CHI SONO E COSA VOGLIONO GLI “AMICI DEL POPOLO”?

Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato.
M. Horkheimer, T. W. Adorno.

Il povero biascica le parole per saziarsi di esse.
Egli attende dal loro spirito oggettivo il valido
nutrimento che la società gli rifiuta; e fa la voce
grossa, arrotondando la bocca che non ha nulla
da mordere.
T. W. Adorno.

 «Gli italiani hanno bisogno come il pane
dell’uomo che “si affaccia dal balcone”»
(I. Montanelli). O dal Blog.

Dietro all’uno vale uno di solito si nasconde il Super Uno.

1. Populismo: è la categoria politica oggi più citata – e il più delle volte abusivamente – nel dibattito politico degli ultimi dieci anni. In realtà, già con l’avvento del berlusconismo, agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, si iniziò a scomodare quella definizione; allora però più che di “popolo” si straparlava di “società civile”, una mitica entità antropologicamente orientata al bene da contrapporre alla corrotta e incivile casta politica. E fu proprio come massimo esponente della “società civile” che scese in campo l’ex Cavaliere di Arcore, l’uomo del fare, dello spettacolo e dello sport che tanto entusiasmo suscitò in una larga fascia di elettorato popolare che gli permise di espugnare il Palazzo al primo attacco. Altro che la «gioiosa macchina da guerra» messa in piedi dal patetico Occhetto! Allora gli intellettuali sinistrorsi, che avevano pronosticato il fulmineo fallimento della «ridicola messinscena» del riccone, sostennero che mentre Berlusconi e i leghisti stuzzicavano il basso ventre della gente, ricercando un facile consenso, il polo progressista puntava invece sulla testa delle «masse popolari». Insomma, finì 2 a 0 a favore del basso ventre. La testa aspetta l’ennesima rivincita, diciamo.

In effetti, è stato solo con i “fermenti” sociali e politici generati dalla Grande Crisi iniziata negli Stati Uniti alla fine del 2007 che il “populismo” ha guadagnato le prime pagine dei giornali e si è posto stabilmente al centro del dibattito politico. Si declina il “populismo” in un’accezione positiva come, assai più spesso, in una fortemente negativa, come sinonimo di demagogia; pare poi che esista un populismo di “destra” e un populismo di “sinistra”, populismi che spesse volte finiscono per toccarsi in questioni tutt’altro che marginali, provocando la meraviglia nelle teste dei politologi più scadenti: «Ma com’è possibile? È proprio vero: le vecchie ideologie del Novecento sono morte!». Pace all’animaccia loro! Spesso uso la metafora geometrica per spiegare la cosa: gli estremi si toccano solo se insistono sullo stesso piano. Ad esempio, “estrema destra” sovranista ed “estrema sinistra” sovranista si toccano in diversi punti dell’agenda politica mondiale (come dimostra l’attrazione fatale per Putin, e in parte per Trump) semplicemente perché entrambe condividono uno stesso orizzonte sociale: quello tracciato dai rapporti sociali capitalistici. Di solito il politologo non si occupa di questo aspetto decisivo, e si concentra sulla fenomenologia “sovrastrutturale” dei processi sociali.

Naturalmente i populisti di “sinistra” si arrabbiano non poco con chi, ed è appunto il caso di chi scrive, li assimila senz’altro ai loro colleghi di “destra”. Qui entra in gioco proprio il concetto di popolo, che generalmente si tira dietro quello di nazione, a cui io contrappongo il concetto di classe, che chiama in causa il concetto di internazionalismo. Spesso, per non dire sempre, il populista, di “destra” o di “sinistra” che sia, è anche un sovranista convinto, e ciò ha appunto a che fare con il concetto di Popolo.

2. La lotta non è più tra sfruttatori e sfruttati, tra classi ricche e classi povere, ma tra alto e basso, tra chi lavora (e anche gli imprenditori onesti lavorano, forse più dei loro dipendenti!) e vampiri della finanza speculativa (la banca onesta è tutt’altra cosa!), tra élites e popolo, tra casta e gente semplice: trattasi di una gigantesca menzogna che peraltro non ha nemmeno il pregio dell’originalità.

Una variante populista della lotta di classe è una contraddizione in termini. Checché ne pensino coloro che, ad esempio sulla scia del lascito teorico di Ernesto Laclau, lavorano per una «declinazione a sinistra del populismo», la variante populista della “tradizionale” lotta di classe si esaurisce, per i dominati, in un portare acqua al mulino di questa o quella fazione della classe dominante, la quale è quanto mai divisa al proprio interno (sempre per una questione di valori… di scambio!) e si compatta solo contro il nemico interno (i proletari in lotta) e contro il nemico esterno – salvo incombenze rivoluzionarie, come dimostra il classico esempio della Comune di Parigi al tempo della guerra franco-prussiana: «Il dominio di classe non è più capace di travestirsi con una uniforme nazionale; contro il proletariato i governi nazionali sono uniti. […] I governi europei attestano così, davanti a Parigi, il carattere internazionale del dominio di classe» (1). Questo anche a proposito di sovranismo/nazionalismo.

Parlare di popolo in un’accezione rivoluzionaria nell’epoca della sottomissione totale del pianeta al Capitale non è solo politicamente ultrareazionario, è anche storicamente ridicolo. Dopo la prese del potere da parte della moderna borghesia il concetto di popolo ha assunto sempre più una precisa funzione ideologica, quella di cancellare la realtà dell’antagonismo fra le classi e dentro ogni singola classe. Supplire alla frammentazione sociale e all’impotenza politica delle classi subalterne riprendendo quel concetto, magari attualizzandolo un poco alla luce del capitalismo del XXI secolo, sarebbe, da parte degli anticapitalisti, politicamente stupido e illusorio. Di fatto chi tenta di sdoganare a “sinistra” il populismo non tradisce nulla e si limita piuttosto a rendere evidente la propria natura politicamente reazionaria, e non a caso quei tentativi arrivano soprattutto, se non esclusivamente, dalla tradizione stalinista, che in Italia ha avuto nel PCI di Togliatti (e poi anche nella galassia gruppettara che si è formata negli anni alla sua “sinistra”) la sua più significativa espressione – o variante che dir si voglia. Il carattere borghese, nell’accezione storica (e marxiana) del concetto, degli aspiranti populisti di “sinistra” è insomma, almeno per chi scrive, del tutto scontato, e da me essi non riceveranno mai l’accusa di aver tradito il “ classismo marxista”, che la soggettività politica a cui essi, più o meno apertamente e nostalgicamente, si ispirano non ha mai praticato. Il “compromesso storico” di Berlinguer arriverà buon ultimo a suggellare la natura togliattiana del PCI degli anni Settanta.

I populisti di “sinistra” polemizzano con «una sinistra che strategicamente ripropone la stessa logica della destra liberista»; il loro nemico infatti, e al netto di una fraseologia pseudo anticapitalista che può ingannare solo gli sprovveduti (e purtroppo oggi sono tanti), non è il rapporto sociale capitalistico in quanto tale, non è il Capitalismo tout court ma solo la sua variante “liberista”, o finanziario-speculativa. Ai populisti sinistrorsi piace molto il Capitalismo di Stato (che essi spesso chiamano “socialismo”, o, per essere più “trendy”, benecomunismo) e il vecchio Capitalismo “produttivo”, peraltro intimamente intrecciato con la finanza già ai tempi di Marx, per non parlare del vecchio Engels, il quale fece in tempo a osservare l’ascesa del capitale finanziario come potenza sociale dominante nelle società capitalisticamente avanzate dell’epoca. Non stupisce affatto, dunque, se anche sul terreno delle proposte di politica economica i due populismi (quello di “destra”, già ben strutturato,  e quello di “sinistra”, in lenta e stentata formazione) spesso si incrociano. Da buon opportunista politico, Grillo si limita a saltare da una parte all’altra del campo “populista”, dimostrando la sostanziale identità fra cosiddetta destra e cosiddetta sinistra. Dove mi colloco io rispetto a questi due poli, a queste facce della stessa medaglia? Né più a “destra” né più a “sinistra”, ma altrove, su un diverso e opposto terreno di classe, per usare vecchie ma ancora valide categorie politiche.

«L’acquiescenza della sinistra a questo disegno, la sua rinuncia ad opporsi, e in molti casi la sua partecipazione attiva al processo di “normalizzazione” liberista, ha fatto sì che la bandiera della rivolta contro l’establishment sia stata quasi dappertutto brandita dalle destre, che hanno imposto come ossessione dominante il tema, da ogni punto di vista secondario in termini realistici, delle politiche di immigrazione, col rigurgito di xenofobia e nazionalismo risorgente. Sono populismi, si dirà con quella punta di disprezzo delle “folle” che ormai caratterizza il linguaggio delle sinistre come delle élites. Ma in realtà avremmo bisogno di un serio populismo di sinistra, capace di parlare alle masse e di opporsi alle politiche dell’establishment» (2). E dove va a parare questo «serio populismo di sinistra»? È presto detto: «È del tutto falso e propagandistico affermare che un recupero di sovranità, assolutamente necessario, porti a nazionalismi sfrenati o addirittura a guerre. Come italiani non dovremmo certo proporci di tornare a Crispi e Mussolini, ma dovremmo guardare piuttosto a Enrico Mattei». Come volevasi dimostrare. Quelli del Manifesto negli anni Settanta non volevano morire democristiani; negli anni Ottanta non volevano morire craxiani; nel decennio successivo non volevano morire berlusconiani; oggi guardano a Enrico Mattei come a un fulgido esempio di sovranismo: qualche passo politico in avanti l’hanno pur fatto, bisogna riconoscerlo… «Si tratta di verificare, e per l’ultima volta, se esistono margini di riformabilità di questa Unione Europea, blindata da trattati che sembrano escludere ripensamenti o inversioni di rotta. Se questo non sarà possibile, e la disgregazione procederà tra stagnazione e conflitti, gioverà ricordare che il mondo è molto più grande e più vario rispetto alla prospettiva che si può osservare da Strasburgo e da Bruxelles». Dalla prospettiva che si può osservare dal “Quotidiano comunista” si vede Enrico Mattei che sfida le Sette Sorelle per affermare gli interessi strategici del Capitalismo italiano: credo che Matteo Salvini e Giorgia Meloni si affaccerebbero volentieri dalla finestra del Manifesto. Prima l’Italia! Cribbio!

3. Scrive Gennaro Sangiuliano su Tempi: «Nel delineare le ragioni del nichilismo europeo Martin Heidegger fa ricorso a due giganti russi, in particolare riprende il discorso di Dostoevskij su Pusˇkin del 1880, laddove lo scrittore cita il poeta nell’analisi del rapporto fra élite oligarchica e popolo. Pusˇkin identifica quello che chiama ceto dell’intelligencija, che “crede di stare di gran lunga al di sopra del popolo”, responsabile di aver alimentato una “società sradicata, senza terreno”, e ne censura il comportamento “svincolato dalla terra del nostro popolo”. Leggendo quel testo Dostoevskij appare come un simpatizzante del populismo, che infatti è un movimento che si palesa per la prima volta in Russia nella seconda metà del XIX secolo». Ha senso storico e politico, aiuta a farci comprendere ciò che oggi ci piace definire, forse un po’ troppo frettolosamente e acriticamente, “populismo” chiamare in causa il populismo russo del XIX secolo? Certo, la suggestione creata dal richiamo del suolo e delle radici, che è una componente essenziale del vecchio populismo basato socialmente sui contadini poveri, mantiene una certa forza, un discreto fascino, nella società “liquida”. Su una ben diversa latitudine storico-sociale, nel suo Furore (1939) John Steinbeck faceva dire ai “suoi braccianti”: «Questa terra è nostra […]. Su questa terra siamo nati, su questa terra ci siamo fatti uccidere, su questa terra siamo anche morti. […] Ecco che cosa la rende nostra: esserci nati, lavorarci, morirci». Terra, radici e sudore generato dal duro ma onesto e produttivo lavoro agricolo. Ed ecco la stoccata “populista”: «Il governo invece d’appoggiarsi su noi, su noi che lavoriamo la terra per il bene di tutti, appoggia invece il margine di profitto» (dei proprietari) (3). I braccianti gettati sul lastrico dalla depressione e dalla rivoluzione tecnologica arrivata anche nei campi («Un uomo solo, sulla trattrice, ora sostituisce dodici, quattordici famiglie») si rivolgono al governo degli Stati Uniti come fosse una paterna entità contingentemente traviata dal «mostro», ossia dal potere finanziario: «Oh, ma la banca non è una creatura che respira aria, che mangia polenta. Respira dividenti, mangia interessi». E il governo lascia fare! È sufficiente leggere i discorsi pronunciati da Franklin D. Roosevelt agli inizi della sua Presidenza per farsi un’idea della retorica populista che allora si incaricò di contenere la rabbia sovversiva dei salariati dell’industria e della campagna, nonché degli strati di media e piccola borghesia precipitati nell’inferno della nullatenenza.

La mistica nazista che riprese la parola d’ordine Blut und Boden del vecchio movimento völkisch che predicava per i tedeschi una «comunità di destino», fu il prodotto di una soggettività politica che seppe tradurre in termini propagandistici ciò che un “popolo” impoverito dalla crisi e privo dei vecchi punti di riferimento politici, istituzionali e culturali reclamava a gran voce: lavoro, sicurezza, pace sociale. Ma si trattava appunto di una mistica, di un’abborracciata ideologia che fosse in grado di captare il consenso di masse impoverite e sbandate che vivevano nel cuore del Capitalismo mondiale scosso dalla Grande Crisi. Come era accaduto nell’Italia dei primi anni Venti, si rispolverarono vecchi miti per tenere a bada la bestia rivoluzionaria che poteva distruggere la società capitalistica giunta a un livello assai alto di sviluppo. La modernità capitalistica aveva indossato vecchi costumi, ma sotto il vestito nulla era cambiato. Molti commentatori europei di orientamento democratico credettero di osservare nella Germania di Hitler un ritorno al più buio periodo medievale, ma essi si ingannavano proprio perché suggestionati dallo spettacolo mandato in scena – letteralmente – dai nazisti con grande cura per i dettagli. Il punto essenziale da cogliere era invece un altro, ossia quello che metteva in relazione l’alta razionalità tecnoscientifica conseguita dalla società occidentale (e dal Giappone) con il permanere e l’approfondirsi dell’irrazionalità più cieca. Lo sterminio industriale degli ebrei e lo sterminio di milioni di individui intrappolati nelle città, ricercato attraverso l’uso dei più sofisticati mezzi bellici, rappresentarono l’eccezione che illuminava in modo accecante la sostanza della regola – della cosiddetta “normalità”. Ma allora solo pochissimi riuscirono a mantenere gli occhi bene aperti sull’orrore. Ed eccoci ancora qui a riflettere, mutatis mutandis, sul dilagare dell’irrazionalità nella società economicamente, tecnologicamente e scientificamente più avanzata mai apparsa sulla scena storica. Sarebbe dunque il caso di interrogarsi sulla natura sociale della nostra economia, della nostra tecnologia, della nostra scienza, anziché perdere tempo prendendo in giro, ad esempio, le sciocchezze populiste e complottiste in circolazione.

4. Applicare acriticamente al presente categorie politico-ideologiche del passato non solo conduce il pensiero che vuole essere critico fuori pista, ma soprattutto non lo mette nelle condizioni di capire i caratteri specifici dell’odierno regime sociale. Anche per questo ho da sempre polemizzato con i professionisti dell’antifascismo, i quali “calano” sul presente vecchi schemi concettuali che peraltro si erano dimostrati analiticamente, oltre che politicamente, fallaci già al momento della loro elaborazione. E difatti, lungi dall’aver realizzato un cambiamento di “paradigma” politico-sociale, la Repubblica nata dalla Resistenza si è subito rivelata per quello che non poteva non essere, ossia la continuazione del dominio sociale capitalistico già difeso dal regime fascista. Mentre la militanza antifascista del nostro Paese si dava da fare con il “fascista” di turno (Cossiga, Craxi e Berlusconi, ad esempio) nel pregevole – faccio dell’ironia – sforzo di salvare la democrazia italiana eternamente in pericolo, il Capitalismo affermava ovunque nel mondo il suo carattere totalitario. La circostanza per cui la dittatura borghese di cui parlava Marx si dà, in primo luogo, come un fatto squisitamente sociale, prim’ancora che politico-istituzionale, è cosa che la gran parte dei “marxisti” ancora in circolazione in Italia non capiranno mai. Si badi bene, non a causa di un difetto di intelligenza, ma a motivo della loro collocazione politico-sociale: questi “marxisti”, infatti, difendono da “sinistra” il vigente dominio sociale, che essi intendono semplicemente migliorare, ad esempio con iniezioni di “egualitarismo”, affinché la distanza che separa i ricchi dai poveri non sia troppo grande, e cianfrusaglie ideologiche di simile conio, tutte puntualmente derise dal reale processo sociale, nonostante i continui esorcismi di Papa Francesco.

A proposito del “Papa comunista”, Francesco Borgonovo (La Verità) ha voluto cogliere una contraddizione nel dibattito, peraltro sempre più stucchevole e strumentale, in corso in Italia sul “populismo”: «Il populista dei tempi nostri è un cattivone che cova ambizioni autoritarie, un arruffapopoli che fa strame della democrazia sfruttando i bassi istinti, uno che finge di rappresentare il popolo ma fomenta il popolino. Eppure, in questo ragionamento ormai universalmente diffuso, c’è un inghippo. C’è qualcosa che non torna. Se i populisti sono così bestie e così perfidi, perché c’è un populista fatto e finito che viene celebrato a reti unificate? Di più: che viene incensato dai giornali e citato come un esempio dai politici di ogni ordine e grado? Mistero (ma nemmeno tanto). Il populista in questione è un signore di nome Jorge Mario Bergoglio, cioè papa Francesco. La sua recente visita a Milano e Monza si è rivelata un successo strepitoso, e tutti i media l’hanno descritta così. Eppure proprio quella visita ha fatto emergere il lato più decisamente populista di Francesco». Borgonovo spiega la naturale tendenza populista del Santissimo Padre con la sua origine geopolitica: «Bergoglio conosce molto bene il populismo, perché lo ha praticato e frequentato anche prima di diventare papa. Non per nulla viene dall’Argentina, la terra del peronismo. Nei richiami del pontefice alla “Madre Terra” violentata dal dio denaro si trovano tracce dell’attenzione peronista verso “el campo”, la campagna». Sul peronismo di Papa Francesco concorda anche Loris Zanatta, professore di storia dell’America latina all’università di Bologna e autore de La nazione cattolica. Chiesa e dittatura nell’Argentina di Bergoglio (Laterza, 2015): «Francesco può a tutti gli effetti essere definito un papa populista, se si usa il termine come strumento analitico e non nel senso negativo a cui siamo abituati. Il suo popolo non è però quello della tradizione illuminista, ma è il popolo della tradizione latinoamericana di cui il peronismo è stato il più tipico caso: una comunità organica, riflesso della volontà divina. Una sorta di “popolo mitico”, come lo ha definito il papa» (4). Su questa faccenda rimando a un mio vecchio post.

5. Lo stesso Papa, a sua volta, denuncia un crescente «populismo penale» che starebbe trascinando la politica penale, in Italia e nel mondo, verso una vera e propria deriva classista e razzista. Si tratta, come scrive Alberto Bazoli sul Foglio, della «produzione continua e inarrestabile di nuove fattispecie penali, spesso caratterizzate da pene draconiane e sproporzionate, che soddisfano la ricerca immediata del consenso politico, ma finiscono per ingolfare il sistema e assegnare alla risposta penale compiti che non le sono propri». Avendo io una concezione piuttosto “elastica”, o “dinamica” (o semplicemente realistica e non ideologica), del Diritto (borghese) tale “deriva panpenalistica” non mi scandalizza affatto, e conferma piuttosto ai miei occhi la tesi marxiana secondo la quale «anche il diritto del più forte è un diritto, e che il diritto del più forte continua a vivere sotto altra forma nello Stato di diritto» (Grundrisse).

In un discorso del giugno 2014 tenuto in un convegno di giuristi, egli pronunciò le chiare parole che seguono: «Negli ultimi decenni si è diffusa la convinzione che attraverso la pena pubblica si possano risolvere i più disparati problemi sociali, come se per le più diverse malattie ci venisse raccomandata la medesima medicina. […] Si è affievolita la concezione del diritto penale come ultima ratio, come ultimo ricorso alla sanzione, limitato ai fatti più gravi contro gli interessi individuali e collettivi più degni di protezione. [..]. In questo contesto, la missione dei giuristi non può essere altra che quella di limitare e contenere tali tendenze. È un compito difficile, in tempi nei quali molti giudici e operatori del sistema penale devono svolgere la loro mansione sotto la pressione dei mezzi di comunicazione di massa, di alcuni politici senza scrupoli, e delle pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società». Sulle «pulsioni di vendetta che serpeggiano nella società» verrò tra un attimo.

Una limpida lezione di “populismo giudiziario” ci viene oggi offerta dal Pubblico Ministero di Trani Michele Ruggiero, protagonista nel processo a carico di importanti agenzie di rating «accusate di avere decretato e divulgato una serie di declassamenti e giudizi negativi nei confronti della “nostra” Repubblica Italiana nel secondo semestre del 2011 “manipolando il mercato”, così calpestando la dignità del nostro Stato sovrano». Cito dal Blog di Beppe Grillo: «Era per quella gente semplice e silenziosa, il Popolo Sovrano, che dovevo farmi coraggio, resistere ed andare avanti in quell’ardua battaglia giudiziaria. Se è vero – come qualcuno ha detto – che è impossibile vincere contro chi non si arrende mai, è altrettanto vero che in questo processo sapevo per certo che non avrei perso mai, come non avrebbe perso mai il mio Paese silenzioso, perché non ci saremmo arresi mai. A tutti i miei fratelli d’Italia, piccoli e grandi, dedico questo enorme sforzo, con l’amarezza di non avere raggiunto – per ora – l’obiettivo, ma con la serenità che mi deriva dall’intima consapevolezza di aver fatto il mio dovere, tutto e fino in fondo. Quando ci si impegna tenacemente per realizzare quello in cui si crede, si intraprende un cammino ed il risultato finale non conta più, diviene solo un trascurabile dettaglio. Siamo anelli di una catena, siamo parte di un Tutto». Il «Tutto» naturalmente allude al Popolo Sovrano, alla Nazione, alla Patria, al «Paese che avrebbe potuto non onorare i suoi debiti» ma che avrebbe dovuto trattare il processo di cui si parla come «una questione di dignità delle sue istituzioni e, prima ancora, del suo stesso popolo». Roba da mandare in estasi tutti i populisti e i manettari del Belpaese!

6. Ha senso oggi parlare di populismo come se ne poteva parlare, che ne so, un secolo fa, o mezzo secolo fa? Penso che non ne abbia molto, se non per individuare delle costanti. Ad esempio, lisciare il pelo al popolo, coccolarlo, affermare che esso ha sempre ragione (come il cliente, salvo poi mazziarlo a dovere a voto o appoggio politico incassato); che è nel Popolo che si concentrano tutte le virtù civili e morali del Paese, mentre l’odiata “casta” è simile a una sentina di vizi; che è nella “gente semplice” che risiede la sola possibilità di salvezza e di riscatto; che bisogna pensare e parlare come il popolo: queste e altre simili fandonie di stampo demagogico da sempre fanno parte del repertorio politico dei “populisti”, a iniziare da quelli attivi nell’antica Roma. Il problema non è il populista in sé, ma piuttosto la realtà sociale che produce le condizioni idonee alla sua nascita e al suo successo. Quando ascolto un “populista”, di “destra” o di “sinistra” che sia, istintivamente non mi arrabbio con lui, della cui esistenza su questo pianeta nulla mi importa, ma con la gente che lo applaude, che prende per oro colato tutte le sciocchezze e le frasi ultrareazionarie che gli escono dalla bocca. Poi, essendo un “materialista dialettico”, almeno secondo il giudizio poco obiettivo di alcuni amici, stempero quella istintiva rabbia nei confronti delle vittime del “populismo”, soprattutto se provengono dal proletariato e dai ceti sociali declassati e azzannati dal processo capitalistico di ristrutturazione, e cerco di riflettere sui meccanismi sociali che trasformano gli individui in tante pecorelle smarrite pronte a subire l’inquadramento da parte del personale politico che amministra la nostra vita. E quando parlo di personale politico intendo riferirmi a tutto lo spettro politico, e non solo ai cosiddetti “populisti”, i quali arrivano buon ultimi e cercano, del tutto legittimamente, di coprire una fetta del mercato politico-ideologico creata da una specifica domanda, esattamente come fanno i loro concorrenti di “destra” e di “sinistra” che affettano nei loro confronti una presunta – e ridicola – superiorità antropologica. La stessa miserabile “superiorità” che, come già ricordato, essi sbandierarono agli inizi degli anni Novanta nei confronti del “berlusconismo”, rubricato a sua volta come espressione di «populismo demagogico e antipolitico», come l’anticamera di un «nuovo fascismo», e sciocchezze di analogo conio.

7. Alla fine del XIX secolo in Germania venivano definiti populisti gli antisemiti, e nello stesso periodo in Francia l’antisemitismo era molto popolare. Scrivevo in un post del 2010 dedicato ai sanguinosi fatti di Rosarno: «Chi vive nei piani bassi dell’edificio sociale è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwiniana lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata “lotta tra i poveri”, della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali o semplicemente immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di sociologia o di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno ben compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno sofisticate cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde». Ebbene, chi intende approfondire seriamente la riflessione intorno a fenomeni che fin troppo sbrigativamente, per “economia di pensiero”, rubrichiamo come populismo, a mio avviso farebbe bene a concentrasi più sulla radicalità sociale del male, che sulle sue manifestazioni politiche, ideologiche, culturali, che a volte offrono allo sguardo una maschera di banale ottusità intellettuale.

Per riprendere e generalizzare quanto una volta ebbe a dire Indro Montanelli sugli italiani, eternamente affascinati dall’uomo forte (che oggi potrebbe avere il volto di un Putin o di un Trump), gli individui «hanno bisogno come il pane dell’uomo che “si affaccia dal balcone”». O dal Blog… Ma è un bisogno che si spiega benissimo a partire dai meccanismi e dalle relazioni che informano la moderna società capitalistica.

Come hanno dimostrato Adorno e Horkheimer, anche sulla scorta della psicoanalisi freudiana, il processo di massificazione degli individui, che espone questi ultimi al richiamo delle sirene “populiste”, è iniziato ben prima che in Occidente apparissero i movimenti di massa legati in mille modi alla Prima guerra mondiale, e cioè già in epoca democratico-liberale, quando lo sviluppo del Capitalismo, reso possibile anche dai successi mietuti dalla razionalità scientifica su tutti i campi di osservazione della natura (dal microcosmo al macrocosmo) (5), trasformò definitivamente il singolo individuo in un atomo incapace di padroneggiare la totalità del processo sociale, che davvero a quel punto appariva ai suoi occhi in guisa di mostruosa potenza estranea e ostile, come voleva la teoria marxiana. «Si sente spesso affermare che i moderni mezzi di comunicazione di massa – cinema, radio, televisione ecc. – offrono a chiunque ne disponga la sicura possibilità di pervenire al dominio delle masse mediante manipolazioni tecniche: ma non sono i mezzi di comunicazione di per sé il pericolo sociale». Così scrivevano Horkheimer e Adorno negli anni Cinquanta. In effetti, l’attenzione va posta appunto sulla riduzione degli individui a massa, «la quale è un prodotto sociale. […] Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e unione ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza degli individui» (6).

Non è che nell’epoca del dominio totalitario del capitale le cose per l’individuo sono cambiate in meglio, anzi! Ecco il Popolo (o «le masse», in una variante sinistrorsa del populismo) con cui abbiamo a che fare. Il populismo esalta il “popolo” come questo viene generato sempre di nuovo dalla vigente struttura sociale, e per questo esso conferma ed esprime in forma apologetica la cattivissima realtà che ci sta dinanzi. Lungi dall’essere adulato e idealizzato il “popolo” andrebbe piuttosto criticato, ossia ricondotto ai suoi reali termini sociali, cosa che ovviamente non può importare un fico secco a chi vuole mietere voti elettorali, mentre interessa moltissimo a chi intende favorire lo sviluppo di una coscienza critico-rivoluzionaria intorno alla vigenza del Dominio e alla possibilità della Liberazione.

A proposito di «democrazia diretta», c’è da dire che il “popolo” è diretto in primo luogo dalla prassi sociale informata fin nei dettagli dai rapporti sociali dominanti; esso respira a pieni polmoni l’escrementizia aria che promana da quei rapporti di dominio e di sfruttamento, ragion per cui fare affidamento sulla sua spontaneità significa consegnarsi senza combattere al nemico.

8. Ovviamente il populista non la pensa così. «Sì, penso di essere populista. Voglio fare decidere il popolo su tutti gli argomenti. […] Io non voglio essere rappresentato. Voglio essere consultato, di continuo, su ogni argomento. Auspico la democrazia diretta. La democrazia diretta significa: sono i cittadini a proporre dei progetti di legge da approvare tramite referendum. Non ci sarebbe più un Parlamento. La tesi di una presunta incompetenza dei cittadini è molto antidemocratica. Il voto del più ignorante vale quanto quello del più istruito. O siamo d’accordo su questo oppure affidiamo le decisioni agli esperti. Io preferisco la prima soluzione. Non so se dà migliori risultati, ma a quelli mi sento obbligato di aderire. Non è tanto una questione di efficacia quanto di giustizia». È questo tipo di populismo che Michel Houellebecq, «lo scrittore francese vivente più celebre nel mondo», difende in un’intervista rilasciata al Corriere della Sera. Io continuo a pensare che la cosiddetta democrazia diretta non sia semplicemente la democrazia diretta da un capo, ma che, «diretta» o «delegata» che sia, quella che chiamiamo democrazia è soprattutto un regime politico-istituzionale conforme ai rapporti di classe vigenti in questa epoca storica. Guardata da questa prospettiva, la sola, credo, che consente al pensiero di osservare ciò che si muove oltre l’apparenza generata dall’ideologia dominante (un concetto, questo, che non ha nulla a che fare con la solita infantile distinzione “destra-sinistra”), l’alternativa tra «democrazia diretta», che farebbe gli interessi del “popolo” (della gente che sta in basso), e «democrazia tradizionale», che farebbe gli interessi della «casta» (dei «poteri forti», delle élites, di quelli che stanno in alto) non ha un solo grammo di consistenza, ed è buona solo per drenare consensi elettorali sul versante di chi non ha più fiducia nella cosiddetta democrazia rappresentativa. Per non parlare del fatto che spesso dietro all’«uno vale uno» si nasconde il Super Uno, l’Uno che è più uguale degli altri.

Secondo Franco Debenedetti, che cita un paper della Bridgewater, il più grande hedge fund del mondo che considera il populismo «un rischio politico a livello mondiale», questo “partito” «ormai ha il consenso del 35% degli elettori delle nazioni sviluppate, un livello che non si vedeva dagli anni 30. Ma non tutti i populismi sono uguali», aggiunge Debenedetti forse per rincuorare i suoi elettori: «c’è quello di Hitler e Mussolini, e quello di Franklin D. Roosevelt che entrambi combatté e sconfisse» (7). «Combatté e sconfisse», mi permetto di aggiungere, non per ragioni ideologiche, non per salvare il mondo dall’abisso nazifascista, come disse e scrisse la propaganda dei vincitori, ma per interessi sintetizzabili nel concetto, tutt’altro che obsoleto, di imperialismo, realtà che ovviamente accomunava tutte le nazioni del mondo che portarono al macello decine di milioni di persone, la gran parte “civili”.

Insomma, «democrazia diretta» e «democrazia delegata» sono la stessa cosa quanto a natura sociale, e sono perfettamente interscambiabili sul piano della governabilità, come i giocatori di una stessa squadra che all’occorrenza si alternano sul terreno di gioco: il giocatore stanco o infortunato viene subito sostituito dal compagno fresco e pimpante che prima sedeva in panchina e scalpitava per entrare: «Mister, mi faccia entrare, sono pronto!». Un regime finisce e un altro lo sostituisce, garantendo la continuità del Dominio sociale: niente di più fisiologico. Lo abbiamo visto in Italia proprio dopo la caduta del Fascismo. Poi, mutatis mutandis, lo abbiamo rivisto ai tempi di Tangentopoli, quando cadde la cosiddetta Prima Repubblica, evidentemente non più adeguata ad esprimere il mondo creato dalla globalizzazione capitalistica e dalla caduta del Muro di Berlino. È arrivato il momento dei nuovi salvatori della Patria? Detto en passant, sulla robusta continuità politica, ideologica e istituzionale tra fascismo e post-fascismo da ultimi offre un buon contributo analitico il saggio di Mimmo Franzinelli Il tribunale del Duce (Mondadori, 2017) (8).

Il referendum greco del 5 luglio 2015 sul famigerato Terzo Memorandum della Troika e quello britannico del 23 giugno sulla Brexit vengono presentati da molti commentatori e da non pochi leader politici come due fulgidi esempi di «democrazia diretta»; ai miei occhi essi rappresentano piuttosto due classici esempi di quella che a proposito dei due eventi ho definito scelta dell’albero a cui impiccarsi. Infatti, in entrambi i casi per le classi subalterne di quei due Paesi non solo non sarebbe cambiato sostanzialmente niente, comunque fossero andate le cose, ma in più in caso di magagne la classe dominante avrebbe sempre potuto dire all’elettorato che esso stesso ha scelto la strada da prendere, e che, nella buona come nella cattiva sorte, «siamo tutti sulla stessa barca». Certo, siamo tutti sulla barca del Capitalismo planetario, che per quanto mi riguarda andrebbe affondata senz’altro, e non portata su mari meno tempestosi, come si illudono di fare populisti e antipopulisti.

Il populista ama appellarsi al Popolo perché sa perfettamente che esso sceglierà le sue carte prendendo sempre dal mazzo preparato dal Dominio. D’altra parte, se il gioco di prestigio democratico non dovesse riuscire, basterebbe un secondo per gettare la carota e impugnare il bastone. Beninteso, sempre in vista della felicità del Popolo, o delle masse che dir si voglia.

9. Alla vigilia della Rivoluzione d’Ottobre, di cui quest’anno si celebra il centenario, Lenin disse che «ogni cuoca dovrebbe imparare a governare lo Stato»; una frase che gli verrà rinfacciata dai suoi critici alla luce di una controrivoluzione (quella che porta il nome di Stalin) che egli non poteva certo prevedere.   Comunque sia, lo Stato di cui parlava Lenin era quello partorito non dalle urne, non da una consultazione elettorale o referendaria (Volete il Capitalismo o il Socialismo?), ma da una rivoluzione sociale, era insomma, nell’esempio russo qui richiamato, lo Stato sovietico (cioè centrato sui «Soviet degli operai, dei soldati e dei contadini») chiamato ad esercitare la «dittatura rivoluzionaria del proletariato», anche definita «democrazia proletaria», in vista del superamento del Capitalismo e della dimensione classista della società mondiale. Le speranze di Lenin e della sua cuoca andranno deluse per i motivi che ho provato a spiegare, in ultimo, in due post dedicati al Grande Azzardo. Qui intendo semplicemente dire che la sola «democrazia diretta» che le classi subalterne dovrebbero rivendicare sarebbe quella che ne attesterebbe l’autonomia politica e l’irriducibile antagonismo nei confronti delle classi dominanti, e quindi nei confronti dello Stato e del vasto mondo politico-ideologico che esprime e sorregge il vigente status quo sociale. Altro che sovranismo! Altro che «lotta alla casta»! Altro che “populismo”! Classismo a tutto spiano, piuttosto. Mettere oggi la metaforica cuoca, come vorrebbe il “populista”, al posto di un politico della “casta” muterebbe forse di una sola virgola l’attuale regime sociale? La domanda è puramente retorica, e non è certo rivolta al “populista”, il quale è assorbito da ben altre incombenze: «Rottamiamo la casta! Potere al Popolo!». Ecco fatto!

(1) K. Marx, La guerra civile in Francia, pp. 140-141, Newton, 1973.
(2) G. Santomassimo, Il Manifesto, 28/06/2016
(3) J. Steinbeck, Furore, p. 66, Bompiani, 1980.
(4) Pagina 99.
(5) «In realtà il desiderio insaziabile dell’uomo di estendere il suo potere in due infiniti, il microcosmo e l’universo, non ha radici nella sua natura bensì nella struttura della società» (M Horkheimer, Eclisse della ragione, pp. 96-97, Einaudi, 2000). Su questo aspetto rimando al post Sul potere sociale della scienza e della tecnologia.
(6) M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, in Lezioni di sociologia, p. 96, Einaudi, 2001.
(7) F. Debenedetti, Il populismo di Grillo e il ruolo del Pd, Istituto Bruno Leoni.
(8) Scriveva Ugo Rescigno nel 1975 (un momento di svolta nella politica repressiva condotta dallo Stato contro i nemici della politica dei sacrifici praticata dalla “strana coppia” DC-PCI): «Si coglie la essenziale continuità di tutto l’ordinamento giuridico italiano e dell’apparato statuale dal periodo fascista a quello repubblicano, per cui la Costituzione si è sovrapposta a quell’ordinamento come un cappello nuovo su un vecchio abito» (U. Rescigno, Costituzione italiana e Stato borghese, Savelli, 1977).

POVERTÁ, ALZATI E RIBELLATI!

unicef-in-italia-13-bambini-su-100-vivono-in-poverta_h_partb«Ah, signor filosofo, la miseria è una gran brutta cosa» (Il nipote di Rameau). E proprio a me vieni a raccontarlo?!

«Dio, innamorato di noi, ci attira con la sua tenerezza, nascendo povero e fragile in mezzo a noi, come uno di noi» (Papa Francesco). Un povero Cristo, insomma. Un Dio umano, fin troppo umano, non c’è che dire.

Che fa un povero proletario quando ascolta o legge frasi del tipo: «Il rimedio è la povertà», pronunciate o scritte da chi povero non è affatto? È ovvio: il malmesso corre subito a impugnare la metaforica pistola nell’intento di sparare a bruciapelo bestemmie e insulti contro il filantropo o il demagogo di turno. È facile fare l’apologia della povertà con la miseria degli altri! «Ma povero è davvero bello? Lo chiediamo a Giuseppe De Rita, fondatore del Censis, che risponde con l’esperienza del sociologo e la saggezza dei suoi 84 anni: “I cantori dei poveri non sono mai i poveri. I poveri non cantano”» (La Repubblica). I poveri, al più, imprecano contro l’altrui ricchezza. Non bisogna essere sociologi di fama internazionale né avere la saggezza del vecchio (pardon, dell’anziano, o del diversamente giovane) per capire come vanno certe cose.

Ma, detto questo, non mi associo neanche un poco a chi oggi sui cosiddetti “social” ridicolizza il cantore della povertà a cinque stelle rinfacciandogli la ricchezza (beato lui!) e le frequentazioni “milionarie” in ville e yacht di lusso (beato lui!): non voglio dare il mio contributo al fiume di frustrazione, risentimento, invidia sociale e altro veleno psicosociale che scorre rigoglioso a Miserabilandia. Personalmente mi arrabbio, diciamo così, anche quando, o soprattutto quando sento esternare certe perle pauperistiche dalla rozza bocca dai miei colleghi di classe. La povertà che non si ribella, o che addirittura “si piange addosso” e si compiace di sé stessa per meglio suscitare le “umanissime” attenzioni di filantropi, pii religiosi («Ricorda e non avvilirti fratello: nel Regno dei Cieli gli ultimi saranno i primi»: che bella prospettiva!) e demagoghi, merita non solo offese e sberleffi, ma anche schiaffi e calci nel sedere – che peraltro arrivano puntualmente, come i sospiri d’umana comprensione emessi dai buoni di spirito. Solo nella ribellione la povertà può trovare riscatto e dignità. Nell’articolo scritto nel 1974, che tanto piace a Grillo, Goffredo Parise scriveva che «I poveri hanno sempre ragione». Salvo, aggiungerei con malizia, quando «i poveri» si mettono in testa di fare la famosa rivoluzione sociale: la proprietà, pardon: la civiltà non si tocca! «I poveri hanno sempre ragione»: è il mantra del vero populista – o poverista. Ribadisco il concetto di cui sopra: «i poveri» avranno ragione (sul terreno del processo storico-sociale) solo nel momento in cui si ribelleranno alla condizione che li rende tali. Tutto il resto è demagogia buona ai fini elettorali o per soddisfare la coscienza degli uomini di buona volontà, i quali hanno fame di giustizia, oltre che di panettoni e di altre leccornie natalizie.

Ribellarsi, dunque, non contro la cosiddetta “casta” (sic!); non contro i politici “corrotti e ladri” (strasic!), come gridano populisti e demagoghi di “destra” e di “sinistra” per catturare la rabbia e il disagio sociale dei famosi “ultimi”, i quali all’avviso di chi scrive potrebbero diventare “primi” hic et nunc, già su questa Terra, tra terra e cielo, per dirla con il poeta, senza aspettare viaggi ultraterreni che potrebbero nascondere brutte sorprese; ribellarsi non contro chi ha fatto del denaro il proprio Dio, come predica un giorno sì e l’altro pure il buon Francesco (1), il Papa “comunista” che ovviamente non può comprendere che la dittatura del denaro presuppone e pone sempre di nuovo l’economia fondata sulla ricerca del profitto, ossia il Capitalismo “nudo e crudo” (o sans phrase, per affettare una cultura che non ho); il nullatenente dovrebbe piuttosto ribellarsi contro gli odierni rapporti sociali vigenti in tutto il mondo, semplicemente perché essi fanno del lavoratore, del lavoro e dei prodotti del lavoro non più che merci e della nostra stessa esistenza una gigantesca e praticamente inesauribile fonte di profitto. «Salario = prezzo della merce. L’attività umana = merce»: è quanto pensava, a ragione secondo me, il Babbo Natale di Treviri a proposito della biomerce chiamata lavoratore. E tutto ciò con assoluta necessità, senza cioè che alle spalle degli individui, soprattutto se poveri, agiscano i famigerati “poteri forti e occulti”: è il Capitale la potenza sociale che ci domina dalla culla (si spera confortevole e alla moda) alla bara (idem).

La ricetta (austerità, decrescita felice, povertà: quale allegria!) che Beppe Grillo, sulla scia – ultrareazionaria – di Enrico Berlinguer (2), Serge Latouche e Goffredo Parise, propone per salvare il “Belpaese” dai disastri provocati dalla globalizzazione e dall’avidità degli speculatori d’ogni tipo, è esattamente ciò che meritano di subire i sudditi di Miserabilandia che pendono dalla barba del comico di successo, e la cui miserabile “utopia” non va al di là dello slogan «Onestà! Onestà! Onestà!». Invogliato dal clima natalizio, oggi voglio essere particolarmente buono, e così al gregge che reclama un padrone onesto e austero, auguro senz’altro di poter esso sperimentare quanto prima l’escrementizio mondo sognato da Grillo e Casaleggio.

Oggi Grillo auspica per l’Italia il ritorno a un Capitalismo “dal volto umano” che è esistito ed esiste solo nella testa di qualche intellettuale che ha cercato in passato e che cerca nel presente di fare i conti con la “modernità capitalistica” (con il “consumismo”, con “il materialismo dei nostri tempi”, con la “mercificazione” e la volgarizzazione della vita, con la massificazione e l’omologazione degli individui, con la crescente disumanizzazione delle relazioni sociali, ecc.) dal punto di vista piccolo-borghese. Anche Pier Paolo Pasolini in diverse occasioni non riuscì a resistere al fascino della critica passatista della modernità borghese, critica che manifesta la disperazione di un pensiero incapace di speranza.

Il fatto che le cose vadano sempre peggio per i nullatenenti e per quel poco di umanità che ancora residua nella nostra esistenza; il fatto che il peggio sembra davvero non conoscere alcun limite, ebbene tutto ciò non autorizza nessuno a presentare il passato come un’epoca migliore, anche perché il disastro di oggi non è opera di un destino cinico e baro, ma è stato preparato dal disastro che ci sta alle spalle e che non pochi ricordano con nostalgia. «Tornare indietro? Sì, tornare indietro» (G. Parise): questa frase è stata ripetuta un’infinità di volte nel corso dei secoli, anzi dei millenni. Con il risultato che sappiamo. «Tornare indietro» non solo non rappresenterebbe un acquisto per l’umanità, ma è semplicemente impossibile, anche perché nella Società-Mondo del XXI secolo ciò che decide del nostro destino è la strapotente volontà del Capitale, degli interessi economici e geopolitici, non certo la volontà degli individui, i quali nei regimi democratici sono chiamati ogni tanto a “scegliere” il cane da guardia che deve pro tempore controllarli/amministrali. A proposito di democrazia! Com’è noto, i grillini amano la “democrazia diretta”; una domanda s’impone: diretta da chi? Per non parlare del mantra grillino della trasparenza, il quale ha molto a che fare con il controllo totale degli individui descritto in molte “utopie negative” già alla fine del XIX secolo. Chiudo la parentesi.

Personalmente non ho mai coltivato chimere passatiste ma ho sempre creduto che se esiste una sola via d’uscita possibile da questa rognosissima situazione, gli individui devono cercarla guardando avanti, e correndo verso il futuro, in direzione, cioè, di un assetto pienamente umano della società. Cosa che, ovviamente, presuppone il superamento di ogni forma di Capitalismo – compreso quello che ci vuole vendere Grillo e chi la pensa come lui (e non sono affatto pochi, anzi!): “responsabile”, “ecosostenibile”, “equo e solidale”, “a chilometro zero”,  “povero”. «Povertà è assaporare (non semplicemente ingurgitare in modo nevroticamente obbediente) un cibo: il pane, l’olio, il pomodoro, la pasta, il vino, che sono i prodotti del nostro paese» (G. Parise). Ed è subito spaghettata. Viva l’Italia!

(1) Scriveva Parise nell’articolo già citato:«Il denaro non è più uno strumento economico, necessario a comprare o a vendere cose utili alla vita, uno strumento da usare con parsimonia e avarizia». Sulla critica di questa concezione infantile e feticistica del denaro (lungi dall’essere un mero strumento economico socialmente neutro, il denaro è in primo luogo l’espressione di un peculiare rapporto sociale e la sintesi del complesso processo economico dominato dal Capitale) rinvio al PDF Il potere in tasca e agli altri scritti dedicati al neoproudhonismo (un solo titolo: Sul concetto di miseria sociale e sui proudhoniani 2.0).

(2) «Prima ancora di Grillo, quando questi giocava ai quiz televisivi con Pippo Baudo, che ne aveva intuito le capacità felicemente istrioniche, si ispirò a Parise nel 1977 addirittura l’allora segretario del Pci Enrico Berlinguer. Il quale, partecipe ad una maggioranza di cosiddetta solidarietà nazionale con la Dc, sostenendone in Parlamento un governo monocolore presieduto da Giulio Andreotti, in un celebre discorso al Teatro Eliseo di Roma indossò il saio dei “sacrifici” necessari per uscire dalla crisi. Sulla strada di Berlinguer ispirato da Parise marciarono uomini di primo piano della sinistra come Giorgio Amendola e Luciano Lama. Che anche per questo come segretario generale della Cgil si rimediò all’Università di Roma una contestazione rimasta celebre nella storia dei dirigenti comunisti» (F. Damato, www.formiche.net). Sull’austerity berlingueriana rinvio al post Berlinguer, il tristo profeta dei sacrifici.

I PROFESSIONISTI DELLA “DERIVA AUTORITARIA”

renzi-versione-matrix-316344Sul Corriere della Sera di oggi Pierluigi Battista bastona da par suo i professionisti della «deriva autoritaria», i teorici di un supposto «decisionismo» che a cadenza regolare (il Ventennio naturalmente si presta meglio alla cosa) minaccerebbe di tracimare nel Fascismo. Inutile dire che per evitare al Paese anche solo l’ombra di una simile possibilità i cittadini sono chiamati dai sopradetti professionisti alla più attenta «vigilanza democratica» e alla più rigorosa «risposta democratica». Da concretare possibilmente alla prossima tornata elettorale. È anche abbastanza superfluo informare chi legge i miei modesti post che personalmente non ho alcuna intenzione né di “vigilare” né di “rispondere democraticamente”. Ma vediamo cosa ha scritto Battista.

«Difficile spiegare a uno straniero dell’Occidente liberaldemocratico che la fine del bicameralismo perfetto, fortunatamente sconosciuto nel suo Paese, sia visto in Italia come l’anticamera di una mostruosa “deriva autoritaria”. O che un ragionevole rafforzamento dei poteri del capo del governo sia il primo passo dello sprofondamento negli abissi di un regime antidemocratico. O che l’abolizione delle Province sia l’avvio di una ipercentralizzazione tirannica dello Stato che soffoca ogni autonomia locale. Difficile spiegare i vibranti appelli contro la riforma radicale del Senato, la psicosi di una cultura così impaurita e paralizzata dallo spettro del “regime autoritario”, da vedere pericoli di dispotismo in riforme istituzionali che altrove, all’interno di democrazie consolidate e sicure di sé, appaiono semplicemente normali […] Con il tempo si è sedimentata una distorsione conservatrice con connotati quasi religiosi di omaggio e venerazione del testo costituzionale (“la Costituzione più bella del mondo”), una mistica e una sacralizzazione dello status quo che hanno portato alla scomunica tutti quegli esponenti politici (da Fanfani a Craxi, da Cossiga a D’Alema, da Berlusconi fino allo stesso Matteo Renzi) che si sono impegnati in un modo o nell’altro nella proposta di riformare le nostre istituzioni. “Deriva autoritaria” è stata la formula magica di questa scomunica. Non la discussione sui singoli punti delle riforme, ogni volta opinabili e migliorabili, ma l’idea stessa che si possa ritoccare in una direzione più vicina al resto delle democrazie occidentali il nostro assetto istituzionale. Modificare la Costituzione è diventato “stravolgere la Costituzione”. Ogni riforma “un attentato alla democrazia”. Ogni semplificazione un annuncio di pericoloso “autoritarismo”. Un pregiudizio difficile da superare. Gli accorati appelli di questi giorni ne sono una testimonianza» (Il complesso del tiranno).

Battista ha dimenticato di citare un’altra ricorrente nonché sanguinosa accusa rivolta dai professionisti della deriva autoritaria ai “decisionisti” di turno: «Qui si cerca di attuare il progetto della P2». Che scandalo! Io la famigerata Loggia gelliana me la ricordo benissimo: si trattava di una classica associazione lobbistica polifunzionale, per così dire, che l’arretrata struttura politico-istituzionale del Bel Paese e la gesuitica ideologia “cattocomunista” costringevano alla segretezza. Naturalmente «segretezza» per modo di dire. Più che segreta la P2 era informale. Di qui, la necessità delle riforme istituzionali e strutturali! In effetti, giacciono da anni in Parlamento numerosi disegni di legge che prevedono la regolamentazione dell’attività lobbistica, una prassi che può suonare scandalosa solo nella vecchia – e ipocrita – Italia, la patria del si fa ma non si dice.

Luca Casarini, ex  leader delle “tute bianche” e oggi candidato a un seggio nel Parlamento europeo con la lista Tsipras, ieri ha detto a Piazza Pulita che Renzi è solo un «cavallo di Troika»: le riforme costituzionali presentate dal suo governo non sarebbero che la risposta ai diktat dei poteri forti mondiali, i quali avrebbero tutto da guadagnare da un assetto più «decisionista» delle nostre istituzioni. Il renziano Sandro Gozi ha risposto ricordando al diversamente sinistrorso che sono almeno trent’anni che politici, politologi, giuristi e costituzionalisti discutono intorno alla «impellente necessità» di quelle riforme. «Abbiamo già discusso. Adesso dobbiamo fare».

berlusconismo-fascismoScrivevo giusto qualche giorno fa a proposito di Guido Carli e di Ignazio Visco: «Nel 1973 avevo undici anni, e sto invecchiando ascoltando sempre di nuovo quel mantra: bisogna tagliare lacci e lacciuoli! Scherzi a parte, quando Renzi (e prima di lui Letta, Monti e Berlusconi) dice che “dobbiamo cambiare verso non perché ce lo chiede l’Europa, ma perché ce lo chiede l’Italia”, egli ha perfettamente ragione, perché interamente italiche, nonché annose in un modo che tende al parossismo, sono le magagne strutturali (economiche, politiche, istituzionali, culturali, ecc.) del capitalismo italiano. Alla lunga (diciamo pure alla lunghissima), le vecchie strategie di politica economica volte a generare l’espansione, o quantomeno la sopravvivenza, del Made in Italy (si pensi alle svalutazioni competitive, oggi non più possibili, o al «moltiplicatore» keynesiano basato sulla spesa pubblica) bypassando la necessità delle radicali, e socialmente costose, ristrutturazioni tecnologiche e organizzative delle aziende hanno mostrato la corda. La signora Camusso e i suoi colleghi sindacalisti sono furiosi nei confronti delle dichiarazioni di Visco non perché hanno a cuore gli interessi dei lavoratori, ma perché temono di perdere il loro potere politico di collaborazione/interdizione. Sulle italiche magagne (basti pensare al divario Nord-Sud e al “sistema di potere” meridionale che su esso ha lucrato) si sono radicate forti rendite di posizione» (Il capitale italiano guarda sempre più a Est).

Ma davvero oggi «La democrazia repubblicana è in pericolo», come recita il titolo del post di apertura del blog di Beppe Grillo? Davvero essa, strangolata dai famigerati mercati e dagli gnomi del liberismo più cinico e selvaggio, ha bisogno del soccorso popolare? Personalmente non la penso così. Solo chi in passato si è fatto delle illusioni intorno al “libero gioco democratico” oggi può credere, sbagliando, che il voto dei cittadini non conta più, mentre ieri invece esso contava, eccome, nelle decisioni politiche dei governi. Uno dei più celebri professionisti della «deriva autoritaria», Stefano Rodotà *, già agli inizi degli anni Ottanta lamentava la trasformazione del Parlamento in un «votificio» .

La crisi economica e politica che ha investito l’Italia e l’Europa ha semplicemente reso evidente una verità prima celata sotto uno spesso velo ideologico: la democrazia sancisce l’impotenza sociale delle classi dominate, chiamate ogni tot anni a “scegliere” i funzionari del Leviatano messo a guardia degli odierni rapporti sociali. Il tanto discusso “commissariamento” della politica è la continuazione della democrazia con altri mezzi, così come, mutatis mutandis, la Repubblica nata dalla Resistenza si è data come la continuazione del Fascismo con altri mezzi, in un contesto nazionale e internazionale mutato dalla Seconda carneficina mondiale. Dalla mia prospettiva, populisti (di “destra” e di “sinistra”), demagoghi e “seri democratici” si agitano sullo stesso ultrareazionario terreno: quello della conservazione sociale.

Il saluto fiorentino di Renzi

Il saluto fiorentino di Renzi

Oggi il “populista” Grillo denuncia «la concezione plebiscitaria della democrazia, comune a Renzi e Berlusconi» probabilmente perché il “dinamismo decisionista” del Premier rischia di rodergli la base elettorale. Così, il guru-comico genovese trova comodo afferrare l’epiteto di fascista che i progressisti gli hanno tirato addosso senza complimenti nei mesi scorsi per scagliarlo contro il rivale. Che noia che barba questa Miserabilandia!

* Solo in questo momento apprendo quanto segue:

«In una autorevole intervista rilasciata oggi sul Fatto Quotidiano, l’autorevole professore Stefano Rodotà, nei panni del costituzionalista, pur non essendo un costituzionalista, si scaglia nuovamente contro l’autoritaria riforma costituzionale proposta dal tiranno di Firenze, Matteo Renzi. Senso della polemica: questa riforma non si deve fare perché troppo modificativa degli equilibri costituzionali. Vergogna! Vergogna! A quanto pare, però, come ricordato poco fa dal professor Stefano Ceccanti, lo stesso Rodotà, appena alcuni anni fa, tà-tà-tà, era più riformista del tiranno di Firenze. Proponendo addirittura la – orrore! – soluzione ultra giacobina del monocameralismo secco. Vergogna! Qui il testo dell’ottima riforma proposta da Rodotà, che a questo punto suggeriamo ai parlamentari a cinque stelle, e anche a quelli democratici, di presentare anche in alternativa al testo del governo. Tà-tà-tà» (Claudio Cerasa, Rodotà come Renzi: nel 1985 voleva abolire il Senato, Il Foglio, 1 aprile 2014).

LA CRISI DEL MITICO MODELLO DANESE

JuletorvPhotographerJuletorv_dk-56761331Il tanto lodato modello sociale danese, molto reclamizzato da Grillo e da tutti i progressisti del Vecchio Continente, ha fatto cilecca proprio nel momento in cui il suo meccanismo di tutela sociale sarebbe dovuto entrare a pieno regime, ossia con l’ingresso della Danimarca nella crisi economica che dal 2008 travaglia l’Occidente. Nel momento del bisogno, l’amico Welfare State si è tirato indietro, dimostrando tutta la pochezza dottrinaria di quegli economisti che sorvolano sull’intimo e necessario rapporto che insiste tra la produttività sistemica di un Paese (orientata, com’è ovvio e necessario, alla generazione di profitti) e il sistema delle «sicurezze sociali», tra l’accumulazione capitalistica e il cosiddetto Welfare. Appena le esportazioni del made in Danimarca verso l’Ue e l’Inghilterra hanno iniziato a declinare per poi segnare decisamente il passo, il fondo finanziario che alimenta il Welfare si è improvvisamente ristretto, ponendo il problema di una ristrutturazione complessiva del modello capitalistico danese, anche perché il livello della tassazione, già alto, non può crescere oltre un certo limite, superato il quale i capitali iniziano a reagire in modo “capitalisticamente scorretto”, ossia abbandonando la sfera della cosiddetta economia reale, e persino il Paese di riferimento.

La cosiddetta flexsecurity, che prevede la massima flessibilità del lavoro in cambio di un reddito garantito erogato dallo Stato ai lavoratori licenziati e una loro adeguata formazione professionale, sempre a carico dei contribuenti, per facilitarne il reingresso nel circuito produttivo, ha dimostrato di poter funzionare solo in una fase di espansione economica.

È un fatto che in Danimarca «diminuisce radicalmente la spesa dei comuni per i servizi di assistenza ai cittadini, che riguardano soprattutto bambini e anziani. Per il prossimo anno i comuni saranno costretti a tagliare costi pari a due miliardi di corone, che interesseranno soprattutto il servizio all’infanzia, scuole, cultura e anziani. Il famoso stato sociale danese inizia perciò a essere ridiscusso e si teme in futuro di non essere più in grado di mantenere gli stessi benefici delle generazioni precedenti, intaccando quel patrimonio di garanzie sociali che aveva cementato la società del benessere. Nuovi dibatti sui giornali e televisioni, fanno immaginare a esperti, con non poco malcelato timore, come e in che modo si rimodellerà il proprio stile di vita nei prossimi anni. Per alcuni, le colpe non derivano solo dalle nuove sfide dei mercati emergenti ma anche da un recente atteggiamento danese sempre più rilassato e pigro nel confrontarsi con il mondo del lavoro» (C. Pellegatta, Equilibri, 3 aprile 2012). Come si può constatare, nei passi citati echeggiano “problematiche” molto note dalle nostre italiche parti, e in generale in tutta l’area dell’«Europa periferica», dalla Grecia alla Francia.  Tutto il Capitalismo è Paese!

Un altro fatto certo è che ai lavoratori danesi sarà richiesto dalla classe dirigente del Paese un «atteggiamento responsabile», ossia la passiva – o «patriottica», fate un po’  voi – accettazione di una politica dei sacrifici ancora non definita nei suoi elementi portanti – anche in Danimarca i partiti di governo tengono elettorato.

Nyhavn-69575831Solo adesso si viene a “scoprire” che la Danimarca ha vissuto in tutti questi anni molto oltre le sue capacità di creare reddito, prosperando a spese del proprio futuro nella malsana «economia del debito», come un qualsiasi Paese del Mezzogiorno europeo. «I consumatori danesi, che devono complessivamente alle banche una cifra pari a tre volte il loro reddito, scopriranno presto quanto il loro debito è – o non è – sostenibile. Le famiglie, allarmate, provano a orientarsi tra i consigli e le indicazioni degli esperti. E mentre lo fanno contraggono i consumi e cercano di risparmiare. Secondo i dati della banca centrale danese, a marzo i depositi bancari sono aumentati di 7 miliardi di corone, raggiungendo quota 858,7 miliardi. Tutto questo ha innescato un pericoloso circolo vizioso. Confermando che c’è del debito in Danimarca. O che, per dirla parafrasando l’Amleto di Shakespeare, “something is rotten in the debt of Denmark”» (A. Larizza, Il Sole 24 Ore, 26 giugno 2013).

Lo stesso inquietante – amletico? – destino sta toccando gli altri Paesi nordici (Svezia, Finlandia e Norvegia) un tempo additati come modelli di Capitalismo efficiente e «socialmente sostenibile».

Adesso che il tempo delle vacche grasse (nonché eque e solidali) è finito, si “scopre” che c’è del marcio in Danimarca anche per ciò che riguarda il suo sistema finanziario, assai generoso negli anni passati nel sostegno del consumo privato, soprattutto sul versante immobiliare.  Nel biennio 2008-9 i corsi immobiliari sono crollati, come del resto altrove nel Vecchio Continente, frenando la caduta nel 2011 (-10%) e risalendo leggermente nel 2012, ma in modo disomogeneo nelle diverse aree del Paese.

«Si capisce perché la banca centrale danese si eserciti in diversi scenari apocalittici, finora più o meno rassicuranti. E anche perché si parli così tanto di Unione bancaria. Meglio mettersi sotto l’ala della Bce e tenere le dita incrociate. Per quanto il governatore sia convinto che “il settore finanziario danese si è stabilizzato dal collasso della Roskilde bank del 2008”, lui stesso riconosce che ci sono un paio di questioni sul tappeto che suscitano qualche preoccupazione […] Meglio mettersi sotto l’ala della Bce e tenere le dita incrociate» (M. Sgroi, Formiche, 3 ottobre 2013). Se anche i Paesi del Nord sono ridotti agli scongiuri, vuol proprio dire che un’intera epoca è alle nostre spalle. Solo i vetero/post keynesiani tardano a prenderne atto.

BEPPE GRILLO SEDUCE I MIEI FRATELLI DI SVENTURA

imagesIl programma politico-economico di Grillo, «ostile a ogni tipo di ideologia» (ma in realtà informato da una buffa quanto risibile accozzaglia di diverse ideologie reazionarie prese a “destra” e a “sinistra”), affonda come un coltello «populista» nel burro della tradizionale cultura politica fascio-catto-statalista del Bel Paese. Dopo aver sostenuto per anni la necessità di sforbiciare l’obeso pubblico impiego italiano, sostenendo i costi sociali dell’ardita operazione con l’introduzione di un salario minimo garantito di dubbia fattibilità finanziaria (mentre chiarissimo appare invece il suo significato politico-ideologico), oggi il guru di Genova si fa portavoce di una «battaglia epocale, all’ultimo sangue» in difesa dei lavoratori dell’Amt di Genova.

Incurante, probabilmente in vista delle prossime tornate elettorali, del miserabile fallimento del «capitalismo municipale» italiano, Grillo grida che «il Welfare deve essere difeso, il trasporto pubblico deve essere finanziato». Com’è noto, il biglietto dell’autobus, a Genova come in altre città italiane, copre appena il 35% del costo del servizio; il resto è a carico della fiscalità generale, la quale ovviamente pesa soprattutto sui lavoratori, in modo diretto e indiretto. Come diceva l’evasore fiscale di Treviri, le imposte sono il fondamento materiale dello Stato, ed è per questo che mi fanno letteralmente ribrezzo tutti quei sinistri che affettano pose “anticapitalistiche”, salvo poi battersi contro l’evasione fiscale, magari nell’illusione che il «pagare tutti» si traduca automaticamente in un «pagare meno tutti». Naturalmente non alludo a Grillo, il quale ha almeno il buon gusto di non scomodare le parole abusate dagli abusivi in guisa “comunista”.

Più salario, meno orario e meno imposte: è il trittico rivendicativo che dovrebbe stare al centro delle lotte “economiche” dei lavoratori. Una “piattaforma rivendicativa” difficile da sostenere in tempi di crisi economica e di attacco generalizzato alle condizioni di vita e di lavoro dei nullatenenti; ma è la sola che può costruire un concreto argine all’aggressione capitalistica, “pubblica” e “privata”, di cui essi sono vittime. La politica delle compatibilità aziendali e nazionali è la corda con cui impiccarsi che da sempre i realisti – di “destra” e di “sinistra” – offrono ai lavoratori, confidando nella loro disunione e nella loro precarietà esistenziale.

falco-spannerÈ possibile che molti strati sociali martirizzati dalla crisi finiscano nella rete di chi sventola le bandiere (oltremodo sbiadite e lacerate) del Capitalismo di Stato e del Sovranismo politico-economico, nonostante esse non abbiano più un reale fondamento su cui sostenersi. Per questo il cemento politico-ideologico che tiene insieme le rivendicazioni “economiche” dei lavoratori è ancora più importante del merito di ogni singola rivendicazione. Almeno dal punto di vista di chi si batte per il superamento del vigente regime sociale fondato sulla ricerca del massimo profitto.

Il Cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei e arcivescovo di Genova, ha dichiarato che  «lo sciopero che sta paralizzando Genova deve suscitare una fattiva riflessione da parte dei responsabili, sia locali che nazionali, perché il lavoro di tantissime famiglie non vada in fumo, perché sappiamo che senza lavoro non c’è dignità». Amen! In realtà il carattere sociale del lavoro odierno (denaro in cambio di una prestazione professionale) testimonia l’assenza di dignità umana non solo nell’esistenza delle «tantissime famiglie» che vivono di “lavoro subordinato”, ma nella società presa nel suo insieme. Solo la lotta di classe conferisce vera dignità alla condizione dei lavoratori. Tutto il resto è ideologia borghese, una velenosa merce in vendita soprattutto nei piani bassi dell’edificio sociale.

Il fatto che le demagogiche sparate alla Grillo oggi riscuotano un largo e facile consenso presso i lavoratori è una conferma che la marxiana coscienza di classe non è un frutto che cresce spontaneamente sul terreno del disagio sociale. Tanto più da quando lo stalinismo internazionale, con il suo escrementizio «socialismo reale», ha avvelenato i pozzi della Speranza. Per questo non mi riesce difficile capire chi si lascia sedurre, sul terreno della politica nazionale come su quello della politica estera, da presunte scorciatoie “tattiche”; comprendo bene chi è disposto ad allearsi “tatticamente” persino col Demonio pur di «fare qualcosa di concreto contro il sistema». Proprio perché ne capisco, o quantomeno ne intuisco le motivazioni non smetto di sparare contro quelle tragiche illusioni, che sono tali non perché così ha deciso chi scrive, sordo a ogni senso del ridicolo, ma perché così conferma la storia, lontana e vicina, sempre di nuovo. La coazione a ripetere del Dominio è, in ogni sfera sociale e in ogni ambito esistenziale, una sicura prova del fatto che non ci si può alleare con il Demonio senza restarne vittima. Da sempre la concretezza priva di coscienza è alleata dello status quo.

danDa tutto ciò ricavo la convinzione che chi intende battersi davvero contro il Capitalismo in vista della Comunità Umana, ma non ha ammiccanti merci da offrire nel mercato politico-ideologico, ha tutte le ragioni per reagire allo sconforto, che purtroppo trova nella pessima realtà più di una giustificazione. Assumere la difficoltà del tempo in tutta la sua tragica dimensione è a mio avviso quanto di più concreto possa fare chi intende ribaltare l’attuale condizione di impotenza che inchioda i dominati al carro del Dominio. È con questa consapevolezza e con questo spirito che personalmente, in quanto «militante del punto di vista umano» (come mi piace definirmi), approccio anche le lotte “economiche” dei miei fratelli di sventura. Insomma, non “soffro” la concorrenza di Grillo…

EGITTO (MA ANCHE SIRIA E LIBANO): PIOVE SANGUE SU QUELLO GIÀ VERSATO

piramidi-egittoLeggo dal blog Invisible Arabs: «Questa rivoluzione non è più tale, oggi. O forse è quel tipo di rivoluzione che prevede il sangue, tanto sangue: la rivoluzione sanguinosa di cui criticava l’assenza un giornalista francese a un fine intellettuale egiziano, due anni fa, in una conversazione tra pochi intimi. Perché, diceva, ogni rivoluzione passa attraverso un lavacro di sangue. Credevo non avesse ragione, e che la sua critica fosse originata dal suo essere francese, cresciuto nel mito di un’altra rivoluzione. E ora mi devo ricredere» (Umm al Dunya, prego per te, 14 agosto 2013). Come ho scritto nei precedenti post dedicati alle cosiddette “primavere arabe”, la “rivoluzione” egiziana (o tunisina) non è mai stata tale, almeno che non si voglia assecondare la moda per cui qualsiasi movimento sociale, soprattutto se sporco di sangue, è ipso facto “rivoluzionario”.

Diciamo subito che non è la quantità di sangue versato, né la quantità delle masse in movimento, che fanno di un evento sociale caratterizzato da lotte di strada una rivoluzione*. D’altra parte, in Egitto la sola rivoluzione che la storia, non chi scrive, ha messo all’ordine del giorno è quella anticapitalista, perché con tutti i limiti e le contraddizioni, peraltro comuni a tutte le società che insistono nella turbolenta area che va dal Medio Oriente al Maghreb,  quella egiziana è da tempo una società capitalista. Lo era, beninteso, anche quando qualche leader egiziano straparlava di «socialismo arabo», civettando con gli stalinisti e i maoisti occidentali.

Detto di passata, il Capitalismo di Stato in salsa araba, spacciato appunto per socialismo con caratteristiche egiziane, se ha promosso un certo sviluppo economico del Paese e una sua relativa indipendenza nazionale in epoca postcoloniale, ha d’altra parte generato una serie di magagne sistemiche, di natura sia economica sia politica, che alla fine ne hanno di molto rallentato l’ulteriore processo di modernizzazione.  Questa dialettica sociale, che naturalmente dev’essere vista da una prospettiva geopolitica di ampio respiro, in qualche modo segna la dinamica sociale di tutte le nazioni che insistono nel quadrante geopolitico di riferimento. In quasi tutti questi paesi l’esercito ha svolto un’importante funzione sociale (la cui natura borghese è fuori discussione) che però, a un certo punto, nel nuovo scenario mondiale creato dall’ultima ondata di globalizzazione capitalistica, ha presentato i conti in termini di arretratezza sistemica. Questa situazione ha messo all’ordine del giorno, ormai almeno da vent’anni, la transizione dal vecchio modello di sviluppo capitalistico a uno nuovo in grado di affrontare con successo le nuove sfide sistemiche. In gioco non c’è solo la stabilità sociale del Paese, ma le sue ambizioni di potenza regionale in un’area particolarmente densa di nazioni che aspirano alla leadership politica, economica, militare e ideologica regionale. Si comprende bene come il fronte interno e quello esterno siano intimamente intrecciati.

EGITTO~1Nel Paese delle piramidi stiamo dunque assistendo al dispiegarsi di fenomeni sociali che in gran parte si spiegano sulla base delle contraddittorie tendenze riconducibili a precisi interessi di classe, da conservare o da promuovere, che fanno capo a una «società civile» che, per quanto relativamente arretrata se valutata con gli standard occidentali, può ben definirsi borghese. Nell’analisi dei processi sociali non bisogna farsi sviare dalla coloritura politico-ideologica, nella fattispecie in gran parte riconducibile alla tensione inter-religiosa o allo scontro tra forze religiose e forze laiche, che gli interessi materiali cui facevo cenno assumono.

Naturalmente le tendenze sociali che spingono nella direzione del cambiamento urtano contro la resistenza degli strati sociali e dei gruppi di potere che hanno interesse al mantenimento dello status quo, o quantomeno a negoziare da posizione di forza la ristrutturazione del sistema, rendendola “più sostenibile” attraverso una serie di compromessi. Non è un caso che la crisi egiziana e la crisi siriana esplodono quando i primi risultati delle «riforme strutturali» varate dai regimi del Cairo e di Damasco intorno al 2004 hanno reso evidente come la transizione sistemica reclamasse le sue vittime, al vertice della piramide sociale come nei suoi gradini più bassi, cosa che peraltro spiega il sostegno di massa di cui godono i gruppi borghesi interessati a frenare le tendenze “modernizzatrici”.

In Egitto questi gruppi si sono finora dimostrati in grado di intercettare e mobilitare il crescente disagio sociale del proletariato urbano, del sottoproletariato e dei contadini poveri, ossia degli strati sociali che più degli altri hanno subito i colpi dall’ondata “riformista” che, sotto l’egida della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, ha interessato il Paese.

Scrive Janiki Cingoli, direttore del Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente: «Il compromesso raggiunto da Morsi con i nuovi “giovani ufficiali” guidati da el-Sisi, che portò alla deposizione del Maresciallo Tantawi e al consolidamento del potere di Morsi, nell’agosto 2012, sancì un nuovo equilibrio: Morsi si sottraeva al controllo dei militari, a cui però veniva garantita la conservazione di quella larga area di potere economico, sociale e di privilegio cui erano assuefatti. L’errore di Morsi è stato quello di considerare il compromesso raggiunto come consolidato e definitivo, mentre per l’esercito esso era un punto d’equilibrio da sottoporre a verifica e condizionato» (Apprendisti stregoni e sepolcri imbiancati, L’Huffington Post, 17 agosto 2013).

Il ruolo politico-istituzionale dell’esercito egiziano è radicato in una funzione economica ancora molto forte, che genera consenso negli strati sociali occupati nelle imprese industriali e commerciali gestite più o meno direttamente dall’esercito.  Scriveva Roberta Zunini sul Fatto Quotidiano del 5 luglio scorso: «Una cosa è certa: l’esercito pesa enormemente sull’economia egiziana fin dall’inizio dell’Ottocento quando furono aperte numerose fabbriche militari per la produzione di uniformi e armi. Da allora la spa militare non ha mai dovuto fronteggiare momenti di crisi. Nemmeno durante questo anno e mezzo di collasso finanziario del Paese dovuto alla transizione dall’era Mubarak a quella della Fratellanza musulmana. L’esercito egiziano controllerebbe circa il 30% dell’economia. Le imprese di proprietà dei militari realizzano la maggior parte dei beni di consumo: dai computer ai televisori, dai frigoriferi alle lavastoviglie. Dominano settori essenziali come l’alimentare producendo e vendendo, nei propri supermercati, olio, pane, carne. Sono entrate in partnership con compagnie automobilistiche come la Jeep per realizzare Cherokee e Wrangler. Hanno partecipazioni nelle compagnie energetiche e nell’industria alberghiera. Le società controllate dai quadri dell’esercito fanno lauti affari anche e soprattutto nel campo delle costruzioni dove i soldati hanno diritto di lavorare da quando stanno per andare in pensione. È cosa loro il nuovo complesso dell’Università del Cairo, la costruzione delle principali arterie stradali e la maggior parte degli alberghi sul Mar Rosso […] In questo ultimo anno scosso da un’inflazione alle stelle, nei negozi gestiti dall’esercito i beni di sua proprietà, come l’acqua minerale Safi, la più popolare del Paese, la carne e il pane sono stati venduti a metà prezzo rispetto alle catene private. Il ministero della produzione militare impiega inoltre da solo circa 40mila lavoratori civili».

islamisti-egittoChi oggi deplora il ruolo dell’esercito, magari dopo averlo sostenuto quando si trattò di sbarazzarsi di Morsi, deve fare i conti con questa realtà strutturale che trova un preciso riscontro politico-istituzionale al vertice del potere egiziano e nelle sue sanguinose convulsioni. A mio avviso sbaglia anche chi vede nella gigantesca polveriera araba solo la mano dell’imperialismo occidentale, a cominciare ovviamente dal «Grande Satana» e dal suo «perfido» alleato mediorientale, Israele. Un antiamericanismo e un terzomondismo sempre più sclerotizzati per un verso non consentono di valutare adeguatamente le contraddizioni e gli interessi radicati nei singoli paesi sconvolti dalla guerra civile e nell’area geopolitica in questione (basti pensare al ruolo che l’Iran, la Turchia, l’Arabia Saudita e il Qatar stanno giocando nel decorso della crisi in Egitto e in Siria), e per altro verso, spingono le «masse diseredate» del Sud e del Nord a schierarsi con una delle fazioni (lealisti versus ribelli, laici versus religiosi, statalisti versus liberisti, filo-arabi versus filo-occidentali, ecc.) coinvolte nel bagno di sangue.

Scrivevo il 7 luglio a proposito di Samir Amin, sostenitore di «un’alleanza tra l’Egitto e paesi come la Cina, l’India, la Russia, l’Iran, l’India, il Brasile e la Nuova Turchia»: «È anche contro questa logica di collaborazione “tattica” tra masse diseredate e borghesia “progressista e antimperialista”, uno schema ideologico qualificabile come reazionario già negli anni Settanta del secolo scorso e che oggi puzza di rancido lontano un miglio, che bisogna lottare, a Sud come a Nord – si tratta della “triade Stati Uniti/Europa/Giappone” (Samir). Inutile dire che chi scrive non ha nulla a che fare con la “sinistra radicale” evocata da Samir, la quale si orienta ancora sulla base della vecchia bussola maoista centrata sulla pseudo-dialettica “nemico principale/nemico secondario”. A mio modesto avviso le classi dominate del pianeta devono fronteggiare un solo nemico di classe: il dominio capitalistico colto in tutte le sue molteplici “declinazioni” sociali – comprese le forme che cadono sotto l’occhio indagatore del geopolitico. Nel XXI secolo non si dà autentica lotta all’Imperialismo senza un’assoluta e tetragona autonomia di classe. Tutto il resto è contesa interimperialistica».

Conference on youth unemployment in Europe in BerlinA proposito di contesa interimperialistica: «E gli americani, che tanto avevano puntato sui Fratelli musulmani allo scoppio delle “primavere”? A Obama va bene tutto, purché sia scongiurato il fantasma dell’ennesima guerra civile, a massacro siriano ancora in corso, che rischierebbe di risucchiare gli americani nei conflitti mediorientali da cui cercano in ogni modo di districarsi, per dedicarsi alla sola priorità: la Cina» (L. Caracciolo, Il rebus arabo, La Repubblica,  5 luglio 2013). Gli Stati Uniti devono sempre più fare i conti con gli interessi dei loro alleati nella regione, la quale appare assai più fluida e contraddittoria che ai “bei tempi” della guerra fredda, quando il mondo bipolare rendeva possibile strategie di dominio e di controllo abbastanza facili da applicare e prevedibili sul piano analitico. Per quanto riguarda l’Europa, un titolo di un articolo della Frankfurter Allgemeine Zeitung del 30 luglio dedicato alla crisi egiziana rende bene la situazione circa la politica estera dell’Unione: Catherine Ashton, mediatrice utile ma non decisiva. Utile ma non decisiva! In realtà non esiste una politica estera dell’Unione, ma tante politiche estere quanti sono i paesi dell’Unione, almeno di quelli più importanti. Anche l’Italietta in quello scottante quadrante geopolitico ha qualche carta da giocare autonomamente, magari per prevenire una nuova sortita anglo-francese. Della serie: fratelli coltelli!

«È vero che l’Ue accorda generosi aiuti finanziari all’Egitto (5 miliardi di euro in crediti e aiuti solo per il 2012-2013), ma tradizionalmente non se ne serve come leva nelle trattative politiche. Il denaro serve da sostegno alla protezione dei diritti umani, della democrazia, dell’istruzione e al progresso del paese» (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Quanto è “umano” l’Imperialismo europeo! Quasi mi commuovo. Quasi. Anziché commuoversi, è forse meglio predisporsi a rispondere alla nuova «guerra umanitaria» che già si prepara a pochi chilometri dalla Sicilia.

imagesDal suo mitico blog Grillo tuona: «Per l’Occidente la democrazia è un concetto relativo, che si applica caso per caso, quando gli conviene. Per i militari egiziani non si applica» (Egitto, massacri e democrazia). Diciamo piuttosto che la democrazia è, in politica interna come in politica estera, un eccezionale strumento di controllo, di dominio e di propaganda politico-ideologica che non esclude affatto l’uso della violenza. Proprio la secolare prassi sociale occidentale ci ammaestra in questo senso. «La polveriera Egitto», continua lo statista di Genova, «rischia di travolgere ogni equilibrio in Medio
Oriente e in tutto il Mediterraneo mentre l’Italia fa da comparsa. Il ruolo che le riesce meglio». Qui insiste il vecchio pregiudizio ideologico, di matrice fascio- stalinista, dell’Italia «serva sciocca» di qualcuno, di solito degli Stati Uniti. Eppure da sempre il Bel Paese ha cercato di ritagliarsi un ruolo geopolitico autonomo, naturalmente nei limiti posti alla sua politica estera dalla sua reale forza sistemica e dall’alleanza imperialistica cui esso è parte, nell’area balcanica e nel quadrante che va dal Medio Oriente alla Libia. Ma, si sa, si può fare di meglio e di più. «Italiani!»

* «Rivoluzionario è il processo sociale che mette in discussione non un regime politico, ossia la mera forma politico-istituzionale di un dominio sociale, bensì questo stesso dominio, i peculiari rapporti sociali che lo rendono possibile. Come dimostra, ad esempio, la transizione italiana dal fascismo alla democrazia dopo la Seconda carneficina mondiale, i regimi passano, il dominio capitalistico continua. Salvo, appunto, l’irruzione sulla scena storica del processo sociale chiamato Rivoluzione, un evento che, marxianamente, presuppone il farsi “classe per sé” delle cosiddette masse, ossia la metamorfosi dell’oggetto (materia prima vivente) del Capitale in soggetto politico-sociale autonomo, in cosciente produttore di nuova storia. Già lo stesso parlare di “masse”, anziché di classe nell’accezione qualitativa appena accennata, contraddice il concetto di rivoluzione sociale anticapitalista. Per questo, per fare altri due noti esempi, la cosiddetta rivoluzione komeinista del ’79 non fu una rivoluzione (sebbene probabilmente ce ne fossero i cosiddetti presupposti materiali), né fu rivoluzionario il crollo del cosiddetto “socialismo reale” dopo il fatidico ‘89» (dal post Egitto e dintorni).

DA LANDINI A PAPA FRANCESCO. Riflessioni rigorosamente antikatecontiche.

La bella società civile

La bella società civile

Il simpatico Maurizio Landini ha dichiarato, ancor prima che la manifestazione sinistrese di ieri avesse luogo, che «Nel corteo c’è la parte migliore del Paese». Questo spiega senz’altro l’assenza di chi scrive, che ovviamente nessuno ha notato. Ma come spiegare l’assenza del Partito democratico? «Il Pd non si imbarazzi a partecipare», aveva detto Landini all’Unità facendo finta di fumare il calumet della pace. Ma il Partito dell’ex sindacalista Epifani evidentemente ha trovato qualche motivo di imbarazzo nel partecipare a una manifestazione cha ha sancito la nascita della «sinistra che non c’è», la quale ieri aveva il volto dei rifondatori dello statalismo e della «legalità perduta». «Non siamo rossi, ma capiamo che dobbiamo dare una rappresentanza politica a questa gente», ha dichiarato il capo-comico genovese. Forse alludeva ai tanti signor Rossi della penisola. «Se non ci fosse il Movimento 5 Stelle», ripete continuamente il Beppe nazionale, «oggi in Italia ci sarebbe la guerra civile»: come non apprezzare la funzione frenante («katecontica») dei grillini. Chissà cosa ne pensano Mario Tronti e Massimo Cacciari, due pesi massimi del «paradigma katecontico».

Io no!

Io no!

Ma dov’era il PD? Questa epocale domanda ha fatto venire in mente ad Adriano Sofri, un tempo lottatore continuo per il “comunismo”, lo slogan che si gridava nelle piazze che contestavano il «compromesso storico» negli anni Settanta , al tempo in cui l’onesto Berlinguer e il pio Moro “inciuciavano” giorno e notte per mettere in sicurezza il Paese: «Il PCI non è qui, è a leccare il culo alla DC!» Che volgarità! In realtà il PCI implementava la sua onesta e dignitosa politica ultrareazionaria di partito borghese «con due palle così», per mutuare la maschia espressione del virile Grillo. Quelle metaforiche palle portarono, fra l’altro, migliaia di giovani «amici del giaguaro» nelle patrie galere e centinaia di migliaia di lavoratori a ingoiare il rospo dell’Austerità – notare la A maiuscola: si trattava, infatti, almeno nelle intenzioni del sobrio Enrico, di un’Austerità non solo economica, ma soprattutto declinata in chiave culturale-antropologica, come quella che oggi chiede Papa Francesco contro la «dittatura del denaro».

Finalmente Norma Rangeri ha di che sorridere; infatti ieri ha visto nella manifestazione romana «Una bella società civile», e anche questo si spiega con la mia assenza dall’evento. «Essere rivoluzionari oggi significa applicare la Costituzione», ha scritto La Rangeri sul Manifesto. Se ricordiamo che per il cosiddetto «quotidiano comunista» anche ingoiare il rospo Dini in chiave antiberlusconiana significò «essere rivoluzionari» nella condizione contingente, capiamo che questa locuzione in bocca a certi “comunisti” rimanda al concetto opposto. D’altra parte, cosa ci si deve aspettare da chi santifica la Costituzione «più bella del mondo», nonché «nata dalla Resistenza» (cioè dalla continuazione del secondo macello imperialistico con altri mezzi) che ratifica, legittima e difende il lavoro salariato (art. 1), il quale presuppone e pone sempre di nuovo il rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento? Democrazia (meglio se «partecipata», «trasparente» e «dal basso»), Costituzione, Lavoro (salariato): è il trittico della conservazione sociale.

«Le scelte del governo Berlusconi e Monti sono all’origine della situazione pesantissima che stiamo vivendo. C’è bisogno di rimettere al centro il lavoro» (Intervista di Landini all’Unità del 18 maggio 2013). A mio modesto avviso l’origine della crisi economico-sociale che travaglia la società italiana va rintracciata nelle «bronzee leggi del Capitale», in generale, e, in particolare, nelle peculiari magagne strutturali (gap sistemico Nord-Sud, spesa pubblica largamente improduttiva e parassitaria, welfare obsoleto, ecc., ecc.) e politico-istituzionali che il Bel Paese si porta dietro da decenni, non da anni. Magagne «strutturali» e «sovrastrutturali» che naturalmente si tengono insieme: di qui l’annosa paura delle classi dirigenti di approntare rigorose «riforme strutturali», salvo trovarsi con le spalle al muro e chiamare la «Patria tutta» alle sue inderogabili responsabilità. Sotto questo aspetto, l’agenda programmatica esposta ieri da Landini non è vecchia: è stravecchia, e facilmente i “liberisti” avranno facile gioco nel dimostrare che se non riparte l’accumulazione capitalistica in grande stile si può «ridistribuire» solo la miseria. La pecora va tosata quando la lana è abbondante, dicevano i socialdemocratici del Nord Europa negli anni Settanta. Ma questi sono problemi di chi vuole tenere in vita la pecora, non per chi le vuole fare la festa.

Cattostatalismo

Cattostatalismo

Dal mio punto di vista c’è bisogno di mettere al centro della teoria e della prassi non il lavoro (salariato), ma la lotta di classe anticapitalistica, a cominciare dalle rivendicazioni “economiche” (lavoro, sussidi ai disoccupati, lotta al taglieggiamento fiscale, ecc.). Naturalmente il mio discorso è rivolto a chi vuole reagire con radicalità contro una realtà sempre più disumana, non certo a chi vuole salvare da “sinistra” il Paese, magari tirando in ballo la necessità di frenare le forze del male (la globalizzazione e la «dittatura dei mercati») per non far precipitare la fine dei tempi adesso che «non siamo ancora pronti». Miseria del «paradigma katecontico»!

Commentando le ultime esternazioni di Papa Francesco («il denaro ci domina», «il denaro deve servire, non dominare», «basta con la dittatura dei mercati»), Giuliano Ferrara, dopo aver giustamente fatto notare che il Santo Padre si muove su un terreno arato dalla teologia sociale della Chiesa almeno da un secolo (dalla Rerum Novarum alla Centesimus Annus, senza trascurare la Caritas in Veritate di Benedetto XVI), ha messo in guardia da una lettura «anticapitalistica» dei discorsi francescani. L’esperienza del «Comunismo», ha scritto l’elefantino sul Foglio, dimostra che la «rivoluzione etica» invocata dal Papa è praticabile solo nel seno del Capitalismo, una società difettosa quanto si vuole, ma non certo quanto quella sperimentata ai tempi del «socialismo reale». Nei confronti dei nipotini di Stalin e di Mao, molti dei quali oggi si sono riciclati in guisa chavista, Ferrara ha ragione da vendere.

Vedi anche LA FIOM È PARTE DEL PROBLEMA…

CONTRORDINE COMPAGNUCCI! Grillo ridiventa “fascista”.

580432_157448497752658_200055440_nGli stessi sinistrati che sino a qualche ora fa insultavano i leader del PD per aver trattato il movimento di Grillo alla stregua di un’anomalia politica da ricondurre al più presto a ragione, oggi riscoprono l’anima “fascista” e “xenofoba” del Capocomico. «Sei un fascista», ha sobriamente detto Nichi Narrazione Vendola allo statista genovese calato ieri su Roma per risolvere i fondamentali problemi di organizzazione politica che rischiano di depotenziare la “spinta propulsiva” del Movimento pentastellato. È lo stesso politico sinistrorso che ancora l’altro ieri accarezzava la barba “progressista” del genovese rimasta impigliata nello ius soli. Inutile dire che il narratore luogocomunista che «piace tanto alla gente che piace» (come Bertinotti) lavora per assorbire almeno una parte, «quella buona», del M5S. A sua volta quest’ultimo lavora per fagocitare almeno una parte, naturalmente «quella buona», del centrosinistra.

austerity-ap-258Detto che la discussione intorno allo ius soli (“radicale” come lo vorrebbero Laura Boldrini e Cécile Kyenge, ovvero “temperato” come auspicano Pietro Grasso e Gianfranco Fini) è da anni aperta in tutto lo spazio europeo, come giustamente fa notare Grillo alla «sinistra che la trionferà (ma sempre a spese degli italiani)»; detto questo, più che al “fascismo” e alla “xenofobia” del castiga-casta genovese, premiato da un elettorato assetato di metaforico – per adesso – sangue,   l’attenzione di chi non è interessato allo scontro tra le opposte (ma convergenti) tifoserie di Miserabilandia dovrebbe piuttosto concentrasi su questo punto: sono soprattutto le classi subalterne che subiscono il fascino dei razzisti. Perché? In attesa di riprendere il discorso, pubblico dei brani tratti da un mio post del 2010 dedicato ai fatti sanguinosi di Rosarno come contributo alla riflessione.

Members of the Greek far-right ultra natNon prima di aggiungere che a mio avviso chi pensa che il prendere corpo di movimenti autoritari e xenofobi in tutti i Paesi del Vecchio Continente abbia il senso di un «ritorno al passato» sbaglia di grosso. La crisi sociale (economica, politica, culturale, psicologica) che ha infranto i sogni europeisti ha solo messo a nudo una maligna radice che non è mai seccata. Si chiama Dominio capitalistico. Non è il passato che ritorna, è la società capitalistica che continua a vivere a spese dell’umano. Chi intende lottare contro i movimenti razzisti d’ogni tipo e favorire l’unione dei dominati di tutti i colori deve tenere bene in mente quanto appena detto, per non ripetere sempre di nuovo le prassi (ad esempio quelle ispirate dall’ideologia del male minore) che puntualmente finiscono per rafforzare il Dominio.

***

 I noti eventi di Rosarno offrono l’occasione per una riflessione sulla società italiana auspicabilmente non banale, non luogocomunista e, soprattutto, non irretita negli interessi e nella prospettiva delle classi dominanti di questo Paese.

… In questa brutta vicenda il razzismo e il coinvolgimento della mafia locale sono le ultime cose che dobbiamo prendere in considerazione. Si badi bene, non perché l’uno e l’altro non abbiano avuto alcun ruolo nello svolgersi dei fatti, o perché in generale non abbiano una loro reale consistenza, bensì perché porli al centro della riflessione non spiega un bel nulla e non ci aiuta a capire. E invece abbiamo un gran bisogno di capire, perché Rosarno è solo un sintomo di qualcosa di ben più grave. No, non si tratta affatto di una malattia, si tratta piuttosto della fisiologia della società basata sul profitto; si tratta di una micidiale normalità che si dà in modo differente nelle diverse aree del Paese e del mondo. Chi ragiona in termini di patologia sociale nasconde a sé e agli altri la «banalità del male», anzi la sua radicalità.

Più che cause, il razzismo della popolazione di Rosarno e la presenza sulla scena del delitto della mafia autoctona rappresentano un epifenomeno, una concausa di secondo livello, ma certamente non la risposta dirimente, la quale va cercata nelle contraddizioni sociali complessive di questo Paese, ancora alle prese, anzi sempre più alle prese, con la rancida «questione meridionale». Ma la più fresca «questione settentrionale» ha cambiato le regole del gioco, ponendo su un terreno completamente nuovo gli annosi problemi posti allo sviluppo capitalistico italiano dal secolare dualismo macroregionale Nord-Sud. E quando parlo di sviluppo capitalistico non mi riferisco solo alla struttura economica del Paese, ma alla società italiana nel suo complesso, perché soprattutto nel XXI secolo la struttura sociale delle nazioni è un tutto sempre più unitario e integrato. Il principio che la unifica in un tutto integrato è il capitale, è la ricerca spasmodica del vitale profitto, è la necessità di trovarsi tra le mani, giorno dopo giorno, anno dopo anno fino alla morte, il vitale (altro che «vile»!) denaro. Sbaglia chi pensa che sto andando fuori tema, perché i fatti di Rosarno, al netto di tutte le balle che sono state dette e scritte, evocano a gran voce il Dio Profitto e il Dio Denaro. Eccome se li evocano! Ma evocano anche il pauroso baratro nel quale si è cacciata l’intera umanità. … Conviene partire proprio dall’epifenomeno, dal «razzismo del popolo di Rosarno», e chiederci come mai il razzismo alligna soprattutto presso gli strati inferiori del corpo sociale, e questo naturalmente non solo nell’amena cittadina calabrese, ma un po’ in tutto il Paese e in tutti i paesi del mondo. Intanto, di passata, mi sia consentito di dare un piccolo calcio al rassicurante luogo comune per cui gli italiani non sarebbero, nel loro più profondo «DNA», razzisti: come se il razzismo fosse una connotazione nazionale o, addirittura, «antropologica»: i tedeschi, tanto per citare un popolo a caso, sono forse razzisti «di loro»? Mi sembra che il gene del razzismo non sia stato ancora individuato, ma è anche vero che di biologia me ne intendo assai poco. «Italiani, brava gente». E chi può metterlo in discussione! Ne sanno qualcosa gli africani del secolo scorso, massacrati ai bei tempi dell’Italia liberale e poi fascista, e ne sanno qualcosa gli africani di questo secolo e di questi giorni. Anche i parenti degli albanesi finiti sott’acqua al largo di Otranto alla fine degli anni Novanta, ad opera di una democratica nave della Marina Militare Italiana (mi sembra sotto il governo di baffino D’Alema, sostenuto dai rifondatori stalinisti), ne sanno qualcosa. Ma chiudiamo l’antipatriottica divagazione, e ritorniamo alla domanda: perché il razzismo si diffonde con tanta facilità e rapidità soprattutto tra «gli ultimi»?

La risposta è tutt’altro che difficile, è anzi alla portata di tutti e infatti tutti la conoscono, ma solo pochissimi ne colgono il reale significato e la reale portata sociale, e non per l’ignoranza delle masse o per la malafede delle classi dominanti, ma in grazia dell’interesse (declinato in tutti i modi possibili e immaginabili), il più forte consigliere della storia. Non è difficile capire che chi sta ai piani alti dell’edificio sociale può permettersi il lusso dell’umana comprensione, della tolleranza, del cosmopolitismo e della filantropia (la forma borghese della vecchia carità cristiana), anche perché tali eccellenti disposizioni d’animo sono altrettanto olio lubrificante cosparso sui duri ingranaggi del meccanismo sociale, rappresentano il balsamo spalmato su un corpo sociale sempre più brutalizzato dagli interessi economici. Dove c’è un soldato che squarta, che brucia e che violenta, deve esserci pure qualcuno che si occupa dei morti e dei feriti; e insieme, Caino e Abele, la bestia assetata di sangue e la crocerossina devota a chi ha avuto la peggio nel duello, costituiscono il sistema della guerra. Insieme e da sempre lupo e agnello mandano avanti, ognuno a modo suo, la comune impresa.

A Rosarno, nelle calde giornate del furore bianconero (e non parlo di calcio…), non c’erano in giro solo malavitosi provocatori, cittadini in preda al panico e all’odio, orde di «negri» accecati di rabbia e forze dell’ordine in assetto di guerra; si aggiravano, tra i cassonetti dell’immondizia e le auto bruciate, anche alcuni uomini di «buona volontà» che facevano appello al buon senso «di tutti», e che aiutavano i feriti di entrambe le fazioni. Pochissimi, è vero, ma c’erano, in ossequio al motto antiumano che recita: anche in mezzo al peggio può esserci un po’ di bene. Amen! D’altra parte, al momento opportuno, quando le condizioni lo rendono possibile e necessario, l’agnello sa bene come usare il lupo, e non rare volte la storia ci ha presentato la stupefacente trasformazione del primo nel secondo: l’agnello perde il bianco pelo e acquista il vizio del lupo. In natura questo non sarebbe possibile, è evidente, ma nella società accadono cose misteriose che, come diceva il poeta, non sarebbero possibili in tutto il firmamento.

… Chi vive nei piani bassi, invece, è più esposto al veleno del pregiudizio, perché lì la darwinistica lotta per la sopravvivenza si presenta tutti i giorni con i caratteri ultimativi della sopravvivenza fisica e morale. La famigerata «lotta tra i poveri», della quale il Santo Padre si lamenta, non dispone gli animi ai buoni sentimenti, e chi vive giornalmente con l’angoscia di perdere anche le briciole coltiva una suscettibilità nei confronti dei pericoli, reali e immaginari, tutt’affatto particolare. Non ci vuole un corso accelerato di psicoanalisi per comprendere questo meccanismo, e certo lo hanno compreso i dittatori e i populisti d’ogni tempo. Le classi dominanti hanno imparato a tenere caldo il risentimento dei dominati, per volgerlo al momento opportuno contro i suoi nemici, o contro il capro espiatorio di turno: l’ebreo, il negro, l’arabo, l’albanese, il rumeno, il cinese: chi sarà il capro espiatorio di domani? Mutatis mutandis, la storia si ripete sempre di nuovo, non a causa di tare antropologiche, di corsi e ricorsi vichiani o di altre più moderne e meno sofisticate cianfrusaglie concettuali, ma a ragione del fatto che le radici del male sono ancora intonse e sempre più profonde.

… La recente crisi economica ha reso ancora più risibile la balla raccontata dagli uomini di buna volontà per dare una copertura politico-ideologica al supersfruttamento degli extracomunitari: infatti, non pochi meridionali disoccupati oggi accettano gli anoressici salari oggi pagati ai lavoratori stranieri. La crisi ha insomma risospinto i «bianchi» verso il nuovo mercato del lavoro precipitato al giusto livello competitivo grazie ai «neri», ai «gialli» e via di seguito. In prospettiva questo processo è destinato a creare non poche tensioni nel seno della classe dominata, soprattutto nei suoi strati più deboli e marginali (uno “status”, questo, in continua fluttuazione), sempre più potenzialmente ricettivi nei confronti di qualsiasi discorso che promettesse una soluzione definitiva («finale»…) dei loro problemi. La storia non si ripete mai allo stesso modo, ma non è affatto detto che la farsa di domani sarà meno violenta e sanguinosa della tragedia di ieri. Come scriveva Max Horkheimer, «di irrevocabile, nella storia, c’è solo il male: le possibilità non realizzate, la felicità mancata, gli assassinî con o senza procedura giuridica, e tutto ciò che il dominio arreca all’uomo» (Lo Stato autoritario). Pessimismo cosmico? No, pessima è la realtà. Intanto, non pochi italiani di cultura ebraica, seguendo da casa gli eventi di Rosarno, hanno istintivamente portato la mano alla cintura, alla ricerca della metaforica pistola. A Rosarno, però, ha sparato un fucile vero, contro i «negri», i quali hanno avuto il cattivo gusto di arrabbiarsi, a casa d’altri!

… Improvvisamente, un giorno di gennaio del 2010 tutti hanno “scoperto” l’esistenza del lavoro schiavistico nel XXI secolo, e in un Paese che nel suo piccolo rappresenta ancora la crema della civiltà Occidentale (leggi: capitalistica). Passi per la Cina, per l’India, per il Bangladesh; d’altra parte, occhio che non vede… E poi, per i cittadini più sensibili – e danarosi –, c’è sempre la possibilità dell’adozione a distanza dei bimbi dei diseredati, che fa tanto solidarietà – e, soprattutto, scarico di coscienza. Ma vedere quell’estremo sfruttamento in Italia! E tutti hanno improvvisamente “scoperto” che il nero popolo dell’abisso precipitato nell’inferno di Rosarno (provincia del mondo, non solo di Reggio Calabria) viveva in condizioni a dir poco rivoltanti. Al confronto, gli schiavi «classici» dell’antichità godevano, se così posso esprimermi, di uno status sociale più «dignitoso», se confrontato con quello degli schiavi salariati cacciati da Rosarno, non fosse altro per il fatto che i primi, a differenza dei secondi, costituivano un investimento prezioso per il proprietario terriero, uno strumento di lavoro da far durare il più a lungo possibile. Oggi lo schiavo salariato «negro» vale così poco sul mercato, che quando il capitale non sa più che farsene lo caccia senz’altro dalla gleba, allestendo nel giro di ventiquattrore pogrom postmoderni e deportazioni coi fiocchi, con tanto di giornalisti e cameraman al seguito. Anche il prossimo sterminio di massa finirà in prima serata? Già i massmediologi si interrogano, mentre il più pratico e solerte Bruno Vespa ha commissionato il plastico di una camera a gas; non si sa mai, la concorrenza mediatica è forte e non bisogna lasciarsi fregare dagli eventi.

Certo, gli schiavi dei nostri tempi godono di grande libertà, compresa quella di crepare di fame e di accettare salari sempre più infami, in attesa della prossima provocazione che li spingerà a mostrarsi al cinico occhio dell’opinione pubblica nazionale nei panni del solito branco di «negri» violenti, nonché sporchi, cattivi e ingrati (pure!), e perciò senz’altro meritevoli di venir deportati da un posto all’altro, da un inferno all’altro, fino al giorno della soluzione finale, che non necessariamente prevede l’uscita dei «negri» dai camini. Anche perché bisognerebbe fare i conti con l’impatto ambientale della faccenda; occorrono strategie socialmente più sostenibili. «Ma non sarebbe meglio, più giusto, più umano, aiutarli a casa loro?», domandano i «leghisti di fatto» di Rosarno. «Certo che è meglio!», risponde la leghista di diritto eletta a Lampedusa, nelle cui stupende acque non s’era mai vista tanta abbondanza di pesci. «Vuoi vedere che al pesce piace il negro?»: è una delle battute più gettonate nell’estrema propaggine del Bel Paese. Quanta cinica verità, in quelle odiose parole.

Come riemergere dall’abisso dentro il quale è precipitata l’intera umanità? Inutile coltivare facili illusioni, anche perché abbiamo imparato a sopravvivere in quell’abisso, al punto che non lo esperiamo più come tale. Abbiamo imparato a dare del «tu» persino all’orrore. Non ci sono soluzioni facili, purtroppo. Solo per non continuare a precipitare, per resistere a ulteriori sprofondamenti, i lavoratori d’ogni colore, sesso, religione e quant’altro dovrebbero coalizzarsi in nuovi organismi del tutto autonomi rispetto agli attuali sindacati nazionali, veri e propri strumenti di dominio nelle mani del capitale e dello Stato. E dovrebbero dichiarare subito guerra alla politica delle compatibilità. «Ma così il sistema delle imprese italiane andrebbe a quel paese!», rispondono tutte le persone che hanno a cuore l’interesse nazionale. E hanno perfettamente ragione. Infatti, si tratta di scegliere tra il Sacro interesse nazionale – che da sempre esprime l’interesse delle classi dominanti – e il più profano interesse delle classi dominate, le cui condizioni di lavoro e di vita peggiorano sempre di nuovo, compromesso dopo compromesso, «senso di responsabilità» dopo «senso di responsabilità», «compatibilità» dopo «compatibilità», avendo come loro limite inferiore l’esistenza dei «negri» e dei «gialli». E questo non a causa della cattiva volontà politica di qualcuno, come ci dicono i progressisti di tutto il mondo da circa un secolo a questa parte, ma in grazia dell’intima e incoercibile natura del dominio sociale vigente. E’ vero, «il pesce puzza dalla testa», come dicono i meridionali, ma qui la testa non è il Berlusconi di turno, ma il capitale, il vero soggetto attivo di questa epoca storica, il mostro che tutti i santi giorni ci ingiunge di guadagnarci in qualche modo la metaforica (ma per qualcuno ben reale!) pagnotta: chi sfruttando il lavoro degli altri, chi lavorando, chi rubando, chi trafficando in droga e armi, e così via, lungo la quasi infinita filiera del profitto e del denaro.

Le chiacchiere sulla «volontà politica» stanno a zero e hanno il solo significato di ingannare le classi dominate, le uniche che potrebbero rimettere in moto la storia. «Ma siamo tutti sulla stessa barca: se affonda il capitale affonda pure il lavoro!» Qui occorre fare una quasi insignificante precisazione: col Capitale affonderebbe il lavoro salariato, il lavoro nella sua attuale forma di merce che valorizza altra merce, non il lavoro tout court, che è un dato inestinguibile della prassi sociale umana.

… Non sono così ingenuo da pensare che la comunità dell’uomo in quanto uomo sia dietro l’angolo, e anzi so benissimo che l’attualità del dominio oggi annichilisce la possibilità della liberazione. Ma ho anche capito che «La smisurata dimensione del potere diventa l’unico ostacolo che proibisce la veduta della sua superfluità» (M. Horkheimer). Invito a guardare da questa prospettiva anche il prezioso lavoro politico teso a diffondere presso i lavoratori la necessità e l’urgenza dell’autorganizzazione, contro la micidiale «logica» della delega e delle compatibilità. È, a mio modesto avviso, la sola prospettiva che può dare coerenza e forza a quell’impegno, che può renderlo fino a un certo punto immune alle astutissime strategie del dominio.

QUEL CHE RESTA DEL PRIMO MAGGIO

8688154849_5c42174b33«È di 381 il conteggio definitivo delle vittime di Dhaka». Ma qualcuno pensa che non sia poi così definitivo. «Dopo aver negato recisamente, la Benetton ammette la propria presenza nella fabbrica tessile crollata in Bangladesh». La trasparenza si vende bene. «Tweet del Papa alle persone coinvolte nel crollo: “Unitevi a me nella preghiera per le vittime della tragedia di Dhaka, che Dio conceda conforto e forza alle loro famiglie”». Amen!

Mentre i soccorsi cercano gli ultimi corpi ancora seppelliti sotto le macerie, intanto che il buon Francesco prega per le anime del proletariato industriale sfruttato e assassinato, e la Benetton cerca nuovo capitale umano a buon mercato da «mettere a valore», in questa giornata post-festaiola mi concedo il lusso di sognare a occhi spalancati sull’orrore il crollo definitivo del Dominio capitalistico per opera delle classi dominate. Dite che è un lusso che mi concedo troppo spesso? Gigi Marzullo non la pensa così! Guardate cosa dice: «È la realtà che deve giungere all’altezza del sogno, e non questo precipitare nel baratro del realismo che ci immiserisce tutti». Questo Marzullo è davvero troppo sottovalutato.

marzullo«”Senza lavoro il Paese muore e questo Paese non può morire”, ha detto la leader della Cgil, Susanna Camusso». È vero: senza lavoro salariato nessun Paese capitalistico può vivere. Per questo bisogna lottare contro il lavoro salariato, anche quando siamo costretti a rivendicarlo per vivere. Questa contraddizione oggettiva si supera orientando in senso anticapitalistico anche le lotte “economiche”. Il dominio della forma-denaro e della forma-merce rimanda direttamente ai vigenti rapporti sociali. Che la virile Susanna desideri salvare il Paese, ossia il Capitalismo tricolore, è un dato scontato: da sempre il collaborazionismo sindacale è alleato del Capitale.

Nuovo scandalo grillino: «Dal suo blog Beppe Grillo attacca il primo maggio, “che era la festa dei lavoratori. Ora è la festa dei disoccupati e del concertone a Roma. C’erano un tempo panem et circences, sono rimasti i circences, ma solo una volta all’anno con in tribuna, al posto di Caligola o Diocleziano, i reggenti della Triplice Sindacale. L’Italia si sta fermando come una grande macchina colpita dalla ruggine, un componente dopo l’altro, fino all’immobilità”».  E dov’è lo scandalo? In tempi non sospetti, come si dice, ho scritto quanto segue: Il Primo Maggio è diventato il giorno in cui i lavoratori sono chiamati a osannare il lavoro salariato che li rende schiavi del Capitale. Come ho scritto altrove, a ragione la sacra Costituzione afferma che la Repubblica Italiana è fondata sul lavoro (salariato). La disoccupazione non contraddice la Costituzione, come si pensa comunemente, ma la conferma in pieno, perché porre a fondamento della Repubblica il lavoro (salariato) significa ratificare anche sul piano giuridico-ideologico il dominio del Capitale, il quale, com’è noto, assume e licenzia “capitale umano” sulla scorta della bronzea legge del profitto».

IL COLORE DEL PROFITTO

IL COLORE DEL PROFITTO

Si dirà: «ma Grillo non vuole rottamare la macchina capitalistica del Bel Paese, vuole anzi farla diventare una Ferrari “con due palle così”!» Non c’è dubbio. E infatti quello «devoto a Marx» è il sottoscritto, non il Beppe nazionale. Lui è devoto al guru Casaleggio e a Loretta Napoleoni, mica all’ubriacone di Treviri. Per questo mi fanno scompisciare dal ridere i “marxisti” che cercano di “prenderlo in contraddizione”, dimostrando in tal modo di saperla in fatto di politica assai meno lunga del capo-comico genovese.

FRANCO BATTIATO E GLI ESSERI DEL SOTTOSUOLO

rettilianoEsordisco con un giudizio che irriterà non poco i tantissimi seguaci di Franco Battiato, per poi mettere le metaforiche mani avanti. A mio modesto avviso il cantautore siciliano è uno di quei personaggi dell’italico bel canto che farebbero bene ad aprire bocca solo per cantare, per esternare frasi poetiche e melodie, perché non appena provano ad articolare un discorso minimamente serio intorno al mondo in generale e a Miserabilandia (l’Italia delle contrapposte tifoserie politiche) in particolare, questi signori baciati dalle Muse si diffondono in ragionamenti infantili, banali e luogocomunisti fino al parossismo. Celentano è un altro caso tipico, ma ne potrei fare altri, presi dal mondo della canzone come da quello del teatro, o del cinema e via discorrendo. E questo lo dico da fan sfegatato di Battiato, che seguo in pratica da sempre, almeno dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso. Questo vale in parte per lo stesso Celentano, il cui problema non sta nell’ignoranza (rivendico per me lo scettro della suprema ignoranza), ma in una povertà di pensiero che molti scambiano per saggezza popolare. Com’è ridotto male il popolo… Ciò non toglie che canzoni come Azzurro e Una carezza in un pugno non smettano di titillare la mia anima inguaribilmente romantica e la mia nostalgia per il bel tempo che fu, oratorio compreso.

2724923966_c90af5f08b_zEntusiasta de L’Ombrello e la macchina da cucire (1995), una sera di molti anni fa decisi di seguire un’intervista televisiva di Battiato: dopo alcuni minuti di assolute banalità infantili intorno alla sua cosiddetta “filosofia”, un risibile sincretismo filosofico-religioso indigente fino all’imbarazzo, dovetti migrare su altre reti, non perché avessi visto crollare dinanzi ai miei occhi un mito, ma per rispetto nei confronti del bravissimo cantante musicista. Fui vinto non dalla disillusione ma appunto da un invincibile imbarazzo, un sentimento che non abbandona mai la creatura compassionevole, per esprimermi in “battiatese”. Il vertice dell’imbarazzo lo toccai allorché il Siciliano iniziò a parlare della solita India (il luogo comune per antonomasia dell’alternativo d’OC), esternando filastrocche pseudo filosofiche probabilmente attinte da qualche manuale di pensiero (che parola impegnativa!) “esoterico”. Riflessioni che sarebbero suonate infantili e ridicole all’orecchio di un quindicenne di media intelligenza già avvezzo alle buone letture, e quindi in grado di cogliere in fallo il vuoto di pensiero che si spaccia per profondità. Ma veniamo rapidamente alla stringente attualità.

Cosa sono i politici per Battiato? «Esseri del sottosuolo, dei poveri disgraziati». E la politica? «Ci sono delle ostilità, visive, auditive, che fanno veramente male perché la politica è menzognera. Sei costretto a seguirla per il bene del Paese, anche per vedere se puoi fare qualcosa per cambiare questa Italia, ma ti lascia delle ferite, perché quelli sono esseri del sottosuolo» (Globalist.it, 30 marzo 2013). Una vita intera spesa nella ricerca del reale senso della vita, e questi sono i risultati? Complimenti! I politici sono «esseri del sottosuolo» (rettiliani?), «la politica è menzognera»: un acquisto politico-filosofico davvero invidiabile, e soprattutto originale, come si conviene a un artista che non nasconde ambizioni avanguardiste.

battiatoyoungnc0Ora, qui non si rimprovera al nostro bravo cantante una concezione ultrareazionaria della politica, centrata sul bene del Paese, oggi ridotto a Povera patria in balìa di politicanti ladri, corrotti e puttanieri: chi non condivide questa posizione è pregato  di scagliare, insieme a chi scrive, la prima pietra. Rilevo solo nelle riflessioni di Battiato una declinazione particolarmente povera di concetti di quella posizione maggioritaria («Incontrare delle persone oneste è una boccata d’ossigeno indimenticabile: già questo ti basta»), e la grande popolarità di queste idee costituisce il problema per chi si batte contro la demagogia dei politici e degli intellettuali eticamente corretti, i quali cercano di confinare il disagio sociale degli individui, azzannati dal Dominio nel corpo e nell’anima, dentro i maligni sentieri della conservazione sociale, per mobilitarlo all’occorrenza nell’opera di pulizia morale e di rinnovamento meritocratico («sono uno di quelli che crede solo nelle cose eccellenti, per cui questa è la direzione da seguire»). Opera di cui una parte sempre più grande delle classi dominanti del Bel Paese sente l’urgente bisogno. Battiato o non Battiato, Grillo o non grillo.

L’agognata e sempre dilazionata «riforma strutturale» della società italiana, idonea a superare le annose magagne del capitalismo Made in Italy (a cominciare dal parassitismo sociale finanziato con la spesa pubblica, base del clientelismo foraggiato dai partiti), troverebbe una necessaria corrispondenza nella riforma politico-istituzionale e perfino morale reclamata a gran voce dalla parte migliore del Paese. Migliore, beninteso, dal punto di vista di chi milita a favore della Patria, in vista appunto di una sua modernizzazione e moralizzazione, dovesse ciò implicare il taglio, più o meno simbolico, di qualche testa (sicuramente quella del Cavaliere Nero, il principe degli «esseri del sottosuolo») e magari, perché no?, una bella guerra di liberazione contro il Fronte del Nord capeggiato dalla Germania.

Ciò che abita il sottosuolo non è il politico corrotto, eliminato il quale «le cose si aggiusterebbero», ma un rapporto sociale disumano che ci fa schiavi di una prassi che per l’essenziale non controlliamo, a prescindere dall’onestà e dalla trasparenza di chi ci governa.

IL FETICCIO 2.0: LA DEMOCRAZIA TRASPARENTE

transparent glass chess isolated on white«Conoscere quali siano le opinioni condivise dalle masse e quali siano, per contro, le opinioni che le masse non condividono, costituisce un problema del tutto trascurabile. Alle masse, infatti, è garantita una sorta di libertà intellettuale dal momento che esse sono sprovviste, appunto, dell’intelletto» (G. Orwell, 1984).

La trasparenza: ecco il feticistico mantra di questa ripugnante stagione della politica italiana. Ripugnante esattamente come le altre che l’hanno preceduta, beninteso. La bella e sobria Boldrini è convinta che seguendo la virtuosa strada della trasparenza i politici, oggi assai in disgrazia presso l’opinione pubblica d’ogni tendenza politica, riusciranno a ripristinare l’amore dei cittadini per le istituzioni. «Il Parlamento deve diventare una casa di vetro». Bene! Già mi assale la voglia di prenderlo a sassate, quel Palazzo di vetro, come le finestre che da piccolo prendevo di mira con gli amici di quartiere durante le quotidiane scorribande in altri quartieri della città: precoce e selettiva inciviltà! Amare il Leviatano (meglio se trasparente, democratico e nato dalla Resistenza) è il ripugnante titolo del programma politico che ogni cittadino onesto dovrebbe portarsi al letto, per leggerne qualche scabroso passo prima di addormentarsi. Personalmente preferisco letture decisamente più incivili. Si apprezzi almeno la mia… trasparenza.

Un “cittadino” parlamentare targato 5 stelle ieri ha dichiarato che «noi cittadini, non avendo dietro le spalle niente di oscuro, possiamo occuparci con assoluta trasparenza della cosa pubblica». Evidentemente i politici “castali” hanno dietro le loro spalle, incurvate dal peso del peccato, innominabili interessi che non gli consentono di essere trasparenti. I nuovi salvatori della patria invece, non avendo interessi di sorta da celare agli occhi del mondo, possono permettersi il lusso eticamente corretto della trasparenza, come hanno fatto l’altro ieri con l’ex smacchiatore di giaguari, quando hanno messo in onda, pardon: in streaming, una farsa davvero imbarazzante, degna delle peggiori puntate di Miserabilandia. Pur di salvare la ditta, il salumiere del PD sembrava disposto ad accettare anche l’autodafé in streaming, ma i grillini non gli hanno concesso nemmeno quell’ultimo ignobile appiglio. «Sembriamo a Ballarò», ha detto con compiacimento una statista grillina: evviva la trasparenza! «Il nuovo feticcio della mitologia politica odierna: lo streaming. Il simbolo della trasparenza assoluta. Lo strumento magico che distrugge ogni opacità. Ora questo prodigio della tecnica che trascina discorsi estatici sulla nuova democrazia web, entra nella rete polverosa delle consultazioni per la formazione del nuovo governo» (Pierluigi Battista, Il Corriere della Sera, 27 marzo 2013). E non è stato un bell’esordio, a quanto pare.

dago1Naturalmente al grillino non passa nemmeno per l’anticamera del cervello di essere non più che uno strumento di precise esigenze sociali radicate nel dominio capitalistico come si esprime nel Bel Paese in questa epoca storica. Tutta la trasparenza di questo mondo non sarà mai in grado di metterlo nelle condizioni di vedere questa gigantesca e disumana realtà, che egli semplicemente sconosce. Magari il grillino “esoterico” è in grado di dar conto del complotto mondiale ordito dagli illuminati contro l’umanità e il pianeta, ma se gli parlate della potenza sociale che lo domina dalla testa ai piedi, dentro e fuori, esattamente come ciascuno di noi, egli non può che sorridere: «Ma di che potenza vai cianciando?».

Lo stesso Web, il feticcio per antonomasia del M5S, dimostra come alla crescente conoscenza di informazioni d’ogni genere provenienti dalle fonti più disparate non si accompagna un analogo aumento nella coscienza degli «utenti cittadini», ossia nella loro capacità di cogliere alla radice la natura della vigente società: più aumenta la massa delle informazioni, e più difficile diventa capirne il senso reale. Conosciamo sempre più cose, è vero, ma capiamo sempre di meno ciò che rappresenta l’essenza di quelle cose. La democrazia trasparente e partecipata in grazia della tecnologia cosiddetta intelligente è solo l’ultima delle chimere che i dominati più acculturati sono abituati a prendere sul serio, fino alla puntuale disillusione che li attende al varco. Sulla “trasparenza” delle decisioni politiche che maturano all’interno del movimento grillino è meglio stendere un pietosissimo velo tecnologico…

Propongo forse di gettare nell’immondizia il computer (mi raccomando, occhio a non sbagliare il cassonetto dei rifiuti: non possiamo continuare a essere incivili in fatto di riciclaggio!), magari in odio a Grillo e a Casaleggio? Certamente no. Più realisticamente propongo di gettare nella famosa pattumiera della storia il Capitalismo, tale e quale, con ciò che ne consegue sul terreno dell’impegno politico immediato, a partire dalla demistificazione della democrazia, non importa se “castale”, “partitocratica” o “trasparente”.

trasparenza1Il Dominio è opaco per definizione, e per questo la trasparenza reclamata a gran voce dai poveri illusi d’ogni tendenza politica e ideologica, non solo non gli fa un baffo, ma lo rende ancora più invisibile. Come diceva – forse – Santa Lucia, la realtà non si apprezza con la vista, ma va colta con la coscienza, più che con «l’intelletto» di cui parlava il grande Orwell, ossia con un pensiero e con una prassi che siano in grado di perforare la dura scozza dell’apparenza che fa della divisione classista della società un fatto di natura, ovvero un retaggio di oscure tare antropologiche, se non addirittura “teologiche” – Papa Francesco, teorico della sobrietà e della trasparenza, non ci ammonisce forse tutti i santi giorni circa la presenza del Demonio sulla terra? Platone parlò una volta di «occhio dell’anima». Quel che è sicuro è che in fatto di rapporti sociali la trasparenza agognata dagli italici riformatori e dai Savonarola di turno sta a zero.

D’altra parte i grillini non sono meno coscienti di chi da decenni si riempie la bocca con la “coscienza”, taluni addirittura con quella “di classe”, salvo poi ingoiare rospi d’ogni tipo: da Andreotti a Dini, da Prodi a Monti. Nessuna scuola è stata così prodiga della parola coscienza quanto quella sinistrorsa, perché «là dove mancano i concetti, s’insinua al momento giusto una parola». Se al posto di coscienza mettete la parola comunismo l’aforisma viene ancora meglio… Sono stato sufficientemente trasparente?

gigCome sa chi mi segue, per me il problema non insiste sulla opacità-corruzione-incapacità dei Palazzi, ma sulla loro funzione al servizio della conservazione di rapporti sociali necessariamente disumani. Su un post del 10 novembre 2011 (Impotenti tamburini delle potenze sociali) scrivevo: «”La nemesi immanente di Hitler è questa: che egli, il boia della società liberale, era troppo “liberale” per capire come altrove, sotto il velo del liberismo, si costruisse l’irresistibile supremazia del potenziale industriale. Hitler, che scrutò come nessun altro borghese quel che c’è di falso nel liberalismo, non comprese fino in fondo la potenza che gli sta dietro, cioè la tendenza sociale di cui egli stesso non era che il tamburino” (Minima moralia). Non fatevi sviare dall’analogia, che appare fin troppo distante, sotto ogni rispetto, tra l’epoca del Führer e quella dell’Ex Cavaliere Nero di Arcore: al di là delle apparenze e mutato quel che c’è da cambiare, quei passi parlano di noi, dei nostri critici tempi. Se, per ipotesi, il mondo improvvisamente impazzisse, e tuttavia non trovasse la forza materiale e spirituale di rovesciare se stesso; e se, per la solita bizzarra astuzia del dominio, il più formidabile dei Nostromi – e quindi non sto parlando di me! – venisse a trovarsi al vertice del Potere Politico, credete davvero che il suo destino potrebbe essere diverso? E credete che il Gran Nostromo potrebbe recitare una parte diversa da quella di tamburino delle Potenze Sociali che l’hanno scaraventato, più o meno democraticamente, al potere? Non fatevi illusioni!».

TE LO DO IO IL SOVVERSIVISMO!

20130316_12702_8Oggi i giornali progressisti danno l’allarme: «Berlusconi vuole scatenare la piazza contro i giudici e la democrazia!» Insomma, siamo al solito mantra del sovversivismo delle classi dirigenti, contro il quale occorre organizzare un bel fronte comune per mettere in salvo la Repubblica nata dalla resistenza. Per la lotta di classe “pura”, “senza se e senza ma” c’è sempre tempo. Al massimo possiamo sperare di mettere una bella patrimoniale affinché anche i ricchi piangano, mettere in galera i politici corrotti, uscire dall’euro, per non fare la fine della Grecia e di Cipro, e nazionalizzare tutto ciò che può essere nazionalizzato: dalle banche all’aria che respiriamo. È il “socialismo” con caratteristiche fasciostaliniste, con un’aggiunta di keynesismo che fa sempre bella figura.

Per chi scrive il problema non è il «populismo cattivo» di Berlusconi o quello «buono» di Grillo, secondo la miserabile distinzione teorizzata ultimamente dagli intellettuali “de sinistra” desiderosi di salire sul carro dei nuovi vincitori, con la poco segreta speranza di condurlo verso approdi più tradizionali e rassicuranti – per loro. Avete presenza il colesterolo? C’è quello buono e quello cattivo. Ho rubato la risibile analogia “biopolitica” al progressista Enrique Gil Calvo, editorialista del País.

A mio modesto avviso a chi, come me, vuole conquistare un punto di vista critico-radicale sul mondo deve piuttosto inquietare l’impotenza politica e sociale delle classi dominate, un’impotenza che oggi si cela dietro il manganello di turno, impugnato da operai, precari, disoccupati, lavoratori autonomi, piccoli e medi imprenditori ecc. come corpo contundente idoneo a colpire violentemente l’odiata “casta”. Il problema non è il «sovversivismo delle classi dirigenti» ma l’assenza del sovversivismo delle classi dominate, ipnotizzate dal vendicatore di turno, si chiami Benito, Silvio o Beppe.