UMILIATI E OFFESI. I DOLORI DEL POPOLO ANTIBERLUSCONIANO

berlusconi-renzi-liberace-2883381. Pregiudicato!

I manettari del Fascio Quotidiano e i “comunisti” del Manifesto hanno voluto dare voce al «grave disagio», allo smarrimento e alla vera e propria indignazione che in queste tragiche ore attraversano il Popolo di Sinistra. «Si può fare una riunione del consiglio scolastico con il professore pedofilo per discutere di programmi educativi dell’anno 2013/2014?», chiedeva retoricamente ieri Marco Politi dal quotidiano che rappresenta forse l’ultima trincea dell’antiberlusconismo duro e puro. La risposta non poteva essere che questa: «Non si può. Non c’è da spiegare molto. Non si può. In Italia sta accadendo di peggio. Tra poche ore saremo informati che un aspirante premier, leader del maggiore partito politico italiano, ha incontrato un pregiudicato per discutere di affari di stato: una legge elettorale, l’abolizione del Senato elettivo. Stiamo parlando di elementi cardine del sistema costituzionale».  La parola chiave, qui, è pregiudicato. Notare anche l’accostamento, che la dice lunga sulla natura violenta e rancorosa dei manettari, tra il «professore pedofilo» e il «puttaniere» di Arcore – e nessuno si azzardi a paragonarlo al socialista Hollande!

Ora, e al di là delle tante considerazioni politiche – e psicoanalitiche – che si possono fare sulle opposte tifoserie di Miserabilandia, ditemi se uno che, come il sottoscritto, è da sempre un avversario irriducibile della legalità borghese (scusate l’arcaismo), e quindi del «sistema costituzionale» (scusate il sovversivismo delle classi subalterne), può “vivere” con disagio e insofferenza il “famigerato” incontro tra Renzi e Berlusconi. Renzi e Berlusconi hanno raggiunto un accordo? E chi se ne frega! Non lo hanno raggiunto? Idem!

Parlo in qualità di qualunquista? In un certo senso sì, perché a mio avviso qualunque sistema politico-istituzionale non è che uno strumento di oppressione, di controllo sociale, di difesa e di irrobustimento dello status quo. Certamente, in questa peculiare accezione mi si potrebbe pure definire un perfetto qualunquista: non mi offenderei neanche un po’.

E così ho sdoganato anche il qualunquismo!

Scrive oggi l’afflitta e umiliata Norma Rangeri: «A pen­sarci bene, che a deci­dere sul futuro del nostro Paese sia un pregiudicato non è umi­liante solo per un par­tito, ma per tutti». Naturalmente in questo «tutti» non bisogna considerare la mia modesta persona, poiché dal mio punto di vista semplicemente – rozzamente? – anticapitalistico, i nemici mortali del Cavaliere Nero, quelli che affettano un’odiosa quanto risibile superiorità antropologica nei suoi confronti, si trovano sul suo stesso terreno: la difesa della società capitalistica, che rimane escrementizia e nemica dell’uomo in generale, e dei proletari in particolare, anche se al governo ci fosse un Cavaliere Bianco. Possibilmente di sinistra!

berlusconi-lele-mora-2424522. Berlusconi e il discorso del capitalista

Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare le riflessioni di Lidia Ravera e Massimo Recalcati sollecitate da Lilli Gruber, la “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, e mi si è rafforzata nella testolina un’idea che coltivo da sempre: la critica della società disumana che non è in grado di cogliere le radici storiche e sociali del grave disagio esistenziale che vive l’individuo dei nostri pessimi tempi, facilmente smotta verso una posizione reazionaria “a 360 gradi”: sul piano politico, su quello etico, filosofico e quant’altro. È un fatto che con oltre un decennio di ritardo, i due progressisti sono approdati sulle posizioni antisessantottine di Giuliano Ferrara, forse il più intelligente fra i reazionari (di “destra” e di “sinistra”) in circolazione nel Paese.

In particolare, Ravera e Recalcati non comprendono come «il godimento immediato e senza limiti», «la libertà che non conosce limiti né legge», che insieme danno corpo «a quello che in psicanalisi si chiama perversione», e, dulcis in fundo, «l’evaporazione del Padre» (ma anche la madre non sta messa bene, a quanto pare); come tutto ciò sia essenzialmente il prodotto di processi sociali che rispondono alla sola Legge che in questa epoca storica domina l’intera esistenza degli individui: la bronzea e sempre più totalitaria Legge del profitto.

È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale e residuale rispetto alle funzioni educative formali e informali riconducibili allo Stato, al «sociale privato» e al mercato. Quando il Moro di Treviri, con un certo anticipo su Schumpeter, definì strutturalmente rivoluzionario il Capitalismo, egli non intese riferirsi solo alla dimensione dell’economico, tutt’altro. Il «linguaggio della struttura», per dirla con Lacan, è il linguaggio della prassi sociale dominata dall’economia capitalistica. Dove qui per struttura occorre intendere il corpo sociale colto nella sua complessa, conflittuale e contraddittoria totalità.

Il lacaniano «discorso del Capitalista», che Recalcati cita continuamente soprattutto come corpo contundente antiberlusconiano, ha una pregnanza concettuale e una radicalità politica che egli nemmeno sospetta. In bocca a Recalcati, quel «discorso» non supera il livello dell’impotente lamentela intorno alla nota mercificazione dell’intera esistenza (dis)umana, fenomeno che se è inteso nella sua vera essenza, e non alla maniera, banale e superficiale, degli intrattenitori da salotto, condanna senza appello l’odierno regime sociale qualunque sia la contingente forma politico-ideologica delle sue istituzioni: democratica, dittatoriale, autoritaria. Infatti, come ho scritto altre volte, il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica deve essere messo al centro di ogni riflessione politica, sociologica, ecc.. Altro che «epoca del berlusconismo», secondo lo stanco mantra dei progressisti: il Cavaliere Nero non vale nemmeno come metafora o sintomo dei nostri mercantilistici tempi.

Per capirlo, basta leggere quanto scriveva Robert Paul Wolff, sintetizzando il pensiero di Emile Durkheim, nel remoto 1965: «L’allentarsi della presa che i valori tradizionali e di gruppo esercitano sugli individui crea in alcuni di loro una condizione di mancanza di ogni legge, un’assenza di limiti ai loro desideri ed ambizioni. E poiché non v’è alcun limite intrinseco alla quantità di soddisfazione che l’io può desiderare, ecco che esso si trova trascinato in una ricerca senza fine del piacere, che produce sull’io uno stato di frustrazione. L’infinità dell’universo oggettivo è inafferrabile per l’individuo che sia privo di freni sociali o soggettivi, e l’io si dissolve nel vuoto che cerca di riempire» (Al di là della tolleranza).

Più che ripristinare i vecchi valori, o di crearne di nuovi a regime sociale invariato, a mio avviso è l’intero spazio sociale che occorre umanizzare. E ciò presuppone il superamento della società che ha fatto dell’atomo sociale chiamato cittadino una «macchina desiderante», una perfetta merce (una biomerce, un biomercato), una creatura fatta a immagine e somiglianza di una sempre più bulimica, insaziabile, onnivora economia. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del desiderabile (leggi: acquistabile), fino a eliminare ogni confine, trascinando così l’intera società in un folle vortice che nessuno può controllare. Il dominio del godimento immediato di cui parla Recalcati, nostalgico o comunque ammiratore della Prima
Repubblica di Moro e Berlinguer, cela in realtà il Dominio di un rapporto sociale altamente disumano.

MISERABILANDIA E LA NUOVA CACCIA AL CINGHIALONE

614PX-~1Si cambia il maestro di cappella, ma la musica è sempre quella

Poteva Giorgio Cremaschi esimersi dall’attaccare Re Giorgio, reo di «aver salvato» nientemeno che Berlusconi, l’erede della «cultura politica di Craxi [orrore!] e dei suoi discepoli», lo spauracchio di tutti i politicamente ed eticamente corretti del pianeta? Ovviamente no. Soprattutto adesso che il grillismo impazza da tutte le parti e persino i Sacri Palazzi Vaticani sembrano voler cavalcare l’onda del rinnovamento “a tutto campo”.

Scrive il lottatore di classe Cremaschi: mentre «Il Presidente della Repubblica non ha avuto nulla da obiettare al vergognoso mancare di parola del governo italiano con l’India, una delle grandi potenze emergenti del mondo, atto che ci costerà caro sul piano degli affari oltre che su quello politico e morale», egli non si è peritato di tutelare «il diritto di Berlusconi a fare politica, nonostante questi sia sottoposto a processi che in altri paesi europei lo avrebbero già posto fuori dalle istituzioni». Ma c’è di più, e di peggio: «Se la casta garantisce la continuità dell’austerità e del massacro sociale, che viva la casta. Questa è l’Europa che il Presidente della Repubblica difende e da qui la tutela offerta a Berlusconi. Non è autonomia o orgoglio nazionale tutto questo, è obbedienza ai signori dello spread. Se vogliamo cambiare, dobbiamo sapere che la liberazione dalla casta e dall’Europa dell’austerità sono la stessa cosa» (Berlusconi salvato da Napolitano, MicroMega, 13 marzo 2013).

Mi permetto di introdurre una leggerissima variazione alla musica appena ascoltata: se vogliamo uscire dallo stato d’impotenza politico-sociale nella quale noi proletari ci troviamo impaludati da decenni, dobbiamo capire che la liberazione dal sindacalismo collaborazionista di Cremaschi e soci e la fuga dalla politica di autonomia e di orgoglio nazionale, da Cremaschi a Berlusconi, sono la stessa cosa.

06(1)Più la crisi si fa dura, più forte spira il vento populista e demagogico della “rivoluzione civile e morale”, buona per la resa dei conti tra le fazioni borghesi, nazionali e internazionali, e per irreggimentare le classi dominate incalzate dalla precarietà e dall’indigenza lungo i sentieri della conservazione sociale. La caccia al capro espiatorio (il miliardario-puttaniere-ladro-corruttore, la “casta”, il tedesco affamatore, i “poteri forti”) è da sempre l’immancabile ingrediente nella maligna strategia del Dominio. Noi nullatenenti (salvo la capacità lavorativa che il Capitale ci fa la grazia di sfruttare, in ossequio all’Art. 1 della Sacra Costituzione) dobbiamo conquistare «quell’ardire rivoluzionario che scaglia in faccia all’avversario le parole di sfida: io non sono nulla e dovrei essere tutto» (Marx). Pensiero più fresco e più giovane non conosco. Ma, si sa, ho un debole per l’avvinazzato di Treviri.

L’ETERNO FASCISMO…

muf12gL’ennesima “gaffe” berlusconiana intorno al fascismo mi consente di riprendere, in modo assai veloce e quasi sbrigativo, alcuni concetti fondamentali, ancorché di difficile assimilazione da parte di chi crede che la democrazia sia il migliore dei regimi politici possibili, che cerco di sviluppare su questo blog. L’accusa di «revisionista storico», lanciata come terribile anatema contro chiunque osi mettere in discussione il pensiero unico dominante sul periodo fascista e nazista, non può certo intimidire chi non attribuisce al fascismo e al nazismo alcun carattere di anomalia storico-antropologica, e che anzi vi vede, semmai, l’eccezione che mette a nudo l’intima essenza della normalità. Più che l’autobiografia di una nazione, il fascismo fu innanzitutto la fenomenologia di un dominio sociale sovranazionale, come peraltro dimostra la diffusione su scala mondiale di molte sue caratteristiche strutturali dopo il 1929, come risposta alla Grande Crisi.

Nell’analisi storica dei fenomeni politici occorre sempre distinguere le forme particolari, e a volte financo casuali e bizzarre, con le quali essi si presentano per la prima volta all’attenzione del mondo, dal loro effettivo contenuto storico-sociale.  Il contenuto essenziale del Fascismo può essere sintetizzato come segue: mantenimento, rafforzamento ed espansine del dominio di classe capitalistico nell’epoca dell’Imperialismo e della matura possibilità emancipativa del proletariato e, in grazia di ciò, dell’intera umanità. Il Fascismo, dunque, come espressione degli interessi immediati e strategici della classe dominante italiana, o della sua fazione che alla fine della Prima guerra mondiale era più forte, sia in chiave controrivoluzionaria, che per ciò che concerne le esigenze di sviluppo del capitalismo italiano nel seno di una contesa imperialistica che si era fatta feroce e violenta, sotto ogni rispetto.

muf2gIn un post del 9 gennaio 2012 scrivevo: «Il Fascismo fu, a mio avviso, diverse cose: l’espressione della violenza sistemica messa in luce – non “inventata” – dalla Grande Guerra, la fenomenologia politico-sociale della grave crisi post bellica, il tentativo, riuscito, di assestare il colpo decisivo a un movimento operaio già fiaccato dal riformismo socialista e giolittiano, nonché l’espressione di un compito storico: mettere un Paese capitalisticamente ritardatario nelle condizioni di superare i limiti che lo trattenevano al di qua dell’agone delle grandi potenze. Certo, il Fascismo anche come via italiana alla modernizzazione capitalistica, dopo la crisi del vecchio Stato liberale e l’emergere di un’epocale crisi economica mondiale. Ma l’ambizione “rivoluzionaria” del Duce non si limitava alle strutture economiche e istituzionali del Paese; essa toccava, per così dire, la stessa biografia antropologica della Nazione. Egli voleva fare degli italiani un popolo capace di reggere il confronto con i più blasonati popoli europei, e per questo quando nel Bel Paese faceva freddo e nevicava, il suo umore migliorava: “Questo è il clima adatto per temprare uomini virili!” Poi tornava il bel tempo, e si lasciva andare alle note considerazioni intorno all’inutilità di governare gli italiani, troppo viziati dal sole e dalla materna pasta asciutta. “Noi fascisti non amiamo le comodità”, soleva dire Mussolini, contraddetto puntualmente dagli italiani. Anche l’ex “fascista di Arcore”, prima di scivolare sullo spread, si è lasciato andare a simili sconsolate considerazioni intorno all’italico carattere, col solito strascico di indignate riprovazioni: “Uno come lui non può dare lezioni di etica!” E uno come Lui? Adesso tocca a Mario Monti, il più tedesco degli italiani (forse dopo Mario Draghi), provare a cambiare il carattere “lassista, menefreghista e schizzinoso” degli italiani, almeno per farne degli onesti contribuenti».

Sostenere la tesi, che tanto scandalo ha sempre suscitato fra i progressisti, della radicale (sociale) continuità fra democrazia liberale, fascismo e democrazia post-fascista a me sembra non solo legittimo sul piano politico ma comprovato sul piano storico. D’altra parte, l’analisi storica non è una scienza esatta… La concezione (che fu anche degli stalinisti) secondo cui «la democrazia borghese è il campo di battaglia più utile al proletariato» è sempre di nuovo smentita dalla prassi. In realtà, senza «coscienza di classe» il proletariato sarà battuto su ogni campo di battaglia.

Anche per quanto riguarda l’alleanza con la Germania alla vigilia della Seconda guerra mondiale non si riscontra nella politica estera del fascismo alcuna sostanziale discontinuità con la tradizionale politica estera italiana, basata, ieri come oggi, su una strategia tesa a lucrare il massimo possibile da una certa contingenza mondiale attraverso il minimo possibile di investimento in termini di capitali, di responsabilità politica  e di sangue. La “machiavellica” politica estera italiana, che da Cavour in poi ha fatto imbestialire tutte le Cancellerie d’Europa, non ha bisogno di essere ricordata qui. Le divergenze che si produssero nel seno dello stesso fascismo tra filotedeschi e filobritannici non si spiegano con astratte esigenze politiche, o magari con il proverbiale opportunismo dei politici italioti (anche se, beninteso, il calcolo delle opportunità vi ebbe un ruolo), bensì con le diverse correnti di interessi materiali che facevano capo alle più importanti fazioni della classe dominante del Bel Paese. Sotto questo aspetto è molto interessante quanto scrisse lo storico “revisionista” tedesco Andreas Fritz Hillgruber (La strategia militare di Hitler, 1965) a proposito dello «stato di non belligeranza» assunto dall’Italia nel 1939-40: «Lo stato di “non belligeranza”, distinto dalla neutralità classica, fu senza dubbio un’idea geniale di Mussolini, che per alcuni mesi conferì un’eccezionale importanza politica all’Italia, sproporzionata alla sua potenza reale. (…) Con una certa generalizzazione si può affermare che durante la seconda guerra mondiale non vi era per gli Stati di media grandezza (in vicinanza di punti strategici critici) una posizione più forte, più rispettata da amici e nemici di quella appunto della “non belligeranza”».

Italien, Rom, zerstörtes GebäudeMa il bluff non può durare a lungo, come speravano, sebbene a partire da strategie e progetti diversi, Mussolini e Hitler, e alla fine viene il tempo di “calare le carte” sul tavolo da gioco. D’altra parte anche questa “genialata” geopolitica mussoliniana non è affatto estranea alla furba politica estera dell’Italia liberale e democratica alla vigilia della Grande Guerra. Media potenza dalle grandi ambizioni, l’Italia si è specializzata in una politica estera di tipo gesuitico-bizantino, se così posso esprimermi, di difficile lettura per «amici e nemici» – soprattutto per i primi: chiedere alla Germania…

ITALIANI! Grillo e dintorni.

Ridiamo sull’abisso dell’orrore.
Walter Benjamin
Sghignazziamo sull’abisso di Miserabilandia.
Sebastiano Isaia

Nel suo libro Un Grillo qualunque Giuliano Santoro ha definito il Beppe nazionale, dominatore di mari e scalatore di montagne, come la prosecuzione di Berlusconi con altri media. Non mi sembra un giudizio infondato, tutt’altro. Naturalmente cambiando il non poco che c’è da cambiare nel confronto tra la “discesa in campo” dell’imprenditore milanese, nei primi anni Novanta, e quella recentissima del comico genovese.

Non va, infatti, dimenticato che Berlusconi non ha solo ereditato l’elettorato dei vecchi partiti rottamati per via giudiziaria (il “famigerato” Pentapartito a guida Forlani-Craxi), ma ne ha incorporato fin dall’inizio il personale politico, e questo ne ha di molto depotenziata la carica innovativa, fino a risucchiarlo nella tradizionale politica “compromissoria” italiana. Ancora oggi l’acciaccatissimo Silvio muore dalla voglia di sparigliare il quadro politico-istituzionale del Bel Paese, sacrificando a quest’impresa temeraria e «surreale», per dirla con Giuliano Ferrara, persino la sua stessa creatura partitica. Forse questa storia rappresenta un monito per Grillo, come lascerebbe pensare anche il suo rapido dietrofront a proposito dell’amico Di Pietro, oggi in rapida disgrazia.

Dal punto di vista elettorale il suo Movimento agisce come una camera di compenso, un polmone che recupera una parte dell’astensionismo, creato dalla crisi dei partiti tradizionali, delegittimati sul piano “morale” come su quello politico, e la reimmette nei normali circuiti istituzionali.

Vittorio Feltri, diventato un simpatizzante dichiarato dello «sfasciacarrozze» ligure, le cui provocazioni pare gli procurino veri e propri «orgasmi» (colpa del punto G?), ha dichiarato che ogni epoca ha il suo Berlusconi. Grillo, ovviamente, rifiuta qualsiasi indecente accostamento con lo «psiconano», nonostante si presenti a tutti gli effetti, al pari dell’ex premier, come il nuovo salvatore della patria: «Ringraziate che ci sono io, altrimenti ci sarebbero stati i neonazisti». La Grecia insegna. Certo, non è un giudizio lusinghiero per i suoi seguaci, ritenuti potenziali neonazisti, ma a Beppe, per adesso, essi concedono tutto, e il contrario di tutto, come accade fra innamorati.

Con altri media, per ritornare alla definizione di Santoro, fino a un certo punto, visto che la presenza di Grillo sui media mainstream è diventata davvero strabordante, sebbene il Capocomico affetti di disprezzare il «teatrino della politica» allestito nei talk show televisivi, soprattutto se orchestrati dai conduttori di “sinistra”, i quali evidentemente si sentono in dovere di azzopparne la galoppata politico-mediatica. Chissà poi perché…

D’altra parte, mandria elettronica e mandria televisiva calpestano lo stesso terreno “esistenziale” e si nutrono della stessa sostanza sociale, ragion per cui enfatizzarne le differenze, che pure ci sono, magari per  mitizzare il supposto carattere necessariamente democratico e attivo della Rete, mi appare del tutto sbagliato. Un attivismo elettronico sordo e cieco dinanzi alla menzogna più disumana moltiplicherebbe per mille i vecchi pogrom. Ma ritorniamo al nostro amico.

Se Beppe non va alla televisione, la televisione va da Beppe, novello Profeta, che può così espandere enormemente la sua tecnica comunicativa basata sul monologo, la cui essenza risiede nella passività dell’ascoltatore sollecitato a reagire a comando. Ma non è che il tradizionale comizio funzioni con regole diverse: l’attesa passiva della parola o del gesto da parte del pubblico accomuna la performance del comico e quella del politico.

Mandria elettronica e mandria televisiva calpestano lo stesso terreno “esistenziale” e si nutrono della stessa sostanza sociale. Il comico genovese sfonda lo schermo, come dicono gli esperti, e, com’è noto, dove c’è il pubblico televisivo c’è l’investimento pubblicitario, e così quelli che vivono di industria televisiva sono diventati tutti pazzi per Grillo, il fustigatore della «Casta». Un circolo che si autoalimenta con la soddisfazione di tutti, anche degli spettatori. D’altra parte, come scriveva Horkheimer, «la popolarità consiste nella concordanza senza riserve degli uomini con tutto ciò che l’industria del divertimento giudica loro gradito» (Arte nuova e cultura di massa, 1941). E Adorno rincarava la dose: «L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. Essa gliele inculca, conducendosi come se fosse anch’essa un cliente» (Minima moralia).

Sul palco il Capo, protagonista di un comizio-spettacolo permanente, perché replicato su ogni media: web, televisione, radio, giornali; sotto il pubblico, più o meno pagante, assetato di “provocazioni politiche” e di battute comiche. Battute e risate: lo spettacolo può andare in onda, in teoria senza soluzione mediatica di continuità, anche perché il caro Beppe recita quasi sempre lo stesso copione, teatro dopo teatro, piazza dopo piazza, aggiornandolo “in tempo reale” con le ultime malefatte dell’odiata «Casta».

Come ho scritto altrove, il Programma politico di Grillo non è che un fritto misto messo insieme assemblando idee prese a “destra” e a “sinistra”: un po’ di liberismo “ben temperato”, un po’ di keynesismo non “fondamentalista”, molta meritocrazia, molta apologia del Capitalismo ecosostenibile, benecomunismo quanto basta, un luogocomunismo anti finanziario che fa tanto Occupy, sovranismo economico anti euro, moralismo giustizialista alla Travaglio-Di Pietro e via di seguito. Il tutto impastato sul palco con l’indiscutibile verve del comico genovese, che gli  permette di calare impunemente sugli astanti le banalità più clamorose, i luoghi comuni più triviali in guisa di perle di saggezza. «Se l’ha detto Beppe, c’è da fidarsi!» «Hai sentito che ha detto Beppe?! Che forza!» Marco Pannella, forse invidioso dei successi “grillini”, sostiene che l’amico Beppe gli ha saccheggiato il Programma. Sarà vero? Ai politologi l’ardua sentenza!

D’altra parte, il fenomeno-Grillo appare significativo più dal punto di vista sociologico, che da quello politologico, e giustamente Santoro sostiene che «per non farsi ipnotizzare, bisogna guardare più alla forma che al merito del grillismo. In altre parole, se perdiamo troppo tempo passando in rassegna i vaghissimi e poco praticabili punti programmatici del partitino di Grillo, rischiamo di perdere di vista la sua vera natura, che risiede negli strumenti di costruzione del consenso, nei suoi archetipi retorici e nella sua struttura organizzativa» (Perché grillo rafforza la delega, Micromega 8 maggio 2012).

Nel frattempo il «partitino» sta scalando rapidamente la classifica elettorale, almeno nei sondaggi e in qualche elezione amministrativa, cosa che gli fa conquistare nuove simpatie, anche da parte di gente ritenuta solo qualche mese fa al di sopra di ogni sospetto, e che getta nel panico, letteralmente, i leader dei partiti e partitini tradizionali, “estreme” comprese.

Del tutto sbagliato, invece, mi sembra la riflessione di Santoro intorno al rapporto tra grillismo e berlusconismo: «Il problema è che abbiamo chiuso frettolosamente l’era berlusconiana, non abbiamo capito cosa abbia significato davvero, che scorie culturali abbia lasciato nel nostro paese. E quindi ci troviamo ad avere un oppositore che forse opera in modo diverso ma sicuramente si muove, come direbbe Vincent Vega in Pulp Fiction, “nello stesso fottuto campo da gioco”» (Intervista di G. Santoro a WM2, Giap, 8 novembre 2012).  Sennonché, il «fottuto campo da gioco» di cui si parla non l’ha certo creato Berlusconi con l’antenna magica, essendo stato piuttosto il Cavaliere Nero di Arcore un agente economico, culturale e politico interamente radicato nelle condizioni “sistemiche” della società italiana.  Il giudizio di cui sopra in parte si spiega con la relativa arretratezza in campo televisivo del bel Paese almeno fino alla fine degli anni Settanta, ai tempi dell’austero bianco e nero e del monopolio Rai, difesi allora soprattutto dai cattocomunisti, ostili alla «deriva americanista» dei media italiani. Il Drive in degli anni Ottanta come metafora di un mondo interamente sussunto alla logica della merce e del profitto. Ma la metafora rinvia alla realtà! «Si sente spesso affermare che i moderni mezzi di comunicazione di massa – cinema, radio, televisione ecc. – offrono a chiunque ne disponga la sicura possibilità di pervenire al dominio delle masse mediante manipolazioni tecniche: ma non sono i mezzi di comunicazione di per sé il pericolo sociale» (M. Horkheimer, T. W. Adorno, Massa, 1954). L’attenzione va piuttosto posta sulla riduzione degli individui a massa, «la quale è un prodotto sociale … Essa dà agli individui un illusorio senso di prossimità e unione ma proprio questa illusione presuppone l’atomizzazione, alienazione e impotenza degli individui» (ivi).

Più in generale, Santoro si muove nell’ambito di quel pensiero progressista mondiale che negli ultimi vent’anni ha fatto di Berlusconi se non il male assoluto, qualcosa che c’è andato molto vicino. Molto. Dimmi chi è il tuo Nemico e ti dirò chi sei…

Per attirare un’attenzione malevola su di sé Grillo gioca a carte scoperte, scopertissime, con la tecnica della fascinazione demagogica, facendo il verso a Mussolini e persino a Goebbels, ma anche ai comunicatori settari, laici e religiosi, che fioriscono rigogliosamente soprattutto negli Stati Uniti. Il tutto secondo l’aurea regola della comunicazione moderna del purché se ne parli. Non importa se bene o male, perché il nemico del comunicatore è l’anonimato mediatico.

Affettando pose “caudilliche”, per così dire, o da Grande Timoniere, pescando istrionicamente nello sterminato repertorio storico disponibile ormai da decenni su ogni tipo di media (televisione in primis), il Nostro sa di irritare gli storici, i sociologi, gli intellettuali della cattedra, gli esperti in comunicazione e i politici tradizionali, stuzzicandone i tic e provocando le loro reazioni pavloviane, che non fanno che espandere il suo potere mediatico e il suo mercato elettorale. Basta leggere, ad esempio, gli stizziti commenti di Eugenio Scalfari al grillesco Italiani! (richiamo che, detto per inciso, ricorda più il fantastico Totò dell’Arrangiatevi! che il Duce del fatale balcone), molto più comici dei comizi del genovese, per capire come il pesce che crede di saperla assai lunga abbocchi puntualmente all’amo.

Il problema, inteso come fatto da investigare, è che Grillo, suo malgrado (?), mostra tutta la pregnanza e la forza di quella tecnica manipolatoria, confermando così che la tesi secondo cui «Sempre i demagoghi seminano su un terreno già arato» (Horkheimer e Adorno) continua a essere valida, soprattutto in tempi di crisi. Sotto questo aspetto il Capocomico appare come una sorta di apprendista stregone: egli testa per conto del Dominio le capacità critiche delle persone. Non lo sa, ma lo fa, e il risultato sorride, necessariamente, al Dominio. Ma non è certo il solo a farlo, non ha l’esclusiva del test, e non c’è luogo pubblico (stadi, teatri, cinema, piazze) che non si presti a questa funzione. Come sempre il problema non è la tecnica, né il tecnico, bensì le condizioni sociali che rendono possibile il materiale “umano” su cui egli lavora, il terreno su cui semina. Grillo è la regola, non l’eccezione.

Sul piano ideologico insiste la maligna pretesa, tipica del cieco moralismo d’ogni tempo, di poter rendere “virtuosi” gli individui, a cominciare da chi si candita a governare la “cosa pubblica”, sulla base della società classista e disumana. Di qui il tentativo di piegare con la violenza, virtuale o reale secondo le circostanze, la Moltitudine a comportamenti ritenuti appunto virtuosi in quanto rispettosi del “Bene Comune”. Servi e padroni affratellati da un comune destino di probità. L’autodafé 2.0 è dietro l’angolo. Forse è già in corso. Grillo o non Grillo.

Una linea politico-ideologica, questa, molto funzionale in tempo di crisi economica e di “marasma esistenziale”, per la sua capacità di fagocitare tensioni sociali, risentimenti, invidie e frustrazioni sociali. Salvo poi venir liquidata in tempi migliori come inspiegabile e insopportabile concessione alla demagogia del «Savonarola di turno».

La stessa cosiddetta “democrazia diretta” basata sulla piazza reale e virtuale non smentisce, ma anzi conferma questa analisi, perché la sudditanza al Dominio sociale s’impone naturalmente e spontaneamente sulla base dei rapporti sociali capitalistici, e difatti nessuna assemblea popolare e democratica delibererà mai il superamento di quei rapporti sociali senza l’irruzione sulla scena sociale dell’evento-Rivoluzione. E non sto parlando né di “rivoluzione culturale” né di “rivoluzione elettorale”, beninteso. Il padrone onesto, in linea con gli standard meritocratici e “socialmente responsabile” è il massimo di pensiero “rivoluzionario” cui può arrivare la Moltitudine non penetrata da quella che un tempo – penso al giovane Lukàcs, ad esempio – si chiamava coscienza di classe.

Solo a Carlo Formenti, «giornalista di formazione marxista, docente universitario di Teoria e tecnica dei nuovi media e firma della rivista Alfabeta 2, di fronte al modello Grillo» poteva venire «da pensare, per alcuni versi, “alla Comune di Parigi”: “Per esempio per quanto riguarda la responsabilità dell’eletto, la sua revocabilità” e la “retribuzione ridotta a livello di quella di un impiegato”. Tutte cose che, dice Formenti, “suonano familiari alle orecchie della sinistra classica”» (Marianna Rizzini, Il Foglio, 10 novembre 2012). D’altra parte, anche a Toni Negri il presente evoca la Comune di Parigi: osservando il movimento Occupy Wall Street. Segno che la «formazione marxista» induce al più ardito ottimismo della volontà… Chi scrive, si capisce, non ha mai avuto nulla a che fare con la «sinistra classica».

SILVIO, PRESTAMI GHEDINI!

Non intendo, in questa breve nota, entrare nel merito del «grandioso e surreale» (Giuliano Ferrara) dietrofront berlusconiano annunciato ieri pomeriggio, e lascio volentieri ai sociologi e agli psicoanalisti di professione la riflessione intorno alle pavloviane reazioni alla notizia delle opposte, ma in egual misura vomitevoli, tifoserie di Miserabilandia.

Qui intendo lumeggiare solo un aspetto della vicenda, che fa capo alla violenta reazione all’ennesima ridiscesa in campo del criminale Silvio («uno sporco evasore fiscale!») della parte più patriottica e responsabile della classe dirigente italiana, almeno da come è possibile apprezzarla leggendo i quotidiani di oggi. Solo due esempi.

Stefano Folli ha in sostanza dato del pazzo al Cavaliere, ritornato Nero per la grave occasione politico-mediatica; l’ex premier sarebbe cospicuamente «destabilizzato» dalle iniziative giudiziarie che lo riguardano. Questo folle, argomenta il bravo editorialista del Sole 24 Ore, rischia di mandare all’aria il buon lavoro fatto dal Governo Monti, e di farci precipitare nuovamente nel girone infernale dei reietti del debito Sovrano. «Attenti, i mercati, le cancellerie d’Europa e soprattutto la Merkel ci guardano!» Folli si augura un trattamento sanitario obbligatorio per il pazzo di Arcore?

A giudicare dall’universale «no, basta!» con cui la platea dei giovani industriali riuniti a congresso a Capri ha accolto la notizia della poco epica ridiscesa in campo, c’è da scommettere che l’Italia che conta opterebbe senz’altro per un ricovero immediato del recidivo. Quando invece il presidente dei giovani imprenditori di Confindustria, Jacopo Morelli, ha dichiarato che «Chi lavora non è più disposto a sostenere con le proprie tasse larghi strati parassitari che anche adesso, mentre perdiamo duemila occupati al giorno, continuano a erodere denaro pubblico» (L’Unità, 26 ottobre 2012), non alludeva certamente al Grande Puttaniere ed Evasore. Qui sono altri che devono intendere!

Sergio Romano, esibendo come sempre una consumata sapienza diplomatica, suggerisce al patetico Alfano di lasciare al suo populistico destino Berlusconi, in modo da dimostrare con i fatti la caratura nazionale del PDL a trazione moderata, popolare ed europeista. L’ora è grave, e la situazione economica e sociale del Paese non consente giochetti politici né colpi di testa da parete di chicchessia. Tutti sono chiamati alla responsabilità nazionale. Non so perché, ma non mi sento chiamato in causa. Sarò diventato berlusconiano?

Pare, a dar retta a certi accurati retroscena dei quirinalisti più accreditati, che Re Giorgio, dopo aver ascoltato l’eversivo discorso di Silvio il matto, fosse sul punto di spedire sul set della conferenza stampa i Regi carabinieri. Pacatamente e serenamente, si capisce, com’è nello stile dell’uomo.

D’altra parte, l’origine politica del Sire napoletano lo ammonisce contro il «sovversivismo delle classi dirigenti», un concetto che ha giustificato per decenni la politica ultraconservatrice del PCI, oggi ripresa dai suoi mummificati resti dispersi nella galassia sinistrorsa, accomunati dal seguente reazionario slogan: «giù le mani dalla Costituzione nata dalla Resistenza!» Qui mi sento invece chiamato in causa…

Riflessione finale, non so quanto forzata, puntuale o paradossale: ma se uno come Silvio Berlusconi è trattato, almeno da una parte della classe dirigente del Bel Paese, con tale violenza verbale (matto, eversivo, antinazionale, anticostituzionale), cosa mai potrà accadere a un vero “folle”, eversivo, antinazionale, antifiscale e anticostituzionale? Non sarà il caso di chiedere in prestito a Silvio, a scopo puramente precauzionale ed esorcistico, l’avvocato Ghedini (onorario a suo carico, va da sé)?

LA “PAZZA IDEA” DI SILVIO E LA GUERRA IN EUROPA

La «pazza idea» di Berlusconi non poteva cadere su un terreno migliore: l’ennesimo «venerdì nero», non solo in termini di caduta dei valori borsistici in tutte le piazze finanziarie del pianeta (salvo quelle basate a Oriente, peraltro rivitalizzate dal recente accordo tra Tokyo e Pechino in materia di libero scambio e di uso delle rispettive divise nazionali nelle transazioni economiche fra i due paesi, con le immaginabili negative ripercussioni sul dollaro e sull’euro); ma soprattutto in riferimento alla cosiddetta «economia reale».

Dagli Stati Uniti al Vecchio Continente il cavallo dell’accumulazione capitalistica arranca, boccheggia, sbava e dà dolorosissimi calci in quel posto a centinaia di migliaia di lavoratori. La disoccupazione cresce in tutto l’Occidente, anche se è solo nell’Eurozona (a eccezione della Germania) che essa cresce in termini assoluti. In questo fosco quadro la dichiarazione berlusconiana di ieri amplifica la sua pregnanza politica, nonostante gli avversari ne abbiano immediatamente messo in discussione il valore economico e politico ricorrendo alle solite invettive: «dalla bocca di Berlusconi non può venire fuori nulla di serio».

Ma l’ex Cavaliere Nero non se n’è dato per inteso, anche perché le sue parole non sono quasi mai dirette agli attori del «teatrino della politica», ma al «popolo». E il «popolo», in Grecia come in Italia, in Spagna come in Francia, oggi è arrabbiato con «la Germania della Merkel», accusata di ogni nequizia. Certo, oltre che con il «populismo», la «pazza idea» di Silvio si spiega anche con il regolamento di conti che lui sente di dover chiudere con la Cancelliera di ferro, protagonista di risatine che ancora ai suoi occhi gridano vendetta. Dopo l’arrogante Sarkozy lo sciupafemmine di Arcore vuole vedere rotolare nella polvere dell’insuccesso politico anche colei il cui fondoschiena è un affronto alla libido. Ipse dixit, sia chiaro.

Ciò che più mi ha colpito della dichiarazione di Berlusconi non è tanto la proposta «che la Banca d’Italia stampi euro oppure stampi la nostra moneta», né la richiesta di un mutamento di funzione della BCE, tale da farla «diventare il garante di ultima istanza del debito pubblico» (europeo), ovvero l’incitamento al governo italiano a contrattare a muso duro con la Germania le condizioni della nostra permanenza nell’eurozona, minacciando di «avere la forza di dire ‘ciao ciao euro’ e cioè uscire dall’euro restando nella Ue», tutte idee che ormai da anni circolano nel dibattito pubblico europeo. Detto per inciso, il mutamento di funzione della BCE, che fonda i discorsi intorno all’urgenza di emettere Eurobond e project bond, presuppone la cristallizzazione di una Sovranità politico-istituzionale nel cui seno il peso specifico della Germania sarebbe assai notevole, per ovvi (sistemici) motivi – che, detto en passant, gli Stati Uniti, la Francia e l’Inghilterra guardano da sempre come il fumo negli occhi.

No, la frase berlusconiana a mio avviso di gran lunga più interessante, per il suo valore sintomatico che va oltre le stesse intenzioni dell’ex premier, è questa: «dire alla Germania di uscire lei dall’euro se non è d’accordo». Più che una minaccia – l’Italia oggi non è in grado di minacciare nessuno! –, sembra un suggerimento non richiesto a una corrente di opinione che in Germania si fa di giorno in giorno più forte.

Vedi Scenari prossimi venturi.

LA FILOSOFIA DI BIFO E QUELLA DEL CAPITALE

carnaval è melhor

Due cose condivido dell’articolo di Franco Berardi, in arte Bifo, comparso sul Blog di MicroMega il 21 Novembre (Nessuna sconfitta per Berlusconi): l’idea che la linea politica di Berlusconi non è stata affatto sconfitta, come i gonzi dell’Antiberlusconismo più ottuso sono indotti a credere dai loro capi («Il nuovo Presidente del Consiglio, ancor prima di avere ottenuto la fiducia, dichiara le sue intenzioni in un articolo scritto per il Corriere della sera. In questo articolo parla di “due importanti riforme dovute a Mariastella Gelmini e a Sergio Marchionne”. Le due azioni socialmente più violente e devastanti dell’era Berlusconi sono così assunte come linea direttrice del nuovo governo»); e che il Carnevale è da preferirsi, e di gran lunga, alla Quaresima – «Un Ministro del nuovo governo, il cattolico Mario Riccardi, ha sintetizzato il nuovo stile dicendo che “dopo il Carnevale viene finalmente la Quaresima”. Contento lui». Naturalmente per Carnevale non alludo allo stile «lascivo» e casinaro del presunto Sultano di Arcore, ma alla nota festa popolare che sembra avere nel Brasile il suo «luogo naturale».

Occupy Wall Street: il Movimento che piace alla gente che piace

Per il resto Bifo argomenta tesi che più volte ho preso di mira su questo Blog; tesi peraltro largamente condivise a «Sinistra» come a «Destra», fino a costituire un vero e proprio mantra della crisi recitato soprattutto nel movimento che piace alla gente che piace: quello che ha in Zuccotti Park la sua più celebre location. In primis, la tesi regina che individua praticamente nel solo Sistema Finanziario la causa della «situazione catastrofica in cui si trova l’Unione europea». A mio avviso il circolo vizioso della crisi economica che ha investito i paesi di più vecchia tradizione capitalistica ha il suo centro motore nel processo di accumulazione «primario» (industriale): solo quando il suo ritmo ha rallentato, a causa di un sempre più declinante saggio del profitto, la stratosferica dimensione del castello speculativo ha iniziato a costituire un problema per l’economia internazionale nel suo complesso. Prima, invece, anche le più ardite e chimeriche attività finanziarie hanno concorso ad ampliare e a sostenere la cosiddetta «economia reale», soprattutto attraverso il finanziamento del consumo, industriale e privato.

Abbattere ogni limite che gli si para dinanzi è l’imperativo categorico a cui necessariamente deve rispondere il capitalismo (sans phrase, senza altre aggettivazioni che tendono a depistare il pensiero che va alla ricerca delle cause radicali dell’attuale crisi). Pensare al sostegno dell’economia «reale» attraverso il finanziamento del consumo nei termini di un doping economico, significa non aver compreso la dialettica interna all’accumulazione capitalistica, rispetto alla quale tutti i fattori della produzione, del finanziamento e del consumo devono essere costantemente in eccesso, affinché il cavallo possa correre indisturbato nella verde prateria del Profitto.

IL CAPITALE CHE RIDE

L’eccesso è la condizione normale dell’economia capitalistica, a differenza dei modi di produzione che l’hanno preceduta, i quali soffrivano di una costante penuria di mezzi materiali (uomini, materie prime, tecnologie) e finanziari. Gli individui stanno meglio adesso, nel mondo dell’eccesso, della perenne esuberanza dei «fattori produttivi» e della bulimia consumistica, o quando «si stava peggio», nel mondo della penuria? La mia risposta è che nelle società classiste il peggio è sempre, e non cessa di peggiorare, se così posso esprimermi. E siccome anche il Male non è privo di un’intima dialettica, oggi si dà la possibilità materiale di superare in avanti – non indietro, in direzione di chimeriche «decrescite» – la vigente società capitalistica mondiale.

È la stessa natura selvaggia e smisurata dell’accumulazione capitalistica che, a un certo punto, ne genera prima il rallentamento, poi lo stallo, e infine, se le ragioni della sua sofferenza sono «strutturali» (ossia interne all’onesto processo di valorizzazione del capitale mediante lo sfruttamento della capacità lavorativa), l’avvitamento nella spirale della crisi. A questo punto tanto il Sistema Finanziario, quanto il Welfare mostrano la loro necessaria dipendenza dall’accumulazione capitalistica. Di qui ciò che Bifo chiama, stigmatizzandola in quanto catastrofica follia, «la filosofia della classe finanziaria europea» (della quale Monti non sarebbe che un servo sciocco), ossia il credere «che il nemico principale è l’inflazione, che la riduzione dei salari aiuta la crescita, e che la crescita infinita è l’alfa e l’omega».

Tu chiamale se vuoi, illusioni...

Ma le cose, dal punto di vista dello status quo sociale nazionale e internazionale, cioè a dire dal punto di vista della «formica» Germania che non vuole finanziare il debito sovrano delle «cicale» tipo Grecia e Italia (non a caso la Lega Nord è nata nell’area più capitalisticamente avanzata e dinamica del Bel Paese); e dal punto di vista del capitale industriale assetato di plusvalore e azzoppato dalla spesa pubblica improduttiva, danno ragione a quella «filosofia». «La loro filosofia di tagli, privatizzazioni e spostamento delle risorse pubbliche verso il sistema bancario» è la «filosofia» del Capitale in questa critica fase storica.

Brueghel il Vecchio, La battaglia tra il Carnevale e la Quaresima

A ragione (la ragione del Sistema Paese, ossia del capitalismo italiano) Mario Monti ha lodato – salvo una sempre possibile ritirata diplomatica a uso e consumo della maggioranza bulgara che lo sostiene – Mariastella Gelmini e Sergio Marchionne: «Grazie alla loro determinazione, verrà un po’ ridotto l’handicap dell’Italia nel formare studenti, nel fare ricerca, nel fabbricare automobili». Ma ancora non basta: bisogna osare di più nella necessaria opera di «macelleria sociale», per il «Bene Comune», si capisce.

L’APOTEOSI POLITICA DEL COSIDDETTO GOVERNO TECNICO

La frusta semplice, senza fronzoli che piace ai politicamente ed eticamente corretti.

Il liberale e pragmatico The Indipendent ieri scriveva che il Governo tecnico di Monti «non è democratico ma è necessario». Necessario ad affrontare la grave crisi finanziaria che travaglia il Bel Paese, si capisce. Il governo tecnocratico, per un verso surroga l’impotenza della politica, inetta a implementare la necessaria cura lacrime e sangue; e per altro verso riflette i diktat del direttorio franco-tedesco, motore dell’Unione Europea. Niente di più falso, a mio avviso, a partire dal presunto «direttorio Merkezy»: la Germania si serve della Francia per dare una copertura politica «europeista» a una guerra sistemica che per adesso la vede vincente su tutti i fronti, come ai bei tempi della Blitzkrieg; e la Francia cerca di controllare come può la potenza tedesca, sperando anche di ricavarne qualche beneficio, come ai tempi di Vichy. È un matrimonio di interessi sempre più esposto alla tragica prospettiva del divorzio. Per quanto riguarda la sospensione della politica e della democrazia in grazia della «surroga tecnocratica», siamo all’ipocrisia più spudorata, e al solito feticismo della democrazia, foriero d’innumerevoli e pericolose illusioni. Si guarda la frusta (semplice, senza fronzoli, alla Monti) ma non si vede il Sovrano che la impugna.

Sempre più sorda, sempre più grigia…

La finzione è la peculiare funzione della democrazia rappresentativa nell’epoca del totalitario dominio delle esigenze economiche. Almeno da mezzo secolo politologi e giuristi dibattono intorno alla funzione parlamentare nei pesi capitalisticamente avanzati, costatandone l’eclissi. Il Parlamento non è che un «votificio», la cui funzione meramente rappresentativa e decorativa sempre più spesso, peraltro, intralcia l’azione politica in un mondo «sempre più veloce e competitivo». Già Marx, sulla scorta delle precedenti riflessioni critiche intorno all’impotenza reale dell’uomo nella società regolata dal Dio Denaro (vedi Rousseau e Balzac), scriveva che con la democrazia rappresentativa le classi subalterne avevano il non invidiabile privilegio di scegliersi, ogni tot anni, la corda a cui impiccarsi. Acqua passata, si dirà. E a ragione. Difatti, il capitalismo che Marx aveva di fronte impallidisce, sembra un gioco da ragazzi, se confrontato con quello mondiale e strapotente del XXI secolo. Che il potere politico sia nelle mani del «Popolo Sovrano» è una tesi menzognera che conserva la sua secolare efficacia ideologica, nonostante l’abbagliante evidenza della sua falsità. D’altra parte, dinanzi a una luce troppo abbagliante si fa prima a chiudere gli occhi, per legittima difesa…

Carl Schmidt sosteneva che lo Stato d’eccezione genera nuovo Diritto e ristabilisce il primato del politico sul sociale. Egli si faceva molte illusioni liberali intorno alla società del XX secolo, la cui dimensione totalizzante e totalitaria lasciava davvero pochi margini per simili nette distinzioni concettuali. Non parliamo poi della Società-Mondo dei nostri tempi, nel cui caldo seno abbiamo la fortuna di vivere e prosperare!

La più surreale delle ambiguità politiche («il governo del Presidente») è chiamata dunque a colmare un apparente vuoto, il quale invece, a ben guardare, è un assoluto pieno. È il pieno del Dominio Sociale, la cui astuzia è pari solo alla sua sempre più ottusa disumanità. Nessuno è così sciocco da non capire che il cosiddetto «governo dei tecnici» rappresenta la continuazione della politica – compresa quella tentata con alterne fortune dal trio «riformista» Craxi, Bossi, Berlusconi – con altri mezzi. La commedia degli equivoci e degli inganni che Miserabilandia manda in scena, o in onda, consente al politicume nostrano – di «Destra», di «Centro» e di «Sinistra» – di far scorrere il sangue dei sacrifici senza sporcarsi le mani. Anche Il Manifesto oggi si interroga amleticamente se conviene ancora una volta «baciare il rospo», come toccò in sorte al celebre – e cosiddetto – «quotidiano comunista» ai tempi del governo Dini. Un rospo tira l’altro! Lo stesso Monti, con la sua sorniona ironia, l’ha detto chiaramente ai leader che sostengono il suo governo: «Lo so che vi vergognate di dire alle vostre basi che state governando insieme al Partito che solo un giorno prima avevate demonizzato». Già, il governo Berlusconi-Bersani-Casini-Di Pietro: chi lo avrebbe detto!

Il capro espiatorio da additare alle masse fustigate a sangue e l’alibi della prossima crisi di governo sono già bell’e confezionati: «Il governo dei tecnici ha sospeso e commissariato la politica!» La Lega è già in campagna elettorale, insieme a Giuliano Ferrara: «Solo il Popolo Sovrano può legittimare il governo della Nazione!» Comunque vada a finire, duri un giorno, un mese o un anno, il «governo di impegno nazionale» celebra, al di là della sua «forte caratura tecnica» (il salumiere Bersani dixit), l’apoteosi dell’italico genio politico, assai avvezzo a «rivoluzioni fasciste»,«rivoluzioni giudiziarie», «governi balneari», «convergenze parallele», «compromessi storici» e via di seguito, con altre mille formule politiche, l’una più bizzarra dell’altra, le quali hanno consentito alle classi dominanti di questo Paese di garantire la continuità dello status quo con il massimo di economia di forze e il massimo di consenso sociale.

Dopo il Cavaliere Nero, L’Università Nera: La Bocconi

Siccome chiudere gli occhi dinanzi alla cattiva realtà non basta a scongiurare il pericolo di rimanere impressionati dal fulmine che invita a spalancarli, molti preferirebbero cavarseli, così da razionalizzare meglio la propria impotenza ed evitare di dover prendere decisioni non previste dalle procedure standard del Dominio sociale. Ragionare davvero con la propria testa può diventare troppo faticoso, doloroso e rischioso. Dire che il «governo dei tecnici» cela il diktat di non meglio specificati «Poteri Forti» (ora anche La Bocconi è diventata un luogo demoniaco!), quando la realtà ci grida in faccia la nostra impotenza sociale sotto ogni forma di governo e di ordinamento politico, tanto più se democratico, ha molto a che fare con la tentazione di cavarsi gli occhi.

A proposito, Professor Monti: io non m’impegno, sia chiaro!

FINALMENTE UNA BUONA FRUSTA!

«È la Liberazione!» gridava ieri la tifoseria antiberlusconiana alla notizia delle dimissioni dell’ex premier. Con ciò confermando la celebre tesi storico-filosofica secondo la quale la storia si dà come tragedia, e poi si ripete come farsa. Nell’italico caso, come macchietta. Attenzione: la macchietta non esclude affatto esiti tragici, epiloghi quanto mai dolorosi, spesso colorati di rosso-sangue.

Certo, finalmente liberi di ubbidire a dei padroni onesti, eticamente irreprensibili e ligi al dovere. Se lacrime & sangue devono essere, che almeno forma e sostanza siano in armonia! Non aveva forse detto l’ubriacone di Treviri che il governo, qualsiasi forma politica esso assuma nelle diverse e contingenti situazioni, non è che il comitato d’affari della classe dominante? Dunque, forma e – è – sostanza! Il Cavaliere e Puttaniere Nero di Arcore non è riuscito a mantenere le promesse (ristrutturare radicalmente lo sgangherato sistema capitalistico italiano, a partire dal cosiddetto Welfare e dal mercato del lavoro); adesso ci proverà il Cavaliere Bianco benedetto dagli Stati Uniti, dalla Cina, dalla Germania, dalla Francia, dal FMI, dalla BCE, dalle banche internazionali e italiane, dagli gnomi dell’alta finanza, dalla Confindustria, dalle corporazioni sindacali, dai grandi Network mediatici, dagli intellettuali, dalla Santa Romana Chiesa. Ho dimenticato qualche «Potere Forte»? Ah, già, l’Alleanza Aliena Universale: pare che ultimamente anche gli alieni speculino in borsa, per fare un dispetto a Silvio! ! Auguri…

Anche agli inizi degli anni Novanta, in piena «Rivoluzione Giudiziaria», in Italia si creò un clima sociale da fine del mondo: anche allora i «Mercati» posero il loro diktat, e a farne le spese furono, come sempre, i lavoratori e i ceti medi. E come sempre, i progressisti furono in prima linea, «pancia a terra», nell’opera di salvezza e di risanamento della Patria aggredita dall’«immoralità della politica» e dalla crisi finanziaria. Alcuni sinistri se ne lamentarono: «La confusione negli ultimi anni è tale che la sinistra, a volte, ha finito per abbracciare posizioni che sono della destra classica» (Franco Russo, Associazione Nuova Sinistra, marzo 1992).

Forma e sostanza...

Qui si rimpiange la sinistra vecchio stile, quella egemonizzata dal PCI di Togliatti-Longo-Berlinguer, legata a quadruplo filo col capitalismo di Stato e con il capitalismo privato “buono”, quello delle cosiddette «cooperative rosse», tanto per intenderci. Ancora una volta rimando a Spettri di Berlinguer, tanto più che oggi i quotidiani sono pieni della famosa – e famigerata – formula politica del «Compromesso Storico». Michela Serra, nel suo legittimo orgasmo antiberlusconiano (ognuno ha il godimento che merita!), se la prende con i «craxiani» Sacconi, Cicchitto e Ferrara, sconfitti, dice il Nostro, da un uomo che viene dalla cultura che quelle losche e vendute figure hanno sempre combattuto. Egli allude ovviamente al Presidentissimo Napolitano (la cui iniziativa politica ricorda a Ostellino la «Monarchia Costituzionale e il Presidenzialismo») e al «comunismo». Mentre negli anni di piombo più di un craxiano strizzava l’occhio ai cattivi maestri, ricorda Serra, «il PCI era in trincea, in difesa dello Stato». Ecco perché oggi dal Colle può arrivare una testimonianza di grande responsabilità politica. Non c’è dubbio, nei momenti di acuta crisi sociale i togliattiani di ieri e di oggi (e, temo, anche di domani!) sono i primi e più zelanti sostenitori del Partito dell’Ordine Costituito.

un Flagello, semplice semplice, senza fronzoli

Il Sole 24 Ore ammette che Mario Monti non ha dinanzi un compito facile; «in ogni caso tutti gli italiani di buona volontà devono sperare in una sua pronta e piena riuscita». Com’è noto, il Nostromo ha bensì molta volontà, ma essa è di pessimo conio…

IL COLPO DI STATO SESSUALE È MEGLIO

«Il progressista Claudio Sardo, direttore dell’Unità (io preferivo la direttora di prima, per ragioni di basso berlusconismo, si capisce: m’acchiappava assai!), oggi ha scritto che «persino in Madagascar ci ridono dietro». A causa dell’impresentabile Silvio, ovviamente. A questo punto le cose sono due: o dichiariamo guerra a quel Paese, peraltro geopoliticamente ben piazzato e ricco di materie prime (buttale via, di questi tempi!), ovvero facciamo fuori il forte trombatore di Arcore.

Com’è noto, il fasciostalinista Asor Rosa propose a suo tempo il colpo di Stato basato sui carabinieri e la guardia di finanza; gli indignati di viola vestiti hanno poi aggiunto la Buon Costume (esiste ancora?), e Barbara Spinelli l’Esorcista (vedi il suo articolo di oggi pubblicato su Repubblica, organo del Partito Capitalistico Antiberlusconiano). Lo sporcaccione che si spaccia per difensore dei valori cristiani usava il crocifisso in modo non convenzionale: «cosa deve accadere d’altro affinché la Chiesa proclami il suo NO!»?

Per la miliardesima volta l’opposizione (dall’ex fascista Fini a Nichi Narrazione Vendola, passando per il salumiere Bersani) ha chiesto le «immediate dimissioni» del Premier che così tanto male ci rappresenta nel vasto mondo (io, ad esempio, non vado più in Brasile, non tanto per mancanza di moneta e di lavoro, ma per vergogna: pensa te!), e l’implementazione di un «governo di Unità Nazionale», o di «Solidarietà Nazionale», ovvero di «Salvezza del Bene Comune», insomma: del purché Silvio vada a farsi fottere. Praticamente un’istigazione a delinquere di stampo sessuale!

E qui ci avviciniamo alla soluzione che propongo io, modestamente, beninteso: da domani spedirgli a casa camionate di donne che usano guadagnarsi il pane lavorando il pene. Quanto potrà reggere il cuore del vecchio Satrapo?

Dite che sarebbe una morte troppo piacevole? Ma nella vita non si può avere tutto! Invito al pragmatismo: è Machiavelli che ce lo chiede. Un proiettile in testa potrebbe farlo diventare un eroe, una vittima del mondo crudele: ci manca solo questo!

Lo spettro di Marx invece insinua proditoriamente questo veleno dialettico: «ma se ci sono così tante donne disposte a fare “il mestiere più antico del mondo” (vedi anche il Vecchio Testamento), la colpa è del “porco” di turno, o di una società che ha nel denaro il suo equivalente Universale, la sua Potenza Astratta – ma quanto potente! – in grado di comprare tutto, a iniziare dagli uomini? Questo vostro cosiddetto Cavaliere Nero, non dice forse la verità intorno a questa società escrementizia? Egli è l’eccezione, o non piuttosto la regola rivelata ed esibita?»

E no, Carlo: sai quanto io ti stimi, e via di seguito; ma con queste sottigliezze sociologiche oggettivamente difendi l’indifendibile!
Meglio il colpo di Stato sessuale, datemi retta amici. Per esperimenti e per una messa a punto della patriottica iniziativa, si può contare ovviamente sul sottoscritto, il quale si dichiara disposto a sacrificarsi per il Bene Comune. Quando il gioco si fa duro

MORTO UN CAPRO (ESPIATORIO) SE NE FA UN ALTRO!

Alcuni miei amici hanno accolto il «miracoloso» risultato elettorale di Milano con un evviva! degno di altre cause. Capiamoci: questo entusiasmo non è dovuto al morbo antiberlusconiano, del quale essi non sono affetti, ma dalla loro speranza che andando a sgualdrine Berlusconi possano pure togliersi dalle balle i suoi sempre più ridicoli e rancorosi avversari. Venendo meno la causa, essi pensano, deve necessariamente venire meno l’effetto.

Non fatevi soverchie illusioni, amici! Chi oggi ha eletto a Male Assoluto il Cavaliere Nero di Arcore, domani troverà, o magari s’inventerà un altro capro espiatorio, per mezzo del quale razionalizzare la sua abissale indigenza esistenziale (nell’accezione più profonda e sociale del concetto).

Negli anni Cinquanta il Nemico dei «progressisti» ebbe il volto smagrito di Alcide De Gasperi, nei due decenni successivi il volto di Moro (poi beatificato nella Chiesa di Botteghe Oscure) e di Andreotti, successivamente fu il turno di Craxi e Forlani e, dulcis in fundo, agli inizi degli anni Novanta toccò a quel bel tomo di Silvio incarnare il ruolo del Diavolo che rende intellegibili le magagne che assillano le italiche genti. Non c’é scampo, per chi è roso dal verme della facile, ancorché impotente, indignazione. Quando la coscienza latita, è sempre il tempo del capro espiatorio.

Scriveva Emil Ludwig nei suoi Colloqui con Mussolini (1932): «Sempre, quando per i tedeschi va male, devono esserne colpevoli gli ebrei. Ora, per loro, va particolarmente male». E il Capo del Fascismo, nonché futura vittima sacrificale, commentò: «Ah, certo, il capro espiatorio!» Gli italiani, che non possiedono la tragica serietà storica dei tedeschi, sono più inclini alla farsa anche in tema di agnelli da sgozzare – non sempre in modo solo figurato – sull’altare della Patria in pericolo.

Sono pessimista? Non credo. Sono realista? Ma via! Amo la verità? Questo sì, anche se spesso non riesco a scorgerla. E la verità, come diceva un Tizio finito mummificato, «è rivoluzionaria», ma in questo peculiare senso: chi vuole remare contro la società dei Moratti e dei Pisapia (avete capito bene: la società basata sullo sfruttamento del lavoro «fisico» e «intellettuale», come recita l’Art. 1 della SS Costituzione) deve avere lo sguardo ben fisso sul mondo, anche quando esso grida il suo forte NO! a ogni possibilità di cambiamento. E non alludo certo alle prossime scadenze elettorali…

IL PUTTANAIO È IN REDAZIONE

Via la mano brutale, infame moralista!
Te stesso frusta, non quel puttaniere!
Tu bruci dalla voglia di far con la ragazza
ciò per cui punisci il vecchio porco.

Mai come in questi squallidi giorni di girotondi moralistici intorno al capro espiatorio delle secolari magagne “umane”, ho apprezzato l’odio viscerale che Karl Kraus nutriva per la «stampa borghese».

Dove si respira «l’aria di Sodoma», scriveva agli inizi del XX secolo il citato «scrittore, giornalista, aforista, umorista, saggista, commediografo, poeta e autore satirico austriaco», si ode «l’orrendo grido Edizione Straordinaria!» Come dargli torto?

E ancora: «L’inferno dell’epoca moderna è imbrattato di inchiostro di stampa» (La muraglia cinese, 1907). Già allora il giudice e il giornalista lavoravano di conserva per triturare «i viziosi» nella macchina della calunnia chiamata lavatrice etica.

Ci sono fior di giornalisti (come Enrico Mentana) che, mentre stigmatizzano tutti i giorni questo mediatico rimestare nella popò, confezionano poi i loro assai profittevoli prodotti editoriali praticamente con la sola sostanza escrementizia di cui sopra. È facile parlar male della cacca… degli altri!

A questi giornalisti del guano dedico i seguenti passi di Kraus:

«Quanto la ragazza facile è moralmente superiore all’articolista della rubrica economica, altrettanto lo è la mezzana al direttore del giornale. Lei non ha mai dato a intendere come costui di tener alti gli ideali … Scherzi a parte: per me la pubblicazione delle inserzioni erotiche è il fine di gran lunga più meritorio tra quanti vengono perseguiti dalla stampa … Non mi sta a cuore l’eliminazione delle massaggiatrici ma la chiara separazione del mercato dell’amore dalle corrotte redazioni dei giornali» (K. Kraus, La stampa come mezzana, 1903).

Altri tempi!