ANCORA SUL FALLIMENTO DELL’ESPERIENZA CHÁVISTA

In estrema sintesi: il fallimento dell’esperienza chávista si è consumato interamente sul terreno dell’economia (capitalistica); infatti, nel corso di due decenni il regime chavista non è stato in grado di “riformare” la struttura economica del Venezuela così da rendere possibile un “ordinato”, profondo e duraturo processo di modernizzazione dell’intera compagine sociale. Il chavismo ha fatto registrare un completo fallimento non perché ha tradito le aspettative create dal cosiddetto «Socialismo del XXI secolo», il quale di socialista non aveva nulla (1), ma perché ha fatto arretrare il Paese in ogni senso, stringendolo ancora più fortemente che in passato nella morsa degli interessi imperialistici, i quali nel mondo non hanno solo la faccia “brutta, sporca e cattiva” degli Stati Uniti. Un fatto, questo, che molti “antimperialisti” europei non capiranno mai, e non per difetto di intelligenza, ma per mancanza di coscienza – “di classe”.

L’attivismo politico-finanziario degli Stati Uniti inteso a riportare il Venezuela sulla “buona strada” dell’alleanza strategica con il gigante americano ha impattato su un quadro economico, politico e sociale già largamente compromesso da una crisi economica che ormai dura da dieci anni, in stretto rapporto con il declino del prezzo del petrolio sul mercato internazionale. Washington ha certamente aggravato il decorso della crisi sociale, ma non l’ha creata, e ovviamente oggi ha tutto l’interesse a gettare benzina sul fuoco per accelerare la “transizione di potere”, mentre i suoi concorrenti (Mosca e Pechino) cercano di spegnere l’incendio per non mandare in fumo un importante investimento finanziario e geopolitico (2).

Come ho scritto in tutti i miei post dedicati alla crisi sociale venezuelana, non si tratta di essere “equidistanti” rispetto alle fazioni politiche che si disputano il potere e nei confronti delle potenze imperialistiche maggiormente coinvolte nella crisi (Stati Uniti, Russia e Cina): si tratta piuttosto di essere, per così dire, equicontrari, ossia di manifestare attiva (“militante”) contrarietà nei confronti di tutte le posizioni e di tutti gli interessi economici, politici e geopolitici in gioco, e solidarietà nei confronti delle classi subalterne del Venezuela, le quali oggi vivono una condizione sociale davvero disperata. Solidarietà di classe, autonomia di classe, lotta di classe: personalmente non vedo altra politica possibile per chi intenda esprimere un’autentica posizione anticapitalista e antimperialista. Le escrementizie illusioni delle mosche cocchiere al servizio di questa o quella fazione capitalistica (stare dalla parte di Maduro, eletto Presidente via brogli e forzature istituzionali d’ogni genere, oppure da quella di Juan Guaidò, autoproclamatosi Presidente “ad interim” sotto l’egida di Trump?); di questo o quell’Imperialismo (Stati Uniti o i suoi molti concorrenti?) sono parte del problema che oggi vede milioni di persone soffrire e rischiare la vita. Anche sui sostenitori del violento regime chavista cade la responsabilità politica e morale di quelle sofferenze e di quelle vite spezzate.

L’esperienza chávista iniziata circa vent’anni fa sembra dunque avviarsi abbastanza ingloriosamente verso il suo catastrofico epilogo. Il bilancio che possiamo fare da questa esperienza, che tanto ha entusiasmato i nostalgici italioti del cosiddetto “Comunismo Novecentesco”, ci consegna risultati è a dir poco disastrosi, e non solo per quanto riguarda l’economia del Venezuela, come ogni persona minimamente informata di cose venezuelane sa ormai da molti anni, ma per ciò che concerne ogni aspetto della vita sociale di quel martoriato Paese. Oggi il Venezuela è un Paese capitalisticamente fallito, altro che «Socialismo del XXI secolo», altro che «autoritarismo chavista para-comunista» (Mario Giro, Limes): “para” un corno!; altro che «dittatura comunista», come ha scritto il “simpatico” Nicola Porro nella sua zuppa quotidiana servita dal Giornale. Come ai tempi d’oro dello stalinismo trionfante, gli anticomunisti godono, e legittimamente, bisogna riconoscerlo, tutte le volte che possono usare la balla speculativa del “comunismo” per impartire alle classi subalterne d’Occidente questa semplice lezione: «Vedete che fine fanno, prima o poi, i Paesi che cadono nelle rozze quanto avide mani dei comunisti! Sopportate dunque le ingiustizie del Capitalismo, che qualcosa comunque vi dà, mentre in Venezuela, o a Cuba, si fa fatica anche a procurarsi la carta igienica» (3). Se i cosiddetti “comunisti” e tutti quelli che negli ultimi vent’anni hanno esaltato i sedicenti trionfi del «Socialismo del XXI secolo» non esistessero, i vari Porro e Salvini («Spero che quel regime comunista cada il più presto possibile») dovrebbero inventarli, così da poter continuare a gettare tanta sostanza escrementizia sul nome stesso di “Comunismo”. Purtroppo non c’è bisogno di inventarli: pare che della maledetta coazione a ripetere “comunista” l’umanità non si libererà tanto presto.

«Ma il chavismo non è figlio di nessuno: è figlio prediletto del castrismo, nipote naturale del peronismo, cugino non troppo remoto di vari populismi dell’Europa latina. Il Re è nudo. E non è un bello spettacolo» (L. Zanatta, Ispi). Finalmente un po’ di chiarezza!
«”Stalin mi assomiglia proprio. Guarda quei baffi, sono uguali ai miei”: è stato lo stesso presidente venezuelano, Nicolas Maduro, a proporsi nel parallelo col dittatore georgiano dell’Urss mentre inaugurava la Fiera del Libro di Caracas. A uno stand basco, Maduro ha preso una copia tradotta di “Stalin, storia e critica di una leggenda nera” di Domenico Losurdo – un saggio “revisionista” – per sottolineare la somiglianza e concludere compiaciuto: “Il compagno Stalin, che sconfisse Hitler”» (Ansa, 2015). Certo, «il compagno Stalin»… Ci sarebbe da sghignazzare, se non ci fosse di mezzo una tragedia.

Il regime chávista oggi si regge su due pilastri: la casta degli ufficiali e il sostegno finanziario e politico fornitogli (fino a oggi) dalla Russia e dalla Cina. Ben miserabile destino per un regime che si proclamava populista, sovranista e antimperialista! Il precedente sostegno “popolare” si è dissolto sotto l’incalzare della crisi economica e della repressione. Il «Socialismo petrolifero» ha distrutto quella che un tempo forse era la più numerosa e ricca classe media di tutta l’America Latina (con una forte presenza di italiani e di discendenti italiani), ossia la spina dorsale del consumo (anche di arte e cultura) e della piccola e media impresa; impoverito larghi settori di un proletariato già immiserito da decenni di sviluppo economico “squilibrato”, sempre troppo influenzato dal settore petrolifero; ridotto centinaia di migliaia di proletari a un’infima massa di sudditi del regime la cui esistenza dipende dai miserrimi salari e dai sussidi d’ogni tipo resi possibili dalla solita rendita petrolifera, che il Governo di Caracas ha usato sia per conquistare e perpetuare una base di consenso (in Italia la chiamiamo politica clientelare), sia per portare avanti un ambizioso, quanto in larga parte velleitario, programma di espansione geopolitica, e non solo nell’area latinoamericana. Se non usata bene, sempre capitalisticamente parlando, beninteso, la rendita petrolifera e ogni altra forma di rendita di solito assume i connotati di una droga politico-sociale e di palla al piede per lo sviluppo del Paese che ha la ventura di possedere appunto vasti giacimenti petroliferi.

Detto en passant, il petrolio grezzo venezuelano è di una qualità particolarmente “dura”, viscosa, e ha quindi bisogno di una costosa lavorazione, sia in fase di estrazione, sia in fase di raffinazione. Oggi il processo di raffinazione del greggio venezuelano è in gran parte affidato alle raffinerie statunitensi. L’esportazione del petrolio rappresenta il 95 per cento di tutte le entrate da esportazioni e oltre la metà delle entrate governative. Vacche grasse in tempi di alto prezzo del greggio sul mercato mondiale, vacche magre quando quel prezzo cade, o crolla (dai111 dollari per barile del 2012, ai circa 50 di oggi): alla faccia del sovranismo politico! “Socialismo petrolifero”, appunto…

Nel lontano 1985 il Venezuela registrava il più alto prodotto interno lordo pro capite di tutta l’America latina. Ovviamente anche allora i nullatenenti faticavano ad “arrivare alla fine del mese”, e fortissime erano le differenze di reddito tra le “classi superiori” e quelle inferiori. Diciamo che nel frattempo le cose, per le classi subalterne, sono cambiate, in peggio. Qualche anno fa per arrivare alla famigerata “fine del mese” un venezuelano avrebbe dovuto ricevere un salario mensile di 187 dollari americani, ma quando andava bene, ne riceveva invece uno di 12 dollari, ai quali se era fortunato (e soprattutto fedele al regime) poteva sommare buoni alimentari erogati dal governo per un totale di 40 dollari. Mancavano all’appello 147 dollari. Toccava arrangiarsi in qualche modo, in qualsiasi modo. Oggi, sembra difficile crederlo, le cose sono molto peggiorate, complice anche un’inflazione che ha dell’incredibile. Detto in breve, il salario mensile di un venezuelano si aggira intorno a un euro e mezzo (circa 5 milioni e 200 mila bolivares), il più basso al mondo. Come ieri e più di ieri, oggi bisogna arrangiarsi!

Nel Paese la miseria è diventata così insopportabile e diffusa, che la disperata popolazione delle città è stata costretta a saccheggiare perfino i cimiteri per mettere le mani su qualcosa da poter rivendere al mercato nero: vestiti, casse da morto, denti d’oro, collanine, anelli e quant’altro. Ogni anno si contano migliaia di sequestri di persona, e la pratica, esercitata anche da bande formate da poliziotti, è così diffusa che dopo le otto di sera cala sul Paese il coprifuoco di fatto: tutta l’economia legata alla vita notturna (bar, ristoranti, discoteche) non esiste più. D’altra parte, c’è poco da festeggiare oggi in Venezuela. Per pochi spiccioli oggi a Caracas e nelle altre città del Paese si rischia la vita, il cui titolo è sceso di parecchio alla borsa valori. La malaria (e anche la tubercolosi) è tornata a bussare alle porte di molte case di Caracas, e ogni anni in tutto il Paese a miglia si contano i bambini morti per mancanza di medicine, le quali ovviamente circolano liberamente ma a prezzi inarrivabili sul mercato nero. Molti bambini mostrato segni di denutrizione acuta we molti altri sono a rischio di denutrizione.

Come tutti sanno, Maduro è ostaggio della casta degli ufficiali dell’esercito “bolivariano”: la sua sorte politica e personale dipende interamente dagli interessi che fanno capo agli alti ufficiali, i quali hanno nelle loro mani una parte notevole dell’economia nazionale, senza parlare del narcotraffico e delle altre attività “criminali”. Solo se l’opposizione e le organizzazioni internazionali offriranno loro precise garanzie economiche e legali (molti alti ufficiali rischiano la galera per essere stati coinvolti in attività “criminali” di vario genere), gli ufficiali abbandoneranno al suo miserabile destino l’uomo “forte” di Caracas. Intanto tutti i giorni molti giovani manifestanti cadono sotto i colpi delle squadracce paramilitari al servizio del regime, e molti altri finiscono in galera, nelle mani dei torturatori. El País ieri ha scritto che Maduro abbandonerà la scena solo dopo aver versato molto sangue. Purtroppo non si tratta di un’ipotesi campata in aria.

Seguendo la sua tradizionale linea politica “opportunista”, l’Italia ha rinviato il momento della scelta a favore di uno dei due contendenti: Roma vuole “vincere facile”, vuole prima vedere su chi conviene puntare senza correre rischi. «All’Italia di Matteo Salvini e di Luigi Di Maio va quindi bene la dittatura di Maduro, l’economia distrutta (oggi siamo al milione per cento di inflazione), le centinaia di giovani manifestanti assassinati dai gruppi paramilitari governativi, il 10 per cento della popolazione in fuga all’estero? No di certo, perché la riunione di Bucarest è riuscita a mettere insieme nientemeno che un gruppo di lavoro che include l’Italia, la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, la Spagna, l’Ecuador e la Bolivia per arrivare entro 90 giorni ad una soluzione politica che preveda nuove elezioni» (E. Oliari, Notizie Geopolitiche). Si tratta di vedere cosa accadrà nel frattempo in Venezuela. L’Italia potrebbe trovarsi nelle condizioni di perdere terreno nei confronti dei partner europei, i quali sembrano già aver deciso su quale cavallo puntare.

È davvero esilarante osservare in questi giorni i tormenti, le contorsioni, le contraddizioni, le accuse e le contraccuse, gli esercizi di bis e trispensiero (vedi 1984 di Orwell) che attraversano il mondo della “sinistra” (“moderata” e “radicale”) del nostro Paese a proposito della crisi venezuelana. Ho scritto esilarante (anche se in realtà c’è poco da ridere, considerata la tragedia di cui si parla) e non sconfortante perché personalmente non ho mai fatto parte di quell’accozzaglia di posizioni ultrareazionarie chiamata appunto “sinistra”, ma anzi l’ho sempre presa di mira in quanto espressione particolarmente mistificata, e quindi pericolosa per le classi subalterne, dell’ideologia dominante. Per intenderci, sto parlando della “sinistra” collegata in qualche modo all’esperienza del “comunismo” internazionale (stalinismo, maoismo, castrismo, ecc.) e italiano (da Togliatti in giù). Sto parlando della “sinistra” che ancora non ha digerito il miserabile crollo dell’Unione Sovietica e la fine del vecchio sistema geopolitico venuto fuori dal Secondo conflitto imperialistico mondiale.

Un solo esempio: «In breve, Cina e Russia sul versante delle nazioni, marxisti, sovranisti e anti-imperialisti sul versante dell’opinione pubblica, stanno in queste ore ponendo il tema del diritto internazionale in contrapposizione al diritto degli Stati Uniti di fare ingerenza attiva sulle vicende di un altro paese». Non so chi legge, ma a me vien da sghignazzare leggendo queste sinistre perle di saggezza “marxista”. I «marxisti» dunque oggi fanno bene a condividere un’alleanza “tattica” (sic!) con due imperialismi di primissima grandezza come Cina e Russia, oltre che con i «sovranisti e anti-imperialisti» non meglio specificati. Secondo il “marxista” appena citato la Cina e la Russia non sarebbero coinvolte in una «ingerenza attiva sulle vicende di un altro paese»: da non credere!

Diciamo piuttosto che le due potenze imperialistiche di cui sopra appoggiano il regime venezuelano che meglio garantisce loro una presenza e una penetrazione finanziaria, politica, militare, ideologica, in una sola parola strategica non solo in Venezuela ma in tutta l’America Latina (4). Di qui, la legittima (sul terreno del diritto imperialistico: altro che il “diritto internazionale” che occupa le menti dei “marxisti”) preoccupazione degli Stati Uniti di perdere terreno in un’area del pianeta che essi a ragione ritengono vitale per i loro imperialistici interessi. Si tratta dunque di un “mero” scontro di interessi imperialistici? E non ci vuole certo la laurea in “marxismo-leninismo” (strasic!) per capirlo! Le classi subalterne venezuelane sono le vittime di questo “classico” conflitto di interessi che con il benessere del “Popolo” non hanno ovviamente nulla a che fare.

Ancora il nostro “marxista”: «Esiste, da tempo, un dibattito politico trasversale sulla natura del socialismo bolivariano: chi lo considera un modello regressivo (sinistra liberale e tutte le destre) e chi invece vi ravvisa elementi di alternativa, parziale ma comunque positiva, al modello liberista (marxisti e poco altro)». Certi “marxisti” danno per scontata la «natura del socialismo bolivariano», confermando con ciò stesso che il retaggio stalinista/maoista/castrista non è purtroppo un’invenzione di stampo paranoide di chi scrive (magari fosse così!), ma una pessima realtà che continua a produrre cattivissimi pensieri anche nel XXI secolo.

ULTIME NOTIZIE!

«”Sono il generale Francisco Esteban Yanez Rodriguez e riconosco il presidente Juan Guaidò”. Si apre così il video con cui Francisco Esteban Yanez Rodriguez, generale dell’aeronautica militare venezuelana, riconosce Juan Guaidò come “presidente incaricato” del Venezuela. Yanez Rodriguez si presenta, qualificandosi come direttore della pianificazione strategica dell’alto comando militare dell’aeronautica. “Mi rivolgo a voi per annunciare che non riconosco l’autorità dittatoriale di Nicolas Maduro e riconosco il deputato Juan Gaidò come presidente incaricato della repubblica bolivariana del Venezuela. Il 90% della forza armata non sta con il dittatore. Sta con il popolo. La transizione alla democrazia è imminente, questo popolo ha già sofferto abbastanza”, aggiunge» (Adnkronos). Convertito sulla via di Washington? Vedremo. D’altra parte si fa presto a passare dall’«Evviva il Duce!» a: «A morte il dittatore!», e sempre ovviamente in ossequio al benessere del Popolo. Popolo, cosa non si fa per te!

 

(1) «Tutta colpa del socialismo, dunque? La simbologia di questa crisi è fin troppo facile da usare per prediche ideologiche. Ma la realtà è più sfumata. Sebbene certe scelte economiche associate con quello che fu ribattezzato “socialismo per il Ventunesimo secolo” abbiano avuto un’influenza importante nella direzione del paese, tra il 1999 e il 2011 la quota dell’economia nelle mani dei privati è addirittura aumentata, passando dal 65 per al 71 cento. Sarà stato anche governato a lungo dagli statalisti, ma il Venezuela è sempre rimasto parte della famiglia capitalista» (Forbes). Qui centrale è la volgare concezione, cara anche a molti cosiddetti “marxisti”, che associa senz’altro lo statalismo (il Capitalismo di Stato) al Socialismo. Già Marx a suo tempo bastonò a sangue questa concezione, che ai suoi tempi aveva tra i suoi maggiori esponenti Ferdinand Lassalle – vedi la Critica del programma di Gotha, 1875.

(2) « La Cina è da dieci anni l’alleato più fedele di Caracas. Ha concesso finanziamenti generosi, investito milioni di dollari e ottenuto commesse altrettanto milionarie. La svolta risale al 2008 con la nascita del Fondo comune Chino-Venezuelano, vero motore dell’alleanza fra i due Paesi. Si calcola che la Cina abbia iniettato oltre 60 miliardi di dollari durante il decennio. Eppure, da un anno, sono sempre più numerosi i segnali di nervosismo che Pechino fa trapelare nei confronti del Venezuela. […] Il Venezuela, seppure rappresenti per la Cina una piattaforma chiave, rischia di diventare un peso scomodo e un Paese impraticabile anche per gli abili investitori e politici cinesi. D’altra parte, balla pericolosamente anche l’altro grande partner nella regione, il Nicaragua. E il faraonico progetto di canale che da lì dovrebbe passare, affidato a mani e capitali cinesi, per il momento resta una chimera: nelle recenti proteste anti-governative in migliaia erano i contadini e gli attivisti ambientali arrivati a Managua dalle regioni dell’istmo. La diplomazia di Pechino si sta muovendo nei Caraibi con grande abilità. In questi giorni due eventi hanno acceso i riflettori sulle sue capacità di seduzione: l’apertura a Panama di un collegamento diretto con Pechino e la scelta della Repubblica Dominicana di rompere le relazioni con Taiwan e di scegliere il gigante. Due piccoli eventi che tuttavia Pechino considera altri tasselli in nome della strategica Via della Seta verso oriente e una nuova sfida al protezionismo Usa» (East West).

(3) «Il petrolio è tutto per il Venezuela, che importa il 97% dei beni di consumo. A Caracas non si produce niente (anche la carta igienica è importata): le merci vengono dall’estero e l’economia tradizionalmente è basata sull’esportazione di greggio di cui il paese rappresenta una delle massime riserve mondiali. Anche l’Eni ha finora operato senza grandi problemi mentre altre nostre imprese (Salini, Ghella, Astaldi, Iveco…) soffrono, non sono pagate e hanno dovuto bloccare i lavori tempo fa» (Limes).

(4) «La Russia intende giungere a una soluzione che tuteli i suoi interessi, e non lo nasconde affatto. Ieri l’autoproclamato presidente Juan Guaidó ha voluto mandare un esplicito messaggio in questo senso sia alla Russia sia alla Cina. “La cosa più vantaggiosa per Russia e Cina è la stabilità del paese e il cambio di potere: Maduro non protegge gli interessi del Venezuela, non protegge gli investimenti di nessuno, quindi non è redditizio neppure per questi Stati” , ha dichiarato Guaidó alla Reuters. Dopo poche ore è giunta la replica del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che suona come una vera apertura di credito verso l’opposizione: “Indipendentemente dallo sviluppo della situazione politica in questo paese, speriamo e attendiamo con impazienza di poter proseguire e sviluppare le nostre relazioni commerciali ed economiche” ha dichiarato Peskov. Che ha poi precisato come per ora il referente di Mosca resti Nicolás Maduro» (Y Colombo, Il Manifesto). Per ora, appunto. «Non è certo il realismo politico ciò che manca alla Russia di Putin. “Ci sono rischi per l’attività delle compagnie russe in Venezuela, sarebbe sciocco negarlo” ha detto ai giornalisti il vice primo ministro Dmitry Kozak. Interessi corposi: non si tratta solo dei 17 miliardi di dollari di esposizione creditizia e delle partecipazioni azionarie in molte società petrolifere venezuelane, ma anche degli 11 miliardi di forniture belliche del periodo 2005-2017 mai pagate dal governo venezuelano».

VENEZUELA. IL PUNTO SUL “PROCESSO SOCIALE BOLIVARIANO”

Ho scritto questo post ieri; esso prescinde quindi dagli ultimi sviluppi relativi alla sempre più violenta e ingarbugliata crisi sociale venezuelana.

Molti analisti di politica internazionale ritengono, forse non a torto, che l’attuale Presidente venezuelano si stia giocando il tutto per tutto: «o tutto il potere possibile o niente». La ricerca di un compromesso con le forze di opposizione “più responsabili” sarebbe esclusa in partenza. Di qui, i suoi ripetuti tentativi di eliminare, o comunque esautorare l’Assemblea Nazionale eletta nel dicembre del 2015 sulla base della Costituzione voluta da Chávez nel 1999 e considerata dai suoi successori come «la più bella del mondo» (ma non ditelo a Bersani e company!); Assemblea oggi controllata dall’opposizione. Nicolas Maduro prima (marzo 2017) ha cercato di svuotare il potere politico dell’Assemblea Nazionale ricorrendo alla tutela del Tribunale Supremo di Giustizia che gli ha concesso poteri speciali in materia economica, sociale, politica, civile, criminale e militare; poi, quando la manovra “golpista” non ha avuto successo, ha deciso di convocare un’Assemblea Nazionale Costituente (priva di partiti) per scrivere una nuova Costituzione. Questa nuova e inedita Assemblea sarebbe composta da 500 membri scelti per metà tra diversi «movimenti sociali» (collettivi organizzati, sindacati, cooperative, associazioni di categoria) e per metà tra le circoscrizioni municipali, tutti ambienti politico-sociali strettamente controllati dal chavismo. Maduro può contare inoltre sull’«appoggio incondizionato» dell’esercito, un perno fondamentale del regime chavista.

In sostanza si tratta di mettere definitivamente tutto il potere nelle mani del chavismo, ossia del regime che ha usato la rendita petrolifera come un formidabile strumento di corruzione sociale, nell’accezione squisitamente critico-radicale, e non moralistico-sociologico, del concetto. Quando un “marxista” parla di corruzione sociale, non intende alludere in primo luogo, alla maniera dei populisti e dei manettari nostrani, alle “mazzette”, alle “tangenti”, alle “bustarelle” e così via, ma a un processo sociale molto più profondo e deleterio (dal punto di vista dell’autonomia di classe) che investe soprattutto gli strati sociali più bassi della società.

Anziché cercare analogie pescando nella ricca tradizione peronista, stalinista e fascista (vedi, mutatis mutandis, la Repubblica Sociale a base corporativa di Mussolini), non pochi “comunisti” nostrani hanno tirato in ballo, a proposito di «processo sociale bolivariano», la «democrazia proletaria sovietica» del 1917: Maduro come il Lenin del XXI secolo; il tentativo di consolidare un regime ultrareazionario (semplicemente perché espressione dei rapporti sociali capitalistici vigenti e dominanti in tutti il mondo) come una «nuova e inedita» rivoluzione sociale. Ma mi faccia il piacere!, direbbe il compagno Totò. Solo dei luminari della scienza sociale potevano dar credito alla panzana (diciamo così) del «Socialismo del XXI secolo», e difatti i personaggi che militavano o che si riconoscevano ideologicamente nella vasta galassia stalinista (chiamata «Comunismo Novecentesco» dai soliti intellettualoni “marxisti”) si sono subito gettati a pesce morto (appunto!) sulla nuova e insperata frescaccia mitologica.

Scrive Achille Lollo: «Le nuove norme che caratterizzeranno i lavori della nuova Assemblea Costituente possono essere così riassunti: 1) Garantire una pace effettiva in tutto il Venezuela: 2) Perfezionare il nuovo sistema economico capace di ridurre la dipendenza dal petrolio; 3) Dare alle Missiones uso status costituzionale; 4) Rafforzare il sistema giudiziario per dinamizzare la lotta al terrorismo e al narcotraffico; 5) Scrivere nella nuova Costituzione l’affermazione del “Poder Comunal”, come un elemento determinante della democrazia partecipativa e protagonista; 6) Rafforzare la sovranità nazionale a livello della politica estera del Venezuela. In pratica, questi sei argomenti saranno le basi portanti di una nuova transizione [ecco la parola magica che tanto piace ai sinistri: transizione] dove la lotta di classe proletaria e la lotta anti-imperialista ascenderanno a una fase superiore [come no!]. È soprattutto per questo motivo che l’impero contrattacca con tutti i suoi mezzi e i suoi serventi canini. Infatti a Washington e Miami sanno benissimo che la maggioranza dei lavoratori venezuelani è stanca dei ricatti dei borghesi del MUD, è stanca dei piani eversivi dell’imperialismo, è stanca dei sabotaggi legislativi dell’opposizione. Per questo, sono in molti a riconoscere che questa nuova Assemblea Nazionale Costituente concretizzerà quello che Hugo Chávez aveva previsto: il Socialismo del Secolo XXI». Dinanzi a questo entusiasmo chavista posso solo augurarmi che i lavoratori venezuelani si stanchino presto non solo del regime attuale e dei suoi «serventi canini» internazionali, ma del regime capitalistico in quanto tale, a prescindere dalla forma politico-istituzionale che esso assume nelle diverse contingenze storiche.

Parlavo prima di corruzione sociale. Attraverso una particolare gestione della rendita petrolifera il chavismo è riuscito negli anni a crearsi una larga base di consenso sociale, base che ha come motto: «Non mordere mai la mano che ti sfama». Un motto molto noto anche in Italia, soprattutto nelle sue zone economicamente depresse.

Le prime vittime del clientelismo statalista con caratteristiche chaviste sono stati i ceti medi urbani del Paese, che infatti hanno ingrossato come non mai le file dell’opposizione politica e sociale. Tutti i limiti di una tale strategia volta alla ricerca del consenso e al controllo sociale (sempre difficile in America Latina) sono venute a galla nel momento in cui sul mercato mondiale delle materie prime il prezzo del petrolio ha iniziato a precipitare, riducendo i margini di manovra nella allocazione della spesa pubblica, problema che ha investito tutti i Paesi dipendenti dalla rendita petrolifera: dalla Russia all’Arabia Saudita. Dopo i ceti medi, è toccato dunque agli strati sociali più bassi fare i conti con la strategia politico-economica del chavismo. La decomposizione del tessuto sociale del Venezuela è sotto gli occhi di tutti (corruzione a tutti i livelli, criminalità comune e organizzata sempre più violenta e dilagante, ecc., ecc.), e dare la responsabilità della tragedia in corso al solito complotto imperialista degli americani è semplicemente ridicolo. La crisi economica, la «guerra a bassa intensità» tra il regime e l’opposizione cosiddetta democratica (due facce della stessa escrementizia medaglia), il caos sistemico e il senso di insicurezza devastano con una brutalità senza precedenti il proletariato venezuelano, il quale non sembra in grado di orientarsi sulla base dei suoi specifici interessi di classe. Ma questa è una sciagura che purtroppo non riguarda solo il proletariato di quel Paese.

Come si vede, io non attacco il regime chavista e il «processo sociale bolivariano», qualunque cosa ciò possa significare, dal punto di vista della democrazia liberale, ma da quello dell’autonomia proletaria e della lotta di classe dispiegata contro tutti i settori della classe dominante, contro tutti i partiti (di “destra” e di “sinistra”, liberisti e statalisti, peronisti e bolivariani) che ne sono l’espressione, contro tutti gli Stati e contro tutti gli imperialismi, compresi quelli regionali che usano il petrolio per estendere “pacificamente” la loro influenza politica, ideologica e militare.

Qui di seguito riporto la mia risposta a un commento di un lettore del mio precedente post sul Venezuela Indietro tutta! Sui sostenitori del regime venezuelano. Non prima però di far conoscere ai lettori il lapidario commento a un altro mio post sul Venezuela: «Articolo del cavolo, delirio degno del foglio o di libero, dileggio pieno di seghe mentali, classico intellettuale tronfio e pieno di se che non sa un cazzo e si atteggia a detentore della verità». Detto che certi giudizi sono balsamo spalmato sulla mia dolente autostima, desidero solo precisare che non sono un intellettuale, né “classico”, né moderno, né postmoderno. Sociologicamente parlando appartengo al proletario, purtroppo; marxianamente parlando, sono un proletario con “ambizioni rivoluzionarie”, proprio secondo la nota tesi marxiana: «L’emancipazione del proletariato deve essere opera dello stesso proletariato». Il che ovviamente non mi mette al riparo dal dire e dal fare sciocchezze. E tuttavia! Posso esibire al mondo pochissime verità, e tra esse vi è senz’altro la seguente: non vi è un solo atomo di “socialismo” nell’esperienza chavista, la quale si è dipanata e si dipana interamente dentro la disumana dimensione capitalistica.

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Ti ringrazio per l’immeritato complimento, che naturalmente incasso con molto piacere, tanto più se giunge da parte di un lettore che non condivide la mia impostazione politica nel caso di specie. La mia risposta al tuo commento la trovi sui miei post dedicati al Venezuela e, più in generale, alla competizione imperialistica mondiale (consiglio anche i post dedicati alla guerra in Siria), rispetto alla quale mi pongo su una posizione di radicale opposizione nei confronti di tutte le Potenze, grandi e piccole, di caratura internazionale (Stati Uniti, Cina, Russia, Unione Europea, ecc.) o regionale (a cominciare dall’Italia, Paese che, in quanto proletario italiano, considero il mio nemico principale non in quanto inserito in un’alleanza imperialistica dominata dagli Stati Uniti, ma in quanto media potenza capitalistica che ricerca il suo “spazio vitale” nel suo tradizionale “cortile di casa”, cosa che non di rado porta l’Italia a urtare contro gli interessi di Francia e Inghilterra: vedi Libia). Non ho mai condiviso la teoria del «Nemico Principale» (leggi Stati Uniti), soprattutto perché in passato (prima del crollo del famigerato Muro di Berlino) non consentiva di valutare adeguatamente la portate delle contraddizioni capitalistiche che si sviluppavano nel cuore del cosiddetto “mondo libero”: è sufficiente pensare alle guerre commerciali, finanziarie e monetarie che hanno visto come protagonisti USA, Germania e Giappone soprattutto dopo la chiusura del lungo ciclo espansivo postbellico alla fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Per altro verso quella teoria tendeva a sminuire, per converso, la portata delle tensioni sociali che si sviluppavano nei Paesi considerati nemici del «Nemico Principale», e ciò per non dividere e indebolire il fronte antiamericano. Ebbene, questo schema “campista” è, a mio avviso, tanto più infondato e politicamente perdente oggi, nel momento in cui la competizione interimperialistica è assai più complessa e frastagliata che ai tempi della Guerra Fredda. È sufficiente riflettere sul ruolo imperialistico della Cina per capire di che parlo. Già il solo parlare di «centro del sistema» nell’epoca del dominio globale e totale (o totalitario) del rapporto sociale capitalistico mi suona quantomeno problematico: il «centro del sistema» è ovunque. Questo senza ovviamente voler trascurare il problema circa l’ineguale sviluppo del Capitalismo nelle diverse aree del pianeta. Ritengo tuttavia che tale questione oggi debba essere approcciata in modo assai diverso da come Marx e Lenin l’aggredirono sul piano concettuale e politico a partire dal Capitalismo del loro tempo. Ma forse sto divagando!

Personalmente riconosco come amico un unico campo, peraltro tutto da costruire: quello formato dal proletariato di tutte le nazioni e da tutti gli individui che si sentono in guerra con il rapporto sociale capitalistico. Dicendo questo so di non affermare niente di originale ma di esternare un minimo sindacale di “autonomia di classe”. A mio avviso è una pura e reazionaria illusione (che non ti sto attribuendo, sia chiaro!) credere che il lavoro di costruzione proletaria e internazionalista cui facevo cenno possa in qualche modo venir facilitata dall’indebolimento di questo o quell’imperialismo, e dal rafforzamento di questo o quell’imperialismo. All’autonomia di classe, declinata su ogni aspetto della lotta di classe (da quella “economica” per il lavoro e il salario a quella antimilitarista e antimperialista) non c’è alternativa, e non possiamo illuderci di poter fare politica internazionalista “concreta” (non “parolaia”, non “dottrinaria”, non “settaria”: insomma non come la faccio io secondo miei diversi interlocutori) appoggiando “tatticamente” il nemico del nostro “Nemico principale”: la storia è piena di mosche cocchiere finite malissimo. So benissimo di non proporre soluzioni facili, ma bere l’amaro calice che ci porge la realtà può forse aiutarci a porci le giuste domande.

Per quanto riguarda il Venezuela, e senza scendere nei dettagli della tua riflessione, mi sembra che tu ponga la questione in termini esclusivamente capitalistici: cosa avrebbe potuto fare di diverso Chávez, cosa potrebbe fare di diverso Maduro? Ma non si tratta di dare consigli agli esponenti politici delle classi dominanti! Almeno per me si tratta di lottare contro ogni forma di politica economica implementata dalle classi dominanti, o anche solo da una sua fazione giunta contingentemente al potere. Io sono (cerco di esserlo) un anticapitalista, non un consulente per le buone pratiche capitalistiche. Non è appoggiando in qualche modo il regime di Maduro che possiamo lottare con efficacia i lupi di cui parli tu – anch’io ho seguito su Radio Radicale il dibattito parlamentare sul Venezuela. Anche se dici di non sostenere Maduro tu, a mio avviso, ti fai delle illusioni circa quel regime, che, a quanto credo di capire, consideri il male minore in chiave di prospettiva rivoluzionaria, «o semplicemente di classe». A mio avviso è proprio attribuendo una qualche coloritura “rivoluzionaria” e “socialista” (il «Socialismo del XXI Secolo: sic!») a quel regime e, più in generale, al chávismo, che si contribuisce ad allontanare nel tempo lo sviluppo di un’autentica coscienza di classe nel proletariato venezuelano, peraltro da sempre avvelenato dalla retorica patriottarda, come del resto tutto il proletariato dell’America Latina. È facile, per i regimi di “destra” e di “sinistra” di quella parte di mondo, far ricadere sempre e comunque la responsabilità dell’oppressione sociale, della miseria e di quant’altro agli americani! Dire questo significa forse portare acqua al mulino dell’imperialismo americano? Ma non scherziamo! Non possiamo rimandare la lotta di classe in molti Paesi del mondo al momento in cui essi raggiungeranno lo stesso grado di maturità capitalistica e la stessa forza imperialistica dei Paesi più forti del mondo.

Non ti sto attribuendo questa posizione: faccio un discorso generale per far comprendere meglio il mio punto di vista. «Ad abbattere Maduro, deve essere il proletariato venezuelano»: sottoscrivo mille volte! Ma questo non mi porta certo ad appoggiare la repressione del regime di Caracas ai danni dell’opposizione politica venezuelana “di destra”! Io non delego la lotta politica contro le diverse espressioni politico-ideologiche delle classi dominanti allo Stato, venezuelano o italiano che sia. Non è perché l’Italia appoggia l’opposizione politica anti-Maduro, questo solo fatto fa di quel regime un “oggettivo” alleato delle forze antagoniste in Italia e in Venezuela: questa posizione non mi sembra molto dialettica. L’autonomia di classe e l’antagonismo di classe vanno dispiegati a “360 gradi”, senza eccezione alcuna, senza alcun ritegno per nessuna delle fazioni filo capitalistiche in lotta per il potere, siano esse di governo o di opposizione. Altro che «stare a guardare», altro che «indifferenza»!

 

SOCIAL SOVRANISTI SU MARTE

Come salvare il Paese dalla crisi economica e riconquistare la sovranità sistemica (economica, politica, istituzionale) perduta. È l’assillo che angoscia i sinistri d’Italia, divisi in almeno tre scuole di pensiero. Ci sono gli europeisti convinti («senza se e senza ma»), gli europeisti timidi e “articolati” (Europa sì, ma “laicamente”; Euro no, ma forse un altro Euro è possibile: «Un’altra economia per una nuova Europa», scrive oggi Guido Viale sul Manifesto) e, dulcis in fundo, gli antieuropeisti sostenitori dell’uscita del Bel Paese praticamente da tutto: dall’Europa, dall’Euro, dal libero mercato, dalla globalizzazione, dal Capitale finanziario.

E dal Capitale tout court? Sto parlando dei sinistri, comunque “declinati”, vi siete distratti? Non sto mica parlando di quei dottrinari, nonché settari, che favoleggiano l’uscita rivoluzionaria del mondo dal Capitalismo («campa cavallo!»), e che, sulla scorta di questa prospettiva che giustamente fa sorridere tutte le correnti della «sinistra» nazionale e internazionale, si muovono nel presente per sostenere la resistenza dei salariati e dei disoccupati contro ogni tipo di politica dei sacrifici, non importa se “declinata” a «destra» o a «sinistra». A differenza di chi scrive, i sinistri sono persone serie, con i piedi ancorati saldamente a terra, e soprattutto hanno a cuore le sorti del Paese. Come altre volte ho scritto, il massimo di “rivoluzionario” che questi personaggi riescono a immaginare è il Venezuela di Chávez o la Bolivia di Morales. Ma anche l’Argentina delle nazionalizzazioni non è da disprezzare, ha, come si dice, “il suo perché”.

Nazionalismo economico e protezionismo: è il mantra dei sovranisti, di «destra» come di «sinistra» – questi ultimi, infatti, rinfacciano ai sinistri che non vogliono rompere con l’europeismo di essere «più a destra» di molti «destri» dichiarati. È un vero peccato, a questo proposito, che il direttore del Giornale Sallusti, teorico di una guerra (politica, tanto per iniziare) contro «le manie egemoniche della Germania votata al Quarto Reich», sia un uomo di «destra», persino fisiognomicamente parlando. Tuttavia, quando il «Bene Comune» (altrimenti detto Stato Nazionale, o Paese, o Patria) chiama, le distinzioni politiche tendono a evaporare, sotto la pressione delle scelte irrevocabili. Il Fascismo ha molto da insegnarci, il Nazismo ancor di più.

A proposito di Guido Viale! Ecco cosa scrive oggi quello che sembra essere diventato lo stratega del «giornale comunista» sul terreno della guerra economica in corso: «Una classe dirigente inetta, incolta, arrogante, asservita sta portando alla rovina l’Europa e con essa le principali conquiste che il movimento operaio e la cultura democratica avevano realizzato nel corso di un secolo» (Il Manifesto, 25 07 2012). Insomma, un gigantesco scontro di interessi, nazionali e sovranazionali, di varia natura (economici e politici, in primis), che peraltro attraversa le stesse classi dominanti dei singoli paesi (anche la Germania è divisa in filoeuropei e antieuropei, e non certo per motivi ideologici); una guerra sistemica di vasta portata, dicevo, è interpretata banalmente come il fallimento di una «classe dirigente» incapace di sostenere le sfide che la globalizzazione capitalistica ha lanciato al mondo intero.

La verità è che come molti sinistri, Viale è nostalgico del mondo prima della caduta del muro di Berlino, e questo la dice lunga sulla natura delle sue ricette politico-economiche improntate a «più Stato, meno mercato». La sua apologia della vecchia Europa (capitalistica), celata maldestramente dietro un mito sempre più logoro (le cosiddette «conquiste» del movimento operaio), trasuda pensiero reazionario da tutti i pori, e concorre ad alimentare l’ultradecennale impotenza delle classi dominate.

La corrente ultrasinistra perora la causa della bancarotta pilotata dello Stato, per sciogliere «da sinistra» la scottante questione del debito sovrano, e sostiene la necessità di una rigorosa politica keynesiana, a partire dall’introduzione di misure protezionistiche, cosa che ovviamente postula il rafforzamento del Leviatano, il solo che può coordinare e implementare quel tipo di politica. I militanti di questo partito (acronimo: SS) hanno un’idea fissa: l’«uscita a sinistra dalla crisi», ossia la salvezza e il rafforzamento del Capitalismo nazionale.

Colgo, in questo obiettivo che fa tremare le vene ai polsi (sia detto senza retorica…), una contraddizione con la loro dichiarazione di fede sinistrorsa? Assolutamente no. I sinistrorsi che a vario titolo si riconoscono nella «gloriosa storia del PCI» hanno sempre avuto un debole per il Paese, ossia per la Nazione, insomma per lo spazio sociale dominato dall’italianissimo Capitale (soprattutto per quello statale e parastatale), e in ciò, ai tempi della «Prima Repubblica», essi si dimostravano molto più zelanti dei democristiani. Ricordo che ai tempi della mitica notte di Sigonella (ottobre 1985, il premier Craxi dice no nientemeno che al Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan) quelli di Democrazia Proletaria si presero una tremenda cotta per il cinghialone Bettino.

A chi gli ricorda che il protezionismo e tutta la politica economica e sociale che lo rende possibile evoca un cupo scenario da anni Trenta, con epilogo sanguinoso incorporato, i Social Sovranisti rispondono, a ragione, di non voler evocare nessuna guerra. Infatti, essi si limitano a stare sul terreno della guerra. Perché la guerra (sistemica) è in corso, come ormai tutti gli economisti mainstream e tutti i politici del mondo riconoscono. Essendo sinistrorsi, i Social Sovranisti fabbricano armi e proiettili keynesiani, statalisti, benecomunisti, decrescisti. Insomma, sparano sinistramente «da sinistra». Combattono «da sinistra» la guerra patriottica capitalistica, contro la Germania e i traditori che la puntellano e contro tutti i poteri finanziari che vogliono saccheggiare il Meridione d’Europa, per affermare il dominio incondizionato dei mercati.

A conti fatti, si sussurra in alcuni ambienti sovranisti, forse conveniva difendere il governo del puttaniere di Arcore contro i «poteri forti» sovranazionali. D’altra parte, i fatti parlano chiaro: «Quanto a occupazione, redditi popolari e del lavoro, servizi sociali stiamo sicuramente peggio [rispetto al governo Berlusconi]; il paese non si è allontanato di un centimetro dal baratro», ha scritto ad esempio il già citato Guido Viale sul Manifesto di qualche settima fa. Per non parlare dello «sfregio» che ha subito non solo la nostra sovranità nazionale ma anche lo stesso processo democratico, che si è dovuto piegare ai «diktat dei mercati».

Ai proiettili della speculazione finanziaria e dello spread i Social Sovranisti vorrebbero rispondere con i proiettili tratti dalla vecchia santabarbara keynesiana, certo, cambiando quel che c’è da cambiare, giusto per non confermare la nota tesi: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa. Una farsa che peraltro avrebbe tutti i caratteri della tragedia, a cominciare dalla ricordata impotenza politica e sociale delle classi dominate, afferrate dalle tenaglie del Dominio a un passo dalla possibile liberazione. Ma questa è tutta un’altra storia. Una storia buona per i dottrinari, per gli utopisti e financo per i “messianici”, non certo per i sinistrorsi con l’elmetto – oggi virtuale, domani chissà – in testa.

SOCIALNAZIONALISMO

In Venezuela si nazionalizza, in Argentina pure, in Bolivia anche. E i “sovranisti” di mezzo mondo vanno in brodo di giuggiole. Letteralmente. Dimenticavo: alla lista dei paesi che si stanno mettendo sulla buona e “rivoluzionaria” strada del nazionalismo economico c’è anche – e soprattutto – la Bielorussia di Lukashenko. «Nel 2007 il presidente del Venezuela Hugo Chávez ha descritto la Repubblica di Bielorussia come uno “stato modello”» (Bielorussia e Venezuela: La costruzione del mondo multipolare, Aurora, 27 aprile 2012). Beh, se l’ha detto il caudillo venezuelano c’è da fidarsi.

Il problema, per dir così, è che io sono contro ogni modello di Stato capitalistico, soprattutto quando affetta pose “rivoluzionarie”, come quello fascista, o nazista ovvero stalinista. Il Sovrano che sventola la bandiera rossa è in assoluto quello che più disprezzo. Sono anarchico? No, sono antistalinista. E quindi antisovranista: l’equazione è bell’e fatta! Lo Stato come decisore di ultima istanza, nonché come «violenza concentrata e organizzata della società» (Marx), è il mio Nemico, qualunque forma esso assuma – democratica, “socialista”, “partecipata”, “sovranista”.

«Le cinque priorità principali del governo bielorusso sono le seguenti: 1 Mantenere l’uguaglianza e l’innalzamento del tenore di vita dei lavoratori. 2 Mantenere una piena occupazione dell’economia. 3 Investimenti nell’istruzione e nella ricerca scientifica. 4 La protezione e lo sviluppo di una forte base produttiva locale. 5 Sovranità nazionale inviolabile» (Aurora, cit.). Un programma che uno stalinista dei vecchi tempi – o un nazionalsocialista degli anni Trenta – avrebbe potuto sottoscrivere tranquillamente. Dove il primo punto va letto nel senso di una sopravvivenza da schiavi salariati assicurata a tutti e per tutta la vita dal Leviatano. Un progresso umano davvero “rivoluzionario”.

«La visione del presidente Lukashenko di un mondo multipolare minaccia i sostenitori del Nuovo Ordine Mondiale». Ai sovranisti di Aurora, forse nostalgici della «guerra fredda», piace dunque una competizione imperialistica “pluralistica”, e sotto questo aspetto essi si fanno portavoce degli interessi delle Potenze che oggi rivendicano un posto al sole nell’agone della guerra globale (economica, scientifica, politica, militare, ideologica). Quale interesse abbiano le classi dominate del pianeta a schierarsi con uno degli “attori” (magari quello a più alto tasso di statalismo) della competizione interimperialistica rimane un mistero. O forse è la mia indigenza concettuale che non mi permette di apprezzare la fine dialettica del sovranista. Non posso escluderlo, almeno in linea di principio.

Detto en passant, prendo di mira le posizioni di Aurora non tanto per polemizzare con i suoi redattori, quanto piuttosto per prendere posizione contro una tendenza politica mondiale che la crisi economica sta rafforzando.

«La barbara distruzione della Jamahirya libica dovrebbe servire da lezione per qualsiasi persona intelligente, di ciò che i paesi della NATO intendono per “diritti umani”, “democrazia” e “dominio della legge”». La giusta denuncia dell’imperialismo occidentale non implica affatto l’adesione agli interessi dei suoi nemici, i quali, ancorché “straccioni”, vantano la stessa sostanza sociale ultrareazionaria del primo. Certo, se uno pensa che la Jamahiriya libica fosse «una prospera economia socialmente orientata»… «Socialmente orientata»: bel concetto di società, complimenti! L’intangibilità della Sovranità Nazionale è un concetto borghese che nel XXI secolo trasuda violenza da tutti i pori, e fa il paio con la posizione di chi teorizza la tendenziale fine dello Stato Nazionale nell’attuale congiuntura “Imperiale”. Entrambi i punti di vista non fanno i conti con la realtà del processo sociale colto dal punto di vista delle classi subalterne.

«Le relazioni venezuelano-bielorusse sono un esempio unico di ciò che la diplomazia internazionale, in un mondo socialista, potrebbe significare per l’umanità». Quando il sovranista, che sogna un Capitalismo di Stato – perché di questo si tratta – a forte vocazione autarchica e assai bellicoso (sul piano interno come su quello internazionale), parla di “socialismo” come si fa a non sghignazzare e a non sentirsi dei giganti del pensiero sociale?