La Cina non è «un Paese socialista con un’economia di mercato», come recita il mantra del mainstream in fatto di “problematiche cinesi”: la Cina è un Paese capitalista la cui “sfera sociale” (comprese le attività economiche) è fortemente e capillarmente controllata dallo Stato. Nel caso di cui ci occupiamo, tuttavia, non si può nemmeno parlare di un Capitalismo di Stato, come ai tempi di Mao, perché ormai in Cina l’iniziativa capitalistica privata è sufficientemente sviluppata e radicata; ma in ogni caso sempre di Capitalismo si tratterebbe. Il fatto è che l’idea ridicola di associare il controllo statale delle imprese capitalistiche (di “beni e servizi”) al “Socialismo” è talmente vecchia (risale quantomeno ai tempi di Marx, il primo fustigatore dei “socialisti di Stato” tipo Lassalle) e vincente, che so benissimo di non poter convincere nessuno circa la colossale balla del “Socialismo reale” passato, presente e futuro – speriamo di no!
Leggo da qualche parte: «La Cina è un paese socialista con un’economia di mercato. In principio la sua economia poggia sul primato di un vasto settore statale, ma quello privato ora rappresenta 3/5 del PIL cinese e 4/5 della forza lavoro. In ogni caso il sistema Cina attinge a uno tra i più potenti strumenti del capitalismo: i mercati del capitale». Ma se così stanno le cose, qual è la qualità occulta che fa della Cina «un paese socialista con un’economia di mercato»? Tanto occulta, la misteriosa qualità non parrebbe, sempre a dar ragione all’opinione comune (cosa che mi guardo bene dal fare!): il Partito-Stato cinese non si definisce forse comunista? Appunto, si definisce. Come diceva Marx, «il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (Marx).
«Con la morbida definizione di Nuova Via della Seta (richiamo a Marco Polo che nel 13esimo secolo importò tessuti e fece ricca Venezia), la grande Cina in versione comunista per controllo centralizzato e capitalista per gli immediati obiettivi economici, vuole stabilire grandi vie del commercio per rafforzare l’export nelle aree più ricche. Per vendere di più fuori ed evitare che la propria economia rallenti, con pericolosi riflessi interni. Pechino ha la forza del denaro e delle merci» – cioè del Capitale. La Cina “comunista” è oggi al vertice della competizione capitalistica e imperialista: troppa “dialettica” per il mio piccolo cervello!
E così, per ridurre almeno un poco la mia indigenza in fatto di dialettica applicata a un reale processo storico-sociale, ho creduto bene di leggere un’intervista sulla Cina rilasciata da Rémy Herrera («economista marxista francese, ricercatore al CNRS e alla Sorbona di Parigi»), coautore insieme a Zhiming Long («economista marxista cinese della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua di Pechino») del libro La Cina è capitalista? Non l’avessi mai fatto!
Eppure l’intervista prometteva bene (al netto della Scuola di Marxismo all’Università Tsinghua): «noi siamo marxisti, quindi accordiamo molta importanza alla coerenza tra le statistiche e i concetti e teorie usati a monte». Non solo, ma giustamente Rémy Herrera considera sbagliato stabilire una cesura tra l’epoca maoista, iniziata nel 1949 e durata, con alterne (e violente) vicende, fino alla morte del Grande Timoniere, e quella post maoista decollata alla fine degli anni Settanta sotto la guida del “pragmatico” Deng Xiaoping, richiamato ai vertici del regime dallo stesso Mao nel 1973 dopo un lungo periodo di “rieducazione politica”. Nei miei più che modesti scritti sulla Cina moderna anch’io ho avuto cura di sottolineare la sostanziale continuità storico-sociale tra le “due Cine”, ovviamente e come sempre mutatis mutandis. In ogni caso, continuità e discontinuità si sono date sullo stesso terreno storico-sociale: quello capitalistico, appunto. Naturalmente quando parlo di Capitalismo, alludo anche alla sfera politico-istituzionale del Paese, a cominciare dal Partito-Regime che lo governa ormai da settanta anni.
Peccato che la continuità di cui parlano Rémy Herrera e Zhiming Long nel loro libro non ha nulla a che fare con quella sostenuta da chi scrive: La Cina di oggi è il prodotto di questo passato socialista». Secondo Herrera il «passato socialista» della Cina si spiega sostanzialmente con 1. la proprietà statale dei mezzi di produzione (terra compresa), 2. l’esistenza di un Partito-Regime “comunista” e 3. l’implementazione della riforma agraria, «forse ancora oggi l’eredità più preziosa della rivoluzione maoista». Per quanto riguarda i due primi punti ho già detto all’inizio, e in ogni caso rimando ai miei diversi scritti dedicati alla Cina. Per ciò che concerne il terzo punto, mi limito a ricordare a me stesso (gli «umili economisti marxisti» di certo non ne hanno bisogno) che la riforma agraria non ha, in sé, una natura peculiarmente socialista, ma essa è anzi la misura economico-sociale che più delle altre segna la radicalità di una rivoluzione nazionale-borghese. E difatti il Partito di Mao, erede della sconfitta che il giovane ma assai combattivo proletariato cinese subì alla fine degli anni venti (anche in grazia della politica stalinista ormai trionfante nella moribonda, e forse già morta, Internazionale Comunista), non fu mai un soggetto rivoluzionario comunista, ma si connotò fin dall’inizio come un soggetto rivoluzionario nazionale-borghese basato socialmente sui contadini poveri.
Scriveva Lin Piao in un opuscolo del 1968 (Viva la vittoria della guerra popolare): «Già nel periodo della prima guerra civile rivoluzionaria, il compagno Mao Tse-tung, aveva sottolineato che il problema contadino occupava una posizione estremamente importante nella rivoluzione cinese, che la rivoluzione democratico-borghese contro l’imperialismo e il feudalismo era, in effetti, una rivoluzione contadina e che il compito fondamentale del proletariato cinese nella rivoluzione democratico-borghese era quello di guidare la lotta dei contadini». Qui è presentato lo schema “leninista” della doppia rivoluzione: il proletariato dei Paesi arretrati prima si mette alla testa della rivoluzione democratico-borghese, per surrogare una borghesia debole e compromessa con l’imperialismo, e poi di slancio, naturalmente se le condizioni interne e internazionali lo consentono, spinge il processo rivoluzionario su un terreno anticapitalista.
Ebbene, la rivoluzione cinese non superò mai i compiti di «una rivoluzione democratico-borghese», e difatti, al di là della propaganda politica e del misticismo ideologico che con il culto della personalità “con caratteristiche cinesi” toccherà inarrivabili punte di parossismo, il proletariato cinese non ebbe alcun ruolo dirigente nel processo rivoluzionario cinese come venne caratterizzandosi a partire dalla Lunga Marcia. D’altra parte era tipico dell’ideologia stalinista, della quale il maoismo non fu che un adattamento nazionale, caratterizzare come “socialista” o “comunista” qualsiasi cosa che avesse a che fare con gli interessi del Regime-Partito. Sono ben lungi dal voler negare a Mao i suoi importanti meriti storici, ma essi a mio avviso non superano minimamente il quadro nazionale-capitalistico. «Ma Mao guidava un Partito Comunista!» Rispondo marxianamente, se mi è consentito: se so che un Partito si chiama Comunista, non so nulla su quel Partito se non attraverso le sue azioni, la sua prassi.
Peraltro mi sembra che Rémy Herrera abbia una visione un po’ troppo apologetica delle riforme economiche che Mao cercò di implementare, anche per emancipare il Paese dalla sempre più invadente “collaborazione” sovietica (*). Ad esempio nulla egli dice sulle disastrose “avventure rivoluzionarie” definite Cento Fiori (1956), Grande Balzo in Avanti (1958), Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (1966); disastri economici e sociali che causarono la morte di moltissimi cinesi – alcuni studiosi parlano di venti milioni, altri di trenta. È anche vero che la modernizzazione capitalistica e la sovranità nazionale non sono esattamente dei pranzi di gala, ma a volte i “comunisti” esagerano! Inutile dire che Mao e i suoi accoliti attribuirono al «revisionismo sovietico» di Chrušcëv gran parte delle responsabilità della spaventosa (probabilmente la più grave mai sperimentata dalla Cina) carestia causata dal Grande Balzo – verso la miseria più nera!
La locuzione «Socialismo di mercato» dovrebbe suonare come un orribile ossimoro alle orecchie di un «economista marxista francese», il quale, avendo letto Marx, dovrebbe sapere che dove c’è il mercato, cioè la merce (e quindi il lavoro salariato, il denaro e tutte le bellissime ed eterne categorie dell’economia politica), domina il rapporto sociale capitalistico, tanto più che nel XXI secolo quel rapporto è dominante in tutti i Paesi del mondo, rendendo effettivo il marxiano concetto di «mercato mondiale». Invece Herrera prende sul serio quella sciocca definizione, e ci viene a parlare di una “dialettica” tra il potere economico e il potere politico: «Noi pensiamo che i detentori del potere economico non sono esattamente i detentori del potere politico in Cina. In altri termini, le classi dominanti non sarebbero esattamente le classi dirigenti. In altri termini ancora, i capitalisti cinesi, che sono molto numerosi e potenti, con dei miliardari tra di loro, nonostante i loro sforzi e malgrado il sostegno internazionale del grande capitale straniero, non sono riusciti a oggi a prendere il controllo dello Stato». Davvero esilarante. Tra l’altro al Nostro sfugge il concetto marxiano di Capitale come potenza sociale astratta, come rapporto sociale di dominio e di sfruttamento di capacità lavorative e di risorse naturali. Il potere politico cinese, esattamente come accade nel resto del mondo, è al servizio dello status quo sociale, il quale si manifesta anche, e necessariamente, come Imperialismo. Ma per Herrera non è corretto includere la Cina tra le grandi potenze imperialiste: «Non penso che la Cina abbia un comportamento né una natura imperialista, malgrado venga presentata in questa maniera». «Eppure», gli viene obiettato dall’intervistatore, «in Africa sviluppa delle attività economiche, è in espansione, o anche in Asia, nel Pacifico. Non siamo in un’economia imperialista?» Risposta: «Imperialista? No, non penso proprio». Gli amici della Cina preferiscono parlare, nel suo caso, di un «forte protagonismo internazionale, politico ed economico». Che diplomatica delicatezza! Insomma, due pesi (imperialismi), due misure.
Chi scrive non si definisce un marxista né può vantare una laurea in economia, e questo lo mette nelle condizioni di richiamarsi senza temere di far brutta figura dinanzi alle Sacre Cattedre, ai classici dell’Imperialismo (vedi J. A. Hobson, R. Hilferding, Lenin, Rosa Luxemburg, ecc.) per elaborare un proprio concetto di Imperialismo. Ebbene, per farla breve, il caso cinese aderisce come un guanto al concetto di Imperialismo come viene fuori da quei “classici”, i quali giustamente individuano nella sfera economica il suo più forte e peculiare momento genetico (e momento egemone), quello che ha realizzato la “sinergia” di interessi economici e politici che è il tratto distintivo del Capitalismo giunto nella sua “fase matura”. Tra l’altro gli amici occidentali della Cina fanno finta di non vedere il cospicuo riarmo di quel Paese, e quando sono costretti a considerarlo, essi lo giustificano con l’aggressività dell’imperialismo altrui, a partire da quello americano e da quello giapponese. «La risposta della Cina, che non mi sembra essere una risposta aggressiva o imperialista, è stata questa apertura di una nuova “Via della Seta”. Che è una risposta all’accerchiamento aggressivo da parte dell’alta finanza statunitense o anglo-statunitense del Paese». Che faccio, rido? In ogni caso il “soft power” cinese è una balla propagandistica che non inganna nessuno.
Chiede l’intervistatore: «Quindi, per levare ogni ambiguità, secondo voi si tratta di un paese capitalista? Perché voi parlate di “capitalismo di Stato”, di un “capitalismo senza capitalisti” o di “un paese non capitalista ma con capitalisti”, parlate anche di “socialismo di mercato” o di “socialismo con meccanismi di mercato”… Alla fine, la Cina è un paese capitalista?». Risposta Herrera: «Forse lei la pensa così, noi siamo molto più prudenti. Diciamo che ci sono molti capitalisti, questo è sicuro, e molti meccanismi di mercato capitalistici. […] C’è anche una complessità che va rispettata, non è lecito giungere a conclusioni frettolose conclusioni a proposito della sua economia o ancor più della sua società». Va bene l’innegabile complessità della storia cinese e della società cinese; va bene che quando abbiamo a che fare con la Cina dobbiamo ragionare in termini di tempi lunghi, se non lunghissimi (millenari!), ma detto questo io credo che dopo sette decenni e, soprattutto, alla luce di una realtà così evidente che solo i ciechi (e l’ideologia com’è noto rende ciechi) non sono in grado di vedere, ebbene io penso che ciò posto un giudizio netto e documentato sulla natura sociale della Cina del XXI secolo sia tutt’altro che frettoloso, e che sia anzi necessario e urgente, per le implicazioni “classiste” e geopolitiche che un tale giudizio indubbiamente si porta dietro.
Il gatto cinese è nero esattamente come i topi che deve catturare. Questo è certamente poco, ma in compenso è sicurissimo, almeno per chi scrive.
Come tutti i tifosi del Celeste Imperialismo, Herrera ci tiene a sottolineare un concetto: «la Cina non è un nemico»: «Ormai le campagne mediatiche si fanno durissime. La Cina è sempre più presentata, nei confronti dell’Occidente in generale, come un concorrente; ci spaventano l’idea che la Cina intenda dominare il mondo, asservirci. Qualcosa di inquietante. Ma non è vero, la Cina non è un nemico». Ora, ci sono due modi di “declinare” il concetto di nemico: uno è quello borghese (capitalistico, nazionale, geopolitico), l’altro è quello proletario (di classe, anticapitalista, internazionalista, rivoluzionario). Ho usato una vecchia terminologia (borghese, proletario, ecc.) per farmi comprendere da un “umile economista marxista”. Ebbene, dal punto di vista che m’interessa sostenere, quello proletario (sempre nell’accezione marxiana, non meramente sociologica, del termine), la Cina è un nemico delle classi subalterne, esattamente come lo è l’Italia e tutti i Paesi di questo capitalistico mondo. Io sono nemico della relazione economica, politica e “culturale” tra Italia e Cina esattamente come sono sempre stato contro l’analoga relazione tra Italia e Stati Uniti. E ovviamente percepisco come mia nemica “di classe” anche l’Unione Europea, il polo imperialista che cerca di formarsi nel Vecchio Continente per resistere alla pressione degli altri centri dell’imperialismo mondiale: Cina, Stati Uniti, Russia.
Scrive Alberto Bradanini, consigliere commerciale all’ambasciata italiana a Pechino tra il 1991 e il 1996 e poi ambasciatore a Pechino nel periodo 2013-2015: «I capisaldi del socialismo con caratteristiche cinesi sono costituti dal dogma della sovranità nazionale, un ferreo controllo della società, la forte presenza dello Stato in economia, il controllo della finanza, delle grandi aziende/corporazioni e dei settori fondamentali del paese (proprietà e iniziativa private, giudicate utile a generare ricchezza in questo frangente storico, sono de facto attenuate e attentamente monitorate) e la proprietà pubblica della terra (sebbene talvolta il suo possesso sia gestito con metodi capitalisti). Quanto all’iniqua distribuzione della ricchezza, il Partito afferma che si tratta di una fase transitoria che verrà corretta strada facendo, sebbene i rischi di deriva capitalista oltre una soglia di sicurezza vengano giudicati da sinistra quanto mai concreti. Un deficit di attenzione ha riguardato l’ambiente, pesantemente sacrificato negli ultimi 40 anni dalle necessità della crescita, e il mondo del lavoro, le cui condizioni sono in Cina subordinate alle esigenze della produzione». Bisogna avere in testa un concetto assai deprimente (escrementizio) di “socialismo” per associare la descrizione appena riportata al “socialismo”, sebbene «reale» o «con caratteristiche cinesi». Qui di reale c’è sicuramente un Paese capitalistico, “senza se e senza ma”, giunto ai vertici della contesa mondiale per il potere totale: economico, tecnologico, scientifico, politico, ideologico, militare – la guerra “tradizionale” è la continuazione della guerra sistemica con altre modalità. Non ho scritto con altri mezzi, perché nell’epoca delle tecnologie “intelligenti” la distinzione tra mezzi “pacifici” e mezzi bellici è davvero esigua, sfuggente.
C’è da dire che Bradanini è un altro “storico” amico della Repubblica Popolare Cinese, e infatti suggerisce al nostro Paese di abbandonare ogni paura circa un’inesistente pericolo giallo e di approfittare delle buone intenzioni cinesi per allentare la presa degli Stati Uniti. «Dopo 74 anni dalla sconfitta della guerra e dalla conseguente perdita della sua sovranità politica, l’Italia resta un paese gregario, subordinato alle priorità di altri, in particolare Washington e Bruxelles. La storia insegna che anche le alleanze più solide possono essere rimesse in discussione quando cambiano le circostanze che le hanno generate. Nei rapporti internazionali infatti, sosteneva W. Churchill, non vi sono nemici eterni, ma solo interessi eterni». Non si potrebbe sintetizzare meglio il concetto di interesse nazionale, il quale deve fare i conti con l’esistenza della competizione sistemica tra le grandi potenze imperialistiche, e infatti Bradanini ci tiene a porre la distinzione tra sovranità e sovranismo. Oggi come si coltiva meglio l’eterno interesse nazionale dell’Italia e conquistare «un’agibilità politica a noi misteriosamente negata»: mantenendo saldo il rapporto con gli Stati Uniti o avvicinandosi alla Cina? Di certo la risposta non spetta a me: come si è già capito, io sono radicalmente nemico degli interessi nazionali.
«Stalin, secondo il Pcc [guidato da Deng Xiaoping], interpretava il marxismo in forma dogmatica, separando radicalmente capitalismo e socialismo, senza comprendere che il primo andava utilizzato come strumento per giungere al secondo. In buona sostanza il Pcc sembra riconoscere, come Lenin a suo tempo [vedi Nuova Politica Economica, 1921], i meriti di un certo capitalismo quale tappa intermedia sulla strada del socialismo, sebbene non manchi chi da sinistra mette in guardia da un’eccessiva deriva capitalista dalla quale sarebbe poi difficile riprendersi». Bradanini caratterizza la politica stalinista come «marxismo in forma dogmatica», mentre per me si tratta della forma in cui si manifestò la controrivoluzione in Russia nel momento in cui il potere sovietico, già stremato dalla guerra civile e dalla catastrofe economica a essa connessa, si trovò isolato sul piano internazionale. E quando parlo di «piano internazionale» alludo al proletariato internazionale, a cominciare da quello tedesco, il solo che avrebbe potuto dare ossigeno alla dimensione proletaria della Rivoluzione d’Ottobre. La NEP voluta da Lenin rappresentò l’estremo tentativo dei bolscevichi di conquistare tempo in attesa di una rivoluzione internazionale che, com’è noto, non arriverà. Lo stalinismo fu appunto l’espressione politico-ideologica di un processo sociale (non di una personalità più o meno contorta e dogmatica) che ho cercato di analizzare in uno studio di diversi anni fa: Lo scoglio e il mare. Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre – 1917/1924. Insomma, l’analogia proposta da Bradanini regge solo se si considera Socialismo, sebbene “reale” (e quindi imperfetto come tutte le cose reali di questo mondo), il reale Capitalismo/Imperialismo che a mio avviso si realizzò nella Russia di Stalin. In realtà quella analogia è infondata già nei suoi presupposti storico-sociali, visto che la Cina di Mao non conobbe alcuna rivoluzione proletaria.
Ritorniamo, per concludere rapidamente, a Rémy Herrera. «Quello che noi diciamo è che il futuro del socialismo non è irrimediabilmente compromesso con la caduta dell’Unione sovietica. Noi contestiamo questo consenso, intendiamo rompere questo tabù sotto le cui macerie, quelle della caduta del Muro e dell’Urss, è ancora seppellita la sinistra europea, occidentale, radicale. Non ne siamo ancora usciti: non solamente non ne abbiamo ancora fatto un bilancio, ma soprattutto questi tabù impediscono di rimettere l’esigenza del socialismo al centro della ricostruzione delle alternative. Il socialismo ritorna nel dibattito, ma c’è voluto del tempo». Avevo il sospetto che il Nostro “marxista” parlasse da un pulpito non esattamente originale e cristallino quanto a rigore “marxista”: quello dei nostalgici del “Socialismo reale”, del mondo segnato dalla “guerra fredda” e dallo “scontro di civiltà” tra “mondo libero” (sic!) e “mondo socialista” (strasic!). Per mia fortuna, non solo non ho mai fatto parte di quella «sinistra europea, occidentale, radicale» (leggi: filosovietica o/e filomaoista) finita sotto il famigerato Muro, ma l’ho sempre combattuta. Come ho scritto su un post dedicato al Venezuela, «Come ai tempi d’oro dello stalinismo trionfante, gli anticomunisti godono, e legittimamente, bisogna riconoscerlo, tutte le volte che possono usare la balla speculativa del “comunismo” per impartire alle classi subalterne d’Occidente questa semplice lezione: “Vedete che fine fanno, prima o poi, i Paesi che cadono nelle rozze quanto avide mani dei comunisti! Sopportate dunque le ingiustizie del Capitalismo, che qualcosa comunque vi dà, mentre in Venezuela, o a Cuba, si fa fatica anche a procurarsi la carta igienica”. Se i cosiddetti “comunisti” e tutti quelli che negli ultimi vent’anni hanno esaltato i sedicenti trionfi del “Socialismo del XXI secolo” non esistessero, i vari Porro e Salvini dovrebbero inventarli, così da poter continuare a gettare tanta sostanza escrementizia sul nome stesso di “Comunismo”». Il “marxista” mi obietterà: «Ma la Cina, a differenza del Venezuela, mostra al mondo un modello vincente!». Non c’è dubbio: un modello vincente di Capitalismo e di Imperialismo.
A proposito dei sanguinosi fatti cinesi del giugno 1989, c’è da dire che fu proprio per evitare al regime cinese una fine analoga a quella del regime sovietico che Deng Xiaoping, allora segretario del PCC e cavallo vincente su cui aveva puntato l’Occidente (il Carissimo Leader morirà nel 1997), a «ordinare ai militari inviati a reprimere le manifestazioni di piazza Tien An Men, di essere pronti a “spargere del sangue”» (Il Post), cosa che puntualmente accadde. Va ricordato che la sanguinosa repressine del movimento sociale cinese ordinata dai vertici dello Stato-Regime ebbe come non ultima causa l’apparizione, accanto alle organizzazioni studentesche, di primi embrioni di un combattivo associazionismo proletario indipendente da quello “patriottico” offerto dal Regime-Partito: una minaccia intollerabile ai tempi di sviluppo e ai ritmi di sfruttamento imposti dal progetto di fare della Cina del XXI secolo una potenza di rango mondiale tanto sul terreno della competizione economica, quanto su quello della contesa geopolitica. L’ascesa di una nazione nello scacchiere mondiale non è mai stata un pranzo di gala, tanto più se si tratta di una nazione così ricca di peculiarità (storiche, demografiche, ecc.) com’è indubbiamente quella cinese. Allora i Cari Leader tremavano al solo pensiero che il movimento sociale della metropoli potesse saldarsi con la lotta delle minoranze etniche e dei contadini poveri che vivevano in condizioni ancora assai miserabili alla periferia dell’Impero.
Concludo con un’amara confessione. La struttura logica del mio pensiero è purtroppo assai elementare, direi rozza, ed essa mi porta a ragionare in questi termini: dove c’è capitale, c’è Capitalismo. Infatti, il capitale non è una cosa, non è un mero strumento al servizio dell’economia (capitalista o “socialista” che sia): esso è in primo luogo l’espressione di peculiari (sul piano storico) rapporti sociali di produzione, i quali nelle società classiste sono rapporti di dominio e di sfruttamento. La “sovrastruttura” politica, istituzionale e ideologica non può non essere adeguata alla “struttura” economico-sociale che la esprime “dialetticamente” – e necessariamente. Mi scuso per questa trivialità adialettica e antimaterialistica, ma io la penso esattamente così, anche a proposito della Cina!
(*) Iniziata un po’ obtorto collo agli inizi degli anni Cinquanta per ottenere un minimo di dotazione capitalistica (capitali, materie prime, macchinario e tecnici) con cui avviare la modernizzazione della società cinese, e per superare l’isolamento internazionale, la modernizzazione capitalistica con caratteristiche sovietiche portò all’adozione del modello stalinista basato sulla collettivizzazione forzata delle campagne (con l’abbandono dell’iniziale distribuzione delle terre ai contadini) e la primazia dell’industria “pesante” su quella “leggera”. Dentro il Partito-Regime si confrontarono (si tratta di un eufemismo!) a lungo i due modelli di modernizzazione: quello, appunto, con caratteristiche staliniste e quello con caratteristiche maoiste. Mao parlò di una «lotta di classe» tra il Popolo (proletari, contadini, piccola borghesia) e la borghesia nazionale che cercava di rialzare la testa con l’aiuto del “revisionismo sovietico” e dell’imperialismo occidentale. Niente di più falso (e demagogico), naturalmente; la “sinistra radicale” europea, stufa dell’anchilosato e sempre più grigio modello sovietico, accolse invece con entusiasmo il Nuovo Verbo Maoista. Con Deng Xiaoping trionfò il modello Singapore: sviluppo capitalistico “selvaggio” e regime dittatoriale.
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