È COME LA FINE DEL MONDO

Ieri notte è ripartita in grande stile l’offensiva russo-siriana nel Nord-Ovest della Siria contro la Turchia e i suoi alleati dell’opposizione armata siriana. Negli ultimi tre mesi nella provincia di Idlib oltre 900 mila persone sono state costrette a lasciare le loro case. «È un popolo stremato in fuga dalla guerra, da bombe che hanno distrutto abitazioni, scuole e ospedali. È un fiume umano, con almeno 500 mila bambini che cercano di sopravvivere in campi sovraffollati, tra la morsa del gelo e della malnutrizione, davanti ad un unico orizzonte che si infrange con una frontiera chiusa, quella tra Siria e Turchia» (Vaticannews). Lo sfollamento di massa non è un semplice “effetto collaterale” della guerra che oppone la Turchia alla Russia e alla Siria, ma un obiettivo scientemente ricercato e pianificato dai macellai russo-siriani. Inutile dire che il regime turco collabora attivamente alla “catastrofe umanitaria” in corso ormai da molto tempo. Per l’Imperialismo Unitario (ne fanno parte grandi e piccole potenze, grandi e piccole nazioni, imperialismi globali e regionali) gli interessi sono tutto, la vita delle persone niente; esso è unitario in questo peculiare significato: si pone unitariamente contro gli interessi dell’umanità in generale, e delle classi subalterne, in particolare. Al suo interno questo Imperialismo è invece altamente conflittuale.

«È come la fine del mondo», ha affermato Fouad Sayed Issa, il fondatore di Violet, un’organizzazione umanitaria siriana “senza scopo di lucro”; «anche se hai soldi, non troverai nulla da affittare o acquistare. Le tende sono piene e non ci sono più campi» (New York Times). «“Questa regione sta per diventare il più grande cumulo di macerie del mondo, disseminata di cadaveri di un milione di bambini”: a dirlo è il coordinatore delle Nazioni Unite per le emergenze umanitarie, Mark Lowcock, che non trova più superlativi per descrivere l’orrore che stanno vivendo gli abitanti della regione di Idlib, vittime della guerra totale lanciata dal regime siriano per riconquistarla a qualsiasi costo. Chi sono le vittime? Perché la situazione a Idlib è cosi apocalittica? La Turchia ha accolto finora circa 3,5 milioni di rifugiati siriani, ma dal 2015 ha chiuso la frontiera. Un’inchiesta del giornale libanese l’Orient le jour sui trafficanti di esseri umani spiega che la Turchia non teme di sparare sui disperati che cercano di passare il confine e che il costo di un passaggio di contrabbando, che fino al 2016 era di cento dollari, oggi può arrivare a tremila. Dall’altra parte c’è l’offensiva del regime di Bashar al Assad appoggiata dalle forze russe. Oggi, a parte la paura delle bombe, nessuna delle persone che vive nella zona pensa di potersi ritrovare di nuovo sotto il regime di Assad dopo quello che hanno vissuto» (Internazionale).

Papa Francesco ha lanciato da Bari l’ennesimo appello «agli uomini di buona volontà» (sic!): «Cari fratelli e sorelle, mentre siamo riuniti qui a pregare e a riflettere sulla pace e sulle sorti dei popoli che si affacciano sul Mediterraneo, sull’altra sponda di questo mare, in particolare nel nord-ovest della Siria, si consuma un’immane tragedia. Dai nostri cuori di pastori si eleva un forte appello agli attori coinvolti e alla comunità internazionale, perché taccia il frastuono delle armi e si ascolti il pianto dei piccoli e degli indifesi; perché si mettano da parte i calcoli e gli interessi per salvaguardare le vite dei civili e dei tanti bambini innocenti che ne pagano le conseguenze. Preghiamo il Signore affinché muova i cuori e tutti possano superare la logica dello scontro, dell’odio e della vendetta per riscoprirsi fratelli, figli di un solo Padre, che fa sorgere il sole sui buoni e sui cattivi». Un Papa ovviamente non può che dire questo. Chi scrive, che notoriamente Papa non è, purtroppo è invece costretto a prendere atto dell’ennesima carneficina prodotta dalla logica del potere (economico, politico, ideologico, in una sola parola: sistemico), la quale non si lascia commuovere da nessuna preghiera, da nessun pianto di bimbo, di vecchio, di donna e di uomo. Non c’è niente da fare: se l’uomo non esiste, tutto il male concepibile è anche possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

Aggiunta del 29 febbraio 2020

«Erdogan ha fatto annunciare che la sua guardia costiera e l’esercito non fermeranno più i profughi siriani che proveranno ad attraversare l’Anatolia per dirigersi verso la Grecia e l’Europa» (La Repubblica). La Turchia, più interessata a massacrare i curdi e a presidiare un’area che giudica di suo vitale interesse strategico, che a salvare vite umane, continua a usare i profughi siriani come arma di ricatto nei confronti degli “alleati” europei, i quali da anni pagano Ankara per gestire la scottante questione. Gli europei amano delegare ad altri il pur necessario “lavoro sporco”. Intanto l’offensiva russo-siriana continua, con la scusa della lotta al terrorismo: «Il ministro degli Esteri russo Serghei Lavrov ha fatto sapere a Ginevra l’intenzione di Mosca di non sospendere le ostilità perché “significherebbe capitolare di fronte ai terroristi, e persino ricompensarli per le loro attività in violazione dei trattati internazionali e di numerose risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu”. Fatto sta che nel nord della Siria è emergenza umanitaria su scala biblica, con un milione di persone in fuga dai bombardamenti accalcate in prossimità del confine turco da quale passano solo le armi e i beni logistici diretti a sud» (Notizie Geopolitiche). L’Onu? Nient’altro che «un covo di briganti»!

Centinaia di migliaia di persone sono insomma stritolate nella micidiale morsa di contrapposti interessi che hanno una sola logica: quella del Potere – economico, politico, ideologico. Inutile dire che ci toccherà assistere al vomitevole rimpallo delle responsabilità da parte di tutti i Paesi (compresi quelli europei) coinvolti nella vicenda, perché la colpa per il sangue versato e per le sofferenze inflitte agli inermi ricade sempre sulla testa degli altri – dei nemici.

ASPETTANDO I MISSILI…


Tieniti pronta Russia, i missili
arriveranno (Donald Trump).

Come diceva quello, la situazione è assai confusa, ma in compenso non è – mi si consenta una piccola variante – eccellente, tutt’altro, almeno se considerata dal punto di vista di chi è costretto a subire un processo sociale mondiale fondato su interessi che nulla a che fare hanno con il benessere, la libertà e la felicità degli individui. E difatti la sola certezza che mi sento di poter esternare in questo momento, mentre in tutto il mondo si parla di guerra economica (vedi la controversia sui dazi) e di guerra militare (vedi la Siria), riguarda l’irriducibile e irriformabile natura disumana di questa società mondiale, una società che trasuda violenza, odio e precarietà esistenziale da tutti i suoi pori. Ieri ho scritto un post sulla crisi siriana per dire la mia sulla vicenda, e che solo adesso ho la possibilità di pubblicare. Ciò che però adesso m’importa dire, per quel che vale, è che al di là delle analisi più o meno puntuali e intelligenti (e quindi non sto parlando delle mie “analisi”!) intese a penetrare nella complessità e contraddittorietà delle questioni geopolitiche, politiche, militari e quant’altro, ciò che davvero ha senso è conquistare questo semplice concetto: dal punto di vista umano e delle classi subalterne non esiste una sola ragione valida per schierarsi con questa o quella Potenza, con questa o quella Nazione (soprattutto con la propria!), con questa o quella fazione capitalistica, con questo o quel partito, di governo o di opposizione. Oggi, come sempre, in gioco ci sono solo interessi di potere (economico, politico, militare ecc.), e dal mio punto di vista quegli interessi non valgono un solo capello – uno solo dico! – cresciuto sulla testa di un solo individuo.

***

Ultim’ora! Mentre scrivo aerei militari da ricognizione degli Stati Uniti sono decollati dalla base americana di Sigonella per raggiungere la regione Mediorientale. Il Premier turco ha dichiarato che, «gas o non gas, Assad se ne deve andare per consentire una soluzione politica della crisi. Assad ha massacrato un milione di civili siriani, e ciò non è accettabile». È invece accettabile il massacro dei curdi da parte della Turchia. Mi viene in mente la favola raccontata da Platone (Fedro): «Un lupo, vedendo un pastore che mangiava carne di pecora, disse: “solleveresti un gran clamore se lo facessi io”». Non so chi legge, ma io vedo in azione solo lupi affamati di bottino. E mi scuso con i lupi in carne ed ossa per l’odiosa analogia! Intanto Israele minaccia il regime siriano: «Cancelleremo la Siria dalle carte geografiche se permetterà all’Iran di attaccarci». Dalla Casa Bianca trapela quanto segue: «Gli Stati Uniti stanno ancora valutando ciò che è avvenuto a Douma. Niente è ancora stato deciso ma il Pentagono ha offerto al Presidente una serie di opzioni militari». Come colpire duramente, molto più che in passato, Bashar al Assad senza scontrarsi direttamente con l’esercito russo? Pare che al Pentagono non sia stata ancora trovata la soluzione a un problema che, com’è facile capire, non è di poco momento. Le “destre unite” del nostro Paese si dichiarano indisponibili a votare un intervento militare italiano contro la Siria e contro la Russia; «Il senatore di Forza Italia, Paolo Romani, esorta il centrodestra ad “alzare la voce sull’assurda minaccia di rappresaglia rispetto al presunto utilizzo di armi chimiche in Siria e chieda al governo di dissociarsi da tali inopportune eventuali azioni. Non è possibile – prosegue – immaginare che Assad nel momento in cui i ribelli jihadisti di Duma si stanno per arrendere abbia utilizzato armi chimiche che avrebbero scatenato la reazione internazionale. Oltre a essere inutile sarebbe un’idea stupida. Auspico, pertanto, che il governo si dissoci”» (il Giornale.it). Forse nemmeno su Contropiano si leggono difese così accorate e puntuali del regime di Damasco!

Il Premier Gentiloni, non ancora scaduto, dice che l’uso dei gas contro la popolazione da parte del regime di Damasco va certamente condannato e duramente sanzionato dal diritto internazionale, e che tuttavia «dobbiamo lavorare per la pace»: che sant’uomo! Il Partito Democratico accusa Matteo Salvini e «l’ammucchiata di destra» di voler portare l’Italia fuori dal tradizionale quadro di alleanze internazionali: sarà il compagno Salvini a guidare il “Nuovo Movimento per la Pace”? Certo è che per la Mummia Sicula ospitata al Quirinale la crisi siriana è un forte argomento da far valere nelle prossime consultazioni politiche con i partiti in vista della formazione del nuovo governo.

***

Come spiegare l’improvvisa accelerazione della crisi siriana? Ciò che mi sento di dire con una certa sicurezza è che l’ipotizzato uso di gas da parte del macellaio di Damasco non c’entra niente.

Per gli Stati Uniti si tratta di rintuzzare l’espansione geopolitica della Russia in un’area strategicamente importante come rimane indubbiamente il Medio Oriente; una Russia che, come dimostra il suo attivismo in Europa (vedi la crisi ucraina ma non solo), non vuole retrocedere dal rango di potenza mondiale conquistato nella sua precedenza configurazione politico-istituzionale – naturalmente alludo all’Unione Sovietica, crollata miseramente alla fine degli anni Ottanta inizio anni Novanta. In questa legittima aspirazione il Paese oggi condotto con mano ferma da Vladimir Putin, un faro politico-ideologico per il fronte sovranista europeo (ieri Salvini ha dichiarato che non si fanno le guerre sulla base di un presunto uso di armi chimiche), è spalleggiato dalla Cina, ossia dalla potenza che contende agli americani il primato assoluto nella competizione capitalistica mondiale. Le merci e i capitali Made in Cina ormai dilagano dappertutto e ciò non può non irritare Washington, che difatti sta reagendo all’ascesa imperialistica di quel Paese mettendo in atto una serie di misure economiche e politiche il cui impatto potremo valutare nei prossimi mesi e nei prossimi anni. Oggi colpire la Russia significa per gli Usa colpire anche la Cina, e viceversa. Con ciò non voglio affatto dire che gli interessi della Russia coincidono perfettamente e strategicamente con quelli della Cina; qui è il breve/medio periodo che importa prendere in considerazione.

Detto questo, non possiamo d’altra parte dimenticare che solo qualche settimana fa Trump aveva dichiarato che gli Stati Uniti avrebbero presto abbandonato la regione siriana presidiata dal loro esercito (oltre duemila soldati), abbandonando così i curdi al loro triste destino, come peraltro sta dimostrando la campagna turca di sistematico annientamento dei curdi chiamata cinicamente ramoscello di ulivo. Certamente l’annunciato disimpegno americano ha irritato non poco l’Arabia Saudita, impegnata in un duro confronto con l’Iran nello Yemen, e Israele, la quale teme più di ogni altra cosa che Trump possa rinverdire la politica di appeasement con il regime iraniano di obamiana memoria. Non sono insomma da escludersi pressioni su Washington da parte degli alleati regionali, impauriti dalla prospettiva di perdere il sostegno militare statunitense.

Per Israele si tratta di reagire a una sfida esistenziale che ha nell’Iran la sua punta più affilata; com’è noto, Teheran si serve degli Hezbollah libanesi e dei palestinesi di Hamas, attivi nella striscia di Gaza, per controllare, colpire e logorare il regime israeliano, il cui “pacifismo” si sta peraltro esercitando in questi giorni anche sui palestinesi inermi. Come dimostra la “guerra dimenticata” nello Yemen, l’Iran è senz’altro la potenza regionale in ascesa nel quadrante Mediorientale, a spese soprattutto dell’Arabia Saudita, dell’Egitto, della Turchia e, appunto, di Israele.

Secondo molti analisti basati in Medio Oriente, Mosca avrebbe consentito l’uso da parte dell’esercito regolare siriano di cloro o di agenti chimici ancora più potenti per accelerare la resa dei “ribelli” ancora presenti a Douma. Si tratta di «gruppi islamisti sostenuti dall’Arabia Saudita quali i qaedisti di Jabat Fatah al-Sham e soprattutto di Jaish al-Islam (“Esercito dell’Islam”), i quali hanno respinto gli accordi dei giorni scorsi, accettati da altri gruppi, di essere accompagnati con le loro famiglie in autobus nella provincia di Idlib, com’è stato per i combattenti della battaglia di Aleppo, ed anzi, hanno continuato a bombardare Damasco con i mortai» (Notizie Geopolitiche). È comunque un fatto che i “ribelli” di Douma hanno accettato di trasferirsi con le loro famiglie nel Nord del Paese: «Gradualmente la Siria mostra un nuovo assetto, certamente seguito all’incontro del 4 aprile ad Ankara tra il presidente russo Vladimir Putin, quello iraniano Hassan Rohai e quello turco Recep Tayyp Erdogan: a nord e per tutta la provincia di Idlib vi sarebbero gli oppositori con le popolazioni turcomanne, mentre i curdi sono respinti dall’esercito turco a est e il resto del paese sarebbe sotto il controllo di Damasco». Come sempre, è la violenza degli eserciti che disegna sul terreno le mappe geopolitiche, e le classi subalterne non possono far altro che subire gli interessi delle Potenze, grandi o piccole che siano, e i loro mutevoli rapporti di forza.

Non possono far altro, beninteso, fin quando esse rimarranno inchiodate politicamente, ideologicamente e psicologicamente al carro del Dominio. La tragedia planetaria che viviamo non ha nulla a che fare con il destino cinico e baro, ed è spiegabile perfettamente in termini di interessi e di violenza di classe.

Leggo da qualche parte: «L’attacco chimico di Ghūṭa è un episodio occorso la mattina del 21 agosto 2013 durante la guerra civile siriana in cui alcune aree controllate dai ribelli nei sobborghi orientali e meridionali di Damasco, sono state colpite da missili superficie-superficie contenenti l’agente chimico sarin. Ribelli e governo siriano si accusano a vicenda di aver perpetrato l’attacco». È quindi dall’estate del 2013 che in Siria i diversi contendenti di una guerra sempre più feroce e internazionale usano “agenti chimici” per annientarsi a vicenda, senza mostrare alcun interesse per l’impatto che le armi “non convenzionali” hanno sui civili. In sette anni di guerra si contano circa 85 attacchi con armi chimiche. Del resto, le armi cosiddette convenzionali non sono affatto meno terribili di quelle dichiarate illegali dal diritto internazionale, che poi altro non è se non il diritto dei più forti di stabilire le regole del gioco. Un “gioco” che, come anche i bambini ormai sanno, ha il nome di contesa per il potere sistemico: economico, politico, militare, ideologico, psicologico. Con o senza l’uso di armi chimiche di qualche tipo, in Siria sono morti oltre quattrocentomila civili, e dunque perché indignarsi solo quando i media ci mostrano le conseguenze sulla popolazione civile di quelle armi?

A proposito di Diritto Internazionale, in un post del 2015 dedicato alle Barrel Bombs usate dal famigerato perito chimico di Damasco (parlo di Assad, ovviamente), mi chiedevo retoricamente: «Non sarà che all’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo (a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia?». Leninianamente parlando definivo l’Onu come «un covo di briganti». «Sono passati settant’anni dalla conferenza di Yalta, quando Stalin, Roosevelt e Churchill decisero di coprire con la foglia di fico delle Nazioni Unite la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica». Così scriveva tre anni fa Lucio Caracciolo su Limes, in un articolo che auspicava «una nuova Yalta», la sola che potrebbe mettere un po’ di ordine al tanto caos che “sgoverna” il Nuovo Ordine Mondiale post Guerra Fredda: «Ordine del giorno: rimettere ordine in questo caos. L’obiettivo di qualsiasi ordinamento: la riduzione della complessità. Non si potrebbe scegliere luogo più simbolico della corrente incertezza geopolitica».

Naturalmente tutti i protagonisti del Sistema Mondiale del Terrore sostengono che «il dialogo è la sola via», ma intanto preparano o fanno la guerra, direttamente o per “procura”, con le armi che hanno a disposizione: dal gas nervino alla Massive ordnance air blast; dalle tecnologicamente arretrate (ma quanto efficaci!) barrel bombs ai più sofisticati e “intelligenti” Tomahawk. Mikhail Gorbaciov, l’ex statista odiato dai nostalgici dell’Unione Sovietica e della Guerra Fredda, si è detto «enormemente angosciato» per i recenti sviluppi negativi nelle relazioni tra gli Stati Uniti e la Russia, e dopo aver evocato la crisi dei missili a Cuba del 1962, ha caldeggiato un immediato incontro “pacificatore” tra Putin e Trump.  Intanto il Presidente americano si diverte a “bullizzare” il Presidente russo: «La Russia minaccia di abbattere tutti i missili sparati verso la Siria. Tieniti pronta Russia, perché stanno per arrivare, belli, nuovi e “intelligenti”! Non dovreste essere alleati di un animale assassino che uccide la sua gente con il gas e si diverte! Le nostre relazioni con la Russia sono peggiori di quanto non lo siano mai state, compresa la Guerra Fredda. Non c’è ragione per questo». E se si trattasse di una ragione chiamata Potere Mondiale? Avanzo una mera ipotesi, sia chiaro.

Insomma, osservo con disgusto estremo l’ennesima ipocrisia politico-diplomatica-mediatica intorno all’ennesimo massacro di civili siriani ottenuto con l’uso di gas. Da parte di chi? Da parte dell’«animale assassino» di Damasco, che si regge in piedi solo grazie all’appoggio della Russia e dell’Iran, e che in passato ha fatto largo uso delle citate Barrel Bombs, o dei suoi oppositori interni, appoggiati (con alterne vicende) dagli Stati Uniti, da Israele, dalla Turchia e dall’Arabia Saudita? Alle mie orecchie questa domanda suona del tutto priva di senso, sotto tutti i punti di vista. Non solo la guerra non è, in generale e notoriamente, un “pranzo di gale” e i nemici si combattono fra loro usando tutti i mezzi a loro disposizione, spessissimo prendendo scientemente di mira i civili per conseguire nel modo più rapido e “economico” possibile obiettivi strategici di grande importanza (lo abbiamo visto su una scala gigantesca in Europa e poi in Giappone nel corso del Secondo Macello Mondiale definito dai vincitori “Guerra di Liberazione”); ma in questa guerra c’è in gioco solo il Potere sistemico cui ho accennato sopra, e non un solo “valore” che sorrida alla vita delle classi subalterne. Non uno.

«I governi terroristi di Israele e degli USA sono un pericolo terribile per tutti noi e vanno fermati nel nome del futuro dell’umanità». Così ha scritto l’altro ieri Carlo Formenti, esponente di punta di Potere al popolo, sempre a proposito della “sporca guerra” siriana. Sottoscrivo! Ma un momento! Qualcosa non mi torna: e il regime siriano, dove lo mettiamo? E la Russia di Vladimir Putin? E l’Iran di Hassan Rohani? E la Turchia di Recep Tayyip Erdogan? Senza contare la Francia di Emmanuel Macron che sta cercando in tutti i modi di incunearsi fra le contraddizioni degli “alleati” della Siria per acciuffare qualcosa in termini di posizionamento geopolitico nella delicatissima regione Mediorientale. Per come la vedo io, terroristi e nemici dell’umanità sono tutti i carnefici in campo, comprese le forze che si contrappongono militarmente al regime di Assad solo per sostituirlo con un regime altrettanto reazionario. Inutile dire che si tratta di un terrorismo messo al servizio di enormi interessi economici, strategici, militari, politici. Certamente, il concetto di imperialismo sintetizza benissimo la questione.

Per taluni sedicenti antimperialisti esiste un solo imperialismo, quello americano-israeliano (sai la novità: è dai tempi di Stalin che la cosa va avanti!), mentre gli imperialisti concorrenti vanno in qualche modo sostenuti per rafforzare la lotta delle classi subalterne contro l’imperialismo. Che geniale astuzia dialettica! Ma non si tratta di “contraddizioni in seno al popolo”; non si tratta di “compagni che sbagliano”: si tratta piuttosto di personaggi orientati politicamente da un punto di vista ultrareazionario, ossia filo-capitalistico e filo-imperialista. Questi personaggi hanno sposato la causa del capitalismo (vedi il Venezuela di Maduro, ad esempio) e dell’imperialismo di certi Paesi (vedi Russia, Cina, Iran*) perché sono attratti da regimi forti e autoritari (purché ostili agli Usa e a Israele), meglio se fondati su un capitalismo di stampo statalista, che poi essi vendono al mondo e a se stessi, in tutta buona fede, come «Socialismo del XXI secolo». Purtroppo è il solo “socialismo” che questi sinistri personaggi conoscono e comprendono. Molte volte ho avuto modo di polemizzare con qualcuno di loro; c’è chi crede in buona fede di partecipare alla “lotta di classe concreta” come si dà nel XXI secolo, mentre in realtà si muove sul terreno della geopolitica, ossia dello scontro interimperialistico, e così si schiera con una fazione del Sistema Mondiale del Terrore in odio all’altra.

* Il fascio-stalinista Diego Fusaro, sempre più ridicola caricatura di se stesso, è arrivato a definire l’Iran «uno Stato eroicamente resistente al mondialismo imperialistico, e che, come tale, già da tempo è stato designato come bersaglio privilegiato da parte della monarchia del dollaro e delle sue colonie asservite (Italia in primis, ovviamente). […] La Sinistra del Costume, dal canto suo, anziché resistere e opporsi a queste pratiche in nome della leniniana lotta contro l’imperialismo, le legittima in nome dei diritti umani con bombardamento etico incorporato e della democrazia missilistica d’asporto. Dov’è finita, in effetti, la sinistra? Perché non lotta contro l’imperialismo, come fece Lenin? Perché non difende gli Stati resistenti al mondialismo capitalistico e anzi si adopera perché vengano invasi militarmente?». Lenin arruolato, si spera suo malgrado, nello scontro interimperialistico e nelle risibili beghe tra i diversi spezzoni della sempre più confusa, miserabile ed evanescente (speriamo!) sinistra italiana. Sinistra Sovranista e Populista, la quale assimila Lenin al virile Putin, ad Assad, a Rohani e ad altri “eroi dell’imperialismo” di simile escrementizio conio, versus «Sinistra dei Costumi», che ha sposato i valori della «Destra del Danaro»  e che «confonde l’internazionalismo con l’europeismo e il cosmopolitismo», che lotta «contro il burka e per la minigonna»: una bella partita, non c’è dubbio. Il fatto che la lettura che «l’ultimo marxista» (strasic!) Diego Fusaro fa del mondo sia perfettamente sovrapponibile a quella di Massimo Fini, ciò non solo non è paradossale o sorprendente, almeno per chi non si lascia abbacinare dalla fraseologia pseudomarxista del primo, ma è perfettamente coerente con la “concezione del mondo” (ultrareazionaria) dei due personaggi. Se mi occupo, sempre più controvoglia, di queste ridicole e miserabili cose è solo perché spero (mi illudo?) di poter convincere anche un solo militante della “sinistra”, più o meno estrema/radicale, che da quella parte c’è solo conservazione sociale, esattamente come a destra.

Leggi:

IL PUNTO SULLA SIRIA E SUL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE
C’È ANCORA QUALCOSA DA BOMBARDARE AD ALEPPO?
YEMEN E SIRIA. DUE PAESI, LA STESSA GUERRA
IRAN. OGGI E IERI
MACELLO SIRIANO. C’ERA UNA VOLTA IL MOVIMENTO PACIFISTA…
PRIMAVERE, COMPLOTTI E MOSCHE COCCHIERE. Siria e dintorni.
SIRIA: UN MINIMO SINDACALE DI “INTERNAZIONALISMO”
LA RESA INCONDIZIONATA DEGLI AMICI DEL MACELLAIO DI DAMASCO
LA QUESTIONE SIRIANA E LA MALATTIA SENILE DEL TERZOMONDISMO
ANCORA SULL’INFERNO SIRIANO

UN’UMANITÁ GASATA

La prima vittima di una guerra è sempre la verità: ciò è stato vero in passato e lo è soprattutto oggi, in un’epoca in cui le guerre nemmeno si dichiarano, e che quando si “fanno” (magari “per procura”), spesso vengono definite “umanitarie” da chi ha interesse a promuoverle. Anche oggi qualcuno viene e ricordarcelo: «Ognuno si difende come può, ben sapendo che la prima della vittima di una guerra è sempre la verità». Così scrive oggi Alberto Negri su Il Sole 24 Ore commentando l’ennesima strage siriana. Ma c’è una verità ben più profonda, che non spetta certo agli analisti di geopolitica e ai politici che amministrano la nostra esistenza mettere in luce, che orienta la mia valutazione anche per ciò che riguarda l’episodio bellico di ieri: la natura sociale del conflitto siriano.

Un massacro in più o in meno non può certo cambiare il mio giudizio sul regime siriano e, soprattutto, su ciò che ho definito il Sistema Mondiale del Terrore, concetto che spiega anche la strage di San Pietroburgo. A suo tempo anche Giulio Regeni sperimentò la crudeltà di questo mostruoso sistema terroristico che sfrutta e uccide; tutti i Paesi del pianeta ne sono parte organica, sebbene a vario titolo e con diverso peso specifico. Anche il concetto di Imperialismo va benissimo per orientarci nel caos: grandi e piccoli imperialismi si contendono la torta del Potere (economico e geopolitico); ognuno vuole la propria fetta, anche piccola, a volte piccolissima, e sono disposti a prenderla con tutti i mezzi a disposizione. E noi, i “civili”, siamo continuamente esposti alla fenomenologia di questa guerra sistemica, che a volte reclama vittime in carne ed ossa, in Siria come in Russia, in Turchia come in Francia. Come ho scritto qualche tempo fa, siamo tutti vittime e ostaggi del Sistema Mondiale del Terrore, o Capitalismo mondiale che dir si voglia.

«L’umanità è morta oggi in Siria», ha detto ieri Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia. La verità è che l’umanità muore tutti i santi giorni, ovunque nel mondo.

Ecco perché non ho bisogno di aspettare inchieste internazionali di qualche tipo (l’ONU non è che un «covo di briganti»), volte a stabilire chi ieri ha usato il gas nervino Sarin contro i civili siriani (come nell’agosto 2013: oltre 1500 morti), per schierarmi contro tutte le parti in conflitto: contro il macellaio/chimico di Damasco Bashar Assad (peraltro degno figlio di cotanto padre) e i suoi alleati, Russia e Iran in primis (con la Cina che non gli fa mancare il suo sostegno politico); e contro chi lo combatte con gli stessi mezzi non certo per far trionfare la causa della libertà, della giustizia e dei “diritti umani”, bensì per i già menzionati interessi di potere, all’interno della Siria e in tutta la regione mediorientale. E qui chiamo in causa l’Unione Europea, gli Stati Uniti, la Turchia, l’Arabia Saudita. L’elenco è lungo, da una parte e dall’altra, e qualche Paese può dunque essermi sfuggito. Tuttavia non commetterò il grave errore di non citare l’Italia tra le piccole/medie potenze regionali da sempre interessate a raccogliere bottino in Nord’Africa (vedi Libia) e in Medio Oriente.

Quella che va in scena ormai da sei anni in Siria non è «una guerra sporca», come dicono taluni sinistrorsi che si nascondono dietro la complessità geopolitica del conflitto forse perché si vergognano di sostenere apertamente il regime di Assad e i Paesi che lo puntellano (per quanto tempo ancora?); si tratta invece, e mi scuso per la ripetizione, di una guerra per il Potere, un Potere che si “declina” nei tradizionali termini capitalistici. Punto. Su un’analisi più dettagliata del conflitto siriano rimando ai tanti post pubblicati sul Blog – e raccolti nel PDF La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.

Scrive su Repubblica Vittorio Zucconi, dopo aver denunciato il prepotente ritorno alla moda della «“Realpolitik” cara ai Kissinger e ai Nixon (e nel nostro piccolo agli Andreotti)»: «Sulle doppie rovine della dottrina del “cambio di regime” cara a Bush e poi della “primavera araba” coltivata da Obama e da Hillary Clinton, si rialza trionfante il cinico realismo». Ma cinico – cioè disumano – è il Sistema Mondiale del Terrore in quanto tale, e lo è stato sempre, anche quando andava di moda la geopolitica cosiddetta “idealista” che tanto piace a Zucconi e ai suoi amici progressisti.

Confesso a chi legge queste modeste riflessioni che ciò che oggi mi irrita è soprattutto la consapevolezza che la mia “denuncia” non salverà un solo bambino, un solo vecchio, una sola donna, un solo uomo, in Siria e altrove. Dare voce all’impotenza delle classi subalterne non è certo gratificante.

PER UN “CONTROTUTTISMO” DI CLASSE ATTIVO E OPERANTE

donne-siria-1L’attentato di Capodanno a Istanbul e le bombe che hanno accompagnato la visita di Hollande a Baghdad non sono che gli ultimi episodi della guerra totale che ormai da molto tempo il Sistema mondiale del terrore ha dichiarato a tutta l’umanità. Anche la strage ai mercatini natalizi di Berlino si colloca in questo funesto scenario di guerra – “convenzionale” e “non-convenzionale”: una distinzione che non ha alcun significato per le vittime e per le potenziali vittime, ossia per tutti noi.

«Agire contro il terrorismo in Iraq – ha dichiarato Hollande – serve anche a prevenire degli atti di terrorismo contro il nostro territorio. Tutto quello che contribuisce alla ricostruzione in Iraq, rappresenta una condizione aggiuntiva per evitare che da parte di Daesh possano essere condotte azioni sul nostro territorio». La verità è che le vittime francesi del terrorismo islamico pagano la politica imperialista della Francia in Medio Oriente e in Africa. Mutatis mutandis questa affermazione vale naturalmente per tutti i Paesi del mondo (Italia compresa) che con la loro politica estera e il loro attivismo economico mettono a repentaglio la vita dei loro cittadini, i quali sono presi in ostaggio da interessi (economici e geopolitici) che non hanno alcun rispetto né per la vita umana né per i cosiddetti “diritti umani”. La popolazione turca, ad esempio, oggi paga con il sangue e con il terrore la fin troppo ambiziosa e “ambigua” politica interna ed estera del Presidente Erdogan, il quale negli ultimi tempi si è messo a recitare troppe parti in commedia, credendo di poter trarre profitto da un quadro internazionale in forte evoluzione (1).

Con ciò intendo forse dire che il terrorismo di matrice islamista – o qualsiasi altro tipo di terrorismo – ha una natura, anche solo “oggettivamente”, antimperialista? Questo possono supporlo solo gli sciocchi o chi non immagina altra politica che non sia quella di servire una delle parti in lotta: «O stai con lo Stato o stai con i terroristi». Nemmeno per idea! Personalmente lotto, nei limiti delle mie possibilità e capacità, contro tutti gli attori della «Terza guerra mondiale combattuta a pezzetti», la quale ha come sue vittime privilegiate proprio i civili. Ma questa maligna caratteristica non è nemmeno una novità assoluta, se riflettiamo bene.

Come capita almeno dalla Guerra di Spagna degli anni Trenta del secolo scorso in poi, le prime vittime del Sistema mondiale del terrore non sono i militari organizzati negli eserciti, ma la popolazione inerme ammassata nelle grandi città. Gli Stati pianificano lo sterminio della popolazione civile per costringere il nemico alla resa incondizionata o quantomeno a venire, come si dice, a più miti consigli. Esiste un solo fronte di guerra, e la distinzione tra militari e civili non ha più senso. Com’è noto, nel 1943 Stalin si oppose all’evacuazione della popolazione civile da Stalingrado per costringere l’Armata Russa (altro che rossa!) a non indietreggiare di un solo millimetro, peraltro lo stesso ordine che, dall’altra parte della barricata, l’esercito tedesco ricevette da Hitler: militari e civili, uomini e donne, vecchi e bambini: tutti furono costretti a dare il loro “prezioso contributo” alla causa della “grande guerra patriottica”. Poi sarà il leader nazista (e, non dimentichiamolo, ex alleato di ferro del leader sovietico ai tempi del noto Patto sottoscritto nel 1939) a opporsi nel 1945, a guerra ormai strapersa, all’evacuazione della terrorizzata e affamata popolazione di Berlino, presa in ostaggio nel tentativo disperato di vendere cara la pelle del regime e magari strappare ai nemici condizioni di resa un po’ meno disastrose per la Germania. Insomma, nella guerra moderna la popolazione civile è presa in ostaggio da tutti gli eserciti, ed è usata come “scudo umano” soprattutto dagli eserciti che rischiano di cadere in disgrazia. Sotto questo aspetto, la battaglia di Aleppo è stata davvero emblematica.

Ho accennato alla famigerata battaglia di Stalingrado anche perché è stato il macellaio di Damasco Bashar al Assad, e sulla sua scia non pochi “antimperialisti” (in realtà non più che antiamericani e anti israeliani di vecchissimo e di nuovo conio) basati in Occidente, a porre per primo, in chiave propagandistica, l’analogia tra quella battaglia e la tragedia di Aleppo. Anche il patetico Staffan De Mistura, l’inviato dell’Onu per la Siria dal luglio 2014, parlò qualche mese fa di Aleppo come della «Stalingrado siriana»: «chi vince lì fa pendere la bilancia dalla sua parte»; di qui il carattere particolarmente micidiale che il conflitto siriano ha assunto in quella martoriata città, ridotta a un ammasso di case sventrate, a una mortifera trappola che tiene sotto sequestro migliaia di vecchi di donne e di bambini, prezioso materiale biologico da offrire in sacrificio al Moloch. Ma su questi fatti si riflette nelle pagine che il lettore avrà la bontà di leggere.

Anche sulla definizione di Sistema mondiale del terrore, concetto elaborato con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità), rimando ai post dedicati al tema che il lettore trova in questo PDF, nel quale ho raccolto una parte degli articoli che ho pubblicato negli ultimi sei anni sulla guerra in Siria, sulle cosiddette Primavere Arabe, sulla Questione Mediorientale in generale e sulla cosiddetta radicalizzazione islamista. Gli articoli scelti seguono un ordine cronologico, così che il lettore possa farsi almeno un’idea circa l’evoluzione della situazione “sul campo” e sul dibattito politico-teorico che l’ha accompagnata. Non ho fatto nessun lavoro di revisione dei testi; spero che la ripetizione di argomenti, di concetti e di singole frasi non disturbi oltremodo la pazienza del lettore.

Nel 2011 iniziava in Siria quella che molti hanno definito una «rivoluzione aconfessionale, portata avanti da una parte della società siriana, che reclama libertà, dignità e pari diritti. Una rivoluzione sulla quale si è abbattuta una forte repressione da parte del regime siriano». Così scrive ad esempio Shady Hamadi, attivista per i diritti umani, come egli si definisce, nonché estimatore di Antonio Gramsci e autore di Esilio dalla Siria (ADD Editore, 2016), un breve saggio che ho letto la scorsa settimana. Come il lettore avrà modo di appurare compulsando lo scritto che ha sotto gli occhi, chi scrive non solo non ha mai definito le Primavere Arabe nei termini di eventi rivoluzionari, ma come ha piuttosto cercato di criticare le interpretazioni “rivoluzionarie” delle scosse telluriche che hanno scosso, e che continuano a scuotere, le società mediorientali (2).

Proprio in questi giorni ho riletto quanto ebbe a scrivere Marx nel 1856 a proposito dei moti rivoluzionari del 1848: «Le cosiddette rivoluzioni del 1848 non furono che meschini episodi – piccole rotture e lacerazioni nella dura crosta della società europea». Il lapidario giudizio marxiano, espresso intorno a un eccezionale periodo storico che fece epoca, mi ha fatto subito pensare alla pochezza sociale e intellettuale dei nostri tempi, quando la parola magica “rivoluzione” è usata a destra e a manca per designare ogni sorta di evento. Non c’è nuovo modello di iPhone o di automobile che dal marketing non sia definito “rivoluzionario” rispetto ai precedenti modelli (prodotti solo pochi mesi, o giorni, prima); non c’è starnuto del processo sociale che potenzialmente non meriti di finire nella rubrica degli “eventi rivoluzioni”. Viviamo in una vera e propria inflazione “rivoluzionaria”. Centosessanta anni fa Marx poté, per così dire, permettersi il lusso di parlare del grandioso 1848 nei termini di «cosiddette rivoluzioni» e di «meschini episodi»: che invidia! Chiudo questa breve parentesi “storica” citando i passi di una canzone di Franco Battiato: «L’ayatollah Khomeini per molti è santità. Abbocchi sempre all’amo. Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso» (Up Patriots To Arms). Di qui, mi permetto di chiosare, la necessità di farsi classe autonoma dei dominati di tutto il mondo, il cui disagio sociale e la cui rabbia oggi vengono facilmente usati dalle forze della conservazione sociale per supportare interessi di vario genere: economici, politici, geopolitici, ideologici.

Ovviamente con ciò non voglio in alcun modo dar credito alla tesi di chi ha voluto vedere nelle ormai declassate Primavere Arabe solo un complotto ordito dal cattivo Occidente per spazzare via regimi che opponevano una certa resistenza all’omologazione neoliberista necessaria al processo di globalizzazione capitalistica. Nel suo libro Hamadi, nato a Milano nel 1988 da mamma italiana e padre siriano, dimostra come a proposito del macello siriano la tesi del complotto internazionale teso a distruggere l’ultima Repubblica Araba rimasta indipendente dalle Potenze regionali e mondiali, come recita il format propagandistico del regime siriano ripreso da non pochi “antimperialisti” italiani, non abbia alcun fondamento, come peraltro confermano gli ultimi avvenimenti. «Si vocifera di una futura ridefinizione della Siria in chiave federale, cosa che verrà fatta attraverso una riforma costituzionale dopo nuove elezioni, ma appare evidente che le potenze vincitrici, cioè Russia, Iran e ora la Turchia, avranno nel quadro siriano rispettive zone di influenza. Oltre a loro sarà da vedere cosa otterranno i curdi siriani dell’Ypg, perennemente osteggiati dalla Turchia ma autori di importanti vittorie, ad esempio a Kobane (hanno combattuto anche con i regolari ad Aleppo), e gli Hezbollah libanesi. Sconfitti – è inutile girarci in torno – gli occidentali, che contavano di subentrare alla zona di influenza russa, e le monarchie del Golfo, le quali hanno sovrapposto alla crisi un’infinità di assurde guerre a cominciare da quella confessionale tra sciiti e sunniti e quindi con l’Iran, per arrivare a quella tra Arabia Saudita (al-Qaeda) e Qatar (Isis) per il predominio nel Medio Oriente» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 29 dicembre 2016). Scrivevo nell’ultimo post dedicato all’infernale situazione di Aleppo: «La sorte del regime siriano è completamente nelle mani della Russia e dell’Iran, e la cosa appare evidente soprattutto ad Assad, che infatti teme di essere sacrificato, prima o poi, sull’altare di un accordo tra la Russia di Putin e l’America di Trump (“l’equazione sconosciuta”, secondo la definizione di Le Figaro), magari con l’intesa dell’Iran e della Turchia. In ogni caso, alla “guerra di liberazione” del macellaio di Damasco possono dar credito solo certi inquietanti personaggi che animano l’escrementizio “campo antimperialista”». Personaggi che, infatti, oggi brindano con vodka e italianissimo spumante alla vittoria rigorosamente “antimperialista” della Russia e dell’Iran.

Leggo su un sito “antimperialista”: «Dopo il precedente libico era inimmaginabile che la Russia rimanesse nuovamente alla finestra assistendo alla perdita del suo unico punto d’appoggio navale nel mediterraneo (3), ed era altrettanto inimmaginabile un’inazione da parte dell’Iran di fronte alla possibile caduta della cosiddetta mezzaluna sciita e al suo relativo isolamento». Dal punto di vista strettamente geopolitico, ossia considerato dalla prospettiva degli interessi che fanno capo agli Stati (alle Potenze regionali e internazionali), il ragionamento non fa una piega. Ma da dove ricava l’antimperialista duro e puro la necessità di appoggiare gli interessi dell’imperialismo russo-iraniano contro gli interessi di altri imperialismi?  Certi “antimperialisti” non riescono nemmeno a concepire una posizione indipendente da parte dei dominati o, quantomeno, delle sue – quasi sempre supposte – avanguardie: o si sta con la Russia oppure con gli USA, con l’Iran oppure con l’Arabia Saudita, con l’Esercito regolare siriano o con quello irregolare dell’opposizione (4), con il macellaio di Damasco oppure con quello di Ankara, con gli hezbollah e i fondamentalisti sciiti oppure con la milizia del califfato e altra robaccia sunnita. La loro realpolitik deve sposare per forza la causa di un campo imperialista (nella fattispecie quello centrato sulla Russia e l’Iran) contro il campo avverso: non riescono a immaginare altra prassi politica “concreta”, in grado di “incidere”, e non solo di “testimoniare”. Peccato che quella di molti “antimperialisti” sia una concretezza tutta spesa sul terreno delle classi dominanti e dei loro Stati. Alla loro realpolitik ultrareazionaria contrappongo la testimonianza del punto di vista umano, oggi annichilito dallo strapotere del Sistema mondiale del terrore. Meglio l’urlo del disperato che l’ottimismo “rivoluzionario” affettato dalla sciocca mosca cocchiera.

Cito sempre dal blog “antimperialista” di cui sopra: «La guerra, è quasi banale sottolinearlo, è sempre atroce, e lo è ancor di più quando è combattuta fra civili che spesso vengono utilizzati da una parte o dall’altra come strumento di pressione o come scudi umani. Siamo convinti, come il Che, che essere capaci di sentire nel più profondo qualunque ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo sia una delle qualità più belle dei rivoluzionari. Se però si rimane esclusivamente nel campo delle emozioni, suscitate ad arte da chi oggi ne detiene il monopolio, il rischio che si corre è quello di restare eterne vittime di quel “terrorismo multimediale dell’indignazione” con cui l’opinione pubblica mondiale negli ultimi decenni è stata manipolata e piegata ad ogni avventura neocoloniale». Leggendo i passi appena riportati forse il lettore crederà di scorgervi  una lunghissima coda di paglia, peraltro sporca del sangue versato dalla popolazione siriana; personalmente non credo che chi pensa in quel modo sia capace di una qualche forma di dubbio autocritico, ancorché celato da pose di dura e pura militanza “rivoluzionaria”. È poi notevole, oltre che caratteristico, il fatto che taluni “antimperialisti” individuino «avventure neocoloniali» solo da un lato dell’Imperialismo unitario (5): il solito! Ricordo come durante l’occupazione russa dell’Afghanistan gli “antimperialisti” di allora negassero in ogni modo che si potesse individuare un fondamento comune nelle politiche estere dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti d’America, e in ogni caso nulla che avesse a che fare con il concetto di Imperialismo, il quale calzava a pennello solo alla politica estera e alla prassi economica degli USA. Eppure già Lenin, ad esempio nella sua celebre opera Lo sviluppo del capitalismo in Russia, scritta tra il 1896 e il 1898, notò come la direttrice espansiva che dal Caucaso si irradiava verso l’Asia Centrale e il Golfo Persico offrisse al giovane Capitalismo russo un vasto e “naturale” territorio da colonizzare (6). Ma lasciamo il “cielo della teoria” e veniamo a questioni politicamente più “concrete”.

Finisco la precedente citazione: «E se queste sono le alternative in campo, anche il né-né-ismo di alcuni compagni rischia di suonare un po’ pilatesco».  Come se la sola scelta possibile fosse tra il leccare il sedere a questo o a quell’imperialismo (a me il sedere di tutti gli imperialisti, grandi o piccoli che siano, dà il voltastomaco!) e una posizione di indifferente neutralità. A certi “antimperialisti” piace vincere facile, e così essi scelgono gli avversari politici che più fa loro comodo, che meglio fa risaltare la loro caratura “rivoluzionaria”. Alla miserabile politica filo-imperialista di simili “antimperialisti” e al «né-né-ismo di alcuni compagni», io oppongo il controtuttismo di chi fa di tutti gli imperialismi, di tutti gli Stati nazionali e di tutti i loro servitori (inclusi quelli che affettano pose “antimperialiste”) un solo disumano fascio meritevole di andare a fuoco.

Nel suo libro Shady Hamadi ricostruisce la genesi della guerra siriana, connettendola con la storia passata e recente della Siria e del Medio Oriente, in modo da collocare correttamente sul piano storico-sociale il regime istallatosi nel Paese con il colpo di Stato del 19 ottobre 1970; e dimostra anche come sia stato il regime di Damasco a cercare scientemente la radicalizzazione dello scontro politico-sociale in chiave di settarismo religioso per catturare il consenso della minoranza alawita che lo sostiene (7), per annegare nel sangue ogni forma di dissenso e per accreditarsi agli occhi dell’opinione pubblica internazionale come l’unico vero nemico del fondamentalismo islamico, nonché come uno statista interessato a realizzare una società laica e rispettosa di tutte le religioni. E ha fatto ciò con grande spregiudicatezza, ad esempio lasciando mano libera in molte occasioni alla milizia del Califfato Nero, in modo che essa terrorizzasse la popolazione sciita costringendola a trovare protezione sotto le ali del regime, che l’ha prontamente usata contro la popolazione sunnita che sosteneva l’opposizione al regime, accusata dalla propaganda orchestrata da Assad di voler fare della Siria un Califfato sunnita che avrebbe cancellato ogni traccia della presenza alawita.

I limiti “progressisti” di Hamadi vengono fuori soprattutto quando si tratta di «individuare le vittime e colpire i colpevoli». Le vittime si possono facilmente individuare: per farlo è sufficiente guardare le case sventrate di Aleppo e di altre città in Siria, in Iraq nello Yemen e altrove. Per ciò che concerne i «colpevoli» da colpire la cosa diventa meno scontata. Hamadi, ad esempio, tra i colpevoli mette solo i protagonisti di uno schieramento: il regime siriano, la Russia di Putin, l’Iran e la galassia sciita. Secondo lui l’imperialismo americano e quello europeo sarebbero, se solo lo volessero, i veri alleati del popolo siriano in lotta per la pace e per la libertà, e per questo si augura «una lotta contro l’indifferenza», come recita il sottotitolo del suo libro. In tutto ciò, «L’Italia ha un ruolo culturale molto potente. Rispetto a un tedesco, per esempio, nel mondo arabo l’italiano è visto come più vicino alla sua identità e alla sua storia. Abbiamo quindi una possibilità di dialogo maggiore con gli arabi. Anche a livello geografico siamo vicinissimi a loro e dovremo essere noi i primi a portare le istanze arabe all’Unione Europea» (8). La geopolitica dell’Italia, potenza imperialista regionale tutt’altro che stracciona, non poteva trovare migliore sintesi – e mistificazione: l’Italia come benevola potenza culturale. Sic!

Per quanto riguarda la fenomenologia ideologica della guerra che scuote il Medio Oriente e una parte dell’Africa, è qui appena il caso di ricordare che non raramente, e anzi piuttosto frequentemente, la lotta tra le varie fazioni di potere ha preso in diverse parti del mondo l’aspetto dello scontro settario confessionale. Checché ne dicano Angelo Panebianco e Giuliano Ferrara, forse fra i più attivi nella “battaglia culturale” anti-islamista, non è partendo dalla questione religiosa, e nemmeno ponendola al centro dell’analisi, che possiamo dare un senso storico e sociale al groviglio di questioni che danno corpo ai violenti fenomeni che squassano il tessuto sociale dei Paesi musulmani, e che noi occidentali avvertiamo per adesso in forma assai attenuata. Scrive Panebianco: «Se si nega alla lotta armata dei jihadisti carattere religioso, se si sostiene che in quel caso la religione è un pretesto (che nasconde gli interessi materiali in gioco), una specie di “sovrastruttura”, di “oppio dei popoli”, non ci si avvede che un simile ragionamento potrebbe essere esteso logicamente fino a ricomprendere le scelte religiose di chiunque, cristiani inclusi» (Corriere della Sera, 3 gennaio 2017). Ciò consente al prestigioso intellettuale di toccare un tema centrale nella “battaglia culturale” tesa a difendere i valori della Civiltà occidentale, quello della sua «secolarizzazione/scristianizzazione»: «Fra tutte le aree del mondo l’Europa è quella in cui il processo di secolarizzazione (la scomparsa del sacro dalla vita individuale e collettiva) ha raggiunto i massimi livelli: nella sua parte protestante come in quella cattolica (e il fatto non è contraddetto dalla popolarità di cui gode anche fra i non credenti, anche fra tanti atei dichiarati, l’attuale Pontefice). Contrariamente a quanto immaginavano gli illuministi (quelli francesi, non quelli anglosassoni), la scristianizzazione non ha eliminato la “superstizione”, non ha reso gli europei “più razionali”. Ha invece aperto la strada a varie forme di regressione culturale. Per citare solo la più impressionante: sono ormai legioni coloro che pensano seriamente che non ci siano differenze fra uomini e animali (domestici e non). È arduo, per una società siffatta, accettare l’idea che ci sia gente disposta a uccidere e a farsi uccidere in nome di un credo religioso. La secolarizzazione/scristianizzazione porta con sé l’impossibilità di capire un fenomeno del genere». Detto in estrema – e forse volgare – sintesi, l’Occidente sente di non avere più valori per la cui difesa si può anche accettare l’idea dell’estremo e definitivo sacrificio; noi subiamo un irreparabile shock esistenziale se per una tragica fatalità mettiamo sotto le ruote della nostra auto un gattino, mentre il nemico jihadista va incontro alla propria morte col sorriso sulle labbra: come possiamo sperare di batterlo? Probabilmente sono considerazioni di questo genere che spingono diversi intellettuali occidentali di opposto orientamento politico a simpatizzare per il virile Putin, la cui “maschia” politica di potenza sembra almeno rispondere a canoni semplici e riconoscibili.

Naturalmente Panebianco non è così stupido da negare il peso degli «interessi materiali in gioco», perché «nel Medio Oriente attuale, divisioni religiose (ad esempio, fra sunniti e sciiti), divisioni nazionali (ad esempio, fra turchi e curdi), logica di potenza e interessi economici (petrolio e altro), interagiscono, dando luogo a un intricatissimo mosaico. Religione e “interessi” non si escludono mai a vicenda. Gli esseri umani sono complicati. Anche quando pensano “all’Al di là” non smettono, per lo più, di ricercare vantaggi nell’al di qua». Non c’è dubbio; anche se ricorrere al concetto di “essere umani complicati” mi sembra quantomeno riduttivo, diciamo. Forse il concetto chiave idoneo a districare l’intricata matassa potrebbe essere quello di processo sociale capitalistico, un processo storico-sociale che va approcciato nella sua totalità (economia, politica, ideologia, scienza, psicologia) e nella sua dimensione planetaria. Anche su questi temi si riflette nel presente PDF. Ha detto qualche tempo fa il Santissimo Padre: «Quando parlo di guerra, parlo di guerra sul serio, non di guerre di religione». Ecco, spero che il mio sforzo di analisi e di critica sia quantomeno all’altezza della considerazione francescana. Buona lettura!

(1) «La Turchia di oggi è il risultato di questo groviglio di scelte, ed è un campo corso da tante guerre. Compresa la guerra di un terrorismo islamista che non è l’importazione dell’Isis ma si nutre della rabbia interna contro il “tradimento” di Erdogan. Che cosa vada preparando a se stessa la Turchia di Erdogan è ora impossibile prevedere. Si è spinta troppo oltre per riprendere il filo della conciliazione coi suoi curdi nella prospettiva del riconoscimento di un’autonomia federale e di una apertura culturale, che tuttavia sarebbe ancora il primo bandolo dal quale ricominciare la risalita dalla violenza senza tregua. Avrebbe dovuto essere anche l’impegno principale dell’Unione Europea nei confronti di Erdogan, quando era il momento, e quando invece la signora Merkel andò rovinosamente a rendere visita a Erdogan alla vigilia delle elezioni anticipate preparate dalla repressione e dal terrore. Ora, se nessuna intelligenza diversa saprà farsi viva, la Turchia oscilla fra un Erdogan risoluto a durare al costo di una repressione sempre più feroce e arbitraria, e un destino “siriano” di bande armate e burattinai esterni. Destino cui sono legate a doppio filo Europa e Nato» (A. Sofri, Il Foglio, 3/1/2017). Sofri è uno di quegli intellettuali a cui piace un più intelligente e più umano assetto della società capitalistica mondiale, o quantomeno occidentale. A volte mi chiedo se sono più utopista io o certi personaggi orientati in senso progressista e umanitario. Di certo il destino dell’Europa e della Nato non è qualcosa che possa turbare i miei sogni. Diciamo.

(2) «Prima di ogni considerazione è utile dire cosa non è rivoluzione. Negli ultimi anni, con mezza umma in fiamme e presidenti più o meno dispotici rovesciati dalle piazze rabbiose, “rivoluzione” era parola che entrava – al pari di “primavera” – perfino nelle conversazioni serali, a cena. In realtà, spiega Prodi nella premessa al saggio [Il tramonto della rivoluzione, Il Mulino, 2015], “tali fenomeni non solo non hanno niente a che fare con le rivoluzioni, ma ne sono spesso il contrario”. Illusione collettiva, dunque. Basterebbe, d’altronde, riprendere quanto scriveva Ivan Kratsev, che in poche righe aveva smontato per tempo quelle che l’autore definisce “le analisi boriose degli specialisti”. Osservava infatti Kratsev che “l’ondata di proteste non ha segnato il ritorno della rivoluzione: le proteste, come le elezioni, servono piuttosto a tenere il più lontano possibile la rivoluzione e le sue promesse di un futuro radicalmente diverso”» (M. Matzuzzi, Il Foglio, 25/05/2015). Rinvio ai diversi post dedicati alla questione.
(3) Mosca torna prepotentemente ad occuparsi del Medio Oriente e dei suoi interessi regionali. E lo fa schierando una dozzina di navi da guerra nei pressi della sua unica base navale estera, quella siriana di Tartus. Bastimenti “sottratti” alla Flotta russa del Mar Nero, del Baltico e del Pacifico, questi per la prima volta nel Mare Nostrum dopo oltre vent’anni di assenza. […] Era il 31 dicembre 1992, esattamente un anno dopo la deflagrazione dell’Urss, quando Mosca decise di smantellare la sua 5ª Flotta, lo squadrone di decine e decine di navi da guerra presenti nel Mediterraneo. Oggi, dopo oltre vent’anni, eccole di nuovo. In numero inferiore, ma ugualmente pronte a difendere gli interessi della Russia e i suoi alleati» (M D. Bonis, Limes, 22/05/2013). «Paradossalmente la Russia è un Paese debole, un colosso dai piedi d’argilla dalle infrastrutture obsolete, il suo Pil è inferiore a quello dell’Italia, dipende dalle esportazioni di greggio e gas. Però Putin e Lavrov hanno saputo giocare benissimo a loro favore le debolezze occidentali. Ora godono della luna di miele con Trump, si permettono una fuga in avanti per dettare nuove regole del gioco prima che questi prenda davvero in mano le redini della politica Usa». È la fine della nato? «No, non lo credo. Putin ha il fiato corto: vince sullo scatto, però non tiene nella resistenza. Le sue sono vittorie di breve periodo. Trump lo sostiene per motivi tattici. Ma è anche un pragmatico e gli Stati Uniti sono infinitamente più forti» (Intervista a Gilles Kepel, Il Corriere della Sera, 29/12/2016).
Intanto, non pochi sovranisti italioti di “destra” e di “sinistra” si godono la spettacolare «luna di miele» tra la strana coppia. Fin che dura…
(4) Scrivevo nel 2012: «Il cosiddetto Esercito Siriano Libero è foraggiato finanziariamente e militarmente soprattutto dalla Turchia e dall’Arabia Saudita, che giocano, come sempre, una doppia partita: una per conto dell’Occidente (Stati Uniti, in primis) e una per proprio conto, per conseguire obiettivi economici e politici fin troppo evidenti, e che hanno nell’Iran il loro punto di snodo più delicato. La dialettica fra sciismo e sunnismo ha senso solo se inquadrata all’interno di questo schema. Insomma, analogamente alla cosiddetta Primavera Araba, la guerra che si combatte oggi in Siria ha un segno interamente negativo per le masse subalterne di quel Paese, come per le masse arabe in generale, le quali versano sangue – e patiscono fame e oppressione – per conto di forze, nazionali e transnazionali, che sono nemiche dell’umanità e della libertà. In questo scontro esse non hanno nulla da guadagnare, mentre rischiano tutti i giorni di perdere anche la “nuda vita”. Ecco cosa accade alla massa degli sfruttati quando non hanno la coscienza e la forza di porsi come classe, ossia come un soggetto attivo di storia, e non come strumenti passivi di una storia scritta, con l’inchiostro rosso-sangue, dalle classi dominanti, non raramente divise in fazioni che si disputano il controllo di un Paese o di un’area geopolitica» (Cosa ci dice la Siria).
(5) Quando parlo di Imperialismo unitario (non unico!) intendo riferirmi al sistema mondiale dell’imperialismo, o, detto in altri e più “dinamici” termini, alla competizione capitalistico-imperialista per il potere (economico, scientifico, tecnologico, ideologico, militare, in una sola parola: sociale) che nel XXI secolo vede la partecipazione agonistica di alleanze politico-militari grandi e piccole, internazionali e regionali, di Paesi grandi e piccoli, di multinazionali grandi e piccole, di aree continentali in reciproca competizione sistemica, di gruppi politici ed economici anche “non convenzionali”, ossia non riconducibili immediatamente agli Stati nazionali e alle istituzioni economico-finanziarie “tradizionali”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, assai significativi mi appaiono i passi che seguono tratti dal saggio La funzione rivoluzionaria del diritto e lo stato scritto dal bolscevico Pëtr Ivanovic Stučka nel 1921: «Circa la sfera che il diritto abbraccia si ritiene che l’obiezione più pericolosa [al punto di vista classista-rivoluzionario] sia quella relativa al diritto internazionale. Vedremo però che il diritto internazionale – in quanto è in generale diritto – è pienamente conforme alla nostra definizione; e su ciò l’imperialismo contemporaneo, e particolarmente la guerra mondiale e le sue conseguenze, ha fatto aprire gli occhi a tutti. Noi parliamo infatti di un’autorità organizzata da una classe, senza denominarla Stato, proprio per abbracciare una sfera giuridica più larga» (in Teorie sovietiche del diritto, pp. 16-17, Giuffrè, 1964). In ogni caso, Imperialismo unitario e Sistema mondiale del terrore sono espressioni di una stessa realtà, concettualizzazioni di una stessa cosa, se non lo stesso concetto rubricato in due modi diversi.
(6) «L’importante è che il capitalismo non può esistere e svilupparsi senza estendere continuamente la sfera del suo dominio, senza colonizzare nuovi paesi e trascinare i vecchi paesi non capitalistici nel turbine dell’economia mondiale. E questa particolarità del capitalismo si è manifestata e continua a manifestarsi con grandissima forza nella Russia» (Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Opere, III, p. 599, Editori Riuniti, 1956). In un certo senso l’intervento dell’imperialismo “sovietico” in Afghanistan rappresentò per questo Paese un’occasione di modernizzazione capitalistica che veniva a intaccare i vecchi equilibri di potere. I limiti del Capitalismo russo, assai arretrato se confrontato con quello americano ed europeo, spiegano in larga parte la grave sconfitta dell’impresa russa in Afghanistan che accelererà il processo di disgregazione dell’Unione Sovietica. Anche la Russia di Putin deve confrontarsi con la debolezza strutturale del Capitalismo russo.
(7) «Le fortune sociali degli alawiti cominciano sommessamente, sotto il Mandato francese sulla Siria negli anni Venti e Trenta del secolo scorso. Dopo la grande rivolta siriana del 1925, la Francia cerca di riprendere in mano la situazione e recluta tra gli alawiti – disprezzati dal resto dei siriani – un corpo di fedeli caporali e sottoufficiali. Il Peso degli alawiti crescerà molto lentamente all’interno delle forze armate e prenderà corpo solo con la formazione del Partito socialista della resurrezione panaraba (Baas). […] Hafez Al Assad da pilota si fa strada fino ai vertici militari come generale di aviazione. Per poi diventare ministro della Difesa nella seconda metà degli anni Sessanta. […] Hafez Al Assad, pur essendo un fido alleato già allora dell’Urss di Nikita Khrusciov e Leonid Breznev, si trovò ben presto in rotta di collisione con le correnti più estremiste e collettiviste perché cercava un compromesso con la borghesia mercantile damascena e aleppina, (che quindi non data dall’altro giorno) e con le comunità religiose non musulmane, come le diverse confessioni cristiane fortemente presenti nelle professioni liberali e tecniche oltreché nel commercio. L’ascesa ai vertici dello Stato e della Repubblica data dall’autunno del 1970. [… ] L’ascesa ai vertici di Assad padre e zio, poi in acerba lite tra loro, ha condotto nel corso di oltre un quarantennio a una forte penetrazione della minoranza alawita (tra il 12-15%) della popolazione – ma le stime vanno prese con beneficio d’inventario – nelle forze armate e negli apparati vitali dello Stato. Ciò non significa che, per un quarantennio, il clan degli Assad abbia potuto reggersi unicamente sugli alawiti o su altre minoranze religiose, senza il consenso di importanti settori sociali emanazione della maggioranza religiosa sunnita. La rivolta degli ultimi 11 mesi sta però a dimostrare che questo consenso si è largamente infranto» (P. Somaini, Linkiesta, 12/02/2012).
(8) Intervista rilasciata da Shady Hamadi a Wereporter.

C’È ANCORA QUALCOSA DA BOMBARDARE AD ALEPPO?

18-1-600x400«Qui giace Aleppo», scriveva ieri Libération, nella sua ennesima denuncia della pavidità esibita in questi anni dall’Occidente democratico, nonché inventore dei «diritti umani», nei confronti del ben più assertivo e spregiudicato Putin – che proprio ieri è stato scelto da Forbes, per il quarto anno consecutivo, come persona più potente del mondo: «Dal suo Paese, fino in Siria, passando per le elezioni americane, Putin continua a ottenere quello che vuole». Che soddisfazione per i tanti figli di Putin italiani che stravedono per il virile Vladimir, il quale sempre ieri ha ricevuto dal regime iraniano le «vivissime congratulazioni» per i successi militari russi mietuti a Palmira e ad Aleppo.

Aleppo come Grozny? Forse anche peggio, magari solo per confermare la macabra – ma quanto veritiera! – tesi secondo la quale il peggio non conosce misura. Aleppo. Una città che ha (o forse dovrei scrivere aveva) alle spalle una lunghissima storia; la città che fino al 2011 era considerata la capitale economica della Siria. Oggi di quella città non rimane che un cimitero di uomini e un deserto di edifici sventrati. La guerra di sterminio (o di “pulizia” politica, etnica e religiosa) organizzata e portata avanti con inaudita ferocia da Bashar al-Assad, con il decisivo apporto della Russia putiniana, dell’Iran e dei miliziani libanesi di holzebollha, sembra volgere al termine. Infatti, è rimasto ben poco da bombardare, da catturare, da fucilare, da torturare. «Ancora tre settimane fa», scriveva ieri Lorenzo Cremonesi sul Corriere della Sera, «si parlava di 250.000 persone intrappolate nelle zone orientali. Ora sono ridotte forse a 50.000. Gli altri sono nelle mani del regime e tutto ciò inquieta, fa paura. Per molti aspetti una tragedia annunciata. Già all’inizio delle rivolte contro il regime nella primavera 2011 le manifestazioni pacifiche furono represse nel sangue con violenza inaudita e sproporzionata. Mosca e Damasco li chiamano “terroristi”. Ma sono di civili le grida di aiuto che giungono da Aleppo. “Ci massacrano. Aiutateci! Gli sciiti di Hezbollah e i miliziani di Assad selezionano gli uomini quando si arrendono con le loro famiglie. Li prendono, li picchiano e poi spariscono. Non sappiamo più nulla di loro. Ma sentiamo spari, tanti spari. Che li stiano già fucilando?”, ci diceva via Skype dal quartiere circondato di Salaheddin tre giorni fa Ismail Alabdullah, noto Casco Bianco (come vengono chiamate le squadre di soccorso che cercano i sopravvissuti tra le macerie). “Non so se potrò parlare ancora. Ci stanno bombardando”, diceva a sera tarda domenica. Ora il suo numero tace». Speriamo che sia solo «il suo numero» a tacere. Ma l’ottimismo qui ha davvero poco senso.

«Il dramma di Aleppo – scrive Alberto Negri sul Sole 24 Ore di oggi – è che i guerriglieri di Al Nusra tengono in ostaggio i civili e non intendono arrendersi alle condizioni del regime di Damasco. A loro volta le truppe di Assad non esitano a bombardare a tutto spiano anche i civili. Gli iraniani non vogliono mollare i jihadisti di Aleppo se non in cambio della fine dell’assedio degli sciiti di Fuaa e Kefraya nell’area di Idlib. La Russia e la Turchia (che con l’Iran si troveranno a Mosca il 27 dicembre)  fanno finta di negoziare per salvare la faccia: Putin non vuole passare come il macellaio di Aleppo ed Erdogan deve farsi perdonare di avere mollato i jihadisti che ha sostenuto fino a ieri contro Assad prendendo i soldi dalle monarchie del Golfo. Gli Stati Uniti […] hanno molto da nascondere e poco da dire di fronte alla sconfitta. Quasi ne uccide più l’ipocrisia che le bombe». Più che di ipocrisia io parlerei, più realisticamente e al di là dei soliti infantili piagnistei sui «grandi della Terra che non riescono a trovare un accordo per il bene della pace e dell’umanità» (e la coscienza è soddisfatta!), di guerra per il potere – politico, militare, economico, ideologico. E questo vale per tutti i protagonisti della carneficina, i quali da anni tengono in ostaggio il popolo inerme di Aleppo e dell’intera Siria. Analogo discorso ovviamente vale per la guerra nello Yemen. Un conto è il linguaggio della guerra, che dice sempre la verità (basta intenderla); un conto affatto diverso è il linguaggio della propaganda di chi difende e ricerca il potere per mezzo della guerra. Tutto il resto è… ipocrisia.

Il regime di Assad ha – per adesso, in attesa di una futura “soluzione diplomatica” del conflitto – salvato la pelle. «La vittoria del regime su Aleppo sarebbe un duro colpo per l’opposizione: Damasco avrebbe così il controllo delle quattro maggiori città del paese. Tuttavia, questo avvenimento non segnerebbe la fine del conflitto civile, cominciato nel 2011. Resta dubbia la capacità delle forze governative di mantenere il controllo dei territori riconquistati, nonostante l’intervento russo abbia consentito ad Assad di cambiare le sorti del conflitto e guadagnare terreno» (The Post Internazionale). La sorte del regime siriano è completamente nelle mani della Russia e dell’Iran, e la cosa appare evidente soprattutto ad Assad, che infatti teme di essere sacrificato, prima o poi, sull’altare di un accordo tra la Russia di Putin e l’America di Trump («l’equazione sconosciuta», secondo la definizione di Le Figaro), magari con l’intesa dell’Iran e della Turchia. In ogni caso, alla «guerra di liberazione» del macellaio di Damasco possono dar credito solo certi inquietanti personaggi che animano l’escrementizio “campo antimperialista”.

«I presidenti di Russia e Turchia, Vladimir Putin e Recep Tayyip Erdogan, hanno discusso del conflitto in Siria e “in particolare dello sviluppo della situazione ad Aleppo” in una conversazione telefonica: lo ha riferito il Cremlino nella tarda serata di ieri, sottolineando che i due capi di Stato “hanno rimarcato la necessità di unire gli sforzi per migliorare la situazione umanitaria e facilitare il lancio di un vero processo politico in Siria”. Putin ed Erdogan hanno inoltre discusso della cooperazione tra Russia e Turchia, anche nel settore energetico» (ANSA). Insomma, la geopolitica e la geoeconomia macinano fatti, non si fermano davanti a niente e a nessuno, alla faccia di chi vede nell’inferno siriano (o yemenita) solo vecchi, bambini, uomini e donne affamati, assediati e uccisi: in guerra, per dirla con Diderot, «Di giusto, tutto sommato, basta avere la mira» (Il nipote di Rameau).

Non c’è dubbio, la Russia, l’Iran e il blocco sciita controllato da Teheran stanno portando a casa una bella vittoria sulla concorrenza geopolitica regionale e mondiale. I fascisti e gli stalinisti (camerati e compagni, ogni camuffamento “nuovista” è inutile dalle mie parti!) di casa nostra che negli ultimi cinque anni hanno sostenuto «la causa del Popolo siriano» (cioè, tradotto per chi non conosce il lessico del “Campo Antimperialista”, la causa del regime siriano) possono stappare con legittimo orgoglio qualche bottiglia di italianissimo spumante: quella vittoria – e il relativo bagno di sangue – è anche la loro vittoria. Gli si potrebbe obiettare che è facile “fare politica” con gli Stati e con gli eserciti – e che eserciti! – degli altri, ma bisogna pur concedere ai tifosi della squadra vincente qualche piccola soddisfazione.

Scriveva Lorenzo Declich lo scorso ottobre: «In questi ultimi tempi l’amore per Bashar al-Assad è riuscito ad allineare fascisti, alcuni comunisti, alcuni pacifisti, persino leghisti e – da ultimi – alcuni grillini. Ma com’è potuto succedere?». Non vorrei passare per quello che “la sa più lunga degli altri”, anche perché non è così, purtroppo; e tuttavia devo confessare che la cosa “paradossale” denunciata da Declich non mi sorprende affatto, tutt’altro. Come ho scritto negli ultimi post dedicati al cosiddetto populismo, gli estremi si toccano quando essi insistono sullo stesso piano – o terreno di classe, nella fattispecie. La metafora geometrica mi sembra abbastanza chiara. Fascisti e cosiddetti “comunisti” (in realtà si tratta di vetero o “post” stalinisti, gente che in ogni caso non ha nulla a che fare con l’autentico comunismo) condividono lo stesso terreno di classe (borghese/capitalista/imperialista), come sempre al netto di fraseologie “anticapitaliste” e “antimperialiste” che possono convincere solo qualche sprovveduto in materia di Capitalismo e di Imperialismo.

La tifoseria fascio-stalinista pro Assad e pro Putin, e lo stesso silenzio del cosiddetto Movimento Pacifista, così sensibile quando a bombardare e a massacrare in giro per il mondo sono stati gli Stati Uniti d’America, si spiegano benissimo con la tradizione antiamericana che nel nostro Paese è stata forte tanto a “destra” quanto – certo, soprattutto – a “sinistra”. Ancora prima della Seconda guerra mondiale molti fascisti, stalinisti e cattolici polemizzavano con lo stile di vita americano, e individuavano negli USA il cuore di quel demoniaco capitalismo «liberista-selvaggio» che ben presto avrebbe provocato il tramonto definitivo dei tradizionali valori prodotti dalla Civiltà europea. Mutatis mutandis, per certi personaggi siamo ancora a questo punto.

Per quanto riguarda l’attuale mutismo del “Movimento Pacifista”, mi limito a ricordare che è dagli anni Cinquanta che esso subisce la cattiva egemonia di partiti (a cominciare dal PCI di Togliatti) e di gruppi politici (la cosiddetta “estrema sinistra”) che nel pessimo mondo vedevano in opera un solo imperialismo – inutile specificare quale.

Scrive Marco Santopadre su Contropiano: «Ovviamente, al di là delle dichiarazioni di circostanza dei governi siriano e russo, sono numerosi i civili rimasti uccisi nelle ultime settimane sotto le bombe sganciate dai caccia o i colpi di mortaio sparati dai cosiddetti ribelli che hanno tentato di ritardare la loro sconfitta rifugiandosi negli edifici, nelle scuole, negli ospedali e nelle moschee. Quella siriana, d’altronde, è una guerra civile atroce, combattuta casa per casa, strada per strada. In una guerra del genere che coinvolge grandi città, non è pensabile che la popolazione civile non venga massicciamente colpita». Si sa, la «guerra civile» non è un pranzo di gala, «non è pensabile che la popolazione civile non venga massicciamente colpita»: cerchiamo di essere realisti! «Non posso andarmene da Aleppo perché faccio parte del personale medico e questo vuol dire che agli occhi del regime sono un terrorista», racconta un infermiere al quotidiano britannico The Guardian. È la «guerra civile», bellezza! E poi, perché rilasciare simili dichiarazioni a un quotidiano occidentale che fa parte del mainstream mediatico venduto ai poteri forti occidentali?

«Ma salta agli occhi», continua Santopadre, «la intollerabile partigianeria delle versioni diffuse dai media e dalle classi politiche occidentali. Se le conseguenze sui civili degli attacchi e dei bombardamenti su Aleppo o prima su altre città da parte delle truppe siriane o delle forze russe vengono fedelmente riportate e spesso anche amplificate, le vittime degli analoghi raid compiuti dai caccia statunitensi o francesi o britannici o dalle artiglierie turche vengono sistematicamente ignorate, e scompaiono dalle cronache. […] Se è vero che una parte della popolazione di Aleppo ha reagito con terrore e preoccupazione all’ingresso nei quartieri orientali delle truppe siriane e degli alleati russi, iraniani e libanesi, temendo ritorsioni per aver collaborato con i jihadisti o aver apertamente parteggiato per loro, è altrettanto vero che una parte consistente degli abitanti della seconda città del paese è scesa in strada a festeggiare la tanto attesa liberazione. Perché sostiene il regime, perché ritiene il regime il male minore rispetto al terrore jihadista, perché spera semplicemente che la Siria possa tornare presto alla normalità dopo anni di scontri feroci, di morti, di distruzioni. Ancora: è possibile dar credito alla versione secondo cui i bombardamenti russi su Aleppo causino sempre vittime tra i civili mentre quelli statunitensi su Mosul o Raqqa si limitino a eliminare, “chirurgicamente”, i capi di Daesh senza colpire coloro di cui i jihadisti si sono circondati per ritardare l’avanzata dei nemici?». In buona sostanza, secondo Santopadre per combattere la propaganda dei «media mainstream occidentali», che «occultano sistematicamente le notizie non conformi», bisogna prendere per buona la propaganda orchestrata dal regime siriano e dalla Russia (*). Come non inchinarsi dinanzi a questa stringente logica “antimperialista”? O si sta da una parte della «guerra civile», o si sta dall’altra: l’autonomia di classe non è nemmeno concepita in linea di principio. E ciò non mi stupisce affatto conoscendo certi polli.

Tra l’altro il nostro “antimperialista” non fa nemmeno un accenno al ruolo decisivo che il regime di Assad ha avuto all’inizio della crisi siriana deflagrata nel marzo del 2011, e «da subito tramutatasi in scontro armato indiretto tra un numero consistente di potenze locali e internazionali». Da subito? Scriveva Francesco Tronci nella sua interessante lettera al Popolo della sinistra: «Non c’era Daesh in Siria, non c’erano le armi, non c’era la guerra, non c’era neanche la richiesta di rovesciare il regime: i manifestanti chiedevano delle riforme, e solo dopo mesi di brutale repressione passarono dalla richiesta di riforme al chiedere la caduta di Assad. Non c’era perciò alcun elemento su cui fondare quella subdola propaganda che in seguito avresti usato contro la rivoluzione siriana. Non c’era niente di tutto questo, ma guarda caso non c’eri nemmeno tu. […]  Era il 2012 quando i governi d’Europa e il governo degli Stati Uniti, coloro che avevano i mezzi per supportare le forze progressiste, decisero di lasciare che la Siria bruciasse. Per anni i siriani hanno combattuto per la libertà contro questi barbari, per anni hanno chiesto un aiuto di base per assicurarsi che la libertà inizialmente conquistata nel 2011 dal movimento popolare pacifico potesse essere goduta fuori dalla portata della barbarie: di Assad e dei suoi barili bomba, dei gas mortali e del napalm; dell’Iran, con i suoi squadroni della morte, le sue milizie ed il suo costante flusso di soldi e armi; della Russia e della sua aviazione, dei suoi missili, i carri armati, il fosforo bianco e una diplomazia imperialista che consente il genocidio. Non arrivò nessuno ad aiutarli, nessuna solidarietà giunse in maniera organica dalla sinistra mondiale e da parte tua, popolo della sinistra, neanche quando la rivoluzione non aveva ancora imbracciato le armi e i manifestanti pacifici venivano massacrati dal regime, incarcerati, torturati». Sperare che l’imperialismo occidentale (europeo e americano) potesse correre in aiuto della «rivoluzione siriana» mi sembra quantomeno frutto di un pensiero politicamente ingenuo, né penso si possa parlare, in generale, delle cosiddette Primavere arabe nei termini di «rivoluzioni», cosa che ovviamente non implica (non ne vedo i minimi presupposti) sostenere i regimi contestati nelle piazze arabe né imputare al solito complotto targato USA-ISRAELE il malessere sociale della popolazione mediorientale. Sulla natura sociale delle Primavere arabe rimando ai miei post dedicati al tema (ad esempio: Si fa presto a dire “rivoluzione”, Teoria e prassi della “rivoluzione”. A proposito della “Primavera Araba”).  La lettera di Tronci è interessante soprattutto perché l’autore si sente parte di quel «popolo della sinistra» che sta dando un pessimo spettacolo «agli occhi della storia»: «Questa lettera che ho deciso di scriverti nasce da un moto impetuoso di indignazione e sconcerto.  […] Per questa ragione, popolo della sinistra, dovremmo tutti vergognarci». Naturalmente l’invito non mi riguarda, non avendo io mai fatto parte del «popolo della sinistra». Almeno questa vergogna mi sia risparmiata!

Scriveva il già citato Declich: «Possiamo discutere quanto vogliamo del comportamento degli americani in Siria, in Medio Oriente e nel mondo. Possiamo fare una storia dell’imperialismo americano, costellata di fatti terribili e intollerabili. Tuttavia dobbiamo aprire un altro capitolo, avendo sempre in mente che l’infamia di uno non cancella quella di un altro, e che non esistono imperialismi migliori degli altri. Esempio: radendo al suolo la Cecenia a partire dalla metà degli anni Novanta, Putin non ha combattuto contro l’imperialismo americano. Anzi, quando dovette finire il lavoro, all’inizio del nuovo millennio, lo si poteva vedere andare a braccetto con gli americani: tutto il mondo – e quindi anche i russi – diceva di fare la “guerra al terrore”. E ai russi fu dato semaforo verde in Cecenia. C’è chi, però, fa un ragionamento definito “campista”: si immagina che esista questo “Grande Imperialista americano” da sconfiggere, e che quindi tutti gli altri – cioè il campo opposto – siano i “buoni”, o che comunque servano la causa e dunque vadano bene. Nella realtà, però, questi campi non esistono». In realtà esiste un solo grande (quanto il nostro pianeta) e disumano campo: quello degli interessi economici, politici e geopolitici che fanno capo alle classi dominanti e ai loro Stati nazionali, piccoli o grandi che siano. «Non c’è più patria; da un polo all’altro non vedo nient’altro che tiranni e schiavi» (Diderot).

Solo dei servi sciocchi possono scindere – nella loro testa – il campo imperialista in Paesi “buoni”, o comunque “meno cattivi”, e Paesi decisamente “cattivi”, e decidere di appoggiare “tatticamente” i primi contro i secondi, credendo che questo sia il solo realistico modo di “fare politica”. Non c’è dubbio, così si fa politica: la politica delle classi dominanti, degli Stati, delle Potenze, degli imperialismi, grandi o piccoli che siano. La politica di chi si oppone all’imperialismo unitario (il campo che “ospita” la contesa interimperialistica) è ovviamente enormemente più difficile, e oggi essa appare perfino irrealistica, talmente forti sono le classi dominanti in tutto il mondo e tragicamente deboli le classi subalterne.

Non ho dunque messaggi di speranza per un “pronto riscatto” da comunicare al mondo? Oggi no. A volte è meglio non mettere nemmeno un po’ di zucchero nell’amara bevanda offertaci gentilmente dalla vita, e apprezzare per intero la condizione di impotenza politico-sociale che caratterizza la nostra, pardon: la mia esistenza.  (Non voglio coinvolgere nessuno nel mio pessimismo). Lo so che a Natale si può dare di più, ma pure  l’autoinganno ha i suoi limiti. Per acquistare un po’ di speranza a basso costo ci si può sempre rivolgere a Papa Francesco, o, male che vada, al “Campo Antimperialista”. Sic!

(*) Un solo esempio: «Chi chiede una tregua in Siria vuole in realtà “dare una possibilità” ai miliziani di respirare ed essere riforniti di armi, ha accusato senza mezzi termini il ministro degli Esteri di Mosca Sergej Lavrov sostenendo che il blitz di Daesh a Palmira sarebbe stato reso possibile dalla tregua de facto concessa dalla coalizione internazionale a guida statunitense ai jihadisti di Mosul. Ieri il portavoce del ministero della Difesa russo, generale Igor Konashenkov, aveva dichiarato che ad Aleppo “nelle zone orientali sono state tenute come scudi umani dai terroristi più di 100 mila persone. Tutte queste, nel più breve tempo possibile, sono state evacuate dalla zona e hanno raggiunto le zone controllate dal governo siriano, ottenendo aiuto reale e cibo”» (M. Santopadre). Che brava gente! Altro che imperialismo russo!

LA SIRIA E IL SISTEMA TERRORISTICO MONDIALE

omran-putin-obama-828476

Ormai da molti mesi, “tregua umanitaria” dopo “tregua umanitaria”, “cessate il fuoco” dopo “cessate il fuoco”, il patetico Staffan De Mistura, l’inviato dell’Onu per la Siria dal luglio 2014, ripete ai suoi tanti interlocutori il miserabile mantra che segue: «Se entro poche ore, al massimo pochi giorni, non si arriva a un accordo tra le parti, la Siria precipiterà in un completo e definitivo caos». Precipiterà? Evidentemente a De Mistura l’inferno siriano che dal 2011 divora migliaia di vite non dà ancora l’idea di un caos completo e definitivo. È anche vero che al peggio non c’è fine, e difatti oggi egli è costretto ad ammettere: «Sta succedendo l’orrore, Aleppo sta bruciando, è urgente fermare questi bombardamenti». Intanto, mentre scrivo questo post bombe incendiarie cadono su Aleppo a cura delle forze lealiste supportate dall’alleato russo: l’inferno va continuamente alimentato! «Rendere la vita intollerabile e la morte probabile. Aprire una via di fuga oppure offrire un accordo a quelli che se ne vanno o che si arrendono. Lasciare che se ne vadano, uno a uno. Uccidere chiunque resti. Ripetere da capo fino a che il paesaggio urbano, ormai deserto, diventa tuo»: è la tattica nota come “starve-or-submit” applicata dall’esercito siriano ad Aleppo descritta dal New York Times.

Sempre De Mistura è convinto che Aleppo sia «la Stalingrado siriana», e che «chi vince lì fa pendere la bilancia dalla sua parte»: di qui il carattere particolarmente micidiale che il conflitto siriano ha assunto in quella martoriata città, ridotta a un ammasso di case sventrate, a una mortifera trappola che tiene sotto sequestro migliaia di vecchi di donne e di bambini, prezioso materiale biologico da offrire in sacrificio al Moloch. Beninteso il Moloch ha un nome preciso: Sistema Mondiale del Terrore, che poi è uno dei diversi nomi che si possono dare agli interessi economici e geopolitici che fanno capo a grandi, medie e piccole Potenze, e che pretendono di venir soddisfatti con tutti i mezzi necessari: da quelli più “pacifici” a quelli più violenti. Anche il nome di Imperialismo va benissimo, e come sempre, almeno all’avviso di chi scrive, esso va attribuito a tutti gli attori in campo, “simmetrici” e “asimmetrici” che siano, a tutti gli eserciti, “regolari” e “irregolari”, che da anni alimentano le fiamme dell’inferno mentre l’inviato dell’Onu per la Siria si trastulla in pietosi ammonimenti che suscitano solo ilarità nei piani alti del famigerato Sistema. D’altra parte, cosa potrebbe dire e fare di diverso un Alto rappresentante diplomatico dell’Onu, di questo «covo di briganti», per esprimermi leninianamente, chiamato a ratificare e a difendere i rapporti di forza fra le Potenze sanciti dalla Seconda Carneficina mondiale? «”Questi sono giorni agghiaccianti, tra i peggiori da quando è iniziato il conflitto in Siria. Il deterioramento della situazione ad Aleppo sta raggiungendo nuove vette di orrore”, dice l’inviato speciale dell’Onu, Staffan de Mistura, durante la riunione di emergenza del Consiglio di Sicurezza, ribadendo la sua “delusione” per il mancato accordo sulla ripresa del cessate il fuoco deciso il 9 settembre da Usa e Russia. Ormai ad Aleppo “non si possono più contare i morti, a causa del caos che regna” nella seconda città siriana, “nella parte est sono assediate 275mila persone. L’assedio dura da più di 20 giorni» (La repubblica, 23 settembre 2016). Una “delusione” che non mi sento di poter condividere; in un post del 2015 dedicato alle Barrel Bombs usate dal famigerato perito chimico di Damasco, mi chiedevo retoricamente: «Non sarà che all’Onu non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia?». «Se mi dimettessi», ha dichiarato qualche giorno fa De Mistura, «vorrebbe dire che la comunità internazionale sta abbandonando la Siria, che l’Onu sta abbandonando la Siria; non manderemo questo segnale». L’opinione pubblica internazionale tira un grosso sospiro di sollievo e sentitamente l’umanità tutta ringrazia. Diciamo…

Fino a che punto, poi, regge l’analogia tra Stalingrado e Aleppo che intriga non pochi analisti geopolitici, soprattutto quelli orientati in senso “antimperialista” (leggi: antiamericana e filo-russa)? A mio avviso essa è fondata solo per ciò che concerne l’aspetto infernale (leggi mostruosamente disumano) delle due battaglie; ricordo a me stesso che nel febbraio 1943 Berlino e Mosca imposero ai rispettivi eserciti impegnati nella città che portava il nome del dittatore russo di non arretrare di un solo millimetro, pena l’immediata fucilazione per alto tradimento – com’è noto, i commissari politici sovietici sparavano alla schiena ai soldati che scappavano o si ritiravano, cosa che può apparire eticamente ineccepibile, oltre che politicamente giustificata e corretta, solo agli occhi di chi condivide il punto di vista ultrareazionario della difesa della patria, a maggior ragione se “socialista”, costi quel che costi. Io sostengo invece la necessità del disfattismo rivoluzionario sempre e comunque. Ma questo è un altro discorso.

Per il resto, non mi sembra che l’analogia di cui sopra abbia solidi appigli storici e geopolitici, anche volendo dar credito all’altra analogia, quella cioè che presenta il Califfato Nero nei panni del nuovo nazifascismo. Forse è la battaglia di Sarajevo tra serbi e bosniaci degli anni Novanta del secolo scorso che può prestarsi a qualche analogia con ciò che accade ad Aleppo, ma il rischio della forzatura storico-politica è sempre in agguato e ciò mi consiglia di non lanciarmi a cuor leggero in analogie di qualche tipo. Del resto, i mattatoi si somigliano un po’ tutti, orrore più, orrore meno.

L’analogia Stalingrado-Aleppo naturalmente viene incontro alla propaganda di Assad e di Putin, i quali in tutti questi anni si sono “venduti” all’opinione pubblica internazionale come i soli veri protagonisti nella “guerra di liberazione” dalle forze del male che oggi indossano i neri panni dell’esercito che massacra nel Santo e Misericordioso nome di Allah. E, infatti, fu il Presidente siriano a tirare in ballo la battaglia di Stalingrado in un messaggio al compare di merende Putin dello scorso maggio reso pubblico dalla Tass: «Aleppo, come molte città siriane, è come Stalingrado. La loro resistenza dimostra che la Siria, il suo popolo e l’esercito non accetteranno meno di una vittoria assoluta sul terrore e la sconfitta totale dell’aggressione». Quanto poco interessi «il suo popolo» al macellaio coi baffetti di cui sopra, è cosa che tutti sanno, anche se qualcuno che dalle nostre parti affetta pose da “antimperialista” duro e puro fa finta di niente, quando non è indaffarato nel negare l’evidenza chiamando in causa il “pensiero unico” occidentale, il servilismo filoamericano dei media mainstream (*) e il complotto internazionale ordito dall’imperialismo occidentale per far fuori il virile Vladimir Putin e il laico Bashar al Assad. Insomma, continua lo strabismo di certo “antimperialismo” italico (un tempo amico del “socialismo reale” di marca sovietica), il quale esattamente come i pennivendoli dell’imperialismo occidentale che critica si è scelto un fronte dei buoni (Russia, Siria, Iran) da sostenere contro il fronte dei cattivi (dagli Stati Uniti a Israele, passando per la Turchia, Arabia Saudita, ecc.). (Brevissima precisazione: qui scrivo “occidentale” solo per sintetizzare un concetto che andrebbe approfondito). Sparare a palle incatenate contro tutti i responsabili del macello siriano per simili “antimperialisti” equivale a fare dell’internazionalismo astratto, dell’antimperialismo parolaio perché incapace di fare politica. Il problema è che certi “antimperialisti” hanno imparato a fare una sola politica: quella delle classi dominanti, ossia di una loro fazione – non importa se nazionale o internazionale – contro quella avversaria.

È ovvio che l’antiamericanismo ideologico di chi vede in opera, e denuncia, solo un imperialismo (il solito, sempre quello, dal 1945 in poi), mentre è pronto a sostenere, o quantomeno a giustificare, le ragioni, a mio modesto avviso non meno reazionarie e disumane, dei Paesi che in qualche modo lo contrastano non aiuta il lavoro di coloro che si sforzano di smontare la propaganda dei governi occidentali senza per questo portare acqua al mulino dei governi che promuovono gli interessi imperialistici dei Paesi concorrenti, non importa se grandi o piccoli, “occidentali” o “mediorientali”, del “Nord” o del “Sud” del mondo. L’autonomia di classe, se non è una vuota frase da spendere sul mercato della politica pseudo rivoluzionaria, non si arresta ai confini nazionali, ma si esercita anche sul terreno della competizione interimperialistica, ovunque e comunque (in forma economica, diplomatica, militare) essa si esplichi.

Ma chi sono io per criticare i tifosi di Putin, il Caro Leader che sta cercando di rialzare il prestigio della Madre Russia dopo la catastrofe sovietica, e di Assad, l’altrettanto Caro Leader che sta lottando con tutti i mezzi necessari (compreso l’uso di cloro e di gas nervino) per evitare il doloroso (per chi?) regime-change voluto dalle oscure forze del Male? Ben poca cosa! Ma lo faccio lo stesso…

Intanto la guerra siriana si incattivisce ulteriormente, e il regime di Assad fa ancor più largo uso delle bombe incendiarie, sempre supportato dall’alleato russo. «La riunione del Consiglio è stata convocata da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti per aumentare la pressione sulla Russia, principale alleato del regime siriano, e far cessare i bombardamenti su Aleppo dando così la possibilità di ristabilire la tregua negoziata tra Washington e Mosca. “Portare la pace in Siria è un compito quasi impossibile ora”, dichiara l’ambasciatore russo all’Onu, Vitaly Churkin, “Damasco ha mostrato una moderazione invidiabile”» (La Repubblica). Il cinismo dell’ambasciatore russo all’Onu (che ha accusato Washington di aver «distrutto gli equilibri del Medio Oriente usando i terroristi di al Nusra per rovesciare il governo») si limita a esprimere il cinismo degli interessi contrastanti, mentre l’attivismo “pacifista” del cosiddetto fronte occidentale, per un verso lascia trapelare la preoccupazione di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti di perdere la guerra siriana, e per altro verso appare come un estremo tentativo volto a spingere la Russia a sacrificare Assad. Quest’ultimo sa benissimo cosa rischia, e difatti agisce nella sola maniera che oggi può consentirgli di mantenersi in sella: incrementare gli sforzi bellici contro i ribelli, riacquistare potere contrattuale su scala nazionale e internazionale con tutti i mezzi necessari, anche a costo di mettere in imbarazzo l’alleato russo, il quale d’altra parte ha dimostrato in diverse occasioni fin dove può spingersi il suo realismo geopolitico: vedi Crimea, fra l’altro.

L’ambasciatrice americana all’Onu, Samantha Power, ha preso di mira frontalmente la politica siriana di Mosca: «La Russia in Siria non sta sponsorizzando la lotta al terrorismo, ma la barbarie». Dopo aver ricordato quanto disse Hillary Clinton un anno fa (se ricordo bene): «l’Isis è una nostra creatura che ci è sfuggita di mano», mi permetto di correggere la Power: tutti gli attori in campo in Siria stanno “sponsorizzando” il Sistema mondiale del terrore e la barbarie. Ammetto che questa è una tesi che difficilmente troverà orecchie all’Onu. E non solo da quelle parti…

(*) «Di manipolato nella rivolta siriana c’è tantissimo. Ed è un problema, perché si tratta di un conflitto coperto in gran parte dai social media, da attivisti legati all’una o all’altra parte del conflitto. Di bufale e mezze verità ne sono circolate moltissime (di un paio ne parlo nel libro). Ma purtroppo molti degli orrori di cui sentiamo sono reali. L’attacco chimico contro Ghouta è stato documentato da un’indagine Onu e da uno studio separato di Human Rights Watch”. […] Uno degli errori principali di Assad è stato rispondere fin da subito con la violenza. Bisogna ricordare che le proteste sono iniziate in modo pacifico, e c’è chi dice che se il regime fosse andato incontro ai dissidenti, per esempio revocando lo stato di emergenza che vigeva dagli anni Sessanta, non ci sarebbe stata alcuna guerra civile e forse Assad avrebbe potuto anche “conservare il posto” senza spargimento di sangue. Quanto ai qaedisti, il problema non è tanto lasciare loro spazio, quanto il fatto che sono bravissimi a prenderselo da solo. Gli elementi più moderati dell’opposizione armata non hanno ricevuto un grande sostegno esterno, specie dall’Occidente, e questo ovviamente ha fatto il gioco di al-Qaeda. Ma purtroppo, anche indipendentemente da questo, quando un conflitto si prolunga accade spesso che gli elementi più radicali si consolidino» (Anna Momigliano, autrice di Il macellaio di Damasco, Vanda E., 2013).

Il macellaio di Damasco

Il macellaio di Damasco

Leggi anche:

MACELLO SIRIANO. C’ERA UNA VOLTA IL MOVIMENTO PACIFISTA…

IL PUNTO SULLA SIRIA E SUL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE

ASSEDIATI E PRESI IN OSTAGGIO. A MADAYA COME A ISTANBUL, PARIGI E OVUNQUE

ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONFLITTO MEDIORIENTALE

A CHE PUNTO È LA GUERRA?

OSTAGGI E VITTIME DEL SISTEMA MONDIALE DEL TERRORE. CIOÈ TUTTI NOI

SALAMA KILA SULL’INFERNO SIRIANO

LE BARREL BOMBS DEL REGIME SULLA MARTORIATA POPOLAZIONE SIRIANA

ROJAVA MIA BELLA…

ASPETTANDO LA FANTERIA

LA “PROPOSTA INDECENTE” DEL MACELLAIO DI DAMASCO E IL PRESIDENTE “RILUTTANTE”

L’ALTERNATIVA DEL DOMINIO SECONDO MASSIMO FINI

VARSAVIA 1944 – KOBANE 2014

RIFLESSIONI AGOSTANE INTORNO AL BELLICOSO MONDO

LA RESA INCONDIZIONATA DEGLI AMICI DEL MACELLAIO DI DAMASCO

ANCORA SULL’INFERNO SIRIANO

LA QUESTIONE SIRIANA E LA MALATTIA SENILE DEL TERZOMONDISMO

COSA CI DICE LA SIRIA

STALIN XXI. Il lupo perde i baffoni ma non il vizio!

SIRIA: UN MINIMO SINDACALE DI “INTERNAZIONALISMO”

PRIMAVERE, COMPLOTTI E MOSCHE COCCHIERE. Siria e dintorni.

ASSEDIATI E PRESI IN OSTAGGIO. A MADAYA COME A ISTANBUL, PARIGI E OVUNQUE

assadddLook up here, I’m in heaven I’ve got scars that
can’t be seen I’ve got drama, can’t be stolen.
Everybody knows me now.
Look up here, man, I’m in danger I’ve got nothing left to lose.
I’m so high it makes my brain whirl.
(David Bowie, Lazarus).

Continua il supplizio di ciò che resta della popolazione di Madaya, una località siriana che si trova a ovest di Damasco. Si stima che oltre 40mila civili sopravvivono da mesi sotto l’assedio organizzato con spietata determinazione dall’esercito fedele al macellaio di Damasco Assad e dalle milizie sciite di Hezbollah. Si parla di gente che per non morire letteralmente di fame è costretta a pasteggiare, si fa per dire, con foglie e corteccia d’albero, cani, gatti e altro ancora. Da noi la cosa è stata messa in ombra dalla “civilissima” guerra al Califfato Nero.

«In altri casi, come a Dayr az Zor nell’est del Paese, l’Isis assedia sobborghi controllati dalle truppe del regime. Nel caso di Fuaa e Kafraya, nel nord-ovest del Paese, miliziani delle opposizioni e loro alleati qaidisti assediano le due località a maggioranza sciita e difese anche dagli Hezbollah. Proprio il destino dei 30mila civili assediati a Fuaa e Kafraya è legato ai 40mila di Madaya. Qui rimangono asserragliati gli ultimi combattenti di Zabadani, il principale centro urbano che nel 2012 si era rivoltato contro il regime e che costituiva una minaccia ai lealisti. Dopo l’assedio e la conseguente distruzione quasi completa di Zabadani da parte di Hezbollah l’estate scorsa, i resistenti locali erano stati lasciati fuggire a Madaya. L’accordo per l’evacuazione di Zabadani prevedeva anche la messa in salvo dei civili di Fuaa e Kafraya. Ma l’avvio della campagna aerea russa dal 30 settembre ha rallentato l’applicazione dei punti della tregua e, di fatto le due cittadine sciite sono rimaste sotto assedio. Da qui, la decisione di Hezbollah e di Damasco di affamare letteralmente Madaya per premere sulle opposizioni. Madaya è da giorni sotto una coltre di neve. In città manca il combustibile per riscaldare le case. Mancano anche latte, riso, farina. Ad approfittarne sono i contrabbandieri che al mercato nero vendono i beni di prima necessità a prezzi esorbitanti: un chilo di farina è a 90 euro, un litro di latte a 25, un chilo di riso a 80» (Ansa.it).

La campagna aerea russa continua peraltro a mietere vittime rigorosamente “civili”, come i bambini di una scuola di Anjara, nell’hinterland di Aleppo, colpita appunto dai caccia al servizio del virile Zar di Mosca, eroe di non pochi sovranisti e antiamericani basati nel nostro Paese. Naturalmente anche i proiettili di mortaio sparati dalle milizie anti-Assad non risparmiano i “civili”. Solo chi non sa nulla della guerra moderna può parlare di «effetti collaterali» a proposito del massacro e delle sofferenze dei “civili”.

«Perché Assad è arrivato a tanto? Le spiegazioni sono molteplici. Secondo voci dell’opposizione al regime, il dittatore vuole punire la città per il suo appoggio convinto alla sollevazione del 2011. Ma non si impegnano uomini e mezzi così a lungo solo per vendetta. Come spiega Joshua Landis, direttore del Centro studi sul Medio Oriente dell’Università dell’Oklahoma e titolare di un blog sulla Siria, Madaya si trova lungo una linea strategica del multiforme fronte della guerra civile, sulla catena montana di Qalamoun, lungo il confine col Libano, a meno di 50 chilometri da Damasco. Controllarla vuol dire chiudere ai ribelli un corridoio diretto per la capitale. Inoltre, è al confine tra Libano e Siria che i trafficanti di armi hanno canalizzato i loro carichi, anche questi troppo vicini e pericolosi per Damasco. Per questo, pressare Madaya e controllare la zona montana è per Assad e chi lo sostiene ancor più importante che combattere lo Stato Islamico e i qaedisti di Al Nusra. Perché l’esercito siriano non prende la città e invece di mantenerla sospesa in questa bolla esistenziale? Perché impedisce che a Madaya arrivino almeno cibo e medicinali? E adesso su Madaya incombe anche il grande freddo dell’inverno. Un simile supplizio ha in realtà un altro obiettivo: Hezbollah vuole scambiare la vita degli abitanti di Madaya con quella degli sciiti a loro volta assediati dalle milizie sunnite di Ahrar al-Sham nelle città settentrionali di Kafrayya e Fua. “È uno stratagemma negoziale – osserva ancora Landis –. Fondamentalmente, Hezbollah ha preso degli ostaggi”» (La Repubblica). È la spietata logica della guerra, come si dice.

E se però fossimo tutti, senza distinzioni geopolitiche di sorta, degli ostaggi presi da una Potenza che ci espone a ogni tipo di “cattive pratiche” e a eventi che ci sorprendono immancabilmente alle spalle? Sto forse alludendo anche ai morti di ieri a Istanbul? Esatto. Oggi il turista, esattamente come il consumatore di caffè e concerti (vedi Parigi) che desidera concedersi il lusso di un po’ di svago, è diventato, almeno potenzialmente, il facile bersaglio della ritorsione del “nemico”. La Potenza (gli affari, gli interessi, il dominio, il rapporto sociale, il capitalismo: chiamatelo come volete) si dispiega secondo le sue disumane leggi, e noi ne subiamo le conseguenze. Ovunque e comunque.

Can you hear me Major Tom?
Can you hear me Major Tom?
Can you hear me Major Tom?

Non giunge alcuna risposta da lassù. La riflessione “definitiva” di Major Tom è peraltro nota: «Planet Earth is blue and there’s nothing I can do».

Leggi anche: ALCUNE CONSIDERAZIONI SUL CONFLITTO MEDIORIENTALE

LE BARREL BOMBS DEL REGIME SULLA MARTORIATA POPOLAZIONE SIRIANA

CMYK baseQuattro anni di mattanza, e non sentirli. Anche perché nel frattempo siamo stati distratti da altri bagni di sangue occorsi qua e là nel vasto mondo. Per non parlare della crisi ucraina, della crisi (fra tragedia e farsa) greca e dell’insorgenza del Califfato Nero a pochi chilometri dalla Sicilia, a proposito del quale ieri Renzi, da Sharm el-Sheikh, ha dichiarato che bisognerà quanto prima intervenire in Libia prima che sia troppo tardi. Segno che l’attivismo egiziano in Cirenaica comincia a destare qualche preoccupazione nella classe dirigente del Belpaese. La Libia “insiste” pur sempre nel nostro cortile di casa!

Rimane il fatto che sono trascorsi appunto quattro anni dal 15 marzo del 2011, quando migliaia di persone scesero in piazza ad Aleppo e Damasco, le due città più grandi della Siria, per protestare contro il regime del Presidente Bashar al-Assad. Fu una delle prime manifestazioni di dissenso di massa della storia recente del Paese. Nei giorni successivi, il regime reagì con arresti, uccisioni, sparizioni e torture, ma senza riuscire a fermare l’opposizione. In poche settimane le proteste si allargarono a tutta la Siria. A maggio Assad fu costretto a schierare l’esercito nelle strade. Le timide aperture economiche e politiche (più economiche che politiche, in verità) cui sono stati costretti i vecchi regimi arabi per sopravvivere allo tsunami della globalizzazione capitalistica*, sono state sufficienti perché il vaso di Pandora delle contraddizioni e delle magagne sopite per decenni si frantumasse. La transizione pacifica ed “equilibrata” (ossia centrata sul compromesso tra vecchi e nuovi interessi) dal vecchio al nuovo regime non sempre è possibile, come ha sperimentato anche Mubarak. Anche perché l’insidioso conflitto sociale è sempre in agguato.

L’opposizione siriana, sobillata e illusa dai nemici esterni della Siria (dall’Arabia Saudita agli Stati Uniti**), raccolse la sfida del regime e passò dopo qualche esitazione sul terreno dello scontro militare aperto. Da quel momento, la popolazione siriana è presa tra due fuochi, dal mio punto di vista egualmente ultrareazionari e quindi da non sostenere e anzi da combattere politicamente sulla scorta, per così dire, di un minimo salariale di “internazionalismo proletario” – lo so, roba aliena per i teorici dell’alleanza con «l’imperialismo più debole».

Insomma, abbiamo a che fare con una “sporca guerra” che ha causato finora 220mila morti (solo nel 2014 i morti tra i civili sono stati almeno 76mila), una media di 25mila feriti al mese, diversi milioni di rifugiati, oltre 10 milioni di sfollati ancora sequestrati nell’inferno siriano. Nel 2014 i bambini che hanno avuto bisogno di aiuto sono stati 5,6 milioni: il 31 per cento in più rispetto all’anno precedente. Un inferno coi fiocchi, non c’è che dire. E domani entriamo nel quinto anno di «una tragedia senza fine», «la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale». A mio modesto avviso «la più grande catastrofe umanitaria dopo la Seconda guerra mondiale» rimane la Società-Mondo del XXI secolo che rende possibile su questo pianeta ogni sorta di sfruttamento, di sofferenza e di violenza. Ma queste sono mere opinioni, si capisce. Andiamo ai fatti!

«A quattro anni dall’inizio del conflitto in Siria, questa guerra continua a vivere di una violenza brutale che non fa distinzione tra civili e combattenti, né rispetta lo status di protezione del personale e delle strutture sanitarie», ha dichiarato Joanne Liu, presidente internazionale di Medici Senza Frontiere. Secondo Human Rights Watch «Il governo siriano sta facendo piovere bombe di barili esplosivi sui civili a dispetto di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) votata all’unanimità, all’inizio di quest’anno». Vatti a fidare delle Risoluzioni targate Nazioni Unite! In effetti, l’esercito fedele al regime sanguinario di Assad sta facendo un largo uso delle cosiddette bombe a botte (barrel bombs), molto efficaci quando si vuole massacrare, storpiare e terrorizzare una popolazione inerme in poco tempo e in economia. Pare che gli effetti di una barrel bombs (esplosivo misto a pezzi di metallo) siano a dir poco orribili. La parola, come si dice, agli esperti:  «La barrel bomb è in sostanza un barile di acciaio, riempito di materiale esplosivo, schegge di ferro e spesso anche con materiale infiammabile come la benzina. Una volta sganciata dall’elicottero, oltre a provocare impressionanti danni materiali, la deflagrazione coinvolge anche le zone circostanti, soprattutto a causa delle schegge di acciaio contenute nel barile. L’effetto materiale è ovviamente devastante: tuttavia, il motivo che spinge l’esercito siriano all’utilizzo di tale arma è soprattutto l’effetto psicologico che sprigiona. Se da un lato, infatti, le armi regolari riescono – seppur con margini di errore – a discriminare tra differenti bersagli (militare, civile e così via), la barrel bomb non fa nulla di tutto ciò. Infatti, l’effetto combinato di schegge, benzina e materiale esplosivo rende impossibile anche solo prevedere sino a dove l’esplosione provocherà delle conseguenze, provocando un vero senso di terrore sia sulla popolazione civile che sui ribelli» (G. Farsetti, Europae, 30 aprile 2014).

Naturalmente il leader baathista amico di molti Social Sovranisti (notare l’acronimo: SS) italiani ha negato di conoscere cosa siano le barrel bombs, anche messo dinanzi alle schiaccianti prove fotografiche e televisive (ormai l’Orrore va in diretta streaming, e così il pubblico di casa ha modo di avvezzarsi): «Usiamo altre armi e bombe per contrastare i terroristi e difendere i civili, e d’altra parte ognuno è libero di fare ciò che vuole nel suo paese». Una risposta impeccabile, degna del ruolo escrementizio che egli ricopre al servizio di particolari interessi nazionali e sovranazionali – che fanno capo all’Iran, alla Russia e alla Cina.

Sempre secondo Human Right Watch «Il governo siriano sta usando mezzi e metodi di guerra che non distinguono tra civili e combattenti, rendendo gli attacchi indiscriminati e quindi illegittimi». Ma è almeno dalla Spagna 1937 che l’aviazione militare non discrimina più tra “civili” e “combattenti”! Di più: sono proprio i “civili” l’obiettivo strategico più importante da colpire, per affrettare la resa senza condizioni del nemico. Come disse una volta Hitler, supplicato dai suoi ultimi fedelissimi perché salvasse i pochi quartieri di Berlino risparmiati dai democratici bombardamenti aerei, «in questa guerra non ci sono civili: il fronte è ovunque». Tesi analoghe fanno parte del dibattito politico e culturale occidentale a partire dalla Grande Guerra, con una significativa anticipazione: la guerra franco-prussiana del 1870-71.

Invocare la legittimità internazionale in materia bellica significa fare dell’involontario cinismo. Né più né meno. Perché come sempre a giudicare della legittimità della carneficina sono i rapporti di forza, e il Diritto giusto è sempre quello affermato da chi vince sul campo – e il “tavolo diplomatico” è un’estensione di questo campo, è la continuazione della guerra con… . Il cinismo delle cose va dunque messo in questione radicalmente, anche perché lo sforzo di mitigare il Moloch attraverso Dichiarazioni e Petizioni si dimostra sempre di nuovo non più che una pia illusione. Di più: un inganno al servizio dello status quo.

«Dire che l’85% delle luci della Siria restano spente durante la notte forse farà aumentare i visitatori di qualche sito web e potrà anche essere “scientificamente” interessante, ma non potrà far capire qual è la situazione in Siria. E, soprattutto, non spiega come e perché la maggiore organizzazione internazionale del mondo, le Nazioni Unite, in Siria, abbia miseramente fallito» (A. Mauceri, Notizie Geopolitiche). Forse perché si tratta di un «covo di briganti», per esprimermi leninianamente, chiamato a ratificare e a difendere i rapporti di forza fra le Potenze sanciti dalla Seconda Carneficina mondiale? Non sarà che all’ONU non si muove foglia che l’Imperialismo (naturalmente a cominciare dalle Potenze maggiori: Stati Uniti, Russia, Cina, Unione Europea a trazione tedesca) non voglia? Avanzo solo delle ipotesi, intendiamoci. Qui nessuno ha la verità in tasca! È altresì vero che qui nessuno è così sciocco da farsi delle illusioni “umanitarie” sull’ONU.

 

* Il processo sociale che chiamiamo globalizzazione capitalistica ha messo in crisi equilibri di potere tanto sul terreno geopolitico (ossia nel confronto fra le grandi, medie e piccole potenze, fra imperialismi mondiali e fra imperialismi, più o meno “straccioni”, regionali), quanto su quello politico-sociale nazionale. Tutto l’edificio capitalistico mondiale, da Nord a Sud, da Ovest a Est, è stato scosso dal terremoto capitalistico che dura ormai dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, quando appunto il processo di globalizzazione subì una brusca accelerazione, registrata dai sismografi come “rivoluzione” – o “controrivoluzione”, punti di vista – neoliberista (reaganismo, thatcherismo, finanziarizzazione dell’economia, ecc.) e come ascesa degli ex Paesi poveri (Cina e India, in primis) al vertice del Capitalismo mondiale. Naturalmente questo terremoto non è stato causato, come sono inclini a pensare la gran parte degli storici e degli analisti geopolitici, dal trionfo del Capitalismo sul Comunismo (o «socialismo reale») come esito della Guerra Fredda. Questo per il semplice fatto, almeno a mio modo di vedere, che ciò che allora (e purtroppo ancora oggi) veniva rubricato come “Comunismo” non era che un Capitalismo di Stato gravato da molte e alla fine fatali magagne. La storia del Capitalismo mondiale è punteggiata da brusche accelerazioni, le quali si registrano soprattutto in corrispondenza di acute crisi economico-sociali. Come osservava Marx, per il Capitalismo le crisi rappresentano sempre un punto di svolta positivo. Salvo impreviste “precipitazioni rivoluzionarie”…

Dicevo che tutto l’edificio mondiale è stato scosso violentemente dal processo sociale della globalizzazione, e la crisi scoppiata nel 2008 ha mostrato le crepe che si sono aperte negli anni nella sua struttura. Non si comprendono le cosiddette “Primavere Arabe”, né gli eventi europei degli ultimi anni (accelerazione nella “germanizzazione” dell’UE, conflitto nell’Est europeo, ecc.), se non alla luce di questo quadro generale.

Il terremoto capitalistico scuote dunque equilibri di potere internazionali e nazionali, e spinge le masse più povere del pianeta a rivendicare una ricchezza vista magari solo in televisione e su Internet. Ma la “colpa”, ovviamente, non è della tecnologia massmediologica occidentale, come pensano certi ideologi ammalati di feticismo. Così come la delusione e la frustrazione delle masse giovanili mediorientali (e dei giovani immigrati arabi di seconda e terza generazione che vivono in Europa) non si spiegano certo tirando in ballo una supposta cattiva interpretazione del Corano.

* * «Già nel 2014 l’ex Segretario di Stato Usa Hillary Clinton ha ammesso in modo sorprendente che l’Isis “è stato un fallimento. Abbiamo fallito nel voler mettere in piedi una guerriglia anti al-Assad credibile. La forza di opposizione che stavamo creando era composta da islamisti, laici e da gente nel mezzo: l’incapacità di fare ha lasciato un grande vuoto che i jihadisti hanno ormai occupato. Spesso sono stati armati in modo indiscriminato da altre forze e noi non abbiamo fatto nulla per evitarlo”. […] A fronte di questo quadro John Kerry ha detto due giorni fa in un’intervista alla Cbs che “alla fine dobbiamo negoziare » (E. Oliari, Notizie Geopolitiche, 17 marzo 2015). Scrivevo lo scorso agosto: «La “proposta indecente” di Bashar el Assad agli odiati nemici americani ha fatto molto rumore. Molto rumore per nulla, a giudicare dalla freddezza con cui il Presidente Obama sembra aver accolto la “generosa” iniziativa politico-diplomatica del rais siriano. Ma la situazione è, come si dice, fluida, e scenari impensabili solo pochi giorni fa oggi possono concretizzarsi a dispetto di ogni logica nutrita a pane e ideologia – filo o anti-occidentale». Alla fine pare che la strategia sanguinaria del macellaio di Damasco stia avendo successo. Complici l’Iran e la Russia, si capisce.

 

 

ASPETTANDO LA FANTERIA

obama-assad-syria-chemical-weapons-iran-diplomacy-engagement-rouhani-negotiationsDunque è ufficiale: quella che si sta delineando nell’area del Califfato Nero è una vera e propria guerra. Una guerra senza se e senza ma. Lo ha ammesso ieri, dopo tante esitazioni radicate anche nell’attuale situazione interna degli Stati Uniti, lo stesso Nobel per la pace Obama, ringraziando quella che Guido Olimpio ha giustamente definito «coalizione delle ambiguità».

Mentre il Presidente USA ha negato ogni coinvolgimento politico della Siria nelle azioni belliche di questi giorni, il macellaio (nonché perito chimico) di Damasco ha subito dichiarato di essere invece parte attiva e centrale dei misericordiosi bombardamenti in corso in Irak e in Siria (e forse domani in Libia, Libano, Algeria, …). Atti bellici, occorre ricordarlo, tesi a estirpare dalla faccia della terra gli altrettanto misericordiosi combattenti di Allah che sventolano la nera bandiera dello Stato Islamico e sgozzano in diretta streaming gli infedeli catturati. C’è che chi spara missili, e c’è chi spara terrore mediatico (peraltro apparecchiando scenografie che ricordano molto da vicino certi videogiochi, e che certamente strizzano l’occhio a certi luoghi comuni intorno all’Islam confezionati in Occidente): è un’esaltazione di modernità!

Dopo l’ultimo macabro episodio avvenuto ieri in Algeria (ex pupilla dell’Imperialismo francese), pare che il Presidente Hollande stia rimontando nei sondaggi. «La Francia non cederà mai al terrorismo, perché è il suo dovere e il suo onore», ha dichiarato il Premier francese. L’ho scritto ai tempi della guerra in Libia: in Francia la guerra si vende ancora bene. La Grandeur non è un’opinione…

Scrive Bernardo Valli (La Repubblica, 24 settembre): «Gli americani escludono di avere coordinato la loro azione con il presidente siriano. Rifiutano di collaborare con lui. Barack Obama l’ha accusato di torturare la sua gente e gli ha negato ogni legittimità. Ma Damasco assicura di essere stato informato da Washington dell’attacco allo Stato islamico e Bashar al Assad dice di essere favorevole ad “ogni sforzo contro il terrorismo internazionale”. Si dichiara insomma soddisfatto delle incursioni americane contro il califfato». Più “ambigui” di così! Sulla “strana coppia” Barack-Assad rinvio a un mio post di fine agosto.

Inutile dire che nell’Amministrazione americana molti stanno suggerendo al Presidente di prendere, per così dire, la bomba al balzo e di andare fino in fondo. «Già che siamo in ballo…». Si tratta, per dirla in breve, di approfittare della congiuntura bellica che si è improvvisamente aperta per ridefinire e stabilizzare la mappa geopolitica del Medio Oriente e dell’Africa Settentrionale. Fare i conti con il rais siriano rientra naturalmente in questa strategia di lungo periodo. Di qui, i timori di Russia, Cina e Iran, ossia del polo imperialista che non pochi sedicenti “antimperialisti” basati in Italia guardano con simpatia e ammirazione.

Fatto importante, Il Comandante in Capo ha tenuto a precisare che «non si tratta di una guerra di religione». Concordo! Infatti, ciò che ci sta dinanzi è l’ennesima guerra di stampo imperialista, la quale come sempre troverà intellettuali, politici e pii uomini di buona volontà pronti a giustificarla tirando in ballo i sacri e inviolabili “diritti umani”, il diritto internazionale, la difesa dei principi democratici, la difesa delle civiltà (notare il plurale politicamente corretto), la logica della riduzione del danno (o logica del male minore) e via discorrendo. «Bisogna pur far qualcosa!». Certo. Proviamole tutte per il bene dell’umanità. Tutte, tranne che la lotta di classe, la rivoluzione sociale e quanto possa mettere radicalmente in discussione l’ordine sociale mondiale, il quale, ovviamente, non smetterà di generare contraddizioni, conflitti, crisi, “catastrofi umanitarie” e ogni sorta di maledizione, immaginabile e pure inimmaginabile. Decennio dopo decennio, guerra dopo guerra, “crisi umanitaria” dopo “crisi umanitaria”, «bisogna pur far qualcosa»: auguri ai signori realisti!

enhanced-27753-1410801561-1Su Limes (24 settembre) Giuseppe Cucchi, generale della riserva dell’Esercito, ha posto il problema che in questi giorni sta tormentando il Presidente Obama: «In nessun paese la “modernizzazione del conflitto” si è spinta così avanti come negli Stati Uniti. Questi, se potessero, cercherebbero di risolvere ogni situazione di tensione utilizzando unicamente il fuoco gestito a distanza, evitando a ogni costo l’eventuale ricorso ai boots on the ground, cioè all’intervento di terra. Siamo dunque arrivati alla fine della lunga e gloriosa storia della “Povera sanguinante fanteria”? Certamente no. Anche se gli Stati Uniti e in subordine il resto dell’Occidente non vorrebbero più essere trascinati nell’alea del combattimento a terra, uomo contro uomo, esistono sempre occasioni e teatri in cui se vogliamo vincere qualcuno deve pur farlo. […] L’unico discorso serio che si potrebbe e dovrebbe fare a questo punto è quello di accettare una svolta radicale dei nostri orientamenti politici e cercare le fanterie tra chi nell’area le possiede, cioè gli sciiti. Anche se ciò vorrebbe dire riabilitare l’Iran e far comprendere agli alawiti di Siria che saremmo ansiosi di aprire un dialogo con ogni eventuale successore del presidente Assad. È troppo? Beh, allora di fanteria mandiamo la nostra. Combatterà e morirà, ma permetterà all’azione di fuoco della coalizione di essere efficace. E forse col tempo di distruggere l’Is. Poor Bloody Infantry!».

Sapere che il Fattore Umano ha una funzione decisiva da svolgere nella guerra ad alta composizione organica del XXI secolo non può che rallegrare un umanista del mio calibro. Ovvero: povero “capitale umano”!

LA RESA INCONDIZIONATA DEGLI AMICI DEL MACELLAIO DI DAMASCO

HOMS-C~1Almeno una qualità va, a mio modesto avviso, riconosciuta a Diego Fusaro, nostalgico della Monarchia Russa in guisa “sovietica”: la schiettezza. Egli condivide le ragioni del regime sanguinario siriano e non ne fa un mistero, anzi!  Scrive infatti il nostro: «senza esitazioni occorre essere solidali con lo Stato siriano e con la sua eroica resistenza all’ormai prossima aggressione imperialistica» (Siria, la demonizzazione preventiva, Lo spiffero, 26 agosto 2011). Mentre alcuni “antimperialisti” di casa nostra continuano a nascondersi dietro la magica – e risibile – formula del «sostegno al popolo siriano» Fusaro la mette giù chiara, con schiettezza, appunto.

L’articolo citato è tutto teso a dimostrare come il male (Capitalismo, Imperialismo, sfruttamento, reificazione) stia tutto e solo dalla parte della Monarchia Occidentale egemonizzata dall’Imperialismo americano, mentre il famigerato macellaio di Damasco vi recita la parte del criminalizzato, più che del criminale. E difatti il nostro stigmatizza «la reductio ad Hitlerum» del dittatore siriano operata dai sicofanti dell’Imperialismo occidentale per preparare ideologicamente e psicologicamente l’opinione pubblica mondiale alla prossima aggressione contro la Siria. «La Siria è oggi presentata mediaticamente come l’inferno in terra». A rischio di passare per servo sciocco degli americani, e anche degli israeliani, ricordo che la Siria oggi è realmente, e non solo mediaticamente, un inferno. Certo, il regime di Damasco e i suoi alleati regionali (Iran) e mondiali (Russia e Cina) devono confutare la cosa, o quantomeno capovolgerla di segno, attribuendo la responsabilità dell’inferno ai «terroristi» e ai «disegni reazionari dell’imperialismo occidentali».

Prevengo subito possibili equivoci e dichiaro forte e chiaro che dalla mia prospettiva tutti gli attori in campo: dal dittatore siriano al Presedente americano, da Putin a Emma Bonino, da Hollande ai leader cinesi, e via di seguito; dal mio punto di osservazione, dicevo, tutti i protagonisti dell’ennesima «crisi umanitaria» appaiono dei criminali, e ciò in una “declinazione” politica del concetto che rinvia alla necessità, per le classi dominate d’ogni parte del mondo, della lotta di classe rivoluzionaria come unica strada da percorrere per lasciarsi definitivamente alle spalle l’orrore della guerra, generale o locale che sia, e la pena a vita dello sfruttamento capitalistico. Come ho scritto in altri post dedicati all’inferno siriano tutti i protagonisti in campo: i realisti e gli insorti (o «terroristi» dal punto di vista del regime siriano) sono altrettanti alberi a cui le masse diseredate sono invitate a impiccarsi nel nome di una causa che appare ultrareazionaria da qualsiasi parte la si guardi.

im 2Per Fusaro «La Siria, come Cuba e l’Iran, è uno Stato che resiste e che, così facendo, insegna anche a noi Occidentali che è possibile opporsi all’ordine globale che si pretende destinale e necessario». Attenzione: il nostro non allude solo a una resistenza di carattere nazionale avversa all’ingerenza del nemico esterno, una prassi che nel XXI secolo appare comunque ultrareazionaria a chi maneggia un minimo sindacale di “internazionalismo proletario” (escludo quindi da questa rubrica gli ex e i post stalinisti, i teorici del terzomondismo e i teorici della pseudo dialettica, di matrice maoista, “nemico principale-nemico secondario”); Fusaro chiama in causa nientemeno che la resistenza anticapitalistica. Infatti, agli occhi del Capitale occidentale il crimine del dittatore siriano sarebbe questo: egli «non si è piegato alle sacre leggi di Monsieur le Capital». La Siria (ma anche l’Iran, Cuba, il Venezuela) come Nazione Proletaria! La ridicola cosa non suona nuova alle mie italiche orecchie.

«La Siria, come si diceva, è uno dei prossimi obiettivi militari della monarchia universale. È, al momento, uno dei pochi Stati che ancora resistono alla loro annessione imperialistica all’ordine statunitense». Qui si cela il fatto, peraltro macroscopico, che nel “suo piccolo” anche la Siria è parte integrante di un ordine imperialistico (mondiale e regionale), e l’atteggiamento assunto sulla crisi “umanitaria” dall’Iran, dalla Russia e dalla Cina la dice lunga sulla realtà delle cose, sempre al netto della propaganda filosiriana dei massacratori di Damasco ripresa con tanto zelo da non pochi “antimperialisti” di casa nostra. Per questi “antimperialisti” d’accatto tutti i Paesi (Russia e Cina compresi!) che si oppongono agli Stati Uniti sono “oggettivamente” antimperialisti e, almeno stando a ciò che scrive Fusaro, pure “oggettivamente” anticapitalisti. Miracolo della dialettica! Ovvero: dalla mosca cocchiera alla dialettica cocchiera.

Che le classi dominate hanno tutto l’interesse a rigettare ogni sorta di ordine imperialistico, a cominciare da quello radicato nel proprio paese (leggi Italia, nella fattispecie), è un concetto che deve risultare necessariamente inconcepibile a chi si è nutrito per tutta la vita di miti reazionari, tipo «socialismo reale» e resistenza antifascista. E difatti Fusaro conclude la sua dichiarazione di resa incondizionata al regime siriano citando il Partigiano Johnny  di Fenoglio, ossia ricordando gli eroi (i partigiani) di una guerra imperialista (da tutte le parti in conflitto) fatta passare come una guerra di liberazione nazionale e politica. Quando la smetteranno le classi dominate di farsi scannare sull’altare di Monsieur le Capital?

boninoIn attesa di risposte convincenti, ecco la mia “piattaforma politica”: Contro l’intervento cosiddetto “umanitario” in Siria. Soprattutto contro gli interessi dell’imperialismo italiano e la sua eventuale partecipazione nell’operazione “umanitaria”, non importa se all’interno della cornice NATO, se sotto l’egida dell’ONU o (ipotesi oggi alquanto
azzardata) nel quadro della Comunità europea. Contro tutti gli imperialismi, mondiali e locali. Contro lo spirito nazionalista e patriottico, veleno per tutti gli individui a qualsiasi latitudine. Contro il regime sanguinario di Damasco e contro i suoi nemici che aspirano a sostituire al potere gli attuali macellai per perpetuare il vecchio dominio di classe. Per l’autonomia di classe, sempre e comunque, su ogni terreno di iniziativa politica.

ANCORA SULL’INFERNO SIRIANO

Pubblico un articolo molto interessante sulla Siria che ho trovato sul blog Combat-Coc.Org, il quale a sua volta l’ha ripreso da Pagine Marxiste n°28 ottobre 2011. Penso che l’analisi della situazione sociale e politica del Paese mediorientale che vi si trova offra un contributo alla comprensione dell’attuale carneficina che lì si consuma. Una carneficina che, a mio avviso, è ultrareazionaria sotto ogni rispetto, tanto dal lato del regime sanguinario di Damasco, quanto da quello del cosiddetto Esercito Siriano Libero; sia per ciò che concerne il fronte interno, sia per quello che si muove e che si prepara sul fronte regionale (Iran, Turchia, Arabia Saudita, Egitto, Israele) e internazionale (Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Cina, Russia). Che da un conflitto ultrareazionario (interborghese e interimperialistico) possa prendere corpo, “dialetticamente”, un processo sociale contrassegnato dalla lotta di classe, interna e internazionale, è cosa che non sfugge alla mia considerazione. È anzi ciò che desidero ardentemente. Ma i desideri non devono “fare premio” sull’analisi obiettiva – e «di classe» – della situazione, la quale oggi testimonia l’impotenza politica e sociale delle classi dominate in Siria, in Medio Oriente, in Nord’Africa e in tutto il pianeta. Come ho scritto nei diversi post dedicati alla Siria e alle cosiddette “primavere”, la miseria e la rabbia delle “Moltitudini” sono oggi usate come potenti strumenti di lotta politica dalle fazioni borghesi (nell’accezione sociale e non sociologica del concetto) che si contendono il potere. La verità è rivoluzionaria in questo preciso significato, e cioè che solo apprezzando la realtà in tutta la sua attualità (per quanto cattiva) e potenzialità è possibile, per i militanti del pensiero critico-radicale, elaborare una teoria e una prassi all’altezza delle sfide che la Società-Mondo del XXI secolo lancia loro sempre di nuovo.

La rivolta è scoppiata nei primi giorni di febbraio, nelle aree del Nord e dell’Est, rovinate dalla siccità, come Daraa, si è estesa al centro petrolifero di Dayr az Zawre, ha coinvolto Hama e Homs, roccaforti dell’opposizione sunnita e il ricco porto di Latakia, e infine i sobborghi di Aleppo e Damasco, che fino a luglio avevano rappresentato la maggioranza silenziosa lealista. Per qualche settimana il presidente Bashar ha giocato la carta delle riforme: ha promesso elezioni con la presenza di più partiti, ma ha ribadito l’illegalità dei partiti con base etnica, religiosa o professionale; in questo modo tagliando fuori i Fratelli Mussulmani e i Curdi, ma anche partiti con eventuali richiami di classe (es. “partito operaio”). In ogni caso alla fine il regime si è affidato alla sola repressione. L’esercito attacca brutalmente quartieri e villaggi, cui viene tagliata la luce e l’acqua, i carri armati bombardano come in zona di guerra lasciandosi dietro macerie e morti, poi intervengono le forze speciali che battono casa per casa. (Economist 1 ag. ’11).

La crisi complessiva di un modello
La crisi siriana è in parte legata al ciclo economico internazionale, ma è fondamentalmente una crisi strutturale, affonda le sue radici nella storia del paese, nel venir meno degli equilibri interni su cui si è basato il quarantennale regime degli Assad (guidato prima da Hafez, artefice del colpo di Stato del 1970 e dal 2000 dal figlio Bashar), ma anche nella crisi e implosione del capitalismo di Stato siriano. Nel rapporto 2007 del Forum di Davos su 13 paesi arabi, la Siria era penultima per competitività davanti alla sola Mauritania. Il World Bank 2011 Doing Business Survey mette la Siria al 168° posto su 183 paesi per disponibilità finanziaria. Nel 2008 il Pil siriano era di 106,4 miliardi di $ (un ventesimo di quello italiano). Per Pil pro capite (4800 $ nel 2008 la Siria si collocava al 114° posto nella classifica della Banca Mondiale su 169 paesi; per l’indice Isu (sviluppo umano) si collocava al 107° posto, prima del Marocco (114°), ma dopo Libia (56° posto), Tunisia (81°), Algeria (84°), Egitto (101°).
In passato gli Assad hanno potuto contare sull’appoggio degli Alawiti (il che significa forze armate, burocrazia di Stato), ma anche dei contadini, degli strati poveri delle città, delle minoranze religiose e di buona parte della borghesia commerciale sunnita. Oggi è esplosa la rivolta, non a causa dell’estremismo islamico o di una congiura imperialista, come sostiene il governo siriano, ma perché il regime, in una situazione di stagnazione economica, non può più garantire alla popolazione lavoro e condizioni di vita decenti, incompatibili con i costi dell’apparato repressivo (le spese militari assorbono il 33% del bilancio dello Stato) e del parassitismo mafioso dei clan al potere, che induce la stessa borghesia sunnita a rivendicare una rappresentanza negli organi di potere.
L’opposizione è diffusa, lo dimostrano le cifre della repressione. Il bilancio al 1° settembre è di più di 2600 morti, 13 mila arrestati nell’ultimo mese, 63 mila dall’inizio della rivolta, 3 mila scomparsi (dati del Institute for War and Peace Reporting – Iwpr). Anche se fossero dati un po’ gonfiati, è un fenomeno di massa.
Il malcontento sociale si sta accumulando da anni, man mano che è cresciuta l’ineguaglianza sociale. Nel 2005 per reagire alla bassa produttività del sistema economico, viene adottata una svolta liberista che apre ulteriormente ai capitali e agli investimenti stranieri non Usa, ma soprattutto tenta di ridurre la presenza dello Stato in tutti i settori economici. Del processo si avvantaggiano tutti coloro che a vario titolo hanno legami clientelari con gli Assad. Si ripete in piccolo quanto avvenuto in Urss nei primi anni ’90: gli ex manager di Stato, i membri del partito al potere, gli alti papaveri dell’esercito e ovviamente la famiglia Assad comprano a prezzo di saldo industrie, alberghi, centri commerciali ecc. Il cugino di Bashar Rami Makhlouf controlla la telefonia mobile, il settore immobiliare e il settore agroalimentare; il fratello di Bashar, Maher, capo della guardia presidenziale, gestisce le commesse militari. In mano alla famiglia Assad anche la fiorente industria del tabacco e buona parte delle banche. Come in Egitto e in Tunisia il clan dominante assorbe parassitariamente risorse, a scapito dell’efficienza e della produttività dell’apparato industriale. Aumentano le disparità sociali ma anche regionali (il Nord e il Sud sono poveri di infrastrutture, l’Est è soggetto alla siccità, con un tasso di disoccupazione più elevato).

Un’opposizione ad ampio spettro sociale
La nuova politica economica interrompe anche la tradizione di rigido controllo dei prezzi dei beni di prima necessità, porta a drastici tagli ai sussidi erogati dallo Stato per tenere bassi i costi di elettricità, gas, cereali e riso.1 Fino al 2004 metà dei siriani viveva direttamente o indirettamente di salari o provvidenze di provenienza statale (ad es. lavori stagionali o part time) che, assieme ai sussidi, attutivano la povertà delle famiglie. Un siriano su tre vive infatti sotto la linea di povertà (il dato ufficiale dell’11,8% è sottostimato) con meno di 2 $ al giorno. (Wsws 28 luglio ’11). Un’inchiesta della General Social Security Organization informa che nel 2009 il 44,2% dei salariati percepisce circa 127 $ al mese. E’ in aumento il lavoro minorile, che era scomparso anche nelle campagne negli anni ’80. Nel 2009-10 si aggiungono inflazione e disoccupazione (il dato ufficiale dell’8,5% di disoccupazione è clamorosamente falso secondo il Fmi. L’Ilo lo stima intorno al 18%, cui si aggiunge il dato che il 40% almeno dei lavoratori sono in nero). Il deterioramento delle condizioni di vita è stato maggiore per i giovani, che non a caso hanno riempito le piazze. Essi costituiscono i due terzi dei disoccupati (secondo l’Al-Ahram Weekly è disoccupato il 30% dei giovani), sono mediamente istruiti ma senza prospettive. La popolazione cresce ancora al ritmo del 2,5% all’anno (i siriani erano 12 milioni nel 1990 e sono arrivati a 23,7 milioni nel 2010); ogni anno 250 mila giovani si affacciano al mercato del lavoro, che è asfittico e produce al massimo 20-30 mila nuovi posti all’anno. Negli anni ’70 i giovani siriani si recavano a lavorare nei paesi del Golfo, poi la loro preparazione tecnica è risultata sempre più carente e li ha relegati ai lavori per cui non è richiesta specializzazione. Oggi la concorrenza degli operai asiatici li mette fuori mercato (da Occidente n. 1 2007, Mario Ermini “il crocevia siriano”). La disoccupazione è legata anche alla chiusura di molte imprese locali, dopo che un trattato con la Turchia ha determinato il calo dei dazi e la conseguente invasione di manufatti turchi. Ma ha influito pesantemente anche l’impatto della crisi mondiale con un calo dal 3 al 5,5% dell’export (indagine Psia genn. 2010); calato significativamente anche il commercio di transito che era una delle voci economiche di rilievo. Il risultato è stato un deprezzamento della sterlina siriana e il maggior costo degli interessi sul debito. Nei primi mesi di rivolta il governo ha bruciato l’equivalente dello 0,8% del Pil, mandando in rosso il bilancio dello Stato siriano, per ripristinare in parte i sussidi e pagare con regolarità gli stipendi dei dipendenti pubblici. Essendo incapace di imporre il pagamento delle tasse a chi potrebbe (in Siria le tasse pesano per l’11% del Pil contro un 15% in Egitto e un 25% in Marocco), lo Stato è sempre più indebitato e non può contare di collocare i suoi titoli a causa delle sanzioni, ma anche della sfiducia dei mercati internazionali. Contemporaneamente le entrate da petrolio che garantivano nel ’95 il 15% del bilancio dello Stato si sono dimezzate; l’estrazione è crollata da 600 a 380 mila barili.

Il governo per ridurre l’ineguaglianza sociale dovrebbe tagliare i privilegi della casta al potere, ma preferisce la repressione. Fra le rivendicazioni dei giovani, raccolte dalla stampa occidentale, c’è un lavoro e un salario dignitosi, ma anche la fine della legge marziale imposta nel 1963 e ancora in vigore, la riduzione del servizio militare obbligatorio che dura dai 18 ai 24 mesi.
In rivolta i piccoli contadini (l’agricoltura assorbe il 17% della forza lavoro contro il 16% dell’industria e il 67% dei servizi), che in passato sono stati la struttura portante del sostegno al regime. Le piccole dimensioni della proprietà terriera, in particolare al Nord non consentono investimenti e migliorie tecniche. Ma il problema principale è la mancanza d’acqua. A partire dall’80 lo Stato non ha più contribuito ad aumentare l’area dei terreni irrigui (oggi pari al 21% dei terreni coltivati), vuoi per la perdita di una fonte idrica essenziale come le Alture del Golan, vuoi per il drenaggio d’acqua operato negli anni ’80 dalla Turchia coi suoi progetti di dighe sul Tigri e l’Eufrate (come il SouthEastern Anatolia Project), vuoi per fattori meteorologici (5 anni di siccità). La produzione agricola è calata del 25% negli ultimi 6 anni, anche per la difficoltà a garantire lo stoccaggio e per effetto della progressiva salinizzazione del suolo. Molti contadini rovinati sono stati costretti a lasciare la terra e a emigrare nelle città, dove peraltro non hanno un futuro. L’urbanizzazione aggrava la mancanza di acqua nelle città. Dieci anni fa la fornitura d’acqua era garantita a singhiozzo 4 giorni su 7. Oggi la situazione è molto peggiorata, l’acqua è dappertutto razionata. L’assenza dello Stato nella gestione del problema fa sì che la poca acqua disponibile sia usata male e spesso sprecata. I pozzi sono scavati illegalmente e senza criterio. (AT 30 mar. ’11). Daraa, un’area agricola molto povera, in sei anni è stata investita dall’arrivo di un milione di persone che hanno lasciato l’Est del paese rimasto senza acqua. La rivolta è scoppiata per chiedere acqua potabile (Jerusalem Post 1° dic. 2010).
La novità degli ultimi due mesi è l’allargarsi della protesta alla borghesia delle grandi città, come Aleppo e Damasco. Finora questa borghesia (negozianti, manager di hotel, grandi commercianti, imprenditori) era col regime, di cui condividevano le scelte liberiste, che avevano beneficato banche private, commercio e turismo. La rivolta riguardava i villaggi di campagna e i sobborghi poveri delle piccole città. Adesso la sanguinosa repressione e il caos interrompono il turismo, mettono in fuga i capitali (20 miliardi di $ secondo Traball, su Sole 28 luglio). Le attività commerciali e industriali sono crollate del 50%. Inoltre scarseggia l’elettricità, calano le riserve alimentari (Figaro 1° ag. ’11). La comunità degli affari non si scompone per le repressioni, ma non accetta una prolungata instabilità. Per loro l’ideale sarebbe una transizione all’egiziana, con un altro leader alawita ben accetto all’esercito che sostituisca lo screditato Bashar (The Washington Times 26 magg. ’11)

Perché il regime resiste
La protesta è ampia e non si piega nonostante la violenza del regime, un fatto che dimostra l’insostenibilità della situazione per i lavoratori e la popolazione siriana. Tuttavia l’opposizione non riesce ad ottenere nemmeno risultati tattici, in particolare perché è frammentata, non ha una piattaforma condivisa, non ha gruppi dirigenti riconosciuti universalmente, dopo 40 anni di repressione. Il Sole del 28 luglio così sintetizza la situazione “Dopo quasi cinque mesi di lotta non è emerso un partito, un leader né un fronte davvero alternativi. Gli oppositori non hanno la forza per scalzare il regime”. Osserva con il suo disincantato pragmatismo G. Friedman (su Stratfor 30 agosto) che, per contro, se un regime dura quarant’anni (ed è il caso di Gheddafi o degli Assad in Siria) questo non può avvenire solo sulla base della pura e semplice violenza. Occorre che ci sia il consenso e il supporto almeno di una parte consistente della società, di strati che ne traggono vantaggi che non sono disposti a perdere senza combattere. La minoranza alawita non cederà il potere senza combattere. La lealtà del Partito Baath, che ha 2 milioni di iscritti, non è scalfita (solo 200 dissidenti, concentrati nella città di Daraa, hanno stracciato la tessera. Soprattutto non ci sono defezioni significative nelle forze armate. Secondo fonti anonime, in molte località le forze speciali fedeli agli Assad si sono scontrate con reparti di polizia locale che rifiutavano di sparare sui dimostranti; inoltre in alcuni casi i soldati sunniti hanno rifiutato di obbedire agli ordini degli ufficiali alawiti. Gli episodi di defezioni della truppa sono confermati da Al Arabiya (31 lugl. ’11), ma sono comunque minoritari, riguardano i bassi ranghi e si concentrano in una sola area, il Sud-ovest. L’esercito siriano coincide largamente, infatti, con la frazione al potere; il 70% dei 200 mila militari di carriera è alawita e anche l’80% degli ufficiali, nonché il 100% della Guardia Repubblicana, il corpo di élite guidato dal fratello di Bashar Maher. Al contrario la maggior parte dei coscritti sono sunniti e sono di leva per 2-3 anni, in genere giovani contadini che scelgono la carriera militare per sfuggire alla fame delle campagne. Sunniti sono anche i piloti dell’aviazione, ma tutta la logistica a terra, le telecomunicazioni e la manutenzione sono in mano agli alawiti, rendendo improbabile una ribellione dell’aviazione. Assad non piace a tutti i generali o a tutti gli alawiti, ma essi temono le rappresaglie se il potere fosse rovesciato dalla “piazza sunnita”, non c’è una opposizione organizzata che possa garantire l’immunità ai perdenti, per cui Foreign Policy (6 lugl. ’11) sostiene che non c’è una plausibile possibilità di una transizione negoziata in Siria. Timori di rappresaglie circolano anche fra le minoranze religiose. Ma al di là di questo, come in Libia, chi si è identificato col regime non è disposto a cedere i vantaggi di cui gode. Usa, Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Francia e Svezia ospitano e foraggiano gruppi siriani di opposizione, formati da intellettuali, imprenditori, esuli spesso senza alcun legame con la protesta delle piazze, ma utili nell’ipotesi di un eventuale intervento militare. Sono stati organizzati meeting e conferenze per la stampa occidentale.

L’incognita di un possibile intervento in Siria
Arabia Saudita e Qatar vedono la caduta di Bashar al Assad come un colpo inferto all’Iran e in generale all’influenza sciita in Medio Oriente, il corollario necessario agli interventi repressivi in Yemen e Bahrein. Ma buona parte dell’Amministrazione Obama preferisce limitarsi alle sanzioni, per lo meno fino a che non ci sarà stato un consistente ritiro da Irak e Afghanistan. In passato al di là degli attacchi verbali, la Siria è stata considerata anche dagli Usa un elemento stabilizzatore nell’area, un contrappeso all’Iran. E comunque ha goduto dell’appoggio diplomatico e politico di Iran, Turchia, Russia. E’ d’altro canto evidente che come in Libia, senza interventi esterni, Assad non è abbastanza forte da reprimere efficacemente l’opposizione, ma l’opposizione, in assenza di consistenti defezioni da parte dell’esercito e in assenza di una piattaforma rivendicativa unitaria, non sembra in grado di rovesciare il regime. Sull’opposizione attiva nel paese trapelano scarse informazioni. Non ci è dato sapere se esistano movimenti a base proletaria; è inevitabile che nella lotta gruppi di lavoratori abbiano maturato posizioni autonome dalla propria borghesia e indipendenti dalle potenze locali e occidentali. La rivolta siriana non può che far emergere la lotta di classe.

LA QUESTIONE SIRIANA E LA MALATTIA SENILE DEL TERZOMONDISMO

Una cosa sensata a proposito della guerra in Siria il blog socialsovranista Aurora l’ha finalmente esternata: «L’orientamento di classe di un’organizzazione, trova sempre la sua massima espressione nella sua politica internazionale» (La guerra per procura della Cia in Siria e la “sinistra” pro-imperialista). Non c’è il minimo dubbio: sottoscrivo a occhi chiusi questa tesi. Ed è proprio sulla scorta di questa tesi che in diversi post mi sono permesso di giudicare ultrareazionaria fino al parossismo la posizione “antimperialista” di chi sostiene il regime (altrimenti chiamato «popolo») siriano.

A proposito di «popolo», un concetto schiettamente borghese sotto ogni rispetto: storico, politico, filosofico, ecco cosa scrivevano i comunisti, quelli veri, nel 1920, mentre con un entusiasmo senza pari che presto andrà deluso seguivano gli eventi rivoluzionari in Germania, in Italia e in Polonia: «Il partito comunista mette in primo piano la netta separazione degli interessi delle classi oppresse, dei lavoratori, degli sfruttati, dal concetto generale dei cosiddetti interessi del popolo, che significano gli interessi della classe dominante» (Tesi sulla questione nazionale e coloniale approvate al II Congresso dell’Internazionale Comunista). E, si badi bene, quei comunisti scrivevano questa tesi che rappresenta il minimo sindacale per ogni militante “internazionalista” che si rispetti in un momento in cui il processo storico assegnava alla borghesia dei paesi sottoposti allo sfruttamento coloniale diretto e indiretto da parte delle potenze imperialistiche un ruolo fortemente rivoluzionario, beninteso sul terreno dello sviluppo capitalistico. Basta ricordare la Cina, l’India, il Medio Oriente e via di seguito. Eppure, anche in quel momento «il partito comunista» avvertiva i suoi militanti a non sacrificare l’autonomia di classe del proletariato sull’altare degli interessi nazionali, quant’anche «storicamente rivoluzionari», o quantomeno «progressivi».

Da allora il mondo ne ha fatta di strada, e adesso l’intera (dis)umanità cammina sotto un cielo interamente capitalistico. In nessun luogo del pianeta la borghesia svolge una funzione minimamente progressiva, e il concetto e la prassi di nazione hanno una natura reazionaria persino là dove (come in Palestina) ancora esiste, in forma sempre più residuale e incancrenita, una «questione nazionale». Beninteso, anch’io sostengo, peraltro senza alcun entusiasmo, la «causa palestinese», quella, detto di passata, strumentalizzata da decenni (dal 1948) dai paesi mediorientali in chiave di politica interna (controllo sociale delle masse) e internazionale (lotta per l’egemonia nella delicata regione); ma lo faccio in vista di un superamento da parte dei palestinesi del feticcio nazionalistico, e non certo perché attribuisca alla nazione palestinese chissà quale valenza “rivoluzionaria” o semplicemente “progressiva”. Nel XXI secolo il nazionalismo è un veleno per le classi subalterne persino anche dove rimane aperta una «questione nazionale».

In questo contesto storico e sociale tirare in ballo «il popolo» da parte di chi affetta pose antimperialistiche è semplicemente grottesco, tanto più quando è scoperto che essi appoggiano gli stati, eletti a campioni della lotta antimperialista, non certo le moltitudini, peraltro assoggettate al totale controllo della fazioni che si stanno disputando il potere nella calda regione mediorientale. Giustissimo denunciare il ruolo imperialistico, nella questione siriana, dell’imperialismo occidentale e dei suoi alleati regionali; ma questo prezioso lavoro cambia completamente di segno nel momento in cui si finisce per fare il tifo per le potenze, altrettanto imperialistiche, che vi si oppongono. Si dice: «la denuncia non basta, bisogna fare qualcosa di più concreto». Sostenere una della parti in conflitto? Bella concretezza, non c’è che dire! La verità è che ci troviamo a che fare con la fase senile e putrescente del Terzomondismo, ossia della vecchia ideologia, covata a Mosca e a Pechino, secondo la quale l’Occidente è il male assoluto, mentre il «socialismo reale» e i Paesi in via di sviluppo erano gli alleati del proletariato occidentale. Questa ideologia era reazionaria quando nacque, figuriamoci oggi. Eppure c’è gente che continua a masticare questa robaccia, che ha servito solo gli interessi di potenza dei paesi che aspiravano, del tutto legittimamente sul piano del processo storico, a un posto al sole nell’agone della contesa mondiale.

Della serie: come sostenere una causa ultrareazionaria.

«Washington sta anche aiutando a distribuire armi e denaro donati dai suoi alleati di destra del Medio Oriente, Turchia, Arabia Saudita e Qatar. Queste potenze non stanno conducendo una lotta per la democrazia, come parte della “primavera araba”, l’ondata di insurrezioni rivoluzionarie della classe operaia che ha rovesciato i dittatori filo-USA in Tunisia e in Egitto l’anno scorso, e terrorizzato Washington e i suoi alleati in Medio Oriente». Capito? Se la «primavera araba» indebolisce gli alleati regionali degli Stati Uniti trattasi di «insurrezioni rivoluzionarie della classe operaia» (veramente l’ideologia è una brutta bestia!), se invece essa indebolisce il fronte anti-USA viene retrocessa a complotto internazionale teso a cacciare gli eroi dell’antimperialismo. Pro-USA (e Israele, c’è bisogno di specificarlo?) ovvero anti-USA: ecco il criterio “antimperialistico” che informa la politica di questi “internazionalisti” senza se e senza ma. Ma! Valli a capire. Sulla cosiddetta «Primavera Araba» rimando ai miei post scritti sul tema.

Il silenzio del pacifismo internazionale (molto attivo quando a sparare sono gli Stati Uniti e Israele) e l’attivismo politico dei sostenitori del massacratore di Damasco la dicono assai lunga sull’attuale impotenza politica e sociale delle classi dominate, incapaci di trovare il filo di una iniziativa politica contrassegnata dall’autonomia di classe tanto sul fronte della guerra economica (svalutazione delle merci, a partire dalla forza-lavoro, distruzione di capitali, conquista di mercati e di fonti energetiche, spending review, politica lacrime e sangue, ecc.) quanto sul fronte delle crisi internazionali. Metto un punto, in attesa di venir denunciato dagli “antimperialisti” duri e puri come un servo sciocco delle «agenzie politiche dell’imperialismo».

Rimando a COSA CI DICE LA SIRIA