusto compenso. Sotto la pressione dei «superiori interessi nazionali» e della minaccia di un’imminente ondata populista di destra può anche darsi che la ferita inferta dal Memorandum sul corpo del Partito del Premier greco possa rimarginarsi rapidamente. Ma può anche aprirsi uno scenario politico completamente diverso: tutto è estremamente fluido e caotico. Non ci resta che seguire gli eventi. Da spettatori, ahimè!

Ciò che invece appare sempre più chiaro è quello che è avvenuto nell’Unione Europea dopo il 5 luglio, ossia all’indomani dello «storico» referendum che ha visto trionfare alle urne i No (non si sa bene esattamente a cosa). I falchi tedeschi guidati da Wolfgang Schäuble hanno approfittato dell’azzardo tentato dall’ex strana coppia di Atene per prodursi nel più classico dei contropiedi. O, per rimanere nella metafora calcistica, Tsipras e Varoufakis sono stati protagonisti di un bellissimo autogol. Ma, come si dice, chi non fa non falla, chi non risica non rosica: si tratta piuttosto di vedere la natura del gioco, più che di criticare l’astratta volontà di giocare dei protagonisti.

Un azzardo, va detto subito a scanso di antipatici equivoci, concepito e realizzato, con i risultati che vediamo, interamente sul terreno delle compatibilità capitalistiche. Solo degli sprovveduti (alludo ad esempio ai socialsovranisti fissati con il neoliberismo o “liberismo selvaggio” e con la “filosofia austerica”*) possono scomodare, a proposito della strategia negoziale dell’ex strana coppia di Atene, i concetti di “rivoluzione”, “lotta di classe” e perle di simile conio. Oggi il simpatico Massimo D’Alema ha dichiarato in un’intervista che «Syriza ha una matrice eurocomunista»: ciò avvalora quanto da me sostenuto circa la natura “organicamente” borghese di quel partito. (Detto en passant, una buona parte di Piattaforma di sinistra, l’ala sinistrorsa di Syriza, ha una forte matrice «eurocomunista», ossia eurostalinis ta, e non a caso essa soffre molto la concorrenza del KKE).

Chiarito questo, bisogna brevemente considerare la dialettica interna all’ex strana coppia del Partenone: mentre per il Premier greco l’azzardo non doveva in ogni caso, nel modo più assoluto, spingersi oltre un certo limite, per non superare la soglia del non ritorno che avrebbe proiettato il Paese oltre l’attrazione gravitazionale dell’euro (e magari dell’Unione Europea), per l’ex Ministro “Marxista” delle Finanze il Game of chicken andava invece spinto fino alle estreme e necessarie conseguenze, e come egli stesso ha ammesso in un’intervista a l’Harry Lambert per New Statesman (13 luglio), all’interno del suo Ministero si era formato «un gruppo piccolo, un “gabinetto di guerra”, di cinque persone: abbiamo lavorato sulla teoria [della Grexit], abbiamo messo su carta tutto ciò che andava fatto. Ma una cosa è lavorare con quattro-cinque persone, un’altra è preparare il paese intero. Per preparare il paese serviva una decisione esecutiva, e questa decisione non è mai stata presa. La mia opinione era: dobbiamo stare molto attenti a non attivarla. Ma ho anche creduto che nel momento in cui l’Eurogruppo avesse fatto chiudere le banche, avremmo dovuto mettere in moto il processo». Ecco perché la stessa domenica del «trionfale successo referendario» Tsipras ha pregato gentilmente Varoufakis di farsi da parte.

«Non obbligo nessuno del mio partito a fare ciò che non vuole», ha dichiarato il Premier greco nella sua intervista televisiva del 14 luglio; «ma certe volte l’ideologia purista non serve». A cosa alludeva Tsipras con «ideologia purista»? Naturalmente al populismo sinistrorso che oggi ha nel bel tenebroso Yanis la sua nuova bandiera e forse il suo nuovo leader politico. «Essere un eccellente studioso non significa necessariamente essere un buon politico», ha detto di lui Tsipras dopo che l’ex sodale politico l’ha accusato praticamente di essere parte di un vero e proprio colpo di stato: «Nel 1967 le potenze straniere usarono i carri armati per mettere fine alla democrazia greca. Nel 2015 c’è stato un altro golpe delle potenze straniere, che hanno usato le banche invece dei carri armati». Qui l’ex Ministro sa di toccare corde sensibilissime: quelle che legano il «popolo greco» al carro del più ottuso nazionalismo, tipico dei popoli che hanno la ventura di vivere in Paesi tanto capitalisticamente deboli quanto ricchissimi di – infondate – velleità di potenza – magari chiamando in causa un lontanissimo retaggio storico.

Marcello Esposito esprime bene la confusione e lo stupore che dal 6 luglio regnano nella testa di gran parte degli analisti che da mesi seguono (non pochi indossando la casacca del tifoso) la crisi greca e che sono rimasti completamente spiazzati dall’esito dell’azzardo (o bluff, secondo alcuni critici): «Attaccare il premier greco Alexis Tsipras quando anche il suo ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis e la “brigata méditerranée” gli voltano le spalle non fa molto onore. Ma la successione degli eventi in questi ultimi quattordici giorni e l’esito finale, peraltro ancora tutto da scrivere, sono così surreali da generare la sensazione di aver vissuto come in un sogno collettivo. Qualcuno dovrà prima o poi spiegare al popolo greco su cosa abbia votato domenica scorsa e perché lo stesso premier che aveva invitato a votare Oxi a un piano – peraltro scaduto – abbia poi trattato per ottenere condizioni ancora più dure di quelle originali» (Linkiesta, 14 luglio 2015). Io ho provato a dare una prima risposta in un post del 9 luglio, prima cioè che l’Asse del Nord guidato dalla Germania concretizzasse il contropiede ai danni del governo greco:

«Come si spiega l’improvviso “voltafaccia” di Tsipras? Probabilmente il Premier greco aveva paura di spaccare il suo partito, che ha cercato di ricompattare attraverso la drammatizzazione dello scontro. «Uno degli uomini più fidati di Alexis Tsipras riassume, sorseggiando un caffè in un bar di Monastiraki: “Abbiamo vinto il referendum, ricompattato Syriza, messo a tacere l’opposizione, che ci appoggia in tutto, e messo all’angolo la Germania» (Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 8 luglio 2015). Il clima da ultima spiaggia che si è creato in Grecia potrebbe anche far ingoiare al Paese il rospo dell’”inaccettabile diktat” rifiutato solo ieri, magari in cambio di un riconoscimento politico delle ragioni del “popolo greco”, cosa che peraltro anche il Super Falco Wolfgang Schäuble non ha mancato di fare con la consueta teutonica schiettezza: «Rispettiamo l’esito del referendum ma, nel quadro delle regole dell’Eurozona, senza un programma non è possibile aiutare la Grecia. È chiaro però che la Ue ha anche una certa responsabilità verso la Grecia. Tutto dipende dal governo greco». Oggi Schäuble ha riproposto la sua ricetta, tutt’altro che provocatoria, per la Grecia: uscita del Paese dall’euro per un periodo congruo, ossia almeno cinque anni di dure riforme strutturali (rese sostenibili sul versante “umanitario” attraverso generosi finanziamenti dell’Unione e delle altre “Istituzioni”), di abbattimento del debito («un vero taglio del debito è inconciliabile con l’appartenenza all’unione monetaria») e di “rivoluzione culturale” idonea a introiettare nella società civile ellenica i principi che ispirano tutte le formiche del mondo. Sono sicuro che in Grecia non pochi la pensano come lui, anche se non lo direbbero nemmeno sotto tortura. D’altra parte, che il decrepito Capitalismo ellenico abbia bisogno di una radicale modernizzazione non lo nega nessuno, a cominciare da Varoufakis: «Fin dall’inizio io l’ho pensata così: la Grecia è un paese che si è arenato tanto tempo fa. È chiaro che dobbiamo riformare il paese – siamo d’accordo [con Tsipras] su questo punto» (New Statesman). Anch’io, nel mio infinitamente piccolo, l’ho sempre sostenuto: euro o dracma, Unione Europea o (più o meno chimerica) autonomia nazionale, per i nullatenenti e per tutti gli strati sociali rovinati dalla crisi si apre un orizzonte di più duri sacrifici.

new-drachma-goldcore_-620x291 (1)«Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male» (Alesina e Giavazzi, Il Corriere della Sera, 14 luglio 2015). Diciamo che i frutti della sponda geopolitica, che Tsipras (e chi verrà dopo di lui) non smetterà di coltivare, non si sono ancora visti. E diciamo anche che probabilmente l’ex strana coppia greca ha gravemente sottovalutato il decisionismo tedesco, il quale non si è (ancora) lasciato intimorire dal fuoco di sbarramento proveniente dalla concorrenza imperialistica: Stati Uniti e Russia, in primis.

Scrive il filosofo “marxista” Alain Badiou: «Sullo sfondo, si agitano timori geopolitici. E se la Grecia si rivolgesse verso qualcun altro di diverso dai padri e dalle madri fustigatori dell’Europa? Allora, io direi: ogni governo europeo ha una politica estera indipendente. Contro le pressioni alle quali è sottomessa, la Grecia può e deve avere una politica altrettanto libera. Siccome i reazionari europei vogliono punire il popolo greco, quest’ultimo ha il diritto di cercare degli appoggi esteriori, per diminuire o impedire gli effetti di questa punizione. La Grecia può e deve rivolgersi alla Russia, ai paesi dei Balcani, alla Cina, al Brasile, e anche al suo vecchio nemico storico, la Turchia». Cito questa posizione perché essa esprime bene l’esatto opposto di quanto vado predicando – inutilmente, lo so – io: l’autonomia di classe, sul terreno nazionale come su quello internazionale. Molti “marxisti” credono di poter fare la storia della lotta di classe nello stesso momento in cui partecipano alla storia della lotta interborghese e interimperialistica, ossia alla lotta che il Dominio fa all’umanità in generale e alle classi subalterne in particolare. Non si insisterà mai abbastanza sulla sindrome della mosca cocchiera in guisa “marxista”.

Sul famigerato Terzo Memorandum ho davvero poco da dire, anche perché il testo è talmente chiaro, soprattutto nelle sue intenzioni e implicazioni politiche, che difficilmente esso si presta a equivoci, se non sul terreno della propaganda politica, come in questi giorni ha cercato di fare penosamente Tsipras per vendere in patria una pessima merce. «Abbiamo dato una lezione di dignità», ha detto oggi il Premier greco; la «dignità nazionale» è l’ultima merce politico-ideologica che rimane da vendere alla gente in momenti di acuta crisi sociale. Certo, dovremo fare dei sacrifici, pure duri, ma nessuno potrà toglierci la nostra dignità, mai! Magari le mutande sì, ma la dignità… Ovviamente più penoso di Tsipras c’è solo il suo fan italiano che cerca di difenderlo “a prescindere”. Si capisce, anche quelli che volevano usare Tsipras come un Cavallo di Troia antieuropeo e adesso lo accusano di essere diventato (eterogenesi dei fini? astuzia della storia?, destino cinico e baro?) un Cavallo di Troika al servizio di Berlino e Bruxelles non scherzano quanto a penosità, se così posso esprimermi.

merkel-grexit-grecia-tsipras-cavallo-troika-689649Scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera: «Tsipras è tornato solo da una serie di vertici a Bruxelles. In che misura sia ancora vivo per la politica ellenica ed europea, lo potranno dire solo i prossimi mesi. Ma la domanda alla quale fin da subito vorrebbero poter rispondere in molti attorno a lui è ancora più spiazzante: a soli 40 anni, un leader è abbastanza duttile per potersi trasformare in 20 giorni da una versione europea di Hugo Chávez in una di Ignacio Lula da Silva?». La domanda può spiazzare solo chi ha visto nell’ex caudillo venezuelano un modello del «socialismo del XXI secolo», e non una variante altrettanto reazionaria del vecchio populismo latinoamericano. Non c’è dubbio che il populismo in salsa sinistrorsa messo in piedi da Syriza per cavalcare il disagio sociale ha presentato a Tsipras un conto da pagare in termini di realismo, perché come gli ha detto il perfido Schäuble «non puoi fare alla tua gente promesse che sai di non poter mantenere». Intanto «La Bce ha alzato la liquidità d’emergenza (Ela) alla Grecia perché “le cose sono cambiate” con il voto al Parlamento greco, ha detto Mario Draghi» (Ultim’ora ANSA). Il “realismo” paga?

schaeuble-schauble-tsipras-grexit-grecia-689651* Un solo esempio: «Personalmente, devo ancora capire se Tsipras sia un erede di Marx o se sia l’ennesimo personaggio degno dello shakespeariano “tanto rumore per nulla”. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. Di pagliacci della sinistra del gruppo Bilderberg ce ne sono già troppi in giro. È una tragedia storica di portata epocale. A giudicare dal suo operato nelle ultime ore, che ha mai a che fare il signor Tsipras con Marx e Gramsci? Nulla, ovviamente. Tsipras ha assistito al genocidio finanziario del suo popolo causato dall’euro e dalle folli politiche finanz-naziste dell’austerità selvaggia: egli stesso è greco [oh, vile traditore della Sacra Patria!]. E, non di meno, vuole mantenere l’euro: non passa giorno senza che egli rassicuri le élites finanziarie circa la propria volontà di non toccare l’euro. E, in questo modo, offre una fulgida testimonianza – se ancora ve ne fosse bisogno – del fatto che Marx e Gramsci stanno all’odierna “sinistra Tsipras” venduta al capitale come Cristo e il discorso della montagna stanno al banchiere Marcinkus. Il solo modo di riscattarsi da parte di Tsipras sta – non v’è dubbio – nel rovesciare la gabbia eurocratica guidando il suo popolo fuori dal deserto chiamato Unione Europea. [Non v’è dubbio]. È sempre più difficile, purtroppo, pensare che si vada in quella direzione» (Diego Fusaro). Difficoltà per difficoltà, tanto vale lavorare per un’uscita dell’umanità dal Capitalismo (sans phrase, come scrivono i filosofi colti)! Scherzo, si capisce. Giusto un “marxista” come Fusaro, teorico – tra le altre dialettiche cose – dell’assetto multipolare dell’Imperialismo Mondiale, poteva farsi delle illusioni sulla «sinistra Tsipras», lodata fino al 5 luglio come fulgido esempio di socialsovranismo.

A proposito della crisi greca citare il celebre aforisma marxiano sulla ripetizione della storia è quasi d’obbligo, e nemmeno Gideon Rachman ha resistito: «L’intera saga ricorda un detto di quel grande tedesco, Karl Marx: “La storia si ripete, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa“. La questione del debito greco riesce ad essere sia una farsa che una tragedia, allo stesso tempo» (Financial Times, 13 luglio 2015). La stessa cosa si può senz’altro dire per molti ex tifosi di Tsipras, mutatis mutandis: la prima volta come farsa, la seconda come macchietta.

143220388-4975abf8-45e7-4705-b673-c1c26890a340Aggiunta del 23 luglio

TIFOSERIA SUL SOFÀ

Il blogger greco Alex Andreou, scrittore e artista sostenitore di Tsipras («un uomo buono, onesto e coraggioso»), ha scritto qualche giorno fa: «Ci scusiamo con i marxisti di tutto il mondo se la Grecia si è rifiutata di commettere un suicidio uscendo dall’euro. So che avete sofferto, dai vostri divani». Qui per «marxisti» occorre intendere i sovranisti di “sinistra”, i quali peraltro sono sostanzialmente identici ai sovranisti di “destra”, salvo che per un piccolissimo ma molto antipatico aspetto: i socialsovranisti di solito amano definirsi col nome del vecchio comunista di Treviri.

Naturalmente anche rimanendo nell’euro le classi subalterne della Grecia non hanno di che gioire, esattamente come accade nel resto d’Europa e del capitalistico mondo. Ma il blogger qui menzionato rivendica un punto di vista rigorosamente patriottico («Si è coraggiosamente combattuto. E astutamente, perché la Grecia vive per combattere un altro giorno»*), non “internazionalista-proletario”, e di certo non sarò io a smuoverlo da quella ultrareazionaria posizione. Ai miei occhi egli ha solo il merito di non scomodare l’animaccia del noto Tedesco (no, non alludo a Schäuble!) per difendere il governo greco.

A proposito di tifoseria comodamente accucciata sul sofà! Scrive Paul Krugman: «Ho avuto uno choc. Non mi era passato per la testa che quelli del governo greco potessero prendere una posizione così dura senza un piano di riserva». Ma non era lui (insieme all’altro collega geniale Joseph Stiglitz) che tutti i giorni donava illuminati consigli all’ex strana coppia del Partenone Tsipras-Varoufakis? Vatti a fidare dei premi Nobel!

Continua Andreou: «Sembrava che ci fosse una fervente, irrazionale, quasi evangelica credenza che un piccolo paese, affogato nei debiti e a corto di liquidità, avrebbe in qualche modo (e quel qualche modo non viene mai specificato) sconfitto il capitalismo globale, armato solo di bastoni e pietre». No, i “marxisti” con cui polemizza Andreou non sono poi così esigenti: il loro nemico non è il «capitalismo globale», qualunque cosa questa locuzione voglia dire per il blogger greco, ma la sua variante ideologizzata come «neoliberismo» o «liberismo selvaggio». Il massimo cui aspirano questi cosiddetti “marxisti” è il vecchio Capitalismo di Stato, una rancida merce che essi cercano di vendere sul mercato politico reclamizzandola con una terminologia pseudo postmoderna (tipo: economia dei beni comuni) che per adesso inganna solo loro.

Il nostro amico greco invita comunque i “marxisti” (e i premi Nobel per l’economia) a non scoraggiarsi: «Non abbiate paura. L’accordo potrebbe rivelarsi impraticabile comunque. Syriza potrebbe spaccarsi dall’interno, il Grexit potrebbe essere forzato da coloro che hanno cercato per anni di farlo accadere. Poi valuterete quale sarà stato il migliore risultato». Dal modesto punto di vista di chi scrive la salvezza del malridotto Capitalismo greco è un pessimo risultato, sotto qualsiasi bandiera politico-ideologica tale obiettivo verrà conseguito: europeista, sovranista, neoliberista, statalista, “socialdemocratica”, “marxista”. Non c’è dubbio, comunque vada chi scrive non avrà nulla da festeggiare. Salvo imprevisti sociali che oggi non riesco nemmeno a scorgere. E non è detto che si tratti solo della mia confessata miopia! Ma, come amiamo dire col bravo artista di Poggio Bustone, lo scopriremo solo vivendo. Il guaio è che vivere non basta…

* «Il dettaglio dell’accordo resta da vedere, ma se contiene ristrutturazione, tre anni di finanza e il pacchetto di sviluppo, penso che fondamentalmente è un affare migliore [che il Grexit]. Per lo meno, ora che l’opinione sta cambiando, esso darà alla Grecia la possibilità di respirare, di valutare, riorganizzarsi e, eventualmente, pianificare un’uscita ordinata». Quando si dice onesta realpolitik!

Ultim’ora Ansa: «Il Parlamento greco ha approvato in tarda notte il secondo pacchetto di riforme concordato da Tsipras con l’Ue. Vota sì anche Varoufakis. Il premier guadagna consensi in Syriza». La realpolitik (qui contrapposta alla pura e semplice demagogia dei populisti di “destra” e di “sinistra”) si sta facendo strada anche fra i “marxisti”, più o meno irregolari, presenti in Syriza?

QUEL CHE RESTA DEL REFERENDUM

alexangela Il pezzo che segue è stato scritto ieri. Oggi aggiungo solo che, come scrivono il Wall Street Journal e il Financial Times, la crisi borsistica cinese, sintomo di sofferenze strutturali che probabilmente non tarderanno a manifestarsi in modi socialmente più devastanti («Ora che la bolla è lì lì per scoppiare, i piccoli investitori cinesi rischiano di perdere tutto, e il governo teme le conseguenze» (Il Foglio, 8 luglio 2015); il collasso borsistico di questi giorni a Shanghai e Shenzhen, dicevo, rischia di far apparire una ben misera cosa la crisi greca, una magagna che ha come suo centro motore «un Paese la cui economia vale quanto quella del Bangladesh». D’altra parte è anche vero che il peso geopolitico della Grecia è tutt’altro che irrilevante, ed è esattamente questa scottante materia prima politica che Tsipras sta cercando di valorizzare al massimo nelle trattative con i “poteri forti”, come peraltro non ha mancato di rimproverargli ieri all’Europarlamento il Presidente del Consiglio UE Donald Tusk. Come agirà (se agirà) lo sgonfiamento della bolla speculativa cinese sulla crisi greca: da classico deus ex machina in grado di risolvere una vicenda che appare altrimenti senza via di uscita, o come goccia che fa traboccare l’altrettanto classico vaso (di Pandora, certo)? Forse questa domanda sarà balenata ieri nella testa di più di un leader europeo. Ma forse anche l’immagine della tempesta perfetta si è fatta strada in alcuni ambienti della leadership mondiale. Non lo sapremo mai. Comunque sia, Mario Draghi aveva visto giusto quando un mese fa ci mise in guardia: rischiamo di addentrarci in una terra incognita. Rischiamo?

Crisi greca e Questione Tedesca
«Non sono tra coloro che danno la colpa agli stranieri: per tantissimi anni i governi greci hanno creato uno Stato clientelare, hanno alimentato la corruzione tra politica e imprenditoria e arricchito solo una certa fetta del popolo. Ci sono distorsioni del passato che devono essere superate, come la questione delle pensioni. Vogliamo abolire le pensioni baby in un Paese che si trova in una situazione disastrosa. Servono le riforme, ma vogliamo tenerci il criterio di scelta su come suddividere il peso. […] Se avessi voluto trascinare la Grecia fuori dall’euro non avrei fatto le dichiarazioni dopo il referendum, io non ho un piano segreto per l’uscita dall’euro». Così parlò Alexis Tsipras all’Europarlamento, deludendo non poco gli europarlamentari sovranisti (lepenisti, grillini, leghisti, ecc.) che volevano usarlo come Cavallo di Troia per espugnare l’euro e mettere nell’angolo il Quarto Reich Tedesco di Angela Merkel.

La crisi greca, ha detto il Premier greco, «è un problema europeo e non solamente di Atene, quindi la soluzione [deve essere trovata] a livello europeo». A ben vedere, la crisi greca come si configura oggi non è che un capitolo della Questione Tedesca, la quale è a sua volta parte integrante e fondamentale della Questione Europea, ossia della necessità/possibilità di fare del Vecchio Continente un polo imperialistico in grado di confrontarsi alla pari con gli altri poli imperialistici globali: ieri USA e URSS, oggi USA, Cina e Russia.

Sulla Pravda del 28 luglio 1984 si poteva leggere, dopo un duro attacco contro l’attivismo economico-politico della RFT in direzione della DDR, quanto segue: «Il problema tedesco rappresenta un capitolo chiuso e in proposito la storia ha detto una parola definitiva». Come sappiamo, «definitiva» solo fino a un certo punto… Radomir Bogdanov, esperto sovietico in cose americane, dichiarò nel settembre dello stesso anno sul Time che «C’è solo un modo per modificare i risultati della seconda guerra mondiale, ed è la terza guerra mondiale». Bogdanov sottovalutava il peso dell’economia nella geopolitica: «Quanto più il terreno che stiamo indagando si allontana dall’Economico e si avvicina al puro e astrattamente ideologico, tanto più troveremo che esso presenta nella sua evoluzione degli elementi fortuiti, tanto più la sua curva procede a zigzag. Ma se Lei traccia l’asse mediana della curva troverà che quanto più lungo è il periodo in esame, quanto più esteso è il terreno studiato, tanto più questo asse corre parallelo all’asse dell’evoluzione economica» (Lettera di Engels a W. Borgius, 25 gennaio 1894). Con ciò il vecchio Engels intendeva dire che mentre sarebbe oltremodo sbagliato mettere in un deterministico rapporto di causa-effetto ogni singola azione politica (interna ed estera) con l’economia (globalmente considerata), occorre tuttavia prendere atto che la totalità, il complesso delle azioni politiche di un Paese si comprende nella sua reale essenza (nella sua razionalità) solo alla luce dei grandi interessi economici nazionali e internazionali. Proprio la Questione Europea dimostra quanto corretto sia questo approccio “materialistico-dialettico” alla geopolitica.

Scrive Oscar Giannini commentando le misure adottate da Mario Draghi dopo il referendum (o plebiscito, come sostengono i “puristi” della democrazia tipo Emma Bonino?): «In tali condizioni la BCE non ha potuto far altro che avanzare le lancette del conto alla rovescia, verso il default bancario greco. È un messaggio lanciato a Tsipras, perché non rifaccia il furbo menando il can per l’aia. Ma è altresì un messaggio per l’intera euroarea. Di tempo ne rimane pochissimo. Bisogna avere idee chiare e non perdersi in fumisterie. Altrimenti, fuori dal sistema internazionale dei pagamenti e impossibilitata a usare quello domestico, la Grecia avvamperà in un’ulteriore ondata di furore nazionalista, che però non la salverà da amarissime conseguenze. Altro che no all’austerità, i greci se la ritroverebbero moltiplicata nell’immediato. E l’euroarea “irreversibile” diverrebbe un ricordo nel museo della politica inconsapevole di che cosa implichino i suoi impegni: misure straordinarie volte a risolvere anche l’impensabile, se si crede a un obiettivo comune» (Istituto Bruno Leoni, 7 luglio 2015). Ma il punto è sempre il solito: qual è il comune obiettivo? Creare un’Europa in grado di competere con i giganti dell’imperialismo globale? Controllare strettamente e imbrigliare la potenza sistemica tedesca? Usare la Germania, «gigante economico e nano politico», per tirare acqua economica e politica al proprio mulino nazionale? Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi il cosiddetto «sogno europeo» ha dovuto fare i conti con quella complessa trama di interessi contingenti e strategici, ed è per questo che personalmente trovo spassosissimi quei sinistrorsi che oggi scoprono il progetto europeista dei «padri fondatori»: «Ci vorrebbero i Monnet, gli Schuman, gli Adenauer, i De Gasperi, e invece abbiamo la Merkel, Hollande, Cameron, Renzi!», scriveva Barbara Spinelli giusto un anno fa.

«La galoppante deriva europea nasce da un equivoco», scrive Lucio Caracciolo: «Caduto il Muro, francesi, italiani ed altri soci comunitari si convinsero che l’ora dell’Europa americana (e sovietica) fosse finita: toccava finalmente all’Europa europea. Per questo convincemmo i più che riluttanti tedeschi a scambiare il marco con l’euro e a diluire la Bundesbank nella Banca centrale europea, in cambio della nostra altrettanto insincera benedizione all’unificazione delle due Germanie. Nel giro di pochi anni, la forza economica della Germania e la somma delle debolezze altrui finirono per germanizzare l’euro. Ma l’egemonia tedesca si è fermata alla politica economica e monetaria. […] Qui emergono anche le nostre responsabilità. Dalla paura della strapotenza tedesca che obnubilava François Mitterrand, Margaret Thatcher e Giulio Andreotti, siamo scivolati verso una sterile corrività verso il presunto egemone. Sterile perché abbiamo pensato che ai tedeschi bastasse qualche scappellamento retorico per considerare le “cicale” mediterranee degne di appartenere all’Euronucleo – la moneta delle “formiche” evocata da Wolfgang Schaeuble nel 1994, cui l’attuale superministro delle Finanze non ha mai cessato di pensare. […] La risalita dell’Europa passa per la salvezza della Grecia. Con il contributo di tutti, italiani in testa, in quanto prima grande nazione europea esposta alla risacca ellenica. Non per peloso “umanitarismo”, come stizzosamente suggerito da qualche politico nordico. Per puro senso di responsabilità nazionale ed europea» (Limes, 7 luglio 2015). Che dire? Auguri! Lo so, proferiti da un disfattista anticapitalista nonché antisovranista (sia che si tratti della sovranità europea che della sovranità nazionale) quegli auguri non sono molto credibili; è come se in realtà avessi scritto: condoglianze!

Ho l’impressione che i sostenitori della «responsabilità nazionale ed europea» dovranno ancora per diverso tempo (almeno fin che dura il successo del “modello tedesco”) fare i conti con la riluttanza tedesca di passare dall’egemonia “soft” sull’Europa fondata economicamente a un’egemonia politicamente più impegnativa, finanziariamente più dispendiosa e, soprattutto, più gravida di rischi geopolitici. Sotto quest’ultimo aspetto occorre dire che le due guerre imperialistiche del Novecento sono, sul piano storico, ancora “freschissime”. Rimproverare alla Germania (e al Giappone) il suo attuale «nazionalismo economico» è ridicolo, come gran parte dei rimproveri che oggi gli europeisti rivolgono alla Germania «potenza riluttante»: «Per favore», sembrano dire i tedeschi ai cugini europei (i quali non perdono mai l’occasione di ricordare ai teutonici quanto brutti e cattivi essi sono stati nel secolo scorso), «non svegliate il nazionalismo politico che c’è in noi. Lasciateci lavorare in santa pace!». («Che poi veniamo a trascorrere le ferie e a spendere i nostri soldini  in Grecia e in Magna Grecia!»).

Il “riformismo” possibile
«”Io accetto le vostre proposte con qualche modifica per venderle al Parlamento e all’opinione pubblica, però in pubblico diremo che voi avete accettato il mio piano con qualche limatura. Ho esaurito il tempo, tra due giorni le banche collassano e andiamo in default quindi sono politicamente debole, più di così non posso accettare ma se c’è qualcuno che ci vuole spingere fuori dall’euro non dipende più da me”. Sono circa le sette del pomeriggio. Quando Alexis Tsipras finisce di parlare nello stanzone del Consiglio europeo [di ieri] cala il silenzio». Non so se questa ricostruzione fatta da Alberto D’Argento per Repubblica è veritiera; di certo essa appare verosimile, e tutt’altro che smentita dal succo del discorso odierno di Tsipras all’Europarlamento.

Secondo Giorgio Arfaras, che su Limes non smette di ricordarci le magagne strutturali del malandato e vetusto Capitalismo ellenico, «Sul bilancio pubblico e sul debito il governo di Tsipras e i creditori internazionali erano più vicini di quanto sembrasse anche prima del referendum» (Limes, 6 luglio 2015). Anch’io sono di questa idea. Ma allora, come si spiega l’improvviso “voltafaccia” di Tsipras? Probabilmente il Premier greco aveva paura di spaccare il suo partito, che ha cercato di ricompattare attraverso la drammatizzazione dello scontro. «Uno degli uomini più fidati di Alexis Tsipras riassume, sorseggiando un caffè in un bar di Monastiraki: “Abbiamo vinto il referendum, ricompattato Syriza e messo a tacere l’opposizione, che ci appoggia in tutto» (Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 8 luglio 2015). Il clima da ultima spiaggia che si è creato in Grecia potrebbe anche far ingoiare al Paese il rospo dell’«inaccettabile diktat» rifiutato solo ieri, magari in cambio di un riconoscimento politico delle ragioni del “popolo greco”, cosa che peraltro anche il Super Falco Wolfgang Schäuble non ha mancato di fare con la consueta teutonica schiettezza: «Rispettiamo l’esito del referendum ma, nel quadro delle regole dell’Eurozona, senza un programma non è possibile aiutare la Grecia. È chiaro però che la Ue ha anche una certa responsabilità verso la Grecia. Tutto dipende dal governo greco». Anche la Cancelliera ha dichiarato che la Germania non ha da chiedere nulla alla Grecia, e che tocca al governo di Atene avanzare nuove, sperabilmente chiare e definitive proposte. Per i tedeschi la palla dei “compiti a casa” è sempre nella metà campo degli altri: inutile chiamare in soccorso americani, russi e cinesi!

«La Süddeutsche Zeitung, di centrosinistra, aveva un commento sul «perché la Grecia deve abbandonare l’euro» (perché è sì una scelta costosa ma è quella più pulita). L’idea che la Grexit possa fare bene sia alla Grecia sia all’Europa – perché la prima sarebbe libera di fare le sue scelte e l’area euro avrebbe chiaro che deve rivedere alla radice la sua architettura – in Germania è ormai piuttosto diffusa» (Danilo Taino, Corriere della Sera, 8 luglio 2015).

Grecia e Magna Grecia
La Germania vorrebbe ripetere con la Grecia (e con il Portogallo e la Spagna) il successo dell’unificazione tedesca, mentre ha in orrore, giustamente dal suo punto di vista, l’insuccesso nazionale italiano: insomma, non vuole fare del Mezzogiorno europeo una replica su scala continentale del Mezzogiorno italiano, in larga parte sussidiato attraverso la spesa pubblica, con relativi alto parassitismo sociale e alta tassazione. E questo non per un breve tempo, ma per decenni, per oltre un secolo nel caso di specie, al punto da trasformare la Questione Meridionale in una sorta di fenomeno naturale: a Sud fa caldo e c’è la depressione economica!

Gli stessi leader leghisti, che pure hanno tifato per il Tsipras referendario, appena un secondo dopo il trionfo “epocale” e “rivoluzionario” (scusate, ma qui il sic! è d’obbligo) del NO, si sono affrettati a precisare che la Lega è contraria a continuare a finanziare a fondo perduto la Grecia spendacciona, così come non vorrebbe più far galleggiare una Magna Grecia (leggi Sicilia) strafallita sul liquido prodotto al Nord. Per i leghisti (ma anche per i grillini e per i sovranisti d’ogni tendenza politico-ideologica) il Paese di Tsipras e Varoufakis dovrebbe prendere con coraggio e sollecitudine la strada del Grexit, così da implementare il seguente programma “rivoluzionario”: rifiutare definitivamente di pagare un debito peraltro impagabile, ritornare al vecchio conio nazionale, implementare svalutazioni competitive a raffica, versare patriottiche lacrime e sangue sull’altare del bene comune nazionale, e poi, ricostruito un più sostenibile assetto economico-sociale, riaffacciarsi con dignità sulla scena europea. Soffrire, certo, ma sovranamente e in vista della luce in fondo al tunnel: un programmino che personalmente respingo al mittente.

Dosi massicce di austerità e in tempi ristretti: è questa austerità concentrata che debbono attendersi i greci in caso di Grexit? Già sento il sovranista di turno: «Anche tu a fare del terrorismo psicologico!». No: terroristica è la realtà sociale del Pianeta, Grexit o non Grexit.

Come si può capire anche dal libro di Alessandro Albanese e Giampaolo Conte L’odissea del debito. Le crisi finanziarie in Grecia dal 1821 a oggi (In Edibus, 2015), la storia della Grecia moderna è la storia del suo costantemente obeso debito pubblico contratto dallo Stato ellenico, il più delle volte non allo scopo di finanziare la modernizzazione del Paese, come è accaduto nel XIX secolo in diversi Paesi europei capitalisticamente “ritardatari”, ma soprattutto per puntellare interessi sociali costituiti e comprare con la leva dell’assistenzialismo statale la pace sociale e il consenso politico.

«Abbiamo scoperto – scrivono i due autori – che la Grecia non solo era già fallita altre volte, ma che l’indebitamento di fine Ottocento, analogamente a quello di fine Novecento e primi anni Duemila, aveva condotto all’istituzione di una commissione internazionale per controllare le finanze elleniche».

Sotto questo aspetto istruttivo può anche essere un articolo di Luciano Commenta, dal significativo titolo La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale, dal quale cito i lunghi passi che seguono:

«La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece. L’intellettuale descrive la storia della Grecia moderna come un susseguirsi di ambiziosi progetti quasi raggiunti, seguiti da clamorosi tracolli. Alle grandi spinte a uscire da uno stato di minorità in cui i greci non si sentivano di dover stare per storia e rango, hanno corrisposto altrettanti schianti per la discrepanza tra ambizioni e realtà. La presenza di un apparato pubblico molto più grande di quello che il paese potesse permettersi era evidente già nel 1907, quando la Grecia aveva un impiegato pubblico per ogni 10 mila abitanti, sette volte di più dell’Impero britannico. Ma nella ricostruzione di Kalyvas le criticità presenti sin dall’inizio della complicata storia della Grecia moderna emergono e degenerano negli anni 80, con la salita al potere del Pasok, il Partito socialista di Andreas Papandreou. Il Pasok è modellato dal suo leader per essere una macchina del consenso alimentata con risorse pubbliche, occupa lo stato e domina, tranne qualche parentesi di centrodestra, la politica greca fino ai giorni nostri. Il socialismo panellenico di Papandreou è caratterizzato da un’elevata dose di demagogia e da una politica economica non riconducibile al “tax and spend” degli altri partiti socialisti occidentali, ma al “spend and don’t tax” dei movimenti populisti: elevata spesa pubblica, bassa pressione fiscale e la differenza tra entrate e uscite la si copre facendo debito e stampando moneta. Il tutto viene condito con retorica marxista, terzomondista e anti occidentale. Concretamente l’azione politica si manifesta con la continua espansione dello stato: assunzioni pubbliche, nazionalizzazioni di imprese private fallite, protezionismo, aumento di salari e pensioni. Dal 1981 al 1990, dopo due mandati a guida Papandreou, la spesa pubblica sale dal 35 al 50 per cento del pil, i dipendenti pubblici aumentano del 40 per cento, il debito pubblico passa dal 28 per cento del pil del 1979 al 120 per cento del 1990, le continue svalutazioni della dracma portano inflazione a doppia cifra e affossano la competitività del settore privato. Si diffondono corruzione, clientelismo (l’89 per cento dei tesserati del Pasok lavora per lo stato), calano gli investimenti privati e quelli esteri, la produttività stagna, l’export si riduce. Anche Nuova democrazia, il partito di centrodestra fondato su basi di maggiore responsabilità fiscale, diventa una brutta copia del Pasok e governando allo stesso modo porterà la Grecia al default. George Papandreou, figlio di Andreas, vince anche le elezioni del 2009 con un programma keynesiano, promettendo – in piena crisi e con un deficit al 15 per cento – aumenti di salari e pensioni e blocco delle privatizzazioni. Pochi anni dopo a vincere è la sinistra radicale di Alexis Tsipras con un mix di populismo e keynesismo di Papandreou padre e figlio, “more of the same”. […] I greci hanno pensato di votare No all’austerity, il rischio sempre più concreto è che siano costretti a farla fuori dall’Euro». È la “democratica e sovrana” scelta dell’albero a cui impiccarsi di cui ho scritto in diversi post dedicati all’odissea greca.

saved_tjeerd_royaardsStallo! Stallo!
L’aereo europeo rischia dunque di precipitare, con quel che ne segue in termini di morti e feriti (per il momento ancora metaforici) come prevede la sceneggiatura di ogni disastro che si rispetti. «La Grecia», scriveva Larry Elliott sul Guardian del 6 luglio, «ha messo in evidenza le debolezze strutturali dell’euro, un approccio uniforme che non conviene a paesi tanto diversi. Una soluzione potrebbe essere la creazione di un’unione fiscale accanto all’unione monetaria. […] Ma questo richiederebbe proprio quel tipo di solidarietà che è stata drammaticamente assente queste ultime settimane. Il progetto europeo è in stallo». Come far uscire dallo stallo il malmesso aeroplano della linea UE? È la domanda che in queste ore tormenta gli autentici europeisti, già da sette anni alle prese con una grave crisi depressiva.

Mi si consenta una breve riflessione: l’unione fiscale di cui parla Elliott presuppone un salto di qualità politico nella dimensione del “progetto europeo” che è esattamente quello che soprattutto i Paesi del Mezzogiorno europeo non vogliono compiere, perché ciò li costringerebbe a una politica di riforme strutturali ancora più severa di quella fin qui adottata. L’aereo europeo, per così dire, si morde la coda: per superare lo stallo ci vuole «più Europa», ma «più Europa» significa, al netto del politicamente corretto europeista (vedi Barbara Spinelli e “compagni”, ad esempio), convergere più rapidamente possibile verso lo standard dell’area tedesca, cosa che postula nei Paesi disallineati del Mezzogiorno quelle “riforme strutturali” difficili da implementare senza scuotere il loro tessuto sociale, con le implicazioni elettorali e di tenuta sociale che tutti possono immaginare. È un vero e proprio circolo vizioso sistemico, per uscire dal quale la leadership europea deve abbandonare rapidamente la vecchia strategia, fatta di accomodamenti, rinvii, compromessi, lenti progressi. La crisi economica ha drammaticamente diminuito la portanza sulle ali dell’aeroplano, e in assenza di spinte contrarie alla forza di gravità la catastrofe è pressoché assicurata.

In un saggio dell’anno scorso il Ministro Padoan sosteneva che la crisi dell’euro non è solo una «crisi di modelli nazionali di crescita, diventati insostenibili», ma anche «una crisi di sistema, che mette in evidenza le gravi lacune istituzionali della moneta unica. […] Che fare? Rinunciare a salvare l’euro, dando così ragione a chi negava che ci fosse spazio per la sua nascita, non essendo ritenuta l’Europa un’area valutaria ottimale, o cercare faticosamente di guidarlo, lasciando il tempestoso mare aperto, verso porti sicuri? Nei quali non sarà però facile trovare approdo se non si comprende appieno che la sua salvezza, indispensabile per il rafforzamento dell’unità europea, richiede soprattutto maggiore integrazione e nuove istituzioni, cosa che a sua volta presuppone cessioni di sovranità» (Diversità e uguaglianze: le due anime dell’unione, cit. tratta da Economia italiana, 2014/3). Vallo a dire ai leader di Francia, Italia e Spagna terrorizzati dalla concorrenza sovranista-populista!

Scrive Thomas Piketty: ««In effetti in Germania quelli che pensano di rifondare l’Europa in senso democratico sono in numero maggiore rispetto ai francesi in prevalenza legati all’idea di sovranità. Inoltre il nostro presidente continua a sentirsi prigioniero del referendum fallito del 2005 sulla costituzione europea. Hollande non capisce che la crisi finanziaria ha cambiato molte cose. Dobbiamo superare gli egoismi nazionali. […] Quelli che oggi vogliono cacciare la Grecia dall’eurozona finiranno nella pattumiera della storia. Se la cancelliera vuole garantirsi il suo posto nella storia, così come fece Kohl con la riunificazione, deve impegnarsi a trovare una posizione comune che risolva la questione greca e dare vita a una conferenza sul debito che ci permetta di ricominciare da zero. Ovviamente con una disciplina di bilancio assai più severa che in passato» (Intervista rilasciata a Die Zeit, 6 luglio 2015). Ma è proprio questo il punto di caduta (la posta in gioco) nella crisi greca: come sanno tutti gli analisti geopolitici ben’informati, il fumo del debito greco nasconde l’arrosto delle regole che la Germania vuole imporre agli altri Paesi dell’eurozona, senza le quali ogni discorso europeista è una pia illusione. O si converge verso la Germania, o l’aeroplano europeo continuerà a volare basso rischiando continuamente di precipitare, ovvero di schiantarsi contro la prima seria montagna che gli si parerà dinanzi.

Oggi sul Foglio Claudio Cerasa ridicolizza gli italici «cuginetti di Tsipras» che, a differenza del coerente «compagno Krugman» che invita la Grecia a prendere con urgenza e senza prestare il cuore a inutili nostalgie europeiste la strada della Grexit, pensano che un’altra euro sia possibile. Nichi Narrazione Vendola, ad esempio, si è detto favorevole non solo all’immediata convocazione di una conferenza europea sul debito e sui trattati, secondo un’indicazione ormai diffusa nell’establishment economico e politico del pianeta (dal compagno Obama al compagno Xi Jinping, oggi peraltro impelagato nelle magagne borsistiche del Celeste Capitalismo), ma anche alla trasformazione della BCE in «prestatore di ultima istanza». Ovviamente al narratore pugliese sfuggono le implicazioni sociali (leggi più sacrifici per i salariati, i pensionati e la piccola borghesia del Vecchio Continente), politiche e geopolitiche (leggi egemonia tedesca) di una simile trasformazione. Secondo l’ex rifondatore dello statalismo, «Bisogna passare dai debiti pubblici nazionali al debito pubblico europeo»: roba da far scoppiare la Terza Guerra Mondiale! Gli europeisti sinistrorsi vogliono la moglie ubriaca e la botte piena, ossia il Capitalismo ma non le sue necessarie disumanità e contraddizioni – che essi interpretano come il frutto di errori politici e di cattiva volontà. A una «solidarietà europeista» che prescinda dai reali rapporti di forza fra i Paesi dell’eurozona può credere solo l’intellighentia progressista che partecipa alla competizione sistemica intercapitalistica credendo di partecipare alla “lotta di classe”, se non alla “rivoluzione”. Questo per dire quale concetto di “lotta di classe” e di “rivoluzione” hanno in testa certi personaggi che, ad esempio, criticano le mie analisi sulla crisi greca perché mancherebbero di concretezza politica (cosa che è certamente vera), mentre si tratta di “declinare” sul piano teorico e politico questa concretezza: si tratta di una concretezza interamente spesa sul terreno dello scontro interborghese e interimperialistico, o di una concretezza da ricercarsi sul terreno della lotta di classe anticapitalista e, quindi, antisovranista?

Scrive Raffaele Sciortino a proposito del referendum di domenica: «Una liberazione di energie, un piccolo grande no costituente [costituente: una parola magica nel sofisticato gergo sinistrorso dei nostri tempi]: il voto greco ha portato in un’Europa asfittica, avvinghiata allo status quo, un pezzo di America Latina. […] Bisogna farci i conti [con il populismo sovranista], e non solo: imparare a sporcarsi le mani con i fenomeni di territorializzazione ambivalente delle resistenze. Più tempo perderemo ad arricciare il naso, e più saremo tagliati fuori dalle dinamiche reali. […] Il “populismo” può essere curvato nel senso di classe, con tutti i rischi del caso, se guardiamo alle esperienze, mai pulite anzi costitutivamente spurie, dell’America Latina, a evitare così derive lepeniste o peggio». Come se il populismo di “sinistra” alla Chávez fosse preferibile al populismo di “destra” alla Le Pen! Tra l’altro, anche nella posizione appena considerata troviamo lo status quo definito in termini puramente borghesi, ossia riferito agli Stati e alle Potenze. Checché ne pensi Sciortino, l’ordine (capitalistico) regna ad Atene.

Norma Rangeri si era fatta delle illusioni perfino sul compagno (ormai qui tutti sono diventati compagni: da Tsipras a Papa Francesco!) Mario Draghi, dal quale la direttora del Manifesto si aspettava un’apertura di credito nei confronti dell’eroe di Atene. Invece, contro le pie/ridicole illusioni di certi amici del “popolo greco” il Presidente della BCE ha mantenuto la rotta fissata da tempo: «La Banca centrale europea di Mario Draghi ha deciso di non nascondersi dietro ai governi che oggi si riuniranno a Bruxelles. Ieri, ha mandato un messaggio chiarissimo al governo e al sistema finanziario greco: o la situazione si sblocca per qualche magia, e Atene avanza proposte serie per affrontare la sua drammatica crisi, oppure non ci saranno più spazi per tenere in piedi le sue banche: evento che farebbe scattare l’inizio della sostituzione dell’euro con qualcosa di diverso in Grecia» (Danilo Taino, Il Corriere della Sera, 8 luglio 2015). Cosa aveva detto Draghi nel 2012, all’apice della crisi degli spread? «La Bce farà tutto quanto è necessario [per salvare l’euro]». Appunto! Naturalmente Draghi ha voluto mandare un chiaro segnale anche all’asse Parigi-Berlino (ma soprattutto a Berlino), sollecitato a prendere atto della natura politica (e geopolitica) della crisi in corso.

Finisco citando un brano di un mio post scritto nel maggio del 2012 perché lo trovo di una qualche attualità, soprattutto dal punto di vista dell’odierna “psicologia di massa” dei tedeschi.

Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se…
Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partner? «Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!»

Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo i conti con la dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni (a partire dalla sfera economica) rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni.

GRECIA. LA POSTA IN GIOCO

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Scritto oggi

La situazione è talmente confusa che la stessa tenuta del referendum previsto per il 5 luglio non è data per scontata nemmeno in Grecia, anche se a questo punto la frittata appare ormai fatta, cotta e servita. Si tratta di capire per chi essa si rivelerà più indigesta o persino avvelenata. In un’intervista rilasciata alla BBC, il Super Ministro Yanis Varoufakis ha dichiarato che «un accordo con i creditori della Grecia è sicuro al cento per cento», a prescindere dall’esito del referendum di domenica. Anche se, ha aggiunto il sofisticatissimo Varoufakis, la vittoria del No darebbe al governo di Atene più forza contrattuale mentre la vittoria del Si lo indebolirebbe e comunque sancirebbe la sua personale sconfitta politica, cosa che ne determinerebbe le immediate dimissioni. Anche Tsipras aveva detto qualche giorno fa di non essere un uomo per tutte le stagioni. Staremo a vedere. Nel frattempo, i convocati al referendum “epocale”, bombardati da tutte le parti da ogni sorta di informazione, più o meno credibile e/o verificabile, appaiono sempre più confusi e frastornati, vittime di una  propaganda interna e internazionale sempre più gridata e minacciosa. La verità è che informazione e disinformazione si rincorrono, si accavallano, si intrecciano, si fondono in una sola ciclopica menzogna messa in piedi contro i dominati, chiamati a schierarsi in uno dei due fronti che si fronteggiano. All’ombra di questa menzogna leggo l’ennesimo sondaggio, di qualche ora fa: «Il 74% dei greci vuole che il paese resti nell’eurozona: lo evidenzia il sondaggio della Alco per il quotidiano Ethnos, che ha invece mostrato una sostanziale spaccatura a metà degli elettori ellenici su cosa votare al referendum di domenica. Secondo l’indagine statistica, il 15% vorrebbe tornare ad una moneta nazionale, mentre l’11% non sa o non risponde» (ANSA).

«In Grecia non c’è un referendum tra euro e dracma», ha detto Nichi Narrazione Vendola, «ma un referendum tra l’austerità che ha impoverito milioni di europei e una Europa solidale». È la menzogna declinata da “sinistra”, dai sostenitori del Capitalismo dal volto umano, tutti schierati per il NO. L’austerità sotto l’euro e sotto il controllo dei vecchi creditori e dei vecchi “poteri forti” (con al centro la Germania); l’austerità sotto la dracma e sotto il controllo di nuovi creditori e di nuovi “poteri forti” (con al centro la Russia e/o la Cina?): lo spazio di “agibilità democratica” del popolo greco in realtà sembra estendersi nei limiti di queste due poco rincuoranti opzioni. Padella o brace: fate la vostra scelta! Il Partito dei sacrifici è unico, o “trasversale”, per usare il gergo politichese. Salvare la baracca capitalistica greca costerà carissimo alle classi subalterne greche, in ogni caso, e non a caso il “compagno” Tsipras ha usato il mese scorso parole che ricordano la Seconda guerra mondiale: «Amiamo la pace, ma quando ci dichiarano guerra siamo capaci di combattere e vincere». Lacrime e sangue, per la Patria! Chi mi conosce sa cosa penso della Patria, comunque e ovunque “declinata”.

«Per adesso la Grecia è mantenuta in vita artificialmente dall’azione decisa di Mario Draghi e la sua Banca centrale europea, grazie all’erogazione di liquidità che continua a pompare soldi nelle banche greche. Ma il deflusso di capitali dalle banche greche è sempre più veloce e il panico si è diffuso nel Paese. Le code agli sportelli bancari sono state lunghissime nell’ultima settimana e il governo ha deciso di porre per i prelievi dai bancomat un limite giornaliero di 60 euro. Anche il bancomat del Parlamento greco è andato in sofferenza e gli stessi parlamentari di Syriza hanno dovuto subire una lunga attesa nel ritiro del denaro contante. La borsa rimarrà chiusa fino a dopo il referendum e in Grecia il clima è diventato irrespirabile» (Panorama, 8 luglio 2015). Una situazione da tempi di guerra che molti non credevano possibile nell’Europa del XXI secolo. Mai dire mai! D’altronde lo stesso Mario Draghi, normalmente assai parco di immagini suggestive, aveva detto che la questione greca (che è a tutti gli effetti una questione europea) rischia di farci entrare in una «terra incognita». «Ad Atene e Salonicco è come in tempo di guerra, mentre nelle zone rurali si vive meglio. Quasi tutti hanno un orto, è più facile trovare latte e formaggio. La fame e la miseria si sentono nelle grandi città» (Viki Markakis, Linkiesta). Una volta si diceva: «anello debole della catena capitalistica». Molti guardano solo l’anello debole, e dimenticano o non vedono la catena, che si estende da Atene a Berlino, da Roma a Parigi, da Mosca a Washington, da Pechino a ovunque nel capitalistico pianeta. E difatti il peripatetico di Treviri diceva: Proletari di tutto il mondo, unitevi! «La parola dignità torna spesso [nella comunità greca che vive a Roma]. I greci sono un popolo orgoglioso della propria identità, non fanno nulla per nasconderlo. “Siamo un paese patriottico” spiega Trianda. “Da noi sui confini della nazione non si discute”» (Linkiesta). Ecco! Lo ammetto, il mio “internazionalismo” è patetico.

Intanto un altro teutonico, il Super Ministro Wolfgang Schäuble, vola nei sondaggi di popolarità: oltre il 70% dei tedeschi intervistati dagli istituti di sondaggio appoggiano la sua linea intransigente, cosa che inquieta la stessa Angelona Merkel, la quale vuole ancora usare la carota, insieme al bastone, per riportare a casa la pecorella greca.

Riprendendo le posizioni di Paul Krugman sulla Grexit («La Grecia dovrebbe votare No e il governo ellenico dovrebbe tenersi pronto, se necessario, a lasciare l’euro»), Federico Fubini ha evidenziato un dubbio che serpeggia fra i socialisti europei (nel senso del PSE): «Per la verità Krugman non è il solo premio Nobel newyorkese e liberal, nel senso del progressismo cosmopolita americano, a offrire il suo sostegno incondizionato a questo governo greco. […] Ieri l’ex ministro delle Finanze greco George Papaconstantinou ha preso carta e penna e ha scritto al New York Times: “Non è esagerato dire che la Grecia oggi sta scivolando verso un nuovo totalitarismo e un No al referendum sarebbe un passo in quella direzione. I progressisti non dovrebbero dargli sostegno”, ha scritto. E lo spagnolo Angel Ubide, consigliere speciale del candidato premier socialista Pedro Sanchez, ha notato qualcosa di simile in un articolo per il Peterson Institute di Washington, criticando l’infatuazione dei liberal americani per Varoufakis e il premier Alexis Tsipras: per Ubide, il loro appoggio fa parte di una “Proxy war”, combattuta sulla pelle dei più poveri fra i greci, per affermare una certa idea molto americana sull’insostenibilità di fondo dell’euro» (Il Corriere della Sera, 3 luglio 2015). Syriza e Podemos come (oggettivi) “amici del Giaguaro”? come (oggettivi) utili idioti al servizio dell’imperialismo americano, da sempre ostili al progetto di una Grande Europa a egemonia tedesca? Il sospetto è lanciato (dai socialisti europei, non dal sottoscritto)!

Se di «lotta di classe» si deve parlare a proposito del referendum di domenica, ebbene si tratta della lotta che il Capitale (la cui dimensione internazionale è sempre più evidente) fa ai nullatenenti e agli strati sociali della piccola e media borghesia risucchiati in un processo di rapida e violenta proletarizzazione.

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Scritto ieri

Dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per Renato Brunetta, Matteo Salvini e Beppe Grillo: vasto, composito e frastagliato appare il partito italiano che tifa per Tsipras, l’ultimo eroe della dignità nazionale prodotto dal Mezzogiorno d’Europa, in vista dell’epocale referendum del 5 luglio – nei riguardi del quale qualche politologo non particolarmente amante della popolarità fa osservare con qualche malignità che non raramente democrazia fa rima con demagogia (1). (E questo, aggiungo io, soprattutto in tempi di acuta crisi sociale). «Tutto, davvero tutto mi divide da Tsipras», ha dichiarato ieri in Parlamento Brunetta, «ma egli oggi rappresenta la risposta di libertà al dominio tedesco e alla burocrazia europea, e per questo io sto dalla sua parte». Detto en passant, l’altro giorno il politico di notevole statura internazionale aveva parlato della necessità di contrastare a ogni costo «l’imperialismo tedesco e la burocrazia di Bruxelles», cosa che pare abbia fatto sussultare non poco le anime dannate di Lenin e Trotsky, ancora in attesa di credibili eredi.

Democrazia e libertà versus dominio e burocrazia: di questo si tratta nella sempre più ingarbugliata, e per molti versi davvero tragicomica, vicenda greca? Democrazia o dispotismo economico-burocratico: è questa la posta in gioco nel Vecchio Continente? Certamente è questo che cercano di venderci i tifosi di «Atene la rossa» (strasic!).

Riferendosi al partito che tifa per Tsipras molti analisti politici hanno parlato nei giorni scorsi di contraddizioni e paradossi; la mia lettura è diversa. Quell’accozzaglia politica che si è coagulata intorno al governo greco dimostra che il mondo del conflitto sociale non si divide, in radice, tra destri e sinistri, ma piuttosto tra anticapitalisti e sostenitori a vario titolo dello status quo sociale – appartenenti alle più disparate, e non raramente disperate, correnti politico-ideologiche: si va dai “comunisti” più o meno vetero/post, ai fascisti più o meno vetero/post, dai sovranisti, agli europeisti, dai liberisti più o meno “selvaggi”, ai benicomunisti di stampo francescano piuttosto che negriano, e via di seguito. Non a caso il virile Putin fa stragi di cuori tanto nell’estrema destra quanto nell’estrema sinistra. E ciò non a dimostrazione del fatto che, in fondo, fascisti e comunisti sono ugualmente attratti da modelli politici e personali autoritari (senza contare la loro comune adorazione feticistica per lo Stato come imprenditore unico), né che oggi le “grandi ideologie” sono ormai tramontate; ma a conferma che i cosiddetti “comunisti” non sono mai stati davvero tali, bensì non più che zelanti servitori del dominio sociale capitalistico. Ma non divaghiamo!

L’illustre economista nonché premio Nobel Joseph Stiglitz si schiera risolutamente (ma no c’era da dubitarne) con il No al prossimo referendum greco: «Un sì alla nuova austerity vorrebbe dire depressione quasi senza fine», mentre «un no aprirebbe invece per lo meno la possibilità che la Grecia, con la sua tradizione democratica, possa essere padrona del suo destino». A parte la balla colossale, in questi giorni ripetuta ossessivamente a destra e a manca, sulla «tradizione democratica» della Grecia, sulla Grecia come «culla della democrazia e della civiltà occidentale»: come se il tempo che ci separa da Pericle, da Socrate e da Aristotele fosse passato invano!; a parte questa demagogia pro-greca d’accatto, come si può credere davvero che un Paese come la Grecia «possa essere padrona del suo destino» nel Capitalismo globalizzato del XXI secolo? (2) Ma davvero si vuol vendere all’opinione pubblica greca e internazionale questa mastodontica menzogna? Pare di sì.

Naturalmente i primi a non crederci, in questa balla speculativa, sono Tsipras e Varoufakis, i leader «dell’esperimento politico bolscefighetto» di Atene (la definizione purtroppo non è mia, ma di Fabio Scacciavillani) (3), i quali infatti stanno cercando di far pesare sul tavolo delle trattative con i “poteri forti” internazionali la delicata posizione geopolitica del Paese, strizzando l’occhio ora alla Russia, ora alla Cina, vedendo l’effetto che la cosa fa a Berlino, a Washington e ad Ankara. La posta in gioco geopolitica, più che economica, è stata messa nel cono di luce con il consueto realismo da Robert Kagan sul Wall Street Journal Europe di ieri. Come la moglie Victoria Nuland (vicesegretario di Stato per l’Europa, particolarmente ostile alla Russia e contrariata da certi atteggiamenti ambigui esibiti dai partner europei sulla questione ucraina), Kagan ha preso molto sul serio l’accordo di cooperazione e finanziamento firmato dal governo greco con la Russia il 18 giugno.

Anche Silvio Berlusconi, a suo tempo vittima del «colpo di Stato» ordito dall’asse franco-tedesco (i sorrisini complici della Merkel e di Sarkozy lo tormentano ancora: altro che Ruby rubacuori!) con la complicità del Presidente Napolitano (Brunetta docet!), oggi fa interessanti considerazioni geopolitiche sulla crisi dell’Unione Europea, anche nel tentativo di agganciare la posizione centrista di Renzi e per questa via smarcarsi dal populismo antieuropeo di Salvini e Meloni. Dopo tutto egli si considera ancora uno stimato leader del Partito Popolare Europeo.

Ma ritorniamo a Stiglitz: «Atene ha la chance di avere un futuro che, anche se non sarà prospero come il suo passato, sarà più ricco di speranza rispetto alla tortura senza scrupoli del presente». Capito classi subalterne greche? Dovrete comunque affrontare duri sacrifici, ma in compenso vi si offre l’occasione di essere più ricchi non in termini di euro (che trivialità, nevvero Santo Padre?) ma di speranza: quasi mi commuovo! Però subito mi riprendo: scusatemi la trivialità, please. La «tortura senza scrupoli del presente» si chiama Capitalismo, e questo ad Atene, a Berlino, a Roma, a Washington, a Mosca, a Pechino e altrove nel mondo. Ed è precisamente questa tortura, questo dominio sociale che ha ormai le dimensioni del pianeta, che ha generato la crisi economica internazionale esplosa nel 2007, la quale ha impattato duramente soprattutto in quei Paesi del Mezzogiorno d’Europa travagliati da decenni da gravi magagne strutturali, gestite soprattutto con la leva della spesa pubblica. D’altra parte nessun politico “meridionale” era – ed è – così elettoralmente masochista da intaccare interessi consolidati, rendite di posizione e parassitismi sociali di varia natura. «Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis sono passati da rivoluzionari a difensori di sprechi e privilegi» (Panorama, 1 luglio 2015). Ora non esageriamo: quando mai la strana coppia di Atene è stata rivoluzionaria?

Ma, prima o poi, i nodi vengono al pettine, soprattutto quando le “formiche” si rifiutano di essere generose con le “cicale”, per riprendere uno stilema polemico interborghese molto in voga qualche anno fa. Detto di passaggio, le “formiche” nordiche votano esattamente come le “cicale” meridionali, come ha fatto rilevare ieri con teutonica malignità la Cancelliera di Ferro parlando al Bundestag. È la democrazia (borghese, e nella «fase imperialista» del Capitalismo!), bellezza! (4).

Chi oggi sostiene che i creditori della Grecia sono moralmente colpevoli per aver consentito a quel Paese di vivere per molti anni al disopra, molto al disopra dei propri mezzi (organizzando persino un’olimpiade nel 2004 e vincendo addirittura un Campionato europeo di calcio nello stesso anno: che bei tempi!) o è in malafede oppure non capisce assolutamente nulla di come funziona il capitalistico mondo. In ogni caso quel personaggio politicamente corretto, sicuramente devoto a Francesco, dice e scrive moralistiche balle.

A proposito dell’evocato compagno Papa! «Se fossi greca? Al referendum di domenica voterei No». È quanto dichiara al Fatto Quotidiano Naomi Klein, «giornalista e scrittrice canadese icona dell’anti-capitalismo del XXI secolo». Anche qui devo dire di non aver nutrito dubbi di sorta, lo giuro. Tutta l’intellighentia che piace vota No. Ora, per capire la natura dell’anticapitalismo (sic!) venduto dalla Signora No Logo in giro per il mondo è sufficiente leggere la sua risposta alla domanda, abbastanza scontata, di Andrea Valdambrini («Papa Francesco come leader del movimento anti-capitalista?»): «Sì, lo è. È una voce importante che ricorda al mondo come non può esistere economia senza la morale. Le persone e il bene del pianeta vengono prima dei profitti». Non c’è dubbio: di questi tempi basta pochissimo per accreditarsi presso l’intellighentia progressista occidentale come «leader del movimento-anticapitalista». E questo certamente non testimonia a favore delle mie capacità! Nella mia più che modesta critica all’Enciclica francescana avevo comunque citato anche Naomi Klein fra i punti di riferimento “dottrinari” del Santo Ecologismo elaborato dal Papa.

Non c’è dubbio che ultimamente il Vaticano, una delle più antiche e potenti agenzie politico-ideologiche al servizio dello status quo sociale planetario, si è di molto rafforzato.

Il populismo di Syriza pare essersi ficcato dentro un cul-de-sac; qualunque sia l’esito del referendum, usato dai capi di quel partito come strumento di pressione politica da far valere nelle trattative  dei prossimi giorni e come comodo alibi per pagare il minor prezzo politico possibile in caso di capitolazione (ad esempio, nel caso vincessero i Sì), appare chiaro che rischiano di venir risucchiati nel vortice della disillusione e della disperazione quella consapevolezza politica e quella combattività che in qualche modo, scontando i limiti di una situazione sociale che depone a sfavore delle classi subalterne in tutto il mondo, si sono fatte strada negli ultimi anni in certi strati del proletariato e della stessa piccola borghesia azzannata dai morsi della crisi.  L’«esperimento politico bolscefighetto» di Tsipras e company può costare molto caro a chi in buona fede si è fidato della loro proposta politica tutta interna alla dialettica interborghese – la quale, com’è noto, può arrivare fino al bagno di sangue (5). Il 30 giugno il quotidiano greco I Kathimerini, schierato per il Sì e molto critico nei confronti del Premier greco («Tsipras sta sfruttando la disperazione della popolazione, ritenendo che una buona parte di essa sia disposta ad accettare qualsiasi cosa, perfino un ritorno alla dracma), paventava la possibilità che «la gente [possa cadere] preda di forze distruttive». Quando la catastrofe incombe e la “coscienza di classe” latita, le «forze distruttive» sono sempre in agguato, pronte a vendicare le offese degli ultimi: non è la vichiana storia che si ripete, si tratta piuttosto della coazione a ripetere del Dominio sociale capitalistico. Del resto, dal mio punto di vista anche Syriza è, nella sua qualità di partito borghese, parte organica delle «forze distruttive», e distruttive nel peculiare significato che tali forze non solo saccheggiano le condizioni di esistenza dei nullatenenti, ma ne annichiliscono anche la capacità di reazione, anche attraverso l’illusionismo democratico. Sotto questo aspetto, sbaglia di grosso chi individua solo in Alba Dorata il nemico da combattere, secondo la vecchia e falsa alternativa tra fascismo e democrazia.

Certo, per una volta potrei affettare un po’ di ottimismo (tanto non costa nulla e si fa sempre bella figura) e dire di sperare che la disillusione possa convertirsi presto in crescita politica. Certamente se fossi in Grecia lavorerei in quel senso. Nel mio infinitamente piccolo, si capisce. E soprattutto senza coltivare, per me e per gli altri, false speranze. Finisco ricordando la mia posizione sul referendum del 5 luglio: si tratta a mio avviso di rifiutare tutte le opzioni vendute alle classi subalterne come le sole ricette in grado di salvarle da una miseria ancora più nera di quella che stanno sperimentando oggi, ossia per legarle più strettamente al carro dei sacrifici («avete scelto voi!»), che comunque esse dovranno fare, non importa se nel nome del “sogno europeista” o in quello, altrettanto reazionario e disumano, del “sogno” sovranista.

(1) «La paura aiuta i demagoghi populisti che la coltivano di mestiere, se non lo si fosse ancora capito. Che Tsipras sia stato un demagogo a ricorrere al referendum chiedendo la fiducia dei greci a lui, non dovevamo scoprirlo certo all’ultimo momento. I populisti demagoghi fanno così, e chi non lo è e non sa mettere in conto le loro mosse perderà» (Oscar Giannino). Ma anche il fronte del Sì, a quanto pare, sa ben giocare con le paure: «Com’è possibile convincere anche queste persone a votare una cosa contro il proprio interesse? Facile, si crea un clima di terrore, paventando l’uscita dall’euro, dall’Europa, il fallimento e il disastro economico e sociale del paese, la perdita di tutti i propri soldi ecc. in caso di vittoria del “no”. In questo sporco lavoro aiutano molto le tv private greche che a ciclo continuo trasmettono servizi che hanno lo scopo di terrorizzare il popolo greco, molte volte riciclando in maniera forviante fotografie ed immagini del passato e magari provenienti da altri paesi. […] L’esempio del primo ministro Matteo Renzi è eclatante, ha dichiarato: “Sarà un referendum tra la Dracma e l’Euro”. In questo carosello di dichiarazioni non è solo, ma ben inserito in un fronte che fa di tutto per terrorizzare il popolo greco. In tanti hanno fatto dichiarazioni in cui la vittoria del “no” coincide con l’uscita dall’euro e dall’Europa. Cosa, che non è vera ed è proprio il più accanito nemico del governo greco a dichiaralo pubblicamente, infatti proprio il ministro delle finanze tedesco W. Schäuble ha dichiarato ieri che anche con la vittoria del “no” la Grecia resterà nell’’uro e si continuerà a trattare» (http://sopravvivereingrecia.blogspot.it/). Il Blog qui citato coltiva un’alta opinione della democrazia diretta referendaria che personalmente non condivido. Come non condivido il suo giudizio sulla dichiarazione di guerra referendaria firmata da Tsipras il 26 giugno: «è di una fierezza rara».

(2) Scrive Paolo Guerrieri: «L’eurozona non è una piccola economia aperta, ma il secondo spazio a livello mondiale per dimensioni di reddito, prodotto e di ricchezza accumulata. […] Per vincere la crisi economica è necessaria più Europa. Non sarà facile in un’era di euroscetticismo crescente. Ma è un dato di fatto che gli Stati nazione europei non hanno più gli strumenti adeguati per governare le loro economie, perché troppo piccole nella nuova economia-mondo. E se vogliamo un rilancio del modello europeo di economia sociale di mercato questo sarà possibile solo in un’ottica europea. Ma bisogna fare presto, prima di vedere definitivamente compromesse le prospettive future dell’intero progetto di integrazione europea» (È fondamentale un cambio di passo in Italia e in Europa, in  Economia italiana, 2014/3). Rimane inteso che questo progetto non può che avere la Germania, ossia lo spazio capitalistico sistemicamente più forte, più strutturato e più dinamico d’Europa, come proprio centro-motore. Hic Rhodus, hic salta!

(3) «Il plebiscito farsa, ultimo rifugio dei demagoghi, rappresenta il capolinea dell’esperimento politico bolscefighetto quale che sia il risultato. […] Quelli che lamentano una moneta senza basi politiche vivono fuori dalla realtà e ignorano la Storia: è sempre l’economia a determinare la politica. Senza la zavorra greca l’euro è economicamente e dunque politicamente più forte» (F. Scacciavillani, Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2015).

(4) Cito da un mio post del 5 giugno: Com’è noto, anche il Ministro tedesco Schäuble si è pronunciato in termini positivi circa la possibilità di sottoporre il piano di riforme che sarà concordato tra Atene e l’ex Troika a un referendum popolare: «Se il governo greco pensa di dover tenere un referendum, allora lasciamogli tenere un referendum – ha dichiarato Schäuble –. Potrebbe essere una misura perfino utile per il popolo greco per decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario o se vuole qualcosa di diverso» (Corriere della Sera, 12 maggio 2015). Elettori greci, preparate la corda: da tutte le parti vi si vuol… consultare. Della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti.

(5) E qui viene sempre utile ricordare Schopenhauer: «Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri, pp. 31-32, RCS, 2010). Ecco la merce nazionalista venduta il 26 giugno da Alexis Tsipras al “popolo greco”: «Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci. Per la sovranità e la dignità del nostro popolo». Segue ovazione e orgasmo da parte dei sovranisti, non importa se di “destra” o di “sinistra”, di tutto il mondo. E magari qualche socialsovranista ha in passato urlato (evidentemente a pappagallo) lo slogan: Il proletariato non ha patria! «Se gli levi anche quella…». Mi rendo conto. E allora, più Patria per tutti! Così va bene? Sono stato abbastanza “amico del popolo”?

UNA SOLUZIONE FINALE PER LA GRECIA

merkel-tsipras-641227Grande è la confusione sotto il cielo di Atene, ma nessuno può dire che essa sia anche eccellente. Dopo l’ennesimo “incontro decisivo” tra Alexis Tsipras e il Presidente dell’Ue Jean Claude Juncker, il poliziotto cattivo Wolfgang Schäuble ha tenuto a precisare che «la proposta greca non sarà la soluzione finale». Ora, sentire parlare un tedesco di «soluzione finale», sebbene per negarla, fa sempre un certo effetto. Rimane comunque il fatto che ancora una volta una soluzione finale per il caso greco non sembra alle viste. La melina ai bordi della catastrofe chiamata Grexit dunque continua. Almeno così sembra.

«Vorrei che la Grecia riprendesse la sua crescita», ha dichiarato Juncker alla fine dell’ultima cena (ahi!) con il leader greco; «ma per farlo governo e amministrazione devono adottare gli strumenti necessari [per gestire al meglio i 35 miliardi di fondi strutturali che la Commissione europea mette loro a disposizione per il periodo 2014-2020]. Non voglio che si dica che la Commissione Ue ha sottoposto la Grecia ad una cura di austerità. Sosteniamo l’economia reale con 35mld, a patto si doti di un’amministrazione in grado di usarli». Dal canto suo il Presidente dell’eurogruppo Jeroen Dijsselbloem fa sapere che quello di ieri «è stato un buon incontro, proseguiremo nei prossimi giorni». Tsipras, come al solito, è apparso ancora più fiducioso: «Sono ottimista, siamo molto vicini ad un accordo, abbiamo una base su cui discutere e nei prossimi giorni faremo ulteriori progressi, un accordo è in vista. Tra tutte le parti c’è accordo per mettere fine all’austerità e alle misure del passato, nessuno vuole più fare gli stessi errori». Chi segue il caso greco sa bene che almeno negli ultimi due mesi il Premier greco non ha fatto che ripetere, incontro “decisivo” dopo incontro “decisivo”, la stessa ottimistica filastrocca. Qualche giorno fa in un’intervista a Radio Vima il Ministro delle Finanze Varoufakis aveva anche detto che «La Grecia è molto vicina a un accordo con i creditori»; poi si è saputo che i creditori non ne sapevano niente…

La tattica seguita dagli ellenici nelle ultime settimane è abbastanza elementare (si tratta di vedere quanto efficace): mostrare all’opinione pubblica interna e internazionale tutta la buona volontà e la buonafede della leadership greca, far vedere che il governo di Atene è disposto all’accordo, di più: che esso lo vuole con tutte le sue forze, mentre sono i soliti cattivoni di Bruxelles, di Berlino e della Troika (pardon: dell’«ex Troica» o «Istituzioni» che dir si voglia) che alzano continuamente il prezzo dell’accordo, reiterando la «micidiale e assurda» politica dell’Austerity. Il possibile fallimento delle trattative in corso andrebbe dunque attribuito all’irresponsabilità dei “poteri forti”. Nelle ultime settimane Tsipras e Varoufakis hanno continuato a fare melina sull’orlo del precipizio, giocando di sponda con russi e cinesi per alzare anche la posta geopolitica della crisi.

Due competitori corrono l’uno contro l’altro in automobile a folle velocità: vince chi non cambia traiettoria, chi mostra fino all’ultimo secondo utile di non temere il botto.  Game of chicken (pollo nella declinazione anglosassone, coniglio in quella latina): si tratta di un esempio elementare di quella Teoria dei Giochi che tanto piace al “marxista eccentrico” di Atene, il quale – insieme a Joseph Stiglitz, Thomas Piketty e molti altri economisti progressisti occidentali – è socio dell’esclusivo Club dei Salvatori del Capitalismo – da se stesso. Vedremo alla fine chi risulterà il pollo (o coniglio) della situazione. Ovviamente Tsipras non vuole finire nella padella dei “poteri forti”, e le sue ricorrenti minacce sono rivelatrici di una certa angoscia governativa: «Se alcuni pensano o vogliono credere che le decisioni che ci aspettano riguardano solo la Grecia si sbagliano. Rimando loro ad un capolavoro di Ernest Hemingway: Per chi suona la campana?». Detto più prosaicamente: chi è il pollo di turno da spennare?

Sembra comunque che la sabbia nella clessidra della crisi greca (che poi è parte della crisi del cosiddetto “sogno europeo”) si stia rapidamente esaurendo, e che difficilmente il vecchio arnese “temporale” potrà venir capovolto per l’ennesima volte. Siamo dunque alla resa dei conti finale? È finalmente giunto quel fatale redde rationem spostato di mese in mese negli ultimi due anni? D’altra parte Dimitris Belantis, componente del Comitato Centrale di Syriza e critico nei confronti della “svolta possibilista” di Tsipras, due settimane fa aveva parlato chiaro a tal riguardo: «Giugno è la scadenza ultima per reagire alle minacce del sistema capitalista internazionale». Nientemeno! Verrebbe voglia di trasferirsi all’istante in Grecia, per dare una mano ai compagni governativi. Male che vada, in qualità di turisti anticapitalisti potremmo sempre dare il nostro modesto obolo al «popolo che resiste».

La melina del governo greco, peraltro in qualche misura assecondata dalla controparte europea e dallo stesso Obama (e certamente salutata con favore da Putin), ha fatto saltare i nervi a più di un decisionista. Un solo esempio: «Non si può volere tutto», scriveva sul Foglio (29 maggio) Giuliano Ferrara; «l’euro i mercati aperti e l’autarchia, i prestiti dei capitalisti senza le riforme capitalistiche, non si può avere una popolazione di impiegati superiore alla media europea, un salario minimo superiore, la pretesa di ricominciare ad assumere con l’acqua del deficit alla gola, il rifiuto di serie privatizzazioni, pensioni fuori controllo, e il tutto con le casse svuotate da decenni di bugie, di clientelismo fattosi sistema, di tasse in esenzione per i comparti decisivi dell’economia, non si può volere sovranità per i propri elettori e sudditanza per gli elettori degli altri. […] Il debito greco è già stato in parte condonato tre anni fa, dice Schäuble, e in parte ristrutturato, il servizio sul debito pesa meno per i greci che per i tedeschi, e alla fine gli economisti possono dire quello che vogliono, perché parlano di soldi che non sono i loro, ma chi governa ha altri problemi. […] Schäuble che dice sconsolato: non sono spaventato da certi metodi, ho trattato anche con i ministri di Honecker all’epoca della riunificazione, uno deve parlare con gli altri per come sono e non per come vorrebbe che fossero. […] Gli antagonisti del Partenone sono i veri impresentabili, in tutta questa faccenda di podemos, di possibili, di antipolitici, di sparafucile a sinistra e a destra e per ogni dove. Gli americani fanno finta di niente, e non vogliono altre grane. Bisognerà tirare somme politiche, alla fine: è compatibile con l’Europa un governo socialista e populista, barricadero e social-nazionalista? Si può allungare il brodo, gli stati possono delegare ai tecnici i concordati e le ristrutturazioni del debito, ma alla fine: è compatibile? La risposta è probabilmente un lungo, tortuoso e pericoloso: no». Alla fine, che Grexit sia! L’importante è mettere un punto a questa snervante partita a scacchi, a questa agonia offerta al mondo in stillicidio. Come diceva quello, meglio una rapida fine nell’orrore, piuttosto che un orrore senza fine!

Per Ferrara la «crisi umanitaria» di cui tanto parlano i socialnazionalisti greci «non è che la nuova versione ideologica della crisi economico-sociale». Finalmente un po’ di pulizia “semantica”, un po’ di sano materialismo! In effetti, la «crisi umanitaria» è un dato strutturale e permanente della società capitalistica. Nel senso che c’è sempre crisi di umanità, che l’indigenza in fatto di umanità è la regola, ovunque nel mondo. Ma questo non è che il dozzinale esistenzialismo che il sottoscritto cerca puntualmente di propinare, con scarso successo, al lettore, e che in ogni caso non aiuta a rispondere alla cruciale e forse financo epocale domanda posta dall’Elefantino: «è compatibile con l’Europa un governo socialista e populista, barricadero e social-nazionalista?».

Io rilancio e formulo una domanda ancora più scabrosa e solo apparentemente fuori luogo (almeno lo spero): è compatibile il Mezzogiorno italiano con il Nord’Italia? Un tempo la Lega Nord avrebbe formulato all’istante la giusta risposta a questa domanda che tanto irrita la coscienza di ogni onesto italiano, soprattutto di quello “stanziato” a Sud e foraggiato dallo Stato attraverso la fiscalità generale. La coesistenza in uno stesso spazio politico-istituzionale di aree capitalistiche fra loro troppo disomogenee deve necessariamente produrre, presto o tardi, delle conseguenze sistemiche. Quel che è certo è che l’Unione Europea non è ancora «un’area monetaria ottimale», per dirla con la scienza economica. Secondo il Guardian «La medicina imposta alla Grecia dai creditori si è dimostrata veleno. Si vuole una moneta permanente che invece inizia a disintegrarsi». Pare che il Marco Tedesco si stia riscaldando a bordo campo: meglio non lasciarsi cogliere di sorpresa da esiti sfavorevoli (per chi?) oggi non prevedibili. «La cancelliera tedesca Angela Merkel, in un’intervista alla corrispondente Rai, sottolinea: “Sulla crisi greca sono fiduciosa: penso che tutti dobbiamo esserlo. La Grecia vuole rimanere parte dell’Euro, anche la Germania lo vuole, tutti gli stati Ue vogliono questo» (Rai News, 5 giugno 2015). Però il riscaldamento del bomber tedesco continua…

Come ho già ricordato in un vecchio post, alla fine degli anni Ottanta Jacques Delors, allora Presidente della Comunità Europea e teorico del post-nazionale, accusava la Thatcher, che remava contro l’asse “europeista” Parigi-Bonn, di esagerare la reale importanza dello Stato-nazione e la portata delle differenze sociali fra i diversi Paesi europei: «lo sciovinismo può essere un bel paravento per nascondere venti anni di declino» – inglese. Richiamandosi alla tesi di Harmut Kaeble, storico dell’Università Libera di Berlino, secondo la quale l’Europa presentava al suo interno meno differenze sociali rispetto all’Unione Sovietica e agli stessi Stati Uniti, Delors sosteneva che ormai ci fossero tutte le condizioni strutturali per poter parlare di una completa integrazione europea post-nazionale, e che gli ostacoli da superare in vista degli Stati Uniti d’Europa avessero una natura squisitamente politica, più che sociale in senso stretto. Com’è noto, la Lady di Ferro non si fece convincere dall’ideologia europeista, e con qualche ragione a quanto pare. Oggi si parla addirittura di Brexit, ma questo è un altro discorso. Ma fino a un certo punto!

Scriveva Lucio Caracciolo il 26 maggio scorso, dopo aver versato qualche lacrima sulle macerie del Muro di Berlino (i nostalgici della Guerra Fredda sono sempre più numerosi) e aver per l’ennesima volta elencato i limiti della «vecchia Europa svuotata di senso»: «Le giornate degli europei non sono tutte eguali. Quelle tedesche sono ben più luminose delle nostre, non diciamo delle greche. Grazie al geniale euromeccanismo che i germanofobi vollero architettare per imbrigliare la Germania. Imbrigliando se stessi. E imbrogliandoci tutti» (Limes). È la dialettica del processo sociale capitalistico, bellezza! Alla fine, la potenza sistemica dei Paesi, o di singole aree (regioni) dello stesso Paese, deve trovare un’adeguata configurazione “sovrastrutturale”. (In realtà la stessa “sovrastruttura” è sempre più a tutti gli effetti una infrastruttura economica).

L’impressione è che l’Unione Europea si sia ficcata in un cul de sac realizzato dall’alternativa fra i due tradizionali modelli politico-istituzionali presenti nel dibattito politico europeo dagli anni Cinquanta in poi: Europa delle Patrie o Federazione di Stati? Stare in mezzo al guado genera una crescente instabilità che potrebbe superare il punto critico di non ritorno. Si tratta di capire in quale direzione la crisi spingerà il Progetto Europeo.

Il citato Dimitris Belantis è favorevole alla Grexit, all’uscita volontaria, e possibilmente “vellutata”, del Paese dall’euro: «Il default ci renderebbe automaticamente una colonia tedesca, governata dalla Troika con politiche neoliberali. Ecco perché, davanti a queste possibilità, forse la Grexit – per quanto comporterebbe un bagno di sangue nel breve termine – ci renderebbe alla fine liberi nel lungo periodo. È chiaro che misure di controllo dei capitali e delle banche sarebbero poi necessarie, ma è un rischio di cui i greci devono essere consapevoli e sul quale devono scegliere» (Linkiesta, 14 maggio 2015). Com’è noto, anche il Ministro tedesco Schäuble si è pronunciato in termini positivi circa la possibilità di sottoporre il piano di riforme che sarà concordato tra Atene e l’ex Troika a un referendum popolare: «Se il governo greco pensa di dover tenere un referendum, allora lasciamogli tenere un referendum – ha dichiarato Schäuble –. Potrebbe essere una misura perfino utile per il popolo greco per decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario o se vuole qualcosa di diverso» (Corriere della Sera, 12 maggio 2015). Come scrivevo su un post, «della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti. I funerali democratici del “popolo sovrano” saranno celebrati tra qualche mese?». E il «bagno di sangue nel breve termine» dove lo mettiamo? «Per la Sacra Patria questo e altro!». Almeno così la pensa il nazionalsocialista duro e puro, in Grecia come altrove.

Secondo la Goldman Sachs un default tecnico della Grecia e un blocco dei depositi ellenici «non solo è possibile [ma] potrebbe essere necessario allo scopo di rompere l’impasse in cui versano i negoziati con i creditori». In un report di qualche giorno fa la banca americana rilevava come le trattative siano ormai in uno stallo praticamente insormontabile e che la situazione delle casse di Atene, ormai quasi vuote, potrebbe costringere il governo greco a disattendere i suoi impegni con pensionati e lavoratori, a cui, com’è noto, è stato promessa la priorità nel pagamento di salari e pensioni rispetto alle obbligazioni con i creditori. Le mitiche linee rosse tracciate nel Programma elettorale di Syriza rischiano insomma di evaporare, e ciò spiega la crisi che scuote quel partito: «Il premier greco Alexis Tsipras si trova a fronteggiare un difficile risiko sul fronte interno ed esterno. Da una parte le lunghe trattative sul piano di salvataggio con il Fondo Monetario Internazionale, la Commissione europea e la Banca centrale europea, dall’altro, un terreno ancora più turbolento, l’aperta ribellione dell’ala più oltranzista di Syriza che ha lanciato un avvertimento al premier greco: se superi la nostra linea rossa di impegni con gli elettori si va alle urne» (askanews, 1 giugno 2015). Elettori greci, preparate la corda: da tutte le parti vi si vuol… consultare.

Scrive Jacques Sapir a proposito della “relazione egemonica” che lega l’Unione Europea alla recalcitrante (o “antagonista”) Grecia: «Una comunità che, a causa dei trattati, potesse prendere solo decisioni senza importanza sulla vita dei suoi membri non sarebbe meno asservita di quella che si trovasse effettivamente oppressa da una potenza straniera». Ma di che «comunità» stiamo parlando? Si tratta forse della «comunità» capitalistica oggi vigente in tutto il pianeta? La risposta non può che essere affermativa, ovviamente. Personalmente ne ricavo quanto segue: Sapir ha eliminato per decreto divino (forse si tratta di Zeus in persona, vista la fattispecie di cui si tratta) la divisione classista delle comunità ospitate dal nostro capitalistico mondo, così che la contesa fra gli Stati possa apparire in guisa di “contraddizione principale”, come ai vecchi tempi del Terzomondismo. Il Capitale come potenza estranea che tutti e tutto domina deve insomma lasciare il passo alla «potenza straniera», comunque declinata (Stati Uniti, Germania, Unione Europea, Troika e così via), che si accanisce contro l’autonomia e la dignità di una “libera” comunità nazionale. Ai tempi di Lenin i “marxisti rivoluzionari” spiegavano al proletariato occidentale che parlare di dignità e autonomia nazionale nell’epoca imperialistica equivaleva a una truffa politico-ideologica tentata ai loro danni dalle classi dominanti, le quali naturalmente sono felici tutte le volte che possono annegare i contrasti di classe nel veleno della solidarietà nazionale – e qui il concetto (borghese) di Popolo gioca un importante ruolo. Se, come io penso, quel discorso era valido allora, figuriamoci se non lo è oggi,  nella Società-Mondo del XXI secolo, nell’epoca del dominio totalitario e mondiale del Capitale.

I partigiani dell’UE quale essa è», continua Sapir, «hanno allora subito preteso che i sovranisti non siano che nazionalisti. Ma facendo questo dimostrano la loro incomprensione profonda di quello che è in gioco nel principio di sovranità: di fatto, l’ordine logico che va dalla sovranità alla legalità attraverso la legittimità, e che è costitutivo di ogni società». Ora, nel contesto del XXI secolo ha certamente senso parlare di sovranità borghese,  di legalità borghese, di legittimità borghese e, va da sé, di società borghese, mentre non ha alcun senso, se non quello riconducibile all’ideologia e agli interessi che fanno capo alla classe dominante, parlare in astratto di quei concetti e delle corrispondenti realtà politico-istituzionali. I sovranisti difendono la vecchia configurazione del potere politico (borghese), la quale fa sempre più fatica a stare dietro ai mutamenti sistemici innescati dal processo sociale capitalistico, la cui dimensione oggi è appunto planetaria, la dimensione più adeguata al concetto e alla natura (espansiva, totalizzante, invasiva, “rivoluzionaria”) del Capitale. Il sovranismo (o nazionalismo!) è una delle carte che la classe dominante di un Paese può giocare, o si vede costretta a giocare, in un momento di acuta crisi sociale, ma in nessun caso esso è in grado di far girare all’indietro la ruota del processo sociale. Faccio del volgare “determinismo economico”? No: mi limito a prendere atto della storia dell’ultimo secolo e mi sforzo di capire la natura della società con cui abbiamo a che fare.

L’ETERNO TEDESCO

merkel-650036Angela Merkel (a colori) che in mezzo a un gruppo di ufficiali della Wehrmacht (in bianco e nero) si gode, senza far torto alla tradizionale compostezza tedesca, il tepore della primavera meridionale ammirando ciò che rimane della gloriosa architettura greca: è la foto-scandalo proposta dal noto settimanale tedesco Der Spiegel. I trionfi del Quarto Reich messi in una scabrosa linea di continuità con i trionfi del Terzo Reich: l’Eterno tedesco è servito all’opinione pubblica internazionale attraverso un montaggio fotografico volutamente rozzo. Il titolo di copertina non potrebbe poi essere più… germanico: The German Übermacht, che più o meno dovrebbe suonare in questi termini: L’eccesso di potenza della Germania. «È così che ci vedono nell’Europa sottoposta al duro trattamento dell’austerity», scrive il settimanale di Amburgo. Si tratta di un assist confezionato su misura al leader greco Tsipras atteso in visita nella Grande Berlino proprio in queste ore?

«Sui media e nei social forum online esplode la rivolta, rilanciata soprattutto dalla Sueddeutsche e dalla Bild: “I nazisti sfruttarono brutalmente i paesi occupati, rubarono le riserve della banca centrale ellenica, noi forniamo aiuti e crediti”. La direzione dello Spiegel risponde veloce in rete: “I titoli di questa edizione sono volutamente esagerati per accendere il dibattito. Ma non creano malintesi né espongono paragoni fuorvianti. Pensa così solo chi vuole pensarlo, noi descriviamo come il resto d’Europa ci vede”». (A. Tarquini, La Repubblica). E il «resto d’Europa» ci vede in una guisa non esattamente simpatica, insinua il settimanale tedesco non nuovo alle “provocazioni” politiche e culturali – gli italiani di una certa età ancora ricordano l’umiliante spaghetto alla rivoltella servito nell’invitante Urlaubsland Italien del 1977.

L’operazione giornalistico-politica dello Spiegel e la polemica che ne è derivata mi hanno fatto venire in mente quanto scrivevo tre anni fa sempre a proposito delle ormai rituali accuse di “oggettivo” neonazismo rivolte alla Germania soprattutto dalle ex “cicale”:

«Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se… Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partner? “Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti che non vogliono dire la verità ai cittadini dei loro Paesi. E la verità è che i sacrifici servono a quei Paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in una formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene meglio, e amici come prima. Anzi, meglio!” Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE?».  Ecco, Der Spiegel sembra oggi dire all’opinione pubblica tedesca: «Ma ci conviene stare in una Unione che ci percepisce come i soliti crucchi che pensano solo a lavorare e a essere i primi della classe?». (Primi peraltro anche in materia calcistica: il Brasile pallonaro ne sa qualcosa della German Übermacht !).

Guido Ceronetti difende da par suo su Repubblica la Cancelliera di ferro, considerata come il frutto più genuino della “rivoluzione etica” che ha seppellito, si spera per sempre, il passato del Paese «dove il crimine umano ha toccato il suo culmine»:

«Come si diventa una grande potenza puramente economica, senza violenza di Kaiser e volontà omicida paranoica di Hitler, come si arriva a tanta solidità di titoli e solitudine di potere? … L’economia non è che una maschera (che spesso non nasconde che polvere e morte); nel midollo etico è la vera forza. […] Il motore, non meccanico, di tutto, che Angela Merkel oggi perfettamente incarna, non è economico né politico, ma spirituale, frutto di revisionismo etico».

Naturalmente nessuno discute il «midollo etico» della Cancelliera, né il radicale «revisionismo etico» che ha travagliato il popolo tedesco dall’Anno Zero in poi – mentre in Giappone tale “revisionismo” ha conosciuto un andamento più superficiale e “problematico”, per così dire; piuttosto suona quantomeno bizzarra la sottovalutazione di Ceronetti circa la funzione dell’economia nel mondo globalizzato del XXI secolo. Infatti, che cosa permette alla Germania di essere ancora una Potenza sistemica di rango mondiale se non la sua competitiva struttura capitalistica? La «potenza puramente economica» (o «eccesso di potenza») della Germania sostanzia ormai da un secolo la cosiddetta Questione Tedesca, oggi più che mai Questione Europea, se non proprio mondiale come lo fu ai tempi del precedente Reich Millenario – durato approssimativamente quanto due mandati elettorali della “nuova Bismarck”, o “nuova Napoleone”, secondo alcune interpretazioni storico-geopolitiche del suo ruolo considerato dalla prospettiva europeista – vedi alla voce Stati Uniti d’Europa.

In generale, è nella forza espansiva della struttura capitalistica (industria, finanza, commercio, scienza, tecnica, cultura) di un Paese che bisogna cercare i presupposti del moderno Imperialismo, mentre chi fa di questo fenomeno una mera questione di capacità militare e di arrogante proiezione politico-ideologica (rubricabile magari alla voce “Volontà di Potenza”) si preclude la possibilità di capire la dinamica del processo storico-sociale dei nostri tempi. Il termine “Imperialismo” suona vecchio solo a chi non ha compreso il concetto chiamato a cogliere la sostanza della cosa nominata. Sulla Questione Tedesca rimando ai miei numerosi post dedicati al tema.

Per concludere, ancora Ceronetti: «Che non si lasci intimidire, la Cancelliera, custode di un focolare che ha una estensione da sacro romano impero medievale. A lei si addice e dedico la sentenza di Marco Aurelio: “Se puoi istruiscili, se non puoi sopportali”. E se non puoi né istruirli né sopportarli? È questa – inquietante? – domanda che forse Der Spiegel ha voluto porre alla cosiddetta opinione pubblica tedesca.

LA RIVOLUZIONE SEMANTICA DI SYRIZA

851a3e9c866bd8216df247b9d7bec9b3_LIn attesa della rivoluzione sociale favoleggiata dai soliti quattro gatti utopisti, accontentiamoci della ben più concreta rivoluzione semantica imposta da Syriza ai “poteri forti” del pianeta: la famigerata Troika da ora in poi si chiamerà Le Istituzioni. Un bel cambiamento, non trovate? Si dirà: «Ma la sostanza della cosa non cambia di una virgola: sempre di UE, FMI e BCE si tratta!».  È vero. D’altra parte, chi sono io per sottovalutare il “capovolgimento dialettico della prassi” azzardato dai compagni di Syriza?

Si tratta di «un contentino semantico per Atene», osservava l’atro ieri La Stampa di Torino, notoriamente “serva sciocca dei poteri forti”. Mai sottovalutare l’importanza della semantica, cari “poteri forti”, soprattutto quando alla gente non si ha niente di buono da vendere.  «Contenti loro… Sempre di quelle tre istituzioni si tratta», osserva con malcelata ironia l’economista franco-tedesco Daniel Gros; «La verità è che il vero negoziato comincia adesso, la parte più difficile deve ancora arrivare». Come se i compagni governativi di Atene non lo sapessero! Il problema è piuttosto il seguente: come dare la pessima notizia al popolo greco?

Non vogliamo denaro, ma tempo, aveva detto qualche giorno fa il Premier greco; può darsi che il «contentino semantico» ottenuto (o strappato) da Atene possa tornare in qualche modo utile alla sua strategia. Anche perché non è semplice predisporre le condizioni per un’ordinata “ritirata strategica”: il grande consenso politico di cui gode oggi Syriza potrebbe convertirsi nel volgere di pochissimo tempo in un’ondata di frustrazione sociale dagli esiti non prevedibili. Anche per questo i tedeschi hanno voluto lasciare al governo di Atene una seppur stretta via di fuga politico-retorica, approfittando della “buona parola” che Hollande e Renzi hanno voluto spendere a favore dell’amico greco.

A proposito: chissà come la “sinistra” del PD, oggi sul piede di guerra contro la “rivoluzione renziana” in materia di mercato del lavoro, ha incassato il «Grazie Matteo» di Tsipras. «La lotta di Syriza continua e dobbiamo impegnarci tutti e tutte noi, in tutti i Paesi e coordinandoci. Da noi in Italia vuole anche dire continuare e rafforzare la lotta contro il Jobs Act del governo Renzi che rappresenta la volontà della Troika: rottama i diritti, rende tutti precari. Dobbiamo impegnarci tutti e tutte per rottamare le politiche di austerità e chi le sostiene anche in Italia. Anche così aiuteremo la Grecia» (Altra Europa con Tsipras). Nel frattempo, il compagno Tsipras dà un aiutino a Renzi…

Pochi in Europa sono in grado di interpretare i ruoli del poliziotto buono e del poliziotto cattivo meglio di quanto mostrano di saper fare Angela Merkel e Wolfgang Schaeuble. Scrive ad esempio il già citato quotidiano torinese a proposito del poliziotto cattivo: «In attesa degli sviluppi, vanno raccontati i massi che il tedesco Wolfgang Schaeuble si è allegramente tolto dalle scarpe: “Sarà difficile per Tsipras spiegare l’intesa agli elettori”, ha detto a Eurogruppo chiuso».  Non male come battuta politicamente scorretta: bravo, perfido Schaeuble!

Dalla tragedia del debito alla farsa della demagogia? Anche qui, sarebbe sbagliato sottovalutare il populismo di Syriza, che pare avere qualche altra freccia demagogica da scagliare contro i “poteri forti” prima di dichiarare il sempre più probabile «Contrordine, compagni!». Perché i famosi problemi strutturali del sistema capitalistico greco sono ancora tutti aperti, e non smettono di aggrovigliarsi mese dopo mese, come attesta fra l’altro la quotidiana fuga dei capitali che sta indebolendo oltremodo la già traballante struttura finanziaria del Paese. «Negli ultimi giorni sono stati prelevati dalle banche greche 500 milioni di euro al giorno, secondo stime di analisti di una banca d’affari locale. […] Naturalmente il Governo Tsipras, che è stato eletto per ridurre le politiche di austerità, ha negato qualsiasi volontà di aumentare le tasse o di pianificare controlli di capitali nelle banche. Ma i risparmiatori hanno un cuore di coniglio, gambe di lepre e memoria di elefante» (Il Sole 24 Ore). Che creature mostruose, questi risparmiatori!

Diamo adesso la parola ai “poteri forti”: «È stato un processo faticoso ma costruttivo» ha fatto sapere Christine Lagarde, Presidente del FMI; «Ora dobbiamo vigilare sul rispetto del programma». A naso, mi sembra altamente improbabile che il FMI desideri vigilare su un accordo a esso sfavorevole. «Ci sono forti impegni della Grecia ad evitare una marcia indietro su qualsiasi misura», ha invece dichiarato il Presidente dell’Eurogruppo Jeroem Djissembloem, che ha aggiunto: «Atene si è impegnata ad onorare gli obblighi finanziari verso i creditori e gli avanzi primari». Scommetto che Tsipras non la “narrerà” in questi termini al Parlamento greco. E infatti i militanti di Syriza parlano nelle piazze greche di un grande successo ottenuto dal «popolo greco», anche se non risolutivo: la guerra continua. E già questa cautela la dice lunga su come stiano in realtà le cose.

Per Tonia Mastrobuoni (La Stampa), rivoluzione semantica o meno, la Germania ha portato a casa l’essenziale: «Insomma, se le parole in questo negoziato sono pietre, concessa la cancellazione della Troika, i tedeschi hanno chiesto di inchiodare i greci al «completamento del programma attuale», scolpito nel comunicato finale. Una vittoria non da poco». Per David Carretta (Il Foglio), «La Grecia resta appesa all’euro, ma su di sé non decide più da sola». Esattamente come prima del successo elettorale di Syriza, ancora in bilico tra sovranismo ed europeismo. Per Giuliano Ferrara lo scontro tra Berlino e Atene mostra che «La vecchia sovranità democratica non esiste più». E qui veniamo alla controversa e scottante questione circa la natura del “processo democratico” nei Paesi dell’Unione al tempo della moneta unica europea. Controversa e scottante, beninteso, per chi non avendo compreso la natura strutturalmente totalitaria della vigente società, e non comprendendo altresì che, alla fine, ciò che decide nella contesa fra Stati e classi sociali sono i rapporti di forza, coltiva risibili illusioni intorno alla sovranità del “politico”, in generale, e del “popolo” in particolare. Il tanto lamentato «doppiopesismo democratico» che, di fatto, privilegia gli interessi di un elettorato (ad esempio, quello dei Paesi creditori) ai danni di un altro elettorato (ad esempio, quello dei Paesi debitori) desta scandalo solo in chi rimane alla superficie della guerra sistemica che sta ridisegnando la mappa economica, sociale e geopolitica del Vecchio Continente. Chi dice di volere una «vera Europa unita e federale», e contesta al contempo il ruolo egemonico che necessariamente la Germania gioca nel processo di unificazione europea, non sa letteralmente in che mondo vive, e sogna.

imagesSe oggi Romano Prodi parla di «capitolazione di Tsipras» (Il Messaggero), altri analisti meno pessimisti non vanno oltre affermazioni come «compromesso ambiguo che lascia il quadro immutato», «rinvio della resa dei conti finale», «vittoria di Pirro per Tsipras» e via di seguito. Il Premier greco ovviamente continua a ostentare sicurezza e ottimismo, nonostante il Cristo del Peloponneso non smetta di lacrimare dal giorno delle epiche elezioni greche del 25 gennaio: un miracolo Syriza l’ha dunque fatto, o comunque provocato. Più difficile sarà far smettere di piangere i ceti sociali devastati dalla crisi economica.

«Ci prenderemo cura degli ultimi», ha detto ieri la Teutonica Angela, reduce dal doppio fronte greco-ucraino, a Papa Francesco, il quale ha regalato alla Cancelliera di Ferro la medaglia del pontificato raffigurante San Martino che dona il suo mantello al povero: «Mi piace regalare questa immagine ai capi di Stato», ha spiegato Bergoglio, «perché penso che il loro lavoro sia proteggere i loro poveri». Al che Angelona ha risposto da par suo: «Noi cerchiamo di fare il nostro meglio». E già mi si apre il cuore! In fondo, basta accontentarsi di quel poco che passa il capitalistico convento, come la Rivoluzione Semantica di Syriza, ad esempio.

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Il leader di Piattaforma della sinistra, l’ala radicale di Syriza, ha accolto il “trionfo” di Tsipras con queste parole: «Ci sono linee rosse che non possono essere valicate. Se no, non sarebbero rosse». Il discorso non fa una grinza. Almeno sul piano semantico. Sul piano politico la cosa appare invece un tantino più complessa. A proposito di più o meno invalicabili linee rosse, scrivevo l’altro giorno su Facebook:

Populismo kantiano e Red Line. Dichiara Yanis Varoufakis, il Ministro delle Finanze più cool del pianeta, al New York Times: «Come facciamo a sapere che la nostra modesta agenda di politica economica, che costituisce la nostra linea rossa, è giusta in termini kantiani? Lo sappiamo guardando negli occhi le persone affamate che riempiono le strade delle nostre città o la classe media sotto pressione, o considerando gli interessi di ogni lavoratore nell’unione monetaria». Quasi mi commuovo. Quasi. Ci manca un soffio. Non c’è dubbio: la lotta di classe è, ovunque in Europa, un imperativo categorico. Avrò anch’io il diritto di esprimermi in termini kantiani (anche se lascio a desiderare quanto a cool)! A proposito, ho detto lotta di classe, non Fronte Unito Meridionale Antitedesco. Ci tengo a precisare la mia modesta Red Line.

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