CHIMERE, LIMITI E UTOPIE

1. Benecomunismo e concezione feticistica del mondo. Affrontando la scottante e annosa questione della pianificazione economica, comprensibilmente Christian Felber sente il bisogno di scrivere quanto segue: «Ogni marxista giustamente si offenderebbe se si confonde quanto è stato praticato nell’Unione Sovietica con gli ideali di Karl Marx» (C. Felber, L’economia del bene comune. Un modello economico che ha futuro, p. 201,Tecniche nuove, 2012). Leggendo questo passo mi si è allargato il cuore, e chi conosce la mia ultradecennale lotta tesa a salvare l’uomo con la barba dal disastro del «socialismo reale», in tutte le sue varianti nazionali, certamente mi può capire. Non mi muove uno spirito di «devozione» nei confronti del comunista di Treviri, come qualche amico ha scritto per burla, quanto piuttosto un certo amore per la verità. Di notevole appeal è anche quest’altra frase, che si trova a p. 147: «L’essere sociale determina la coscienza sociale, diceva già Karl Marx». Sorvolando sulle interpretazioni deterministiche della famosa frase marxiana, come non approvare la citazione dello scienziato austriaco: bravo!

A questo punto qualche lettore dirà: «finalmente il Nostromo ha beccato uno che la pensa come lui». E non è mica vero, perché le 224 pagine del libro di Felber sono davvero quanto di più distante ci sia dal mio pensiero, e per capirlo basta leggere la recensione che ne ha fatto Jakob von Uexhüll: «Felber mostra una strada verso un’economia nella quale il denaro e il mercato tornano a servire gli uomini, e non il contrario». Intanto da notare il tornano, che lascia supporre una pura sciocchezza alla moda, e cioè che prima della «finanziarizzazione dell’economia» il denaro e il mercato fossero al servizio degli uomini, «e non il contrario». Ma diamo la parola all’autore: «L’economia del bene comune è una forma dell’economia di mercato (sebbene sia un’economia cooperativa di mercato e non economia capitalistica di mercato) in cui esistono aziende private, denaro e prezzi dei prodotti che si formano sui mercati» (p. 4). Raramente ci si trova dinanzi a una simile densità di concetti sbagliati fino al parossismo dottrinario.  Esistono aziende (non importa se private o statali: il capitale è in primo luogo un rapporto sociale, non una forma giuridica di proprietà), esiste il denaro, esistono le merci – pudicamente e benecomunisticamente chiamate «prodotti» –, esiste, dulcis in fundo, il mercato, eppure si nega la natura sommamente capitalistica di un simile «modello economico». Mi viene alla mente la “classica” scena della moglie sorpresa dal marito con l’amante mentre sul letto matrimoniale i due discorrono animatamente intorno alla Teoria e prassi del Kamasutra: «No, amore, non è come credi!» Già, non tutto è come sembra, salvo il Capitalismo in guisa benecomunista.

Intanto, il carattere sociale e cooperativistico è immanente al concetto stesso di capitale: «Con la cooperazione di molti operai salariati il comando del capitale si evolve a esigenza della esecuzione del processo lavorativo stesso, cioè a condizione reale della produzione … Questa funzione di direzione, sorveglianza, coordinamento, diventa funzione del capitale appena il lavoratore ad esso subordinato diventa cooperativo, ma è insieme funzione di sfruttamento di un processo lavorativo sociale» (K. Marx, Il Capitale, I, p. 372, Editori Riuniti, 1980).

In secondo luogo, il denaro non «è in fondo solo un mezzo di scambio»: esso è in primo luogo e fondamentalmente l’espressione di un peculiare rapporto sociale (capitalistico), e la sua più verace e maligna radice affonda, nella società-mondo del XXI secolo come ai tempi dell’ubriacone di Treviri, nel lavoro salariato colto nella sua dimensione sociale. «Nell’esistenza della merce come denaro non solo va messo in evidenza che le merci si dànno nel denaro una misura determinata delle loro grandezze di valore, ma anche che esse si rappresentano tutte come esistenza del lavoro sociale, astrattamente generico» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 152, Einaudi, 1958). L’attuale crisi economica ha, tra l’altro, spezzato il velo feticistico che cela il fondamento sociale di “ultima istanza” del denaro e del suo peculiare mercato di scambio, la cui stratosferica esistenza è resa possibile dalla corrente di plusvalore che il Capitale smunge alla vacca salariata in ogni zolla del pianeta. È su questa corrente che scivola anche la nave della speculazione finanziaria.

Nel denaro l’annichilimento del valore d’uso (a partire dal «Capitale Umano») e l’esaltazione del valore di scambio raggiungono la loro forma più adeguata. Ma il capovolgimento dei bisogni umani non è causato dallo «sterco del Demonio», ma dai rapporti sociali capitalistici che il denaro appunto esprime in questa epoca storica. Vedere nel denaro una mera tecnologia economica è qualcosa che testimonia nel modo più puro la concezione feticistica dell’economia già abbondantemente criticata da Marx.

Scrive Felber: «Il denaro è in fondo solo un mezzo di scambio e non lo scopo dello scambio (il vero scopo dello scambio è la soddisfazione di bisogni) … Mercato non è definito come una legge naturale: è semplicemente un luogo di incontro tra le persone, in cui si praticano rapporti economici» (p. 199). Semplicemente… Dinanzi a cotanta ingenuità, e abissale ignoranza delle cose di cui si parla, si rimane a bocca aperta. Naturalmente per il concetto di mercato e per la sua prassi vale quanto detto a proposito del denaro, e per questo l’«economia umana e solidale, ma anche efficace» di cui parla il Nostro somiglia come una goccia d’acqua al Capitalismo, anzi: è Capitalismo all’ennesima potenza, con tanto di profitto. Ma, dice l’Austriaco, c’è profitto e profitto: «I profitti possono essere nello stesso tempo utili e dannosi secondo il loro utilizzo: accumulazione fine a se stessa o in direzione più utili. I profitti che portano all’aumento del bene comune sono auspicabili» (p. 35). Insomma, dal profitto capitalista al profitto benecomunista: una prospettiva di progresso sociale che mi convince a rinviare il suicidio.

Per Felber i rapporti sociali capitalistici hanno una consistenza talmente naturale, che egli non può immaginare una prassi lavorativa sociale che non abbia bisogno né di capitale, né di merci, né di mercato, né di banche (più o meno «democratiche e non orientate al profitto»: sic!), né di economia nell’accezione che questo concetto ha assunto nelle società divise in classi che si sono succedute fino a oggi. Basta togliere al mercato, al denaro, alla merce, alla finanza, al lavoro salariato ecc. il loro carattere capitalistico, e il gioco è fatto! Non c’è dubbio: basta togliere il carattere capitalistico al… Capitalismo e… voilà!

Cos’è il Capitalismo senza la sua fenomenologia? L’essena (il rapporto sociale capitalistico) non deve forse apparire (sotto forma di capitale, di denaro, di banca, di merce, di mercato, di lavoro salariato, di tecnologia, di scienza) per Essere? Il vecchio Tedesco, acerrimo nemico dei teorici dei «due lati» (come ogni cosa il Capitalismo ha due lati, uno buono e uno cattivo) forse avrebbe detto: fermate la filosofia, voglio scendere!

Se il benecomunismo proposto da Felber fosse la sola “alternativa” realistica al capitalismo «liberista e finanziario», Margaret Thatcher, il cui spirito aleggia nel suo libro come anima nera della società capitalistica, a suo tempo avrebbe avuto ragione da vendere allorché gridò in faccia ai “marxisti” che «Non c’è alternativa!» Al Capitalismo, beninteso. A pagina 145 si legge che «L’economia del bene comune non è un’utopia». Concordo al cento per cento. Si tratta infatti di una ridicola chimera, la quale è infinitamente più lontana dalla realtà di quanto non lo sia la mia schietta utopia, che è almeno radicata “dialetticamente” su una prassi sociale reale, la sola possibile nella società dominata dal capitale.

Nello scritto del ’52 Problemi economici nell’URSS Stalin provò a dimostrare come la persistenza nella «Patria del Socialismo» di tutte le categorie tipiche del Capitalismo (capitale, denaro, merce, mercato, salario, profitto) non fosse, «di per sé», sufficiente a definire l’economia di quel Paese nei termini di un Capitalismo di Stato, peraltro tutto orientato a sostenere una politica fortemente imperialistica, come certi «servi dell’imperialismo americano» si ostinavano a sostenere sulla scorta degli scritti marxiani. Ecco, più che con Marx il pensiero feticistico di Felber ha molto a che fare con la volgare concezione economica staliniana, a sua volta fortemente debitrice del «Socialismo di Stato» di lassalliana memoria.

2. Un pensiero limitato. Scrive Serge Latouche nel suo ultimo breve saggio: «L’umanità oggi si trova in una situazione tragica. Per guadagnarsi la vita, gli uomini e i gruppi, nella maggioranza dei casi, non hanno altra scelta che quella di contribuire, ciascuno per proprio conto, alla “banalità del male”. Trovano lavoro soltanto accettando di diventare ingranaggi della Megamacchina e dunque di partecipare alla dismisura» (S. Latouche, Limite, p. 102, Bollati e Boringhieri, 2012). Le cose stanno proprio così, e le ultime manifestazioni di rabbia e di frustrazione sociale che hanno avuto come protagoniste diverse categorie di lavoratori italiani (minatori e metalmeccanici) la dicono lunga sulla maligna dialettica del Dominio. Uomini che gridano «Viva il carbone!», o «Viva l’alluminio!», oppure che fanno buon viso a cattiva diossina pur di portare a casa un salario. Persone che sono costrette a farsi piacere, per così dire, un lavoro che ne attesta la miseria sociale, un’indigenza che va ben oltre il dato meramente materiale, economico. Si è costretti a lottare per sopravvivere, e sopravvivendo si alimenta sempre di nuovo il Dominio. Spacciare il lavoro salariato per una prassi che conferisce senso e dignità alla vita degli individui, significa fare del cinismo approfittando della loro incoscienza, la quale li espone disarmati anche alle sirene della demagogia e del “populismo”. Ecco perché è così importante puntare i riflettori sui limiti delle lotte puramente economiche, soprattutto quando esse sono sussunte all’ideologia dell’«interesse generale del Paese».

«Ma», continua Latouche, «per sopravvivere, oggi il mondo è anche condannato a reinventare la giustizia … La finitezza del pianeta ci costringe a limitarci sia sul piano ecologico sia sul piano dei conflitti». Che tragica illusione! Affidare la salvezza degli individui e la possibilità che essi entrino finalmente nella dimensione dell’umano a un limite fisico, oggettivo è davvero una manifestazione di incoscienza e di impotenza. Nemmeno le crisi economiche più devastanti rappresentano un limite assoluto per il Capitalismo, che può venirne fuori anche attraverso le guerre mondiali: è già successo, come sappiamo. Approntare limiti politici, istituzionali, ecologici, tecnologici, etici al Capitalismo, come fa anche Latouche, è vano, e non passa giorno senza che la realtà non lo dimostri, in tutto il mondo. Il limite alla società disumana, che tutto sfrutta e inquina (dall’ecosistema ai corpi, dalle idee ai sogni), può darsi solo sul terreno della lotta sociale, come rottura rivoluzionaria dello status quo sociale, come evento catastrofico che pone il fondamento della Salvezza Universale. E non sto facendo della Teologia Politica…

L’ALBA DEI MORTI VIVENTI

Ennesimo tentativo di accorpare i rimasugli della sparsa diaspora del “glorioso” PCI. Si chiama Alba (acronimo che mi rifiuto di spiegare, per decenza), ed ha l’ambizione di dar corpo a un «Soggetto Politico Nuovo», probabilmente collocato a “sinistra” del PD. Sponsor ufficiale Il Manifesto, il noto quotidiano che ama definirsi «comunista» – o forse, da domani, benecomunista –, ma che per sopravvivere non disdegna di elemosinare i soldi al Leviatano. Questo a proposito di “comunismo” e di “benecomunismo”.

«Quale urgenza sentono le migliaia di persone che hanno sottoscritto “il Manifesto pubblicato su il manifesto”? Io credo che molti finalmente, dopo la fasulla liberazione da Berlusconi, abbiano capito dove sia il nemico e quale sia la vittima del suo agire spietato e cinico. Il neoliberismo, per la prima volta in crisi di egemonia dopo la caduta del muro di Berlino» (U. Mattei, A Firenze, per cominciare, Il Manifesto, 28 aprile 2012). Si capisce che quanto a originalità gli albisti sono messi piuttosto maluccio. Infatti, è dal 1989, da quando il muro di Berlino è precipitato sulla loro zucca, che gli statalisti dell’ex PCI e dintorni ripetono il mantra del «neoliberismo» cinico e baro. Un po’ più di originalità, cribbio! Adesso che la crisi economica chiama in causa lo Stato per rendere meno dirompente il conflitto sociale e più agevole la ripresa in grande stile dell’accumulazione capitalistica, gli albisti si sentono meno depressi, con ciò stesso rendendo evidente la natura ultrareazionaria (appunto statalista o «benecomunista», per usare un termine meno sputtanato) del loro progetto politico.

I MILLE VOLTI DEL LEVIATANO

«Dobbiamo sostituire il potere degli usurpatori nel minor tempo possibile con un governo partecipato e condiviso che faccia dell’Italia il primo paese occidentale a rompere davvero col neoliberismo (come fatto da diversi paesi e da ultimo l’Argentina con la nazionalizzazione del petrolio». Dopo la Russia, la Cina e Cuba, ecco il nuovo Paese-modello dei social-nazionalisti (uso il termine in senso tecnico, senza alcuna allusione storica) nostrani. Dimenticavo: c’è pure il Venezuela di Chávez. Dal «neoliberismo» che avrebbe fatto fallimento (ricordo che la crisi economica è immanente al concetto stesso di Capitale: vedasi Il Capitale) al nazionalismo economico? Se pensiamo che tra i firmatari del manifesto albista figura Luciano Gallino, il teorico del Finanzcapitalismo e promotore di un keynesismo “spinto” che abbia nello Stato il «datore di lavoro di ultima istanza», capiamo bene di che lordura statalista stiamo parlando.

«La conoscenza critica è stata massacrata con la continua aziendalizzazione della cultura, della scuola, dell’università e con il tentativo sempre più vicino al successo di chiudere la bocca al pensiero critico che non vuole stare zitto». La «conoscenza critica» sarebbe dunque coltivata negli istituti formativi della Mala Bestia? «La tendenza alla massima estensione e diffusione della cultura pretende che la cultura stessa rinunci alle sue più alte, nobili e sublimi aspirazioni per dedicarsi al servizio di una qualche altra forma di vita, ad esempio dello Stato» (F. W. Nietzsche, Sull’avvenire delle nostre scuole). Sebbene dal suo particolare punto di vista aristocratico, Nietzsche aveva almeno intuito il significato della «democratizzazione» e massificazione della cultura e dell’istruzione nel seno della moderna società borghese. Ma dagli statalisti incalliti sarebbe vano aspettarsi un solo grammo della profondità critica di un Nietzsche. Lasciamo quindi che essi belino allegramente il loro: «Viva l’acqua pubblica, viva la scuola pubblica, viva i beni pubblici!» D’altra parte, il loro orizzonte concettuale è dichiaratamente chiuso dentro i confini degli interessi nazionali; si tratta, infatti, di «salvare il nostro Paese», le «nostre istituzioni», il «nostro patto fondativo», e il nuovo soggetto politico nasce proprio «per dar stimolo alla creazione di un Cln contro l’occupazione neoliberista del nostro paese». Questi hanno in testa la guerra, ancorché «partigiana», mica la Rivoluzione!

«Dichiarando uno stato di emergenza, tutti i dispositivi della legalità liberale sono stati sollevati». Non è affatto vero. Sollevate, per dir così, sono state piuttosto le illusioni feticistiche intorno alla democrazia, più o meno «partecipata», la quale è da sempre la migliore – la più economica, sotto ogni rispetto – forma politico-ideologica del dominio sociale capitalistico: altro che fumisterie sul «neoliberismo» brutto, sporco e cattivo. D’altra parte, lo stato di eccezione mette a nudo la regola del Dominio, quella che il feticismo di cui sopra impedisce di cogliere nei momenti di routine. Ma «l’esito dei referendum è stato ignorato»! Non aspettatevi la mia “indignazione”, signori benecomunisti. No, non mi avrete come “partigiano del XXI secolo”.

Gratta gratta, sotto il benecomunista di oggi scopri lo statalista di ieri. Una verniciatina, e via, si riparte!

Marco Revelli, nella sua introduzione alla performance fiorentina del 28 aprile che ha lanciato il progetto-Alba, non si è certo tenuto alla larga dai soliti luoghi comuni tipici di chi «scende in campo»: non si tratta di mettere in piedi «un ennesimo partitino a vocazione minoritaria», ma un soggetto politico di nuovo conio «tendenzialmente maggioritario». Ma va? Nel suo discorso non poteva mancare il «cambio di paradigma», e difatti non è mancato, corroborato da un «salto di paradigma»: nientemeno! Per dire cosa, poi? Che bisogna salvare il Paese dal «crollo delle stesse istituzioni repubblicane», e che gli albisti intendono essere «abitanti di un nuovo spazio pubblico». Stabilità dello status quo politico-istituzionale uscito dalla seconda guerra mondiale come si riflette «nel nostro patto fondativo», e neostatalismo ribattezzato benecomunismo: un progetto politico anacronistico che trasuda muffa, e non solo, da tutti i pori.

MISERIA DELLA «DEMOCRAZIA PARTECIPATA» E DEI «BENI COMUNI»

Nel suo editoriale comparso oggi sul quotidiano statalista Il Manifesto, Guglielmo Ragozzino ha spiegato le «ragioni di fondo» della proditoria aggressione speculativa che nei giorni scorsi ha messo sotto schiaffo le sorti economiche del Paese. Attraverso la speculazione finanziaria il mondo che fa capo al solito capitalismo liberista-selvaggio, sordo a ogni imperativo etico, avrebbe voluto colpire nientemeno che «l’Italia della democrazia partecipata e dei Beni Comuni».

Insomma, sarebbe lo «straordinario» risultato politico e sociale dell’ultima tornata referendaria che, secondo Ragozzino, il bieco mondo della Finanza Speculativa ha inteso castigare. Esso, infatti, non può tollerare la «democrazia dal basso» che decide di sottrarre alla vampiresca logica del profitto la gestione dei servizi pubblici locali. Ecco perché, conclude il Nostro statalpartecipativo, bisogna creare un movimento che difenda «l’Italia dei Beni Comuni delle città», così duramente attaccata dalla finanziaria approntata dal Ministro Tremonti, ieri colbertiano, oggi «servo sciocco dei poteri forti» nazionali e sovranazionali. Della serie: lunga vita allo statalismo (parassitario) «dal basso».

Ovviamente si tratta di pura risciacquatura ideologica, peraltro smentita proprio in questi giorni da quanto avviene nel vasto mondo: dagli Stati Uniti del progressista Obama alla Grecia del socialista Papandreou, passando per la Spagna di Zapatero, il Portogallo, l’Irlanda, e via di seguito. Cercasi disperatamente il profitto: da sempre è questo il mantra del Capitale. Se poi esso può evitare di passare attraverso la poco remunerativa attività produttrice di «beni e servizi», è ancora meglio. Il Capitale è laico…

Assodato che la speculazione finanziaria ha la stessa dimensione etica di qualsiasi altra attività economica (compresa quella gestita dai capitalisti Equi e Solidali, eticamente ed ecologicamente corretti), è proprio l’obesità del debito pubblico italiano, costruito in decenni di consociativismo cattostatalista (Trimurti Sindacale compresa), che rende particolarmente instabile il quadro strutturale del Bel Paese. E, si sa, dove insiste l’instabilità sistemica, lo speculatore prospera. Beato lui!

Non mi rimane che chiudere queste afose riflessioni ripetendo quanto ebbe modo di farfugliare l’altro giorno il noto Disfattista, e cioè che bisogna mandare a quel paese – sempre quello – i teorici dei Beni Comuni, della Democrazia Partecipata e dei Sacrifici (sdoganati, giusto per irritare il Colon di chi scrive, come «Sobrietà»), e cercare di sollecitare, sempre nei limiti del possibile, la nascita di un movimento di opposizione sociale che resista a ogni forma di politica dei sacrifici. C’è bisogno di arrabbiati con la testa sulle spalle, non di indignati accecati di collera giustizialista.

Il Nostromo e il Dissuasore

MI ASTENGO. SOPRATTUTTO DAL DARE CONSIGLI

Credetemi sulla parola: a memoria d’uomo non si era vista una tornata referendaria così demagogica, menzognera e ideologica come quella che, se Dio vuole, si concluderà domenica 12 giugno. Rapidamente svolgo queste che so essere «considerazioni inattuali», non per dare indicazioni politiche – il frastuono progressista mi sovrasta! -, ma per gettare in mare la metaforica bottiglia, sperando intanto che dentro vi sia qualcosa…

Non c’è dubbio che il significato politico immediato dei referendum è il seguente: assestare il colpo di grazia al Male Assoluto, peraltro espugnato anche ad Arcore. Quello ideologico si può sintetizzare in questi termini: Pubblico è bello, la Giustizia esiste, basta volerla, e volerla uguale per tutti. Amen!

Ora, per chi ha in odio Berlusconi e il «berlusconismo», e crede che un diverso governo (magari presieduto da Nichi Narrazione Vendola, il più banale e parolaio dei luogocomunisti), ha certamente eccellenti motivi per sostenere le ragioni referendarie. Analogo discorso vale per gli amanti del cosiddetto Bene Comune (la Menzogna elevata al cubo, anzi ad n+1!), e per i credenti nello Stato Diritto, peraltro declinato in termini ideologici, ossia falsi.

Capite bene che uno come me, che non coltiva questa «religione civile», che ritiene Berlusconi e Vendola (o Bertinotti, oppure Ferrero o qualche altro campione “comunista”) le due facce della stessa medaglia sociale, che non fa alcuna distinzione tra Pubblico e Privato, tra tariffa e profitto, tra bolletta e fattura, e che, per soprammercato, è ostile allo Stato (e quindi al Diritto e alla Giustizia) al di là della sua contingente fenomenologia politica; capite bene che un simile singolare figuro più che andare al mare, domenica 12 farebbe bene a recarsi sulla Luna, o sul Monte di Venere. E non è detto che non lo faccia, magari con la fantasia…

Personaggi come Bersani e Di Pietro che, quando erano al governo, sostenevano la privatizzazione del servizio idrico (non dell’acqua, la cui proprietà, in tutto il Pianeta, è saldamente nelle mani del demanio, ossia del Leviatano che tanto piace ai sinistri e ai fascisti), e il ritorno all’Atomo, oggi cavalcano le paure della gente, facendole credere che nelle sue democratiche mani è stretto il futuro di questo Paese, se non dell’Umanità intera! «Cristo ha detto date da bere agli assetati, non date profitti ai capitalisti!»: così parlò il cattostatalista.

Il noto Scienziato della Politica di Montalcino di Bisaccia, ha dichiarato che «l’acqua non dev’essere una fonte di profitto»: qualcuno può spiegargli che, in epoca capitalistica, la fonte del profitto non è l’acqua (né l’atomo, né il petrolio, né l’idrogeno, né il carbone, né il sole…) ma la capacità lavorativa degli uomini? «E che ci azzecca?» Ci azzecca, ci azzecca…

Persino il quesito sull’energia atomica (peraltro salvato con manovra ardita dalla Cassazione), appare del tutto privo di mordente politico e critico, e si presta solo al gioco politico-economico delle diverse fazioni borghesi. A «Destra» come a «Sinistra» si gioca con le angosce della gente: l’Atomo, l’ortaggio, l’immigrato, lo zingaro,la mucca, la fame, la sete, il Mostro, le malattie, il petrolio, il buco d’Ozono, l’effetto serra, le cavallette, Silvio! Fermate il capitalismo: voglio scendere!

No, il 12 giugno non contribuirò a scrivere il futuro politico di questo Paese, né il suo Piano Energetico Nazionale.