Prossima pubblicazione: DACCI OGGI IL NOSTRO PANE QUOTIDIANO

Capire la genesi della ricchezza sociale per capire la crisi economica.

A quattro anni dal suo ingresso in scena, la crisi economica internazionale non sembra proprio intenzionata a togliere il disturbo. Anzi, col passare del tempo sembra averci preso gusto, a impazzare sulla scena sociale, e mese dopo mese non smette di sorprenderci con le sue inquietanti performance. Nata ufficialmente – e apparentemente – come crisi finanziaria, essa ha ben presto mostrato il suo aspetto industriale, e da ultimo ama vestire i panni del Debito Sovrano, sempre sul punto di trascinarci nel baratro del default.

Capire come nasce il nostro simbolico pane quotidiano significa individuare le cause essenziali dall’attuale crisi economico-sociale, in modo da mettere un valido strumento di lotta teorica e politica nelle mani di chi non vuole capitolare dinanzi alle sirene del «Bene Comune» e del populismo demagogico alla ricerca di capri espiatori: la Casta, gli Speculatori, i Banchieri, i Tedeschi, i Tecnocrati, il «Liberismo Selvaggio».

Presto disponibile su questo sito anche in versione scaricabile.

NESSUNO TOCCHI FORNERO!

Per stornare dalla propria austera persona ogni dubbio circa la sua fedeltà alle Istituzioni, Oliviero Diliberto ha ricordato all’opinione pubblica la sua ultradecennale militanza dalla parte della Legge e dell’Ordine. «Negli anni Settanta sono stato io a denunciare i terroristi che si annidavano nelle fabbriche!» Che lo stalinista in salsa italiana non abbia nulla da invidiare al fascista quanto a autoritarismo, non avevo dubbi. Mai avuto dubbi in merito.

Detto di passaggio – e a scanso di tragici equivoci –, il Brigatista cosiddetto Rosso coltivava una miserabile ideologia che non era affatto estranea a gran parte del mondo della «Sinistra» (PCI compreso) del tempo. Ciò che lo distingueva dallo stalinista e dal maoista “ufficiali” era l’uso della P38. Per il resto, tutti questi personaggi digiuni di teoria critico-radicale masticavano la stessa cacca ideologica. Insomma, erano tutti «compagni che sbagliano»…

Per quanto riguarda la nota maglietta nera, al cimitero bisogna mandare il Capitalismo, non la Fornero. Intanto iniziamo a revocare in questione l’ideologia del Bene Comune («Fare gli interessi generali del Paese!»), la quale sequestra le classi subalterne  dentro il cerchio stregato delle «compatibilità» e delle «responsabilità». E guardiamoci da Diliberto!

BENE LA TEORIA. MA LA PRASSI?

Il criticone! E la prassi?

Diverse persone che hanno la bontà di leggere i miei modesti post dicono: «Bene la teoria, ma la prassi?» Qualcuno, dopo aver formulato questa implicita critica, “tagga” su FB le foto di onesti servitori dello Stato (tipo Falcone e Borsellino) rivendicandone, legittimamente, la battaglia legalitaria. Ma “la mia teoria” che c’entra con tutto ciò?

Altri, che formulano la stessa obiezione, pubblicano post che esaltano «la teoria e la prassi» di Mao, o di Che Guevara, o di Castro. Ancora una volta: che c’entra la mia cosiddetta teoria con questa più che legittima rivendicazione teorica e politica del maoismo ecc., che ovviamente non condivido e che anzi combatto ormai da svariati decenni? Nulla di nulla.

Altri ancora concordano con la mia “teoria anticapitalistica”, salvo poi praticare il tanto modaiolo benecomunismo: «Acqua Bene Comune! Ambiente Bene Comune! General Intellect Bene Comune!» Un modo fin troppo “dialettico” di coniugare «teoria e prassi». Comunque troppo “dialettico” per le mie scarse capacità intellettuali. Insomma, siamo sicuri che si tratti, da parte mia, solo di un difetto di “prassi”? O non mi sono spiegato bene, o i miei critici non hanno compreso la mia “teoria”, ovvero essi non mi prendono sul serio. La terza ipotesi mi sembra quella più verosimile.

Ebbene, io non sono né un intellettuale (purtroppo non campo di intelletto: il mio capitale disumano è assai vile!), né una sorta di grillo parlante «critico-radicale», il quale si appaga delle altrui contraddizioni e insufficienze. Io voglio fare della mia “teoria” una prassi, e cerco, per dirla in termini teologici, persone sensibili alla mia chiamata. «Vasto programma, Isaia!» Non c’è dubbio. Ma non è anch’essa una prassi più che legittima? O mi devo necessariamente inchinare dinanzi alla potenza feticistica dei numeri? Il «salto dialettico» della quantità in qualità vige solo in natura, mentre nella società una moltitudine sterminata ma priva di coscienza non può che riprodurre la cattiva condizione sociale del Dominio.

Su questo punto Freud, Reich (Psicologia di massa del fascismo) e Adorno hanno scritto cose assai interessanti. I numeri di una piazza, per quanto ribollente e colorata, presso di me non sortiscono alcun effetto intimidatorio, perché la verità che mi interessa non sta nella quantità, né nell’esibizione estetica (bandire rosse!) o muscolare – Black Bloc e fascistoidi similari, con o senza falce e manganello. Le masse che si radunano sulla base di una convocazione politicamente reazionaria (esempio: difesa della Costituzione, lotta contro la corruzione e l’illegalità, ecc.) non hanno ragione. Il loro disagio sociale va certo indagato e spiegato, ma le sue ricadute ideologiche e politiche vanno criticate senza peli populistici sulla lingua. «Servire il popolo» è da sempre un mantra demagogico che non ha creato un solo grammo di «Coscienza di classe». D’altra parte, non devo presentarmi alle prossime scadenze elettorali…

Come altre volte ho scritto, la prassi è la continuazione della teoria con altri mezzi, e viceversa. La prassi è la forma trasformata della teoria, e viceversa. Tra l’una e l’altra non insiste un rapporto di identità, ma di inscindibile unità dialettica. Bisogna prendere molto sul serio questo fondamentale concetto, il quale, nella sua semplice essenzialità, non è solo esteticamente bello, ma è soprattutto pieno, in modo davvero esuberante, di potenzialità critiche e sociali che aspettano solo di venir scoperte ed esperite. Il mio piccolissimo contributo “teorico” – che, contro tutte le apparenze, è politico all’ennesima potenza – intende muoversi in questa direzione. Che sia un’impresa temeraria è cosa che so da sempre!

MISERIA DEL COMUNE

Francesco Francesco Ubertini detto il Bachiacca, La raccolta della manna (1540-1555)

Le righe che seguono risalgono al Settembre 2010. Le “socializzo” come contributo al dibattito che sul concetto di Bene Comune si è avviato tra gli amici di Facebook. Rimando anche a La manna non cade dal cielo! (2008) e a La notte buia e la vacca sacra (2010), scaricabili dal Blog. Le faccio precedere da una citazione tratta dall’ultimo saggio di Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, la cui estesa critica al pensiero di Antonio Negri mi appare abbastanza fondata, salvo che per alcuni aspetti politici, peraltro tutt’altro che secondari, su cui adesso sorvolo.

«Il dilemma da cui Negri e soci non riescono a districarsi è se sia oggi possibile tracciare un confine fra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico. La loro risposta è – più che ambigua – paradossale, nel senso che è, al tempo stesso, negativa e positiva. Da un lato, si dice che nulla ormai può esistere al di fuori del capitale, coerentemente con l’assunto in base al quale la totalità delle relazioni umane viene sussunta nel processo di valorizzazione capitalistico; al tempo stesso si afferma che tutta la produzione sociale – in quanto produzione biopolitica di soggettività – è esterna al capitale e si auto-organizza attraverso forme di cooperazione spontanee e autonome. In altre parole: il biopotere, inteso come potere sulla vita, e la biopolitica, intesa come potere della vita coesistono in un unico piano di immanenza» (C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, p. 102, Egea, 2011.)

Nell’ultimo prodotto editoriale di successo, la coppia Hardt-Negri ritorna a maltrattare indegnamente un concetto marxiano di grande significato teorico e politico: il General Intellect (*). Ho provato a criticare il punto di vista economico dell’ex «cattivo maestro» (ma solo di marxismo, beninteso) nei miei appunti di studio intitolati La vacca sacra e la notte buia. Il capitale da dove smunge il plusvalore?, e perciò in queste poche pagine non mi diffonderò sulla questione, e ne farò cenno solo en passant.

Il nuovo best seller dell’intellettuale italiano s’intitola Comune. Oltre il privato e il pubblico, ed esce in Italia sotto gli auspici del grande successo ottenuto negli Stati Uniti, non ultimo anche in grazia della crisi economica che ancora travaglia il paese del Presidente abbronzato. Confesso di non averlo ancora letto, ma avendo seguito con attenzione quanto ha avuto modo di scrivere e dichiarare il Professore padovano intorno alla sua «monumentale costruzione teorica» (esternando peraltro concetti e ragionamenti tutt’altro che nuovi per il sottoscritto), è come se l’avessi fatto.

L’oltrismo, si sa, è da sempre il mantra di Negri (oltre Marx, oltre la legge del valore, oltre il socialismo, oltre l’imperialismo, oltre il postmoderno, oltre… l’oltre, forse per dare l’impressione di essere sempre al passo coi tempi, anzi: decisamente oltre). Ma che significato dare al concetto di Comune? Perché lo Scienziato Politico tanto celebrato dai media che contano parla di Comune? «Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti»: questa risposta, di sconvolgente ingenuità e di abissale indigenza teorico-politica, si trova in una recensione al libro Il saccheggio (di Ugo Mattei e Laura Nader) firmata da Negri e apparsa sul Manifesto del 4 maggio 2010 con questo significativo titolo: Quel diritto politico di saccheggiare i beni comuni.

La mia tesi – fuori moda, lo ammetto – è che, invece, non esiste alcun Bene Comune, giacché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o «globale») appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al capitale, privato o pubblico che sia. Il capitale non si appropria arbitrariamente il Comune, non lo «privatizza», ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia. Questa mostruosa vitalità espansiva – in termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi – rappresenta il tratto più significativo e «rivoluzionario» (vedi Marx e Schumpeter) del capitalismo.

Il lavoro (quello «materiale» e quello «immateriale», quello produttivo di «plusvalore» e quello produttivo di solo «profitto» o di sola «rendita»), la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi esprimono e riproducono sempre di nuovo il rapporto sociale dominante in questa epoca storica. È precisamente questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che riempie di contenuti una «categoria economica antidiluviana» (Marx) come quella di proprietà (proprietà privata, proprietà statale, proprietà collettiva), e il concetto di Diritto a esso correlato. «La proprietà di capitale presenta la prerogativa di esercitare un comando sul lavoro degli altri»(K. Marx, Il Capitale, III, p. 1172, Newton, 2005.): questa è la forma peculiare della proprietà capitalistica, la quale si regge, fondamentalmente, non sul possesso di cose materiali, ma su un rapporto sociale, sul cui fondamento prende corpo la società-mondo che conosciamo.

Per gente abituata ad associare il socialismo allo statalismo, al capitalismo di Stato (la cui forma «sovietica» diventò celebre sotto il giustamente famigerato nome di «socialismo reale»), persino il Comune di Negri può apparire quanto di più «sovversivo» e «radicale» si possa trovare sul mercato delle ideologie, come un «Manifesto del Partito Comunista versione 2.0», per dirla col prestigioso Wall Street Journal. Nientemeno! In mezzo a tanti microbi, persino un nano può accreditarsi – in primo luogo presso se stesso – come un gigante del pensiero.«Gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comune con Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietro l’angolo. Quello della Casa Bianca»(F. Rampini, La Repubblica del 14 settembre 2010.).

Il successo di Negri si spiega, tra l’altro, con la sua capacità di creare nella «Moltitudine» (a dire il vero, una «moltitudine» assai elitaria, e persino «radicalchic») l’illusione (che aspetta solo di venir frustrata – cosa che peraltro accade puntualmente) di rappresentare una potenza sociale, «qui e ora». Sentirsi sempre al centro del Mondo, eternamente motori delle trasformazioni sociali, avanguardie forever: ecco ciò che promette l’articolo ideologico venduto dal Nostro. Quando poi i clienti capiscono (ed è già un miracolo) di essere stati piuttosto alla retroguardia del reale processo sociale, saranno già trascorsi almeno venti anni. Come si dice: non è mai troppo tardi…

Antonio Negri, (cattivo) maestro fumista

Il nebuloso concetto di «Bene Comune» sembra essere stato fabbricato apposta per avvolgere in una spessa coltre fumogena concetti scottanti e scabrosi quali quelli di violenza, di rivoluzione, di potere politico e così via; forse anche perché in passato l’ex teorico dell’Autonomia Operaia non ha mostrato di saperli padroneggiare bene, questi concetti, né sul piano teorico né su quello pratico. È anche in questa fumisteria ideologica, che fa passare come profondo ciò che è semplicemente vuoto, la vuota profondità di un pensiero solo apparentemente critico, che probabilmente occorre individuare la causa non meno importante della sua «fascinazione».

Spinto dalla curiosità, la quale è notoriamente maschia (o no?), in una libreria ho dato una rapida scorsa al nuovo capolavoro di Negri, e l’occhio non ha potuto fare a meno di posarsi su questa perla: «Una volta che si è adottato il punto di vista del comune le categorie fondamentali dell’economia devono essere ripensate. In questo nuovo contesto, ad esempio, la valorizzazione e l’accumulazione si declinano in una dimensione sociale anziché in una dimensione strettamente privatistica e individualistica. Il comune si costituisce ed è messo al lavoro da un’ampia e aperta rete sociale» (M Hardt, A. Negri, Il Comune, p. 284, Rizzoli, 2010.). Una perla tutt’altro che originale, nell’ambito della riflessione negriana.

Ora, che la dimensione sociale della valorizzazione e dell’accumulazione è per Marx un punto di vista assolutamente certo e dirimente, per chiunque abbia dimestichezza con le sue opere cosiddette economiche è qualcosa che suona ovvia e persino banale, e desta davvero meraviglia che uno Scienziato della fatta del Nostro non se ne sia accorto, o che non lo abbia capito: possibile?

Basta leggere soltanto la «Prima sezione. La conversione del plusvalore in profitto» e la «Seconda sezione. La conversione del profitto in profitto medio» del Libro Terzo del Capitale per capire di cosa parlo. Una sola citazione: «Ciò che così [ossia con lo sviluppo della produttività sociale] torna a vantaggio del capitalista rappresenta dal suo canto un guadagno che è il risultato del lavoro sociale, anche se non degli operai direttamente sfruttati dal capitalista stesso. Quello sviluppo della forza produttiva è dovuto in ogni caso al carattere sociale del lavoro messo in opera, alla divisione del lavoro all’interno della società, allo sviluppo del lavoro intellettuale, innanzi tutto alle scienze naturali. Il capitalista trae vantaggio dai risultati del sistema della divisione sociale nel suo complesso»(K. Marx, Il Capitale, III, p. 965.). In poche parole, Negri chiama Comune ciò che l’uomo di Treviri chiamava Capitalismo.

«Ricordate la legge classica del valore-lavoro? Il capitale variabile diventa forza lavoro produttiva solo quando era sotto il capitale. Tutto questo è finito. Pur restando al centro di ogni processo di produzione, il lavoro è il risultato di un’invenzione e i suoi prodotti sono quelli della libertà e dell’immaginazione» (La comune di Toni Negri, intervista del 29 marzo 2010 a Negri comparsa sul sito di Comunismo e Comunità). Siamo andati oltre il capitalismo e non me ne sono accorto: chiedo umilmente venia! Il fatto è che, essendo ancora impigliato nella barba del Grande Vecchio, pensavo che l’invenzione non fosse che «capitale costante», un formidabile strumento capitalistico di dominio e di sfruttamento della natura e dell’uomo (dell’individuo tout court, e non solo del «capitale variabile»). E invece siamo finiti – sia lode alla Santa Astuzia della Storia! – nel Regno della libertà e dell’immaginazione. Il Sessantotto ha vinto, dunque?

Naturalmente ognuno è libero di pensarla come vuole, sul capitalismo, sul «Comune» e su Marx, del cui pensiero peraltro non intendo essere né un difensore d’ufficio (il Tedesco si difende bene da solo, basta leggerlo con intelligenza critica, non con intelligenza ideologica) né, tanto meno, un interprete autentico – incombenza che lascio di buon grado ai «marxisti». Mi riprometto anzi di comprare il libro di Negri e socio, e chissà se leggendolo con l’attenzione che sicuramente merita io non possa andare oltre il mio pregiudizio. Non bisogna mai opporre resistenza alla Divina Provvidenza.

(*) «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale forma le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (K. Marx, Lineamenti, II, p. 403, La Nuova Italia, 1978). A mio avviso, quella prassi e quel processo hanno «il diavolo in corpo», sono cioè sussunti sotto l’imperio sempre più intransigente (totalitario)delle esigenze economiche, le quali oggi ruotano ossessivamente intorno alla forma più astratta della ricchezza sociale: il Denaro.

Il Comune di Catania

ESSI SOPRAVVIVONO! OVVERO: IL DECOMPOSTO CHE AVANZA

A volte ritornano. Non c’è dubbio. Pensavi che fossero morti e sepolti per sempre, cacciati nell’oltretomba della storia per l’esaurirsi di una vecchia e maligna «spinta propulsiva», e invece te li ritrovi dinanzi agli occhi più baldanzosi che mai. È un fatto: essi sopravvivono! Lo attestano Il Manifesto, Liberazione e L’Unità. Di chi parlo? Degli statalisti, è chiaro.

In realtà, lo Statalista riciccia sempre in tempi di crisi economica, allorché il truce Leviatano («quella potenza astuta che tutto scova, con quel nemico tutt’orecchi che mai sonnecchia», per dirla con Kierkegaard) è invocato almeno da una parte della società affinché salvi «le sorti generali del Paese», ossia il regime capitalistico.

E già, allo Statalista piace un sacco il Capitalismo di Stato, come quello che faceva capo al «paradigma dell’IRI» e alla defunta (se Carlo Marx vuole!) Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Ma anche il New Deal rooseveltiano non era mica da buttare!

Un Paese come il nostro che ha conosciuto il fascismo e il più forte partito stalinista del Vecchio Continente (alludo al PCI di Togliatti-Longo-Berlinguer-Occhetto), è ovvio che offra più di ogni altro le migliori condizioni di esistenza, o quantomeno di sopravvivenza, allo Statalista, «Nero» o «Rosso» che sia.

Oggi che certe merdose monete sono andate fuori corso, lo Statalista ama celarsi dietro l’ultima epocale fregnaccia ideologica: il Bene Comune. Per mutuare ancora il filosofo di Copenaghen, qui la farsa e il comico si toccano a vicenda in un’infinità assoluta.

L’acqua? È un Bene Comune, si capisce. La Giustizia? Si possono nutrire dubbi a tal proposito? I servizi sociali? Beni Comuni Naturali! E il lavoro? Come sopra. E il Capitale, come la mettiamo con questa demoniaca categoria economica? Nessun timore, nessun tremore: anch’esso è un Bene comune: «lo affermano gli Art. 41 e 42 della Sacra Carta», mi fa sapere lo Statalista. Ah, se lo dice la Sacra Carta possiamo stare tranquilli. Che cacadubbi che sono!

D’altra parte, se i profitti sono privati e le perdite (almeno in Italia) sono pubbliche, perché non pubblicizzare tutte le attività economiche del Paese? Ma sì, mettiamo in piedi un bel Capitalismo di Stato e mandiamo una volta per sempre a farsi fottere quel dannato liberismo selvaggio! Silvio concorda, e anzi ci tiene ad accompagnarlo personalmente lì dove esso merita di finire: a puttane!
Mi raccomando, se si libera un posto mi si tenga presente: l’ideologia antiliberista non mi tange in alcun modo. È il capitalismo tout court che mi serra piuttosto lo scroto: ahia!

Insomma, tempi duri si annunciano per le «lenzuolate liberali» del prossimo governo Bersani-Di Pietro-Vendola-Casini-Fini: il decomposto che avanza reclama il suo momento di gloria. Almeno per qualche settimana ancora.

In effetti, con un debito pubblico che si avvicina paurosamente ai due trilioni di euro, la papera statalista non può certo galleggiare felicemente. «E se tassassimo i più ricchi? Se tassassimo la rendita finanziaria e speculativa? In fondo anche la Tassa è un Bene Comune!» Sarà…

Ad ogni modo, ci terrei a rimanere fuori dal Bene Comune. Quel Bene, infatti, mi puzza assai di Male. Ma tanto!

MI ASTENGO. SOPRATTUTTO DAL DARE CONSIGLI

Credetemi sulla parola: a memoria d’uomo non si era vista una tornata referendaria così demagogica, menzognera e ideologica come quella che, se Dio vuole, si concluderà domenica 12 giugno. Rapidamente svolgo queste che so essere «considerazioni inattuali», non per dare indicazioni politiche – il frastuono progressista mi sovrasta! -, ma per gettare in mare la metaforica bottiglia, sperando intanto che dentro vi sia qualcosa…

Non c’è dubbio che il significato politico immediato dei referendum è il seguente: assestare il colpo di grazia al Male Assoluto, peraltro espugnato anche ad Arcore. Quello ideologico si può sintetizzare in questi termini: Pubblico è bello, la Giustizia esiste, basta volerla, e volerla uguale per tutti. Amen!

Ora, per chi ha in odio Berlusconi e il «berlusconismo», e crede che un diverso governo (magari presieduto da Nichi Narrazione Vendola, il più banale e parolaio dei luogocomunisti), ha certamente eccellenti motivi per sostenere le ragioni referendarie. Analogo discorso vale per gli amanti del cosiddetto Bene Comune (la Menzogna elevata al cubo, anzi ad n+1!), e per i credenti nello Stato Diritto, peraltro declinato in termini ideologici, ossia falsi.

Capite bene che uno come me, che non coltiva questa «religione civile», che ritiene Berlusconi e Vendola (o Bertinotti, oppure Ferrero o qualche altro campione “comunista”) le due facce della stessa medaglia sociale, che non fa alcuna distinzione tra Pubblico e Privato, tra tariffa e profitto, tra bolletta e fattura, e che, per soprammercato, è ostile allo Stato (e quindi al Diritto e alla Giustizia) al di là della sua contingente fenomenologia politica; capite bene che un simile singolare figuro più che andare al mare, domenica 12 farebbe bene a recarsi sulla Luna, o sul Monte di Venere. E non è detto che non lo faccia, magari con la fantasia…

Personaggi come Bersani e Di Pietro che, quando erano al governo, sostenevano la privatizzazione del servizio idrico (non dell’acqua, la cui proprietà, in tutto il Pianeta, è saldamente nelle mani del demanio, ossia del Leviatano che tanto piace ai sinistri e ai fascisti), e il ritorno all’Atomo, oggi cavalcano le paure della gente, facendole credere che nelle sue democratiche mani è stretto il futuro di questo Paese, se non dell’Umanità intera! «Cristo ha detto date da bere agli assetati, non date profitti ai capitalisti!»: così parlò il cattostatalista.

Il noto Scienziato della Politica di Montalcino di Bisaccia, ha dichiarato che «l’acqua non dev’essere una fonte di profitto»: qualcuno può spiegargli che, in epoca capitalistica, la fonte del profitto non è l’acqua (né l’atomo, né il petrolio, né l’idrogeno, né il carbone, né il sole…) ma la capacità lavorativa degli uomini? «E che ci azzecca?» Ci azzecca, ci azzecca…

Persino il quesito sull’energia atomica (peraltro salvato con manovra ardita dalla Cassazione), appare del tutto privo di mordente politico e critico, e si presta solo al gioco politico-economico delle diverse fazioni borghesi. A «Destra» come a «Sinistra» si gioca con le angosce della gente: l’Atomo, l’ortaggio, l’immigrato, lo zingaro,la mucca, la fame, la sete, il Mostro, le malattie, il petrolio, il buco d’Ozono, l’effetto serra, le cavallette, Silvio! Fermate il capitalismo: voglio scendere!

No, il 12 giugno non contribuirò a scrivere il futuro politico di questo Paese, né il suo Piano Energetico Nazionale.

L’IDEOLOGIA FA ACQUA DA TUTTE LE PARTI

L’ideologia del Bene Comune non è che il vecchio statalismo sotto mentite spoglie.

Il cattostatalista Vendola ha dichiarato che «privatizzare l’acqua è una bestemmia contro Dio». Il “Narratore” del luogocomunismo più insulso può permettersi il lusso di una simile bestemmia contro la coscienza critica solo perché Dio, essendo attualmente impegnato tra Giappone e Libia, non può fulminarlo seduta stante. Purtroppo non c’è più l’ubiqua Giustizia Divina di una volta!

Ci sono due diversi modi di osservare e concepire ciò che esiste tra cielo e terra: uno lo possiamo definire, con molte cautele e approssimazioni “filosofiche”, realistico, l’altro possiamo chiamarlo, con più certezze di quel genere, ideologico. Questo all’ingrosso. In realtà c’è un terzo modo, che però qui trascuro in quanto estremamente minoritario.

Vediamo di applicare questo elementare schema concettuale a un caso concreto, ad esempio all’acqua.

Cos’è l’acqua? Un «Bene Comune», come sostengono gli eticamente corretti, o una merce alla stregua delle altre, come affermano o lasciano capire i «liberisti selvaggi»?

Dal punto di vista realistico l’acqua che usiamo tutti i giorni in qualità di utenti è a tutti gli effetti un prodotto industriale, e quindi una merce. L’acqua, come materia prima dell’industria idrica e come oggetto di compravendita, va raccolta, depositata, trattata meccanicamente e chimicamente, aspirata e pompata, distribuita e, dulcis in fundo, consumata. Analogo discorso si può fare, in circostanze particolari (grandi edifici pubblici e privati, navi, aerei, ecc.) per l’aria: prima di giungere ai polmoni degli utenti essa deve essere filtrata, purificata, deumidificata o umidificata, riscaldata o raffreddata, aspirata e soffiata. Un trattamento industriale di tutto rispetto che l’utilizzatore finale paga senza saperlo.

Ma ritorniamo all’acqua. La lunga e articolata filiera idraulica che ce la rende disponibile ha ovviamente un costo, che qualcuno deve sostenere. Se questo «qualcuno» ha una natura pubblica o privata la sostanza delle cose, se considerata dalla prospettiva realistica, non muta di una virgola. È chiaro che mentre il «soggetto pubblico» può permettersi, a spese della fiscalità generale, il lusso di applicare al prodotto (o servizio)-acqua un «prezzo politico», la stessa cosa non può fare il «soggetto privato», il quale deve necessariamente vendere con profitto la propria mercanzia, pena la sua liquidazione. La grandezza di questo profitto dipende da svariati fattori, compreso quello che attiene alla struttura del mercato nel quale i soggetti economici (pubblici e privati) operano: si agisce in una condizione di monopolio, più o meno «naturale», ovvero in un’ambiante che garantisce la libera concorrenza tra diversi competitori? Sappiamo che l’impresa che opera in regime di monopolio sconta anche un plus di profitto. In teoria, ma nei paesi capitalisticamente più avanzati anche in pratica, la privatizzazione di un servizio (quella che nel caso specifico ho chiamato industria dell’acqua, senza la quale noi non berremmo né ci laveremmo, ecc.), se agita in un contesto non monopolistico, comporta quasi sempre una riduzione dei costi di produzione e dei prezzi finali.

Come si vede, tutta la questione si riduce a un problema di forma (che è sostanza delle cose, certo, ma non nel modo in cui pensano gli ideologi): a gestire l’industria – o servizio – dell’acqua dev’essere il Capitale Pubblico o quello Privato? Nel caso concreto del Bel Paese il capitalismo di Stato ha dato, in generale, davvero una pessima prova di sé, anche per quanto concerne il servizio di cui si tratta. Basta ricordare il pietoso stato in cui riversa la rete idrica, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, per capire di cosa stiamo parlando. Senza contare il peso della fiscalità generale che si fa di anno in anno sempre più insostenibile, e che dovrebbe finanziare, tra l’altro, l’ammodernamento di quella fondamentale infrastruttura.

Naturalmente, e qui veniamo al modo ideologico di osservare e concepire le cose, chi attribuisce al Capitale Pubblico un valore etico e a quello Privato un disvalore, perché gravato dal peccato del profitto (questo «sterco del demonio», secondo la vulgata cattostatalista) non può che tifare per il primo a detrimento del secondo. «Viva l’acqua come Bene Comune, abbasso l’acqua come merce!» Chi segue questo Blog sa come la penso in materia: chi pone una distinzione «etica» o «sociale» tra i diversi modi di essere del Capitale (pubblico o privato, «moderato» o «selvaggio, ecc.) suscita la mia più recisa riprovazione, per così dire…

No, l’Ideologo a me non la dà a bere. Il Capitale (pubblico o privato), purtroppo, sì.