Quando il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare.
Capitalismo cognitivo, capitalismo delle piattaforme, capitalismo digitale, capitalismo predittivo, capitalismo di sorveglianza: sono molte le definizioni che economisti e sociologi usano per dar conto del Capitalismo del XXI secolo come si presenta ai loro occhi attraverso le sue continue e sempre più rapide trasformazioni. Ora è appunto la volta del cosiddetto Capitalismo di sorveglianza, definizione che forse dobbiamo al libro di successo scritto nel 2018 da Shoshana Zuboff (The Age of Surveillance Capitalism), docente di economia aziendale di Harvard e mille altre cose ancora. Ho scritto forse perché molti attribuiscono la primazia di quella definizione all’esperto e “guru” della sicurezza Bruce Schneier, il quale ha scritto che «la sorveglianza è il modello di business di Internet»; tra poco dovrebbe uscire il suo ultimo saggio dal titolo poco rassicurante: Clicca qui per uccidere tutti quanti. Gli odiatori di tutto e di tutti, così presenti e attivi sui social, ne stanno aspettando la pubblicazione con la bava alla bocca…
Al centro del capitalismo di sorveglianza la Zuboff colloca ovviamente l’Intelligenza Artificiale, la quale permette ai “sorveglianti” (Google, Facebook, ecc.) di acquisire dati e informazioni sulle persone, il più delle volte senza che esse ne abbiano la minima contezza, e di trasformare quei dati e quelle informazioni in preziosa materia prima “algoritmica” utile a confezionare profili digitali da collocare sul mercato – incluso quello politico-ideologico. Niente di nuovo, parrebbe di capire, e io stesso ne ho parlato in diversi post (1). Per dirla con Toni Negri (e cioè malissimo), siamo passati da un’accumulazione basata sull’estrazione di plusvalore a un’accumulazione centrata sull’estrazione di dati personali. Naturalmente il passaggio è puramente immaginifico, perché l’estrazione del plusvalore dal lavoro vivo (vampirizzato dal lavoro morto) «è una tremenda verità» anche nel XXI secolo, e senza questa vitale estrazione non sarebbe possibile nemmeno il “Capitalismo di sorveglianza”, qualunque cosa questa locuzione significhi.
Scriveva Marika Surace nel lontanissimo 2005: «L’espressione “società della sorveglianza” è stata spesso ascritta a David Lyon, sociologo canadese che ha studiato, in molte sue opere, gli effetti dei nuovi mezzi di controllo sociale, e delle loro interazioni con le più recenti tecnologie informatiche. In realtà, il primo a parlare di “società della sorveglianza”, è stato Gary T. Marx, in un articolo comparso nel 1985 sulla rivista The Futurist. Il sociologo statunitense analizza il forte cambiamento avvenuto nel passaggio dall’era moderna all’era postmoderna, in cui le nuove tecnologie assumono un ruolo principale nel nuovo assetto sociale, ed afferma senza timore che “grazie alla tecnologia informatica sta crollando una delle ultime barriere che ci separano dal controllo totale”. Gary T. Marx definisce questo fenomeno “New Surveillance”: lo scopo della sua analisi è proprio quello di marcare le differenze tra la sorveglianza sviluppatasi con la nascita degli stati moderni nel XIX secolo, quando la raccolta dati serviva allo stato per amministrare la nazione, e la sorveglianza contemporanea, quella in cui non solo lo stato, ma anche le aziende commerciali, le assicurazioni, agenzie ed organizzazioni dei più svariati settori raccolgono ed elaborano informazioni personali su chiunque, con lo scopo di controllarne e manipolarne le interazioni sociali, le preferenze, le opinioni» (2).
Questo solo per dire quanto lontano nel tempo rimonti il concetto di “Capitalismo di sorveglianza”, la cui prassi è ormai da anni sotto gli occhi di tutto, e quanto stretto sia il legame tra il controllo sociale ai fini della salvaguardia dello status quo sociale e il controllo sociale ai fini della mercificazione di tutte le attività umane. Detto altrimenti, il Sistema usa le stesse tecnologie per controllare e per profittare. Qui il concetto di sussunzione totalitaria della Società-Mondo (natura compresa) da parte del Capitale gira a pieno regime. Il «totalitarismo della sorveglianza» denunciato da molti analisti politici e da non pochi sociologi sparsi ai quattro angoli del mondo ha a mio avviso questo preciso significato politico-sociale.
Scrive Shoshana Zuboff: «Il capitalismo di sorveglianza tratta unilateralmente l’esperienza umana come materia prima libera per la traduzione in dati comportamentali. Sebbene alcuni di questi dati siano applicati al miglioramento del servizio, il resto viene dichiarato come un avanzo comportamentale proprietario, alimentato in processi di produzione avanzati noti come “intelligenza artificiale” e fabbricati in prodotti di previsione che anticipano ciò che farai ora, presto e dopo . Infine, questi prodotti di previsione sono scambiati in un nuovo tipo di mercato che io chiamo mercati dei futures comportamentali. I capitalisti di sorveglianza sono cresciuti immensamente ricchi da queste operazioni commerciali, poiché molte aziende sono disposte a scommettere sul nostro comportamento futuro». Qui fa capolino il concetto di “Capitalismo predittivo”, il quale si sposa benissimo con il concetto di sicurezza predittiva (repressione preventiva dei potenziali reati o precrimine), come già segnalavo su un post del 2014: «Il giornalista Paolo Bottazzini, esperto in tecnologie intelligenti applicate al controllo sociale, è sicuro: “Minority Report è realtà. La polizia statunitense prevede i crimini”» (L’algoritmo del controllo sociale). Oggi è la Cina che sul terreno della sicurezza predittiva si colloca decisamente all’avanguardia mondiale: rinvio al post Riflessioni orwelliane. Qui mi limito a segnalare quanto si dibatte in sede di riflessione politica e sociologica circa l’impatto immediatamente politico che le tecnologie cosiddette intelligenti hanno al contrario delle tecnologie del periodo “fordista”. Si osserva in particolare che mentre la tecnologia “stupida” di una volta non metteva in crisi la democrazia parlamentare e i suoi tradizionali soggetti (partiti, sindacati, “corpi intermedi” di vario tipo), la tecnologia “intelligente” dei nostri tempi starebbe invece per ribaltare completamente il vecchio scenario, rendendo obsoleta l’architettura politico-istituzionale dell’Occidente come l’abbiamo conosciuta fino a oggi. In Italia ovviamente si cita il caso della famigerata piattaforma Rousseau che, com’è noto, fa capo alla Casaleggio & Associati. In un’intervista di qualche tempo fa Davide Casaleggio teorizzava senza giri di parole il superamento della democrazia rappresentativa: «I modelli novecenteschi stanno morendo, dobbiamo immaginare nuove strade e senza dubbio la Rete è uno strumento di partecipazione straordinario. Per questo la cittadinanza digitale deve essere garantita a tutti. […] Il superamento della democrazia rappresentativa è quindi inevitabile» (La Verità). Il sogno di Casaleggio è vedere tutti i pesci che nuotano nel Web finire dritti dritti nella sua Rete, dove tutti sono uguali e solo pochissimi sono più uguali degli altri, come i maiali della nota Fattoria. La chiamano “democrazia diretta” – dai maiali di cui sopra. Di certo chi scrive non verserà democratiche lacrime sul «superamento della democrazia novecentesca».
«Sono trent’anni che si parla di Grande Fratello, ben prima delle nuove tecnologie. Direi che il tema risieda altrove, non nel progresso tecnologico»: qui Casaleggio dice, suo malgrado, il vero.
Scrive James Bridle: «La litania di esperienze appropriate viene ripetuta così spesso e così estesamente che siamo diventati insensibili, e così dimentichiamo che non si tratta di una visione distopica del futuro, ma del presente. Originariamente intento a organizzare tutta la conoscenza umana, Google ha finito per controllare tutti gli accessi ad esso; facciamo una ricerca e ci perquisiamo a turno. Partendo solo per connetterci, Facebook si è trovata in possesso dei nostri più profondi segreti. E nel cercare di sopravvivere commercialmente oltre i loro obiettivi iniziali, queste aziende si sono rese conto di stare seduti su un nuovo tipo di risorsa: il nostro “surplus comportamentale”, la totalità delle informazioni su ogni nostro pensiero, parola e azione, che potrebbero essere scambiate a scopo di lucro su nuovi mercati basati sulla previsione di ogni nostra esigenza o sulla sua produzione» (The Guardian). In effetti scandalizzarsi per l’uso capitalistico che della nostra vita privata fanno i colossi dell’industria “esistenziale” (Amazon, Google, Facebook, Microsoft, Apple) è davvero ingenuo, e piuttosto l’attenzione critica andrebbe posta sull’estrema facilità con cui siamo disposti a regalare a quei colossi la materia prima che essi trasformano in prodotti commerciali. E a mio modesto avviso non vale, o comunque non vale più, il discorso secondi cui le persone che usano i social sono ignari di quel che si muove nel retroscena digitale: magari non conosciamo i dettagli tecnici della cosa, ma ormai tutti noi abbiamo capito che in cambio di un qualche servizio gratuito che riceviamo offriamo qualcosa a chi gentilmente ce lo “regala”. E quel qualcosa non può che essere la massa di dati che ogni giorno immettiamo sul Web. È ingenuo e abbastanza confortante (e perciò stesso sbagliato) pensare che si tratti solo di ignoranza da parte dell’utente, e che quindi per il pensiero “critico” si tratterebbe solo di informarlo circa l’uso capitalistico della sua cosiddetta privacy. Non è così: siamo tutti complici più o meno zelanti del “Capitalismo di sorveglianza”; sappiamo che dobbiamo pagare un prezzo (non ci vuole un Adam Smith o un Karl Marx per capire che nel Capitalismo nessun pasto è gratis), e oggi siamo disposti a pagarlo, per poi magari odiare a morte i padroni dei big data quando leggiamo notizie circa i loro stratosferici guadagni. Sotto questo aspetto Hai Varian, capo economista di Google e tra i padri della microeconomia contemporanea, ha buon gioco nel dire che «Le persone sono ben contente di vedere la loro privacy invasa […] purché ricevano in cambio quello che desiderano […]: uno sconto su una polizza assicurativa o sanitaria, un mutuo ad un tasso più conveniente. […] Tutti sono pronti ad essere tracciati e monitorati poiché i vantaggi attesi in termini di risparmio, efficienza e sicurezza sono enormi».
In questo contesto atomizzazione degli individui, registrato dagli analisti sociali come «individualismo sfrenato», e loro massificazione («siamo diventati materia prima digitale») sono le due brutte facce di una stessa medaglia, e la cosa non può non avere precisi riscontri anche sul terreno della politica e della «psicopolitica», come il filosofo Byung Chul Han ha definito la pratica delle fake news, dei pregiudizi e delle minacce che si fanno l’un contro l’altro armati (per adesso solo di computer) gli «atomi digitali».
«La storia principale è che non si tratta tanto della natura della tecnologia digitale quanto di una nuova forma mutante di capitalismo che ha trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi. Il nome che Zuboff ha dato alla nuova variante è il “capitalismo di sorveglianza”. Funziona fornendo servizi gratuiti che miliardi di persone utilizzano allegramente, consentendo ai fornitori di tali servizi di monitorare il comportamento di tali utenti in modo sorprendente – spesso senza il loro esplicito consenso». J. Naughton, (The Guardian) Ma a ben vedere, da che esiste il moderno Capitalismo «la storia principale» non è mai stata, in primo luogo, la «natura della tecnologia», quanto soprattutto il suo uso capitalistico. Non è che il capitalismo dei nostri giorni ha finalmente trovato il modo di usare la tecnologia per i suoi scopi, una lettura piuttosto ingenua (a testa in giù, avrebbe detto Marx) dei processi sociali cui assistiamo su scala planetaria; è che il Capitale come peculiare rapporto sociale produce sempre di nuovo la tecnologia a immagine e somiglianza della sua insaziabile fame di profitto. Il Capitale promuove la ricerca scientifica per espandere continuamente il suo potere di dominio sugli uomini, sulle cose e sugli animali: l’ha sempre fatto e continuerà a farlo in modo sempre più stringente, capillare, razionale, scientifico, in una sola parola: disumano.
A proposito di animali! Dall’Internet degli uomini siamo passati all’Internet delle cose, e adesso è il momento, appunto, dell’Internet degli animali: «Le mucche sono un buon esempio di queste opportunità. Usando il sistema di monitoraggio di Estrus di Huawei per connettere una mucca a Internet, gli allevatori possono controllare meglio la salute dell’animale e il tempo di deposizione dello sperma, consentendo al tempo stesso una maggiore libertà di vagabondare senza preoccuparsi del pericolo. Utilizzando la rete NB-IoT, il dispositivo di monitoraggio della vacca può funzionare per cinque anni con una batteria 5400mAH. Ci sono ovviamente altri benefici per l’animale e l’agricoltore, e Hu ha evidenziato che ogni vacca collegata nello studio ha fruttato 420 dollari extra per l’agricoltore nella produzione di latte» (J. Davies, Telecoms). Sono davvero commosso per i «benefici» arrecati dalle nuove tecnologie intelligenti agli animali manipolati dal Capitale . Scrive Ugo Bertone: «Non meno impegnativa la scommessa di Wang Yufeng: connettere, entro il 2025, un miliardo di vacche. Un’impresa faraonica ma inquietante: dalle vacche agli uomini il passo può essere breve» (Il Foglio). Ma il passo è già stato compiuto: tutti siamo connessi in qualche modo alla rete capitalistica! Per Wang Yufeng, responsabile degli X Lab di Huawei, «Negli ultimi venti anni i progressi della tecnologia ci hanno permesso di connettere gli esseri umani. Ora ci prepariamo al passo successivo: vogliamo che sia l’intelligenza artificiale a prendere il controllo del mondo fisico. Droni e robot devono essere connessi e autonomi. La parola d’ordine è connettività per tutti» (Il foglio). Ecco, appunto.
Detto en passant, la vacca “intelligente” mi ha fatto venire in mente un passo marxiano, questo: «Il capitale preso nell’unico rapporto in cui genera plusvalore […] smunge plusvalore tramite la costrizione fatta sulla forza lavorativa, vale a dire sull’operaio salariato» (3). Smunge… Sotto il plumbeo cielo dei rapporti sociali capitalistici la vacca “intelligente” e l’operaio salariato condividono lo stesso pessimo destino.
«Le aziende hanno deciso che siamo gratis, cioè che possono prendere la nostra esperienza gratuitamente e tradurla in dati comportamentali. Così siamo diventati la loro materia prima» (S. Zuboff). La tecnoscienza è sempre stata al servizio del Capitale, che se ne serve per rendere più produttivo il lavoro, per inventare a getto continuo nuove e più promettenti occasioni di profitto, per fare della stessa esistenza degli individui un bio-mercato, per trasformare ogni cosa in una risorsa economica: dal “capitale tecnoscientifico” al “capitale umano”, dal “capitale natura” al “capitale cultura”, e via di seguito – una via che conduce ossessivamente l’umanità in direzione del denaro, il Moloch che decide la vita di tutti i suoi sudditi. Per dirla con Jamie Davies, «La tecnologia è il burattino, ma il capitalismo di sorveglianza è il burattinaio». Non c’è dubbio: il «burattinaio» è il Capitale.
«Il capitalismo della sorveglianza ha preso l’esperienza umana e l’ha trasformata in qualcosa da comprare e vendere sul mercato» (S. Zuboff). Proprio così. Mercificare l’intero spazio esistenziale degli individui è sempre stato un imperativo categorico per il Capitale, e nel XXI secolo questo principio si mostra assai più che nel passato nella sua radicale essenza disumana. Il nostro stesso corpo (nella sua totalità e unità psicosomatica) sta diventando una sorta di touch screen a disposizione del Capitale. Ma la “colpa” non è della tecnoscienza che avrebbe reso possibile la realizzazione della cattiva ”utopia” capitalistica, ma del Capitale, il quale per un verso orienta la tecnoscienza in direzione di invenzioni che – ovviamente – sorridono ai suoi interessi, e per altro verso ha acquisito nel tempo la capacità di sfruttare ogni invenzione e ogni evento che non ne mettono in discussione l’esistenza in un’occasione, prima solo potenziale e presto o tardi fattuale, di profitto. È nella maligna (disumana) natura del Capitale muoversi in quel modo, ed è quindi ingenuo attendersi da questa società altro che una sua totale mercificazione (a iniziare dalle attività lavorative) e una sua trasformazione in una gigantesca (planetaria!) occasione di profitti per chi ha la fortuna di poter investire capitali in qualche business. Più che di Intelligenza Artificiale dovremmo piuttosto parlare di Intelligenza del Capitale.
Qui parlo di Capitale in primo luogo come rapporto sociale e come potenza sociale che, marxianamente, domina sulla vita di tutti gli individui, i quali non controllano razionalmente le fonti vitali della loro esistenza, ma ne sono piuttosto controllati. Chi paventa il «potere autonomo delle macchine» non si accorge che quell’autonomia fa capo al Moloch capitalistico, il quale si serve appunto delle “macchine intelligenti” per rafforzare, espandere e approfondire sempre di nuovo il suo dominio sugli uomini, sulla natura e sulle cose.
Per Sebastiano Bagnara, docente di Human Factors all’Università di San Marino ed esperto di interazione uomo-macchina, i principi fondamentali della «roboetica, l’etica dei robot» (la quale segna i confini entro cui utilizzare i robot senza perderne il controllo), «erano già impliciti nei principi della robotica di Asimov, il grande romanziere di fantascienza che ne scrisse negli anni Cinquanta: i robot potevano esistere solo al servizio delle persone. Ma sarà sempre così?» (Offida.it). Fin dove è possibile, si chiede sempre Bagnara, spingere l’autonomia delle macchine intelligenti senza correre il rischio, appunto di perderne il controllo e ricevere un danno, anziché un vantaggio, dal loro impiego “a 360 gradi” (dalla produzione di beni e servizi alla produzione di salute, benessere e cultura)? Risposta: «Quello che possiamo fare non è tanto resistere al sistema e uscire dai social media, ma recuperare la dimensione riflessiva del pensiero, non accettare acriticamente ciò che accade e coltivare il dibattito su come vogliamo usare questi software e per quali scopi. Perché esercitare il pensiero aiuta a proiettare anche nuove realtà possibili». La risposta non eccelle per originalità e in linea di principio appare perfino condivisibile, almeno a chi scrive. Ma già l’acritica accettazione del concetto di roboetica la dice lunga su quanto sia oltremodo difficile praticare un pensiero autenticamente critico sull’uso sociale della tecnologia, e su quanto il feticismo tecnologico, che cammina sempre insieme al pensiero reificato, sia profondamente radicato nella nostra testa.
Il linguaggio reificato e feticizzato del XXI secolo trova forse nei discorsi intorno alla cosiddetta “Intelligenza Artificiale” la sua massima espressione. Le macchine non pensano, le macchine calcolano, computano in base a istruzioni (software) e a meccanismi tecnici (hardware) progettati, disegnati, impostati e costruiti dall’uomo per conseguire determinati obiettivi. Si può parlare di “intelligenza” e di “pensiero” artificiali solo al prezzo di stressare oltremodo il linguaggio e di sostituire alla cosa reale (un calcolo più o meno complesso e un movimento elettromeccanico che lo rende possibile e fruibile) un’espressione analogica («la macchina sta pensando») che dice la verità, appunto, solo intorno all’alto tasso di feticismo e di reificazione raggiunto dal pensiero in questo periodo storico.
Come dicevo sopra, tutto il chiacchierare intorno all’Intelligenza Artificiale che rischierebbe di dominare l’umanità cela, e al contempo rivela, il reale dominio delle potenze sociali capitalistiche sull’uomo, il quale non solo non controlla quelle potenze, ma le subisce in un grado sempre più forte e stringente. Il fantascientifico dominio del robot “intelligente” rinvia direttamente al realissimo dominio totalitario del Capitale sugli uomini e sulle cose. Il feticismo si deposita sul linguaggio. Il linguaggio degli algoritmi è al servizio della dura grammatica e della ferrea logica del rapporto sociale capitalistico: altro che “Algocrazia”!
(1) Siamo uomini o “profili”?; Sul potere sociale della scienza e della tecnologia; Robotica prossima futura. La tecnoscienza al servizio del dominio; Capitalismo cognitivo e postcapitalismo. Qualunque cosa ciò possa significare; Capitalismo 4.0. tra “ascesa dei robot” e maledizione salariale; Accelerazionismo e feticismo tecnologico.
(3) K. Marx, Il Capitale, III, pp. 1470-1772, Newton, 2005.