STATO DI DIRITTO E DEMOCRAZIA TRA MITO E REALTÁ

zarGli economisti borghesi vedono soltanto che
con la polizia moderna si può produrre meglio
che, ad es., con il diritto del più forte. Essi
dimenticano soltanto che anche il diritto del
più forte è un diritto, e che il diritto del più
forte continua a vivere sotto altra forma nel
loro “Stato di diritto” (K. Marx).

Come se non si sapesse da lungo tempo che
il diritto non dà niente, ma solo sanziona ciò
che esiste (K. Marx).

La regolamentazione dei rapporti sociali assume in
misura maggiore o minore carattere giuridico. […]
Come la ricchezza della società capitalistica assume
la forma di una immane raccolta di merci, così la
società stessa costituisce una catena infinita di
rapporti giuridici (E. B. Pašukanis).

Il diritto è nulla senza un apparato capace
di costringere all’osservanza delle sue norme (Lenin).

La tradizione degli oppressi ci insegna che
lo “stato di emergenza” in cui viviamo è la regola.
Dobbiamo giungere a un concetto di storia che
corrisponda a questo fatto (W. Benjamin).

«Nell’ostilità la sola relazione possibile
è la relazione di dominio» (G. W. F. Hegel).

Qual è la realtà dello Stato di diritto e della democrazia, al di là di ogni loro ideologizzazione e mitizzazione? Nelle pagine che seguono tenterò un approccio critico-radicale alla scottante, e vecchissima, “problematica”. La cosa mi appare quanto più necessaria oggi, dopo il dibattito che si è aperto nella cosiddetta intellighentia occidentale in seguito alle note vicende terroristico-repressive francesi. Alludo ovviamente allo stato d’emergenza proclamato in Francia dopo gli attentati del 13 novembre.

La sospensione o la cancellazione della cittadinanza francese alle persone condannate per terrorismo internazionale e gli altri provvedimenti repressivi probabilmente non eserciteranno alcun effetto deterrente sui potenziali terroristi di “stampo islamista”, i quali, è realistico pensare, hanno cancellato da tempo dal loro cuore e dalla loro mente una cittadinanza divenuta odiosa (gli affiliati al Califfato Nero bruciano i loro vecchi passaporti durante il rito di giuramento alla Misericordiosa Causa), mentre in compenso essi appaiono misure molto efficaci nei confronti dei giovani immigrati arabi di seconda e terza generazione che vivono nelle periferie delle città francesi. Naturalmente si colpisce un segmento del proletariato francese per ammonire tutti gli altri. Si può parlare, a questo proposito, di terrorismo di Stato? Mentirei al lettore se gli suggerissi una risposta negativa. L’ex ministro della Giustizia Christiane Taubira si oppone all’inasprimento delle leggi speciali emanate dal governo francese dopo i fatti sanguinosi di novembre, ma riconosce al Presidente Hollande il diritto di colpire con forza «il nemico esterno»: una dialettica (o gioco delle parti) tutta interna alla politica borghese, la quale è abbastanza intelligente da crearsi un’opposizione interna a uso e consumo del controllo sociale. Gli anticapitalisti possono usare questa dialettica, queste contraddizioni in seno alla classe dirigente? E in che senso? in quali modi?

«È nelle crisi che riveliamo chi siamo», scrive giustamente Lucio Caracciolo riflettendo su come i Paesi dell’Unione europea stanno reagendo alle sfide poste dalla minaccia terroristica e dalla crisi migratoria; per poi aggiunge una considerazione abbastanza deprimente (beninteso per i sostenitori del “sogno europeista”, non per chi scrive): «C’è da temere per il nostro futuro, se siamo quelli che sembriamo essere oggi» (Limes, 29 gennaio 2016). Si tratta di capire la natura della minaccia che incombe sulle nostre teste. Come ho scritto in più occasioni, terroristica è in primo luogo la società capitalistica considerata nella sua dimensione planetaria: è da questa prospettiva che approccio la complessa fenomenologia del dominio.

Solo adesso trovo il tempo di sistemare alla meglio degli appunti presi nelle ultime settimane seguendo l’intenso dibattito che si è sviluppato in quella che un tempo si chiamava intellighentia occidentale dopo l’attivismo legislativo “antiterroristico” dei vari governi europei, naturalmente quello francese su tutti, seguito agli attentati parigini del 13 novembre 2015. Si tratta di poche – e certamente confuse – riflessioni intorno a un tema (cosa occorre intendere per Stato di diritto) che di tanto in tanto mi piace frequentare nonostante difetti di “competenze specifiche” in materia di scienza giuridica. (Del resto, dal punto di vista delle “competenze specifiche” non potrei scrivere di alcunché. Il lettore è dunque avvertito!). Sia però detto a mia parziale discolpa che più che il “rigore scientifico” mi sta a cuore conquistare, preferibilmente in dialogo con chi legge, un punto di vista autenticamente radicale (la radice è, marxianamente, l’uomo che vive in una precisa dimensione storico-sociale), su questa come su qualsiasi altra “problematica” che mi capita di affrontare. Mettiamola così: l’impegno c’è; quanto al risultato non spetta a me giudicare – anche perché come il personaggio di Orazio inclino a una certa auto indulgenza: «Io, quanto a me, mi perdono».

Scherzi a parte, si tratta comunque di un primo inquadramento politico-teorico, diciamo così, di un primo approccio all’importante questione, la quale non mancherà certo di interessanti sviluppi già nel breve periodo. Chiedo venia per le eventuali ripetizioni sfuggite alla mia attenzione; ricordo ancora una volta che il lettore ha davanti agli occhi degli appunti, non un testo che abbia la benché minima pretesa di “organicità” e, tanto meno, di completezza.

Ci sono, a mio avviso, due differenti e diametralmente opposti modi di contrastare le politiche repressive degli Stati: uno è quello che si basa sulla difesa dello Stato di diritto, con quel che ne segue in termini di rivendicazione della «vera democrazia», dei «diritti inalienabili dell’uomo», della «separazione dei poteri» e così via; l’altro modo punta piuttosto a focalizzare l’attenzione sulla radice sociale di quelle politiche e sul reale contenuto dello Stato di diritto, con ciò che ne segue circa il significato da attribuire ai cosiddetti diritti umani ecc. Il primo modo di approcciare il problema a me pare che, certo in ottima fede, porti tanta acqua al mulino della conservazione sociale, non sia cioè in grado di opporsi efficacemente ai soggetti politici che, del tutto legittimamente (con diritto), si pongono il problema di come affrontare le sfide, le contraddizioni e le opportunità che la prassi sociale capitalistica, considerata nella sua dimensione mondiale, continuamente genera in vista della continuità del Dominio.

***

Scrive Antonella Soldo (sulla scorta delle tesi sostenute da Giorgio Agamben sullo stato di emergenza): «Ammesso che l’Europa vinca questa “guerra” – proprio così l’ha chiamata il presidente Hollande – i suoi stati non ne usciranno liberi e democratici come sono stati, nonostante tutto, finora. Essi saranno diventati, piuttosto, come dicono alcuni studiosi americani, dei security state: completamente incentrati su una diversa gestione degli effetti e un diverso esercizio del potere sugli uomini e sui corpi, ma assolutamente incapaci di incidere sulle cause. Ma un security state non è più uno stato di diritto» (1). Detto che personalmente non condivido la stessa positiva («nonostante tutto»!) opinione dell’autrice circa le “democrazie reali” europee, aggiungo che non sono poi così sicuro sul fatto che il «security state» realizzi un superamento dello Stato di diritto. Anzi, sarei orientato piuttosto verso la tesi opposta, e cioè che anche il security state, «nonostante tutto», “cade” nella – cattiva – dimensione dello Stato di diritto. E qui naturalmente prende corpo il rognoso, e vecchissimo, problema intorno al significato che sarebbe opportuno attribuire al sintagma Stato di diritto. Per non parlare del diritto nella sua astratta determinazione! Nel suo saggio del 1921, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato, Pëtr Ivanovic Stučka ricordava le ironiche parole di Kant: «Ancora cercano i giuristi una definizione per il loro concetto di diritto»; per poi aggiungere (il “giurista” bolscevico, non il filosofo di Königsberg): «Sembrerebbe in realtà che, da quando è sorta nella scienza giuridica una tendenza sociologica, una cosa sia stata definitivamente stabilita: che cioè sono proprio i rapporti sociali ad essere diritto. Ma questa tendenza sociologica, là dove si è sviluppata fino ad attingere il concetto di rapporto sociale e di ordine sociale, cozzò contro il concetto di società o contro il fantasma della lotta di classe e venne così nuovamente ridotta al più completo silenzio» (2). Un destino che la scienza sociale borghese ha visto ripetersi in molti ambiti di ricerca (dall’economia alla psicoanalisi, dalla sociologia all’antropologia, ecc.) via via che si sono precisati i caratteri di classe del regime sociale venuto fuori dalla rivoluzione antifeudale.

Modestissimo scolaretto del “giurista” di Treviri, anch’io tendo a definire il diritto nei termini appena visti. L’obiettivo di questo scritto è appunto quello di contribuire a una definizione dello Stato di diritto elaborata dal punto di vista classista-rivoluzionario (3). So già che il risultato non sarà degno dell’ambizioso progetto, ma ciò non mi impedisce di misurarmi con la preziosa “problematica”.

Cercherò di articolare e approfondire le quattro tesi che seguono:

1) È nello stato d’eccezione, che dètta al Sovrano decisioni altrettanto eccezionali, che lo Stato (a prescindere da ogni sua definizione politico-giuridica) ha modo di dispiegare tutta la sua efficacia “operativa” e di mettere a nudo la sua più intima natura – di classe.

2) Lo Stato di diritto, anche nella sua “declinazione” progressista, presuppone rapporti sociali di dominio e di sfruttamento, esso ne rappresenta la continuazione con altri mezzi, mezzi idonei a legittimarli e a difenderli. In questo peculiare senso lo Stato, qualunque sia la sua contingente fenomenologia politico-istituzionale, è sempre di diritto, una volta ammessa una declinazione forte (“sostanzialista”) del concetto di diritto.

3) Il regime democratico-parlamentare rappresenta il miglior travestimento politico e ideologico dell’oppressione sociale. Anticipo subito una risposta all’obiezione che una simile tesi suscita spontaneamente («È dunque da preferirsi il regime autoritario-totalitario?»). In linea di principio, dal punto di vista critico-radicale, ossia dalla prospettiva che mi sforzo di guadagnare, è preferibile solo l’autonomia di classe, cioè a dire la coscienza dei dominati circa la loro pessima condizione sociale e le loro eccezionali potenzialità rivoluzionarie in grado di ribaltare radicalmente questa condizione. La mancanza, ormai da moltissimo tempo, di questa coscienza è un elemento centrale di ogni seria riflessione intorno allo stato dell’arte del dominio. Come la storia lontana e recente della moderna società capitalistica insegna, non esiste un regime politico-istituzionale che permetta alle classi dominate di guadagnare con più facilità in forza e coscienza, così da giungere al salto qualitativo rivoluzionario. È altresì evidente, almeno agli occhi di chi approccia la storia in quanto  «è storia di lotte di classi», che solo l’antagonismo politico e sociale dei senza riserve può favorire il guadagno di cui sopra, a prescindere dal contingente assetto politico-istituzionale dello Stato. Anche da questo punto di vista democrazia e fascismo, esercizio normale del dominio politico e stato d’emergenza mi appaiono come le facce di una stessa medaglia, come due momenti nient’affatto opposti ma anzi molto “sinergici” e complementari, come modi di essere e di articolarsi della stessa cattiva Cosa. Sotto questo aspetto assai significativo, anche per il merito della questione (il contratto nazionale di lavoro), mi appare quanto scrisse Max Horkheimer nell’autunno del 1943: «Il fascismo ha rivelato solo ciò che era già insito nel liberalismo: la natura illusoria del contratto di lavoro come un accordo tra partner ugualmente liberi. Sarebbe un grave errore teorico denunciare il contratto nell’epoca del moderno totalitarismo come mera formalità, e sottolineare invece la sua genuina autenticità sotto il liberalismo. In entrambe le fasi del sistema economico lo scopo del contratto può essere considerato il mantenimento della stessa disuguaglianza di base che è celata dal linguaggio democratico» (4).4) Il regime democratico è la formazione politico-istituzionale che meglio consente il pieno dispiegamento del peculiare diritto borghese, il cui presupposto materiale è da ricercarsi nello scambio mercantile che stringe in una serie di reciproche obbligazioni non solo i soggetti economici “ufficiali”, ma l’insieme degli individui, come è anche evidente dalla continua evoluzione del contratto matrimoniale (5).

Mi rendo perfettamente conto che la mia tesi “sostanzialista” potrebbe venir ripresa entusiasticamente anche dai “nipotini” del fascismo e del nazismo, i quali esattamente come i progressisti cullano idee molto feticistiche sul cosiddetto Stato di diritto, e difatti essi non sono disposti a rinunciare a quel contenitore politico-ideologico che i sinistri invece gli negano; ma questo si spiega benissimo appunto con la universale superstizione per lo Stato, Stato che per me ha lo stesso urticante e odioso significato sia che venga declinato dai “sinistri” («solo il nostro Stato democratico è uno Stato di diritto!») sia che venga declinato dai “destri” («come dice il compagno Isaia, anche il nostro Stato autoritario è uno Stato di diritto!»). Detto per inciso, giusto i destri possono considerarmi un “compagno”, magari di strada…

Per quel che mi riguarda, cospiro contro il Leviatano in quanto tale, non contro una sua particolare e contingente fenomenologia. Come scriveva Marx nel 1844, «Solo la superstizione politica immagina ancora che la vita civile debba di necessità essere tenuta unita dallo Stato, mentre, al contrario, nella realtà, lo Stato è tenuto unito dalla vita civile» (6). E la cosa non è tanto più vera oggi, dopo 170 anni di sviluppo capitalistico mondiale? Ecco, si tratta di passare dalla «vita civile» alla vita semplicemente umana.

Come si vedrà, propongo un’accezione dello Stato di diritto fondata sui rapporti sociali dominanti nella nostra epoca storica (borghese, capitalistica), e non su una particolare e contingente fenomenologia politico-istituzionale dello Stato.

Nel corso di un’intervista rilasciata l’11 dicembre 2015 a Radio France Inter il Premier francese Manuel Valls ha dichiarato che lo «stato d’emergenza è lo Stato di diritto», e che l’obiettivo di costituzionalizzarlo per renderlo più adeguato alle sfide lanciate dal terrorismo jihadista alla Francia si inquadra perfettamente dentro la cornice dello Stato di diritto. Secondo Valls è sbagliato contrapporre lo stato d’emergenza, e lo stesso stato d’eccezione, allo Stato di diritto. Sebbene da una prospettiva radicalmente diversa, anzi radicalmente opposta, mi sento di condividere la sostanza della tesi “decisionista” di Valls. «Stiamo facendo uso del quadro giuridico dello Stato di emergenza», ha continuato il Premier francese, «per interrogare le persone che fanno parte del movimento jihadista radicale e tutti coloro che sostengono l’odio verso la Repubblica». Un momento! «Tutti coloro che sostengono l’odio verso la Repubblica»: potenzialmente anche chi scrive può dunque finire nel mirino dello Stato di diritto francese, e non a caso su un post del 19 novembre scrivevo con ironia: «A proposito, se scrivo Abbasso la République (bourgeoise)! sono passibile di estradizione verso la Patria dei droits de l’homme?» Tra l’altro la minaccia repressiva contro «Tutti coloro che sostengono l’odio verso la Repubblica» dimostra quanto sia illusorio sperare che l’attenzione poliziesca-giudiziaria del Leviatano possa esaurirsi dentro il perimetro della «lotta al terrorismo», come peraltro insegna la stessa esperienza italiana degli “anni di piombo”.

In effetti, lo stato di emergenza proclamato in Francia dopo gli attentati del 13 novembre 2015 è apparso a molti come una nuova forma di regime politico che trova la propria legittimazione nella difesa della democrazia e dei diritti umani in una situazione eccezionale. Ancorché politicamente strumentale, la propaganda governativa la dice lunga in primo luogo sulla natura della cosiddetta democrazia e dei cosiddetti «diritti umani» nella società divisa in classi sociali, e che solo per questo non può conoscere altro potere che non sia quello di classe (la democrazia è solo una delle diverse forme che può assumere questo potere), e altri cosiddetti «diritti umani» che non siano chiamati a coprire, piuttosto maldestramente occorre dire, una realtà sociale che trasuda disumanità da tutti i pori. La cosa naturalmente non appare così ovvia alla quasi totalità della popolazione, in Francia come in altri Paesi occidentali; sempre più individui sembrano anzi ben disposti a chiedere al Leviatano protezione da quegli attacchi del “nemico” che si giustificano solo con la realtà sociale e con la politica estera di quegli stessi Paesi. Naturalmente il Mostro è ben contento di offrire la sua paternalistica protezione a cittadini ridotti all’impotenza per ciò che riguarda le famose leve del comando. Non si tratta, è bene precisarlo per non dare l’impressione che anche chi scrive partecipi al miserrimo pianto dei nostalgici della “vera democrazia” di una volta (quale?, quando?), di un’impotenza recente, ma di un dato strutturale inerente alla stessa natura classista della vigente società.

Il processo sociale, considerato sempre alla scala mondiale, più crea insicurezza, precarietà, crisi economiche, violenza e quant’altro (oltre che “fluida” la vita si fa sempre più effimera e pericolosa), e più sollecita le persone che ne sono vittime a invocare appunto l’intervento protettivo dello Stato: per questo non deve stupire nessuno se i famosi sondaggi d’opinione attestano che «sempre più persone sono disposte a tollerare maggiore sorveglianza e a fare qualche concessione rispetto ai propri diritti alla privacy» (Osservatorio sulla Repressione). La cosa, peraltro, era apparsa oltremodo chiara già negli Stati Uniti dopo l’11 Settembre 2001. In Italia oggi giustamente si parla di «populismo giuridico» in riferimento a quei provvedimenti normativi destinati non tanto a sanzionare comportamenti “penalmente rilevanti”, quanto piuttosto a venire incontro al senso di insicurezza “esistenziale” sperimentato dalla gente. È il caso del reato d’immigrazione clandestina («La logica vorrebbe la sua depenalizzazione, ma nella componente sicurezza l’elemento psicologico e di percezione è molto importante»), o del reato di omicidio stradale (dalla colpa al dolo), le cui nefaste conseguenze sulla vita dei futuri “criminali della strada” (criminali in forza di legge) e sulle loro famiglie sono abbastanza intuibili – peraltro senza autorizzare legittime aspettative circa significativi miglioramenti nella casistica dei morti a causa di incidenti stradali. «Il disegno di legge», ha dichiarato il deputato del PD Alfredo Bazoli, «si è reso necessario per la acuta sensazione di ingiustizia che episodi di morti a causa di incidenti stradali hanno generato nell’opinione pubblica»: e tanto basta a decretare tenendo conto della «sicurezza percepita» dall’opinione pubblica (che peraltro vota!), la quale si sente minacciata da quello che potremmo definire un terrorismo generico (o sistemico), da una impalpabile minaccia che incombe sulla sua testa costantemente e da tutte le parti. «Mi terrorizzava l’idea di una bomba dell’Isis e invece eccomi per strada, viva per miracolo e in possesso dei soli vestiti che indosso»: così commentava davanti all’immancabile telecamera una signora che qualche giorno fa ha subito il crollo della propria abitazione nel cuore della capitale italiana. Non ci si può rilassare un attimo, nemmeno dentro le confortevoli mura della propria casa!

L’aspetto più odioso e più disperante della faccenda è che sono proprio gli strati sociali che occupano i livelli più bassi della struttura sociale, ossia quelli che, in teoria, più di ogni altro “agglomerato sociale” avrebbero interesse a rivoltarsi contro lo stato di cose esistente, che subiscono, a causa della loro stessa cattiva condizione sociale, il fascino delle ricette d’ordine che demagoghi e populisti non smettono di preparare. Basta considerare la paura dei proletari di perdere il lavoro e le protezioni assicurate da un sempre più traballante welfare a causa degli immigrati «che ci rubano il lavoro» – e magari anche la casa e le donne! Scrive Gianni Riotta (La Stampa, 31/01/16): «”Datemi un dollaro o voto Trump!”: il cartello esibito in strada da un ironico mendicante americano sta facendo il giro del web e, speriamo, frutterà qualche spicciolo al brav’uomo. Che ha coniato, col pennarello su un pezzo di cartone, la migliore analisi della politica occidentale 2016. Chi si sente escluso dai frutti del boom economico di tecnologia e globalizzazione, i giovani senza laurea, gli operai bianchi che perdono il lavoro in fabbrica, le anziane private della sospirata pensione»: questa varia umanità perdente oggi minaccia di rivolgersi ai populisti, negli Stati Uniti e in Europa. Gli anticapitalisti continuano a rimanere disoccupati: meglio il dollaro di oggi promesso da Trump che la rivoluzione sociale di domani promessa da Marx! Conoscere perfettamente le cause economiche e psicologiche di questa maledetta dialettica sociale non rende certo quest’ultima meno odiosa e disperante. Quando i politici e gli intellettuali progressisti invitano la gente a ragionare con la testa piuttosto che con la pancia, salvo poi non mutare in alcun modo, per ciò che riguarda la sostanza dei problemi, la situazione e piagnucolare sul successo elettorale dei demagoghi e dei populisti di turno (oggi rubricati come “antipolitica”), essi rendono evidente quanto miserrime siano le loro illusioni circa la possibilità di un Capitalismo “dal volto umano”, o quantomeno un po’ più “equo e solidale”, e in ogni caso in linea con gli “standard di civiltà” assicurati dallo Stato di diritto.

A proposito dell’evocato terrorismo (di classe)! Scriveva nel 1924 il comunista Evge­ni Bronislavovič Pašukanis: «La giustizia penale dello Stato borghese è un terrorismo di classe organizzato che si differenzia solo per il grado di acutezza dalle cosiddette misure eccezionali applicate durante la guerra civile. Già Spencer aveva rilevato la stretta analogia e addirittura l’identità fra la reazione difensiva contro attacchi esterni (guerra) e la reazione contro chi viola l’ordine interno» (7). Forse seguire il filo rosso proposto da Pašukanis può esserci di qualche utilità, soprattutto per districarci meglio nel groviglio di problemi politici e giuridici posti dalla tensione dialettica tra fronte interno e fronte esterno. Una volta ho sconvolto un mio interlocutore rigorosamente “marxista”, il quale cercava di porre in antitesi il lavoro di cui parla la Costituzione italiana, da lui considerata «un decisivo passo in avanti verso equilibri politici e sociali più avanzati» (e per questo, sempre secondo lui, «tradita»), con la prassi dello sfruttamento capitalistico, proponendogli la «rozza e bizzarra» tesi che segue: i capitalisti sfruttano i lavoratori con pieno diritto. «Di che diritto parli?» mi urlò il poverino. Del solito, del vero, dell’unico diritto che abbia un autentico significato storico e sociale: il diritto che fa capo al più forte, ossia alle classi dominanti. Tutto il resto è chiacchiera ideologica che serve solo a ingannare i dominati. Come si vede, non si tratta del diritto formale – meglio: ideologico, mistificato – di cui parlano intere biblioteche dedicate al tema e che rappresenta l’oggetto della scienza giuridica borghese.

Continua qui (vedi pagina 13)

(1) Dallo Stato di diritto al security state, Il Manifesto, 25 gennaio 2016.
(2) P. I. Stučka, La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato, In AA. VV., Teorie sovietiche del diritto, Giuffrè, 1964.
(3) Cosa intendo per punto di vista di classe? Sul piano teorico-politico è la prospettiva dalla quale approccia i fenomeni sociali chi si batte contro il superamento della divisione in classi sociali degli uomini, considerata il fondamento sociale della dimensione disumana nella quale tutti nasciamo e viviamo. Questa dimensione proietta la sua maligna ombra sull’esistenza di tutti gli individui, anche su quella degli individui più abbienti. La psicoanalisi più critica e la letteratura umanamente più sensibile sono state in grado di mettere in luce l’impatto psicologico-emotivo che la disumana condizione sociale ha sui diversi strati sociali. Borghesi, piccolo-borghesi, proletari, sottoproletari, strati sociali rovinati e in decomposizione: non tutti gli individui rispondono allo stesso modo alle “sollecitazioni” del Dominio, ma tutti le subiscono. Meglio: non tutti gli individui riproducono allo stesso modo il Dominio. Infatti, fra noi e il Dominio sussiste un rapporto di intimità, non di esteriorità: il Dominio è dentro di noi, non fuori di noi. Di più: il Dominio siamo noi stessi in quanto, per dirla marxianamente, personificazione del rapporto sociale capitalistico. Proprio questa intimità conferisce al Dominio sociale del XXI secolo una particolare forza materiale e immateriale – ideologica, psicologica.
Sotto questo aspetto l’appartenenza sociale del soggetto rivoluzionario non gioca un ruolo fondamentale, prova ne sia che i fondatori della moderna teoria critico-rivoluzionaria provennero dalla classe dominante, e ciò è un “paradosso” che si spiega facilmente proprio a partire 1. dalla divisione classista della società (vedi, ad esempio, la divisione fra lavoro materiale e lavoro intellettuale) e 2. dalla universale condizione disumana.
C’è poi da considerare il piano storico-sociale della questione, il quale ci invita a porci la seguente domanda: quale classe ha interesse a spezzare lo status quo sociale (l’enfasi della locuzione va posto sull’aggettivo) in vista del superamento della dimensione classista? Ovviamente solo i nullatenenti hanno l’interesse a ribellarsi contro il rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che riproduce sempre di nuovo la divisione classista della società, mentre legittimamente le classi dominanti hanno e difendono l’opposto interesse. Come si vede, sotto questo rispetto la natura classista della dimensione disumana è fondamentale. D’altra parte, «Se vince, il proletariato non diventa perciò il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso ed il suo opposto» (Marx, La sacra famiglia). Emancipando se stesso, il proletariato emancipa l’intera umanità. Sotto questo fondamentale aspetto il punto di vista di classe coincide perfettamente con il punto di vista umano, locuzione che difatti adopero più spesso perché mi sembra più adeguata a sintetizzare la complessa dialettica che ho cercato di abbozzare.
(4) M. Horkheimer, Sulla Sociologia delle relazioni di classe, 1943, inedito, nonsito.org..(5) Qualche giorno fa ho postato su Facebook la seguente scherzosa riflessione:

Tu chiamalo, se vuoi, patrimonio!

Da Libero Quotidiano: «Il fronte dei contrari al ddl Cirinnà guadagna un testimonial non da poco: Adriano Celentano. “Giusti i diritti civili anche nelle unioni omosessuali”, scrive il cantante nel suo blog, “ma il matrimonio è solo tra uomo e donna altrimenti si chiamerebbe patrimonio». Patrimonio, bravo!
Non so dire se il molleggiato nazionale è il «re degli ignoranti», come ama definirsi, o se invece sia un emerito idiota, come ebbe a dire di Lui David Bowie dopo un’esilarante ospitata in una trasmissione celentanesca del 1999; devo dire però che stavolta, senza averne la benché minima consapevolezza, il cantante lombardo ha evocato qualcosa che merita molta attenzione. Di che parlo? Di questo: «Lo sviluppo della forma giuridica raggiunge il suo momento culminante nella società borghese-capitalistica. Questo processo può anche definirsi come processo di dissoluzione dei rapporti patriarcali organici e di loro sostituzione con rapporti giuridici, con rapporti cioè tra soggetti formalmente eguali. La dissoluzione della famiglia patriarcale, il cui pater familias era proprietario della forza lavoro della moglie e dei figli, e la sua trasformazione in famiglia contrattuale, in cui i coniugi stipulano un contratto patrimoniale e i figli (come per esempio nelle fattorie americane) ricevano dal padre un salario, costituiscono uno dei più tipici esempi di questa evoluzione. Lo sviluppo dei rapporti mercantili-monetari sospinge avanti questa evoluzione» (E. B. Pašukanis). E sospingendo, sospingendo…
La citazione è tratta da E. B. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo, in AA. VV., Teorie sovietiche del diritto.
(6) K. Marx, F. Engels, La sacra famiglia, Opere, IV, Editori Riuniti, 1972.
(7) E. B. Pašukanis, La teoria generale del diritto e il marxismo. Due parole su questo eccellente testo. Si tratta di un tentativo, a mio avviso ben condotto e per molti versi riuscito, di mettere in intima e dialettica relazione le forme del diritto e le forme della merce, così da superare la concezione, diffusissima fra i marxisti, secondo la quale il diritto non sarebbe che una mera sovrastruttura ideologica. Per Pašukanis si può parlare di diritto in senso proprio solo con l’avvento della moderna società borghese, a causa del peculiare modo di darsi e di manifestarsi del rapporto sociale capitalistico di dominio e di sfruttamento.
Egli riprese e sviluppò le tesi marxiane contenute nella Critica del programma di Gotha e le tesi leniniane esposte in Stato e rivoluzione, per giungere alla negazione di un diritto proletario o socialista in senso stretto. Pašukanis rifiuterà sempre l’idea di una teoria generale marxista del diritto che non sia radicalmente critica, e che non abbia come modello la marxiana critica dell’economia politica. Con ciò egli intese combattere due errate – e convergenti quanto a risultato – posizioni che convivevano nel Partito bolscevico e che finiranno per eliminarlo (anche fisicamente, nel 1937): quella che considerava il diritto borghese alla stregua di una mera sovrastruttura ideologica, e che quindi misconosceva la profonda relazione che insiste tra la forma-merce e la forma-diritto, e quella che si batteva per una sistemazione positiva e dogmatica del «diritto socialista», considerato una forma superiore del diritto che non andava indebolito né calunniato con il «nichilismo giuridico» (così lo definì Andrej Januar’evič Vyšinskij, lo «scienziato giuridico di Stalin», l’astro nascente del “diritto socialista”) di chi amava nascondersi dietro le tesi di Marx, di Engels e di Lenin a proposito dell’estinzione dello Stato e di ogni forma di coazione di stampo classista. La crescente opposizione che il «nichilismo giuridico» di Pašukanis incontrò nel seno di un Partito sempre più stalinizzato si capisce meglio alla luce della «definizione dell’intero sistema economico sovietico come Capitalismo di Stato proletario»: «Dopo la discussione svoltasi al XIV Congresso», scriverà Pašukanis in una nota alla terza edizione del suo libro, «tale definizione sollevò l’appropriata censura dei critici. Grazie a questa correzione, il concetto di basilare non può che guadagnare in chiarezza perché impiegando il termine “capitalismo di Stato” avevo in vista un aspetto soltanto della questione: la conservazione dello scambio mercantile e della forma di valore» (ibidem). «Un aspetto soltanto»! È chiaro che la posizione di Pašukanis mal si amalgamava, nonostante ogni tentativo di “autocritica”, con la “dottrina” del «socialismo in un solo Paese», la quale rappresentò la giustificazione scritta in un linguaggio pseudomarxista (che poi è quanto basta all’intellettuale “organico” per stilare certificati di autenticità “marxista”) della costruzione a tappe forzate del Capitalismo di Stato e di una moderna potenza mondiale. Di Capitalismo di stato e di diritto borghese esercitato dal proletariato armato in alleanza con i contadini poveri, si poteva parlare, senza temere il plotone di esecuzione o la scomparsa nel nulla (leggi gulag e Siberia) ai tempi dell’ultimo Lenin, alle prese con i postumi materiali e ideologici del Comunismo di guerra e con la necessità di una Nuova Politica Economica; ai tempi dell’«accumulazione originaria del socialismo» e del Diritto Socialista occorreva riabilitare il Lassalle crudelmente strapazzato da Marx nella Critica del programma di Gotha. Scriveva Pašukanis: «Marx concepiva il passaggio al comunismo sviluppato non come passaggio a nuove forme di diritto, ma come estinzione della forma giuridica in generale, come liberazione da questa eredità dell’epoca borghese, destinata a sopravvivere alla borghesia stessa». A tal riguardo molto interessanti appaiono anche le parole di Lenin che seguono, sempre a commento del citato testo marxiano del 1875: «La parola “comunismo” può essere anche qui usata nella misura in cui i mezzi di produzione divengono proprietà comune [nota per gli statalisti: qui comune non equivale a Stato], purché non si dimentichi che non è un comunismo completo». Al di là dell’annoso e controverso problema inerente agli “stadi di sviluppo” del comunismo, le preoccupazioni dottrinarie di Lenin, esternate proprio alla vigilia dell’Ottobre, si comprendono soprattutto alla luce del “socialismo” e del “comunismo” decretati nella Russia di Stalin per decreto. C’è forse qualcosa di profetico in quelle preoccupazioni, almeno così mi sembra.
Ma completiamo la citazione, per molti aspetti sorprendente: «Nella sua prima fase, nel suo primo grado, il comunismo non può essere, dal punto di vista economico, completamente maturo, completamente libero dalle tradizioni e dalle vestigia del capitalismo. Di qui un fenomeno interessante come il mantenimento dell’”angusto orizzonte giuridico borghese” nella prima fase del regime comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che concerne la distribuzione dei beni di consumo [non delle merci, dei valori di scambio], suppone pure necessariamente uno Stato borghese, poiché il diritto è nulla senza un apparato capace di costringere all’osservanza delle sue norme. Ne consegue che in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non solo il diritto borghese ma anche lo stato borghese, senza borghesia! Ciò può sembrare un paradosso o un gioco dialettico del pensiero e questo rimprovero è stato spesso mosso al marxismo da gente che non si è mai data la minima pena di studiarne la sostanza estremamente profonda» (Lenin, Stato e rivoluzione, Opere, XXV, Editori Riuniti, 1967). Per finire, ecco quanto scriveva Marx a propositi del diritto borghese in guisa di ugual diritto «nella prima fase della società comunista»: «Malgrado questo progresso, questo ugual diritto continua a recare un limite borghese. […] Questo diritto uguale è diritto diseguale per lavoro diseguale. Esso non riconosce distinzioni di classe, perché ognuno è soltanto operaio come chiunque altro, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale e pertanto la capacità di rendimento degli operai come privilegi naturali. Esso è perciò – per il suo contenuto – un diritto della diseguaglianza, come ogni diritto. Il diritto può consistere soltanto, per la natura che gli è propria, nell’uso di una uguale misura; ma individui dissimili (e non sarebbero individui diversi se non fossero dissimili) sono misurabili con ugual misura solo in quanto li si sottomette a un ugual punto di vista, in quanto vengono considerati da un lato ben preciso; per esempio, nel caso dato, vengono trattati soltanto come operai e in loro non si veda che questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre, un operaio è sposato e l’altro no; uno ha più figli dell’altro. Con uguale produttività e quindi con uguale partecipazione al fondo comune sociale, l’uno riceve, dunque, più dell’altro, l’uno è più ricco dell’altro, e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto dovrebbe essere, invece che uguale, ancora più disuguale» (Critica del programma di Gotha, Savelli, 1975). Anche qui, sembra che Marx sia un incontentabile dottrinario, uno che critica perfino l’assetto egualitario della società postcapitalistica. Ovviamente non si tratta di questo; Marx sapeva benissimo che fin quando l’umanità non passerà dal regno del diritto, sebbene uguale, al regno della libertà (o dell’umanità) gli individui saranno sempre esposti al rischio di ritornare alla «vecchia merda» della divisione classista della società. La necessità come peccato originario? Penso proprio di sì.
Insomma, solo entro limiti concettuali e politici assai ristretti si può parlare, in modo non ideologico né apologetico, di un «diritto proletario», e se ne deve parlare in primo luogo mettendone in luce tutte le contraddizioni, tutti i limiti, tutte le tare che necessariamente gli derivano dal vecchio mondo capitalistico – che poi è quello che ci tocca oggi in sorte! Come lo Stato proletario non è più uno Stato nell’accezione tradizionale del concetto, perché tende coscientemente al proprio esaurimento, così il «diritto proletario» non è già più un diritto nel senso tradizionale del concetto. La persistenza di uno «Stato proletario» e di un «diritto proletario» in un solo Paese è qualcosa che l’autentico rivoluzionario ha imparato a decifrare.
Un’ultima annotazione sui concetti di “struttura” e “sovrastruttura”. Scriveva Stučka: «Chi abbia assimilato il modo di pensare di Marx ed Engels in ordine al capitale, al denaro e così via, concepiti come rapporti sociali, comprenderà agevolmente, dunque, quel che andiamo dicendo in relazione al sistema dei rapporti sociali. Ciò costituirà una più difficile materia per il giurista, il quale vede nel diritto una mera sovrastruttura tecnica e artificiale che stranamente domina, però, la sua base. Persino Marx pagò per un breve periodo il suo tributo a questa concezione, finchè parlò del diritto come di una sovrastruttura ideologica: Marx si era infatti formato sul diritto romano e, in genere, sui concetti giuridici degli anni trenta che nel diritto vedevano solo un’espressione della volontà generale (volkswillen) e si era assuefatto alla relativa terminologia» (La funzione rivoluzionaria del diritto e dello Stato). Molti epigoni hanno voluto impiccare Marx a quella terminologia e soprattutto alla famosa analogia che rimanda all’idea di edificio. Dal punto di vista della prassi sociale umana, ossia della totalità delle attività umane, ogni sfera, ogni attività, ogni creazione materiale e immateriale, in una sola parola: ogni singola esperienza umana appare come facente parte di una struttura, e quindi essa stessa è da considerarsi come un dato strutturale della realtà. A differenza di quel che pensa il “materialista dialettico” ortodosso, ciò non equivale affatto all’hegeliana notte che fa apparire nere tutte le vacche: il punto di vista della totalità non esclude ma anzi presuppone l’esistenza di momenti egemonici, per dirla sempre con Marx, ossia di attività che dànno coerenza e direzione alla prassi sociale nel suo complesso, a partire dall’attività afferente alla produzione e allo scambio della ricchezza sociale nella sua attuale forma capitalistica. «Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo, siano identici, ma che essi rappresentano tutti delle articolazioni di una totalità, differenze nell’ambito di una unità. La produzione assume l’egemonia sugli altri momenti. […] Indubbiamente anche la produzione, nella sua forma unilaterale, è da parte sua determinata dagli altri momenti. […] Tra i diversi momenti si esercita un’azione reciproca. E questo avviene in ogni insieme organico» (K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, Grundrisse, I, La Nuova Italia, 1978). La morta rigidità del metaforico edificio non regge il confronto con la viva e complessa realtà dell’«insieme organico», sia che si parli di economia in senso stretto, sia che ci si riferisca al rapporto fra l’economico e il sociale in generale. In ogni caso così la pensa chi scrive, eventualmente anche contro Marx: se Dio vuole, sono ateo! E soprattutto non sono marxista…

DOMINIO E KATÉCHON. Appunti di studio teologico-politici.

3Pubblico alcune pagine del mio studio Dominio e katéchon. Appunti
di studio teologico-politici. Il PDF integrale è scaricabile da qui.

Dalla Prima parte.
LA POTENZA DEL DOMINIO SI SOTTRAE AL KATÉCHON

Il Dominio non è mai così contento
come quando si nega la sua esistenza.

Con un certo sprezzo del pericolo pubblico la sintesi di uno studio “teologico-politico” particolarmente focalizzato sul concetto paolino di katéchon e su alcune delle sue moderne “declinazioni”. Ogni pretesa di organicità e di coerenza dottrinaria qui appare vana, e almeno questo è un punto acquisito dal sottoscritto, il quale sa di essersi misurato con un oggetto che probabilmente non è alla sua portata. E d’altra parte non sarebbe la prima volta. Né, spero, sia l’ultima.

Naturalmente mi auguro che nella sintesi, che ha conferito un carattere particolarmente frammentato e frastagliato agli appunti di studio, la chiarezza del ragionamento non sia stata sacrificata oltremisura, e in ogni caso di ciò mi scuso in anticipo. Come sempre, mettere prudentemente le mani avanti può servire a rendere meno dolorosa un’eventuale caduta mentre si percorre un terreno particolarmente accidentato e pieno di trappole. Temo ma non per questo tremo, e dunque procedo, sapendo, marxianamente, di non aver altro da perdere se non le mie catene. «E la reputazione?» Quale? […]

In Timore e tremore, tanto per rimanere in tema, Kierkegaard scrisse che il singolo è incommensurabile con la realtà, perché come attesta sempre di nuovo la fede contro la ragione «il Singolo come Singolo è più alto del generale» [1]. Il filosofo di Copenhagen aveva di mira la Filosofia del diritto di Hegel e quegli epigoni del ragno di Stoccarda fin troppo acriticamente disponibili nei confronti di un Progresso (borghese) che già allora mostrava, almeno all’occhio dell’intellettuale umanamente sensibile, i primi inquietanti “risvolti dialettici”.

Ora, «Perché l’uomo s’innalzi all’uomo» (Schiller), realizzando le più feconde speranze maturate in ogni tempo sul terreno della cattiva condizione umana, occorre portare la realtà del mondo a misura del singolo individuo, oggi annichilito e angosciato da una totalità sociale che ci si presenta come un immane e incontrollabile meccanismo pronto a stritolarci al primo – eppur minimo – errore.

È da questa prospettiva concettuale, che chiamo punto di vista umano, che ho approcciato anche il tema in oggetto. Questa particolare prospettiva concettuale, che ha (vuole avere) un preciso “risvolto” politico, non si propone di rendere più buoni e migliori (“più umani”) gli individui, hic et nunc, ma piuttosto quello di renderli più coscienti, o semplicemente coscienti circa l’attualità del Dominio e la possibilità della liberazione. Questa coscienza critica è forse la sola vera libertà e la sola vera umanità a cui possiamo accedere nel regno dell’illibertà e della disumanità. Naturalmente questo punto di vista non è qualcosa di acquisito, di già dato, ma è piuttosto un obiettivo da conquistare sempre di nuovo, con uno sforzo che è insieme teorico e pratico. […]

Il katéchon è stato in passato, e in parte lo è ancora, un concetto chiave nello sforzo di legittimazione politico-ideologica della struttura di dominio. […]

La provvidenziale dialettica della Salvezza prescrive, per un verso l’avvento dell’Anticristo come momento di apocalittica chiusura dei tempi segnati dalla presenza del Male nel mondo, e per altro verso l’azione di una potenza di segno contrario (antiapocalittica) che frena e differisce il ritorno tra le nazioni del «serpente antico». […]

Come ha cercato di dimostrare Carl Schmitt, ogni epoca esibisce una peculiare fenomenologia dell’Anticristo (l’Islam, l’ateismo, l’Inghilterra, l’America) e un altrettanto peculiare Katéchon che ne deve arrestare, per quanto possibile, il trionfo, peraltro necessario nella misteriosa economia della Salvezza. L’Anticristo può a volte incarnarsi in personaggi che rappresentano la cifra antropologica dei tempi: Proudhon per Donoso Cortés e Max Stirner, sebbene in una guisa assai più complessa e persino ambigua, per Schmitt. Chissà cosa avrebbe detto Marx a proposito di queste preferenze. «Dimmi chi è il tuo Nemico, e ti dirò chi sei», forse è questo che avrebbe pensato l’avvinazzato di Treviri, a suo tempo assai critico – e sarcastico – nei confronti tanto dell’«insulso» Proudhon quanto di «San Max». […]

L’uomo uscito dalle tenebre del Medioevo non è padrone del suo destino, nonostante i lumi della ragione e il progresso tecnico-scientifico. L’uomo propone e il Capitale dispone. È un colossale amen! sulle aspettative di emancipazione suscitate dalla borghesia nella sua fase storicamente rivoluzionaria. […]

«L’ordine del profano deve essere orientato verso l’idea della felicità» (W. Benjamin, Frammento teologico-politico).

Freud ebbe ragione, dal punto di vista dello status quo sociale caratterizzato dalla presenza del Dominio, a consigliare agli uomini un certo grado di autodisciplina, perché la Civiltà esige un prezzo da pagare in termini di repressione degli istinti. Per dirla con Marx, la Civiltà (borghese) «ha emancipato il corpo dalle catene, perché ha posto il cuore in catene» [2].

Uomini come Dostoevskij e Nietzsche non vollero invece firmare cambiali in bianco al cosiddetto Progresso della Civiltà, forse anche perché intuirono che gli istinti, più che depotenziati o repressi, vanno semplicemente umanizzati, come d’altra parte l’intera esistenza degli individui. Solo i teorici di una mitica «natura umana», per l’essenziale refrattaria alle trasformazioni sociali, possono far spallucce di fronte alla tragica scelta tra castrazione (o incivilimento) e umanizzazione (o liberazione) degli istinti. […]

A quanto ne so, è a Tertulliano che si deve la prima chiara teorizzazione dell’Impero Romano come potenza katéchontica: «Voi, che ritenete a noi nulla importi della salvezza dei cesari, […] a noi è fatto obbligo, al di là di ogni limite di generosità, di pregare Dio anche per i nostri nemici ed invocare il bene per i nostri persecutori […] Ma vi è un’altra ragione che ci spinge a pregare per gli imperatori, anzi per la prosperità di tutto l’impero e per la potenza romana, perché noi sappiamo che la terribile catastrofe sospesa sul mondo e la stessa fine della nostra era sarà ritardata fino al transito dell’Impero Romano. Perciò non vogliamo affatto compiere tale esperienza e, mentre preghiamo sia differita, contribuiamo alla continuità dell’Impero Romano» [3].

Qui il momento apocalittico-escatologico è puramente residuale, appare non più che uno strumento ideologico chiamato a supportare la vigenza e la continuità dell’Impero Romano, in un momento in cui l’ascesa del cristianesimo, sebbene ancora contrastata, non sembra aver più alcun nemico mortale che le sbarri la strada. Più che un discorso rivolto ai cristiani, l’Apologeticum è fin dall’incipit una sorta di richiesta di resa incondizionata presentata ai magistrati dell’Impero, sebbene sapientemente confezionata  in guisa di « muta difesa». […]

La tentazione di leggere in chiave immediatamente politica, o politico-teologica, il concetto paolino di katéchon è stata sempre in agguato nei migliori salotti dell’intellighenzia borghese, e il più delle volte, per non dire sempre, questo concetto, peraltro di ardua interpretazione “autentica”, è stato declinato in termini schiettamente ultrareazionari. Lo stesso Carl Schmitt, che pure quel concetto pose al centro della sua riflessione teologico-politica (anche in una dimensione geopolitica), sentì il bisogno di ammonire i suoi colleghi intellettuali come segue: «Ci si deve guardare dal fare di questa parola [Katéchon] una designazione generica per tendenze puramente conservative o reazionarie» [4]. Bisogna prendere molto sul serio l’indicazione schmittiana, tanto più in considerazione dell’autorevole pulpito in questione. […]

Appena ho finito di leggere Il potere che frena di Massimo Cacciari mi è tornato alla mente un aforisma del giovane Marx: «I reazionari d’ogni tempo sono buoni barometri degli stati d’animo dell’epoca loro, così come lo sono i cani per le tempeste» [5]. Più che Il potere che frena, l’interessante saggio del filosofo veneziano “prestato alla politica”, come recita la nota formula, avrebbe meritato quest’altro titolo: Il potere – politico – che frana. […]

Il conservatore sa che senza Legge non vi possono essere né Civiltà né Progresso. Solo nella dimensione dell’ordine vi può essere cambiamento costruttivo, mentre nell’anomia la bruta materia sociale non riesce ad aggregarsi in forme stabili idonee a schiudere agli individui la porta del progresso. Freud ha scritto pagine assai illuminanti sul prezzo, molto salato, che gli individui hanno dovuto pagare per accedere nella dimensione storica dopo millenni di vita semianimale. Ora, non appena riempiamo di reali contenuti storici e sociali la Civiltà, il progresso e il cambiamento cui abbiamo fatto cenno, scopriamo che la conservazione della vita – anche nel suo continuo cambiamento –, quella del singolo individuo come della sua comunità, coincide, per il conservatore, con la conservazione del Dominio sociale, ossia dei rapporti sociali che informano la prassi sociale nelle comunità segnate dalla divisione classista. Rapporti sociali di dominio e di sfruttamento. […]

La brusca accelerazione nel processo di globalizzazione capitalistica verificatasi alla fine degli anni Ottanta ha messo definitivamente in crisi i teorici del primato del Politico sull’Economico. Per Cacciari «La stessa crisi del progetto europeo segna la fine dell’età prometeica […] Prometeo si è ritirato – o è stato di nuovo crocefisso alla sua roccia. E Epimeteo scorrazza per il nostro globo scoperchiando sempre nuovi vasi di pandora» [6]. Dopo essere sopravvissuto a ben due guerre mondiali e a un paio di catastrofi sociali di inaudita magnitudo, Prometeo non sarebbe riuscito a tenere testa alla globalizzazione: una lettura che non mi convince affatto, soprattutto perché evoca cesure epocali là dove insiste piuttosto il continuum del Dominio, il radicalizzarsi della natura del rapporto sociale capitalistico, l’attualizzarsi di tendenze su cui già Marx si era intrattenuto, non con potenza profetica, ma con grande acutezza critico-analitica.

Il concetto chiave chiamato a legittimare la politica di conservazione sociale dispiegata dal PCI, e poi dai suoi più o meno abortiti eredi politici, è appunto il katéchon. Anche il concetto legato alla figura di Epimeteo, «colui che impara solo dopo», contrapposto al più noto Prometeo, gioca un ruolo strategico nella concezione politico-teologica di molti intellettuali ex e post “comunisti”.
Adesso è arrivato il momento di chiamare in causa un pezzo grosso del katéchon.
Scrive Mario Tronti: «Toni Negri mantiene il paradigma escatologico, io invece assumo il paradigma katecontico. Penso che non possiamo più dire o credere che ci sia un’idea lineare della storia, quindi che comunque sia dobbiamo andare avanti nello sviluppo poiché comporterà contraddizioni nuove. Credo che bisogna trattenere, non lasciar scorrere il fiume della storia. Bisogna rallentare l’accelerazione della modernità. Perché questo tempo più lento permette di ricomporre le nostre forze» [7]. Sorvolo sul «paradigma escatologico» di Toni Negri, la cui “teologia politica” può apparire apocalittica giusto agli occhi di un ultraconservatore organico alla storia del PCI.

Qui appare evidente il carattere reazionario del pensiero trontiano, il quale non mette radicalmente in discussione il Capitalismo, ma si preoccupa piuttosto di contenerlo, di trattenerlo, di imbrigliarlo in qualche modo, per rallentarne le peraltro necessarie accelerazioni. Il paradigma proposto da Tronti più che «katecontico» appare decisamente chimerico, perché fondato sull’idea che la politica possa sussumere sotto di sé il concetto e la prassi del Capitale. Un’ideologia, questa, smentita ovunque e sempre di nuovo, anche da quelle esperienze (fascismo, nazismo, stalinismo, keynesismo) che solo il pensiero superficiale – e statalista – può portare come esempi che attestano il trionfo del Politico sull’Economico, mentre esse realizzarono piuttosto l’esatto contrario all’interno di contesti storico-sociali eccezionali.
D’altra parte, se riflettiamo sulla natura politico-sociale delle forze che Tronti intende «ricomporre» ci rendiamo conto a quale sostanza escrementizia alluda l’ex teorico del cosiddetto operaismo italiano.

«Eschaton e catechon infatti vanno assieme. Nel linguaggio cristiano: devi trattenere il male e proporre il bene. Nel linguaggio politico: devi governare questa società e superarne la forma attuale. Le due prospettive non sono affatto in alternativa come nella vulgata di oggi, per cui o sei contro il capitalismo e non devi governarlo o lo governi e non vuoi più superarlo» [8]. Pieno di speranza il mondo ancora attende dagli intellettuali un tempo organici al PCI un esempio concreto di governo basato su questa feconda dialettica tra eschaton e katéchon. Aspetta e spera! In realtà, e al di là delle battute ironiche, ci troviamo dinanzi a una pietosa giustificazione elaborata da un intellettuale che ha ancora in testa un vecchio dibattito ideologico intorno alla «prassi rivoluzionaria» che già allora non riusciva a coprire la prassi di una soggettività politica interamente assorbita nella gestione dello status quo borghese.

Fino a quale punto sia reazionario il pensiero «katechontico» del nostro amico, lo dimostra al di là d’ogni ragionevole dubbio il discorso [9] che egli ha tenuto al Senato della Repubblica lo scorso 9 maggio per ricordare Antonio Maccanico, scomparso due giorni prima. Vale la pena riprendere i passaggi salienti del lungo discorso commemorativo non per soddisfare un insaziabile spirito polemico, ma per sviscerare concetti che mi sembrano importanti.
«Maccanico era certo un membro della élite. Ma, ecco, le élite sono necessarie, come sono necessarie le masse. E il rapporto tra élite e masse va ricostruito per i tempi nuovi, non va azzerato. Questo è il senso e, nello stesso tempo, il compito della riforma che bisogna attuare. Come si seleziona il ceto politico? Non la sua soppressione, ma la sua selezione è il problema. Come si formano i gruppi dirigenti, le classi dirigenti? C’è bisogno di direzione dei processi altrettanto di come c’è bisogno di partecipazione ai processi di decisione. L’alto e il basso devono ricongiungersi, non devono contrapporsi. C’è da praticare un percorso di ricostruzione difficile, faticoso, ma necessario, una trama mediatrice tra noi che siamo qui e tutto quanto confusamente preme e spinge fuori da qui». Tronti avverte la crisi della politica (borghese) in generale e della sua forma democratico-parlamentare in particolare, e da buon conservatore ne ha paura, perché sa che quando la classe dirigente perde il controllo politico-ideologico delle «masse» la società si apre ad esiti imprevedibili. Il rivoluzionario all’opposto, pur sapendo benissimo che l’incremento della sofferenza e del caos non spalanca automaticamente la porta alla lotta di classe rivoluzionaria, come la storia del XX secolo insegna anche ai teorici della «spontaneità di classe», sa altrettanto bene che solo la catastrofe materiale e spirituale di una società può realizzare le condizioni oggettive della Rivoluzione sociale.

Pur ridicolizzando i teorici del «tanto peggio, tanto meglio», il rivoluzionario non frena il processo sociale, non lo trattiene, non pratica insomma il katéchon, qualsiasi significato si voglia attribuire a questa magica parola, ma piuttosto prepara le condizioni soggettive affinché la catastrofe sociale possa trasformarsi in un fecondo processo rivoluzionario teso a innescare il conto alla rovescia nell’esistenza del Dominio, qualsiasi forma esso assuma – compreso quello che, di fatto, realizzerà la stessa Rivoluzione nella sua azione anticapitalistica. […]

L’apocalittico non fa che ripetere: «Il mondo crolla sotto il peso dell’Iniquità, ma il Regno di Dio è vicino», e invita i fedeli a prepararsi spiritualmente all’inevitabile quanto prossima fine dei tempi; il rivoluzionario sostiene invece che il Regno dell’Uomo è, a un tempo, vicinissimo e lontanissimo, sempre più possibile e tuttavia sempre meno probabile. Il suo pensiero scommette sulla possibilità contro la probabilità, la quale oggi depone a favore della continuità del Dominio, come deve riconoscere chiunque non ragioni «a testa in giù». Già la stessa semplice esistenza del rivoluzionario è a suo modo una forzatura, un’anomalia, uno scandalo, un’impossibile scommessa.
L’apocalittico dice: «Il crollo del Capitalismo è inevitabile e prossimo»; il rivoluzionario sostiene invece che se il crollo economico-sociale non si trasforma in rivoluzione sociale la stessa catastrofe diventa per il Capitalismo una grande opportunità per una sua ulteriore espansione. La quasi morte si capovolge in una nuova fanciullezza. Il rantolo si trasforma in un grido di Potenza. Qui parla non solo la teoria (del valore), ma soprattutto la prassi storica: vedi le due guerre mondiali del XX secolo.

signorelli-l-anticristo-orvietoDalla Seconda parte
IL KATÉCHON SECONDO ISAIA

«Ora, fratelli, circa la venuta del Signore nostro Gesù Cristo e il nostro incontro con lui, vi preghiamo di non lasciarvi così presto sconvolgere la mente, né turbare sia da pretese ispirazioni, sia da discorsi, sia da qualche lettera data come nostra, come se il giorno del Signore fosse già presente. Nessuno vi inganni in alcun modo; poiché quel giorno non verrà se prima non sia venuta l’apostasia e non stato manifestato l’uomo del peccato, il figlio della perdizione, l’avversario, colui che s’innalza sopra tutto ciò che è chiamato Dio od oggetto di culto; fino al punto da porsi a sedere nel tempio di Dio, mostrando se stesso e proclamandosi Dio. Non vi ricordate che quand’ero ancora con voi vi dicevo queste cose? Ora voi sapete che ciò che lo trattiene [to katéchōn] affinché sia manifestato a suo tempo. Infatti il mistero dell’empietà è già in atto, soltanto c’è chi lo trattiene [ho katéchōn], affinché sia tolto di mezzo» Così Paolo di Tarso nella Seconda lettera ai tessalonicesi (2, 1-7).

Il testo paolino «com’è noto non solo è considerato di dubbia veridicità ma risulta alquanto enigmatico» [10]. Sul carattere enigmatico di quel testo concorda anche Giorgio Agamben [11].

Secondo F. Lamendola «non tutti i filologi neotestamentari sono concordi nell’attribuzione paolina di quel testo» [12]. Per quanto mi riguarda, la sua autenticità per così dire fattuale non costituisce un dato essenziale, dirimente, perché ciò su cui intendo riflettere è piuttosto sull’indubbia potenza teologico-politica dei passi in questione, una potenza concettuale che non a caso è stata a più riprese usata per fondare sistemi politico-teologici di cui ancora si discute.
Giustamente Agamben sostiene che «il passo paolino, malgrado la sua oscurità, non contiene alcuna valutazione positiva del katéchōn. Esso è, anzi, ciò che deve essere tolto di mezzo perché il “mistero dell’anomía” sia pienamente rivelato» [13]. Anch’io penso che la Seconda Lettera ai Tessalonicesi «non può servire a fondare una “dottrina cristiana” del potere», e chi lo ha fatto ha certamente contraddetto le intenzioni e lo spirito che animano quella Lettera, usandola strumentalmente, non importa se in buona o cattiva fede, per conseguire obiettivi estranei alla teoria e alla prassi, se così posso esprimermi, di Paolo.

La mia tesi – provvisoria – è che il katéchon paolino cerca, a un tempo, di legittimare sul piano teologico l’accettazione dell’epoca profana, che si sostanzia nella presa d’atto dell’esistenza dell’Impero romano e/o di altre autorità costituite; e di dare un senso all’attesa dell’immancabile salvezza, nutrendo la speranza con il cibo della fede, non con quello, velenoso  già nei tempi brevi, della disperazione o della vana esaltazione. La fine dei tempi va attesa e preparata spiritualmente, non va fatta precipitare con meri atti di volontà: niente (e nessuno) può forzare la maturazione dei tempi, la quale non è nella nostra disponibilità, almeno per l’essenziale. Chi è tanto folle da forzare i tempi della parousía va incontro alla propria morte reale o spirituale.
Si tratta di due registri diversi, l’uno razionale l’altro mistico, mobilitati sul fronte di una sola causa: l’inevitabile ricomparsa di Gesù. Si tratta di una Scienza dell’Attesa. […]

Il tempo dell’attesa escatologica non è un tempo cronologico, quantitativo; esso ha piuttosto una dimensione eminentemente esistenziale, qualitativa, e per questo il dato psicologico vi gioca una funzione centrale. Faccio riferimento a una psicologia interamente radicata sul terreno della prassi storico-sociale, ossia profondamente e intimamente connessa con la vita comunitaria colta nella sua concreta storicità (incluso il momento geopolitico), e quindi a una psicologia carica delle aspettative e delle tensioni sociali ed emotive dell’epoca di riferimento. Ogni astratto e superficiale psicologismo qui è bandito. […]

L’evento morte-resurrezione, che sancisce l’inizio della fine (il countdown messianico) attraverso la fine di una vita reale (quella di Gesù), ripristina in qualche modo la fede nei suoi seguaci, ma il bisogno di credere nell’imminenza della Salvezza, della Salvezza hic et nunc, rimane in loro invincibile, e Paolo deve farvi i conti.
O il Messia deve ancora venire, e allora hanno ragione coloro che hanno visto in Gesù nient’altro che un impostore, uno dei tanti falsi messia che da tempo immemore calcano le scene dell’ebraismo; oppure Gesù è davvero il Messia, e allora la sua perdurante assenza dalla scena della Salvezza, la sua “vacanza” messianica, appare difficile da comprendere e, soprattutto, da accettare sul piano emotivo. «Se Egli è risorto dal mondo dei morti per salvarci, perché tarda ad apparirci per condurci finalmente fuori dalla dolorosa dimensione del Male? Che senso ha procrastinare all’infinito la fine dei tempi, così che la seconda venuta del Messia morto sulla croce sembra coincidere con i tempi prospettati dal messianismo ebraico? Non avrebbe più senso, allora, ritornare alla vecchia concezione, la quale mostra almeno una maggiore coerenza teologica?»
Inutile dire che non intendo attribuire ai primi cristiani questa riflessione teologica, la quale è piuttosto strumentale al mio argomentare. […]

Il dubbio si diffonde, come si evince anche dalla Seconda lettera di Pietro, scritta dall’apostolo a destinatari non meglio precisati poco prima di morire: «Sappiate questo, prima di tutto: che negli ultimi giorni verranno schernitori beffardi, i quali si comporteranno secondo i propri desideri peccaminosi e diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come dal principio della creazione ” […] Ma voi, carissimi, non dimenticate quest’unica cosa: per il Signore un giorno è come mille anni, e mille anni sono come un giorno. Il Signore non tarda l’adempimento della sua promessa, come pretendono alcuni; ma è paziente verso di voi, non volendo che qualcuno perisca, ma che tutti giungano al ravvedimento» (3, 3-8-9). L’allusione ai «mille anni» rinvia ai Salmi: «Perché mille anni sono ai tuoi occhi come il giorno di ieri che è passato, come un turno di guardia di notte». Il tempo della vita umana è, a paragone del Tempo infinito del Signore, simile all’erba che la mattina «fiorisce e verdeggia» e che già alla sera «è falciata e inaridisce» (90-6).  È il massimo che Pietro riesce a dire, rinviando peraltro gli interlocutori al «caro fratello Paolo» per spiegazioni più convincenti e profonde. Non senza ammonire chi ne travisa il pensiero. Infatti, «in tutte le sue [di Paolo] lettere ci sono alcune cose difficili a capirsi, che gli uomini ignoranti e instabili travisano a loro perdizione».

Pietro è costretto all’ambiguità: per un verso conferma l’imminenza della fine dei tempi, e difatti parla di «ultimi giorni», i quali si annunciano proprio con la venuta degli «schernitori beffardi» che irridono l’Attesa; anche l’allusione alla pazienza del Signore non contraddice questa prospettiva apocalittica: si può ben comprendere che Egli si ponga l’obiettivo (stavo per aggiungere: umanissimo…) di salvare quanti più uomini sarà possibile sottrarre all’influenza del Demonio. Per altro verso l’apostolo ricorda ai fedeli che il Signore ha al polso, per così dire, un orologio affatto diverso dal loro: questo orologio non conta secondi, minuti e ore, ma secoli, millenni, intere ere geologiche. È il punto debole del discorso pietrino, perché chi crede nella parousía di Gesù pensa di avere sincronizzato il proprio orologio con quello del Messia già venuto. Pietro ha un piede nella vecchia tradizione apocalittica e l’altro nella nuova: è una posizione difficile, assai precaria, la sua. […]

Paolo cerca dunque di dare una risposta alle scottanti domande dei fedeli, le quali lo costringono a trovare un senso al tempo dell’attesa, innanzitutto per rafforzare la sua stessa fede, e quindi il suo atteggiamento non è strumentale, ossia orientato solo a captare e conservare il consenso. L’apostolo cerca di convincere gli astanti, ne ricerca l’approvazione, certo, ma nelle sue lettere apostoliche è possibile osservare una teologia in formazione, originale in punti cruciali rispetto alla tradizione ebraica. Si tratta a tutti gli effetti di un’autochiarificazione, di una teologia di fatto e in progresso.  Rispondendo ai problemi inediti posti dalla comunità dei fedeli egli sonda e saggia in primo luogo la profondità del proprio pensiero, la sua consistenza. Egli capisce i limiti di una fede fondata esclusivamente sull’intuizione e sul sentimento.

Intanto, giacché la parousía si dà in un tempo non prevedibile (giorni, mesi, anni), nelle more della Salvezza occorre pur vivere, magari solo obtorto collo; bisogna cioè lavorare, pagare le tasse, rispettare l’autorità costituita, sposarsi, avere dei figli e curarli, andare alla ricerca di qualche umana e fugace felicità e via di seguito. L’esistenza in vita degli individui ha delle leggi che gli si impongono con assoluta necessità e, come diceva Schopenhauer, solo la morte li mette al riparo dalla volontà di potenza della vita, la quale vuole con tutte le forze e sopra ogni cosa… vivere, perpetuarsi il più a lungo possibile, mettere solide radici in questo mondo.
Si tratta insomma di firmare un compromesso con la realtà, in attesa della maturazione dei tempi. Ma, si badi bene, difficilmente in questo caso si può parlare di una Realpolitik politico-teologica, perché il punto escatologico non viene negato, e anzi lo stesso compromesso è chiamato a conservare la possibilità (vissuta come certezza) dell’Evento salvifico. Chi vede nell’apostolo di Tarso il filosofo della rassegnazione allo status quo probabilmente proietta sulla sua opera apostolica la millenaria prassi della Chiesa Romana, come se tra le due cose vi fosse un’omogeneità essenziale. […]

Paolo cerca di dare una dignità teologica alla propria malferma posizione, e lo fa introducendo un concetto che costituirà uno dei pilastri fondamentali della tarda riflessione teologica cristiana.
Nella misura in cui nulla può essere estraneo a Dio, è evidente che anche l’Impero Romano e ogni altra autorità costituita devono con assoluta necessità avere una funzione nel Piano provvidenziale del Signore. Per dirla con Einstein, Dio non ama giocare a dadi: ciò che ci appare come fatalità e mero accidente, non è che un tassello del puzzle da sempre presente nell’Intelligenza divina. Quale sia esattamente quella funzione nessuno può dirlo con certezza, e d’altra parte negarne la realtà significa ammettere la possibilità della casualità e persino dell’errore in colui che per definizione non può ammettere alcuna casualità né errori.

Nella Lettera ai romani Paolo scrive: «Ogni persona stia sottomessa alle autorità superiori; perché non vi è autorità se non da Dio, e quelle che esistono sono stabilite da Dio. Perciò chi resiste all’autorità si oppone all’ordine di Dio» (13, 1-2). Come sempre nei testi paolini l’interpretazione non può essere univoca, e la loro ambiguità corrisponde a un preciso dato di realtà, proprio perché Paolo deve fronteggiare diverse sfide, deve suonare allo stesso tempo più corde, per rendere la sua musica gradevole alle più diverse sensibilità.
Il tempo sta arrivando: che importanza ha quindi chi oggi detiene il potere secolare? Non cambiate nulla della vostra vita: rimanete dove siete, a ciò che siete e a ciò che fate per sopravvivere in questa valle di lacrime. Non vale la pena sprecare tempo ed energie adesso (un’allusione temporale sempre vaga) che il Tempo viene, bruciando il tempo effimero della contingenza. Il tempo dell’attesa messianica relativizza tutto. Anche questa lettura ha una sua pregnanza teologica, mi pare. […]

Certo, Paolo avrebbe potuto dire ai confratelli che le autorità costituite, lungi dall’essere funzionali al misterioso Piano divino (ciò che è reale è divino, per mutuare Hegel),  rappresentano piuttosto la fenomenologia del Demonio. A quel punto però il rapporto con la realtà non avrebbe ammesso alcun compromesso, e la comunità cristiana avrebbe dovuto dichiarare una guerra permanente a ogni forma di autorità e di routine. Come sostenuto sopra, è proprio questo esito immaturamente apocalittico che l’apostolo cerca di scongiurare. Egli, infatti, sa benissimo che questo atteggiamento negativo alla lunga sarebbe stato esiziale per la giovane Chiesa. La spada secolare avrebbe annientato rapidamente lo stesso ricordo del sacrificio di Gesù. Paolo è costretto a trattenere, a frenare il partito del tutto e subito. Qui è lo stesso apostolo che si fa carico di una prassi katechontica, frenando l’apocalittica con una gnosi che non contraddice il messianesimo di nuovo conio. […]

«La predicazione di Gesù è sovversiva, perché richiede da parte del popolo, e non solo dei singoli individui, un atto decisivo per il Regno» [14]. Gesù non prospetta riforme sociali idonee a migliorare la vita in questa valle di lacrime, ma rivela un segreto che all’istante rivoluziona l’intera esistenza di chi lo crede vero. Il segreto è l’imminente fine dei giorni in questo mondo segnato dal peccato originario, è la salvezza per chi dice al Regno. Si tratta naturalmente del Regno millenario di cui parla l’Apocalisse di Giovanni.
Come ricorda sempre Taubes, «Il concilio di Efesto del 431 definisce il millenarismo una “deviazione falsificante”. In quell’occasione venne modificata anche la preghiera per il regno di Dio nel Padre nostro: “Venga il tuo regno” fu sostituito con “Venga il tuo spirito” […] In tal modo anche la visione che si muove all’interno del nesso tra la predicazione di Gesù, la teologia di Paolo e l’apocalittica va perduta, e insieme ad essa la chiave per comprendere il cristianesimo delle origini» [15]. Questo a ulteriore dimostrazione di quale abisso separi la Chiesa di Roma da Gesù e dalle stesse prime comunità che si raccolsero intorno al suo nome denso di significati assai dirompenti. Fuori della prospettiva messianica e chiliastica la parola di Gesù e dei suoi primi seguaci risulta muta. Peggio: falsa.

L’atto decisivo che Gesù chiede alle moltitudini che seguono la sua predicazione nutrendo aspettative via via più grandi è «la secessio plebis, l’esodo del popolo nel deserto […] Il deserto è la via per sottrarsi al dominio di questo mondo». Il deserto reale e ideale rappresenta per il popolo ebraico un appuntamento fisso, un nodo ineludibile nella sua vicenda storica. Ma ciò che Gesù chiede al suo popolo implica una decisione che esso non si sente di prendere: «L’invito di Gesù alla conversione fallisce […] I ricchi e i benestanti non vogliono rinunciare a tutto, né i poveri e i miserabili vogliono lasciare il poco che hanno, “perché è meglio per noi servire l’Egitto che morire nel deserto”» [16]. Come disse Aaronne a Mosè, disceso in fretta con le tavole della Legge dal monte Sinai, «questo popolo è incline al male». È il popolo che alla prima occasione volge le spalle all’unico Dio e corre ad adorare vitelli d’oro. Forse è anche questo retaggio appreso fin da bambino che spinse Gesù ad affrettare i tempi della secessio plebis, cortocircuitando il tempo presente con il tempo messianico attraverso il proprio sacrificio sul Golgota.

[1] S.  Kierkegaard, Timore e tremore, p. 45, La biblioteca Ideale T., 1995.
[2] K. Marx, La filosofia del diritto di Hegel, in La questione ebraica, p. 103, Newton, 1975.
[3] Tertulliano, Apologia del cristianesimo, p.165, Rizzoli CDS, 2009.
[4] C. Schmitt, Tre possibilità di una immagine cristiana della storia, in R. Cavallo, Apocalisse e rivoluzione. Jacob Taubes interprete di Carl Schmitt, AA.VV., Apocalisse e post-umano, il crepuscolo della modernità, p. 163, Dedalo, 2007.
[5] K. Marx, Il problema dell’accentramento, in Scritti giovanili, p. 131, Editori Riuniti, 1975.[6] M. Cacciari, Il potere che frena, p. 120-126, Adelphi, 2013.
[7] M. Tronti, Noi operaisti, p. 111, DeriveApprodi, 2009.
[8] M. Tronti, Quel circolo di sacro e secolare, Centro per la riforma dello Stato, 11 maggio 2006.
[9] Accessibile dal sito del Senato.
[10] R. Cavallo, Apocalisse e rivoluzione. Jacob Taubes interprete di Carl Schmitt, in AA.VV., Apocalisse e post-umano, il crepuscolo della modernità, Dedalo, 2007.
[11] G. Agamben, Il tempo che resta, p. 102, Bollati Boringhieri, 2000.
[12] F. Lamendola, L’anticristo ebreo e il misterioso “katéchon”, elementi chiave dell’apocalittica cristiana, Arianna, 3 febbraio 2009.
[13] Ivi, p. 104.
[14] J. Taubes, Messianismo e cultura, p 82, garzanti 2011.
[15] J. Taubes, Escatologia occidentale, pp. 106-107, Garzanti, 1997.
[16] Ivi.

IL PIANTO GRECO DI CARLO FORMENTI

«Con la scusa di “risanare” un territorio urbano che le esauste casse delle amministrazioni locali (falcidiate dai tagli dei governi neoliberisti) non riescono più a curare, industrie e società finanziarie globali allungano gli artigli sugli spazi pubblici che, una volta trasformati in proprietà privata, non vengono più presidiati e difesi dalla polizia ma da guardie armate assoldate dai nuovi padroni. Così lo spazio pubblico si restringe e si restringono anche i diritti di fruizione che tradizionalmente lo regolavano, sostituiti dall’arbitraria volontà dei proprietari fatta valere con la forza». Questo scriveva ieri Carlo Formenti sul blog di MicroMega, commentando la «durissima polemica sulla privatizzazione degli spazi pubblici» in corso in Inghilterra, anch’essa alle prese con la crisi economica che “travaglia” l’intero Occidente.

Denunciare la disumana potenza espansiva del Capitale, il suo sempre più incalzante totalitarismo sociale – che, a volte, indossa i panni del totalitarismo politico, l’eccezione che, per dirla con Carl Schmitt, spiega la regola e se stessa –, è il minimo sindacale che ci si deve aspettare da un pensiero che si vuole critico. Ma Formenti non esercita la critica, bensì la lamentela, anzi: l’indignazione, per citare articoli alla moda. Egli fa l’apologia di un Capitalismo rispettoso dei «diritti di fruizione», del contratto sociale e dei beni pubblici, e con ciò stesso mostra tutta la sua – inconsapevole, e perciò ancora più disarmata – subalternità nei confronti dell’ideologia dominante, la quale, come diceva Quello, è l’ideologia della classe dominante. Necessariamente. E l’ideologia ancora dominante, anche nella patria del modello «liberista-selvaggio» tanto disprezzato dai progressisti, è quella che vuole l’economia essere rispettosa dei «diritti umani», dei lavoratori, dell’ambiente e balle speculative dello stesso tenore. E se non lo è, a cagione dei soliti cinici operatori economici (i vampiri dell’Alta Finanza in testa!), ovvero a causa di politici corrotti e/o incapaci, potrebbe esserlo, di più: dovrebbe esserlo.

Non mi stancherò mai di ripetere che nella società capitalistica in generale, e in quella del XXI secolo in particolare, ossia nella fase totale del Capitale (un concetto che ingloba tanto la sua dimensione geosociale quanto la sua dimensione esistenziale: tutti noi!) il bene comune è una menzogna, dietro la quale si cela la realtà di rapporti sociali interamente orientati al massimo e immediato profitto. Come ho scritto nel mio modesto lavoro “economico” criticando i teorici del benecomunismo, oggi «non esiste alcun “Comune”, perché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o “globale”) appartiene con Diritto – ossia con forza, con vio­lenza – al Capitale, privato o pubblico che sia. Il Capitale non si appropria arbitrariamente “il Comune”, non lo “privatizza”, ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasfor­mare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia» (Dacci oggi il nostro pane quotidiano).

Come dimostra Marx (vedi Il segreto dell’accumulazione originaria, Il Capitale, I, cui peraltro fa riferimento lo stesso Formenti all’inizio del suo pezzo), parlare di proprietà comune  (e, per estensione, di Comune, bene comune, bene pubblico) dopo il XVIII secolo è un puro anacronismo, almeno in Inghilterra e nelle metropoli del Capitalismo mondiale. Si desidera illudere se stessi e la gente che esiste, nel XXI secolo, un Comune da difendere con le unghie e con i denti dall’assalto del «neoliberismo» e dalla «cupidigia del capitalismo post moderno»? Accomodatevi! Di certo non sarò mai con i nostalgici del Capitalismo del bel tempo che fu – quando, detto di passata, esisteva ancora il «socialismo reale», il quale, dopo tutto, non era poi così male, a parte qualche piccola magagna…

«Da noi, intanto, il governo dei “tecnici” ci ha appena comunicato che, per risanare i buchi del pubblico bilancio, metterà in vendita i pezzi pregiati del nostro patrimonio pubblico, sia a livello dei beni dello stato centrale, sia a livello dei beni del governo locale: beni mobili e immobili, beni demaniali, partecipazioni in imprese municipalizzate e quant’altro finiranno nelle mani di privati che ne faranno ciò che vorranno (li trasformeranno cioè in fonti di profitto ignorando interessi e diritti dei comuni cittadini)». Nella società capitalistica comanda la totalitaria legge del profitto: che scandalo!

La crisi economica ha reso evidente quello che le briciole materiali e “spirituali” dei tempi cosiddetti grassi nascondevano, e cioè il fatto che tutto quello che in qualche modo entra in conflitto con le esigenze dell’accumulazione capitalistica deve venir spazzato via. È solo una questione di tempo. Tutti i diritti particolari devono fare i conti con questo diritto universale, il quale sta scritto nella prassi, nel linguaggio della vita reale, sempre per civettare con l’ubriacone di Treviri, non certo sui libri sacri che cianciano di «diritti umani», contratti sociali, beni comuni, e luogocomunismi di identico vile conio. Ad esempio, un Welfare che non si armonizza più con il processo che sempre di nuovo crea la ricchezza sociale deve necessariamente confessare il proprio fallimento. agli inizi degli anni Ottanta la Thatcher in Inghilterra e Reagan negli Stati Uniti si limitarono a ratificare un dato di fatto. Oggi ci risiamo.

Tra l’altro, e a dimostrazione di quanto dinamici, fluidi e transitori siano i rapporti di forza intercapitalistici, alla fine degli anni Settanta del secolo scorso spettò all’Inghilterra assumere i panni della cicala dispendiosa, del Paese infetto e reietto – vedi l’odierna Grecia. Nel 1976 Stati Uniti e Germania Federale accusarono la spesa pubblica inglese di ostacolare la ripresa del ciclo economico, e intimarono il governo di Sua Maestà a procedere sulla via del «rigore economico», ossia delle privatizzazioni e del taglio della spesa pubblica. Datevi una mossa con la spending review! Nel dicembre di quell’anno Londra, dopo aver assicurato gli “alleati” circa la sua volontà di voler mettere la testa a posto, ricevette dal FMI un prestito di 3,9 miliardi di dollari. Chiudo la breve digressione “storica”.

Allora bisogna prendere atto della maligna natura del Capitale, e del Leviatano che ne è il cane da guardia, senza fiatare? Tutt’altro! Prendere coscienza della reale natura della potenza sociale che ci tiranneggia, sia durante i boom economici, sia nel corso delle crisi economiche, tanto nel seno della forma democratica del dominio sociale, quanto in quella dittatoriale; assumere questa radicale consapevolezza significa capire con che cosa abbiamo a che fare e scoprire le straordinarie potenzialità sociali che pulsano nel ventre del Dominio.

Il problema non è «il neoliberismo all’assalto dei beni pubblici», ma il Capitale (il rapporto sociale capitalistico) all’assalto dell’intero spazio esistenziale degli individui. È con questa consapevolezza che dobbiamo approcciare il terreno delle lotte parziali, le quali, hegelianamente, lasciano intravedere scenari di più vasta e ambiziosa portata. A patto che si abbandoni la miseranda prospettiva della difesa di uno status quo (il vecchio Welfare, il vecchio «patto sociale» ecc.) che il processo sociale mondiale (vedi l’ascesa capitalistica della Cina, dell’India, del Brasile e via discorrendo) ha reso obsoleto ormai da decenni, e a cui la crisi economica ha inferto l’ultimo colpo, forse il decisivo.

Dopo l’esito delle elezioni in Grecia Formenti appare sconsolato, depresso, pessimista fino al “qualunquismo”: «Tanto, come dimostra il caso greco, la casta neoliberista attribuisce al voto popolare lo stesso valore della carta igienica con cui si pulisce il lato B. Il tutto nell’assordante silenzio delle forze politiche che hanno ancora la faccia tosta di definirsi “di sinistra”. Fino a quando permetteremo loro di abusare della nostra pazienza?». Casta neoliberista versus forze del progresso: ecco in quali ideologici (falsi) termini il Nostro ha interpretato il rito democratico della “fatale” domenica. Peraltro, non la «casta neoliberista» ma l’ormai ultrasecolare prassi capitalistica – nell’accezione sociale, e non meramente economica, del concetto –  si è incaricata di attestare la funzione igienica delle elezioni. Ci vuole davvero molta pazienza nell’esercizio della critica, la quale il più delle volte si risolve nel trattamento chimico di ciò che «il lato B» ama rilasciare a testimonianza di una buona digestione.

QUANDO L’ANGELO SFIDA IL DOMINIO

Ringrazio di cuore Daniela Pecorino per la sua bella recensione pubblicata su Dietro le Quinte:


È appena uscito l’ultimo saggio di Sebastiano Isaia, già autore di “Tutto sotto il cielo”, studio dedicato alla genesi storico-sociale dell’eccezionale successo cinese ottenuto sul fronte della competizione capitalistica globale. “L’Angelo Nero sfida il Dominio”, come recita il titolo del suo nuovo libro, ha un taglio decisamente politico-filosofico, a differenza del precedente, più storico e sociologico; basta citare la quarta di copertina per capirlo: «Politica, Sovranità, Legalità, Diritto, Libertà, Legittimità, Violenza, Nemico, Civiltà: come si “declinano” questi fondamentali concetti nella Società-Mondo del XXI secolo? D’altra parte, la crisi sociale epocale nella quale siamo immersi ha generato una serie di “inaspettati ritorni” (basti pensare al “ritorno dello Stato-Nazione” nel cuore stesso della Vecchia Europa, o al ritorno della “Rivoluzione” nei paesi arabi) che meritano una lettura non superficiale né di mera contingenza. È quanto si propone di fare questo saggio».

Argomenti abbastanza tosti, come si vede, certamente non di agevole approccio né di facile lettura, ma che l’autore ha avuto il merito di semplificare senza tuttavia scadere nella volgarizzazione e nella banalizzazione. Infatti, nonostante la serietà e la complessità degli argomenti trattati (basti pensare a un concetto come “la radicalità del Male”, sviluppato in polemica con le note tesi di Hannah Arendt), il saggio esibisce una trama discorsiva assai intrigante, e a tratti davvero brillante. A prescindere da come la si pensi nel merito delle tesi che l’autore vi sostiene, a questo libro non si può certo rimproverare né un difetto di tempestività né la mancanza di respiro (storico, sociologico, politico) nel modo in cui approccia temi che effettivamente sembravano essere usciti definitivamente dal nostro orizzonte di Civiltà, e che sono invece tornati prepotentemente alla ribalta.

Come sembrano lontani gli anni in cui Francis Fukuyama teorizzava la “fine della storia”! Lungi dall’aver tirato le cuoia, sostiene Isaia, la storia ha piuttosto accelerato il suo passo, e rischia di imboccare sentieri che potrebbero trascinarci nel baratro di orrori sociali che, sbagliando, pensiamo siano del tutto fuori dalla nostra portata. Questo perché, egli scrive, il Male non è solo e principalmente “banale”, ma è anche e soprattutto “radicale”, ossia saldamente ancorato alle fondamenta della nostra società.

E a chi gli rimprovera una certa dose di pessimismo, Isaia risponde che “pessima è la realtà”. È fuor di dubbio poi che la crisi economico-sociale che sta investendo il Pianeta, a partire dalle sue punte più avanzate (il Vecchio Continente e gli Stati Uniti) «ha generato una serie di inaspettati ritorni», per dirla con l’autore, che hanno spiazzato non poco la politica, la scienza sociale e la stessa religione ufficiale. La diffusione di “religioni fai da te”, come non smette di denunciare Benedetto XVI, e di sentimenti “antipolitici”, come denuncia con sempre più inquietudine la leadership politica Occidentale, è parte di quella crisi esistenziale già messa sotto i riflettori da Oriana Fallaci, e solo per questo inchiodata alla croce del politicamente corretto. «Si avverte perciò il bisogno – scrive Isaia – di trovare, nel caotico dipanarsi degli eventi che rigano la Società-Mondo di questo inizio secolo, un filo conduttore che non annulli la complessità del tutto, ma che la renda almeno intellegibile e, soprattutto, permeabile alla critica».

Questo è almeno l’ambizioso tentativo dell’Angelo Nero, il quale, se capiamo bene, non sfida il Demonio per conto di Dio, ma il Dominio, per conto di un Uomo ancora di là da venire. La cosa suona anche bene. Purché non ne venga fuori una nuova religione! Una curiosità: l’Angelo Nero è il solo Angelo che non fa miracoli, ma li chiede agli uomini di questo tempo così travagliato. Abbiamo insomma a che fare con un Angelo molto particolare, persino “umano, troppo umano”, per dirla con Nietzsche. D’altra parte, anche la nostra epoca è alquanto originale, nel bene (pochino) come nel male (molto, secondo l’autore).

Daniela Pecorino


L’Angelo Nero sfida il Dominio è disponibile online – clicca qui