Fra tutte le forme di superbia quella più a buon mercato è l’orgoglio nazionale … Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri).
All’avviso di Jean-Luc Mélenchon, già candidato alle presidenziali francesi per il Front de Gauche, e Ignacio Ramonet, presidente onorario di Attac, «Chávez dimostra che si può costruire il socialismo nella libertà e nella democrazia». Di qui l’odio che la sua «rivoluzione bolivariana» suscita nei campioni del Capitalismo e dell’Imperialismo, a partire ovviamente dagli Stati Uniti. In che senso Chávez costruisce il «socialismo», beninteso «nella libertà e nella democrazia» (la coda di paglia del «socialismo reale» è dura a morire)? Ecco la risposta degli apologeti: «Ha riconquistato la sovranità nazionale. E, con essa, ha proceduto alla redistribuzione della ricchezza a favore dei servizi pubblici e dei dimenticati. Politiche sociali, investimenti pubblici, nazionalizzazioni, riforma agraria, quasi piena occupazione, salario minimo, imperativi ecologici, accesso alla casa, diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione» (Perché Chávez?, Il Manifesto, 5 ottobre 2012).
Possono il Sovranismo, il nazionalismo, lo statalismo, un minimo sindacale di riformismo e un welfare basato sulla rendita petrolifera (vedi anche l’Iran di Ahmadinejad) giustificare cotanto entusiasmo “socialista”? Ovviamente no. Ma se poniamo mente al fatto che per il gauchismo di tutte le latitudini il Sovranismo, lo statalismo e il riformismo populista («andare al popolo!», di più: «servire il popolo!») sono sicuri indici di «socialismo», ancorché «reale», si comprende bene come non bisogna affatto stupirsi per l’ennesima infatuazione “socialista” del sinistrismo mondiale. Dalla Russia alla Cina (alcuni passando anche per la Jugoslavia e per l’Albania), da Cuba al Nicaragua, figli e nipotini dello stalinismo (soprattutto nelle sue varianti maoiste e terzomondiste, più “movimentiste”) non hanno fatto altro che cercare nel vasto mondo i segni di un «socialismo» e di un «antimperialismo» esistiti solo nella loro testa. Per questi personaggi il Paese che si schiera contro gli Stati Uniti e il «liberismo selvaggio» ha già compiuto ipso facto un passo avanti nella direzione del «socialismo» e della lotta «antimperialista». Il Paese che statalizza l’economia, riacquistando la sovranità nazionale “a 360 gradi”, si pone «contro le devastazioni del neoliberismo» e marcia speditamente verso il Sol dell’Avvenire.
Mi si consenta di raccontare brevemente questo modesto aneddoto. Nell’estate del 1980, nel pieno delle Olimpiadi di Mosca e dei successi di Solidarność in Polonia e dell’Armata Russa in Afghanistan, un militante di un gruppetto sinistrorso messo alle strette dalle mie «settarie» considerazioni intorno al «socialismo reale», si scagliò contro il mio irritante antistalinismo nei seguenti termini: «Ma non lo vedi quante medaglie d’oro stanno portando a casa i Paesi Socialisti? Come fai a dire che essi non sono socialisti? La superiorità del Campo Socialista su quello Capitalista è schiacciante!» Degli stalinisti tutto – il male – si può dire, tranne che non fossero (e non siano, mutatis mutandis) armati di fantasia.
«Chávez ha fatto sì che la volontà politica prevalesse. Ha addomesticato i mercati, ha fermato l’offensiva neoliberista e poi, attraverso il coinvolgimento popolare, ha fatto sì che lo Stato si riappropriasse dei settori strategici dell’economia. Ha riconquistato la sovranità nazionale». Ancora nel 2012 esistono su questo disgraziato pianeta persone che pensano che la «sovranità nazionale» sia un valore “socialista”! Peraltro il Venezuela ha sempre esibito un alto tasso di sovranismo, come dimostrò ad esempio durante la guerra delle Falkland del 1982, allorché fu il solo Paese Americano-Latino che sostenne davvero le ragioni dell’Argentina contro l’Inghilterra.
Scriveva Maurizio Stefanini nel 2003, anno critico per il caudillo di Caracas: «In concreto, la politica economica espressa nel Plan Bolívar 2000 non va oltre un misto tra New Deal e peronismo … Ma quando all’inizio del 2002 il calo dei prezzi del greggio lo ha costretto, anche Chávez si è piegato a una politica di rigore economico relativamente ortodossa» (La geopolitica di Chávez tra Bolívar e petrolio, Limes, 1-2003). La “pace sociale” e le fortune di tutti i regimi che si sostengono sulla rendita petrolifera sono legate al prezzo del greggio, che non deve scendere sotto gli 80 dollari al barile. In generale, questo discorso vale per tutti i Paesi la cui economia si basa sulla vendita delle materie prime: vedi, ad esempio, la Russia di Putin. Giustamente il leader venezuelano sostenne nel 2000, nel momento in cui Chávez avviò la sua nuova geopolitica del petrolio, che portò il Venezuela a schierarsi al fianco dei «falchi» dell’Opec (Libia, Iran e Iraq) contro le «colombe» (Arabia saudita, Kuwait, Qatar ed Emirati Arabi Uniti), «Che qualsiasi diminuzione del livello di prezzi attuale sarebbe per il Venezuela una sentenza di morte». In quel periodo il prezzo del greggio oscillava intorno alla drammatica soglia di 22 dollari al barile. In tutti questi anni l’attivo Chávez ha cercato di ricompattare l’Opec intorno a posizioni “radicali”, per farne uno strumento della sua ambiziosa politica estera, oltre che per fini di consenso politico interno, in ciò fedele alla tradizione populista e demagogica del Paese e del Sub Continente Americano.
«È stata la rendita del petrolio», cito ancora dall’interessante articolo di Stefanini, «a finanziare il consenso di dittature e democrazie. È stata la sua crisi a mettere in crisi il bipartitismo tra i socialdemocratici e i democristiani che si era instaurata alla caduta del dittatore Marcos Pérez Jiménez nel 1958 … Dal punto di vista economico, la ridistribuzione della rendita da materie prime non è in America Latina una caratteristica della sola sinistra, ma un modello abbastanza seguito da soggetti di vario orientamento. I sui inventori, a cavallo tra XIX e XX secolo, furono i leader di orientamento liberal-radicale, il cileno Juan Manuel Balmaceda e l’uruguayano Jorge Battle y Ordoñez. E colui che è diventato nel mondo quasi il simbolo stesso di questa politica è stato l’argentino Juan Domingo Perón, il cui ispiratore iniziale era stato mussolini». E a chi si è ispirato EL Patriota di Caracas? A Castro, che domande! Per Stefanini «Castro è un classico caudillo latinoamericano travestito da comunista per convenienza di momento storico. Oggi però non c’è più [se Dio vuole!] un’Unione Sovietica in grado di foraggiare chi abbracci la sua ideologia, e anche quel modello istituzionale sovietico che Castro continua seguire pedissequamente non è più di moda … Così, al posto del marxismo-leninismo Chávez ha riscoperto il pensiero del “padre della patria” Simon Bolívar». (Sul líder máximo dell’Avana vedi Riflessioni sulla “Rivoluzione Cubana”).
Naturalmente la punta della mia critica non è tanto puntata contro il caudillo venezuelano, che con una certa abilità cerca di implementare la politica ultrareazionaria che fa capo alle fazioni capitalistiche oggi vincenti in Venezuela; essa è soprattutto rivolta contro gli apologeti e i teorici della «rivoluzione bolivariana», ultima mentecatta illusione dei sinistri internazionali, i quali si nascondono dietro la popolarità del leader di Caracas. Come se la popolarità di un dirigente politico, democratico o fascista (ovvero stalinista o islamista: non fa alcuna differenza) che sia, fosse un criterio di giudizio adeguato a un pensiero che ama definirsi “socialista” e “antimperialista”.