In estrema sintesi: il fallimento dell’esperienza chávista si è consumato interamente sul terreno dell’economia (capitalistica); infatti, nel corso di due decenni il regime chavista non è stato in grado di “riformare” la struttura economica del Venezuela così da rendere possibile un “ordinato”, profondo e duraturo processo di modernizzazione dell’intera compagine sociale. Il chavismo ha fatto registrare un completo fallimento non perché ha tradito le aspettative create dal cosiddetto «Socialismo del XXI secolo», il quale di socialista non aveva nulla (1), ma perché ha fatto arretrare il Paese in ogni senso, stringendolo ancora più fortemente che in passato nella morsa degli interessi imperialistici, i quali nel mondo non hanno solo la faccia “brutta, sporca e cattiva” degli Stati Uniti. Un fatto, questo, che molti “antimperialisti” europei non capiranno mai, e non per difetto di intelligenza, ma per mancanza di coscienza – “di classe”.
L’attivismo politico-finanziario degli Stati Uniti inteso a riportare il Venezuela sulla “buona strada” dell’alleanza strategica con il gigante americano ha impattato su un quadro economico, politico e sociale già largamente compromesso da una crisi economica che ormai dura da dieci anni, in stretto rapporto con il declino del prezzo del petrolio sul mercato internazionale. Washington ha certamente aggravato il decorso della crisi sociale, ma non l’ha creata, e ovviamente oggi ha tutto l’interesse a gettare benzina sul fuoco per accelerare la “transizione di potere”, mentre i suoi concorrenti (Mosca e Pechino) cercano di spegnere l’incendio per non mandare in fumo un importante investimento finanziario e geopolitico (2).
Come ho scritto in tutti i miei post dedicati alla crisi sociale venezuelana, non si tratta di essere “equidistanti” rispetto alle fazioni politiche che si disputano il potere e nei confronti delle potenze imperialistiche maggiormente coinvolte nella crisi (Stati Uniti, Russia e Cina): si tratta piuttosto di essere, per così dire, equicontrari, ossia di manifestare attiva (“militante”) contrarietà nei confronti di tutte le posizioni e di tutti gli interessi economici, politici e geopolitici in gioco, e solidarietà nei confronti delle classi subalterne del Venezuela, le quali oggi vivono una condizione sociale davvero disperata. Solidarietà di classe, autonomia di classe, lotta di classe: personalmente non vedo altra politica possibile per chi intenda esprimere un’autentica posizione anticapitalista e antimperialista. Le escrementizie illusioni delle mosche cocchiere al servizio di questa o quella fazione capitalistica (stare dalla parte di Maduro, eletto Presidente via brogli e forzature istituzionali d’ogni genere, oppure da quella di Juan Guaidò, autoproclamatosi Presidente “ad interim” sotto l’egida di Trump?); di questo o quell’Imperialismo (Stati Uniti o i suoi molti concorrenti?) sono parte del problema che oggi vede milioni di persone soffrire e rischiare la vita. Anche sui sostenitori del violento regime chavista cade la responsabilità politica e morale di quelle sofferenze e di quelle vite spezzate.
L’esperienza chávista iniziata circa vent’anni fa sembra dunque avviarsi abbastanza ingloriosamente verso il suo catastrofico epilogo. Il bilancio che possiamo fare da questa esperienza, che tanto ha entusiasmato i nostalgici italioti del cosiddetto “Comunismo Novecentesco”, ci consegna risultati è a dir poco disastrosi, e non solo per quanto riguarda l’economia del Venezuela, come ogni persona minimamente informata di cose venezuelane sa ormai da molti anni, ma per ciò che concerne ogni aspetto della vita sociale di quel martoriato Paese. Oggi il Venezuela è un Paese capitalisticamente fallito, altro che «Socialismo del XXI secolo», altro che «autoritarismo chavista para-comunista» (Mario Giro, Limes): “para” un corno!; altro che «dittatura comunista», come ha scritto il “simpatico” Nicola Porro nella sua zuppa quotidiana servita dal Giornale. Come ai tempi d’oro dello stalinismo trionfante, gli anticomunisti godono, e legittimamente, bisogna riconoscerlo, tutte le volte che possono usare la balla speculativa del “comunismo” per impartire alle classi subalterne d’Occidente questa semplice lezione: «Vedete che fine fanno, prima o poi, i Paesi che cadono nelle rozze quanto avide mani dei comunisti! Sopportate dunque le ingiustizie del Capitalismo, che qualcosa comunque vi dà, mentre in Venezuela, o a Cuba, si fa fatica anche a procurarsi la carta igienica» (3). Se i cosiddetti “comunisti” e tutti quelli che negli ultimi vent’anni hanno esaltato i sedicenti trionfi del «Socialismo del XXI secolo» non esistessero, i vari Porro e Salvini («Spero che quel regime comunista cada il più presto possibile») dovrebbero inventarli, così da poter continuare a gettare tanta sostanza escrementizia sul nome stesso di “Comunismo”. Purtroppo non c’è bisogno di inventarli: pare che della maledetta coazione a ripetere “comunista” l’umanità non si libererà tanto presto.
«Ma il chavismo non è figlio di nessuno: è figlio prediletto del castrismo, nipote naturale del peronismo, cugino non troppo remoto di vari populismi dell’Europa latina. Il Re è nudo. E non è un bello spettacolo» (L. Zanatta, Ispi). Finalmente un po’ di chiarezza!
«”Stalin mi assomiglia proprio. Guarda quei baffi, sono uguali ai miei”: è stato lo stesso presidente venezuelano, Nicolas Maduro, a proporsi nel parallelo col dittatore georgiano dell’Urss mentre inaugurava la Fiera del Libro di Caracas. A uno stand basco, Maduro ha preso una copia tradotta di “Stalin, storia e critica di una leggenda nera” di Domenico Losurdo – un saggio “revisionista” – per sottolineare la somiglianza e concludere compiaciuto: “Il compagno Stalin, che sconfisse Hitler”» (Ansa, 2015). Certo, «il compagno Stalin»… Ci sarebbe da sghignazzare, se non ci fosse di mezzo una tragedia.
Il regime chávista oggi si regge su due pilastri: la casta degli ufficiali e il sostegno finanziario e politico fornitogli (fino a oggi) dalla Russia e dalla Cina. Ben miserabile destino per un regime che si proclamava populista, sovranista e antimperialista! Il precedente sostegno “popolare” si è dissolto sotto l’incalzare della crisi economica e della repressione. Il «Socialismo petrolifero» ha distrutto quella che un tempo forse era la più numerosa e ricca classe media di tutta l’America Latina (con una forte presenza di italiani e di discendenti italiani), ossia la spina dorsale del consumo (anche di arte e cultura) e della piccola e media impresa; impoverito larghi settori di un proletariato già immiserito da decenni di sviluppo economico “squilibrato”, sempre troppo influenzato dal settore petrolifero; ridotto centinaia di migliaia di proletari a un’infima massa di sudditi del regime la cui esistenza dipende dai miserrimi salari e dai sussidi d’ogni tipo resi possibili dalla solita rendita petrolifera, che il Governo di Caracas ha usato sia per conquistare e perpetuare una base di consenso (in Italia la chiamiamo politica clientelare), sia per portare avanti un ambizioso, quanto in larga parte velleitario, programma di espansione geopolitica, e non solo nell’area latinoamericana. Se non usata bene, sempre capitalisticamente parlando, beninteso, la rendita petrolifera e ogni altra forma di rendita di solito assume i connotati di una droga politico-sociale e di palla al piede per lo sviluppo del Paese che ha la ventura di possedere appunto vasti giacimenti petroliferi.
Detto en passant, il petrolio grezzo venezuelano è di una qualità particolarmente “dura”, viscosa, e ha quindi bisogno di una costosa lavorazione, sia in fase di estrazione, sia in fase di raffinazione. Oggi il processo di raffinazione del greggio venezuelano è in gran parte affidato alle raffinerie statunitensi. L’esportazione del petrolio rappresenta il 95 per cento di tutte le entrate da esportazioni e oltre la metà delle entrate governative. Vacche grasse in tempi di alto prezzo del greggio sul mercato mondiale, vacche magre quando quel prezzo cade, o crolla (dai111 dollari per barile del 2012, ai circa 50 di oggi): alla faccia del sovranismo politico! “Socialismo petrolifero”, appunto…
Nel lontano 1985 il Venezuela registrava il più alto prodotto interno lordo pro capite di tutta l’America latina. Ovviamente anche allora i nullatenenti faticavano ad “arrivare alla fine del mese”, e fortissime erano le differenze di reddito tra le “classi superiori” e quelle inferiori. Diciamo che nel frattempo le cose, per le classi subalterne, sono cambiate, in peggio. Qualche anno fa per arrivare alla famigerata “fine del mese” un venezuelano avrebbe dovuto ricevere un salario mensile di 187 dollari americani, ma quando andava bene, ne riceveva invece uno di 12 dollari, ai quali se era fortunato (e soprattutto fedele al regime) poteva sommare buoni alimentari erogati dal governo per un totale di 40 dollari. Mancavano all’appello 147 dollari. Toccava arrangiarsi in qualche modo, in qualsiasi modo. Oggi, sembra difficile crederlo, le cose sono molto peggiorate, complice anche un’inflazione che ha dell’incredibile. Detto in breve, il salario mensile di un venezuelano si aggira intorno a un euro e mezzo (circa 5 milioni e 200 mila bolivares), il più basso al mondo. Come ieri e più di ieri, oggi bisogna arrangiarsi!
Nel Paese la miseria è diventata così insopportabile e diffusa, che la disperata popolazione delle città è stata costretta a saccheggiare perfino i cimiteri per mettere le mani su qualcosa da poter rivendere al mercato nero: vestiti, casse da morto, denti d’oro, collanine, anelli e quant’altro. Ogni anno si contano migliaia di sequestri di persona, e la pratica, esercitata anche da bande formate da poliziotti, è così diffusa che dopo le otto di sera cala sul Paese il coprifuoco di fatto: tutta l’economia legata alla vita notturna (bar, ristoranti, discoteche) non esiste più. D’altra parte, c’è poco da festeggiare oggi in Venezuela. Per pochi spiccioli oggi a Caracas e nelle altre città del Paese si rischia la vita, il cui titolo è sceso di parecchio alla borsa valori. La malaria (e anche la tubercolosi) è tornata a bussare alle porte di molte case di Caracas, e ogni anni in tutto il Paese a miglia si contano i bambini morti per mancanza di medicine, le quali ovviamente circolano liberamente ma a prezzi inarrivabili sul mercato nero. Molti bambini mostrato segni di denutrizione acuta we molti altri sono a rischio di denutrizione.
Come tutti sanno, Maduro è ostaggio della casta degli ufficiali dell’esercito “bolivariano”: la sua sorte politica e personale dipende interamente dagli interessi che fanno capo agli alti ufficiali, i quali hanno nelle loro mani una parte notevole dell’economia nazionale, senza parlare del narcotraffico e delle altre attività “criminali”. Solo se l’opposizione e le organizzazioni internazionali offriranno loro precise garanzie economiche e legali (molti alti ufficiali rischiano la galera per essere stati coinvolti in attività “criminali” di vario genere), gli ufficiali abbandoneranno al suo miserabile destino l’uomo “forte” di Caracas. Intanto tutti i giorni molti giovani manifestanti cadono sotto i colpi delle squadracce paramilitari al servizio del regime, e molti altri finiscono in galera, nelle mani dei torturatori. El País ieri ha scritto che Maduro abbandonerà la scena solo dopo aver versato molto sangue. Purtroppo non si tratta di un’ipotesi campata in aria.
Seguendo la sua tradizionale linea politica “opportunista”, l’Italia ha rinviato il momento della scelta a favore di uno dei due contendenti: Roma vuole “vincere facile”, vuole prima vedere su chi conviene puntare senza correre rischi. «All’Italia di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio va quindi bene la dittatura di Maduro, l’economia distrutta (oggi siamo al milione per cento di inflazione), le centinaia di giovani manifestanti assassinati dai gruppi paramilitari governativi, il 10 per cento della popolazione in fuga all’estero? No di certo, perché la riunione di Bucarest è riuscita a mettere insieme nientemeno che un gruppo di lavoro che include l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna, l’Ecuador e la Bolivia per arrivare entro 90 giorni ad una soluzione politica che preveda nuove elezioni» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche). Si tratta di vedere cosa accadrà nel frattempo in Venezuela. L’Italia potrebbe trovarsi nelle condizioni di perdere terreno nei confronti dei partner europei, i quali sembrano già aver deciso su quale cavallo puntare.
È davvero esilarante osservare in questi giorni i tormenti, le contorsioni, le contraddizioni, le accuse e le contraccuse, gli esercizi di bis e trispensiero (vedi 1984 di Orwell) che attraversano il mondo della “sinistra” (“moderata” e “radicale”) del nostro Paese a proposito della crisi venezuelana. Ho scritto esilarante (anche se in realtà c’è poco da ridere, considerata la tragedia di cui si parla) e non sconfortante perché personalmente non ho mai fatto parte di quell’accozzaglia di posizioni ultrareazionarie chiamata appunto “sinistra”, ma anzi l’ho sempre presa di mira in quanto espressione particolarmente mistificata, e quindi pericolosa per le classi subalterne, dell’ideologia dominante. Per intenderci, sto parlando della “sinistra” collegata in qualche modo all’esperienza del “comunismo” internazionale (stalinismo, maoismo, castrismo, ecc.) e italiano (da Togliatti in giù). Sto parlando della “sinistra” che ancora non ha digerito il miserabile crollo dell’Unione Sovietica e la fine del vecchio sistema geopolitico venuto fuori dal Secondo conflitto imperialistico mondiale.
Un solo esempio: «In breve, Cina e Russia sul versante delle nazioni, marxisti, sovranisti e anti-imperialisti sul versante dell’opinione pubblica, stanno in queste ore ponendo il tema del diritto internazionale in contrapposizione al diritto degli Stati Uniti di fare ingerenza attiva sulle vicende di un altro paese». Non so chi legge, ma a me vien da sghignazzare leggendo queste sinistre perle di saggezza “marxista”. I «marxisti» dunque oggi fanno bene a condividere un’alleanza “tattica” (sic!) con due imperialismi di primissima grandezza come Cina e Russia, oltre che con i «sovranisti e anti-imperialisti» non meglio specificati. Secondo il “marxista” appena citato la Cina e la Russia non sarebbero coinvolte in una «ingerenza attiva sulle vicende di un altro paese»: da non credere!
Diciamo piuttosto che le due potenze imperialistiche di cui sopra appoggiano il regime venezuelano che meglio garantisce loro una presenza e una penetrazione finanziaria, politica, militare, ideologica, in una sola parola strategica non solo in Venezuela ma in tutta l’America Latina (4). Di qui, la legittima (sul terreno del diritto imperialistico: altro che il “diritto internazionale” che occupa le menti dei “marxisti”) preoccupazione degli Stati Uniti di perdere terreno in un’area del pianeta che essi a ragione ritengono vitale per i loro imperialistici interessi. Si tratta dunque di un “mero” scontro di interessi imperialistici? E non ci vuole certo la laurea in “marxismo-leninismo” (strasic!) per capirlo! Le classi subalterne venezuelane sono le vittime di questo “classico” conflitto di interessi che con il benessere del “Popolo” non hanno ovviamente nulla a che fare.
Ancora il nostro “marxista”: «Esiste, da tempo, un dibattito politico trasversale sulla natura del socialismo bolivariano: chi lo considera un modello regressivo (sinistra liberale e tutte le destre) e chi invece vi ravvisa elementi di alternativa, parziale ma comunque positiva, al modello liberista (marxisti e poco altro)». Certi “marxisti” danno per scontata la «natura del socialismo bolivariano», confermando con ciò stesso che il retaggio stalinista/maoista/castrista non è purtroppo un’invenzione di stampo paranoide di chi scrive (magari fosse così!), ma una pessima realtà che continua a produrre cattivissimi pensieri anche nel XXI secolo.
«”Sono il generale Francisco Esteban Yanez Rodriguez e riconosco il presidente Juan Guaidò”. Si apre così il video con cui Francisco Esteban Yanez Rodriguez, generale dell’aeronautica militare venezuelana, riconosce Juan Guaidò come “presidente incaricato” del Venezuela. Yanez Rodriguez si presenta, qualificandosi come direttore della pianificazione strategica dell’alto comando militare dell’aeronautica. “Mi rivolgo a voi per annunciare che non riconosco l’autorità dittatoriale di Nicolas Maduro e riconosco il deputato Juan Gaidò come presidente incaricato della repubblica bolivariana del Venezuela. Il 90% della forza armata non sta con il dittatore. Sta con il popolo. La transizione alla democrazia è imminente, questo popolo ha già sofferto abbastanza”, aggiunge» (Adnkronos). Convertito sulla via di Washington? Vedremo. D’altra parte si fa presto a passare dall’«Evviva il Duce!» a: «A morte il dittatore!», e sempre ovviamente in ossequio al benessere del Popolo. Popolo, cosa non si fa per te!
(1) «Tutta colpa del socialismo, dunque? La simbologia di questa crisi è fin troppo facile da usare per prediche ideologiche. Ma la realtà è più sfumata. Sebbene certe scelte economiche associate con quello che fu ribattezzato “socialismo per il Ventunesimo secolo” abbiano avuto un’influenza importante nella direzione del paese, tra il 1999 e il 2011 la quota dell’economia nelle mani dei privati è addirittura aumentata, passando dal 65 per al 71 cento. Sarà stato anche governato a lungo dagli statalisti, ma il Venezuela è sempre rimasto parte della famiglia capitalista» (Forbes). Qui centrale è la volgare concezione, cara anche a molti cosiddetti “marxisti”, che associa senz’altro lo statalismo (il Capitalismo di Stato) al Socialismo. Già Marx a suo tempo bastonò a sangue questa concezione, che ai suoi tempi aveva tra i suoi maggiori esponenti Ferdinand Lassalle – vedi la Critica del programma di Gotha, 1875.
(2) « La Cina è da dieci anni l’alleato più fedele di Caracas. Ha concesso finanziamenti generosi, investito milioni di dollari e ottenuto commesse altrettanto milionarie. La svolta risale al 2008 con la nascita del Fondo comune Chino-Venezuelano, vero motore dell’alleanza fra i due Paesi. Si calcola che la Cina abbia iniettato oltre 60 miliardi di dollari durante il decennio. Eppure, da un anno, sono sempre più numerosi i segnali di nervosismo che Pechino fa trapelare nei confronti del Venezuela. […] Il Venezuela, seppure rappresenti per la Cina una piattaforma chiave, rischia di diventare un peso scomodo e un Paese impraticabile anche per gli abili investitori e politici cinesi. D’altra parte, balla pericolosamente anche l’altro grande partner nella regione, il Nicaragua. E il faraonico progetto di canale che da lì dovrebbe passare, affidato a mani e capitali cinesi, per il momento resta una chimera: nelle recenti proteste anti-governative in migliaia erano i contadini e gli attivisti ambientali arrivati a Managua dalle regioni dell’istmo. La diplomazia di Pechino si sta muovendo nei Caraibi con grande abilità. In questi giorni due eventi hanno acceso i riflettori sulle sue capacità di seduzione: l’apertura a Panama di un collegamento diretto con Pechino e la scelta della Repubblica Dominicana di rompere le relazioni con Taiwan e di scegliere il gigante. Due piccoli eventi che tuttavia Pechino considera altri tasselli in nome della strategica Via della Seta verso oriente e una nuova sfida al protezionismo Usa» (East West).
(3) «Il petrolio è tutto per il Venezuela, che importa il 97% dei beni di consumo. A Caracas non si produce niente (anche la carta igienica è importata): le merci vengono dall’estero e l’economia tradizionalmente è basata sull’esportazione di greggio di cui il paese rappresenta una delle massime riserve mondiali. Anche l’Eni ha finora operato senza grandi problemi mentre altre nostre imprese (Salini, Ghella, Astaldi, Iveco…) soffrono, non sono pagate e hanno dovuto bloccare i lavori tempo fa» (Limes).
(4) «La Russia intende giungere a una soluzione che tuteli i suoi interessi, e non lo nasconde affatto. Ieri l’autoproclamato presidente Juan Guaidó ha voluto mandare un esplicito messaggio in questo senso sia alla Russia sia alla Cina. “La cosa più vantaggiosa per Russia e Cina è la stabilità del paese e il cambio di potere: Maduro non protegge gli interessi del Venezuela, non protegge gli investimenti di nessuno, quindi non è redditizio neppure per questi Stati” , ha dichiarato Guaidó alla Reuters. Dopo poche ore è giunta la replica del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che suona come una vera apertura di credito verso l’opposizione: “Indipendentemente dallo sviluppo della situazione politica in questo paese, speriamo e attendiamo con impazienza di poter proseguire e sviluppare le nostre relazioni commerciali ed economiche” ha dichiarato Peskov. Che ha poi precisato come per ora il referente di Mosca resti Nicolás Maduro» (Y Colombo, Il Manifesto). Per ora, appunto. «Non è certo il realismo politico ciò che manca alla Russia di Putin. “Ci sono rischi per l’attività delle compagnie russe in Venezuela, sarebbe sciocco negarlo” ha detto ai giornalisti il vice primo ministro Dmitry Kozak. Interessi corposi: non si tratta solo dei 17 miliardi di dollari di esposizione creditizia e delle partecipazioni azionarie in molte società petrolifere venezuelane, ma anche degli 11 miliardi di forniture belliche del periodo 2005-2017 mai pagate dal governo venezuelano».