LA TRAGEDIA EUROPEA SECONDO BARBARA SPINELLI

FALCO-greece-tragedyBarbara Spinelli ha la ricetta giusta per uscire dal baratro sistemico (economico, politico, culturale, morale, in una sola parola: sociale) dal quale il Vecchio Continente sembra non poter e, a volte (in virtù di un’insana miscela di sadomasochismo e ottusità politica), non voler uscire: «riscoprire l’Europa degli esordi». Un concetto che la brava europeista ripete ossessivamente ormai da cinque anni, con scarsi risultati, perché ancora una volta il destino vuole essere cinico e baro. Appresso a lei anch’io ripeto, con identico risultato, i miei mantra anticapitalistici.

«Non dimentichiamolo: si volle metter fine alle guerre tra potenze diminuite dopo due conflitti, ma anche alla povertà che aveva spinto i popoli nelle braccia delle dittature. Non a caso fu un europeista, William Beveridge, a concepire il Welfare in mezzo all’ultima guerra» (La macchia umana sull’Europa, La Repubblica, 25 giugno 2013). Una lettura della storia recente davvero imbarazzante, per la sua assoluta inconsistenza. «Si volle» chi? Qui si dimentica, diciamo così, che l’opzione “pacifista” fu imposta alle «potenze diminuite» (Germania, Francia, Inghilterra e Italia) dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, ossia dalle due potenze imperialistiche uscite vincitrici dalla Seconda carneficina mondiale. Francia e Inghilterra ne uscirono appunto «diminuite», solo virtualmente nel campo dei vincenti. Sotto questo aspetto, i fatti di Suez del ’56, che ratificarono l’abbassamento di rating imperialistico dell’Inghilterra e della Francia, appaiono ancora oggi emblematici.

Il “pacifismo” che si trova nelle Costituzioni di Germania, Italia e Giappone è di pura marca statunitense, come il “socialismo” che l’Armata Russa – tutt’altro che Rossa – impose ai cosiddetti «Paesi dell’Est». La “pacificazione” del Vecchio Continente nel secondo dopoguerra ebbe questo preciso significato imperialistico, e le posteriori legittimazioni ideologiche a sfondo europeista e “pacifista”, con tanto di citazione kantiana («La pace perpetua»), non riescono nemmeno un po’ a nasconderlo. Almeno allo sguardo che si sforza di resistere al pensiero dominante – che è quello delle classi e dei Paesi dominanti. Lo stesso progetto europeista, nella misura in cui si mostrava in grado di contenere e controllare da vicino la potenza sistemica della Germania, ha trovato sempre l’appoggio di Washington.

TJEERD_grexitNel suo articolo Barbara Spinelli riporta il pessimo giudizio di James Galbraith, figlio di John Kenneth (famoso soprattutto per un suo saggio di successo sul crollo del ’29 negli Stati Uniti), sulle istituzioni e sulla leadership politica dell’Unione Europea: «Cinque anni di crisi son più della Seconda guerra mondiale condotta dall’America in Europa, più della recessione combattuta da Roosevelt. E la via d’uscita ancora non c’è. Perché non c’è? Galbraith denuncia un nostro male: la mentalità del giocatore d’azzardo. Il giocatore anche se perde s’ostina sullo stesso numero, patologicamente». Questa patologia avrebbe, tra l’altro, gettato la Grecia nell’abisso dell’umiliazione nazionale e della spoliazione economica. Come ho scritto altre volte, agli intellettuali – soprattutto se progressisti – manca completamente, nella lettura dell’attuale crisi del “sogno europeo”, il concetto di guerra tra capitali e tra sistemi capitalistici.

Il nesso evocato involontariamente (?) da James Galbraith tra la «recessione combattuta da Roosevelt» e la «Seconda guerra mondiale condotta dall’America in Europa» ci dice molto anche a proposito del nostro tempo. Il giocatore che ama l’azzardo si chiama Capitalismo (senza altre inutili aggettivazioni), la grande e maligna patologia su cui il pensiero critico-radicale non smette di puntare il riflettore e il bisturi.

GUERRA DI RELIGIONE IN EUROPA

martin-luther-490Alla vigilia del vertice europeo che si apre domani a Bruxelles, Tonia Mastrobuoni mostra il dente avvelenato nei confronti della Germania, accusata dalla giornalista “economica” che scrive per La Stampa di giocare una partita commerciale sostanzialmente solitaria con la Russia (soprattutto per ciò che riguarda il suo approvvigionamento di materie prime energetiche) e con la Cina, le cui relazioni commerciali con i teutonici sono diventate davvero «speciali». «La Germania gioca sporco», ha dichiarato la Mastrobuoni nel corso di un’intervista a Radio Radicale, tanto più adesso che la Francia sembra convertirsi a una politica di integrazione europea finalmente alleggerita dai vecchi pesi nazionalistici marcati Grandeur, una “grande firma” del secolo scorso precipitata nell’abisso dell’obsolescenza sistemica.

La politica energetica e commerciale della Germania è per molti aspetti «scandalosa», e rappresenta «un tradimento» nei confronti del progetto di unificazione «a 360 gradi» dei Paesi integrati nella moneta unica. È, questo appena riassunto, il tipico ragionamento dell’analista politico-economico che ancora tarda a comprendere la reale natura e la reale portata delle divergenze che impediscono al «sogno europeo» di fare quel salto di qualità senza il quale esso rischia di trasformarsi in un bruttissimo incubo.

Dopo aver accolto con entusiasmo «la svolta di Hollande» sancita nella conferenza stampa del 16 maggio («Finalmente una proposta francese per l’Europa!»), Le Monde ha osservato che la presunta svolta del Presidente francese «sarà credibile soltanto se Hollande rimetterà in sesto la Francia». Naturalmente rimettere in sesto la Francia non può avere altro significato se non quello di attuare le temute «riforme strutturali» idonee a innalzare la produttività sistemica del Capitalismo d’Oltralpe, ormai da diversi lustri azzoppato da non poche magagne sistemiche: rigidità nel mercato del lavoro, spesa pubblica improduttiva, welfare sempre meno sostenibile, e così via. Naturalmente i problemi appena elencati devono sempre venir considerati in rapporto a quanto accade nella struttura sociale dei Paesi competitori nel corso del tempo, così che, ad esempio, un mercato del lavoro nazionale che preso in sé appare molto flessibile, mostra invece tutta la sua scarsa competitività non appena lo si confronta con il mercato del lavoro degli immediati concorrenti. In ogni caso, a decidere in ultima analisi della bontà di un sistema economico è sempre la redditività dell’investimento, ossia la bronzea legge del profitto. Ora, non appena si mettono a confronto le strutture sociali di Francia e Germania, facilmente viene fuori il gap sistemico tra i due Paesi, il quale ha raggiunto la massa critica sufficiente a produrre conseguenze politiche di vasta portata, in parte già visibili e registrate dagli analisti nella rubrica crisi del progetto europeo.

Die Welt (17 maggio) ha gettato molta acqua sul fuoco degli entusiasmi “europeisti” dei francesi, notando che «la cosiddetta offensiva [di Hollande] contiene essenzialmente misure che il suo predecessore aveva già presentato», compresa la proposta (peraltro di invenzione tremontiana) delle obbligazioni europee (eurobond), a cui lo scialbo Presidente francese ha solo cambiato nome, forse nella speranza, abbastanza infondata, di bypassare l’opposizione dei tedeschi, i quali, com’è noto, non amano essere presi per il naso: la ritorsione tedesca è sempre in agguato… Die Welt ha malignamente fatto osservare che il Presidente socialista attacca «l’austerity tedesca non soltanto per motivi ideologici ma anche come mossa tattica», ossia per far ingoiare ai francesi il rospo dei sacrifici connessi alla necessaria «riforma strutturale», per molti aspetti simile a quella implementata dal socialdemocratico Schröder (Agenda 2010) dieci anni fa.

figaro-29042013Ma buttando avanti la palla dell’integrazione politica europea Hollande probabilmente intende anche prepararsi il terreno per scelte sovraniste da addebitare alla «tetragona ed egoista» Germania, la quale, dal canto suo, non concepisce altra integrazione europea che non abbia il volto di un’Europa germanizzata. Gli interessi nazionali di tutti i protagonisti della guerra sistemica europea ancora una volta hanno la meglio su qualsivoglia chimera europeista. Non potrebbe essere diversamente.

Come ho scritto altrove, la Germania sarebbe anche disposta a travasare una parte della propria ricchezza verso Sud, a favore del Mezzogiorno europeo, non fosse altro che per non deprimere un mercato che sorride al Made in Germany; ma mostra di volerlo fare a precise condizioni, ossia che il processo di germanizzazione dell’Europa subisca un’accelerazione. La struttura dell’euro avvantaggia la Germania perché senza questa premessa la classe dominante tedesca non avrebbe mai accettato di entrare nell’eurozona, e molto probabilmente non ci sarebbe stata alcuna moneta unica europea. I nodi di una divisa non radicata in una precisa sovranità nazionale necessariamente dovevano venire al pettine, investendo brutalmente la dimensione del politico. Il “proditorio” attacco monetario giapponese al capitalismo mondiale deciso dal primo ministro Shinzo Abe ha reso ancora più evidente la contraddizione “strutturale” che rende fragile l’area dell’euro.

«Non c’è nessun motore franco-tedesco», ha sentenziato qualche giorno fa Lucio Caracciolo; a ben considerare il «motore franco-tedesco» non è mai esistito, è stato un mito teso a celare la dimensione antagonista degli interessi nazionali che fanno capo a Francia e Germania.

Dalla mia prospettiva l’Unione Europea appare non più che un coacervo di interessi, economici e politici, che fanno capo ai vari Paesi che ne fanno parte, soprattutto a quelli più forti, ossia a Germania, Francia e Inghilterra. L’«europeismo» di questi Paesi regge nella misura in cui l’Unione apporta loro dei benefici, anche alla luce della sempre più difficile competizione capitalistica mondiale (fare “massa critica” nei confronti degli Stati Uniti, del Giappone, della Cina, ecc.). L’Europa delle nazioni, contrapposta alla «Patria Europea», non è solo il sogno dei neogollisti, ma è soprattutto la descrizione della realtà. La storica tensione franco-tedesca non ha mai abbandonato la scena, e non ha smesso di agire nel corso degli ultimi decenni appena celata da un sottilissimo strato di ideologia “europeista”, che si è lacerato al contatto con la prima seria crisi economico-sociale.

-È quello che non ha capito – non può capirlo, non a causa di un deficit di intelligenza, bensì in grazia di un deficit di “materialismo storico” – Barbara Spinelli, la quale legge l’attuale guerra sistemica che scuote l’Unione europea alla stregua di una «convulsa scempiaggine della sua politica», e che per questo invoca un ritorno agli ideali di Adenauer e di Kohl, ovvero uno «Scisma», affinché ritorni il primato della politica sull’economia nelle scelte che decideranno il destino del Vecchio Continente.  «Non resta quindi che lo Scisma: la costruzione di un’altra Europa, che parta dal basso più che dai governi … Il Papato economico va sovvertito opponendogli una fede politica. Solo così la religione dominante s’infrangerà, e Berlino dovrà scegliere: o l’Europa tedesca o la Germania europea, o l’egemonia o la parità fra Stati membri … Occorre l’auto-sovversione di Lutero, quando scrisse le sue 95 tesi e disse, secondo alcuni: “Qui sto diritto. Non posso fare altrimenti. Che Dio mi aiuti, amen”» (Qua ci vuole Martin Lutero, La Repubblica, 17 maggio 2013). Non nego che l’articolo della Spinelli ha fatto nascere in me l’esigenza di qualche gesto scaramantico. Probamente anch’io difetto di “materialismo storico”!

«In realtà l’economia stessa è diventata una specie di religione», sostiene il giovane e brillante economista Tomáš Sedláček nel suo saggio di successo Economia del bene e del male: «Ci dice cosa fare, cosa pensare, chi siamo, come trovare un senso alla nostra vita, come relazionarci agli altri e su quali principi la società si regge». Naturalmente a Sedláček questo non va bene: secondo lui l’economia dovrebbe essere più umana, e per raggiungere questo ambizioso obiettivo «c’è bisogno di una rivoluzione etica». Ma il significato di questa «rivoluzione» è svelato da questo passo: «Dobbiamo essere competitivi per reggere il passo della Cina e di altri mercati emergenti. Abbiamo scelto l’austerity nel momento meno opportuno» (Basta con il feticismo economico, Intervista di Tomáš Sedláček a Presseurop, 15 maggio 2013). Qualcuno mi può spiegare come si “coniuga” l’umano con la competitività capitalistica? Misteri del feticismo economico!

SARTORI E SPINELLI: DUE PIAGNISTEI AL PREZZO DI UNO

Ieri la stampa italiana ha prodotto due piagnistei di pregevole fattura sul cattivo mondo che ci ospita. Alludo a due articoli densi di concetti molto importanti, sebbene “declinati” in un modo che non posso condividere, neanche un poco. Le notizie che sempre ieri sono arrivate dal fronte economico (le pessime previsioni sulla crescita economica in Europa e in Italia elaborate dal FMI e dalla Confindustria) e da quello politico (le «provocatorie e improvvide» dichiarazioni del premier Cameron sulla sostenibilità “europeista” della Gran Bretagna) confermano il cupo quadro delineato dagli articoli in questione. Vediamoli.

429px-Toyota_Robot_at_Toyota_KaikanIl piagnisteo del pessimista tecnologico…

Giovanni Sartori, esponente della scuola sociologica che possiamo definire neo malthusiana 2.0, versa un fiume di lacrime pensando alla grave crisi economico-sociale che attanaglia l’Occidente, stordito dalla “cultura del Prozac”, e ancor più riflettendo sugli “effetti collaterali” della «rivoluzione digitale» che si annuncia. Di che si tratta?

«In questo contesto un prodotto viene disegnato su un computer e poi stampato su una stampante 3D che a sua volta produce un conforme oggetto solido fondendo assieme successivi strati di materiali. Non chiedetemi di più. Sono troppo vecchio per capirlo, e poi a me interessa che fine farà, in questo radioso futuro, l’occupazione o meglio la disoccupazione» (L’economia del Prozac, Il Corriere della Sera, 23 gennaio 2013). Una tecnologia laborsaving che viene a impattare, osserva Sartori, su un corpo sociale già molto debilitato dalla disoccupazione.

Come ho scritto altrove, nel Capitalismo anche quello che allude alla possibile – e sempre più possibile – emancipazione dell’umanità da ogni forma di miseria e di sfruttamento ha la maligna predisposizione a congiurare contro questa stessa splendida promessa. Ciò che lascia immaginare un futuro davvero «radioso», o, meglio, semplicemente umano, liberato da potenze sociali che, ancorché create dagli individui, dominano questi ultimi alla stregua di impotenti marionette assoggettate a un destino cieco e crudele, è recepito dal pensiero che manca di profondità critica alla stregua appunto di una tragica fatalità. Ma questa “dialettica sociale” può essere compresa da uno come Sartori?  Vediamo!

Scrive il Nostro: «Abbiamo incautamente sposato una dottrina sprovveduta della globalizzazione, che avrebbe inevitabilmente spostato grosse fette delle merci prodotte in Occidente in Paesi a basso, molto più basso, costo di lavoro». Qualcuno dica al simpatico Scienziato Sociale che l’Occidente, come il resto del pianeta, ha sposato non una teoria fallace ma la prassi capitalistica, la quale risponde a un solo totalitario imperativo categorico: fare profitti. La ricerca del profitto più grasso e immediato possibile spiega qualsiasi movimento dei capitali, compresi quelli che l’ipocrita diritto borghese chiama «illegali». La stessa tendenza parassitaria della «società dei servizi» che il Professore denuncia (per perorare la causa di un ritorno a un Capitalismo più “reale”, ancorato ai valori del lavoro  produttivo, «al ritorno alla terra, e anche alla piccola economia delle piccole cose»), si spiega per un verso con lo sviluppo della produttività del lavoro su base mondiale, che espande sempre di nuovo la torta del plusvalore sulla cui base è possibile qualsiasi gioco di prestigio finanziario (attraverso la moltiplicazione di ricchezza nominale cartacea ed elettronica); e per altro verso con la continua fuga in avanti del Capitale radicato nelle metropoli capitalistiche più mature, le quali scontano quella tendenza a cadere del saggio di profitto industriale che già gli economisti classici osservarono, senza peraltro comprenderne la causa. Ecco perché è semplicemente ridicolo stigmatizzare in nome dell’economia cosiddetta reale ciò che è il prodotto di questa stessa economia.

Decisamente Sartori non è attrezzato a capire l’essenziale di quel che gli capita sotto lo scientifico naso. Il massimo di “critica” cui può aspirare il suo pensiero è chiedere di farla finita con il mantra dell’ottimismo: «Se non vedi le cose negative del mondo che ti circonda vivi in un paradiso per idioti», scrive citando un non meglio specificato Scienziato indiano. E su questo punto mi trovo d’accordo…

no int mali… e quello della federalista dura e pura

L’interventismo militarista del compagno Hollande in terra africana sembra aver ispessito il pessimismo che cova nella nobile anima europeista di Barbara Spinelli, sempre più avvelenata dalle contorsioni dell’Unione Europea intorno ai debiti sovrani e ai tempi della ripresa economica nella zona euro. Prima l’austerità o la crescita?; oppure: austerità e crescita insieme? E ancora: Europa a egemonia tedesca o a guida franco-tedesca? Tempi duri per i federalisti europei duri e puri!

Piccola parentesi: Bersani dice di non volere gli F 35 in Italia, però appoggia i raid aerei francesi in Africa. «Forse Bersani vuole lasciare l’aeronautica militare italiana in gestione alla Francia», ha osservato ironicamente Arturo Parisi, ex Ministro della Difesa del governo Prodi.

Scrive la Spinelli: «È venuta l’ora di riesaminare quel che vien chiamato interventismo umanitario, democratico, antiterrorista. Un solo dato basterebbe. Negli ultimi sette anni, il numero delle democrazie elettorali in Africa è passato da 24 a 19. Uno scacco, per Europa e Occidente. Intanto la Cina sta a guardare, compiaciuta. La sua presenza cresce, nel continente nero. Il suo interventismo per ora costruisce strade, non fa guerre. È colonialismo e lotta per risorse altrui anch’esso, ma di natura differente. Resilienza e pazienza sono la sua forza. Forse Europa e Stati Uniti si agitano con tanta bellicosità per contendere a Pechino il dominio di Africa e Asia. È un’ipotesi, ma se l’Europa cominciasse a discutere parlerebbe anche di questo, e non sarebbe inutile» (L’Europa bendata alla guerra d’Africa, La Repubblica, 23 gennaio 2013).

No, signora Spinelli, non si tratta affatto di un’ipotesi ma di una cruda e inevitabile realtà: si chiama Imperialismo. Inevitabile, beninteso, posta la realtà capitalistica degli ultimi due secoli. «Per il vecchio capitalismo, sotto il dominio della libera concorrenza, era caratteristica l’esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventa caratteristica l’esportazione di capitale» (Lenin, L’Imperialismo). La Cina, che per molti versi si trova ancora dentro il vortice di una colossale «accumulazione capitalistica originaria», esporta capitali in ogni loro manifestazione empirica, per così dire: merci, denaro, capitali stricto sensu (investimenti diretti e indiretti all’estero), capacità lavorativa, tecnologie e quant’altro. E compra di tutto: materie prime in cima alla lista della spesa, com’è noto.

Il suo contegno “pacifista” (per adesso!) per un verso rende evidente la natura eminentemente economica del moderno imperialismo, e per altro verso attesta l’ascesa della potenza capitalistica cinese sulla scena mondiale mentre relativamente le altre potenze declinano. Ripeto: relativamente, ossia non in termini assoluti né in modo deterministicamente irreversibile, almeno per ciò che riguarda gli Stati Uniti. Francia e Inghilterra sono già delle stelle spente, sebbene ancora sufficientemente calde, come dimostra il loro attivismo in Africa, in quello che fu il loro «spazio vitale». Discorso ancora diverso deve farsi per Germania e Giappone, ma non è il caso di farlo adesso.

«Forse», osserva sconsolata la Spinelli dopo aver tratteggiato il caotico grumo di contraddizioni (e di materie prime!) che travaglia il Mali e tutta l’area che si estende dal Sahara al Sahel, «l’Islam estremista, col suo falso messianismo, ha una visione perversa ma più moderna della crisi dello Stato-nazione. Una visione assente negli Europei, nonostante l’Unione che hanno edificato». Qui fa capolino la vecchia illusione europeista, ridicolizzata a suo tempo da De Gaulle, teorico dell’«Europa delle patrie», di chi immagina possibile la creazione di uno spazio politico-istituzionale di tipo federale (gli Stati Uniti d’Europa) attraverso una pacifica e totale cessione di sovranità da parte di tutti i Paesi europei. E quando dico pacifica non intendo alludere solo alla guerra di tipo tradizionale, quella che ha sconvolto e insanguinato periodicamente l’Europa, ma anche alla guerra di tipo economico-sociale, che infatti è in pieno corso nel Vecchio Continente. Anche qui, la guerra degli eserciti in armi non è che la continuazione della guerra sociale incardinata sul solito mantra capitalistico: profitti, profitti, profitti! La guerra sistemica (economica, scientifica, tecnologica, politica, culturale, psicologica) è la guerra peculiare dei nostri disumani tempi. I raid aerei “umanitari” ne sono solo l’ultima manifestazione. Ma può capirlo questo chi ha in testa gli Stati Uniti – e capitalistici! – d’Europa come il massimo di “utopia” possibile nel XXI secolo?

ECONOMIA E POTENZA DEGLI STATI

Nel post dello scorso giovedì, criticando la colossale fandonia di Barbara Spinelli sulla Germania (la ricerca della primazia economica come prerogativa dei soli tedeschi), facevo notare come la dimensione economica si collochi sempre più, e in misura sempre più imperativa e totalitaria, al cuore della prassi sociale, fino a penetrare la sostanza più intima degli individui, ridotti al rango di lavoratori (più o meno “manuali”, più o meno “intellettuali”), funzionari a diverso titolo del capitale, consumatori, clienti, contribuenti e, vista la stagione, comandati alle «sudate e meritate» ferie. Se, per riprendere la famosa tesi del materialismo volgare, l’uomo è ciò che mangia, non c’è dubbio che nel XXI secolo egli a malapena si distingue da una merce o da un codice fiscale.

Il Capitale ha una natura imperialista in questo senso peculiare, che per sopravvivere esso deve necessariamente sussumere sotto il suo Diritto, che si compendia nella bronzea legge del profitto, l’intero spazio esistenziale degli individui: non solo la produzione, non solo il mercato, non solo i luoghi del consumo, ma anche i corpi e le anime degli individui. Inutile dire che è nel denaro, nel demoniaco «equivalente universale», che questa natura espansiva e totalitaria trova la sua massima espressione, fino al punto da generare  la feticistica impressione di una sua “ontologica” autonomia esistenziale: per un verso esso appare alla stregua di cosa naturale, e per altro verso come mero strumento tecnico al servizio della società. La sua esistenza reale in quanto espressione del lavoro sociale mondiale, e quindi di peculiari rapporti sociali, è un “filosofema” che la prassi quotidiana sembra negare nel modo più evidente. Di qui, appunto, la sua dimensione feticistica, oggetto più consono alla cura dello psicoanalista e del teologo, che allo studio del rigoroso “scienziato sociale”.

La cosiddetta guerra fredda (molto “calda” ai confini dell’Impero) tenne celato il sordo conflitto economico che ebbe come protagonisti indiscussi i partener dell’Alleanza centrata sugli Stati Uniti. Venuto meno uno dei due poli dell’antagonismo (il Patto di Varsavia), il cemento politico-ideologico che aveva tenuto insieme il fronte del «Capitalismo liberale» si è progressivamente indebolito, lasciando venire a galla il fondale. Sotto questo aspetto si può senz’altro dire che gli americani avevano lo stesso interesse dei russi al mantenimento dello status quo interimperialistico generato dalla seconda guerra mondiale, tanto più  che i primi avevano potuto lucrare cospicui vantaggi economici in virtù della loro funzione di leader politici riconosciuti. Basti pensare alla svalutazione del dollaro agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e agli accordi del Plaza del settembre 1985, entrambi aventi peraltro come maggiore obiettivo il Giappone. Ma fare i conti senza l’oste, ossia senza tenere nella giusta considerazione il fondamento di ogni potenza passata, presente e futura, è una prassi che alla fine mostra tutti i suoi limiti.

Alla fine degli anni Ottanta, ossia alla vigilia dell’ennesima accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica, il quadro della contesa sistemica mondiale presentava questa situazione: la potenza “sovietica” perdente su tutti i fronti (da quello economico a quello tecnologico-scientifico, da quello politico-ideologico a quello militare) e in paurosa crisi; la potenza americana vincente ma in declino, il Giappone vincente e in poderosa ascesa in tutti i quadranti del globo (dagli Stati Uniti all’Inghilterra, dal Sud-Est asiatico al Canada è un fiorire di imprese economiche attivate dal Capitale nipponico), la Germania trionfante, la Cina alle soglie di quel «grande balzo in avanti» che la proietterà al vertice del Capitalismo mondiale. Lungi dall’essersi dileguato, o indebolito, come avevano teorizzato gli apologeti della «buona e sostenibile globalizzazione», assai numerosi nel Vecchio Continente, il fondamento materiale dell’Imperialismo (il concetto più adeguato al termine globalizzazione) si è piuttosto rafforzato in una misura che, ad esempio, ha reso possibile eventi che un tempo postulavano dichiarazioni di guerra e movimento di eserciti: vedi, appunto, la miserabile dissoluzione del Patto di Varsavia e l’unificazione tedesca. La pressione dell’economia ha avuto ragione di ogni volontà politica, non secondo un processo deterministico, bensì sulla scorta di quella che potremmo chiamare dialettica della necessità: poste alcune importanti premesse le conseguenze insistono in un campo di possibilità piuttosto ristretto, e comunque ben definito sul piano storico-sociale. In questo senso, ad esempio, ho parlato della Germania come «Potenza fatale», ossia per rimarcare i fattori oggettivi della sua forza sistemica e, quindi, della sua necessaria funzione storica, soprattutto nel contesto europeo.

Scrive Christian Harbulot: «Le teorie economiche dominanti in Occidente non colgono il cambio di paradigma in corso: la conquista dei mercati come fattore di sviluppo e di potenza degli stati, l’economia come arma» (L’economia come arma, Limes 3-2012). Non vorrei passare per quello che la sa più lunga degli altri, ma non posso esimermi dal formulare l’antipatica domanda: ma dove sta «il cambio di paradigma»? Alcuni scoprono solo oggi ciò che l’ultrasecolare prassi capitalistica ha mostrato in ogni luogo del pianeta, e anziché rallegrarsi per la tardiva, quanto feconda, acquisizione sentono l’irresistibile bisogno di teorizzare «cambi di paradigma» che esistono solo nelle loro teste. Dopo aver giustamente criticato gli intellettuali europei, soprattutto quelli francesi, «riluttanti a riconoscere il peso riacquisto dai conflitti economici nelle relazioni internazionali», Harbulot scrive: «L’accrescimento di potenza attraverso l’espansione economica è il motore del dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile». Non c’è dubbio. Ma ciò non prova affatto un «cambio di paradigma», piuttosto conferma la natura eminentemente economica di un “vecchio” fenomeno sociale: l’Imperialismo, che alcuni teorici dell’Impero avevano trattato come un cane morto sulla scorta di una filosofia della storia fin troppo “postmoderna”. Tutti i dati forniti dal francese e tutti i fatti da lui accuratamente descritti, a cominciare dalla strategia del controllo preventivo dei mercati e delle materie prime, rientrano naturalmente nella rubrica dell’Imperialismo, e per rendersene conto basta compulsare anche solo rapidamente il classico libro di John Atkinson Hobson del 1902.

Con ciò voglio forse sostenere che il “nuovo” Imperialismo è identico a quello “vecchio”? Nemmeno per idea. Infatti, al confronto col primo il secondo impallidisce come un bambino che avesse visto l’Uomo Nero. Un secolo e passa di sviluppo capitalistico non è trascorso invano, e oggi l’Imperialismo ha quella natura esistenziale cui ho fatto cenno all’inizio. Ma il paradigma è sempre lo stesso: il Capitale come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento di ogni cosa esistente, a partire dagli individui. È la vitale ricerca del profitto che lo porta a inglobare nel proprio spazio tutti i momenti della totalità sociale: individui, materie prime, mercati, stati, nazioni, continenti: tutto.

Proprio per rispondere al «dinamismo della Cina, dell’India e del Brasile», ma io aggiungo, in una prospettiva storica che guarda anche al passato, degli Stati Uniti e del Giappone, i paesi del Vecchio Continente hanno cercato nel corso di parecchi decenni di costruire un’area economica integrata, ma la crisi economica per un verso ha fatto esplodere le vecchie contraddizioni immanenti al progetto europeista (progetto imperialista al cento per cento), e per altro verso ha posto l’aut-aut che terrorizza tutte le nazioni europee, a cominciare dalla sovranista Francia: o si passa al livello successivo, ossia politico, del gioco, oppure il gioco finisce, con quali conseguenze è ancora da capire. I processi economici devono necessariamente avere delle conseguenze sul piano squisitamente politico, e l’attuale crisi del progetto europeista si colloca al centro di questa dirompente dialettica, la quale ha nella Germania il suo centro di irradiamento fondamentale.

Infatti, il passaggio al livello successivo, ossia politico, nella costruzione dell’Unione Europea presuppone un travaso di potenza fra le nazioni coinvolte nel progetto che deve necessariamente spostare l’asse geopolitico del continente verso la potenza sistemica più forte, ossia verso la Germania. Ancora una volta viene avanti l’economia «come fattore di sviluppo e di potenza degli stati». Ma anche come il più potente fattore di ristrutturazione (o rivoluzionamento) della società. Infatti, il processo di violenta “riforma sociale” che sta attraversando i paesi meno forti dell’eurozona (pensiamo alla Grecia, al Portogallo, alla Spagna e all’Italia), certamente va nella direzione della “convergenza europea”, e quindi si muove lungo le linee di forza generate dalla Germania; ma nella misura in cui tende a rendere più produttivo e flessibile il lavoro e a ridurre la spesa pubblica improduttiva essa va nella direzione voluta da ogni Capitale nazionale. In questo senso Monti ha ragione quando dice che ciò che va bene per l’integrazione europea va bene anche per il Paese, ossia per l’accumulazione capitalistica nazionale. Inutile dire che in questa “dialettica oggettiva”, che abbraccia tanto la dimensione sovranazionale quanto quella nazionale, a farne le spese sono soprattutto le classi subalterne, costrette a “scegliere” tra la brace europeista e la padella sovranista.

La forma giuridica (mercato nazionale o mercato sovranazionale) deve alla fine adeguarsi alla realtà economica (l’internalizzazione del Capitale e l’interdipendenza economica dei paesi e dei continenti), e questo adeguamento deve necessariamente generare conseguenze politico-istituzionali di più vasta e generale portata. La forbice temporale che si è aperta fra l’economia, sempre più veloce, e la politica, relativamente assai più lenta, ha creato quella tensione storico-sociale che stiamo avvertendo come crisi sistemica epocale. Non la sola Germania, come sostiene Barbara Spinelli, ma tutti i paesi europei sono stati posti dal processo sociale mondiale dinanzi a un drammatico bivio, foriero di gravi contraddizioni e di inquietanti (per le classi dominanti, beninteso) conflitti sociali. Ciò che nei secoli passati giocò a favore dell’Europa, ossia l’aggressiva competizione sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, religiosa) fra tante e relativamente piccole aree geosociali contigue e, poi, fra tante rissose entità nazionali, nel XXI secolo si mostra come potente fattore di debolezza e di degenerazione. Nella Società-mondo della nostra epoca piccolo non è più – posto che lo sia mai stato – sinonimo di bello.

Nel 2000 Robert Gilpin scriveva che «Un nuovo ordine politico ed economico si sta stabilendo in Europa; quale sarà la sua natura, non è ancora dato sapere» (Le insidie del capitalismo mondiale, Università Bocconi Editore). Dodici anni dopo questo «nuovo ordine» sembra assumere contorni meno evanescenti. Azzardare previsioni intorno agli esiti di quella che non pochi analisti politici ed economici definiscono guerra civile europea non mi sembra un esercizio particolarmente sensato. Ciò che conta non è scommettere su questa o quella soluzione (e, almeno per chi scrive, prendere parte a questo o a quel partito: quello federalista e quello sovranista), ma capire la natura della dialettica in corso. Certamente possiamo dire che, comunque vada, la natura del «nuovo ordine» avrà il marchio del Capitalismo e dell’Imperialismo, e che, come scriveva sempre Gilpin, «la Germania rimane l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea». Già sento le imprecazioni dei sovranisti…

IL SENSO DELLA SOCIETÁ PER LA GUERRA

Nell’ultimo anno il concetto di guerra è stato “sdoganato”, da politici, economisti e intellettuali di diversa tendenza e competenza, con uno zelo che nelle ultime settimane ha rasentato la frenesia. In Italia ne hanno parlato, solo per citare gli ultimi e più “illustri”, l’onorevole Quagliariello, per giustificare l’appoggio del suo partito (PDL) «al governo di salvezza nazionale» di Monti, il nuovo presidente della Confindustria («i risultati della crisi economica sono paragonabili a quelli di una guerra») e, proprio ieri, il premier italiano in persona, al cospetto dei banchieri italiani. Monti ha citato la guerra non meno di dieci volte nell’arco di pochi minuti. Guerra in tutte le salse. Eccone una breve sintesi: «percorso di guerra», «guerra contro la crisi economica», «guerra contro i nostri vizi pubblici e privati», «guerra contro il debito pubblico», «guerra alla concertazione», «guerra contro i pregiudizi interni e internazionali» e, dulcis in fundo, «guerra contro interessi fortissimi». Quest’ultimo concetto Monti l’ha ripetuto più volte, per rimarcare il senso bellico delle sue parole, ossia per mettere nel cono di luce la portata della posta in gioco, la durezza e la dimensione dello scontro in atto nella società italiana (il quale attraversa il Paese in tutte le sue articolazioni: dal livello economico, pubblico e privato, a quello istituzionale, da quello geosociale o regionale a quello culturale), il suo carattere aperto e incerto ma anche il decisionismo con cui il Sovrano intende fare i conti con questa sfida sistemica.

Il solito intellettuale politicamente corretto (e quindi “de sinistra”) ha tenuto a farci sapere che è pericoloso civettare con quella parolina, e certamente ciò dovrebbe essere senz’altro precluso a chi ricopre alte cariche governative, a chi è investito della responsabilità politica più alta. Non è certo la prima volta che qualcuno si prende la briga di condannare il nome della cosa, e non la cosa stessa. E la cosa, oggi, si chiama appunto guerra.

Scriveva ieri Barbara Spinelli: «L’economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l’economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l’unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. L’operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell’Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse» (La Germania davanti al bivio, La Repubblica, 11 luglio 2012).

Lungi dall’essere «un tema minore», l’economia (capitalistica: diamo un preciso significato alle parole!) insiste al cuore del problema che chiamiamo guerra; guerra sistemica, ossia guerra totale: economica stricto sensu, certo, ma anche politica, istituzionale, culturale, psicologica, persino “antropologica” (la fabbricazione del “cittadino europeo” deve avvenire sul modello Nord-europeo o su quello Sud-europeo, ovvero su un ibrido, per non far torto a nessuno? Mussolini preferiva il modello tedesco e aborriva quello meridionale, «frignone, pastasciuttaio e vittimista». Monti e la Fornero anche).

Ma la Spinelli sbaglia in modo colossale quando attribuisce alla sola Germania quella spiccata valenza economica nella sua prassi sociale. L’intero pianeta ruota oggi intorno al principio totalitario dell’accumulazione capitalistica, il quale ovviamente trova la sua massima evidenza e pregnanza nei paesi capitalisticamente più forti e dinamici. In Europa è il caso della Germania, la cui potenza sistemica alla fine ha avuto ragione persino della divisione nazionale stabilita dagli imperialismi vittoriosi nell’ultima carneficina mondiale. Si dimentica, ad esempio, che lo spread, lungi dall’essere la maligna creatura dei cinici gnomi della speculazione finanziaria, si limita a misura il differenziale di produttività sistemica di un Paese rispetto al Paese-standard (in Europa la Germania).

La subordinazione dell’economia alla politica è un’illusione che prima o poi i fatti si incaricano di smentire, con conseguente piagnisteo da parte di chi aveva creduto nelle proprie chimere: «la Civiltà europea ancora una volta paga un salatissimo prezzo al dogma dei mercati e al nazionalismo delle piccole patrie!» Nel processo di unificazione del Vecchio Continente, sempre a rischio di disintegrazione, «la via tedesca» si impone “naturalmente”, a cagione dello sviluppo ineguale del Capitalismo nei diversi paesi, e una parte della stessa classe dirigente tedesca guarda con timore a questo processo, memore dei ben noti disastri. Non è che gli uomini non imparano mai dai loro errori; il fatto è che la storia va avanti, sotto il cielo del Capitalismo mondiale, alle loro spalle. Mi rendo conto che, questo, è un concetto difficile da accettare, ma la verità, per quanto cattiva, va guardata in faccia senza illusioni: essa va compresa, non esorcizzata o depotenziata.

Nel Capitalismo ciò che rende possibile la vita del tutto è, in ultima analisi (la quale in tempi di crisi diventa la prima), l’accumulazione capitalistica, ossia il continuo allargamento del meccanismo che sempre di nuovo crea ricchezza sociale (ossia merci, tecnologie, scienza, capitali, denaro). Senza tenere nella dovuta considerazione questo meccanismo sociale parlare ad esempio di welfare è semplicemente ridicolo. Di qui il razzismo antimeridionale, denunciato da Barbara Spinelli, che si sta diffondendo in Germania: la “formica” non vuole dare pasti gratuiti alla “cicala”, la quale piange e prega la Merkel: «Dacci oggi in nostro pane quotidiano». E di qui la guerra che le classi dominanti europee stanno portando ai lavoratori sotto forma di licenziamenti, ristrutturazioni, svalorizzazione salariale, spending review, e via di seguito.

Commentando il mio post La Germania e la sindrome di Cartagine, un lettore chiedeva: «Che cosa intende quando dice che ci si può attendere tutto il peggio? Intende guerre in seno ai paesi occidentali?» Ecco una parte della mia risposta:

Con il concetto di peggio che non smette di peggiorare alludo in primo luogo alla condizione (dis)umana degli individui nella società-mondo del XXI secolo. A mio modesto avviso questa condizione si fa sempre più critica per l’individuo: infatti, cresce la sua alienazione, la sua mercificazione, la sua atomizzazione, la sua illibertà – al di là dell’ideologia idealista e liberista che cela la dittatura delle esigenze economiche su ogni aspetto della nostra esistenza. Proprio il trattamento che gli individui subiscono dal Dominio sociale li espone a ogni sorta di “avventura populista”, come ho cercato di argomentare nel post Fermate il mondo, voglio scendere! Insomma, per me il peggio è adesso. Guerra o non guerra. E non cessa di peggiorare… Per mutuare Dostoevskij, se l’uomo non esiste tutto il peggio è possibile. Quanto alla guerra, per me non si tratta di prevederla – purtroppo non sono un mago –, ma se mai di concepirla come una possibilità che sta naturaliter sul terreno dell’odierno sistema capitalistico mondiale. Ma, ripeto, quando ho scritto quella locuzione “peggiorativa” non pensavo alla guerra guerreggiata, bensì alla guerra che tutti i giorni questa società fa agli individui. In questo senso, la prima è la continuazione della seconda con altri mezzi.

SCENARI PROSSIMI VENTURI

Che tristezza, Angelina! «È il socialismo reale, bellezza!»

Ipotesi politicamente scorretta. E se domani, e sottolineo se…

Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione Europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai partners? «Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in  formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!»

Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’UE? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista (vedere l’editoriale di Barbara spinelli pubblicato ieri da Repubblica e l’editoriale di Marco D’Eramo sul Manifesto di oggi) ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. La riflessione che non fa fino in fondo i conti con la dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni (a partire dalla sfera economica) rimane sempre più spiazzata dal reale procedere della storia. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni.

Germania e Cina: formiche perfette

Come è riuscita a integrare la sua regione orientale in poco tempo e pagando un costo economico-sociale abbastanza contenuto, e in ogni caso sostenibile e coronato da un brillante successo, così oggi la Germania potrebbe chiamarsi fuori dall’Unione Europea affrontando sacrifici tutto sommato accettabili, certamente non disastrosi e alla lunga convenienti. Ripeto: potrebbe. Tuttavia, l’esistenza di questa possibilità, che non è affatto detto che si trasformi in un dato di fatto, almeno nel breve periodo, basta da sola a orientare la politica interna ed estera tedesca.

Le Monde dello scorso martedì ha giustamente fatto rilevare che oggi esistono in campo due opzioni con le quali i leaders europei – ma anche Obama – sono chiamati a confrontarsi: una si chiama Homerkel, e corrisponde al vecchio rapporto privilegiato franco-tedesco, quello che ha fin qui retto il “progetto europeo”; e l’altra porta il nome di Jamerkel, in riferimento alla sempre più intensa relazione commerciale sino-tedesca. Scriveva L’Occidentale il 4 febbraio: «Il corteggiamento reciproco tra Cina e Germania continua: intenso e spietato. Nel 2011 il volume commerciale tra i due paesi ha raggiunto la cifra record di 145 miliardi di euro. La Cina è diventato, così, il secondo mercato di esportazione (dopo gli Stati Uniti) per le imprese tedesche. Già nel 2010 l’export verso la Repubblica Popolare è aumentato del 40 per cento tanto che la crescita dell’export tedesco è, nel complesso, dipendente dal mercato cinese». Nel corso della cerimonia inaugurale del vertice di industria e commercio tra Cina e Germania (Hannover, 22 aprile 2012), il premier cinese Wen Jiabao non avrebbe potuto essere più esplicito: la relazione strategica sino-tedesca non può che rafforzarsi, tanto più che la crisi economica internazionale spinge i due paesi ad assumersi responsabilità economiche e politiche sempre crescenti, in vista – indovinate un po’  – della «prosperità e stabilità mondiali».

In effetti, la Germania è forse la sola nazione del Vecchio Continente che può avere una proiezione mondiale in quanto spazio sistemico (economico, tecnologico, scientifico, ideologico, politico e, domani, militare) autonomo, mentre tutti gli altri paesi continentali devono appoggiarsi necessariamente a essa per fare «massa critica» e sperare di contare qualcosa nell’agone della competizione globale internazionale. Il discorso è in parte diverso per l’Inghilterra, per via della sua «relazione speciale» con gli Stati Uniti d’America, ma solo in parte, perché la sua competitività globale è assai (diciamo ulteriormente) decaduta negli ultimi due decenni.

Senza contare che una volta fuori dall’UE la Germania potrebbe riprendere con rinnovato vigore la sua corsa egemonica nel proprio naturale bacino geopolitico. Scriveva il “revisionista” Ernst Nolte nel remotissimo 1993: «Se i cechi vendono la fabbrica Skoda ai tedeschi non lo fanno di certo per i loro occhi azzurri, ma semplicemente perché da questa vendita si ripromettono dei vantaggi. E questi poi vengono davvero, perché la potenza economica finisce con l’essere positiva anche per chi è esposto alla sua influenza, contrariamente a quanto accade al potere politico» (Intervista sulla questione tedesca, Laterza).  Come se la potenza politica non avesse come sua base necessaria di “ultima istanza” la potenza economica. Come se la pressione economica, con tutto quello che essa presuppone a tutti i livelli della prassi sociale di un Paese, non avesse delle necessarie “ricadute” politiche interne e internazionali, anche indipendentemente dalla volontà degli attori in campo. È con questo tipo di “dialettica oggettiva” tra economia e politica che oggi abbiamo a che fare, sia chiaro.

La vicina Cina

Ma è appunto la possibile proiezione mondiale della Germania che deve maggiormente inquietare i suoi “alleati”. «Gli interessi geopolitici ed economici della Repubblica Federale Tedesca sono rivolti all’Asia, tanto che si stima che nel 2015 il volume d’affare tra Pechino e Berlino raggiungerà i 200 miliardi di euro. Ora, considerata la crisi attuale dell’Euro, la necessità di rafforzare l’Unione Europea ed il ruolo di guida che ha la Germania in questa situazione di emergenza, si pone la questione se gli interessi economici della Germania coincidano con quelli dell’Unione Europea. Al momento sembra proprio che non sia così» (Ubaldo Villani Lubelli, L’Occidentale, 4 febbraio 2012). Già, sembra proprio di no.

IL PUNTO SULLA GUERRA IN EUROPA

Come scrive Barbara Spinelli, «I tempi bui sono sempre momenti di verità» (La Repubblica, 18 gennaio 2012). Si tratta di vedere come si declina questa verità, che significato attribuirle. Infatti, se la kantiana cosa in sé ha un assai dubbio significato nella sfera dei fenomeni naturali, in quella dei fenomeni sociali essa non può vantare alcuna pretesa di assoluta oggettività. La verità dipende dalla prospettiva dalla quale il soggetto la guarda. E cosa vede la Signora Federalista Europea dalla sua sofisticatissima prospettiva? Il fallimento del «sogno europeo», naturalmente. «La verità la vediamo: l’alternativa alla federazione è una confederazione, che esclude un governo politico europeo, che dà il primato a finti Stati sovrani e che sta franando penosamente».

La Spinelli è irritata soprattutto con Mario Monti, il quale ultimamente pare averla molto delusa. Dopo il Puttaniere di Arcore, euroscettico come può esserlo solo un mentecatto del Populismo, arriva il Sobrio Super Mario, europeista come nessun altro leader europeo, e che accade? Niente. Tutto come prima. Anzi peggio! «Non è del tutto chiaro come mai Monti, che tanto ha insistito sullo sguardo lungo e l’Europa, abbia deciso di frenare lo scatto iniziale. Per dire d’un tratto ai tedeschi, in un’intervista alla Welt dell’11 gennaio: “Gli Stati Uniti d’Europa non li avremo mai. Non foss’altro perché non ne abbiamo bisogno”». Il meccanismo è questo: ci si fa delle illusioni su cose, progetti e persone, e poi, quando i nodi della dura realtà vengono al pettine, ci si lamenta come bambini perché il giocattolo non è bello come lo si desiderava. La colpa non è mai delle proprie pie illusioni, ma dei fatti che puntualmente si incaricano di irriderle. Monti si è limitato a parlare il linguaggio della verità, il quale oggi si esprime soprattutto in tedesco.

Dopo Berlusconi, la bella politica. Finalmente!

La Germania non ne vuol sapere di subire come punto di forza ciò che rappresenta un assoluto requisito di debolezza, ossia la crisi strutturale di «cicale» come Grecia e Italia. Il potenziale default di questi Paesi non può costituire un’arma di ricatto per costringere la virtuosa Germania a delle insane concessioni dal lato della disciplina fiscale, e quando Monti, attraverso un’intervista sul Financial Times, ha ricordato alla Germania il debito che anch’essa ha contratto con l’Unione Europea, e ha paventato il rischio di un «populismo antitedesco», la Cancelliera di Ferro ha risposto con una diplomatica alzata di spalle. «L’Italia è forte abbastanza da farcela da sola». Nein, di qui non si passa! Questo è il legittimo punto di vista della Potenza oggi egemone in Europa.

Indovinate di chi parlano?

Abbastanza scopertamente Inghilterra e Francia stanno cercando di usare l’Italia in funzione antitedesca. Ma non bisogna credere che Monti reciti con l’usuale sobrio sorriso sulle labbra il ruolo dell’utile idiota o del servo sciocco. A proposito della teoria del «servo sciocco», molto in voga nei circoli di estrema sinistra ed estrema destra durante la «Prima Repubblica», la quale prospettava un’Italia eternamente supina ai diktat degli odiati Amerikani, c’è da dire che la storia, soprattutto quella moderna, non presenta mai un quadro geopolitico che non sia determinato dai rapporti di forza economici e politici (militari) tra i diversi Paesi che condividono una stessa Alleanza. All’interno di questo quadro anche i Paesi più deboli, magari perché sconfitti sul piano bellico (vedi Germania, Giappone e Italia dopo la seconda guerra mondiale), non si lasciano mai assorbire interamente dagli interessi che fanno capo alla Potenza egemone, ma facendo della necessità una virtù, cercano di trarre «un bene dal male» (ad esempio, investendo nella ricerca scientifica e nel sostegno alle imprese capitali pubblici altrimenti destinati a finanziare la costosa macchina militare), e non perdono l’occasione di smarcarsi, quando ciò è possibile e sempre nella misura imposta dai rapporti di forza, dall’amico-nemico di turno. Quando osserviamo la guerra europea in corso, è utile a mio avviso avere in mente questa complessa dialettica storico-sociale, per non cadere vittima del «teatrino della politica» internazionale che tanto spazio trova sui media.

Come il «falco conservatore» Robert Kagan ha capito (Paradiso e potere, Mondadori, 2003), e il progressista e politicamente corretto Jeremy Rifkin non ha capito (Il sogno europeo, Mondadori, 2005), il «progetto europeo» teneva insieme diversi e contraddittori interessi nazionali e sovranazionali. Raggiungere una massa critica continentale tale da poter competere con i maggiori blocchi capitalistici mondiali (USA-Canada-Messico, Cina, Tigri asiatiche); controllare e soffocare la Potenza sistemica della Germania, servirsi di questa stessa Potenza per dare sostanza materiale alle proprie velleità di grandezza (o di Grandeur, per essere più chiari), e così via. Ogni Nazione europea è stata “europeista” a misura dei suoi peculiari interessi economici e politici. Il tutto, confezionato con la luccicante ideologia europeista, peraltro fin dall’inizio inaridita da compromessi d’ogni sorta, a volte spinti fino al più ardito machiavellismo burocratico, o al più parossistico degli economicismi (vedi le freudiane dispute sulle misure dei cetrioli e sull’incurvatura delle banane).

Giustamente il Wall Street Journal Europe di ieri ridicolizzava la pretesa dei keynesiani secondo la quale la Germania dovrebbe essere meno industriosa e meno virtuosa sul piano fiscale, in modo da mettere gli altri Paesi europei nelle condizioni di recuperare il gap sistemico accumulato nei suoi confronti. Non si capisce perché la Germania dovrebbe essere così masochista. Forse nel nome della «Patria Europea»? Ma siamo seri! Allo stesso modo, non si capisce perché gli italiani del Nord dovrebbero a cuor leggero continuare a finanziare il Sistema che ha mantenuto il Sud del Paese nelle penose condizioni che sappiamo. Per amor di Patria? Leghismo e Forconismo sono le facce della stessa medaglia: la crisi del Sistema-Paese.

Quando Francia e Inghilterra hanno approfittato della situazione caotica creatasi in Nord‘Africa per mettere le mani sulla Libia, hanno forse chiesto il permesso all’Italia, pur sapendo di operare nel suo cortile di casa? Ovviamente no. Perché avrebbero dovuto farlo?

Barbara Spinelli conclude il suo articolo invocando, contro la conclamata crisi del «progetto europeo», un’«ondata di nuove istituzioni federali». La coazione a ripetere degli illusi è cosa risaputa, nel mondo della politica come in quello della psicoanalisi. «Pagare un po’ meno tasse agli Stati e un po’ più tasse all’Europa»: è il massimo che il progressismo italico riesce a immaginare.

Scrive Carlo Bastasin: «Fa parte di questa gabbia mentale la confusione – tragica, in filosofia politica – tra integrazione e identità. Integrare l’Europa non significa far diventare ogni Paese come la Germania. Un’area economica comune vive di zone, Stati o regioni, ognuno diversamente specializzato e che inevitabilmente hanno produttività diverse, tassi di sviluppo differenti e anche bilance dei pagamenti in squilibrio, proprio come il Mississippi e il Massachusetts. Anche l’unificazione tedesca non fu un’integrazione, ma un’identità. Ma quello che era difficile tra le due Germanie è impossibile tra 17 Paesi. (Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2012)». Di qui l’attuale crisi dell’Unione Europea. O si converge su Berlino, o si va dritti verso l’impasse o il definitivo fallimento del cosiddetto «Sogno europeo». Anche su questo terreno la «Terza Via» è roba per persone che amano il conforto dell’ideologia.

«L’Europa – scrive la Spinelli – serve per scongiurare insieme le sciagure: ieri la guerra, oggi la contrazione economica, la povertà, il clima, le possibili guerre civili. Compito nostro è evitare che naufraghi come la nave Concordia, con tutti i comandanti che fuggono per salvare solo se stessi, alla maniera del capitano Schettino, dopo aver condotto il bastimento alla rovina». Metafora azzeccata? Intanto è meglio munirsi di elmetto e di fucile, per portarci avanti col lavoro, per così dire. L’evocazione esorcistica della guerra civile dalle mie parti mette di ottimo umore. E già solo per questo leggere l’articolo della sconsolata Signora è stato un vero piacere.

ABOLIRE IL CAPITALISMO

Vasto programma...

Nel suo articolo di oggi Barbara Spinelli evoca già nel titolo il famoso saggio di Ernesto Rossi Abolire la miseria, scritto nel 1942 durante il suo soggiorno al confino di Ventotene. Abolire la miseria: vasto programma, avrebbe detto qualcuno. Ecco cosa scriveva Rossi: «Bisogna unire tutte le nostre forze per combattere la miseria per le stesse ragioni per le quali è stato necessario in passato combattere il vaiolo e la peste: perché non ne resti infetto tutto il corpo sociale». Combattere la miseria significava per l’intellettuale casertano dare a tutti nutrimento, alloggio, vestiario, sanità, istruzione, affinché l’indigenza non precipitasse le masse in uno stato di frustrazione e disperazione, acqua nella quale nuotano i pesci della demagogia, del totalitarismo e della guerra. Nello stesso anno William Beveridge approntava il piano governativo del Welfare, con il quale la classe dominate inglese si pose non solo il problema di come gestire al meglio contraddizioni sociali diventate troppo onerose sul piano dello status quo, ma anche – e soprattutto – quello di supportare  il processo di accumulazione capitalistico in una fase critica della storia inglese.

Dalla marcia per il lavoro alla marcia contro il nemico del Bene Comune il passo è breve

Sotto questo aspetto è opportuno ricordare, a scorno dei «keynesiani 2.0», come Keynes non pose mai il Welfare nei termini dell’ammortizzatore sociale (ad esempio, come gestione non conflittuale del gap nord-sud nel caso italiano), bensì in quelli genuinamente capitalistici incentrati sull’attivazione, «artificialmente indotta» da una «domanda supplementare» (resa possibile dallo Stato), di un capitale che il mercato non riusciva a mettere in moto spontaneamente. Più che della disoccupazione dei lavoratori, egli giustamente – in quanto esponente di punta della classe dominante – si preoccupò della disoccupazione del capitale, per risolvere la quale bisognava lasciarsi alle spalle vecchie remore di stampo democratico-liberale. «Ciò che il seguente libro intende illustrare, si adatta più facilmente alle condizioni di uno stato totalitario, piuttosto che a condizioni di libera concorrenza e di ampie misure di laissez-faire» (Keynes, Prefazione all’edizione tedesca del 1936 della General Theory). Su scala mondiale queste condizioni si realizzarono con l’ingresso della società capitalistica nella seconda guerra mondiale.

La crisi del Welfare si deve soprattutto al fatto che a un certo punto esso è stato usato come un ammortizzatore sociale, a partire dal quale si è generato un sistema sociale (politica inclusa) estremamente parassitario dal punto di vista dell’accumulazione capitalistica, la quale, occorre ricordarlo, è la fonte originaria della ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica. Ecco perché il cosiddetto «neoliberismo» non rappresenta un ritorno indietro, come pensano i progressisti che teorizzano sacrifici «duri ma equi», ma è l’espressione più genuina della presente sofferenza del meccanismo capitalistico.

Giustamente Giuliano Ferrara ridicolizza il mantra progressista dell’equità, il quale nega l’evidenza di un modo di produzione che per svilupparsi deve creare squilibri e iniquità d’ogni sorta, che sta poi alla società nel suo complesso cercare di gestire nel migliore dei modi. Volere lo sviluppo economico senza le “magagne” che necessariamente esso comporta, come dimostrano i capitalismi più dinamici e virtuosi, significa condannarsi alla stagnazione e alla decrescita. Ecco come parla un esponente della classe dominante che non cerca di addolcire la pillola amara della prassi capitalistica con il luogocomunismo progressista. Marx scrisse la Miseria della filosofia proprio per dimostrare come fosse teoricamente ridicolo e praticamente chimerico separare il «lato buono» del capitalismo da quello «cattivo»: conservare il primo ed eliminare il secondo significa semplicemente «liquidare di colpo il movimento dialettico» (antagonistico) della società capitalistica. Senza considerare che il cosiddetto «lato buono», ossia lo sviluppo economico, si risolve nello sfruttamento sempre più intensivo della capacità lavorativa fisica e intellettuale.

Peraltro c’è da dire che il concetto marxiano di indigenza non ha un significato volgarmente materiale, ma esistenziale nell’accezione più radicale (sociale) del termine. E non può essere altrimenti, nella società nella quale tutti i bisogni, i desideri e i sogni devono incrociare il denaro e la merce. Quel concetto non ha nulla a che fare col pauperismo assoluto di carattere fisiologico (mancanza di alimenti, di alloggio, di vestiario, ecc.): per Marx, infatti, la miseria dei salariati cresce necessariamente perché sempre più produttivo si fa il loro lavoro. La miseria della quale egli tratta non ha mai il carattere assoluto che gli hanno attribuito i detrattori per meglio “confutarne” le «tesi palingenetiche». Anche se nelle crisi economiche devastanti il relativo tende a incrociare l’assoluto, e appunto di questa inquietante tendenza si fa voce Barbara Spinelli.

Sorrisi progressisti

La paura di perdere le briciole ottenute al prezzo di grandi sacrifici può innescare nelle masse un rigetto di quel progetto europeo che, secondo la Spinelli, rappresenta la sola àncora di salvezza per il Vecchio Continente. «Se la crisi odierna è una sorta di guerra, è urgente immaginare istituzioni durature perché i mali che stanno tornando (miseria, diseguaglianza) non trascinino ancora una volta le società in strapiombi di disperazione, risentimento, e quell’odio dell’altro che si disseta bramando capri espiatori (ieri gli ebrei, oggi gli immigrati e in prospettiva anche i vecchi che “muoiono così tardi”)» (B. Spinelli, Abolire la miseria, La Repubblica, 28 Dicembre 2011). La crisi di oggi non è una «sorta di guerra»: è la guerra tipicamente capitalistica, la quale non di rado, a causa della sua gravità e della sua dimensione geoeconomica, assume la forma dello scontro bellico tra Nazioni. La vita stessa all’interno di questa società disumana è una vera e propria guerra per la sopravvivenza, con lo scarto dei mal riusciti al reparto Controllo di Qualità. La Spinelli invoca «più Europa» senza capire che ciò deve tradursi necessariamente in «più Germania», e da vecchia militante progressista se la prende con gli slogan antieuropeisti della Lega e con l’antieuropeista «offensiva di Berlusconi contro le tasse: cioè contro il tributo che ciascuno (specie i ricchi) deve versare per preservare la pubblica salute». Le tasse sono belle, diceva la buonanima di Padoa-Schioppa. È proprio il caso di dirlo: miseria dei progressisti!

La Miseria si arrende!

Per Ernesto Rossi «la miseria non è il risultato necessario del sistema capitalistico, e proprio per questo occorre tenere i capitalisti lontani dalla tentazione di credere che la povertà di alcuni strati della popolazione sia la condizione dello sviluppo economico generale, oltre che delle loro private fortune. Per questo occorre trovare il coraggio di predisporre un programma per abolire la miseria» (Rassegna sindacale, n. 14, Aprile 2002) . Per come la vedo io, si fa prima ad abolire il Capitalismo. E non ne parliamo più!