LA BANDIERA RUBATA DEL PAPA PROGRESSISTA

?????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????????Una parte della borghesia desidera di portar rimedio ai mali della società per assicurare l’esistenza della società borghese. Ne fanno parte gli economisti, i filantropi, gli umanitari, gli zelanti del miglioramento delle condizioni delle classi operaie, gli organizzatori della beneficienza, i membri delle società protettrici degli animali [già allora!], i fondatori di società di temperanza e tutta la variopinta schiera dei minuti riformatori (Marx-Engels, Manifesto del partito comunista).

Nell’intervista di ieri a Papa Francesco curata per Messaggero.it, Franca Ginasoldati non resiste alla tentazione di rivolgere al Supremo Vicario la solita rivelatrice domanda: «Lei passa per essere un Papa comunista, pauperista, populista. L’Economist che le ha dedicato una copertina afferma che parla come Lenin. Si ritrova in questi panni?»

Quindi: comunismo, pauperismo e populismo messi nello stesso evangelico sacco. Amen! Il povero Lenin trattato alla stregua di un qualsiasi amico dei poveri, lui che ancora giovanissimo e con qualche capello in testa sostenne a muso duro contro gli amici del popolo la tesi secondo la quale i contadini martirizzati dalle continue carestie avevano bisogno più di coscienza rivoluzionaria, che del soccorso della borghese filantropia e del conforto della religione.

Ma a ben considerare la giornalista non commette poi un così grave peccato dinanzi alla verità, visto il concetto di “comunismo” che è venuto fuori dalla teoria e dalla prassi dei “comunisti” negli ultimi ottant’anni. Se persino un personaggio come Enrico Berlinguer è ricordato in questi giorni come uno degli ultimi leader “comunisti” degni di rispetto, si comprende bene come il termine “comunismo” non sia oggi che una vuota parola, che si può spendere appunto anche a proposito del capo di una delle più vecchie, strutturate ed efficaci agenzie politico-ideologiche al servizio del Dominio.

il-papa-con-la-bandiera-del-brasileMa veniamo alla risposta di Francesco (Lui ama farsi chiamare così): «Marx non ha inventato nulla! Io dico solo che i comunisti ci hanno derubato la bandiera. La bandiera dei poveri è cristiana. La povertà è al centro del Vangelo. I poveri sono al centro del Vangelo. Prendiamo Matteo 25, il protocollo sul quale noi saremo giudicati: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ignudo. Oppure guardiamo le Beatitudini, altra bandiera. I comunisti dicono che tutto questo è comunista. Sì, come no, venti secoli dopo. Allora quando parlano si potrebbe dire loro: ma voi siete cristiani». La Ginasoldati ci fa sapere che Francesco «ride» pronunciando queste parole. E ne ha tutti i motivi.

Ora, come sa chiunque abbia anche solo una conoscenza approssimativa degli scritti marxiani, il Papa di Treviri non ebbe mai i poveri come sua bandiera, ma il proletariato cosciente della propria posizione sociale e della propria “missione storica”: emancipare l’intera umanità attraverso la propria emancipazione. Al centro del discorso marxiano vi è l’attualità del dominio capitalistico e la possibilità della liberazione da ogni forma di coazione e di miseria (materiale e “spirituale”), non certo la povertà (compresa quella “esistenziale”), materia prima per riformisti, filantropi, preti e psicoanalisti. La Comunità netta di classi sociali e fondata sui bisogni umani (eliminazione del valore di scambio a esclusivo beneficio del valore d’uso): questa è l’originale “invenzione” marxiana.

«È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio»: lo disse, a quanto pare, Gesù non Carlo Marx. infatti, per il comunista tedesco si trattava di fare entrare nel Regno dell’Uomo non il povero, e magari anche il ricco di buona volontà, bensì l’uomo in quanto uomo, cosa che per lui presupponeva il superamento rivoluzionario della vigente società borghese fondata sulla ricerca del profitto.

L’ubriacone teutonico fece, con rispetto parlando, un uso igienico che non sarebbe educato precisare nei dettagli (ma ci siamo capiti!) della cosiddetta bandiera della povertà, che personalmente lascio volentieri nelle mani del Papa Progressista e dei suoi numerosissimi tifosi, molti dei quali di religione “comunista”, più o meno ortodossa o rifondata. Marx non aderì mai a quella «morale degli schiavi», vero e proprio veleno ideologico inoculato nelle vene degli ultimi che attendono – invano – di diventare i primi, che giustamente Nietzsche, profondo conoscitore della psicologia dei dominati, sempre condannò, anche se da un punto di vista filosofico e politico che non è certamente affine a quello di chi scrive.

Detto en passant, forse non è del tutto casuale se la prima enciclica di Benedetto XVI, il Papa teologo, ebbe come suoi oggetti critici espliciti proprio Nietzsche e Marx.

bergoglio-piccolo-papa-309873Scriveva Engels nel 1894, in una delle sue “volgarizzazioni” del pensiero socialista (non sempre utili alla causa, bisogna ammetterlo): «Entrambi, cristianesimo primitivo e movimento operaio moderno, predicano un imminente riscatto dalla schiavitù e dalla miseria; ma il cristianesimo primitivo pone questo riscatto in una vita dell’al di là, dopo la morte, in cielo; il socialismo lo pone in questo mondo, in una trasformazione rivoluzionaria della società». Ora, che ci azzecca la bandiera di Francesco, la cui stessa ragion d’essere si fonda sull’eterna esistenza del Male su questa Terra, con la bandiera di Federico, il quale nella sua utopistica ingenuità (che condivido) il Male voleva sradicare hic et nunc? Misteri della fede (progressista)!

10447074_743898022323258_1352543204675997902_nAggiunta da Facebook (7 luglio 2014)

L’INCHINO DELLA MADONNA

Ha destato molto scandalo l’inchino della Madonna delle Grazie della frazione Tresilico di Oppido Mamertina davanti all’abitazione del vecchio boss Peppe Mazzagatti, agli arresti domiciliari per motivi di salute. Invece appare del tutto naturale che ancora nel XXI secolo milioni di persone abbiano bisogno del conforto della Madonna. E, anche per prevenire antipatici equivoci ateistici, dico che non si tratta di un problema culturale, bensì di una questione squisitamente sociale. Come diceva il Mammasantissima di Treviri, «La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di un mondo senza spirito». Amen! Qualcuno a questo punto potrebbe sentirsi autorizzato a gridare: «Viva la Madonna, abbasso il Capitalismo!»? Forse. D’altra parte, chi sono io per stigmatizzare una simile autorizzazione?

«Quando non si adora il Signore», aveva detto il Santissimo Francesco a Sibari giusto qualche giorno fa, «si diventa adoratori del male, come lo sono coloro che vivono di malaffare e di violenza». Ma gli «adoratori del male», se mi è concesso obbiettare al Papa più amato dai progressisti, sono concepibili solo in una società fondata sull’ossessiva ricerca del massimo profitto, quest’ultimo declinato anche in termini non immediatamente economici («Che me ne viene da questa situazione? da questa azione? da questa relazione? ecc.).

Come disse una volta Papa Carlo, ciò che va scomunicato non è l’adoratore del male, ma il Male in sé, ossia il rapporto sociale che mette tutti in balìa di potenze sociali (che si esprimono, ad esempio, nel Moloch Denaro) che non controlliamo e che ci controllano dalla mattina alla sera, 360 giorni all’anno. Sante domeniche incluse.

Leggi, se vuoi, La natura criminale della mafia.

È UFFICIALE: PAPA FRANCESCO NON È COMUNISTA. CHE DELUSIONE!

FRANCESCO 2.0, IL “POPULISTA”…

526px-Giotto__Predella_3Nel nome è il suo destino, dicevano gli antichi. Quel nome è tutto un programma, dicono i contemporanei. In effetti, «il successore di Pietro» non avrebbe potuto scegliere per il suo pontificato un nome più suggestivo, evocativo, fin troppo carico di simbolismi e di rimandi teologici e politici. Francesco! Un nome, una missione.

Povertà, umiltà, carità (Deus Caritas Est, scriveva Benedetto XVI), riforma di una Chiesa perennemente in bilico tra Bene e Male, secondo il noto copione teologico che legittima la stessa esistenza di un’Agenzia chiamata al perdono e alla salvezza delle anime: tutto questo e altro ancora evoca quel Santo Nome. Un nome quasi tragico, che sa un po’ di “ultima spiaggia”: quale altro nome spendersi, dopo?

«Buonasera», come esordio, «Buonanotte», come commiato, e il gregge, o Popolo di Dio, maltrattato da un Dominio sociale sempre più cattivo e incomprensibile è esploso in una manifestazione di giubilo davvero commovente, addirittura imbarazzante e incomprensibile se vista dalla prospettiva illuminista. Qualcuno ha già parlato di un Papa populista…

Basta poco, pochissimo per riempire il sacco della speranza che gli individui azzannati dal Male non smettono di trascinarsi dietro. Perché oggi non saziarsi pronunciando quel nome? Francesco! Francesco! E domani? Domani è un altro giorno, si vedrà!

«Come sarebbe bello se il prossimo Papa scegliesse Francesco come nome»: il Popolo di Dio ha sperato, ha pregato ed è stato accontentato, un po’ in grazia dello Spirito Santo che è sceso come sempre sul Conclave, per ispirarne le gravi decisioni, un po’ perché la Grande Rinuncia di Benedetto XVI ha reso evidente la crisi epocale che attraversa la Chiesa, e non solo questa. «Ci vuole forza e carisma per rimetterci in carreggiata»: il messaggio del Pastore Tedesco è arrivato forte è chiaro.

Da tutte le parti della società, della politica e del mondo arrivano entusiastici commenti: la Chiesa si rinnova, la Chiesa apre agli ultimi, la Chiesa si rende disponibile al dialogo con le altre fedi, la Chiesa lancia un messaggio di sfida ai potenti del mondo. Persino il decrepito Pannella, da sempre in guerra contro la «chiesa simoniaca», rivendica come una sua personale vittoria il nome scelto dal Santo Padre, a dimostrazione di come le mosche cocchiere non hanno età.

Gli economisti progressisti, dal loro canto, non hanno mancato di ricordare come l’ex vescovo di Buenos Aires abbia sempre tuonato contro la speculazione finanziaria che dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso non smette di imperversare sull’Argentina: «Francesco dirà ai potenti della Terra che è giunto il momento di mettere l’uomo al centro del mondo, e non l’economia basata sul profitto». Come se la Chiesa avesse predicato nell’ultimo secolo qualcosa di diverso! «Ma adesso dalla predicazione si passerà alla prassi!», dicono alcuni estimatori della Teologia della Liberazione. Dopo Francesco forse avremo un Carlo…

La Chiesa Romana esce dall’angolo e si posizione al centro della scena. Almeno per un giorno. Un giorno destinato a pesare. Quanto lo vedremo nei prossimi giorni. Ci sarà tempo per ritornare con più calma e serietà sulla figura del nuovo Papa e sul significato teologico, politico e geopolitico della sua elezione, da molte parti interpretata un po’ troppo semplicisticamente con i soliti schemi della politica italiota: vincono i rinnovatori contro i conservatori, trionfano i moralizzatori sulla corrotta e ricca curia romana. Qui volevo solo mettere in luce la grande capacità politico-ideologica ancora una volta messa in campo dai Sacri Palazzi Romani.

C’ERA UNA VOLTA IL PAPA VENUTO DAL FREDDO

imgresizeScrive Toni Negri: «Più di vent’anni fa uscì l’enciclica Centesimus Annus, del Papa polacco, in occasione del centenario della Rerum Novarum – era il manifesto riformista, fortemente innovatore, di una Chiesa che si voleva ormai sola rappresentante dei poveri dopo la caduta dell’impero sovietico. A quel documento, i miei compagni parigini di Futur Antérieur ed io dedicammo un commento che era insieme un riconoscimento ed una sfida: lo intitolammo “La V Internazionale di Giovanni Paolo II”. Riprendiamo il documento qui sotto» (L’abdicazione del Papa tedesco, Uninomade, 16 febbraio 2013).

L’interessante articolo dell’ottimista rivoluzionario ad oltranza [*] mi ha ricordato che anch’io allora mi cimentai con l’enciclica promulgata l’1 maggio 1991dal Papa «venuto dal freddo», scrivendo qualche giorno dopo un articolo (Vade retro, Marx!) per una modestissima rivista locale (Filo Rosso). Ecco qualche passo del vetusto articolo, giusto per “ammazzare il tempo” in attesa del prossimo epocale (?) conclave.

Vade retro, Marx!
Il vescovo di Catania Monsignor Bommarito ha definito la Centesimus Annus nei termini di «un dono della Sacra provvidenza». Ebbene, noi non sappiamo se l’ultima enciclica del Papa ha davvero qualcosa a che fare col Padre Eterno; certo è che per il “popolo di sinistra” essa è arrivata al momento opportuno, un po’ come la biblica manna che cadde dal cielo per saziare l’affamato e reietto Popolo Eletto in viaggio lungo il deserto. L’enciclica è senz’altro apparsa ai tanti naufraghi della sinistra, più o meno “storica” (ma converrebbe definirla piuttosto… stoica), come la fune di salvataggio da afferrarsi istintivamente, senza alcuna esitazione, allo scopo  di scongiurare l’imminente annegamento.

Solo in questo modo si può spiegare l’entusiasmo, che a tratti smotta verso la vera e propria apologetica, con cui, ad esempio, Il Manifesto ha accolto la pubblicazione della Centesimus Annus di «Wojtyla l’anticapitalista», a dimostrazione non solo della sua assoluta estraneità al comunismo, cui il giornale dice di richiamarsi, ma della sua incomprensione circa il ruolo che la Chiesa si candida a recitare nel nuovo contesto geopolitico creato dal miserabile crollo dell’alleanza imperialistica centrata sull’ex patria del «socialismo reale». Incomprensione che si era palesata già ai tempi della guerra del Golfo, quando il «Pontefice pacifista» a momenti rischiò l’iscrizione d’ufficio a Rifondazione Statalista o a Democrazia Proletaria.

Incapaci e timorosi di guardare avanti senza i veli di una confortevole ideologia (d’accatto); orfani di miti schifosamente reazionari, sconfitti sul piano politico dal loro eterno avversario (il Capitalismo? No, la Democrazia Cristiana!), i papisti di sinistra si attardano su posizioni nostalgiche, e il loro sguardo volto ancora al passato incrocia l’ammiccante e seducente prosa del Papa polacco, «venuto dal freddo» giusto per scaldare i cuori della «creatura oppressa» – dalle macerie post-sovietiche che le sono rovinate addosso! Un po’ di cristiano conforto a chi è impegnato nell’elaborazione del lutto: il tempismo dei Sacri Palazzi è davvero ammirevole!

Del tutto incuranti di trovarsi al centro del ridicolo, i papisti sinistrorsi naturalmente si sforzano di dimostrare che è stato il Polacco a spostarsi, sebbene con alcune “ambiguità”, «a sinistra», così da avere «accanto a noi, nelle battaglie contro le disumane oppressioni del capitalismo, un alleato, e così è stato anche per la guerra del Golfo» (F. Gentiloni, Il Manifesto, 3 maggio 1991). Eppure nemmeno a un bambino sfugge il fatto che sono stati loro, i papisti con falce e martello, a scivolare ingloriosamente, e coerentemente, sul terreno del Santissimo Padre, riprendendo peraltro quelle posizioni di anticapitalismo reazionario, ossia passatista, che il Vaticano rigettò nel 1891 con la Rerum Novarum. Ma ancora non siamo al fondo del baule.

Lo tocchiamo, il fondo, proprio quando qualche intellettuale sinistrorso si prende la briga di difendere il “marxismo” (sic!) dalle pesanti accuse mossegli dal Pontefice nelle vesti di Pubblico Ministero della storia. Dopo la miracolosa guarigione seguita all’attentato di dieci anni fa, il Santo Padre sente evidentemente di dover compiere una missione per conto dell’Altissimo, e in questo sforzo egli si compiace di non lesinare alcuna energia. Dinanzi al suo fervore ideologico la difesa d’ufficio di quegli avvocaticchi si rivela una pietosa resa incondizionata.

È il caso di Mario Tronti, il quale nella sua infinita e disarmante ingenuità non riesce a spiegarsi perché «c’è una vera e propria ossessione del marxismo in questo papa polacco», salvo poi ammette, con ciò confermando le tesi dell’”ossesso”, «che nella storia del movimento operaio, nell’attrezzatura teorica del marxismo, nelle esperienze pratiche dei comunisti c’è una disattenzione all’uomo» (Il Manifesto, 5 maggio 1991). Che «errore antropologico»!

Nel cosiddetto marxismo mancherebbe dunque l’uomo, il quale sarebbe invece al centro della riflessione cristiana riproposta dal Papa. È la stessa tesi, espressa con un taglio nettamente filo-papista, da Carlo Cardia su L’Unità del 3 maggio: «La grande utopia è stata delineata. Sulle ceneri del comunismo – sconfitto dalla storia perché non sopprime l’alienazione, ma piuttosto l’accresce, aggiungendovi la penuria delle cose necessarie – può costruirsi un mondo nuovo che abbia per fine lo sviluppo integrale dell’uomo».  Lasciamo perdere Cardia, in competizione con Massimo Cacciari per l’attribuzione dell’ambito premio Papista dell’anno; ma come può uno come Tronti, che dice di scendere in campo per difendere le ottime ragioni del “marxismo”, sostenere che in quest’ultimo in effetti l’uomo, in quanto singolare individualità, recita un ruolo del tutto marginale? Ma di che “marxismo” stiamo parlando? Non sa il “marxista” Tronti che l’uomo e i suoi «molteplici e multiformi bisogni» (non solo quelli connessi alla sua nuda esistenza biologica: Non di solo pane vive l’uomo!) stanno al centro degli scritti marxiani? […]

La riflessione anticapitalista di Marx ha infatti al centro l’uomo: l’uomo negato nell’attualità del dominio sociale, e l‘uomo come stupenda possibilità radicata in quello stesso dominio, ma che può inverarsi solo attraverso il superamento rivoluzionario di esso. E quando dico uomo intendo dire individuo, l’uomo colto proprio nella sua singolarità esistenziale e nel necessario rapporto con la sua comunità. Oggi l’individuo vive una condizione di atomizzazione che ne fa una piccola e nient’affatto indispensabile rotellina del mostruoso ingranaggio sociale. L’esaltazione ideologica dell’individuo, molto spinta nel marketing, è una miserabile foglia di fico che non riesce a nascondere neanche un po’ il reale annichilimento di ogni vera individualità. Nella Società-Mondo del XX secolo la standardizzazione degli individui non è un’ipotesi, ma un fatto compiuto, peraltro già abbastanza vecchio e noto. Noto ma non conosciuto nella sua tragica radicalità.

«Sotto il dominio della borghesia gli individui sono più liberi di prima, nell’immaginazione, perché per loro le loro condizioni di vita sono casuali; nella realtà sono naturalmente meno liberi perché più subordinati a una forza oggettiva» (K. Marx, L’ideologia tedesca, Op. Marx-Engels, V, p. 64, Editori Riuniti, 1972). Ebbene questa mancanza di reale libertà è la cifra più autentica della disumanizzazione che afferra tutti gli individui, ridotti a quella condizione “atomica” che ha reso possibile la nascita della società di massa. Ancora una volta, nella disumanità universale non tutte le vacche sono nere, ma spicca la condizione particolarmente abietta dei salariati, non a caso descritta da Marx come sentina di ogni miseria sociale – non solo economica, ma esistenziale nell’accezione più propria e radicale del concetto. Che da quella sentina possa emergere il soggetto sociale della rivoluzione anticapitalista è cosa che gli indigenti di dialettica non capiranno mai.

Umano, fin troppo umano!

Umano, fin troppo umano!

Il punto di vista marxiano è insomma umano, non «proletario» o «operaio» (figuriamoci se «operaista»!): solo perché ha conquistato quella prospettiva egli ha potuto capire che «il proletariato, emancipando se stesso, emancipa l’intera umanità». Marx ha cioè superato tanto l’astratto umanitarismo illuminista e progressista dei suoi tempi, compreso quello più radicale (Feuerbach), quanto il punto di vista rozzamente comunista di chi idolatrava la figura del proletario salariato come novello Cristo inchiodato alla croce dello sfruttamento capitalistico. […]

Evidentemente Tronti e compagnia brutta hanno dinanzi agli occhi il miserabile «uomo nuovo» partorito con dolore in Russia e Cina, patrie del Capitalismo di Stato contrabbandato in guisa di «socialismo reale»: un “uomo” fatto per sgobbare, ubbidire e comprimere il più possibile ogni sorta di bisogno, in spregio al «consumismo capitalistico» (sic!) e all’«individualismo borghese» (doppio sic!). Se questo è un uomo!

Ecco perché per elaborare una corretta critica delle tesi «anticomuniste» del Papa e dei papisti, numerosi a “destra” come a “sinistra”, occorre prima far luce sul presupposto da cui essi muovono, ossia sul presunto crollo del comunismo, il quale non è crollato semplicemente perché non è mai esistito, da nessuna parte, nemmeno come ipotesi.[…]

È proprio la crisi dei falsi miti stalinisti (e maoisti), che nei decenni della «Guerra Fredda» hanno svolto un’efficace funzione ideologica al servizio dell’Imperialismo Russo, che sta spingendo il Vaticano a proporsi con sempre maggiore decisione come la sola alternativa possibile in un mondo che annichilisce ogni anelito di umanità. «Nella cornice di un mondo non più diviso in blocchi … il Papa sente di poter esercitare una leadership non solo morale e complementare, ma politico-ideologica e alternativa» (P. Galimberti, La Repubblica, 3 maggio 1991). Di qui l’iperattivismo di Woytila, analogo per certi versi a quello di Cossiga sul piano politico-istituzionale. Crollata la Chiesa di Mosca, che tanto bene aveva lavorato per conto del Dominio (non del Demonio, Santissimo Padre!), la Chiesa di Roma guarda con speranza, ma anche con qualche apprensione, all’uscita delle pecorelle smarrite dal rassicurante recinto “comunista”. […]

487px-Papst_Leo_XIIIIl robusto filo nero che lega la Rerum Novarum alla Centesimus Annus, passando per la Quadragesimo Anno del 1931 e la Laborem Exercens del 1981, non è tanto l’avversione del conflitto sociale in sé, del quale anzi si riconosce la necessità e persino l’utilità in chiave riformista; è piuttosto la paura nei confronti di un conflitto sociale orientato coscientemente in direzione di una rottura rivoluzionaria dello status quo.  Anche se nulla oggi lascia immaginare scenari rivoluzionari, almeno nel breve e medio periodo, la classe dominante agisce istintivamente in chiave difensiva, elaborando strategie di ampio respiro, in modo da subire il meno possibile le incognite immanenti al processo sociale. Il movimento operaio, diceva leone XIII e dice oggi il Papa polacco, è «cosa bella e buona», e pure degne di lode e rispetto sono le sue organizzazioni sindacali e di mutuo soccorso, soprattutto se di orientamento cattolico; ma esso è stato tentato e in parte corrotto dal serpente velenoso dell’invidia di classe, e così nel suo seno si è fatta strada la maligna idea di un impossibile paradiso terrestre [**].

Insomma, ciò che ancora inquieta la classe dominante non è il corpo del proletariato, la sua dimensione sociologica, ma lo spirito rivoluzionario che può nuovamente possederlo e guidarlo verso avventure nefaste per l’«ordine naturale delle cose». Un proletariato senza spirito, acefalo, magari in grado di sferrare pugni e calci ma incapace di fissare l’orizzonte e di correre a perdifiato verso la luce, non fa paura. “Marxista” involontario, Woytila intuisce che tale corsa liberatrice è ancora possibile, nonostante la preziosa opera svolta dallo stalinismo nel corso di oltre sessant’anni contro la stessa idea di emancipazione. Non si capirebbe altrimenti il motivo del suo meticoloso accanimento contro un «cane morto». Non si uccide un «cane morto», soprattutto se il suo nome è Marx: Vade retro!

Per quanto riguarda i “marxisti” colpiti dalle macerie del Muro di Berlino e bagnati dal sangue versato a Piazza Tienanmen, conviene stendere un velo pietoso, e lasciarli al loro grigio destino di orfani alla ricerca di nuovi miti ultrareazionari da consacrare sull’altare dell’ennesima “rivoluzione”.

[*] «La discontinuità prodotta dall’abdicazione di Benedetto susciterà effetti di rinnovamento quando ad essa si accompagnerà il rifiuto di rappresentare la “Chiesa dell’Occidente”. È forse giunto il momento di distruggere quest’identità sulla scia di quanto aveva proposto la Centesimus Annus più di vent’anni fa, e di riconoscere ai lavoratori l’identità di sfruttati, in Occidente, dall’Occidente. Ma se il Papa polacco di allora non ci riuscì, è dubbio che possa riuscirci un suo allievo dal debole carisma. L’opera è dunque affidata ai cristiani. E a tutti noi» (T. Negri). Mi vien voglia di candidarmi al Sacro Soglio Romano, magari solo per disturbare la candidatura del Cardinale Rosso di Padova: sarebbe possibile? In fondo sono un ateo, non un ateista…

[**] Scriveva Leone XIII a proposito della Questione Operaia: «Questione difficile e pericolosa. Difficile, perché ardua cosa è segnare i precisi confini nelle relazioni tra proprietari e proletari, tra capitale e lavoro. Pericolosa perché uomini turbolenti ed astuti, si sforzano ovunque di falsare i giudizi e volgere la questione stessa a perturbamento dei popoli. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato» (Rerum Novarum, Libreria Editrice Vaticana). In questa critica si può anche cogliere la piega municipalista e statalista che prese il socialismo alla fine del XIX secolo, a dimostrazione che nel movimento operaio si affermarono le posizioni lassalliane, non quelle marxiane. Anche per questo Marx volle precisare di non essere un marxista. Dopo Lassalle venne Stalin, ed ecco perché afferro la pistola tutte le volte che qualcuno mi dà del marxista: «Marxista sarà lei, si informi!»

RICORDANDO IL SANTISSIMO PADRE

In attesa di riflessioni più meditate sulla Grande Rinuncia del Papa, un evento di portata storica (almeno a detta dei vaticanisti e degli storici del cattolicesimo) e dai connotati indubbiamente (?) «rivoluzionari», pubblico alcune pagine di miei vecchi lavori che hanno incrociato, en passant, la Santissima strada tracciata dal raffinato pensiero teologico di Benedetto XVI.

«In verità in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai più vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste, e ti porterà dove tu non vuoi» (dal Vangelo di Giovanni, 21, 18 s.). Si tratta di scoprire chi è questo altro.

prev15Da L’Angelo Nero sfida il Dominio
Rimanere vittima della propria creatura: questo paradosso faustiano ha da sempre colpito i pensatori più sensibili. La religione, che nasce come strumento di dominio umano sulla natura «esterna» e «interna», col tempo si trasforma in paradigma del dominio umano sull’uomo: le potenze sociali, che noi stessi creiamo sempre di nuovo con l’ausilio della scienza più avanzata, si rendono autonome e, come le vecchie divinità, c’incalzano dall’esterno, c’incutono timore, ci tiranneggiano. «Ora che la scienza ci ha aiutati a vincere il terrore dell’ignoto nella natura siamo schiavi di pressioni sociali che noi stessi abbiamo create»[1]. La «preservazione contro lo strapotere della natura» (Freud) è un compito storico che la «Civiltà» si è da gran tempo lasciata alle spalle; il nuovo compito storico è la distruzione dello strapotere sociale che non ci lascia diventare uomini.

Alla «psicologia del profondo» il Pastore Tedesco assiso sul Sacro Soglio contrappone la Teologia Politica ancora possibile nel XXI secolo, nel mondo segnato infaustamente da quella «pretesa prometeica» che sostiene «crescite innaturali e consumistiche» sbandierate come progresso umano. «La tecnica – è bene sottolinearlo – è un fatto profondamente umano, legato all’autonomia e alla libertà dell’uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la signoria dello spirito sulla materia … La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica, di migliorare le condizioni di vita … Per questo la tecnica non è mai solo tecnica … Ma quando l’unico criterio della verità è l’efficienza e l’utilità, lo sviluppo [umano] viene automaticamente negato», mentre la nostra vita rischia di dispiegarsi interamente all’«interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente, senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile»[2].

Tutto ben detto. Salvo un piccolo, quasi insignificante particolare: l’orizzonte sociale paventato da Ratzinger è, nelle società capitalisticamente più avanzate (più «civili») del pianeta, una micidiale realtà almeno da un secolo a questa parte.  Come, d’altra parte, è sempre più palpabile il «risvolto dialettico» di questa situazione sociale, ossia la possibilità della liberazione. Tuttavia, la stessa prossimità materiale della liberazione crea il maligno paradosso per cui la sua realizzazione appare sempre più come utopica, giacché la tendenza storica all’emancipazione del non-ancora-uomo si rafforza nella misura in cui è l’attualità del dominio a farsi sempre più potente, strapotente.

Il cortocircuito tra la Possibilità e l’Attualità crea l’Evento storicamente produttivo (rivoluzionario). Aprendo le ali al massimo delle sue possibilità, il metaforico Angelo Nero che svolazza in queste pagine può, in effetti, realizzare quel catastrofico – ma quanto fecondo! – cortocircuito; esso è il solo che può rendere effettiva l’apertura del cancello temporale che oggi impedisce all’Attualità di incontrare la Possibilità. La fisica quantistica, per dar conto di eventi fisici di complessa interpretazione (come quelli immaginati tanto per il microcosmo, quanto per il macrocosmo), parla di «punto di anomalia», di «aberrazione», di «discontinuità spazio-temporale»: l’analogia con quanto cerco di esprimere appare quantomeno intrigante. Analoghe analogie si possono trovare anche in molti testi religiosi, allorché i pii poeti cercano di raccontare ciò che difficilmente il concetto può esprimere senza sminuire la portata e il significato degli Eventi più fecondi e miracolosi.

prev12Da Eutanasia del Dominio
A proposito di Spirito: forse non è del tutto casuale se la prima enciclica di Benedetto XVI, il Papa teologo, ha come suoi oggetti critici espliciti Nietzsche e Marx. Contro il primo il teologo tedesco scrive quanto segue: «Il cristianesimo, secondo Friedrich Nietzsche, avrebbe dato da bere del veleno all’eros, che, pur non morendone, ne avrebbe tratto la spinta a degenerare in vizio. Con ciò il filosofo tedesco esprimeva una percezione molto diffusa: la Chiesa con i suoi comandamenti e divieti non ci rende forse amara la cosa più bella della vita? Non ha innalzato forse cartelli di divieto proprio là dove la gioia, predisposta per noi dal Creatore, ci offre una felicità che ci fa pregustare qualcosa del Divino?»[3].

Naturalmente Benedetto XVI nega risolutamente questa presunta avversione cristiana per l’eros, e lo fa in un modo quanto mai puntuale, e cioè attaccando la concezione Greca dell’amore, quella concezione così cara al pensiero nietzschiano: «I greci – senz’altro in analogia con altre culture – hanno visto nell’eros innanzitutto l’ebbrezza, la sopraffazione della ragione da parte di una “pazzia divina” che strappa l’uomo alla limitatezza della sua esistenza e, in questo essere sconvolto da una potenza divina, gli fa sperimentare la più alta beatitudine … L’eros viene quindi celebrato come forza divina, come comunione col Divino. A questa forma di religione, che contrasta come potentissima tentazione con la fede nell’unico Dio, l’Antico Testamento si è opposto con massima fermezza, combattendola come perversione religiosa. Con ciò però non ha per nulla rifiutato l’eros come tale, ma ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttore … Per questo l’eros ebbro ed indisciplinato non è ascesa, “estasi” verso il Divino, ma caduta, degradazione dell’uomo. Così risulta evidente che l’eros ha bisogno di disciplina, di purificazione per donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende» (pp. 12-13).

Qui ci troviamo dinanzi al classico tema della sublimazione degli istinti, a partire da quello più potente e foriero di godimento: l’istinto sessuale, in vista della civilizzazione («umanizzazione», nell’accezione papale) degli individui[4]. Il cristianesimo non nega l’eros, anzi lo esalta, ma nella sua vera essenza, la quale non può che essere essenza Divina (e difatti «il sesso» è divinamente bello, apre tutti i pori «del corpo e dell’anima», dà luogo a una vera esperienza mistica, è davvero «un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende»: non c’è dubbio!); il cristianesimo piuttosto lo depura dei suoi tratti bestiali, dei suoi eccessi, lo civilizza, lo «disciplina»: lo nega, appunto. Si può spiegare anche con questo svilimento e depotenziamento – o avvelenamento – dell’eros l’amore che invece Hegel nutrì, soprattutto in gioventù, per la religione greca, «una religione per popoli liberi»; a differenza del cattolico Benedetto XVI, il cristiano Hegel apprezzava i riti dionisiaci, ne vedeva il potente significato sociale: «Alle femmine greche era dato, nelle feste bacchiche, un ambito lecito in cui scatenarsi. All’esaurimento del corpo e dell’immaginazione faceva seguito un tranquillo ritorno nella cerchia del sentimento abituale e della vita consueta. La selvaggia menade era per il resto del tempo una donna ragionevole»[5]. Purtroppo, forse chioserebbe il «dionisiaco» Anticristo[6]. Ma non scantoniamo troppo.

Vediamo adesso cosa argomenta il teologo tedesco contro San Karl Marx: «Il tempo moderno, soprattutto a partire dall’Ottocento, è dominato da diverse varianti di una filosofia del progresso, la cui forma più radicale è il marxismo. Parte della strategia marxista è la teoria dell’impoverimento: chi in una situazione di potere ingiusto – essa sostiene – aiuta l’uomo con iniziative di carità, si pone di fatto a servizio di quel sistema di ingiustizia, facendolo apparire, almeno fino a un certo punto, sopportabile. Viene così frenato il potenziale rivoluzionario e quindi bloccato il rivolgimento verso un mondo migliore. Perciò la carità viene contestata ed attaccata come sistema di conservazione dello status quo. In realtà questa è una filosofia disumana. L’uomo che vive nel presente viene sacrificato al moloch del futuro – un futuro la cui effettiva realizzazione rimane almeno dubbia» [7].

Nell’ultima proposizione il Pastore Tedesco allude ovviamente al «comunismo realizzato», e ne ha, come si dice, ben donde! Per Marx le cose stanno in modo affatto diverso: bisogna liberare il non-uomo che ci sta dinanzi dal moloch del presente, per renderlo finalmente uomo. È la realtà del presente che sacrifica l’uomo, che lo nega continuamente, e ogni forma di religione – compreso il feticismo degli scientisti – non fa che legittimare e sostenere questa pessima realtà. Ma al di là delle banalità sulla cosiddetta «teoria dell’impoverimento»[8], Benedetto XVI mostra di conoscere qualcosa del nemico teorico e pratico che vuole esorcizzare, e lo si vede soprattutto quando si scaglia contro chi coltiva l’assurda «presunzione di dover realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. È Dio che governa il mondo, non noi … L’esperienza della smisuratezza del bisogno può spingerci nell’ideologia che pretende di fare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non consegue: la soluzione universale di ogni problema»[9]. Qui Benedetto XVI esprime bene la secolare paura delle classi dominanti nei confronti della stessa possibilità che le classi dominate si liberino dell’ipnotico feticismo del potere costituito che le inchioda alla croce della rassegnazione, e prendano finalmente «in prima persona» le redini del loro destino. Si vede che «la cuoca al potere», per usare una bella ancorché anacronistica espressione di Lenin, suscita ancora qualche apprensione – eppure anche Maria, la madre dell’ebreo suppliziato e crocifisso dai Romani sul Golgota, fu una cuoca, forse pure vergine («Essendo intimamente penetrata»…«dalla Parola di Dio … Maria è una donna che ama»), ma sicuramente cuoca, e come tale legittimata a gestire il governo di questo mondo.

prev13Da Illibero arbitrio. La radicalità del male
Dall’orizzonte concettuale dei materialisti di Dio manca il dispiegarsi del concetto, il suo «divaricarsi», mentre al suo posto troviamo il triviale DNA e il più che triviale embrione (o pre-embrione, risalendo forse fino al «miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo» dopo la penetrazione dell’ostinato spermatozoo nella dura membrana della cellula uovo). Viceversa, non sarebbero materialisti, sebbene di Dio. Ma, soprattutto, è scomparso il salto qualitativo: per essi «la vecchia sentenza» è ancora un articolo di fede, anzi, è una «evidenza scientifica». È vero, dal seme nascerà il fiore, ma questa potenzialità che gli è immanente non fa di esso un fiore mancato, ma qualcosa di concluso in sé, una ben definita cosa manchevole in nulla. Se il «prodotto del concepimento» non fa il salto qualitativo del pensare, dell’amare, del rendersi indipendente dal corpo della madre; se esso non salta dentro la dimensione storica e sociale, come può aspirare alla condizione di «persona umana»? Ma per i materialisti di Dio il «prodotto del concepimento» non deve fare alcun salto qualitativo: la sua umanità è iscritta nelle sue cellule; esso è «persona umana» non alla fine del processo, ma in ogni suo punto, e non in quanto patrimonio divino, ma in quanto patrimonio genetico. Amen! No, pardon, Evidenza Scientifica!

«Evidenza scientifica», teleologia, teologia, misticismo: la Chiesa di Roma gioca a tutto campo. E infatti, gli stessi materialisti di Dio non cessano di scagliarsi contro la «nuova ondata di illuminismo e di laicismo, per la quale sarebbe razionalmente valido soltanto ciò che è sperimentabile e calcolabile … In stretto rapporto con tutto questo, ha luogo una radicale riduzione dell’uomo, considerato un semplice prodotto della natura, come tale non realmente libero e di per sé suscettibile di essere trattato come ogni altro animale. Si ha così un autentico capovolgimento del punto di partenza di questa cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà»[10]. Come dimostrano questi passi, che per certi versi superano la tradizionale impostazione polemica anti-illuminista della Chiesa, con la sottolineatura del «capovolgimento dialettico» subito dall’Illuminismo sul suo stesso terreno (il progresso umano che diventa regresso, la speranza che nell’attuarsi diventa ideologia, la falsa coscienza di un cattivo progresso); questi passi, dicevo, mostrano come il Papa teologo abbai ben chiaro il compito a cui è chiamata la Chiesa cattolica in questa fase storica. Non c’è dubbio che l’indirizzo teologico di fondo da egli impresso al discorso cattolico porta oggi il segno della fede concepita come riflessione razionale sulla natura dell’uomo e sul suo destino, in una sorta di neo illuminismo temperato dalla «carità cristiana», come se la Chiesa volesse appropriarsi della migliore tradizione illuminista, purgandola delle sue tossine e scorie «materialistiche» e «positiviste».

È vero, non siamo dinanzi a una assoluta novità dottrinaria nell’ambito della riflessione teologica cattolica; la novità va cercata piuttosto nella forza con cui i vertici massimi della Santa Sede, e non solo ristretti circoli delegati alle «alte speculazioni» teologiche, si stanno impegnando a praticare quell’indirizzo. Soprattutto in ciò si addensa la maggiore differenza tra l’attuale gestione della linea politica vaticana e quella precedente, segnata dal carisma del Papa «venuto dal freddo». La nuova strategia è evidente nella Lezione Magistrale tenuta da Ratzinger all’Università di Ratisbona il 12 settembre 2006: «La convinzione che agire contro la ragione sia in contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale sempre per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è fede in Dio sul fondamento della Bibbia … Oggi noi sappiamo che la traduzione greca dell’Antico Testamento, realizzata in Alessandria, è più di una semplice (da valutare forse in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo nella storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e per la sua divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si tratta dell’incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e religione».

Abbiamo capito che a Ratzinger piace molto la traduzione greca dell’Antico Testamento, anche perché nel testo ebraico le differenze tra il pensiero filosofico elaborato nel mondo giudaico e quello sorto nella Grecia di Socrate, Platone e Aristotele, che rappresentano il suo punto di riferimento classico, appaiono evidenti. L’incontro tra «autentico illuminismo» e il cristianesimo dei primi Padri della Chiesa segna la distanza di quest’ultimo tanto dall’ebraismo che lo ha preceduto, quanto dall’islamismo che lo ha seguito. Senza questo fecondo incontro non avremmo avuto il cristianesimo come si è dispiegato nell’arco di due millenni. Di più: il fondamento greco del cattolicesimo consente alla Chiesa di denunciare il «cattivo illuminismo», che nega l’uomo – e perciò Dio – sulla base di una razionalità economicamente orientata, sventolando la bandiera dell’«autentico illuminismo». Da buon teologo tedesco che sa civettare persino con Hegel[11], la cui demoniaca dialettica fece scandalo nel cristianesimo tedesco a cavallo dei secoli XVIII e XIX, Ratzinger vuole una fede fondata oggettivamente, e perciò polemizza con tutti coloro che la vorrebbero ancora relegare a mero fatto soggettivo. «Importante per le nostre riflessioni è ancora il fatto che il metodo – scientifico – come tale esclude il problema Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico. Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di scienza e ragione che è doveroso mettere in questione … Ma dobbiamo dire di più: è l’uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del “da dove” e del “verso dove”, gli interrogativi della religione e dell’ethos, non possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla “scienza” e devono essere spostati nell’ambito del soggettivo» (Lezione Magistrale di Ratisbona). La scienza che non è umanamente fondata – e quindi divinamente fondata, a causa del noto sillogismo cattolico –, che non si occupa anche «del “da dove” e del “verso dove”», cioè delle massime questioni esistenziali, non è vera scienza, e merita di finire tra virgolette. La “scienza” che nel suo indagare e manipolare la natura – a partire da quella umana – non possiede uno sguardo umano è una ”scienza” nemica dell’uomo – e perciò, necessariamente, di Dio. A questa forte obiezione gli scienziati rispondono ripetendo il solito dogma della neutralità della scienza in materia “umana”: «la scienza ricerca le leggi obiettive della natura, non è affar suo la “felicità” degli uomini, se non come effetto collaterale di quella pura ricerca», riconfermando così la loro incoscienza circa il reale rapporto che li lega alla società disumana. Anzi, per la scienza (borghese) si tratta all’opposto di eliminare quanto più possibile le maledette «interferenze umane» che si frappongono tra l’oggetto indagato e l’osservatore politicamente, filosoficamente e religiosamente “neutro”, lasciando sul primo le detestabili tracce di antropomorfismo. Per essa la sterilizzazione dell’osservazione è un articolo di fede da far valere almeno quanto la Santissima Trinità dei cattolici. Vade retro, uomo!

Naturalmente per Ratzinger solo il cristianesimo ha uno sguardo realmente e profondamente umano, mentre occorre guardarsi da chi «sacrifica al moloch del futuro – la cui effettiva realizzazione rimane almeno dubbia – l’umanizzazione del mondo»[12]. È chiaro che il Papa qui si riferisce ai «marxisti», i quali anziché realizzare il Paradiso in Terra hanno costruito piuttosto l’Inferno. Di questa straordinaria arma ideologica che Ratzinger mostra di saper maneggiare con tanta abilità, come del resto il suo predecessore, bisogna soprattutto ringraziare gli stalinisti e i maoisti di tutto il pianeta, i quali militando a favore di un miserabile capitalismo di Stato hanno ucciso perfino la speranza per un mondo umano. Un dubbio, a questo punto, si insinua nella mia indigente testa: l’Intelligent Design non avrà davvero un reale fondamento? E Stalin, Mao, Castro e compagnia fetida cantando, che ruolo hanno avuto nel Santissimo Disegno Divino? Il mio pensiero è troppo debole, troppo poco intelligente per tentare una risposta a una domanda così impegnativa: la Carità di Dio, nonostante gli auspici di Ratzinger, non è stata generosa verso chi scrive.

[1] M. Horkheimer, Eclisse della ragione, 1947, p. 160, Einaudi, 2000.
[2] Benedetto XVI, Caritas in Veritate, pp. 88-89, Libreria Editrice Vaticana, 2009.
[3] Benedetto XVI, Deus Caritas Est, p. 13, Libreria Ed. Vaticana, 2006.
[4] George Orwell ha colto acutamente questo aspetto, e difatti il «nuovo mondo» immaginato in 1984 è eccezionalmente sessuofobo: «Fine ultimo del Partito non era tanto quello di impedire che gli uomini e le donne formassero tra loro delle leghe, degli accordi nei quali esso non sapesse come fare a mettere il naso. Il suo vero fine (e pertanto non dichiarato) consisteva nel togliere qualsiasi piacere all’atto sessuale. Non tanto l’amore, quanto l’erotismo era considerato il vero nemico nel matrimonio e fuori … L’unico scopo ammesso e riconosciuto del matrimonio consisteva nel procreare figli a beneficio del Partito. I rapporti sessuali dovevano essere considerati come una sorta di operazione minore, lievemente disgustosa, come per esempio farsi fare l’enteroclisma … Il Partito cercava con ogni mezzo di annullare l’istinto sessuale, ovvero, nel caso in cui non fosse riuscito ad annullarlo, a pervertirlo e a insudiciarlo» (G. Orwell, 1984, p. 89, Mondadori, 1983). Solo all’immensa classe dei «prolet», un’umanità reietta che «il Partito» – cioè il dominio sociale capitalistico esasperato nei suoi tratti essenziali sulla base del modello sovietico staliniano che riempiva di orrore lo scrittore inglese – considerava alla stregua di schiavi e di animali, era concessa la promiscuità, la pornografia e ogni altra «lordura». D’altra parte, «Per dirla con lo slogan del Partito, “i prolet e gli animali sono liberi”». Qui la libertà è sinonimo di bestialità.
[5] Cit. tratta da G. Lukàcs, Il giovane Hegel, I, p. 91, Einaudi, 1975.
[6] «Quel cantare e quel danzare non sono più istintiva ebbrezza naturale, la massa corale nella sua estasi dionisiaca non è più la massa popolare inconsapevolmente catturata dall’impulso primaverile … Nel ditirambo delle sagre di primavera che originariamente era proprio del popolo, l’uomo non si esprimeva come individuo bensì in quanto esponente della sua specie … Nel ditirambo dionisiaco l’entusiasta di Dioniso viene spinto alla più ampia dilatazione di tutte le sue facoltà simboliche: qualcosa di mai sentito irrompe alla superficie, come la soppressione dell’individuatio, l’unificazione nel genio della specie e anzi della natura» (Nietzsche, La visione dionisiaca del mondo, in Verità e menzogna, pp.81-85-87, Newton, 1988).
[7] Benedetto XVI, Deus Caritas Est, pp. 73-74.
[8] Per Marx chi è costretto alla carità ha già perso in gran parte la forza di reagire, di lottare per conquistare condizioni di vita meno miserevoli e, attraverso questa lotta, educarsi e allenarsi in vista della rivoluzione sociale (la «lotta economica» come scuola o palestra di comunismo). Contro i sostenitori della «teoria dell’impoverimento» del suo tempo (1865) egli scriveva: «Se tale è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto» (Marx, Salario, prezzo e profitto, p. 115, Newton, 1976). Altro che «teoria dell’impoverimento»! D’altra parte, la storia di tutto il secolo scorso dimostra ampiamente che per quanto riguarda la miseria e la sofferenza la «trasformazione dialettica» della quantità in qualità non è affatto automatica, spontanea, e attesta anzi come in assenza della coscienza di classe il potenziamento della miseria e del doloro genera solo altra miseria e altro dolore (un esempio a caso: la crisi sociale tedesca degli anni Venti e Trenta). La miseria priva di coscienza è pane per i forti denti della classe dominante, alla quale si può augurare una cattiva digestione, ma nulla di più.
[9] Benedetto XVI, Deus…, p. 81.
[10] Benedetto XVI, Discorso di Verona.
[11] Sicuramente a Ratzinger non è sfuggita la seguente posizione hegeliana in merito al rapporto tra fede e ragione: «Da un lato, com’è noto, il pietismo religioso ha dichiarato che la ragione o il pensiero non sono in grado di conoscere il vero, che anzi la ragione ci conduce nell’abisso del dubbio. Perciò il pietismo sostiene che si debba rinunciare all’autonomia del pensiero e che occorra divenir prigionieri della cieca fede nell’autorità per raggiungere la verità. D’altra parte, è altrettanto noto che la cosiddetta ragione si è fatta valere, ha respinto la pura fede nell’autorità e ha cercato di rendere razionale il Cristianesimo; cosicché è stato detto che solo la propria intelligenza, solo la propria convinzione possono obbligare a riconoscere qualcosa. Ma, strano a dirsi, questa affermazione del diritto alla ragione si è capovolta, sì da ottenere il risultato che la ragione non è in grado di conoscere nulla di vero» (G. W. F. Hegel, Introduzione alla storia della filosofia, p. 49, Laterza, 1982). Qui Hegel attacca non la ragione rettamente intesa, ma la «cosiddetta ragione», cioè il suo concetto declinato illuministicamente. La razionalità come viene fuori dall’illuminismo è, per il filosofo di Stoccarda, falsa razionalità, pensiero che rimane alla superficie delle cose, che non è in grado di coglierne l’intima essenza, la quale è, in ultima analisi, essenza ideale, cioè a dire divina. Al netto della dialettica, Hegel deve piacere molto al pastore tedesco.
[12] Benedetto XVI, Deus Caritas Est, p. 74, Ed. Vaticano, 2006.

L’ECONOMIA REALE SECONDO GIULIO TREMONTI

Nel post dedicato al filosofo “neorealista” Maurizio Ferraris, sceso in campo per ripristinare l’oggettività del mondo esterno minacciata da ogni sorta di soggettivismo e di sofisma relativistico, ho parlato di materialismo triviale riferendomi alla sua critica del pensiero debole postmoderno. «Abbiamo visto che ben lungi dallo sparire [come postulerebbe ad esempio La condizione postmoderna di François Lyotard], gli oggetti non hanno fatto altro che moltiplicarsi» (M. Ferraris, Introduzione a Storia dell’ontologia). Facevo notare, nella mia critica del bisogno ontologico che facilmente si coglie nella riflessione del filosofo italiano, come questo concetto volgare di realtà, «appiccicato con lo sputo realistico al triviale corpo delle cose», fosse riconducibile alla concezione feticistica e reificata del mondo che spontaneamente penetra subdolamente nel pensiero indigente di critica sulla base della vigente società capitalistica. La nostra società non appare forse, prima facie, «come un’immane raccolta di merci»?

Ebbene, cambiando quel poco che c’è da cambiare, si può osservare la concezione neorealista sommariamente richiamata nella riflessione economica di Giulio Tremonti, sceso in campo per riattivare l’aureo circuito dell’«economia reale» interrotto violentemente dall’economia virtuale e immateriale, un’economia, sostiene il Professore, senza consistenza fisica né etica, e senza un futuro che non sia quello dominato dal dio Denaro, fonte di «multiforme miseria, sia materiali che spirituali», per dirla con il Deus Caritas Est del Pastore Tedesco, punto di riferimento etico dell’ex Ministro di Berlusconi.

Per Tremonti l’accelerazione del progresso tecnico ha reso possibile il seguente effetto di «astrazione-sostituzione»: «all’origine il passaggio dalla materia della cosa barattata al metallo delle monete usate per gli scambi, poi il passaggio dalla carta delle banconote alla plastica delle carte di credito e, infine, il passaggio dalla plastica al segno informatico, che si fa valore in sé e per sé e senza più limiti. Capitale deriva da caput, nel mondo primitivo il capo di bestiame. In questo nuovo mondo c’è in realtà ben poco che marchi il capitale nel senso fisico primigenio della ricchezza reale sottostante» (G. Tremonti, Uscita di sicurezza, p. 54, Rizzoli, 2012). Di qui, sempre secondo l’esimio Scienziato, la fine del vecchio capitalismo analizzato da Smith e da Marx e «l’odierna dittatura del denaro».

Come ogni bravo scienziato che si rispetti, Tremonti vede sulla scena del mondo oggettivo cose dure e pesanti, ma non ciò che spiega il processo storico in generale, e la prassi economica in particolare: i rapporti sociali di dominio e di sfruttamento che hanno contrassegnato le diverse epoche storiche. Per questo egli può passare con nonchalance dalla preistoria al mondo contemporaneo come se stesse trattando società diversamente capitalistiche, per così dire, la cui diversità si dovrebbe collocare fondamentalmente sul piano dello sviluppo tecnologico: dalla materia oggetto di baratto al segno informatico delle transazioni finanziarie. Insomma, il Capitale come categoria economica eterna: un classico del pensiero scientifico borghese.

Il capitale «nel senso fisico primigenio della ricchezza reale sottostante», oltre che metastorico è innanzitutto un concetto feticistico che rimane impigliato nella cosalità della prassi economica, la quale si spiega, in primis, non a partire dagli oggetti che produce e dagli strumenti che usa per produrli, ma dal rapporto sociale sottostante, che non può essere apprezzato dall’occhio che guarda il mondo attraverso un microscopio ovvero un telescopio. Ciò che da sempre sostanzia il Capitale è appunto il rapporto sociale che rende possibile la sua fenomenologia: dalle merci al lavoro salariato, dai mezzi di produzione al mercato, dal capitale stricto sensu al denaro come espressione ed equivalente universale della ricchezza sociale nell’attuale forma capitalistica.

Nella genesi del Capitalismo fondamentale non è il concetto di arricchimento in solido e in liquido dei nuovi ceti borghesi a spese delle vecchie classi dominanti parassitarie, ma quello di espropriazioneseparazione. Espropriando, insieme ai vecchi proprietari terrieri prigionieri del loro stesso ozio, i piccoli capitalisti e gli artigiani indipendenti, e separando i produttori diretti dai mezzi di produzione, e quindi dalla proprietà del prodotto, i ceti borghesi in ascesa danno origine appunto al rapporto sociale Capitale-Lavoro, facendo col tempo anche leva su uno Stato che progressivamente cade sotto il loro controllo. A quel punto chi non è provvisto di capitali, per vivere deve mettere sul mercato la propria capacità lavorativa e contrattare con il funzionario del Capitale il miglior prezzo di vendita possibile. E con questo siamo già all’oggi.

Ancora una volta ciò che rileva non è la sostanza materiale della ricchezza, ma la sua sostanza sociale, la quale dal punto di vista dei realisti oggettivisti è immateriale come l’anima della religione.

Come ho più volte sostenuto in questo Blog, «l’odierna dittatura del denaro» è radicata non sulla speculazione finanziaria, come suggerisce un’interpretazione fin troppo superficiale del processo economico mondiale, ma sullo sfruttamento del lavoro sociale planetario, sulla cui base può innalzarsi il vertiginoso grattacielo finanziario che tanto inquieta Tremonti e gli amanti della cosiddetta economia reale. Universalizzazione del rapporto sociale capitalistico e crescita continua della produttività sociale del lavoro: ecco il segreto del mitico Finanzcapitalismo che postula il trionfo dell’economia della cornucopia.

Storicamente il dominio del capitale finanziario su quello produttivo, che contrassegna l’epoca del moderno Imperialismo, si spiega innanzitutto con quel processo di concentrazione-centralizzazione di capitali che ha nella produzione della massa più grande possibile di plusvalore il suo presupposto e, al contempo, il suo risultato. Sulla dialettica concentrazione-centralizzazione e sfera della circolazione, mi riservo di ritornare con un altro post.

Per Tremonti il denaro, alla fine, è riuscito a recidere i legami che «un tempo» lo connettevano, in un modo o nell’altro, immediatamente (capitale industriale) e mediatamente (capitale finanziario disponibile per le imprese), alla sfera dell’«economia reale». Come stanno in realtà le cose?

La tendenza del denaro a rendersi autonomo dalla sfera immediatamente produttiva è un fatto che si può notare addirittura nel momento genetico del moderno Capitalismo, come ad esempio osserva Marx a proposito dei finanziatori dello Stato inglese alla fine del XVI secolo: «Come con un colpo di bacchetta magica il debito pubblico conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale» (Marx, Il Capitale, I). Tuttavia, «il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria».

Ma, appunto, si tratta di una tendenza immanente al Capitalismo, che deve fare i conti con la seguente inquietante – per il Capitale – realtà: senza creazione di plusvalore industriale (quello che definisco plusvalore primario o basico, per distinguerlo da quello secondario o derivato) non solo non si dà alcuna attività finanziaria, compresa quella speculativa altamente remunerativa, ma è lo stesso denaro che diventa privo di significato, comunque ne sia l’incarnazione tecnologica. Checché ne pensi Tremonti, la tendenza del denaro ad autonomizzarsi in modo assoluto non può attuarsi sulla base della società-mondo del XXI secolo: esso ha infatti significato fintanto che «si presenta come incarnazione individuale del lavoro sociale, esistenza autonoma del valore di scambio, merce assoluta» (Marx, ivi).

Proprio la crisi economica, terremotando il grattacielo di carta della speculazione finanziaria, mostra i limiti entro cui agisce la tendenza all’autonomia della «merce assoluta». Senza la vacca sacra del lavoro salariato, smunta sempre più scientificamente sotto ogni cielo, non sarebbe possibile quella moltiplicazione parossistica dei valori fittizi che tanto irrita i cultori del realismo economico. Ma questo limite non ha nulla a che vedere con il corpo del Capitale: con le merci, con i mezzi di produzione, con il lavoro salariato che gronda sudore e “dignità” – sic! Esso ha piuttosto molto a che fare, come dicevo, con gli impalpabili rapporti sociali peculiari di questa epoca storica.

Citazione buona per la domenica: «Non è la scienza che redime l’uomo. L’uomo viene redento mediante l’amore» (Benedetto XVI, Spe Salvi). Di qui, Santissimo Padre, l’attualità della rivoluzione sociale anticapitalistica. Amen!

IL VOLTO DEL DIAVOLO SECONDO NICHI NARRAZIONE VENDOLA

Quando Nichi Narrazione Vendola dichiara, soprattutto per tenere a bada i suoi inquieti militanti, che «il liberismo è il diavolo», e invita il bel Pierferdinando a «convertirsi», in fondo non fa altro che ricordare la sua provenienza catto-statalista. Sapendo di trovare presso l’ambiente cattolico bazzicato da Casini non pochi nascosti consensi (il denaro come sterco del demonio ha molto a che fare con l’antiliberismo rivendicato dal leader barese), Vendola ha voluto giocare una carta molto furba, in grado per un verso di rassicurare la base del suo movimento, disorientata dal movimentismo sempre più spericolato del capo, e per altro verso di civettare con la sensibilità dei cattolici praticanti impegnati in politica. Detto per inciso, Giulio Tremonti, l’antimercatista ispirato da Benedetto XVI (vedi l’enciclica Spe Salvi), ha scavalcato di molto, non so se più a “destra” o più a “sinistra”, il nostro amico pugliese in quanto a ideologia antiliberale.

Ma qui la battuta vendoliana, tutta spesa in un «teatrino della politica» sempre più grottesco e squalificato, mi serve solo per mettere in questione una leggenda metropolitana molto cara alla “sinistra”: la colpa per le condizioni disastrate dell’economia italiana è da attribuirsi all’ondata di liberismo che avrebbe sconvolto il Bel Paese negli ultimi venti, venticinque anni. Altri vanno più a ritroso nell’individuazione delle responsabilità, fino a incrociare i famigerati nomi di Reagan, della Thatcher e di Craxi. Intanto è semplicemente ridicolo contrapporre, sul piano della teoria economica come su quello dell’effettiva dinamica capitalistica, liberismo e interventismo, due modi di essere della politica economica di un Paese che in linea di principio non si annullano vicendevolmente, se non sul piano meramente ideologico, come accade nel confronto di idee fra i sostenitori del laissez faire  «senza se e senza ma» e i sostenitori del più rigido e assoluto dirigismo statale. Nella realtà di tutti i paesi capitalisticamente avanzati si osserva un mix di politiche liberali e di politiche interventiste, che si integrano a vicenda, con la prevalenza delle une rispetto alle altre in base all’andamento del ciclo economico e alle condizioni sociali generali di un Paese. Il dibattito politico-culturale intorno alle “virtù” dell’una o dell’altra linea di politica economica è lo schermo dietro il quale si celano interessi e contraddizioni reali. Fino a quando esistono margini di compromesso fra liberismo e interventismo le classi dominanti hanno tutto l’interesse a usare entrambe le leve, per rendere «socialmente più sostenibile», per usare il linguaggio dei politici e dei sindacalisti, l’accumulazione capitalistica e la competizione sistemica di un Paese.

Il tempo delle scelte radicali giunge non quando si afferma nella società una scuola di pensiero di “destra” piuttosto che di “sinistra” circa il modo in cui un Paese deve guadagnarsi da vivere, ma quando quei margini vengono progressivamente erosi dal reale processo sociale colto nella sua totalità e nella sua necessaria connessione con il più generale processo sociale mondiale. E quest’ultimo passo naturalmente chiama in causa le nuove fabbriche del mondo: la Cina, l’India e gli altri ex «paesi in via di sviluppo», ma rinvia direttamente anche alla potenza socialmente egemone del Vecchio Continente, alla Germania, necessario standard sistemico che costringe gli altri paesi dell’Unione ad assumerlo come loro punto di riferimento sistemico. Per colpa del «liberismo selvaggio», o della solita e mai domata volontà di potenza della Germania? No, per “colpa” del Capitalismo, del Capitalismo nudo e crudo, per dirla gergalmente, o sans phrase, per affettare pose intellettualistiche che mal si conciliano con il mio – infimo – status sociale. La Germania persegue una politica di potenza? Sarebbe strano il contrario! Se il cane morde l’uomo, non c’è notizia. Per mutuare ignobilmente Nostro Signore, e così entrare nelle grazie di Nichi, dico alle nazioni europee ed extraeuropee (Stati Uniti) che mal digeriscono l’attuale supremazia sistemica tedesca nel Continente: chi non persegue una politica di potenza scagli la prima pietra.

Come ho ricordato altre volte, la cosiddetta «controrivoluzione liberista» degli anni Ottanta (come se nel periodo precedente ci fosse stata la rivoluzione, o una mezza rivoluzione, almeno in Italia: un’altra mitologia fabbricata nei salotti buoni della nostra “sinistra”) fu la risposta dei paesi occidentali a una crisi economica strutturale (chiusura definitiva, alla fine degli anni Settanta, del lungo ciclo keynesiano negli Stati Uniti e in Inghilterra) aggravata dall’irresistibile ascesa del Giappone, un sistema-Paese ad alta produttività e a bassa spesa pubblica. Attaccare la vecchia struttura del Welfare e liberalizzare tutti i rapporti economici un tempo sussidiati o controllati in qualche modo dallo Stato ebbe allora un preciso significato economico-sociale, prim’ancora che politico-ideologico. Si trattava di attaccare la spesa pubblica improduttiva, di alleggerire un Welfare non più sostenibile a causa dei rallentati ritmi di crescita del prodotto interno lordo, di comprimere i salari, di rendere più «flessibile» e più produttiva la capacità lavorativa. Ma sto parlando del mondo occidentale degli anni Ottanta o dell’Italia del 2012? Fate un po’ voi!

Quanto poco in Italia il «liberismo selvaggio» sia stato di casa, lo dimostra proprio la storia degli anni Ottanta: dopo tutto il gran parlare di «riforme strutturali», di svecchiamento della società, di taglio degli annosi «lacci e lacciuoli» e di Capitalismo «da bere», la struttura sociale del Paese cambiò solo marginalmente, e soprattutto nel Mezzogiorno, riserva di caccia elettorale dei grandi partiti di massa, il peso del parassitismo sociale rimase praticamente inalterato. Solo il Nord del Paese ha continuato a reggere il confronto con le aree economicamente e socialmente più dinamiche del Vecchio Continente, sebbene penalizzato da un sistema-Paese nel suo insieme scarsamente competitivo, inefficiente e costoso. La nascita del movimento leghista si spiega, fondamentalmente, non con il razzismo del Nord, ma innanzitutto con le contraddizioni strutturali della società italiana, e la stessa analisi va applicata all’odierno dibattito europeo fra tedescofili e tedescofobi. È ben vero che l’economia non spiega immediatamente i movimenti della politica e delle idee, ma è altrettanto vero che i processi economici alla lunga devono necessariamente produrre delle conseguenze politiche, ideologiche e financo psicologiche. Ad esempio, e per dirla con Weber, le condizioni materiali del Mezzogiorno italiano (ma anche greco, spagnolo e portoghese) spiegano il «tipo ideale» dell’assistito-statalista che tanto irrita la laboriosa gente del Nord. È vero che, come ha dichiarato Monti a Der Spiegel, in Italia crescono pericolosamente i sentimenti antitedeschi, ma non è che in Germania i sentimenti antimeridionali stiano decrescendo, anzi, e tutto questo movimento “sentimentale” esprime il profondo travaglio sociale che alla fine cambierà il volto della Vecchia Europa.

Sia detto per non creare equivoci che quando parlo di parassitismo sociale non intendo affatto esprimere un giudizio di valore: rimango piuttosto sul piano dell’analisi obiettiva dell’accumulazione allargata del capitale, la quale notoriamente risente grandemente della qualità della distribuzione del reddito, del carico fiscale e della produttività generale di un sistema-Paese. Sul piano etico non faccio alcuna differenza tra un piatto di lenticchie mangiato a sbafo e lo stesso piatto guadagnato col biblico sudore della fronte. Lascio agli apologeti del lavoro salariato (quello dell’Art. 1) militare nel partito dell’onestà e del sudore.  Un partito che, detto di passata, vedrebbe bene insieme Vendola e Casini: mai dire mai!

Tanto più che i due simpatici personaggi, tutt’altro che una «strana coppia», condividono l’interesse strategico di fondo: salvare il Paese dalla bancarotta. Un piccolo saggio della ricetta anticrisi narrata da Nichi: «Tutti dicono che andremo incontro a periodi durissimi. Ebbene, il rigore può essere declinato in molti modi: puoi falcidiare il welfare, continuare a colpire i redditi dei ceti medio-bassi oppure puoi decidere per un’imposta patrimoniale, per la tassazione delle rendite finanziarie» (Intervista a La Repubblica del 4 agosto 2012). Ecco la politica dei sacrifici “declinata” da un adoratore di Enrico Berlinguer, uno che i sacrifici li ha addirittura teorizzati – con un’argomentazione “filosofica” che colpì molto favorevolmente l’austera intellighenzia cattolica del Bel Paese. I fatti si incaricheranno di dimostrare fino a che punto questa classica ricetta sinistrorsa sia adeguata alle esigenze del Capitalismo italiano, o non sia, invece, come quel raggio di luce che ci arriva da una stella già morta, a ricordo di un’epoca finita da molto tempo.

Rispetto a chi scrive il signor Capitale ha una ben diversa etica, e il modo in cui il metaforico piatto di lenticchie arriva sulla tavola del lavoratore ha per lui una grande importanza, direi addirittura decisiva, venendo a impattare direttamente sul processo economico-sociale che gli permette di esistere come pilastro della vigente società. E non bisogna essere “marxisti” per sapere queste cose: basta leggere, ad esempio, il Manifesto liberale di Oscar Giannino, il quale, partendo dal presupposto che «i problemi odierni sono gli stessi di vent’anni fa, solo incancreniti», e che «l’inefficienza dell’apparato pubblico e il peso delle tasse che lo finanziano stanno stremando l’Italia», vuole «costruire quel soggetto politico che 151 anni di storia unitaria ci hanno sinora negato e di cui abbiamo urgente bisogno». Nientemeno.

Per i liberali-liberisti del Paese la discesa in campo del Cavaliere di Arcore è stata una cocente delusione, come del resto la vicenda craxiana a suo tempo, e certamente la prospettiva di un governo catto-statalista guidato dal trio Bersani-Vendola-Casini deve procurar loro forti dolori di testa. Tanto più che lo stesso governo Monti, nato con i migliori auspici “liberali”, ha mostrato tutti i suoi limiti dinanzi alle radicate magagne corporative della società italiana. La “tecnica” dei bravi professori non è riuscita a incidere sul corpaccione delle rendite di posizione difese dai partiti, dai sindacati, dalla Confindustria e da tutti gli interessi organizzati. Che fare? Ho il sospetto che Vendola avesse in mente proprio Oscar Giannino quando ha pensato al diavolo.

VINCERE FACILE…

Castrismo di andata e ritorno...

Il Santissimo Padre va a Cuba a dire che «il marxismo» si è rivelato una strada senza via d’uscita? E cosa fanno i “marxisti”? Obiettano al Pastore Tedesco che anche il Capitalismo ha mostrato più d’una magagna, e che «i comunisti mangiano i bambini» per evitare che finiscano nelle luride mani dei preti pedofili. E poi, di che s’impiccia quel «servo dell’Imperialismo occidentale»? Insomma, l’ultrareazionario mito della «Rivoluzione Cubana», che per oltre mezzo secolo ha vestito il ripugnante regime castrista (uno stalinismo in salsa tropicale), non sembra mostrare crepe presso una non piccola fetta del «popolo de sinistra».

Sia Lode al Capitale!

Mario monti, da consumato politico e da espertissimo Scienziato del marketing, dice agli astanti della «scuola centrale del Partito Comunista Cinese» che «la crisi economica è anche una crisi del sistema capitalistico», e che dopo il «crollo del Comunismo nell’89» il Capitalismo ha voluto stravincere, lasciando fin troppo liberi i suoi spiriti animali. Come hanno reagito i “marxisti” nostrani dinanzi a questa eccellente lezione di realpolitik? Hanno forse affermato che nell’89 non è crollato un solo atomo di Comunismo, per il semplice fatto che il Comunismo non ha mai avuto a che fare né con la Russia, né con la Cina né con altri paesi del vasto mondo? Hanno forse scritto che la balla speculativa del «Socialismo Reale» nascondeva un Capitalismo di Stato a fortissima vocazione imperialista, e che in Cina domina un Capitalismo “Nero”, non “Rosso”, ossia un’«economia di mercato» che esprime una dittatura politica stalinista (o fascista)? Niente di tutto questo! Ancora una volta essi hanno ribadito lo squallido concetto secondo cui se il “Comunismo” è moribondo, o magari passato a peggior vita, anche il Capitalismo non sta poi messo così bene come vogliono darci a intendere i vampiri della speculazione finanziaria e i sacerdoti del «liberismo selvaggio». «Persino Monti è stato costretto a riconoscerlo!»

Ateismo d’accatto!

Per i Ratzinger e i Monti avere la meglio su questi “marxisti” è fin troppo facile. Capite perché è meglio non definirsi scomodando il nome dell’avvinazzato di Treviri?

Vedi anche: Cina. Ora per allora e Riflessioni sulla “Rivoluzione Cubana”.

UN MATERIALISMO INTRISO DI SPIRITO…

Oggi sono in vena di “socializzazione” – in mancanza di socialismo… Di che si tratta questa volta? Ecco cosa mi scriveva, qualche settimana fa, un cortese lettore del mio post sull’ultimo libro di Tremonti:

«Caro Isaia, mi trovo qui per caso a fare la sua conoscenza e avendo letto recentemente La paura e la speranza di Tremonti del 2008, ho trovato che la sua concettualizzazione del sistema politico-economico globale nel quale ci troviamo immersi nella parola “mercatismo”, è illuminante, idonea cioè a pensare oggi orientamenti e decisioni politiche efficaci. Intuisco che la sua devozione a Karl Marx e al materialismo dialettico la porti a discostarsi dalle prospettive “spiritualistiche” delineate in quel libro e a sputargli in faccia il suo disprezzo, tuttavia superando il fastidio che queste sue espressioni acritiche ed intolleranti mi suscitano, le chiedo se su questo punto di analisi storico-economica Lei possa convenire. Con simpatia».

Segue la firma, che qui penso sia meglio omettere. Ed ecco la mia risposta:

Carissimo, Intanto mi scuso per il ritardo con il quale le rispondo, e la ringrazio per l’attenzione. Adesso desidero solo comunicarle che, nonostante mi discosti abissalmente dalle «prospettive “spiritualistiche”» di Tremonti, il mio atteggiamento in generale è alieno da quel disprezzo ideologico da lei, a mio avviso del tutto infondatamente, prospettato. Proprio perché «devoto a Marx» (a proposito: la definizione che mi qualifica politicamente e dottrinalmente non è del sottoscritto, il quale, a scanso di equivoci, evita di proclamarsi “marxista”), sono lungi dall’atteggiamento ateo tipico del radicalismo borghese, il quale riduce il bisogno religioso a mera ignoranza. Su questo punto condivido la critica dell’illuminismo formulata da Hegel nella Fenomenologia dello Spirito. La frase marxiana della religione come oppio dei popoli è stata gravemente fraintesa e volgarizzata, soprattutto dai suoi epigoni, primi fra tutti quelli di scuola diamatica, ossia sovietica – ecco spiegato il motivo della mia professione non marxista: muoia il nome della cosa, viva il concetto!

Nei miei scritti, ad esempio nel mio modesto saggio di filosofia politica L’Angelo Nero, troverà la prova del mio interessamento per il «fatto religioso», a iniziare dalle interessanti elaborazioni teologiche di Benedetto XVI, il filosofo di riferimento di Tremonti. Una delle mie letture preferite è l’Antico Testamento, non perché vi senta l’eco della Parola di Dio, né a cagione del mio cognome – scherzo! –, bensì perché vi vedo la straordinaria prassi sociale dell’uomo: la sua storia, le sue speranze, le sue angosce, la sua economia, e via discorrendo. Trovo la religione, in generale, una delle più eccezionali produzioni umane. Adesso sto studiando Le età del mondo di F. Schelling, un testo che come sa è interamente e profondamente intriso di spirito religioso.

Ce n’è per tutti i gusti!

Insomma, proprio in quanto «materialista dialettico» lo Spirito – del non-ancora-uomo che anela all’umanità – è il mio pane quotidiano. E difatti, più che contro la «spiritualità», comunque essa trovi il modo di manifestarsi (le vie della Speranza sono infinite, proprio come quelle del Dominio!), la punta della mia critica è rivolta contro lo scientismo, la religione dei tempi moderni, ossia contro l’ideologia che vuole ridurre tutto, a cominciare dall’amore e dal pensiero, a mero processo naturale: fisico, chimico, biologico. La sua pretesa di voler provare in laboratorio la non esistenza di Dio la dice lunga sulla sua eccezionale carica antiumana. Per dirla con il Marx di Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, lo scientismo vuole «strappare dalla catena i fiori immaginari», perché «l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante».

Per me, invece, si tratta di gettare via la catena, e «di cogliere i fiori vivi». La critica della Scienza – borghese – come formidabile strumento di dominio materiale e spirituale degli individui è al centro della mia riflessione “filosofica” e politica. Mi scuso per la difesa d’ufficio del «punto di vista umano», e le rinnovo i miei ringraziamenti.

Per approfondimenti sulla mia critica di La Paura e la speranza di Tremonti vedi Il Dominio e la speranza.

LA TEOLOGIA POLITICA DEL PASTORE TEDESCO E IL PUNTO DI VISTA DELL’ANGELO NERO

«L’uomo deve agire, operare, decidere da sé, non lasciare che altri agiscano per lui, se non è semplicemente una macchina» (Hegel, Scritti teologici giovanili).

Mentre la creativa opposizione politica del Bel Paese si trastulla cercando improbabili «Papa neri» da contrapporre al Satrapo di Arcore, Benedetto XVI a Berlino indossa una comoda sottana verde. Alludo ovviamente al suo importante discorso pronunciato dinanzi al Bundenstag lo scorso 22 settembre. «La comparsa del movimento ecologista nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare» (Discorso del Sommo Pontefice Benedetto XVI, Reichstag di Berlino, giovedì 22 settembre, Libreria Editrice Vaticana, 2011). La perorazione ecologista del Pastore Tedesco è stata così forte e convincente, da suggerirgli un’immediata precisazione: «È chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico». Insomma, il Sommo Pontefice ci risparmierà l’abominio estetico di una sua t-shirt con tanto di sole che ride. E questa è già una bella notizia, di questi cupi e relativistici tempi. Dopo l’evaporazione del Papà non avrei sopportato anche l’evaporazione del Papa. Sono a corto di punti fermi, di centri di gravità permanenti, di chiodi che mi tengano saldamente attaccato alla croce del principio di realtà.

Ma il Teologo di Marktl non è una persona banale, e questo gli ha impedito di scivolare sui luogocomunismi ecologisti oggi tanto alla moda: «Vorrei affrontare con forza un punto che – mi pare – venga trascurato oggi come ieri: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere». Già solo per aver posto, di fatto, il tema circa l’esistenza di una peculiare natura umana (da rispettare o da creare?), e intorno alla necessità di una comunità sociale umanamente sostenibile; solo per questo il pensiero di Ratzinger mostra una profondità e una radicalità di prospettiva, che i suoi avversari progressisti, quelli, ad esempio, che lo hanno boicottato nel nome della «laicità dello Stato», neanche si sognano. (Personalmente odio il Leviatano in ogni sua fenomenologia politico-ideologica: che sia confessionale, laico o ateo il mio giudizio sullo Stato – capitalistico –, per l’essenziale, non muta di un microbo).

Naturalmente Benedetto XVI declina la natura umana come può farlo un credente e un teologo, ossia nei termini di un prezioso e misericordioso dono offerto dal Padre alla sua Creatura prediletta, e muovendo da questa Sacra prospettiva egli giustamente bastona la «ragione positivista» (a partire da quella che ispirò il Diritto di Hans Kelsen, l’avversario di Carl Schmidt), rea di aver espulso Dio da ogni tipo di visione scientifica del mondo. La mia tesi è che a essere stato espulso dalla «concezione scientifica del mondo» è stato piuttosto l’uomo, giacché la prassi sociale della nostra epoca è, in radice e necessariamente, disumana. Il problema non è che l’uomo manipola se stesso, credendosi Dio: il fatto dirimente da capire è che il Dominio sociale capitalistico manipola cose e individui in vista della sua continuità e della sua espansione – due lati della stessa medaglia. Questa prassi manipolatrice non ci fa essere uomini.

Il ruolo di Dio non è stato usurpato dall’uomo – il quale oggi si dà, al contempo, come abissale vuoto e come immensa possibilità – ma dal Denaro, che non è lo «sterco del Demonio», come credono gli indignati di mezzo mondo (compresi quelli che stanno organizzando sit-in di protesta a Wall Street), ma l’espressione più genuina di un Dominio che si radica nello sfruttamento razionale (tecnologico, scientifico) di uomini e cose. Se l’uomo non esiste, tutto il male è possibile, anche lo sterminio di inermi individui per mezzo di gas, denutrizione, pallottole, bombardamenti aerei democratici a base di tritolo, fosforo, uranio, plutonio e quanto di meglio – pardon: di peggio – la scienza moderna può metterci a disposizione. Prim’ancora che nella testa dell’intellettuale progressista, il «relativismo etico» tanto deprecato dai Sacri Palazzi alligna nell’oggettività delle cose: relativo – molto relativo – è il valore dell’individuo nella società basata sui valori di scambio.

Ecco perché quando Benedetto XVI invita a «tornare a spalancare le finestre», perché «dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra, ed imparare a usare tutto questo in modo giusto», dice cose belle, impreziosite da tanta ingenuità teologica, ma del tutto false. Infatti, quando l’uomo ha potuto spalancare quelle metaforiche finestre? Mai! Nella società sussunta sotto l’imperio del Dominio (economico, politico, ideologico, psicologico), come sono state tutte quelle che si sono succedute fino ai nostri giorni (compresa la nostra, ovviamente), non c’è ossigeno in grado di far respirare la natura umana. Se umanità significa, come egli sostiene giustamente, «realizzare la vera libertà umana», possono esservi libertà e umanità (due qualità fra loro intimamente e inscindibilmente intrecciate) all’interno di una dimensione esistenziale sottoposta al cieco e spietato imperio delle necessità economico-sociali? Mi sento di escluderlo.

Gli antichi greci associavano il lavoro (anche quello «intellettuale») alla schiavitù: chi è schiavo delle necessità materiali che ci rendono simili agli animali, non è un uomo. Essi speravano di emanciparsi dall’imperio di quelle «basse» necessità riducendo altri individui al rango di bestie – o macchine – da lavoro: su questa base è sorta quella splendida Civiltà che tanto piace al Teologo Tedesco. Mutatis mutandis, siamo ancora immersi in quella dimensione sociale che ci rende schiavi delle necessità economiche, e che quindi non ci permette di vivere come uomini, nonostante la stessa materialità che oggi subiamo con sofferenza offre la possibilità di liberarci da ogni tipo di coazione esterna. È la tragedia dei nostri tempi, la quale, a differenza di quella «classica», non prevede l’apparizione di un deus ex machina. La logica della delega è inscritta nella grammatica del Dominio: l’Angelo Nero non si stanca di ammonirci a tal riguardo.

Scriveva Hannah Arendt: «Col sorgere della società di massa la sfera sociale è giunta finalmente, dopo diversi secoli di sviluppo, ad abbracciare e controllare tutti i membri di una data comunità in maniera uniforme e con la stessa forza» (Vita Activa). Potrebbe sopravvivere l’uomo in queste condizioni? Anzi: è semplicemente concepibile la sua esistenza nella società di massa, la quale non lascia agli individui che un miserabile privato, tanto più idealizzato e reclamizzato quanto più la prassi lo nega e lo riduce a mero residuo.
Dove c’è il denaro e la merce (che non sono cose inscritte nel «patrimonio genetico» della società umana, ma espressioni di peculiari rapporti sociali), non può esserci posto né per la libertà né per l’umanità, e viceversa, beninteso. O ci sono gli attuali rapporti sociali basati sulla manipolazione di uomini e cose, o c’è l’uomo in quanto uomo: non c’è miracolo o abracadabra che possano sciogliere con un compromesso questo tragico Aut-Aut. «Amico mio! Quello Che ti ho già detto tante volte, te lo ripeto, anzi te lo grido: o questo, o quello, aut-aut!»(S. Kierkegaard, Aut-Aut).

Analogo discorso possiamo fare a proposito della «sfera politica»: dove insiste il Diritto, è preclusa alla radice la possibilità dell’uomo. O c’è il Diritto, o c’è l’Uomo, ed per questo che la locuzione «diritti umani» sostanzia un orribile ossimoro concettuale e pratico. Basta indagare in modo critico la storia della millenaria prassi sociale degli individui per capire la genesi e la reale natura del Diritto, al netto delle ideologie pattizie (più o meno progressiste) che ne celano l’intima essenza, la profonda e maligna radice sociale. Ecco perché rivendicare, come fa il Papa, il «vero diritto», il quale storicamente ha preso consistenza attraverso il consolidamento delle società classiste, equivale, di fatto, a sostenere il vero Dominio sociale. I concetti di «Giustizia» e di «Pace» che Benedetto XVI ha fatto risuonare nell’edificio del Reichstag, così pregno ed evocativo di significati storici, hanno la loro scaturigine in quella società classista che sempre di nuovo ha negato e nega ogni «anelito di Giustizia e di Pace». Non possono esserci né l’una né l’altra nella società basata su una prassi che ogni giorno che Dio manda in Terra – con rispetto parlando, si capisce! – dichiara guerra agli individui, li incalza, li stana, li assedia, li sbaraglia, li ferisce e li cura, e, soprattutto, ne pretende la resa condizionata. E il cosiddetto uomo puntualmente alza le mani: cos’altro potrebbe fare dinanzi allo strapotere sociale che lo minaccia da ogni parte? Altro che biblico Moloch!

«”Togli il diritto, e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino». Le cose però, Santissimo Padre, stanno così: il Diritto emana dalla potenza sociale (materiale, spirituale, psicologica, «antropologica») delle classi dominanti, le quali lo impongono alla comunità sotto forma di un contratto sociale liberamente sottoscritto da tutti i suoi membri. Chi non si piega al Diritto storicamente e socialmente stabilito, è con diritto dichiarato Nemico e trattato legittimamente come tale. Il Diritto è Potenza, è Forza, è Violenza: esso è la Giustizia del più forte imposta al più debole, come non si vergognavano di definirlo i filosofi del XVII e XVIII secolo. Poi il pensiero borghese fu costretto a rifugiarsi nell’ideologia.

I nazisti sono diventati una «banda di briganti molto ben organizzata», come ha detto il Tedesco Ratzinger, solo dopo essere stati sconfitti, mentre prima essi organizzarono con pieno Diritto gli interessi della Patria Tedesca come si vennero a configurare in quel peculiare frangente storico, o quantomeno quelli della fazione di classe dominante che allora risultò vincente. Stessa cosa si può dire per «i combattenti della resistenza [che] hanno agito contro il regime nazista»: essi incarnarono il Diritto all’interno delle mutate circostanze (certo, la continuazione del Diritto, e della guerra, con altri mezzi), e sotto quest’aspetto Benedetto XVI ha ragione a sostenere che essi «resero un servizio al diritto», mentre sbaglia quando aggiunge: «e all’umanità». Non fosse altro che per mancanza di materia prima, per dir così.

Il nazionalsocialismo, lungi dall’aver separato il Potere dal Diritto, come ha dichiarato il Papa ripetendo il giuridicamente corretto imposto dai vincenti ai vinti (gli angloamericani ai tedeschi, ai giapponesi e agli italiani, tanto per essere espliciti fino in fondo), rivelò la regola sotto forma di eccezione, rendendo evidente come il Male sia radicale, più che «banale». Ma solo dalla prospettiva dell’Angelo Nero la maligna dialettica del Dominio appare in tutta la sua evidenza solare, mentre la pur notevole Teologia Politica del Tedesco può solo rimarne abbagliato. E il Dominio, come il Sole, se la ride.