SALDI DI FINE SETTIMANA. Post pubblicati su Facebook

1. CARA ILARIA TI SBAGLI: SI TRATTA PROPRIO DI VIOLENZA DI STATO. QUESTO È LO STATO (DI DIRITTO)!

Il diritto alla violenza è un’odiosa prerogativa delle classi dominanti.

«Non ho mai smesso di chiedermi il perché di tanta violenza. Non riesco a cancellare dalla mia mente l’immagine del corpo di mio fratello Stefano, martoriato dai colpi e poi abbandonato dagli innumerevoli pubblici ufficiali che lo hanno visto durante il suo calvario, sei giorni dopo il violentissimo pestaggio. Una sospensione del diritto. Come accaduto nel Carcere di Santa Maria Capua Vetere. Video e testimonianze raccolte dai magistrati ricostruiscono una violenza spietata, scientificamente coordinata. Durante il lockdown pensato alle carceri. Alle celle sovraffollate dove vige la sospensione dei diritti umani. Mi sono chiesta cosa potessero pensare quelle persone, perché di persone si tratta, quando ascoltavano le raccomandazioni pressanti su distanziamento sociale, cautela e mascherine. Mi sono chiesta se qualcuno avesse a cuore la sorte di quei detenuti. La loro paura e la profonda frustrazione che dovevano provare nell’ascoltare quei drammatici appelli a cui loro, per destino e pena, dovevano rimanere estranei. A Santa Maria Capua Vetere il 6 aprile è accaduto qualcosa di spaventoso. Sono arrivati in trecento, da altri istituti, in tenuta anti sommossa, coperti dai caschi, anonimi. Hanno picchiato, picchiato e ancora picchiato. Calci, schiaffi, insulti e altre violenze. Non hanno risparmiato nemmeno un detenuto sulla sedia a rotelle. “Avete fatto la protesta?” dicevano. La mente corre alla “macelleria messicana” di Genova della scuola Diaz, nel luglio del 2001 durante le proteste per il G8. Erano in trecento, a Santa Maria Capua Vetere. A tutto ciò hanno assistito, in silenzio, forse impotenti, i loro colleghi di servizio in quel carcere. Mi rifiuto di pensare che si tratti soltanto di mele marce. Chi avrà la tentazione di parlare di questo mancherà di rispetto all’intelligenza di tutti noi cittadini. Sarebbe un’intollerabile ipocrisia cui preferirei le violente e strampalate difese di politici privi di scrupoli e umanità. Ma non voglio nemmeno sentire parlare di violenza di Stato. Vi prego non fatelo perché questo non è lo Stato. Non lo può essere. Questo è anti stato. Questo è crimine efferato commesso verso persone indifese. Qualcuno si affretterà a dire che, in fin dei conti, si tratta di delinquenti: lo considero inaccettabile perché, nella migliore delle ipotesi, sono uomini e donne che hanno sbagliato, che magari hanno anche commesso gravi errori. Il carcere, però, non può e non deve essere questo. Il carcere in uno stato di diritto ha una funzione sociale: il reinserimento, non l’annientamento» (Ilaria Cucchi).

Certo, il reinserimento in una società che produce violenza di ogni genere e in quantità industriale, e che annienta ogni possibilità di vita autenticamente umana. Cara Ilaria, sbagliata (disumana) è in primo luogo questa società, la società che mercifica tutto e tutti, e che fa del denaro la misura di tutte le cose. Su questo escrementizio fondamento sociale è possibile tutto il male che riusciamo a immaginare, e altro ancora che non riusciamo nemmeno a concepire col pensiero – salvo poi indignarci e farci delle illusioni sullo Stato (capitalistico) di diritto. Solidarietà ai fratelli detenuti.

2. SI SCRIVE “UOMO”, SI LEGGE CAPITALE. «Abusi, incuria e colate di cemento: la colpa è dell’uomo, non della natura» (M. Tozzi, La Stampa). Si scrive “uomo”, si legge Capitale. Mutatis mutandis, la stessa cosa vale a proposito della parola “Coronavirus” e ai disastri sociali a essa associati.

3. SCHIAVI DI STATO NELLA CINA CAPITALISTA Scrive Lorenza Formicola: «Lo stato-partito cinese ha di fatto istituzionalizzato la schiavitù, l’ha portata su scala industriale e ha offerto schiavi a compagnie straniere. Schiavi a bassissimo costo, raccolti, senza fatica né rumore, tra le minoranze religiose. L’Australian Strategic Policy Institute, in un rapporto intitolato Uiguri in vendita, ha accusato Pechino di aver costretto oltre 80.000 uiguri e altre minoranze musulmane a lavorare da schiavi per 82 noti marchi globali tra cui Apple, BMW, Gap, Huawei, Nike, Samsung, Sony e Volkswagen. La cifra stimata è prudente, quella effettiva è probabilmente molto più elevata. Nelle fabbriche, lontano da casa, vivono gli schiavi moderni: dormitori e segregazione, una formazione ideologica, cinese e comunista [leggi: capitalista con caratteristiche cinesi] organizzata al di fuori dell’orario di lavoro, sottomissione a sorveglianza costante, impossibilità a partecipare alle cerimonie religiose. Siamo nella regione autonoma che oggi i cinesi chiamano Xinjiang – “nuovo possedimento” – dove giocano esattamente il ruolo della potenza coloniale. Dal 2017, oltre un milione di persone è stato privato della libertà personale e rinchiuso in “campi di rieducazione” a causa della fede, in quello che alcuni esperti definiscono un programma sistematico di genocidio culturale guidato dal governo. “Lavare i cervelli, pulire i cuori, sostenere il diritto, rimuovere ciò che è sbagliato”, è il motto dei campi di lavoro forzato. Proprio come l’ideologia comunista [leggi: stalinista con caratteristiche cinesi] vuole e come le terribili campagne di rieducazione del pensiero di massa di Mao Tse-tung hanno fatto scuola. Detenuti con la forza e in condizioni disumane, questi nuovi schiavi hanno la quotidianità divisa in due: il giorno è per il lavoro, la notte per l’educazione patriottica. Dopo la scoperta delle 13 tonnellate di capelli umani , prelevati da internati in uno dei campi di concentramento cinesi, di alcune settimane fa – un carico illegale del valore stimato di 800.000 dollari fermato a New York – ecco che il rapporto ASPI pubblica l’ennesima prova dei campi su cui regime di Pechino continua a mentire. Il rapporto denuncia una nuova fase nella campagna di reingegnerizzazione sociale della Cina rivolta alle minoranze religiose, rivelando nuove prove circa quelle fabbriche che utilizzano il lavoro forzato uiguro nell’ambito di un programma di trasferimento del lavoro sponsorizzato dallo Stato che sta contaminando la catena dell’economia globale» (Il Giornale).

Il virus che “contamina” «la catena dell’economia globale» si chiama Capitale, la cui dimensione più naturale è quella planetaria. La schiavitù di Stato della Cina si armonizza perfettamente con la «schiavitù del lavoro salariato» (K. Marx). Tutto sotto il Cielo – del Capitale.

4. ROSSANDA E L’ALBUM DI FAMIGLIA – STALIN PADRE

Scriveva Rossana Rossanda sul Manifesto del 28 marzo 1978: «Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria». Anch’io, allora giovanissimo militante del “Movimento Studentesco”, sarei potuto finire in quell’escrementizio album di famiglia; mi vengono i brividi solo a pensarlo! Qualche giorno dopo, sulle pagine dell’Unità comparve un pietoso articolo del parlamentare “comunista” Emanuele Macaluso, che replicava: «Io non so quale album conservi Rossana Rossanda: è certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti». Non c’è niente da fare: lo stalinista con caratteristiche italiane perdeva il pelo, ma non il vizio della menzogna.

IL COLORE DEL GATTO CINESE

La Cina non è «un Paese socialista con un’economia di mercato», come recita il mantra del mainstream in fatto di “problematiche cinesi”: la Cina è un Paese capitalista la cui “sfera sociale” (comprese le attività economiche) è fortemente e capillarmente controllata dallo Stato. Nel caso di cui ci occupiamo, tuttavia, non si può nemmeno parlare di un Capitalismo di Stato, come ai tempi di Mao, perché ormai in Cina l’iniziativa capitalistica privata è sufficientemente sviluppata e radicata; ma in ogni caso sempre di Capitalismo si tratterebbe. Il fatto è che l’idea ridicola di associare il controllo statale delle imprese capitalistiche (di “beni e servizi”) al “Socialismo” è talmente vecchia (risale quantomeno ai tempi di Marx, il primo fustigatore dei “socialisti di Stato” tipo Lassalle) e vincente, che so benissimo di non poter convincere nessuno circa la colossale balla del “Socialismo reale” passato, presente e futuro – speriamo di no!

Leggo da qualche parte: «La Cina è un paese socialista con un’economia di mercato. In principio la sua economia poggia sul primato di un vasto settore statale, ma quello privato ora rappresenta 3/5 del PIL cinese e 4/5 della forza lavoro. In ogni caso il sistema Cina attinge a uno tra i più potenti strumenti del capitalismo: i mercati del capitale». Ma se così stanno le cose, qual è la qualità occulta che fa della Cina «un paese socialista con un’economia di mercato»? Tanto occulta, la misteriosa qualità non parrebbe, sempre a dar ragione all’opinione comune (cosa che mi guardo bene dal fare!): il Partito-Stato cinese non si definisce forse comunista? Appunto, si definisce. Come diceva Marx, «il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (Marx).

«Con la morbida definizione di Nuova Via della Seta (richiamo a Marco Polo che nel 13esimo secolo importò tessuti e fece ricca Venezia), la grande Cina in versione comunista per controllo centralizzato e capitalista per gli immediati obiettivi economici, vuole stabilire grandi vie del commercio per rafforzare l’export nelle aree più ricche. Per vendere di più fuori ed evitare che la propria economia rallenti, con pericolosi riflessi interni. Pechino ha la forza del denaro e delle merci» – cioè del Capitale. La Cina “comunista” è oggi al vertice della competizione capitalistica e imperialista: troppa “dialettica” per il mio piccolo cervello!

E così, per ridurre almeno un poco la mia indigenza in fatto di dialettica applicata a un reale processo storico-sociale, ho creduto bene di leggere un’intervista sulla Cina rilasciata da Rémy Herrera («economista marxista francese, ricercatore al CNRS e alla Sorbona di Parigi»), coautore insieme a Zhiming Long («economista marxista cinese della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua di Pechino») del libro La Cina è capitalista? Non l’avessi mai fatto!

Eppure l’intervista prometteva bene (al netto della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua): «noi siamo marxisti, quindi accordiamo molta importanza alla coerenza tra le statistiche e i concetti e teorie usati a monte». Non solo, ma giustamente Rémy Herrera considera sbagliato stabilire una cesura tra l’epoca maoista, iniziata nel 1949 e durata, con alterne (e violente) vicende, fino alla morte del Grande Timoniere, e quella post maoista decollata alla fine degli anni Settanta sotto la guida del “pragmatico” Deng Xiaoping, richiamato ai vertici del regime dallo stesso Mao nel 1973 dopo un lungo periodo di “rieducazione politica”. Nei miei più che modesti scritti sulla Cina moderna anch’io ho avuto cura di sottolineare la sostanziale continuità storico-sociale tra le “due Cine”, ovviamente e come sempre mutatis mutandis. In ogni caso, continuità e discontinuità si sono date sullo stesso terreno storico-sociale: quello capitalistico, appunto. Naturalmente quando parlo di Capitalismo, alludo anche alla sfera politico-istituzionale del Paese, a cominciare dal Partito-Regime che lo governa ormai da settanta anni.

Peccato che la continuità di cui parlano Rémy Herrera e Zhiming Long nel loro libro non ha nulla a che fare con quella sostenuta da chi scrive: La Cina di oggi è il prodotto di questo passato socialista». Secondo Herrera il «passato socialista» della Cina si spiega sostanzialmente con 1. la proprietà statale dei mezzi di produzione (terra compresa), 2. l’esistenza di un Partito-Regime “comunista” e 3. l’implementazione della riforma agraria, «forse ancora oggi l’eredità più preziosa della rivoluzione maoista». Per quanto riguarda i due primi punti ho già detto all’inizio, e in ogni caso rimando ai miei diversi scritti dedicati alla Cina. Per ciò che concerne il terzo punto, mi limito a ricordare a me stesso (gli «umili economisti marxisti» di certo non ne hanno bisogno) che la riforma agraria non ha, in sé, una natura peculiarmente socialista, ma essa è anzi la misura economico-sociale che più delle altre segna la radicalità di una rivoluzione nazionale-borghese. E difatti il Partito di Mao, erede della sconfitta che il giovane ma assai combattivo proletariato cinese subì alla fine degli anni venti (anche in grazia della politica stalinista ormai trionfante nella moribonda, e forse già morta, Internazionale Comunista), non fu mai un soggetto rivoluzionario comunista, ma si connotò fin dall’inizio come un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese basato socialmente sui contadini poveri.

Scriveva Lin Piao in un opuscolo del 1968 (Viva la vittoria della guerra popolare): «Già nel periodo della prima guerra civile rivoluzionaria, il compagno Mao Tse-tung, aveva sottolineato che il problema contadino occupava una posizione estremamente importante nella rivoluzione cinese, che la rivoluzione democratico-borghese contro l’imperialismo e il feudalismo era, in effetti, una rivoluzione contadina e che il compito fondamentale del proletariato cinese nella rivoluzione democratico-borghese era quello di guidare la lotta dei contadini». Qui è presentato lo schema “leninista” della doppia rivoluzione: il proletariato dei Paesi arretrati prima si mette alla testa della rivoluzione democratico-borghese, per surrogare una borghesia debole e compromessa con l’imperialismo, e poi di slancio, naturalmente se le condizioni interne e internazionali lo consentono, spinge il processo rivoluzionario su un terreno anticapitalista.

Ebbene, la rivoluzione cinese non superò mai i compiti di «una rivoluzione democratico-borghese», e difatti, al di là della propaganda politica e del misticismo ideologico che con il culto della personalità “con caratteristiche cinesi” toccherà inarrivabili punte di parossismo, il proletariato cinese non ebbe alcun ruolo dirigente nel processo rivoluzionario cinese come venne caratterizzandosi a partire dalla Lunga Marcia. D’altra parte era tipico dell’ideologia stalinista, della quale il maoismo non fu che un adattamento nazionale, caratterizzare come “socialista” o “comunista” qualsiasi cosa che avesse a che fare con gli interessi del Regime-Partito. Sono ben lungi dal voler negare a Mao i suoi importanti meriti storici, ma essi a mio avviso non superano minimamente il quadro nazionale-capitalistico. «Ma Mao guidava un Partito Comunista!» Rispondo marxianamente, se mi è consentito: se so che un Partito si chiama Comunista, non so nulla su quel Partito se non attraverso le sue azioni, la sua prassi.

Peraltro mi sembra che Rémy Herrera abbia una visione un po’ troppo apologetica delle riforme economiche che Mao cercò di implementare, anche per emancipare il Paese dalla sempre più invadente “collaborazione” sovietica (*). Ad esempio nulla egli dice sulle disastrose “avventure rivoluzionarie” definite Cento Fiori (1956), Grande Balzo in Avanti (1958), Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966); disastri economici e sociali che causarono la morte di moltissimi cinesi – alcuni studiosi parlano di venti milioni, altri di trenta. È anche vero che la modernizzazione capitalistica e la sovranità nazionale non sono esattamente dei pranzi di gala, ma a volte i “comunisti” esagerano! Inutile dire che Mao e i suoi accoliti attribuirono al «revisionismo sovietico» di Chrušcëv gran parte delle responsabilità della spaventosa (probabilmente la più grave mai sperimentata dalla Cina) carestia causata dal Grande Balzo – verso la miseria più nera!

La locuzione «Socialismo di mercato» dovrebbe suonare come un orribile ossimoro alle orecchie di un «economista marxista francese», il quale, avendo letto Marx, dovrebbe sapere che dove c’è il mercato, cioè la merce (e quindi il lavoro salariato, il denaro e tutte le bellissime ed eterne categorie dell’economia politica), domina il rapporto sociale capitalistico, tanto più che nel XXI secolo quel rapporto è dominante in tutti i Paesi del mondo, rendendo effettivo il marxiano concetto di «mercato mondiale». Invece Herrera prende sul serio quella sciocca definizione, e ci viene a parlare di una “dialettica” tra il potere economico e il potere politico: «Noi pensiamo che i detentori del potere economico non sono esattamente i detentori del potere politico in Cina. In altri termini, le classi dominanti non sarebbero esattamente le classi dirigenti. In altri termini ancora, i capitalisti cinesi, che sono molto numerosi e potenti, con dei miliardari tra di loro, nonostante i loro sforzi e malgrado il sostegno internazionale del grande capitale straniero, non sono riusciti a oggi a prendere il controllo dello Stato». Davvero esilarante. Tra l’altro al Nostro sfugge il concetto marxiano di Capitale come potenza sociale astratta, come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento di capacità lavorative e di risorse naturali. Il potere politico cinese, esattamente come accade nel resto del mondo, è al servizio dello status quo sociale, il quale si manifesta anche, e necessariamente, come Imperialismo. Ma per Herrera non è corretto includere la Cina tra le grandi potenze imperialiste: «Non penso che la Cina abbia un comportamento né una natura imperialista, malgrado venga presentata in questa maniera». «Eppure», gli viene obiettato dall’intervistatore, «in Africa sviluppa delle attività economiche, è in espansione, o anche in Asia, nel Pacifico. Non siamo in un’economia imperialista?» Risposta: «Imperialista? No, non penso proprio». Gli amici della Cina preferiscono parlare, nel suo caso, di un «forte protagonismo internazionale, politico ed economico». Che diplomatica delicatezza! Insomma, due pesi (imperialismi), due misure.

Chi scrive non si definisce un marxista né può vantare una laurea in economia, e questo lo mette nelle condizioni di richiamarsi senza temere di far brutta figura dinanzi alle Sacre Cattedre, ai classici dell’Imperialismo (vedi J. A. Hobson, R. Hilferding, Lenin, Rosa Luxemburg, ecc.) per elaborare un proprio concetto di Imperialismo. Ebbene, per farla breve, il caso cinese aderisce come un guanto al concetto di Imperialismo come viene fuori da quei “classici”, i quali giustamente individuano nella sfera economica il suo più forte e peculiare momento genetico (e momento egemone), quello che ha realizzato la “sinergia” di interessi economici e politici che è il tratto distintivo del Capitalismo giunto nella sua “fase matura”. Tra l’altro gli amici occidentali della Cina fanno finta di non vedere il cospicuo riarmo di quel Paese, e quando sono costretti a considerarlo, essi lo giustificano con l’aggressività dell’imperialismo altrui, a partire da quello americano e da quello giapponese. «La risposta della Cina, che non mi sembra essere una risposta aggressiva o imperialista, è stata questa apertura di una nuova “Via della Seta”. Che è una risposta all’accerchiamento aggressivo da parte dell’alta finanza statunitense o anglo-statunitense del Paese». Che faccio, rido? In ogni caso il “soft power” cinese è una balla propagandistica che non inganna nessuno.

Chiede l’intervistatore: «Quindi, per levare ogni ambiguità, secondo voi si tratta di un paese capitalista? Perché voi parlate di “capitalismo di Stato”, di un “capitalismo senza capitalisti” o di “un paese non capitalista ma con capitalisti”, parlate anche di “socialismo di mercato” o di “socialismo con meccanismi di mercato”… Alla fine, la Cina è un paese capitalista?». Risposta Herrera: «Forse lei la pensa così, noi siamo molto più prudenti. Diciamo che ci sono molti capitalisti, questo è sicuro, e molti meccanismi di mercato capitalistici. […] C’è anche una complessità che va rispettata, non è lecito giungere a conclusioni frettolose conclusioni a proposito della sua economia o ancor più della sua società». Va bene l’innegabile complessità della storia cinese e della società cinese; va bene che quando abbiamo a che fare con la Cina dobbiamo ragionare in termini di tempi lunghi, se non lunghissimi (millenari!), ma detto questo io credo che dopo sette decenni e, soprattutto, alla luce di una realtà così evidente che solo i ciechi (e l’ideologia com’è noto rende ciechi) non sono in grado di vedere, ebbene io penso che ciò posto un giudizio netto e documentato sulla natura sociale della Cina del XXI secolo sia tutt’altro che frettoloso, e che sia anzi necessario e urgente, per le implicazioni “classiste” e geopolitiche che un tale giudizio indubbiamente si porta dietro.

Il gatto cinese è nero esattamente come i topi che deve catturare. Questo è certamente poco, ma in compenso è sicurissimo, almeno per chi scrive.

Come tutti i tifosi del Celeste Imperialismo, Herrera ci tiene a sottolineare un concetto: «la Cina non è un nemico»: «Ormai le campagne mediatiche si fanno durissime. La Cina è sempre più presentata, nei confronti dell’Occidente in generale, come un concorrente; ci spaventano l’idea che la Cina intenda dominare il mondo, asservirci. Qualcosa di inquietante. Ma non è vero, la Cina non è un nemico». Ora, ci sono due modi di “declinare” il concetto di nemico: uno è quello borghese (capitalistico, nazionale, geopolitico), l’altro è quello proletario (di classe, anticapitalista, internazionalista, rivoluzionario). Ho usato una vecchia terminologia (borghese, proletario, ecc.) per farmi comprendere da un “umile economista marxista”. Ebbene, dal punto di vista che m’interessa sostenere, quello proletario (sempre nell’accezione marxiana, non meramente sociologica, del termine), la Cina è un nemico delle classi subalterne, esattamente come lo è l’Italia e tutti i Paesi di questo capitalistico mondo. Io sono nemico della relazione economica, politica e “culturale” tra Italia e Cina esattamente come sono sempre stato contro l’analoga relazione tra Italia e Stati Uniti. E ovviamente percepisco come mia nemica “di classe” anche l’Unione Europea, il polo imperialista che cerca di formarsi nel Vecchio Continente per resistere alla pressione degli altri centri dell’imperialismo mondiale: Cina, Stati Uniti, Russia.

Scrive Alberto Bradanini, consigliere commerciale all’ambasciata italiana a Pechino tra il 1991 e il 1996 e poi ambasciatore a Pechino nel periodo 2013-2015: «I capisaldi del socialismo con caratteristiche cinesi sono costituti dal dogma della sovranità nazionale, un ferreo controllo della società, la forte presenza dello Stato in economia, il controllo della finanza, delle grandi aziende/corporazioni e dei settori fondamentali del paese (proprietà e iniziativa private, giudicate utile a generare ricchezza in questo frangente storico, sono de facto attenuate e attentamente monitorate) e la proprietà pubblica della terra (sebbene talvolta il suo possesso sia gestito con metodi capitalisti). Quanto all’iniqua distribuzione della ricchezza, il Partito afferma che si tratta di una fase transitoria che verrà corretta strada facendo, sebbene i rischi di deriva capitalista oltre una soglia di sicurezza vengano giudicati da sinistra quanto mai concreti. Un deficit di attenzione ha riguardato l’ambiente, pesantemente sacrificato negli ultimi 40 anni dalle necessità della crescita, e il mondo del lavoro, le cui condizioni sono in Cina subordinate alle esigenze della produzione». Bisogna avere in testa un concetto assai deprimente (escrementizio) di “socialismo” per associare la descrizione appena riportata al “socialismo”, sebbene «reale» o «con caratteristiche cinesi». Qui di reale c’è sicuramente un Paese capitalistico, “senza se e senza ma”, giunto ai vertici della contesa mondiale per il potere totale: economico, tecnologico, scientifico, politico, ideologico, militare – la guerra “tradizionale” è la continuazione della guerra sistemica con altre modalità. Non ho scritto con altri mezzi, perché nell’epoca delle tecnologie “intelligenti” la distinzione tra mezzi “pacifici” e mezzi bellici è davvero esigua, sfuggente.

C’è da dire che Bradanini è un altro “storico” amico della Repubblica Popolare Cinese, e infatti suggerisce al nostro Paese di abbandonare ogni paura circa un’inesistente pericolo giallo e di approfittare delle buone intenzioni cinesi per allentare la presa degli Stati Uniti. «Dopo 74 anni dalla sconfitta della guerra e dalla conseguente perdita della sua sovranità politica, l’Italia resta un paese gregario, subordinato alle priorità di altri, in particolare Washington e Bruxelles. La storia insegna che anche le alleanze più solide possono essere rimesse in discussione quando cambiano le circostanze che le hanno generate. Nei rapporti internazionali infatti, sosteneva W. Churchill, non vi sono nemici eterni, ma solo interessi eterni». Non si potrebbe sintetizzare meglio il concetto di interesse nazionale, il quale deve fare i conti con l’esistenza della competizione sistemica tra le grandi potenze imperialistiche, e infatti Bradanini ci tiene a porre la distinzione tra sovranità e sovranismo. Oggi come si coltiva meglio l’eterno interesse nazionale dell’Italia e conquistare «un’agibilità politica a noi misteriosamente negata»: mantenendo saldo il rapporto con gli Stati Uniti o avvicinandosi alla Cina? Di certo la risposta non spetta a me: come si è già capito, io sono radicalmente nemico degli interessi nazionali.

«Stalin, secondo il Pcc [guidato da Deng Xiaoping], interpretava il marxismo in forma dogmatica, separando radicalmente capitalismo e socialismo, senza comprendere che il primo andava utilizzato come strumento per giungere al secondo. In buona sostanza il Pcc sembra riconoscere, come Lenin a suo tempo [vedi Nuova Politica Economica, 1921], i meriti di un certo capitalismo quale tappa intermedia sulla strada del socialismo, sebbene non manchi chi da sinistra mette in guardia da un’eccessiva deriva capitalista dalla quale sarebbe poi difficile riprendersi». Bradanini caratterizza la politica stalinista come «marxismo in forma dogmatica», mentre per me si tratta della forma in cui si manifestò la controrivoluzione in Russia nel momento in cui il potere sovietico, già stremato dalla guerra civile e dalla catastrofe economica a essa connessa, si trovò isolato sul piano internazionale. E quando parlo di «piano internazionale» alludo al proletariato internazionale, a cominciare da quello tedesco, il solo che avrebbe potuto dare ossigeno alla dimensione proletaria della Rivoluzione d’Ottobre. La NEP voluta da Lenin rappresentò l’estremo tentativo dei bolscevichi di conquistare tempo in attesa di una rivoluzione internazionale che, com’è noto, non arriverà. Lo stalinismo fu appunto l’espressione politico-ideologica di un processo sociale (non di una personalità più o meno contorta e dogmatica) che ho cercato di analizzare in uno studio di diversi anni fa: Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre – 1917/1924. Insomma, l’analogia proposta da Bradanini regge solo se si considera Socialismo, sebbene “reale” (e quindi imperfetto come tutte le cose reali di questo mondo), il reale Capitalismo/Imperialismo che a mio avviso si realizzò nella Russia di Stalin. In realtà quella analogia è infondata già nei suoi presupposti storico-sociali, visto che la Cina di Mao non conobbe alcuna rivoluzione proletaria.

Ritorniamo, per concludere rapidamente, a Rémy Herrera. «Quello che noi diciamo è che il futuro del socialismo non è irrimediabilmente compromesso con la caduta dell’Unione sovietica. Noi contestiamo questo consenso, intendiamo rompere questo tabù sotto le cui macerie, quelle della caduta del Muro e dell’Urss, è ancora seppellita la sinistra europea, occidentale, radicale. Non ne siamo ancora usciti: non solamente non ne abbiamo ancora fatto un bilancio, ma soprattutto questi tabù impediscono di rimettere l’esigenza del socialismo al centro della ricostruzione delle alternative. Il socialismo ritorna nel dibattito, ma c’è voluto del tempo». Avevo il sospetto che il Nostro “marxista” parlasse da un pulpito non esattamente originale e cristallino quanto a rigore “marxista”: quello dei nostalgici del “Socialismo reale”, del mondo segnato dalla “guerra fredda” e dallo “scontro di civiltà” tra “mondo libero” (sic!) e “mondo socialista” (strasic!). Per mia fortuna, non solo non ho mai fatto parte di quella «sinistra europea, occidentale, radicale» (leggi: filosovietica o/e filomaoista) finita sotto il famigerato Muro, ma l’ho sempre combattuta. Come ho scritto su un post dedicato al Venezuela, «Come ai tempi d’oro dello stalinismo trionfante, gli anticomunisti godono, e legittimamente, bisogna riconoscerlo, tutte le volte che possono usare la balla speculativa del “comunismo” per impartire alle classi subalterne d’Occidente questa semplice lezione: “Vedete che fine fanno, prima o poi, i Paesi che cadono nelle rozze quanto avide mani dei comunisti! Sopportate dunque le ingiustizie del Capitalismo, che qualcosa comunque vi dà, mentre in Venezuela, o a Cuba, si fa fatica anche a procurarsi la carta igienica”. Se i cosiddetti “comunisti” e tutti quelli che negli ultimi vent’anni hanno esaltato i sedicenti trionfi del “Socialismo del XXI secolo” non esistessero, i vari Porro e Salvini dovrebbero inventarli, così da poter continuare a gettare tanta sostanza escrementizia sul nome stesso di “Comunismo”». Il “marxista” mi obietterà: «Ma la Cina, a differenza del Venezuela, mostra al mondo un modello vincente!». Non c’è dubbio: un modello vincente di Capitalismo e di Imperialismo.

A proposito dei sanguinosi fatti cinesi del giugno 1989, c’è da dire che fu proprio per evitare al regime cinese una fine analoga a quella del regime sovietico che Deng Xiaoping, allora segretario del PCC e cavallo vincente su cui aveva puntato l’Occidente (il Carissimo Leader morirà nel 1997), a «ordinare ai militari inviati a reprimere le manifestazioni di piazza Tien An Men, di essere pronti a “spargere del sangue”» (Il Post), cosa che puntualmente accadde. Va ricordato che la sanguinosa repressine del movimento sociale cinese ordinata dai vertici dello Stato-Regime ebbe come non ultima causa l’apparizione, accanto alle organizzazioni studentesche, di primi embrioni di un combattivo associazionismo proletario indipendente da quello “patriottico” offerto dal Regime-Partito: una minaccia intollerabile ai tempi di sviluppo e ai ritmi di sfruttamento imposti dal progetto di fare della Cina del XXI secolo una potenza di rango mondiale tanto sul terreno della competizione economica, quanto su quello della contesa geopolitica. L’ascesa di una nazione nello scacchiere mondiale non è mai stata un pranzo di gala, tanto più se si tratta di una nazione così ricca di peculiarità (storiche, demografiche, ecc.) com’è indubbiamente quella cinese. Allora i Cari Leader tremavano al solo pensiero che il movimento sociale della metropoli potesse saldarsi con la lotta delle minoranze etniche e dei contadini poveri che vivevano in condizioni ancora assai miserabili alla periferia dell’Impero.

Concludo con un’amara confessione. La struttura logica del mio pensiero è purtroppo assai elementare, direi rozza, ed essa mi porta a ragionare in questi termini: dove c’è capitale, c’è Capitalismo. Infatti, il capitale non è una cosa, non è un mero strumento al servizio dell’economia (capitalista o “socialista” che sia): esso è in primo luogo l’espressione di peculiari (sul piano storico) rapporti sociali di produzione, i quali nelle società classiste sono rapporti di dominio e di sfruttamento. La “sovrastruttura” politica, istituzionale e ideologica non può non essere adeguata alla “struttura” economico-sociale che la esprime “dialetticamente” – e necessariamente. Mi scuso per questa trivialità adialettica e antimaterialistica, ma io la penso esattamente così, anche a proposito della Cina!

 

(*) Iniziata un po’ obtorto collo agli inizi degli anni Cinquanta per ottenere un minimo di dotazione capitalistica (capitali, materie prime, macchinario e tecnici) con cui avviare la modernizzazione della società cinese, e per superare l’isolamento internazionale, la modernizzazione capitalistica con caratteristiche sovietiche portò all’adozione del modello stalinista basato sulla collettivizzazione forzata delle campagne (con l’abbandono dell’iniziale distribuzione delle terre ai contadini) e la primazia dell’industria “pesante” su quella “leggera”. Dentro il Partito-Regime si confrontarono (si tratta di un eufemismo!) a lungo i due modelli di modernizzazione: quello, appunto, con caratteristiche staliniste e quello con caratteristiche maoiste. Mao parlò di una «lotta di classe» tra il Popolo (proletari, contadini, piccola borghesia) e la borghesia nazionale che cercava di rialzare la testa con l’aiuto del “revisionismo sovietico” e dell’imperialismo occidentale. Niente di più falso (e demagogico), naturalmente; la “sinistra radicale” europea, stufa dell’anchilosato e sempre più grigio modello sovietico,  accolse invece con entusiasmo il Nuovo Verbo Maoista. Con Deng Xiaoping trionfò il modello Singapore: sviluppo capitalistico “selvaggio” e regime dittatoriale.

 

TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO)

ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE

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LA NATURA DELL’IMPERIALISMO CINESE

NIENTE DI NUOVO SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO. Alcune considerazioni sul discorso di Xi Jinping.

L’AFRICA SOTTO IL CELESTE IMPERIALISMO

L’IMPERIALISMO È LA GRANDE CINA

Nel suo post-Facebook del 28 settembre dedicato alla «Grande Cina», Amedeo Curatoli pone questa domanda: «Che cosa potrebbe dimostrare il fatto che in soli 30 anni la Cina ha raggiunto il più alto tasso di sviluppo del genere umano, mentre in Occidente c’è la stagnazione? Questa mirabile ascesa ci dice forse che la Cina è un paese capitalista giovane e aggressivo che compete con gli altri “vecchi” capitalismi secondo la teoria di Lenin dello sviluppo ineguale del capitalismo in epoca dell’imperialismo?» (L’imperialismo e la grande Cina). A questa domanda, che nelle intenzioni dell’autore forse voleva essere retorica, mentre alle mie orecchie suona fortemente suggestiva (nel senso che mi suggerisce la risposta), rispondo senza alcun tentennamento con un grande . Grande almeno quanto lo è il Capitalismo cinese, giunto ormai da tempo nella sua fase di conclamato imperialismo.

Se ai tempi del regime maoista, almeno nel suo primo periodo rivoluzionario (nazionale-borghese: a ragione Curatoli scrive che «Mao è la nazione cinese»), aveva un significato teorico e politico disquisire intorno alla natura imperialista/antimperialista della Cina (mentre sulla sua natura capitalistica c’era poco da discutere, almeno per il sottoscritto), oggi il solo porre la questione è semplicemente ridicolo, oltre che ultrareazionario sul piano politico. La Cina è imperialista non solo perché è legata con mille fili all’Imperialismo mondiale, ma lo è nel senso capitalisticamente più peculiare, ossia in quanto Paese che non esporta solo capitale in forma di merci (lavoratori compresi), ma anche capitale finanziario stricto sensu, che investe in modo diretto e indiretto in altri Paesi.

Com’è noto, per Lenin l’esportazione di capitali, che, ripeto, è il tratto storicamente distintivo del moderno Imperialismo, determina «una più elevata e intensa evoluzione del capitalismo in tutto il mondo», che si manifesta soprattutto in un «più rapido sviluppo capitalistico» nelle zone ancora arretrate del pianeta. Questa funzione il capitale cinese la sta svolgendo soprattutto in Africa, e in parte in America Latina, attraverso la peculiare dialettica dello sfruttamento capitalistico, la quale mette capo allo sviluppo degli stessi Paesi che la subiscono. Oggi la Cina è al centro del Sistema Imperialistico Mondiale, e negarlo è francamente qualcosa che sta, se così posso esprimermi, al di là del bene e del male. Insomma è un’assoluta idiozia, che porta acqua al mulino di uno dei più grandi imperialismi di questo inizio secolo.

La relativa stagnazione economica occidentale è un dato che attesta la maturità capitalistica dei Paesi giunti assai prima della Cina nella fase borghese del loro sviluppo storico-sociale, e niente milita contro un analogo futuro destino dell’economia cinese, oggi condannata a non scendere sotto la soglia critica dell’otto per cento di crescita, pena il crearsi di gigantesche tensioni sociali, che potrebbero mettere in questione persino l’assetto nazionale del Paese. Di qui, tra l’altro, il crescente nazionalismo cinese, del tutto omogeneo a quello che si sta sviluppando in Giappone e in Corea del Sud.

Detto en passant, anche Stalin e, in seguito, Kruscev puntarono i riflettori della propaganda sugli altissimi tassi di sviluppo dell’industria russa per dimostrare la natura socialista dell’economia del Paese, e magnificarne la superiorità nei confronti dei competitori occidentali. Lungi dall’attestare la natura socialista della Russia stalinista, i mitici Piani Quinquennali ne testimoniavano piuttosto l’essenza capitalistica; essi raccontavano, a chi avesse orecchie per ascoltare la verità, il processo «di accumulazione originaria» in un Paese capitalisticamente arretrato e molto ambizioso sul terreno della contesa imperialistica, peraltro in ossequio alla tradizione Grande-Russa del Paese, così odiata dall’uomo che subì l’oltraggio della mummificazione – in tutti i sensi. Di qui l’opzione di politica economica tesa a orientare tutti gli sforzi della nazione verso la costruzione, a ritmi stachanovisti, di una potente industria pesante: più acciaio e meno burro! Com’è noto il burro non fa ingrassare gli arsenali.

Dopo aver snocciolato i «mirabili» successi del Capitalismo cinese, citando con ammirazione Maonomics di Loretta Napoleoni (libro da me criticato in Tutto sotto il cielo – del Capitalismo), Curatoli domanda: «Sarebbero possibili questi “miracoli” se non vi fosse un’economia centralizzata dallo Stato? In Cina, per chi fingesse di non saperlo o lo avesse dimenticato, ancora vi sono i Piani Quinquennali e ancora vi saranno». L’economia centralizzata dallo Stato come «Socialismo»: un classico dello statalismo più volgare, da Lassalle in poi, passando per Stalin, Mao e nipotini vari. Lo Stato come eccezionale strumento di accumulazione nella fase «originaria» o «primitiva» dello sviluppo capitalistico è un concetto che non riesce proprio a penetrare nella testa di chi è cresciuto a pane e statalismo di sinistra. Occorre farsene una ragione.

Tanto la pianificazione sociale dell’economia (in presenza delle categorie che definiscono il Capitalismo) quanto il ritmo dell’accumulazione costituiscono  il contrassegno capitalistico più sicuro della moderna società, la cui natura di classe risiede nei rapporti sociali che la governano. È forse ozioso ricordare ai marxisti che per Marx le categorie dell’economia politica sono l’espressione di peculiari rapporti sociali di dominio e di sfruttamento? In effetti, solo chi è gravemente impigliato in una concezione feticistica della realtà può credere che l’esistenza del mercato, delle merci, del denaro, del lavoro salariato e quant’altro non sono sufficienti, da soli, a supportare la “tesi capitalistica” circa la natura sociale di un Paese. Di qui la teorizzazione del «Mercato Socialista» a proposito della «Grande Cina», tesi che prim’ancora che con l’intelligenza fa a pugni con la realtà – o viceversa, fa lo stesso.

L’ignoranza, da parte di certi cosiddetti marxisti, circa l’ABC dello sviluppo capitalistico denota certamente una scarsa padronanza dei testi marxiani, ma soprattutto ci dà la testimonianza di un approccio ideologico – invertito, capovolto – con la realtà, letta a partire da schemi concettuali che esistono solo nella loro “marxistica” testa. Per questo, a differenza di quanto scrive Curatoli, non è affatto «più realistico, convincente e credibile», cioè «non è più “marxista”» (sempre che questa iperinflazionata qualifica conservi ancora un residuo e non equivoco significato) «pensare invece che la Cina è semplicemente “socialista”». Persino l’economia di pensiero spinge verso la “tesi capitalistica”!

Contrapporre poi il capitale internazionale che opera in Cina al capitale autoctono, nazionale è, oltre ogni altra considerazione, del tutto privo di significato. Infatti, lo stesso
capitale nazionale non è che un’espressione – e un’articolazione – del capitale internazionale, una sua manifestazione localizzata, una sorta di sua sezione nazionale, per così dire. Lo stesso Stato nazionale è un nodo geopolitico della fitta rete del dominio sociale capitalistico, la cui dimensione oggi è il mondo. Come aveva ben compreso Marx, il capitale ha una natura necessariamente internazionale, di più: mondiale, anche se storicamente ha dovuto affermarsi attraverso la formazione di un mercato nazionale. Anche per questo l’ideologia Sovranista ha i piedi d’argilla, oltre ad essere una concezione del mondo reazionaria all’ennesima potenza. La contesa imperialistica tra i capitali e gli Stati conferma, non smentisce, la dialettica storico-sociale appena ricordata.

«Una rivista reazionaria statunitense, che titola in copertina L’ascesa della Cina, la caduta dell’America, capisce ciò che sta accadendo, più degli anticinesi di sinistra». Non ho motivo di dubitarne. D’altra parte, io non sono né un’anticinese né un sinistrorso, ma un anticapitalista, puramente e banalmente. Italiano, americano o cinese, in declino o in ascesa, il Capitalismo non lo reggo proprio, come non reggo i suoi apologeti, di destra, di centro e di sinistra, basati a Ovest come a Est, a Nord come a Sud, tifosi dei Chicago Boys o dei nipotini, più o meno revisionati, di Mao.

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Scricchiola in Cina la «Celeste Armonia»? Speriamo!

Mentre la perdurante crisi economica europea (al netto della solita Germania) consente all’imperialismo cinese di penetrare nella struttura economica del Vecchio Continente (il generoso salvatore della Grecia avrà gli occhi a mandorla?) come il coltello affonda nel burro, nel grande Paese asiatico è un susseguirsi di ribellioni etnico-nazionalistiche (sempre più frequenti nella Mongolia Interna), di scioperi, di proteste d’ogni genere (anche «ecologiste», a causa dell’incredibile inquinamento dell’aria, dei mari e dei fiumi causato dalle emissioni industriali e dallo sfruttamento intensivo delle miniere di carbone e delle cosiddette terre rare).

Le Monde l’altro giorno denunciava «incidenti di massa» nel Wuhan Dong. Il Global Times (il tabloid in lingua inglese legato al Quotidiano del popolo) tutti i giorni mette in guardia «l’opinione pubblica internazionale» dalla tentazione di dare un significato politico alle migliaia di manifestazioni che ogni anno prendono corpo sotto il vasto Cielo dell’Impero Capitalistico Cinese.

Naturalmente a nessuno sfugge quel significato, e ne sono consapevoli in primo luogo i leader cinesi, i quali attribuiscono la rottura della «Celeste Armonia» ai burocrati locali, reiterando in tal modo la millenaria prassi cinese del Capro Espiatorio: la colpa del cattivo raccolto, dei disastri «naturali» e delle guerre civili non è mai dell’Imperatore, ma della sua corte e di coloro che a suo nome governano le provincie del Paese solo per ricavarne benefici personali. Il Grande Timoniere Mao applicò questa linea politica difensiva con particolare sagacia e violenza, e non è un caso se nel cosiddetto Partito Comunista Cinese la sua figura ha un inaspettato (ma non per chi scrive) ritorno di popolarità.

Se la configurazione totalitaria delle istituzioni ha servito molto bene l’eccezionale accumulazione capitalistica del Paese, un fenomeno mai visto prima nella storia (come riassumere due secoli di storia dell’Occidente in soli tre decenni: roba che mette i brividi!), oggi essa mostra qualche crepa. In realtà le prime avvisaglie della crisi si sono appalesate nella «Primavera Cinese» del 1989 (annegata letteralmente nel sangue e schiacciata «fisicamente» dai cingolati dei carri armati); allora però il regime, o almeno la sua cosca maggioritaria e vincente, non volle rischiare di compromettere la poderosa rincorsa capitalistica del Paese con «aperture politiche» dall’esito quantomeno dubbio. E, dal maligno punto di vista dell’accumulazione capitalistica, la quale non è mai stata, sotto qualsiasi Cielo, «un pranzo di gala», il regime ebbe ragione.

Da allora le cose sono mutate, al punto che lo stesso Partito sta promuovendo al suo interno delle «simulazioni democratiche», per preparare l’Impero a una transizione non traumatica, graduale e indolore verso forme politico-istituzionali che meglio possono gestire le contraddizioni sociali tipiche di un moderno Paese capitalistico, e assecondare lo sviluppo economico nelle nuove circostanze.

I leader cinesi ragionano, come sempre, con un respiro assai lungo, e prevedono di inaugurare la Nuova Cina Democratica intorno al 2030. Salvo l’irruzione sulla scena sociale di sempre possibili complicazioni (la campagna cinese rimane ancora un problema con troppe incognite) e di imprevisti di varia natura (anche internazionale: la tensione con le altre «Tigri Asiatiche» è sempre latente). Non si creda tuttavia che i lungimiranti leader del Celeste Impero stiano trascurando di valutare le possibili variabili, in modo da mettere in sicurezza il Sistema in qualsiasi circostanza. Anche il carsico «ritorno agli insegnamenti del Presidente Mao» fa parte della lungimirante strategia di quei leader.

La prassi sociale in Cina dei prossimi mesi e dei prossimi anni ci dirà fino a che punto i calcoli della classe dominante cinese sono corretti. Inutile dire che personalmente tifo per un suo disastroso errore (e in quel Paese l’errore deve necessariamente assumere i connotati del disastro e della tragedia: vedi, ad esempio, la campagna del «Grande Balzo in Avanti» inaugurata da Mao nel 1958, e finita nella fame e nel sangue già tre anni dopo).

Perché sono cattivo «in linea di principio»? Forse. Perché credo nel «tanto peggio, tanto meglio»? Questo no davvero: non sono sciocco fino a questo punto. Investo, per così dire, in un errore di calcolo della classe dominante cinese solo nella misura in cui esso può dare impulso a un gigantesco movimento di rivendicazioni politiche ed economiche da parte del proletariato stipato nelle grandi città cinesi, tale da trascinare sulla scena sociale anche l’enorme massa di contadini poveri e miserabili che a decine di milioni ogni anno abbandonano la campagna per cercar “fortuna” nelle metropoli. E poi? E poi si vedrà! Di certo non sto, al contrario di Loretta Napoleoni e degli altri estimatori del «Modello Cinese», dalla parte della «Celeste Armonia». Non sia mai!

RECENSIONE

SEBASTIANO ISAIA E IL FENOMENO CINA, di Daniela Pecorino
http://www.dietrolequinteonline.it/?p=6050

 

 

 

Il Nostromo commosso ringrazia. Ossia: accattatavillo!

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L’improvvisa irruzione nei media del tema della modernizzazione capitalistica dei Paesi arretrati attraverso lo spettacolo della crisi internazionale nel mondo islamico, rende attuale lo studio delle cause che determinarono già alla fine del XVIII secolo il grande Divario di Civiltà tra Occidente e Oriente.

Che sia proprio la Cina,un tempo paradigma dell’arretratezza e della stagnazione sistemica di una civiltà, a recitare oggi un ruolo centrale nell’economia globalizzata, ci suggerisce che indagare le ragioni dell’eccezionale successo della Prima Rivoluzione Industriale e dell’incredibile insuccesso che fu il mancato decollo capitalistico della Cina nel momento in cui “sarebbe potuto accadere”, può aiutarci a comprendere la dinamica generale della modernizzazione capitalistica.