Probabilmente molti italiani hanno scoperto l’esistenza della pirateria marittima alla vigilia dello scorso Natale, complice il sequestro di tre marittimi italiani nel golfo della Guinea. Come ricorderete, L’Asso 21, un rimorchiatore d’altura della compagnia napoletana Augusta Offshore, è stato abbordata la notte tra il 23 e il 24 dicembre dai pirati nigeriani al largo di Bayelsa, a circa 40 miglia dalle coste dello Stato nigeriano, e la notizia mi ha particolarmente colpito perché a bordo della serie Asso della compagnia partenopea ho lavorato anch’io alla fine degli anni ’90: in Brasile, a bordo dell’Asso 6, in “miracolosa” (talmente il rimorchiatore era scassato e obsoleto) assistenza alle piattaforme petrolifere della Petrobrás, al largo di Rio de Janeiro, e dell’Asso 19, al servizio dell’ex dittatore libico Gheddafi. Considero quindi i quattro marinai sequestrati (tre italiani e un ucraino) un po’ come dei miei colleghi di lavoro.
Personalmente ho scoperto la pirateria nel 2000, un po’ tardi in rapporto al mio ex mestiere, nel corso di un viaggio di lavoro che da Singapore mi ha portato in Italia a bordo della LT Greet, una grande nave portacontainer a servizio della multinazionale Evergreen. Appena salito a bordo rimasi scioccato da un manifesto scritto in inglese affisso nella mensa ufficiali: Attenzione ai pirati! Molto pericoloso! Per essere più convincente il manifesto esibiva la foto di un’agguerritissima squadra di pirati filippini in azione a bordo di una velocissima lancia (o barchino), armati di mitragliette kalashnikov e machete. Non mancava nemmeno il classico fazzoletto “da pirati” stretto alla fronte dei «banditi del mare». Dinanzi a questo palese anacronismo sorrisi, giusto un secondo, però, prima di ricevere la giusta “lavata di capa” da parte del Comandante: «C’è poco da ridere, e te ne accorgerai». Nello stretto di Malacca ebbi modo di rivedere quell’affrettato giudizio: nel terzo millennio ci sono ancora i pirati, eccome! Solo con grande fatica i marinai della nave, così appetibile con tutti quei containers rizzati sulla coperta, riuscirono a tenere a bada una piccola squadra di famelici pirati, a colpi di cannonate d’acqua sparate sulla loro lancia. Quel giorno forse incontrammo i pirati più sfigati e imbranati allora in circolazione nel Sudest Asiatico, e non oso immaginare la punizione a loro inflitta dai capi a cagione dello scacco subìto: anche l’industria della pirateria ha le sue regole e licenzia gli incompetenti. Si tratta di capire come… Fortunatamente i jin (diavoli) somali non ci diedero alcun fastidio, forse perché impegnati in scorribande più lucrose, e potemmo quindi felicemente imboccare lo stretto di Suez con la certezza di poter raccontare agli amici un’esperienza davvero originale.
Oggi il naviglio commerciale che solca le acque infestate dai pirati è provvisto di mezzi di difesa meno antiquati, e nel frattempo la legislazione internazionale sulla sicurezza in mare del capitale (organico e inorganico, uomini e cose, insomma merci) ha compiuto notevoli passi in avanti, anche se non mancano “incidenti di percorso”, come dimostra la vicenda dei due marò italiani rimasti impigliati nella rete politico-giudiziaria indiana. Inutile dire che le esigenze di sicurezza e di controllo di vaste aree marittime ha innescato un nuovo attivismo politico-militare nelle maggiori potenze capitalistiche del globo (Cina, Stati Uniti e Giappone in testa), facendo entrare la lotta per la sicurezza dei traffici mercantili nella più generale e globale competizione interimperialistica. Le potenze collaborano nella guerra alla pirateria, ma guardandosi in cagnesco, per così dire.
«Il mare è anarchico per definizione. Malgrado i tentativi di regolamentazione in punto di diritto internazionale, nelle acque vige la legge del più forte, o del più scaltro. Non c’è bisogno di essere una grande potenza per fare i comodi propri in un determinato specchio di mare. Anzi, i paesi leader della geopolitica globale, con le loro flotte supermoderne, vengono facilmente umiliati da bande di criminali locali» (Lucio Caracciolo, Quei moderni Sandokan, La Repubblica, 12 aprile 2009). Che scandalo, per gli apologeti del Diritto Internazionale e del monopolio della violenza in capo agli Stati sovrani. Ma la legge del profitto è refrattaria a ogni disciplina, e cerca di farsi valere ovunque e con tutti i mezzi necessari: è la violenta “geopolitica” del Capitale. Anarchico – e violento – «per definizione» è il Capitalismo, non il mare. La pirateria, analogamente alla mafia e a ogni altra intrapresa “criminale”, è la continuazione del Capitalismo con altri mezzi – altri sempre fino a un certo punto, come la storia lontana e vicina insegna.
Prova ne è il fatto che, come ricorda Nicolò Carnimeo, che su Limes tiene l’informatissima Rubrica nei mari dei pirati, «solo il 30% dei proventi della pirateria rimane in Somalia, mentre il restante 70% segue i conti esteri nei vari paradisi fiscali in Europa e Medio Oriente». Per generare profitti il denaro deve trasformarsi in capitale, e notoriamente esso non puzza, anzi!
Sotto questo aspetto, il caso nigeriano è esemplare. Lo sfruttamento degli enormi giacimenti petroliferi del Paese africano ha fatto la fortuna delle multinazionali del petrolio, della “cricca” al potere e di pochissimi oligarchi locali, mentre il reddito della popolazione ha subito una netta contrazione. Senza parlare delle terribili conseguenze per ciò che riguarda l’impatto ambientale. In queste condizioni si è rapidamente sviluppata in Nigeria un’industria illegale del petrolio, che prevede il furto della materia prima (soprattutto attraverso la pratica della “spillatura” lungo le condotte), la sua raffinazione e la sua commercializzazione. Tutti vogliono drenare almeno un po’ della torta chiamata rendita petrolifera, compresi gli strati sociali più bassi, cosa che ha generato violente guerre tribali “a sfondo religioso” e il proliferare di attività criminali d’ogni genere. I lavoratori dell’Asso 21sono vittime di questa violenta spartizione del bottino. La pirateria del XXI secolo ha il solito nome: Capitalismo.