LA PESSIMA CONDIZIONE SOCIALE DEI MIGRANTI CINESI

Le foglie cadute tornano alle loro radici.
落叶归根

In Cina la condizione sociale dei lavoratori migranti rimane assai dura e precaria, nonostante l’impetuoso sviluppo capitalistico del grande Paese asiatico abbia lasciato cadere anche su questi lavoratori, considerati di serie B, qualche briciola. Per migranti alludo naturalmente ai circa 300 milioni di individui che ogni anno si spostano dalle aree rurali della Cina per riversarsi nelle sue aree urbane, formando quel gigantesco esercito di proletariato che ha reso possibile l’ascesa del Paese ai vertici del capitalismo mondiale. Per capire di cosa parliamo è sufficiente ricordare il “modello” Foxconn, la più grande multinazionale di assemblaggio di componenti elettronici: occupazione di massa, supersfruttamento, bassi salari, condizioni di vita e di lavoro che spesso hanno portato i lavoratori alla disperazione e al suicidio. Oggi circa il 51% dei migranti è occupato nel settore terziario, in linea con le trasformazioni intervenute nel corso del tempo nella struttura del capitalismo cinese.

Questo esercito di operai, di fattorini, di camerieri e di commercianti dà vita a una migrazione interna che per consistenza non ha eguali nella storia umana,  e le cui mete più ambite sono le ricche province del Guandong e dello Zhejiang e le megalopoli come Shanghai e Pechino. Durante il lungo capodanno cinese, questa laboriosa (leggi: sfruttata) «popolazione fluttuante» (in cinese 流动人口, liúdòng rénkǒu) ritorna nelle regioni rurali, per trascorrervi le meritate vacanze. A causa della nota pandemia, nel 2020 moltissimi migranti non hanno potuto riabbracciare i loro cari, e sono rimasti sequestrati nelle megalopoli, anche perché esse hanno avuto più che mai bisogno di fattorini (raider) in grado di consegnare ai clienti, velocemente e a qualsiasi ora del giorno e della notte, cibo e ogni genere di merce trasportabile in quella modalità. Il tutto, per riscuotere un salario di circa 4000 yuan (500 euro, contro i 126 offerti dalla campagna), che nelle metropoli cinesi non è certo sufficiente per vivere “decorosamente”.

Scrive Qiao Yan: «La tradizione degli emigrati cinesi rappresentata dal detto “le foglie cadute tornano alle loro radici”, nei tempi contemporanei non è più osservata come prima. Questo cambiamento di pensiero è in linea con i mutamenti sociali, economici e politici della Cina a partire dall’anno 1978» (L’emigrazione cinese, 2013). A quanto pare, le foglie cadute “desiderano” rimanere là dove le ha trasportate il vento.

«Malgrado gli effetti negativi del coronavirus sull’occupazione, i lavoratori migranti vogliono rimanere a vivere nelle città. Essi non vedono opportunità nelle aree rurali da dove provengono e sperano di poter accedere ai servizi educativi e sanitari cittadini, che sono migliori rispetto a quelli dei loro centri di origine. È quanto emerge da uno studio del Social Work Development Centre for Facilitators, pubblicato il 30 agosto. Il 58,84% dei migranti cinesi vuole continuare a vivere in un centro urbano anche se i loro figli non avranno accesso alle scuole locali. Il governo comprime i diritti dei lavoratori migranti per evitare che i costi dello stato sociale vadano fuori controllo. Il mancato riconoscimento della residenza nelle zone urbane, insieme alla mancanza di lavoro e al taglio dei salari per la pandemia, rendono sempre più difficile la vita in città per chi si è trasferito dalle campagne. Ciò non li spinge però a “tornare a casa”. Il reddito pro-capite nella Cina rurale è in calo dal 2014» (AsiaNews). Il proletariato migrante si trova quindi stretto in una morsa sociale sempre più stretta, e non è certo un caso se la maggior parte delle agitazioni operaie degli ultimi tempi hanno avuto proprio esso come loro protagonista indiscusso, anche se non esclusivo.

In Cina il salario minimo si aggira ancora intorno a 1500 yuan (185 euro). Lo stesso Premier Li Keqiang, ha ricordato in occasione dell’Assemblea nazionale del popolo della scorsa primavera che ci sono circa 600 milioni di cinesi che guadagnano meno di 140 dollari al mese. Nella conferenza stampa di chiusura del NPC, Li espresse un giudizio positivo sulla possibilità di tamponare la crisi occupazionale sviluppando nuovamente un’economia di strada fatta di bancarelle e venditori ambulanti, simile a quella emersa negli anni ’80, suscitando una forte contrarietà presso la fascia maggioritaria del Partito-Regime, sintetizzabile nello slogan: «Indietro non si torna!».

Scriveva Alessandra Colarizi nell’aprile del 2020: «Sebbene, stando agli ultimi dati ufficiali, a marzo il tasso di disoccupazione si è stabilizzato a quota 5,9%, in discesa rispetto all’incremento record del 6,2% riportato nei primi due mesi dell’anno, statistiche indipendenti calcolano il numero reale dei cinesi senza un’occupazione tra i 60 e i 200 milioni se si includono i migranti (mingong), esonerati dalle stime ufficiali ma rilevanti in termini numerici, rappresentando un terzo dei 442 milioni di lavoratori urbani» (Il Manifesto). Pur «rilevanti in termini numerici», i lavoratori migranti non compaiono nemmeno nelle statistiche ufficiali, che infatti vanno sempre lette criticamente e confrontate con i dati forniti da fonti “informali”.

«La parola cinese usata per indicare i lavoratori migranti è 农民工 nóngmíngōng, dove nóngmín significa contadino, e gōng lavoratore. Il termine si riferisce appunto a coloro nati nelle zone rurali del paese, ma emigrati verso le aree industriali in cerca di occupazione. L’etimologia della parola riflette accuratamente il ruolo ambivalente del lavoratore migrante, in equilibrio tra la città di destinazione e la terra di origine a cui è legato. L’origine di questa contraddizione giace nell’esistenza del sistema di registrazione familiare cinese, comunemente noto come 户口 hùkǒu. Secondo questo peculiare meccanismo, l’accesso ai diritti civili e legali di ogni cittadino è vincolato al luogo di nascita di quest’ultimo. Nato nei primi anni ’50 su emulazione della Propiska sovietica, lo hukou è un documento fondamentale nella vita di ogni abitante cinese; ancora oggi, resta indispensabile per ottenere l’accesso a istruzione, cure sanitarie, pensione e assicurazione. Tutti questi servizi vengono garantiti esclusivamente nel proprio paese natale, da cui lo hukou viene rilasciato. Il mancato possesso dello hukou locale costituisce quindi un ostacolo alla libera circolazione della popolazione. Ma non solo. Il sistema cinese ha portato alla creazione di una società diseguale, che nega il diritto all’istruzione e cure mediche a milioni di cittadini. Basti pensare che, nonostante sulla carta l’istruzione sia un diritto garantito, molte scuole pubbliche chiedono ai genitori migranti il pagamento di tasse aggiuntive salatissime. Queste richieste proibitive costringono molti bambini migranti a fare ritorno al proprio villaggio o ad iscriversi in scuole private non riconosciute dal sistema scolastico statale. Davanti a queste premesse, è evidente come l’emarginazione istituzionale e sociale generata dal sistema dello hukou abbia influenzato le vite dei migranti cinesi; a causa della loro identità rurale, essi sono percepiti dai loro concittadini come individui senza cultura ed una minaccia alla stabilità collettiva. Esclusione sociale e mancanza di opportunità hanno condannato i migranti alla segregazione di mercato e all’immobilità di classe, in virtù di uno Stato padre di due cittadinanze distinte: urbana e rurale. […] L’ultima riforma dello hukou prometteva la cittadinanza urbana a 100 milioni di residenti rurali. Tuttavia, sembrerebbe che il piano tenda a favorire ancora una volta l’entrata di capitali, rimanendo in silenzio di fronte alle richieste della popolazione fluttuante» (Bridging China ). Un Paese perfettamente capitalista, non c’è che dire.

Scrive Simone Pieranni, autore di Red Mirror. Il nostro futuro si scrive in Cina (e qui faccio gli scongiuri!): « Il caso Huawei riporta il discorso sull’economia cinese e sul modello del “socialismo di mercato”. Un apparente ossimoro, ma non per Pechino. La Cina non si chiede cosa sia il suo modello, ma se funzioni o no. E ugualmente fa con tutto il resto. Chiedersi inoltre se il paese sia più capitalista o più socialista trovo sia una nuova forma di orientalismo. Neanche i cinesi sanno come definire il loro sistema, ma pescano dalla cassetta degli attrezzi della storia per trovare le soluzioni che sembrano funzionare meglio. Per loro». Qui siamo ancora al gatto di Deng Xiaoping («Non importa il colore del gatto, purché questo acchiappi il topo»)! Per quanto mi riguarda, è del tutto ininfluente il giudizio che il regime cinese, e la stessa “opinione pubblica” cinese danno sul loro modello sociale.Come diceva qualcuno, nei peridi di “pace sociale” l’ideologia dominante è l’ideologia che fa capo alle classi dominanti.

Il «socialismo di mercato» non è affatto «un apparente ossimoro», ma piuttosto una gigantesca balla ideologica che può affascinare solo chi non conosce la natura del rapporto sociale capitalistico di produzione e ha in mente un concetto assai miserabile di “socialismo” – del genere impallinato da Marx già un secolo e mezzo fa.

Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese;; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

IL MONDO “CAPOVOLTO” DEL WORLD ECONOMIC FORUM

È sufficiente leggere gli interventi dei protagonisti del World Economic Forum di quest’anno, per capire chi oggi sta vincendo la partita della competizione capitalistica/imperialistica mondiale. Sto forse alludendo alla Cina? Soprattutto al grande Paese asiatico, com’è ovvio di questi tempi; ma è tutta la regione dell’Asia-Pacifico che si conferma sempre più come l’area capitalisticamente più strutturata, forte e dinamica del mondo. Certo, anche quella più “resiliente” ai cigni neri (incluse le pandemie), tanto per civettare anch’io con il lessico modaiolo.

Mentre i leader occidentali ostentano pessimismo e perplessità sul futuro dell’attuale modello di Capitalismo (ovviamente non sul Capitalismo in quanto tale, come peculiare modo di produzione fondato su rapporti sociali di dominio e di sfruttamento storicamente determinati: questa è roba vecchia!), accusato di generare contraddizioni, conflitti (anche generazionali), disuguaglianze mai viste prime, ingiustizie sociali d’ogni tipo, degrado ambientale e quant’altro; mentre accade questo «solo Xi Jinping, il presidente cinese, resta ancorato alla globalizzazione di prima della pandemia, come se nulla fosse accaduto, forte dei successi economici che i brandelli del multilateralismo, ancora rimasti sul terreno dopo il tornado Trump, ancora gli concedono. Nessuna riflessione o aggiustamento da parte del leader cinese» (Businnessinsider.com). Qualche commentatore particolarmente spiritoso (e arguto) ha scritto che più che a Davos (ancorché virtuale, causa Coronavirus), per certi versi sembra di trovarsi al Forum sociale di Porto Alegre, tra i nemici dell’onnipotenza del potere del denaro e degli eccessi dell’ultra-liberalismo della scuola dei Chicago Boys. Perfino il Presidente francese Macron non ha voluto fare mancare la sua personale critica: «Il modello capitalista non può più funzionare»; ma ha subito aggiunto che in ogni caso «il capitalismo e l’economia di mercato non si possono certo liquidare in fretta»: e che premura c’è? Per Macron bisogna insomma emendare il «lato oscuro» del Capitalismo, non fare di esso una caricatura per buttare, come si dice, il bambino insieme all’acqua sporca. Personalmente non vedo che acqua sporchissima e un Moloch che si nutre della vita degli individui. Occorre, ha concluso il Presidente francese, «mettere al centro del problema la risposta alle problematiche del modello capitalista»: chissà che voleva dire.

Come sempre la Cancelliera Tedesca ha cercato di rassicurare sia Washington («Dobbiamo lavorare insieme ma con trasparenza»: vedi le responsabilità cinesi sulla genesi della pandemia) che Pechino («Chiudersi non serve, il multilateralismo è centrale. Non si deve guardare solo indietro, ma anche avanti»). Il senso di questo guardare avanti è probabilmente anche contenuto nell’accordo Cina-UE del 30 dicembre scorso. Ancora la Cancelliera (rivolta alla Cina): «Quando iniziano le interferenze? e quando finiscono se si sostengono valori fondamentali? Il presidente della Cina si è impegnato a rispettare la dichiarazione delle Nazioni Unite (sui diritti dell’uomo, ndr). Bisogna discutere questa questione, non importa da quale sistema sociale proveniamo» (Il Sole 24 Ore). Tranquilla, Angela: «proveniamo» dallo stesso sistema sociale, quello capitalistico – ovviamente.

Dopo aver esternato la sua – solita – apologia della globalizzazione capitalistica (che oggi vede appunto vincente la Cina), Xi Jinping ha voluto lanciare alla concorrenza (soprattutto agli Stati Uniti) un messaggio forte e chiaro: «Chi crea clan o inizia una nuova guerra fredda, chi rifiuta, minaccia o intimidisce gli altri, chi imporre l’allontanamento tra i popoli, o interrompe le catene di appalti con le sanzioni, al fine di indurre l’isolamento, sta solo spingendo il mondo alla divisione e persino allo scontro». La nuova Amministrazione statunitense è avvertita. Il punto più caldo della competizione capitalistica globale oggi si trova nell’area dell’Est-Pacifico, e non è un caso se le strategie militari della Cina e degli Stati Uniti sono sempre più focalizzate su quell’area.

Aveva detto Xi Jinping al Forum di Davos del 2017: «La Cina ha fatto passi coraggiosi per abbracciare il mercato globale. Abbiamo affrontato le onde più alte, ma abbiamo imparato a nuotare»: la concorrenza, soprattutto quella che oggi boccheggia, se n’è accorta, eccome!

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Accade nella Cina capitalista. IL LAVORO FORZATO NON MACCHIA, ARRICCHISCE

«I consumatori dovrebbero chiedersi perché i nostri vestiti sono così economici. La risposta sta nello sfruttamento di intere fasce di persone della regione uigura, la cui manodopera è costretta a produrre cotone a basso costo» (Joanna Ewart-James, Direttore esecutivo di Freedom United). «La moda globale fa uso di cotone, filati e tessuti prodotti da lavoro forzato uiguro» (Forced Labour Fashion).

Il Domani pubblica oggi un articolo di Youssef Hassan Holgado dedicato alla pessima, a dir poco, condizione di vita e di lavoro che affligge gli uiguri che vivono nello Xinjiang, nel Nordovest della Cina: «Lavori forzati, sorveglianza strettissima, torture, la minoranza musulmana prova a liberarsi dall’oppressione di Pechino e sogna l’indipendenza. Ma ora anche la Turchia, che per anni li ha difesi e ospitati, non è più sicura. A fine dicembre la Cina ha ratificato l’accordo di estradizione con la Turchia siglato nel 2017, quando il primo ministro Erdogan era andato a Pechino per un incontro sulla nuova Via della Seta, l’ambizioso progetto di Xi Jinping che punta a migliorare i collegamenti commerciali con l’Africa e l’Europa. Una delle nuove rotte commerciali passa proprio per la Turchia, un regalo difficile da rifiutare per il governo di Erdogan. La paura è che siano i rapporti economici tra i due paesi a spostare l’ago della bilancia sul tema della repressione uigura. Fino a ora Ankara ha sempre cercato di ritardare la ratifica del trattato vista la forte opposizione all’interno del parlamento, ma la Cina sta spingendo affinché avvenga il prima possibile. Xi Jinping tiene sotto ricatto economico, e ora anche sanitario dato che la Turchia ha acquistato il vaccino cinese della SinoVac, il primo ministro Erdogan».

«Ankara non rimpatria direttamente gli uiguri in Cina, ma si libera di loro espellendoli in paesi terzi come il Tagikistan dove l’estradizione presenta meno difficoltà e dove non si ha alcuno scrupolo a rinviarli in Cina. In questo modo accontenta Pechino e fa apparire in patria tale pratica più accettabile dalla comunità musulmana turca» (Huffingtonpost). Quando si dice salvare le apparenze…

Com’è noto, il regime cinese costringe centinaia di migliaia di uiguri e altre minoranze (kazaki e musulmani turchi) a lavorare nei campi di cotone e nelle fabbriche tessili (dalla raccolta del cotone alla confezione dei capi finiti: un completo quanto infernale ciclo produttivo) in condizioni di totale schiavitù. Il Partito Capitalista Cinese ovviamente nega tutto, e parla di «scuole di formazione professionale», di «campi di rieducazione» (basata sul verbo di Mao secondo l’interpretazione di Xi Jinping) e di «riduzione della povertà». Chi ha letto 1984 di George Orwell, conosce i principi della neolingua, i quali trovano una loro puntuale e sistematica applicazione soprattutto (ma non solo) nei regimi totalitari.

«Secondo gli analisti dell’ASPI International Cyber Policy Centre, ben 80mila cittadini di etnia uigura negli ultimi tre anni sarebbero stati spostati e costretti a operare nelle linee di produzione di fabbriche sparse per tutta la nazione. Verrebbero inoltre sottoposti a “ricondizionamento” coatto, compiuto tramite controllo politico, sorveglianza digitale, rieducazione e, appunto, il lavoro» (DolceVita). Forse il lavoro non rende liberi, come promettevano i nazisti, ma probabilmente può “rieducare” le persone mettendole al servizio, ad esempio, del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

«Fino al 2019, 83 aziende straniere e cinesi avrebbero beneficiato direttamente o indirettamente dell’uso di lavoratori uiguri al di fuori dello Xinjiang attraverso programmi di trasferimento . Di queste, quasi un quarto è nel settore tessile. Nomi celebri e molto amati da sportivi e giovani: Abercrombie & Fitch, Adidas, Calvin Klein, Cerruti 1881, Fila, Gap, H&M, Jack & Jones, Lacoste, Nike, The North Face, Polo Ralph Lauren, Puma, Skechers, Tommy Hilfiger, Uniqlo, Victoria’s, Secret, Zara, Zegna».

Un mese fa Adrian Zenz, un membro anziano della Victims of Communism Memorial Foundation di Washington, ha lanciato dalla BBC un appello al mondo della moda: «Chiunque abbia a cuore le ragioni dell’etica deve guardare allo Xinjiang, che rappresenta l’85% del cotone cinese e il 20% di quello mondiale, e dire: no, non possiamo più farlo». Ma il Capitale, in Cina come nel resto di questo capitalistico mondo, ha a cuore solo le ragioni del profitto, e non potrebbe essere diversamente. Si calcola che «Un capo di abbigliamento su cinque, in tutto il mondo, è macchiato dal colore del lavoro forzato» (Collettiva.it). Si tratta del colore del Capitale nella sua espressione più brutale e disumana. In realtà il lavoro forzato non macchia nemmeno le coscienze dei buoni di spirito, mentre ovviamente arricchisce chi lo sfrutta – magari “a sua insaputa”…

«I lavoratori forzati nella regione uigura – aggiunge Scott Nova del Worker Rights Consortium – si trovano ad affrontare violente ritorsioni se dicono la verità sulla loro situazione». Sempre a calunniare il grande Partito Capitalista Cinese e uno straordinario Paese che si avvia a passo spedito (si parla del 2028) verso il primato capitalistico mondiale!

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SULL’ACCORDO CINA-UE DEL 30 DICEMBRE 2020

Qui di seguito cercherò di dare una mia prima valutazione sul significato del Comprehensive Agreement on Investment (CAI) firmato il 30 dicembre scorso dalla Cina e dall’Unione Europea, e lo farò come sempre riportando le considerazioni di analisti e politici che mi sono sembrate più interessanti – non necessariamente più condivisibili, soprattutto sul piano dell’interpretazione politica di fondo, com’è ovvio.

Sul terreno propriamente economico, il Comprehensive Agreement on Investment appare come un netto successo per l’UE (e, sembra quasi inutile precisarlo, soprattutto per la Germania), la quale strappa a Pechino una serie di importanti concessioni, come l’accesso agli investitori europei di diversi settori dell’industria, dei servizi e della finanza cinesi, compresi alcuni di quelli considerati strategicamente “delicati”, come le telecomunicazioni. Scrive Alessia Amighini: «Le aziende europee avranno ora un migliore accesso ai settori manifatturiero, ingegneristico, bancario, contabile, immobiliare, delle telecomunicazioni e della consulenza. I negoziatori della Commissione sono riusciti a inserire una clausola secondo la quale i loro investimenti non devono essere “trattati in modo meno favorevole” rispetto ai concorrenti nazionali. I funzionari dell’UE hanno anche convenuto che la Cina deve essere più trasparente riguardo ai sussidi statali. In cambio di un migliore accesso al mercato europeo ancor più grande di quello che ha oggi, Pechino sarà obbligata a pubblicare ogni anno una lista di sussidi forniti ai settori designati» (ISPI). Inutile dire che su quest’obbligo molti analisti nutrono forti dubbi. «Sul lavoro forzato, una questione che aveva minacciato i negoziati, l’UE ha dichiarato: “La Cina si è impegnata ad attuare efficacemente le convenzioni dell’ILO che ha ratificato, e ad adoperarsi per la ratifica delle convenzioni fondamentali dell’ILO, comprese sul lavoro forzato“» (South China Morning Post, Hong Kong). Anche su questo “impegno” è lecito nutrire qualche dubbio, diciamo così. Infatti, è dal 2001, anno di ingresso della Cina nel WTO, che Pechino fa “melina” sui suoi impegni riguardanti il rispetto dei diritti dei lavoratori e dei cittadini. L’ex primo ministro belga Guy Verhofstadt, oggi parlamentare europeo, ha dichiarato: «Le storie che escono dallo Xinjiang sono puro orrore. In queste circostanze, qualsiasi firma cinese sui diritti umani non vale la carta su cui è scritta». Sull’orrore che caratterizza la situazione nello Xinjiang, siamo d’accordo (esclusi ovviamente i miserabili sostenitori del capitalismo con caratteristiche cinesi, soprattutto quelli che si definiscono “comunisti”); sui «cosiddetti diritti umani» (Marx) usati dagli Stati come arma di lotta sistemica (economica, ideologica, geopolitica), personalmente stendo un velo pietosissimo, e il richiamo ai “diritti” mi serve solo per ribadire, per quel che vale, la mia radicale ostilità all’Imperialismo Unitario (ma non unico, tutt’altro!) colto nella sua compatta e disumana totalità (1).

L’accordo del 30 dicembre per un verso si limita a prendere atto di un fatto: oggi l’interscambio commerciale tra l’Unione Europea e la Cina è più intenso di quello che stringe gli europei agli Stati Uniti: secondo l’Eurostat il sorpasso della Cina sugli Usa come principale partner commerciale dell’UE si è consumato a luglio 2020; nei primi dieci mesi del 2020 il volume degli scambi tra UE e Cina si è assestato a 477 miliardi di euro (582,8 miliardi di dollari USA), il 2,2% in più rispetto allo stesso periodo del 2019. «Al contrario, il commercio di merci con gli Stati Uniti nel periodo gennaio-ottobre è sceso a 460,7 miliardi di euro, in calo dell’11,2% su base annua. A ottobre, l’Unione Europea ha esportato beni per 178,9 miliardi di euro, in calo del 10,3% su base annua, e ha importato 150,8 miliardi di euro, con una diminuzione del 14,3% rispetto al mese di ottobre del 2019» (Il Sole 24 Ore). Il trend di crescita nell’interscambio commerciale UE-Cina ha subito una netta accelerazione nel 2009, nel momento in cui gli Stati Uniti facevano ancora fatica a trovare un sentiero di crescita dopo la nota crisi.

Par altro verso il CAI pone le premesse per una serie di sviluppi a medio/lungo termine che superano di molto la semplice dimensione economica, andando a investire direttamente i rapporti e gli equilibri geopolitici tra le grandi potenze capitalistiche del mondo. Ed è proprio su questo terreno, tutt’altro che limpido e di facile lettura, che si è focalizzato l’interesse di politici e di analisti geopolitici.

Francia e Germania sembrano aver rilanciato insieme il tradizionale asse strategico Parigi-Berlino che detta l’agenda agli altri Paesi dell’Unione, ma la realtà è che ancora una volta è Berlino che guida le danze, mentre Parigi deve fare buon viso a cattivo gioco per rimanere sulla scia della potenza europea egemone, tanto più che adesso non può più giocare di sponda come prima con la riottosa Gran Bretagna. Controllare la potenza sistemica tedesca per la Francia diventa più difficile che nel passato, e per mascherare la propria debolezza nei confronti della Cancelliera tedesca Macron ha fatto di tutto per strappare a Berlino e a Bruxelles la sua presenza alla videoconferenza del 30 dicembre, cosa che ha fatto irritare soprattutto l’Italia, sempre più fragile e isolata nel contesto europeo e internazionale. Il sottosegretario agli Esteri Ivan Scalfarotto, notoriamente molto legato a Washington, ha espresso le “perplessità” con cui il governo italiano ha seguito le fasi conclusive dell’accordo: «Devo esprimere la mia più grande sorpresa per il formato. Era ovvio che ci fossero Von der Leyen e Michel e per le istituzioni Ue e Merkel come presidente di turno. Ma avere Macron, la scelta di un solo Paese sugli altri 26, non credo si giustifichi. È un formato irrituale che segna anche una sconfitta per noi italiani. E ci dice che quello sciagurato accordo sulla Via della Seta che il precedente governo ha concluso nel 2019 è stato un fallimento completo. Non solo non ci ha aiutato nel rapporto commerciale e ci ha fatto pagare un prezzo politico: non ci ha dato neanche la credibilità per essere leader in questa negoziazione. Fu una mossa sbagliata, che non vincolava i cinesi a nessun obbligo commerciale, ma dava loro un enorme dividendo politico. Tutto questo rivela la nostra debolezza» (Il Corriere della Sera). Una debolezza che l’Italia di oggi esibisce anche nel suo storico cortile di casa, e basta pensare a cosa accade in Libia per averne un immediato riscontro. Per il “nostro” Paese non sarà facile conservare (o riconquistare?) lo status di media potenza regionale.

L’italica irritazione nei confronti della Germania si esprime senza infingimenti “europeisti” soprattutto a “destra”; scrive ad esempio Gianni Micalessin «L’obbiettivo politico ed economico della Cancelliera è emerso in tutta la sua spregiudicata evidenza il 30 dicembre quando, nel penultimo giorno di Presidenza tedesca dell’Unione, è arrivato l’annuncio dell’intesa con Pechino sul trattato per gli investimenti. Il trattato, messo a punto dopo sette anni di negoziati, dovrebbe in teoria garantire ad Europa e Cina un terreno comune per i reciproci affari. In verità rappresenta un meschino e stupido apparentamento con una potenza comunista pronta a farsi beffe dei diritti umani e a venderci merci prodotte grazie al lavoro a costo zero di centinaia di migliaia di musulmani uiguri deportati nei lager e utilizzati alla stregua di schiavi. Dietro l’intesa sugli investimenti ci sono i calcoli di una Cancelliera convinta che il futuro dell’economia tedesca sia strettamente e inevitabilmente legato a Pechino. Dal suo punto di vista non ha torto. L’Europa piegata, ancor prima che dal Covid, dal surplus commerciale teutonico ben difficilmente potrà assorbire ulteriori crescite produttive di Berlino. E ben difficilmente accetterà di farlo un’America decisa, fin dai tempi di Obama, a contrastare la rapacità di una Germania sorda ad ogni richiesta di riequilibrio commerciale». (G. Micalessin, Il Giornale).

Per Carlo Pelanda, docente di Geopolitica economica all’Università Guglielmo Marconi ed esperto di Studi strategici, «al momento, l’accordo è una finzione che evita una restrizione all’export tedesco in Cina da cui dipende una parte rilevante del Pil della Germania (e dell’Italia che fornisce componenti all’industria tedesca). Ma anche una finzione utile a negoziare con gli Stati Uniti. In sintesi, il problema dell’Ue è non riuscire ancora a formulare una strategia di collocamento dell’Ue stessa entro il conflitto tra Cina e America. Merkel lo ha risolto provvisoriamente con una tattica di finzione e rinvio, nonché cerchiobottismo, facendo comunicare al proxy Valdis Dombrovskis che l’accordo con la Cina non impedisce un trattato euroamericano. Ma evidentemente la formulazione di una strategia di collocamento internazionale stabile dell’Ue non è più rinviabile» (La Verità). Non dimentichiamo che appena un anno fa Bruxelles ha definito la Cina «rivale sistemico», offrendo agli Stati Uniti la sponda europea nel suo sforzo di contenimento della Cina.

Interessante questa riflessione “analogica” di carattere storico sempre di Pelanda: «Un fatto curioso mostra la difficoltà di Berlino. Merkel ha usato la tattica cinese, codificata da Sun Tsu (L’arte della guerra) nel 500 avanti Cristo, di usare l’estensione del tempo e la finzione per risolvere un problema contingente, mentre Xi ha adottato lo schema (1831) del prussiano Carl von Clausewitz con enfasi sulla massima rapidità – compressione del tempo, blitz – per raggiungere un obiettivo». Come si spiega, secondo Pelanda, la tattica adottata dal Presidente cinese? «Anche Xi è in difficoltà. Deve contrastare l’isolamento della Cina e, soprattutto, un accordo economico forte euroamericano che creerebbe il nucleo imbattibile di un impero e mercato delle democrazie molto più grande e potente del suo. Ha usato una megacarota, ma anche un megabastone: il ricatto di restringere l’export tedesco se l’accordo non fosse stato firmato entro fine 2020 perché voleva chiuderlo prima che Joe Biden entrasse nei pieni poteri (il 20 gennaio). I collaboratori di Biden, infatti, agli inizi di dicembre hanno dato forti segnali di irritazione nei confronti dell’Ue». E difatti il Financial Times riportava pochi giorni prima dell’accordo una dichiarazione rilasciata da un membro dello “staff di transizione” statunitense, secondo cui «l’amministrazione Biden-Harris ha intenzione di consultarsi con la UE in un approccio coordinato sulle pratiche economiche corrette e altre importanti sfide». La Merkel ha voluto bruciare i tempi e mettere la nuova Amministrazione americana di fronte a un fatto compiuto, un fatto che in ogni caso non preclude nulla e che si segnale piuttosto per la sua molteplicità di interessi e di significati, non necessariamente univoci e coerenti tra loro, tutt’altro.

Per Pelanda, che giudica il CAI «un accordo che apparentemente offre un grande successo al Partito comunista cinese e al suo regime autoritario, aggressivo, repressivo, schiavista e bugiardo», la giusta strategia per l’UE deve necessariamente parlare il linguaggio della forza, il solo che capiscono i “comunisti”: «Stringere con l’America un accordo economico fortissimo, ravvivando quello militare».

Anche per Federico Rampini l’accordo di dicembre segna un punto a favore della Cina: «Nell’applicazione concreta Xi potrà continuare a privilegiare il suo “capitalismo politico”, i campioni nazionali dell’industria di Stato, e a discriminare contro gli imprenditori europei. Le promesse più vaghe sono quelle che riguardano ambiente, diritti umani, trattamento dei lavoratori. Biden può ancora sperare di far deragliare questo accordo nella fase di ratifica all’Europarlamento, dove le obiezioni americane troveranno consensi. Ma non si fa illusioni. Il presidente eletto ha troppa esperienza di politica estera per non capire il segnale che arriva da Bruxelles. L’Ue lo accoglierà a braccia aperte, felice di chiudere il capitolo Trump. Ma un conto saranno le buone maniere, altro è la sostanza» (La Repubblica). E la sostanza è fatta, oggi come ieri e come sempre in regime capitalistico, dagli interessi sistemici e dai rapporti di forza, nient’altro che da questo. Tutto il resto è fumisteria propagandistica venduta ai politici e agli intellettuali di serie B, nonché, soprattutto, all’opinione pubblica interna e internazionale.

«Nella nuova guerra fredda Usa-Cina», continua Rampini, «gli europei sono convinti di potersi ritagliare una posizione intermedia, scegliendo di volta in volta da che parte stare, in base ai propri interessi geo-economici e strategici. Non accettano che la riscoperta solidarietà occidentale sia un pretesto per subordinarli alle priorità di Washington, neanche sotto un nuovo presidente atlantista e multilateralista. Pensano perfino di poter insegnare a Biden la giusta via per estrarre concessioni da Xi. A loro volta, gli europei non dovranno scandalizzarsi se l’agenda Biden sarà segnata dal nazionalismo economico. Meno rozza nei modi, rispetto all’agenda Trump, ma non del tutto diversa». Sulla sostanziale continuità della politica estera americana attraverso l’alternarsi delle Amministrazioni presidenziali non è possibile nutrire alcun serio dubbio, anche se sarebbe sbagliato, a mio avviso, pensare al sistema sociale capitalistico americano nei termini di un blocco unico privo di contraddizioni interne, con quel che ne segue anche sul terreno della “dialettica politica” nazionale (2). Mutatis mutandis, e non è davvero poco, analogo discorso vale anche per il sistema sociale capitalistico cinese.

La Commissione europea ha cercato, prima e dopo l’accordo con la Cina, di rassicurare gli “alleati” americani circa l’impegno dell’UE nella comune politica di contenimento del “nemico strategico”: «L’accordo non influirà sull’impegno del blocco per la cooperazione transatlantica, che sarà essenziale per affrontare una serie di sfide create dalla Cina». Ma non saranno certo le dichiarazioni diplomatiche che potranno convincere Washington, e probabilmente non passerà molto tempo per assistere alla contromossa americana. Comunque l’accordo non entrerà in vigore immediatamente, ma dovrà attendere il superamento di non pochi e complessi passaggi politici e tecnici, e questo darà agli europei (soprattutto ai tedeschi) il tempo di aggiustare la loro linea di condotta nei confronti della Cina e degli Stati Uniti. La ratifica da parte del Parlamento Europeo è infatti prevista per il 2022/2023.

Danilo Taino teme una pericolosa “deriva bipolarista”: «Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli accordi bilaterali, o tra blocchi (la sola Ue ne ha firmati 72). Così, il commercio non è più un veicolo per la collaborazione tra Paesi ma diventa sempre più spesso strumento di alleanze, di divisioni e in certi casi viene “militarizzato” a scopi geopolitici. Se affrontato in una dimensione bilaterale, il rapporto con Pechino è destinato a favorire la divisione del mondo in rapporti preferenziali, nel tempo fondamento di conflitti. Solo in una dimensione multilaterale la relazione con la Cina può avere un carattere proficuo. L’accordo Ue-Cina non va in questa direzione» (Il Corriere della Sera). Che il commercio internazionale sia «un veicolo per la collaborazione tra Paesi» può crederlo solo un bambino o un ingenuo “idealista” di stampo liberale-liberista.

A proposito di ideologia liberale-liberista, vale la pena riportare il pensiero del Caro e Celeste Leader: «Il presidente cinese ha sottolineato che l’accordo avrà una grande forza trainante per la ripresa economica post-pandemica, promuovendo la liberalizzazione e la facilitazione del commercio e degli investimenti globali, intensificando la fiducia della comunità internazionale verso la globalizzazione economica e il libero commercio e dando importanti contributi cinesi ed europei alla costruzione di un’economia mondiale più aperta» (Formiche.net). Non sono commoventi queste parole? Per il resto, qui è solo il caso di ricordare che la politica della porta (leggi mercato mondiale) aperta è storicamente la politica seguita dalle potenze in ascesa che sanno di poter rivaleggiare con successo con le potenze concorrenti più o meno declinanti. Non dimentichiamo che la firma del Comprehensive Agreement on Investment segue quella che ha suggellato un altro importante accordo commerciale, il Regional Comprehensive Economic Partnership, sottoscritto tra i paesi dell’ASEAN più Cina, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda. In ogni caso, ancora nel 2021 non bisogna dare come definitivo il declino assoluto della potenza statunitense, la quale possiede tutti i mezzi (compreso ovviamente quello militare) per frenare quantomeno la tendenza a essa sfavorevole.

La crisi pandemica ha proiettato la Cina ancora più in alto nella gerarchia imperialista del pianeta, essendo stato il suo sistema sociale, capitalistico al 100 per 100 (3), quello che è riuscito a subire meno danni rispetto agli altri Paesi concorrenti (Stati Uniti, in primis) e ad avvantaggiarsi di più delle altrui disgrazie. Come in ogni guerra, c’è chi vince e c’è chi perde – e poi ci sono quelli che, pur perdenti, recitano la parte dei vincenti: ogni riferimento alla Francia e all’Inghilterra del 1945 è puramente voluto.

Scrive il “marxista” David Harvey: «L’altro lato che è importante da un punto di vista anticapitalista, è che la Cina è ancora impegnata nella sua posizione marxista. È ancora governata da un partito comunista, e se molti diranno che il Partito Comunista è in realtà un partito di classe capitalista, è comunque un partito nominalmente comunista in cui i pensieri di Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, e ora Xi Jinping, sono considerati come centrali per le loro ambizioni. L’ultimo congresso del partito ha dichiarato che prevede di diventare un’economia pienamente socialista entro il 2050» (L’importanza della Cina nell’economia mondiale, Antiper). Se è per questo, io dichiaro di diventare bellissimo e intelligentissimo entro il 2030, salvo incidenti di percorso sempre possibili nelle ambiziose “fasi di transizione”. Beninteso, si tratta di una mera previsione… «Il nome d’una cosa è per sua natura del tutto esteriore. Se so che un uomo si chiama Jacopo, non so nulla sull’uomo» (K. Marx). Certi “marxisti” amano attenersi feticisticamente alla «natura del tutto esteriore» delle cose: contenti loro!

Marx, Lenin, Mao, Deng Xiaoping, Xi Jinping: che bell’ammucchiata! «Io non sono un marxista!», disse una volta il comunista di Treviri: che saggezza! che lungimiranza!

A proposito: che fine ha fatto Jack Ma?

(1) Questo concetto cerca di esprimere una realtà (l’imperialismo mondiale del XXI secolo) altamente complessa, composita e conflittuale. Esso non ha dunque nulla a che vedere con il Super Imperialismo di kautskiana memoria. Necessariamente conflittuale al suo interno, l’Imperialismo Unitario è radicato in un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che domina l’intero pianeta, e si rapporto con le classi subalterne come un solo Moloch sociale. Per approfondire la conoscenza del mio punto di vista “geopolitico” rinvio a due testi: Il mondo è rotondo e Sul concetto di imperialismo unitario. Il concetto di Sistema Mondiale del Terrore è stato invece da me “elaborato” anni fa con un preciso intento polemico nei confronti della cosiddetta guerra al terrorismo (per chi scrive terrorizzante e terroristica è la società mondiale presa nella sua disumana totalità): rimando al PDF intitolato La radicalizzazione del male. Ovvero: il Sistema Mondiale del Terrore.
(2) L’imperialismo americano tra realtà e “narrazione”; Gli Stati Uniti tra “isolazionismo” e “internazionalismo”.
(3) Sulla natura capitalistica della Cina, tanto per quanto riguarda la sua “struttura” economica quanto per ciò che concerne la sua “sovrastruttura” politico-istituzionale, rimando ai miei diversi scritti dedicati al grande Paese asiatico. Solo alcuni titoli: La Cina è capitalista? Solo un pochino; Chuang e il “regime di sviluppo socialista”; La “doppia circolazione” della Cina capitalista; Sulla campagna cinese; Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese; Tutto sotto il cielo – del Capitalismo; Da Mao a Xi Jinping. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi.        

 

 

 

 

 

 

 

RADICALISMO E REPRESSIONE A HONG KONG

Nella sua rubrica dedicata alla stampa e alla blogsfera cinese che tiene su Radio Radicale, Francesco Radicioni ha ospitato Gaia Perini, sinologa e docente di lingua e letteratura cinese all’Università di Bologna. Radicioni ha invitato la Perini ad analizzare il movimento di lotta hongkonghese anche alla luce dell’entrata ufficialmente in vigore, il primo luglio scorso, della nuova Legge sulla sicurezza nazionale, la quale estendendo a Hong Kong la legislazione e la prassi di controllo e repressione sociale in vigore sul continente cinese, rappresenta un brusco e forte giro di vite nella gestione della questione hongkonghese. Quella che segue è una trascrizione sintetica dell’interessante intervista. Mi scuso se nella sintesi ho sacrificato un po’ di chiarezza.

La narrazione del regine cinese è stata naturalmente caratterizzata da una forte propaganda filocinese che ha cercato di sminuire la portata del movimento di lotta attivo ormai da molto tempo a Hong Kong, il quale peraltro ha coinvolto 2 milioni di persone su una popolazione di 7,5 milioni, il che non è poco. Non si tratta certo di una “teppa” senza né capo né coda, come sostiene il regime, ma di un largo movimento che aspirava a un riconoscimento politico. Col tempo la sua criminalizzazione ad opera di Pechino è cresciuta: i manifestanti sono qualificati come violenti, rissosi, banditi, privi di principi morali, terroristi. L’accusa di terrorismo ci dice dell’incapacità del regime cinese di avere a che fare con il dissenso e rinvia al garbuglio di dinamiche tra centro e periferia che vediamo in azione ad esempio nello Xinjiang e in Tibet, e in questo senso si connette anche alla formazione della moderna nazione cinese, con il difficile passaggio dal vecchio Impero, dalla vecchia costituzione imperiale, al moderno Stato-Nazione che da cento e più anni la Cina ha abbracciato come propria forma istituzionale e politica. Ma non si è trattato assolutamente di un passaggio naturale, e comporta ancora forti tensioni sociali, non solo, a dire il vero, tra centro e periferia, ma anche nelle parti centrali del Paese. Veniamo al movimento hongkonghese.

I media occidentali e quelli cinesi hanno appiattito il movimento su due letture opposte: o movimento filo-democratico oppure movimento filo-terrorista, una rivolta fine a se stessa. Si tratta in realtà di un movimento estremamente composito che raccoglie la rabbia di molti gruppi e strati sociali. Al suo interno si possono individuare almeno tre grandi gruppi. C’è il fronte democratico che ha come suo modello l’Occidente, che lotta per i diritti umani, e che è la componente più conosciuta dalle nostre parti. C’è poi la gioventù radicale, giovani molto radicalizzati bardati di nero per non farsi riconoscere dalle forze di polizia. Il regime di Pechino ha parlato di “terrorismo nero” per screditare e criminalizzare questo gruppo, il quale si fa vettore consapevole di una grossa tensione sociale dovuta alle crescenti diseguaglianze di una società che almeno dal 2001, cioè dall’ingresso della Cina nel WTO, è stata sballottata tra due poli: da hub privilegiato dell’ingresso e dell’uscita delle merci cinesi verso il mondo occidentale, a centro iper finanziarizzato dove la ricchezza è raramente distribuita secondo criteri di equità, e che si vede scavalcato da questo gigante che è la Cina, la quale decide al posto della popolazione di Hong Kong. Questa gioventù radicalizzata che raccoglie gran parte della rabbia sociale comprende al suo interno un vasto insieme di idee e di riferimenti culturali, che vanno dall’anarchismo sino alle spinte nazionalistiche ed eventualmente xenofobe.

Come terzo gruppo ci sono poi i nativisti e localisti, che costituiscono una frangia senz’altro xenofoba che chiama locuste (*) i cinesi del continente, rivendica un’identità hongkonghese basata sul cantonese e che rigetta qualsiasi idea di una Cina come unione comunitaria di diverse realtà etniche e culturali.

Infine, ma da non sottovalutare assolutamente, anche per i numeri, occorre considerare gli operai e gli attivisti sindacali, i sindacalisti che in realtà erano attivi da ben prima, e che hanno sempre sfruttato questa loro posizione a Hong Kong per monitorare tutto il grande spazio industriale del Guandong, con i suoi grandissimi distretti industriali, per poterne scrivere e svolgere un’attività sindacale resa possibile appunto dalle maggiori libertà che hanno goduto a Hong Kong. Insomma, Hong Kong è stata anche la torre di guardia, il punto di osservazione privilegiato per l’attivismo sindacale, anche grazie alla sua prossimità geografica con il Guandong, cosa che rende possibile un’unità d’intenti con gli attivisti della Cina continentale. Va infatti detto che nel corso del 2019 sono state fondate 25 unità sindacali, delle Unions, da attivisti hongkonghesi e continentali, e molte altre sono nate all’inizio del 2020. Certamente la nuova legge sulla sicurezza nazionale mette il bavaglio agli attivisti sindacali, con conseguenze non felici sull’attivismo in genere, però d’altra parte, e paradossalmente, questo fatto potrebbe parificare la condizione degli operai della Cina continentale con la forza lavoro che si trova a Hong Kong, facilitandone l’unione.

È quello che ad esempio sostiene il collettivo Lau Xjan [non so se ho scritto correttamente il nome], il quale è molto attivo e che possiamo collocare nella prima linea della gioventù radicale. Questo collettivo spinge molto per un’internalizzazione delle lotte e del dissenso, e addirittura ricerca un’unione e uno scambio di strategie di lotta con il Black Lives Matter e con altri gruppi statunitensi che ovviamente sono critici nei confronti delle politiche degli Stati Uniti. E quindi non si direbbe che quel collettivo sia venduto agli interessi dell’imperialismo americano…

Sul profilo Facebook della sinologa qui citata leggo quanto segue: «Lettura lunga ma merita [si tratta di un post da lei linkato il 5 luglio], anche e soprattutto perché va ben al di là del tema del nazionalismo dei cinesi residenti all’estero, sconfinando in quel campo che almeno per la sottoscritta è una grande sfida, teorica e politica, ossia: come si costruisce un discorso sulla Cina contemporanea da una prospettiva di sinistra, lontana anni luce dall’anticomunismo viscerale della stampa mainstream anglosassone ma anche, parimenti distante dalle teorie dell’eccezionalismo cinese (你们老外不懂)e soprattutto in fuga dal tabellone del risiko geopolitico, o forse gioco dell’oca, in cui se non mangi la minestra di Pechino, puoi solo saltare dalla finestra di Washington…». Come sanno i miei – ahimè pochi – lettori a mio avviso è possibile avversare nel modo più radicale il regime (non il “popolo”, o la straordinaria cultura) cinese senza scadere necessariamente nell’anticomunismo e nel fiancheggiamento (“oggettivo”) dell’imperialismo occidentale, a partire ovviamente da quello americano. Questo soprattutto perché il regime cinese non ha mai avuto niente a che fare con il comunismo, neanche ai tempi di Mao Tse-tung, eroe della Rivoluzione borghese-nazionale culminata nell’Ottobre del 1949 con la proclamazione della cosiddetta Repubblica Popolare Cinese. Non c’è dubbio (almeno per chi scrive): la minestra cucinata a Pechino dal Partito-Stato (o Partito Capitalista Cinese) va gettata senza alcuna remora nella pattumiera, là dove sguazzano i tifosi del “socialismo con caratteristiche cinesi”.

(*) «È incontestabile il fatto che ai continentali sia stato affibbiato il nomignolo di “locuste”, per sottolineare il carattere predatorio e le modalità non del tutto pulite con cui costoro conducono i loro affari nella Regione a statuto speciale; tuttavia la natura stessa dell’insulto svela la sua radice economica e politica, più che etnica, suggerendo quindi come pure la più accesa intolleranza in realtà origini da circostanze storiche recenti, dai mutamenti socioeconomici avvenuti nell’ultimo ventennio, e non da fattori culturali di lungo corso. Gli abitanti di Hong Kong, infatti, appartengono prevalentemente alla stessa etnia cinese Han e solo una limitata (ancorché significativa) minoranza proviene da altri gruppi (Hakka, per esempio, o si pensi anche alla forza lavoro migrante giunta dalle Filippine e dall’Indonesia)» (G. Perini, Territorio, autodeterminazione e/o rivoluzione: dalla Pechino del 4 maggio 1919 alla Hong Kong del 2019).

CINA. IL “RITORNO” DELL’ECONOMIA DI STRADA

Gli Stati Uniti sono entrati nell’era economica
del mercato spaziale privato, mentre noi abbiamo
rilanciato l’economia dei venditori ambulanti”.

 

La natura monolitica del Partito Capitalista Cinese (cosiddetto “comunista”) è una delle tante leggende coltivate in Occidente sulla Cina fin dai tempi di Mao Tse-tung, e non sempre senza un’attiva collaborazione degli stessi leader cinesi. In realtà già prima della proclamazione della Repubblica Popolare, nell’ottobre del 1949, il PCC era strutturato in diverse fazioni politico-ideologiche, non riconosciute ufficialmente ma molto attive su tutti gli aspetti decisivi della vita del Paese: dalla politica estera alla politica economica, dalla forma politico-istituzionale più adeguata alla storia e agli interessi della Cina, al suo sviluppo culturale, e così via. D’altra parte tutti questi aspetti sono tra loro così fortemente connessi, che toccando un tasto si agisce, anche senza volerlo, su un altro tasto che non sembra avere nulla a che fare con il primo, e questo permette alla lotta fra le fazioni partitiche di non esaurire mai il carburante che l’ha alimentata lungo tutti questi decenni, sebbene solo episodicamente, e cioè durante le crisi sociali più acute attraversate dal Paese, essa si è palesata con i crismi dell’ufficialità. D’altra parte, e com’è noto, il Partito-Regime ha sempre esibito una cura maniacale nel mostrare alla popolazione cinese e al mondo intero un solo volto, una “compatta e invincibile” unità di intenti e d’azione, e questo mentre al suo interno si sono appunto consumate aspre lotte (anche sanguinose), vendette (non di rado consumate “a freddo”, cioè dilazionate nel tempo), duri regolamenti di conti (molti dei quali rubricati come “lotta alla corruzione”), e così via.

Un interessante articolo di Guido Alberto Casanova, ricercatore ed editorialista dell’ISPI, ci segnala adesso una significativa manifestazione «della competizione tra le varie anime del partito comunista cinese, le cosiddette fazioni». Questa manifestazione ha come principale – ma non esclusivo – oggetto la cosiddetta economia di strada, una fetta importante di quell’”economia informale” che è ancora molto presente in Cina, soprattutto nelle sue regioni capitalisticamente meno sviluppate. Le concessioni decise il maggio scorso dalle autorità di Shanghai, Gansu, Zhejiang, Jiangxi, Hebei e di altre città all’«economia dei venditori ambulanti» hanno suscitato un vivace dibattito anche nell’opinione pubblica del Paese, come riporta l’articolo di Ling Yun che pure cito. Riporto alcuni passi di questi due articoli soprattutto perché essi ci offrono un’immagine della società cinese molto diversa da come essa appare attraverso la cortina fumogena creata dalla propaganda di regime, la quale si sforza in tutti i modi di accreditare l’idea che la Cina abbia vinto, o stia per vincere, la Guerra della Pandemia.

Scrive Casanova: «Il mese scorso si è tenuta in Cina la sessione annuale del Congresso Nazionale del Popolo (NPC), l’equivalente cerimoniale del parlamento cinese. L’evento è solitamente coreografato e le molte misure adottate sono spesso già state negoziate dalla dirigenza. Questa volta però, il tono ritualistico dell’evento si è dissolto durante l’intervento di chiusura del primo ministro Li Keqiang, facendo riemergere una tensione politica rimasta a lungo sopita durante l’era del presidente Xi Jinping. […] Il fattore scatenante del riaccendersi dello scontro politico sembra essere lo sconvolgimento socio-economico prodotto dalla pandemia. Durante la quarantena molte imprese sono state costrette a licenziare parte del proprio personale e l’attività economica stenta a tornare ai livelli pre-crisi. Nonostante il dato ufficiale sulla disoccupazione si sia mosso di pochissimi punti percentuali in questi mesi, alcuni studi indicano che il numero di disoccupati avrebbe raggiunto un picco di 80-90 milioni, mentre altri 250 milioni di lavoratori soffriranno di una riduzione dello stipendio compresa tra il 10 e il 50%. I più colpiti però sono i quasi 300 milioni di lavoratori-migranti che nei decenni dell’apertura economica si sono riversati dalle campagne nelle città. Sprovvisti di gran parte dei servizi sociali di base (compresa l’assistenza sociale in caso di disoccupazione) e solo in rari casi impiegati con un regolare contratto di lavoro che ne certifichi i diritti, per gran parte dei lavoratori-migranti la mancanza di lavoro significa nessun reddito. E anche per quella minoranza di lavoratori che rientra nei criteri per il versamento dei contributi per la disoccupazione, la situazione non è molto migliore: nel primo trimestre del 2020 solo 2,3 milioni di persone hanno ricevuto un sussidio pubblico per la disoccupazione, peraltro troppo basso per sostenerne il reddito. Il settore dei servizi poi, quello in cui viene impiegata la maggioranza dei lavoratori-migranti, è anche quello in cui si è registrata la contrazione più accentuata. […] Inoltre, durante la conferenza stampa conclusiva del NPC Li ha rimarcato che circa 600 milioni di cittadini cinesi vivono con uno stipendio mensile di non oltre 140 dollari [una somma che, osserva il premier cinese,  “è appena sufficiente per coprire l’affitto mensile in una città cinese di medie dimensioni”], e sono dunque a forte rischio povertà. In Cina, la pubblicazione di questi dati ha attirato molta attenzione, anche perché nel paese i media propongono normalmente una narrazione incentrata sulla forza dell’economia cinese. Soprattutto però, l’annuncio ha gettato un’ombra sull’obiettivo personale del presidente Xi di dichiarare entro il 2021 (il centenario della fondazione del partito) [*] il raggiungimento dello status di “società moderatamente prospera” in cui la povertà è stata completamente eliminata. Un obiettivo che Xi ha continuato a propagandare e che in marzo aveva descritto come ormai prossimo alla realizzazione. Il malcontento politico nel partito dovuto all’insofferenza per l’accentramento del potere si è così saldato col malcontento sociale del paese alle prese con le conseguenze del Covid-19. Grazie alla propria estrazione rurale-popolare e per l’attenzione dimostrata verso il tema delle disuguaglianze socio-economiche, la fazione dei tuanpai [che si riconosce nelle posizioni del Primo Ministro] è il gruppo meglio posizionato per beneficiare politicamente dalla crisi, facendo così di Li Keqiang il naturale portavoce del malcontento. Durante la conferenza stampa di chiusura del NPC, Li ha infatti espresso un giudizio positivo sulla possibilità di tamponare la crisi occupazionale sviluppando nuovamente un’economia di strada fatta di bancarelle e venditori ambulanti, simile a quella emersa negli anni ‘80. Da molti, in Cina, l’annuncio è stato accolto con ottimismo e diverse decine di città hanno iniziato a progettare alcuni modi di implementare questa economia di strada. Il via libera, però, sarebbe un’inversione di rotta radicale rispetto alla politica adottata negli ultimi anni, in cui i venditori di strada erano stati cacciati dalle amministrazioni cittadine in nome di una visione più igienica e meno caotica della vita urbana».

Anche i media cinesi appaiono divisi sul modo in cui presentare all’opinione pubblica interna e internazionale l’«economia dei venditori ambulanti»: i più importanti quotidiani del Paese, controllati direttamente dal regime, hanno riportato i pareri contrari all’ipotesi di Li Keqiang espressi dai dirigenti nazionali e locali del Partito; la linea ufficiale sostenuta dalla propaganda che criminalizza «l’economia di strada» è sintetizzabile nello slogan: «Indietro non si torna!»; come scrive Ling Yun, altri media statali hanno invece «promosso positivamente “le bancarelle ai bordi delle strade per guadagnarsi da vivere” definendole come “energia di fumo e fuoco”, piuttosto che etichettarle come “sporche, disordinate, povere” come facevano in passato. Oggi, dopo quindici anni di repressione, i venditori ambulanti stanno nuovamente allestendo bancarelle per gestire la loro “grande, luminosa e giusta” attività. In questo contesto, il dibattito online sul fenomeno è diventato virale. Alcuni cittadini hanno detto: “Ora stiamo incoraggiando le bancarelle ai bordi della strada. È ovvio, considerato che il mercato interno è già abbastanza povero”. Un altro utente ha commentato: “Incoraggiare i venditori ambulanti è in primo luogo un modo per rivitalizzare l’economia del popolo; d’altra parte non indica però che il vero inverno sta arrivando? La semplice manomissione dei dati non risolverà il problema questa volta”. Altri ancora hanno scritto: “L’espediente è misura del panico da disoccupazione”. “Quando non consentiti, vengono definiti ‘sporchi e disordinati che danneggiano l’ambiente e causano smog’. Mentre quando sono richiesti, vengono definiti ‘energia di fumo e fuoco’”. “Ora che l’economia va male, la gente ha il permesso di gestire le proprie bancarelle. La stampa le acclama e incoraggia ogni giorno. Ma perché non avete detto nulla quando le violente forze dell’ordine cittadine requisivano il triciclo del venditore?” […] Alcuni utenti cinesi hanno schernito il discorso del premier [Li Keqiang], scrivendo: “Gli Stati Uniti sono entrati nell’era economica del mercato spaziale privato, mentre noi abbiamo rilanciato l’economia dei venditori ambulanti”. […] Hu Jia, un attivista per i diritti umani di Pechino, ha dichiarato a Radio Free Asia che la decisione del regime comunista di concedere alla gente una certa flessibilità è dovuta ovviamente a considerazioni di stabilità sociale, sicurezza politica e finanziaria. “Se non lo lascio andare in strada a mantenere la sua famiglia, cosa potrebbe succedere quando è in ansia? E se si vendicasse contro la società? O andasse in strada a protestare? Quando la gente ha un reddito, allevia la pressione finanziaria che grava sul governo. Senza questa preoccupazione di recessione economica e di disordini sociali, il regime non avrebbe fatto questa concessione”» (The epoch Time). Non c’è dubbio.

Concludo ritornando a Casanova: «L’attenzione dedicata alle fasce sociali in difficoltà ha conferito una certa popolarità al primo ministro [2], e ciò potrebbe essere stato interpretato dal presidente come una minaccia al proprio potere in un momento particolarmente delicato. […] Se dunque le diatribe di questi giorni sono davvero lo specchio di un braccio di ferro tra le fazioni di Xi e di Li, la lotta sull’economia di strada (il cui hashtag sui social cinesi è pure stato censurato) potrebbe essere una cartina di tornasole per testare la fiducia del partito e del paese verso il sistema di potere delineato da Xi». Staremo a vedere.

[*] Qui è appena il caso di ricordare, per mera pignoleria, che l’attuale Partito Capitalista Cinese (cosiddetto “Comunista”) non solo non ha nulla a che fare con il promettente Partito Comunista Cinese fondato a Shangai nel 1921 e poi distrutto, in quanto soggetto politico proletario-rivoluzionario, dallo stalinismo nella seconda metà degli anni Venti (il maoismo altro non fu, sul piano politico-ideologico, che uno stalinismo con caratteristiche cinesi), ma ne è l’esatto opposto. Per approfondire questa “problematica” rinvio ai miei diversi scritti sulla Rivoluzione Cinese, nonché all’ultimo post dedicato alla Cina: Sulla campagna cinese.

CRESCE LA RIVALITÀ STRATEGICA TRA CINA E INDIA

È impossibile, e comunque sarebbe a mio avviso sbagliato, sottovalutare quanto è avvenuto lo scorso lunedì lungo la frontiera sino-indiana segnata dalla catena himalayana. Alludo naturalmente allo scontro (in teoria senza l’uso di armi da fuoco, come prevede un accordo tra i due giganti asiatici firmato, se non sbaglio, nel 1998) tra l’esercito indiano e quello cinese che avrebbe provocato la morte di almeno venti soldati indiani – mentre Pechino omette di denunciare il numero dei suoi caduti. «Il quotidiano nazionalista cinese Global Times in un editoriale, pubblicato in cinese e inglese, ha affermato che Pechino ha rifiutato di rivelare il numero di vittime cinesi “al fine di evitare confronti e prevenire un’escalation”» (Il Sole 24 Ore). La saggezza diplomatica del Celeste imperialismo è davvero sconfinata, e d’altra parte Pechino predilige la tattica assai concreta del fatto compiuto: poche parole e molti fatti, mentre l’India con la Cina (la cui economia è quattro volte più grande di quella indiana) è costretta ad applicare la tattica opposta. Di qui, lo schiamazzo degli indiani e il profilo basso dei cinesi, venduto dai media cinesi all’opinione pubblica internazionale come prova del pacifismo con caratteristiche cinesi. Sarebbe tuttavia sbagliato sottovalutare la capacità di iniziativa messa in campo negli ultimi anni dall’India anche in chiave anti-cinese, e proprio nella zona contesa dell’Himalaya.

Comunque sia, «fonti di intelligence indiane riportate dalla stampa indiana ma non confermate da altri fonti parlano di 50 morti tra i soldati cinesi». Per uno scontro consumatosi, a quanto è dato sapere, a colpi di bastoni, di mazze ferrate e lancio di pietre, si tratta di un bilancio davvero notevole. Pare che alcuni soldati di ambo gli eserciti siano rimasti vittime di un ambiente naturale molto ostile: montagne alte cinquemila metri e temperature molto basse. Violente sono state anche le reazioni dell’opinione pubblica dei due Paesi, il cui nazionalismo negli ultimi anni è cresciuto moltissimo grazie alla massiccia propaganda nazionalista orchestrata dai rispettivi regimi. In entrambi i Paesi molta gente invoca la vendetta: «Su Instagram girano i video dei cittadini indiani che spaccano apparecchi elettronici cinesi» (Formiche.net), mentre «sui social network cinesi, alcuni utenti di Internet hanno chiesto all’esercito cinese di vendicarsi. “Se non colpiamo a morte l’India, questo tipo di provocazione non si fermerà mai”, ha scritto un utente della rete Weibo» (Il Sole 24 Ore). Diciamo pure che indiani e cinesi si disprezzano a vicenda molto intensamente, come non accadeva da tempo, e sull’orgoglio dei primi brucia ancora il ricordo delle sconfitte patite dall’esercito indiano ad opera di quello cinese nel 1962 (nel Tibet) e nel 1967 (nel protettorato del Sikkim).

In effetti, negli anni Sessanta del secolo scorso si infranse definitivamente il “sogno” di un’alleanza strategica sino-indiana, economicamente fondata sul capitalismo di Stato, in grado di emancipare i due Paesi dal giogo imperialistico delle vecchie e delle nuove potenze mondiali. Mentre allora la Cina si allontanò rapidamente dall’Unione Sovietica, rivelatasi un  “Paese fratello” tutt’altro che affidabile, l’India percorse la strada opposta, e di fatto entrò stabilmente nell’orbita sovietica proprio in chiave anti-cinese.

Dopo gli scontri nella Valle di Galwan l’India ha immediatamente dichiarato il massimo stato di allerta lungo i 3500 chilometri della linea di confine (tracciata definitivamente dall’Inghilterra coloniale nel 1914) con la Cina, sebbene New Delhi si sia affrettata a rassicurare Pechino sulla sua inalterata “disponibilità al dialogo” tra le due parti al fine di abbassare la temperatura e allentare le tensioni. L’ultimo episodio conflittuale tra i due Paesi che ha provocato vittime risale al 1975, e quindi si tratta di capire se nel corso degli anni sono avvenuti significativi cambiamenti nelle loro relazioni. Inutile dire che gli indiani hanno attribuito la responsabilità del fattaccio interamente ai cinesi, che lo avrebbero preparato subdolamente, e che i cinesi hanno fatto la stessa cosa ai danni dei cugini asiatici, accusati di aver cercato cinicamente lo scontro.

La “stazza” geopolitica, militare (con un cospicuo arsenale atomico) e sociale dei due Paesi (la cui popolazione complessiva è pari al 40% di quella mondiale) è troppo imponente per consentire una rapida derubricazione dell’episodio cruento a banale scaramuccia frontaliera tra soldati innervositi e frustrati. Allo stesso tempo, non si può non sorridere dinanzi alle chiacchiere dell’analista geopolitico superficiale, di solito orientato in senso “progressista”, secondo il quale si tratterebbe di un episodio di altri tempi, di un fatto anacronistico che mal si concilia con la natura “intelligente” (vedi il concetto di soft power) del moderno conflitto tra Paesi che aspirano a recitare un ruolo da protagonista sulla scena mondiale. Niente di più sbagliato: si tratta invece di un fatto spiegabile solo a partire da quanto produce questo tempo, il tempo scandito dalla competizione sistemica mondiale tra imprese, Paesi e Continenti.

Anche se si fosse trattato di un episodio accidentale, di «una missione organizzata sul posto, un regolamento di conti tra contingenti locali, e non un’azione pensata per aprire un conflitto più allargato», come sostiene l’analista di Limes Giorgio Cuscito, occorre anche considerare il contesto generale nel quale quella «scaramuccia» si inquadra. Ebbene, i fatti del 15 giugno entrano perfettamente in sintonia con il quadro delle attuali relazioni indo-cinesi, ed è importante prenderli seriamente in considerazione non tanto perché possono far precipitare la situazione, ma in quanto sintomi di una situazione.

Nicola Missaglia, esperto di India dell’Ispi, allarga la visuale e punta i riflettori anche sulla «costruzione di una strada frontaliera da parte dell’India, una via di collegamento logistica per una base militare nell’area che non piace alla Cina». Ma c’è dell’altro, sempre secondo Missaglia: «A questo dobbiamo aggiungere che la Cina ha detestato la decisione indiana di separare il Jammu e il Kashmir perché in quella contesa indo-pakistana ci finisce in mezzo il China Economic Corridor, e Pechino è preoccupata da alcune dichiarazioni forti della componente politica del primo ministro, il nazionalista Nerendra Modi, secondo cui gli indiani dovrebbero spingersi ad approfondire il proprio controllo anche in aree del Kashmir pakistane». Il corridoio di cui parla Missaglia è strategicamente molto importante perché collega Pechino al «supporto logistico militare» realizzato dai cinesi nel 2018 nel porto di Gwadar (provincia pakistana del Balochistan), e perché attraversa la zona di collegamento tra Tibet e Xinjiang, due regioni periferiche che, com’è noto, sono molto “problematiche” per il regime cinese. Tra l’altro Washington non ha mancato di ricordare a Islamabad, già accusata da Trump di ospitare gli estremisti di Haqqqani, organizzazione affiliata al gruppo militante talebano, che il suo legame sempre più stretto con Pechino non può non avere conseguenze negative, anche sul piano finanziario, sulle relazioni Usa-Pakistan.

«Di fatto – osserva ancora Missaglia – siamo davanti a due potenze emergenti che si stanno mandando segnali. Non credo che sia nell’interesse di nessuno fare una guerra nucleare, ma è una situazione da tenere sotto controllo. Certamente ha contribuito ad arrivare a questo punto anche l’effetto della pandemia. La Cina non ha gradito la chiusura dei confini e della vendita di materiale sanitario nelle fasi più critiche dell’epidemia da parte dell’India, ma ora sta ripartendo e su questo piano è in vantaggio rispetto a New Delhi, che invece è ancora nel mezzo della crisi» (Formiche.net).

C’è anche da prendere in considerazione la sindrome dell’accerchiamento che colpisce entrambi i Paesi. «L’India si sente accerchiata dalla Cina, che sostiene il suo arcinemico (Pakistan) e prova a sottrarle influenza nell’estero vicino (Bangladesh, Myanmar, Sri Lanka, Nepal, Maldive) attraverso le nuove vie della seta» (F. Petroni, Limes); ma anche la Cina si sente accerchiata dall’India, che si avvicina sempre più agli Stati Uniti, al Giappone, all’Australia, al Vietnam, all’Indonesia e a tutti i Paesi del Pacifico Meridionale che percepiscono come una minaccia imminente il forte attivismo marittimo-militare della Cina. «Tuttavia, Delhi è storicamente refrattaria a schierarsi nettamente contro Pechino. Per esempio, non si è accodata alle invettive più veementi dell’amministrazione Trump in tema di virus. È da vent’anni almeno che è sempre più sensibile ai corteggiamenti americani, cedendo anno dopo anno a un’avance in più di Washington. Non le si concederà del tutto, ma episodi come questo la indurranno a far cadere altri tabù e altre insicurezze nell’affrontare direttamente i cinesi. D’altronde, dal punto di vista di Pechino, gli scontri in corso possono essere interpretati proprio come un modo per testare la risolutezza di Delhi. Per ammonirla che una posizione più filoamericana comporta violenza alle porte di casa. Per questo occorrerà osservare attentamente come terminerà questa disputa» (Ivi). Un editoriale comparso l’altro ieri sul Wall Street Journal suggeriva a Trump di lasciar perdere le polemiche e le beghe politico-elettorali interne per approfittare della situazione creata dagli scontri che hanno avuto per scenario le splendide cime dell’Himalaya. Non c’è dubbio, «occorrerà osservare attentamente come terminerà questa disputa».

Può essere di qualche utilità, per concludere, vedere come qualche anno fa il generale Carlo Jean tratteggiava i rapporti di forza tra India e Cina e la dimensione geopolitica del loro confronto: «Dal punto di vista militare, la Cina possiede una netta superiorità sull’India ed è in grado di accrescere ulteriormente il proprio vantaggio, in quanto possiede un’industria degli armamenti molto più efficiente di quella indiana. La competizione fra la Cina e l’India si sviluppa in Asia centrale, nel Golfo e in Africa, soprattutto con strumenti economici e diplomatici. Nell’Oceano Indiano, è rilevante anche la competizione militare, soprattutto in campo navale. In essa, la Cina è favorita dal fatto che l’India deve destinare gran parte delle sue risorse all’Esercito, data la possibilità di un nuovo conflitto con il Pakistan. La Cina, invece, può dedicarle alla Marina e alle forze di proiezione di potenza, pur dovendo mantenere un forte esercito da utilizzare contro rivolte sociali e tentativi di secessione dal Tibet e dallo Xingkiang. Inoltre, il maggior livello tecnologico dell’industria degli armamenti cinese ha ampiamente affrancato la Cina dall’importazione di armamenti dalla Russia, mentre l’industria della difesa indiana dipenderà dall’estero ancora a lungo. La geografia e la storia non favoriscono però la Cina. Il Mar Cinese Meridionale è chiuso dagli Stretti della Malacca e la Cina, a differenza dell’India, è considerata una potenziale minaccia da tutti i paesi della regione. Non appena la politica di Pechino diventerà più assertiva, tutti questi paesi ricercano la protezione militare degli Usa, ma anche rafforzano i loro legami strategici con l’India» (Geopolitica del mondo contemporaneo, Laterza, 2013).

 

CINISMO PLANETARIO

  1. Sovranismo repressivo

«I politici statunitensi, che avevano definito le proteste di Hong Kong uno spettacolo bellissimo da vedere, naturalmente non si aspettavano che un simile spettacolo arrivasse così velocemente fin sotto le loro finestre» (Global Times). «Gli americani farebbero meglio a mettere rapidamente da parte il sogno di interferire a Hong Kong per minare la prosperità della Cina» (China Daily).

Traduco: Caro Presidente Trump, reprimi in piena tranquillità i tuoi cittadini e lascia i cittadini cinesi alle amorevoli cure del Presidente Xi Jinping! Anche Teheran, il cui regime notoriamente è più incline alla carota che al bastone quando si tratta di “dialogare” con la piazza, non ha fatto mancare le sue frecciate ironiche sugli americani esportatori di democrazia e diritti umani. Della seria: il più pulito ha la rogna – e un robusto manganello da assestare sulla testa dei nemici della Patria. Per il Time «Cina, Russia e Iran sono impegnati in una cinica campagna propagandistica contro gli Stati Uniti»: come sempre i corifei della civiltà occidentale sono sensibili solo nei confronti del cinismo propagandistico degli avversari.

Intanto la polizia di Hong Kong ha respinto, per la prima volta in trent’anni, la domanda da parte degli organizzatori dell’annuale veglia per ricordare le vittime del massacro di piazza Tienanmen avvenuto il 4 giugno 1989. La giustificazione ufficiale per il diniego è di ordine sanitario: le regole di distanziamento sociale contro il coronavirus vietano le riunioni di oltre otto persone. Il controllo sociale in tempi di pandemia riesce meglio?

  1. L’eterno razzismo americano

Donald Trump minaccia di schiacciare «il terrorismo interno» con il tallone di ferro dell’Esercito più potente del mondo. «Terrorismo interno»: anche nel linguaggio il Presidente americano ricorda il suo collega cinese. Nel 1992 fu Bush padre a usare l’Esercito per sedare la rivolta di Los Angeles scoppiata dopo l’assoluzione di quattro agenti del Dipartimento di Polizia di Los Angeles per l’uso eccessivo della forza nell’arresto e nel pestaggio di Rodney King: «Con lo schieramento dei militari, l’ordine fu ristabilito in tutta la città, ma durante i disordini furono uccise 63 persone, vi furono 2.383 feriti e più di 12.000 arresti» (Wikipedia).

Scriveva Tomàs F. Summers il 29 settembre del 2009: «L’elezione di Obama è stata salutata come la fine della questione razziale. Niente di più sbagliato. La razza resta un pilastro della società statunitense e un potente fattore di discriminazione, specialmente in tempo di crisi» (Limes). Dalla crisi del 2009 alla crisi del 2020 (dal progressista Obama al conservatore Trump ): «I video che ritraggono la morte di George Floyd hanno una forza innegabile. Ma la rabbia dei neri covava da mesi durante il regime di lockdown, perché l’isolamento sociale e la perdita dell’occupazione hanno gravato in misura maggiore sulle comunità più povere, e loro sono in prima linea anche sul fronte dei decessi. L’omicidio a Minneapolis è stata la scintilla che l’ha fatta scoppiare. La comunità degli afro americani è quella che soffre di più in termini di mancanza di servizi sociali e qualità delle cure mediche. Nulla è stato fatto per correggere l’oppressione di polizia nei confronti dei neri, o per migliorare le loro condizioni di vita. Nel frattempo la classe dei bianchi poveri ha sofferto un parallelo deterioramento economico e sociale che ha favorito un clima di opposizione crescente tra i due gruppi» (Ian Bremmer, Il Messaggero). Questa analisi non mi sorprende neanche un po’, e penso che non possa suonare originale all’orecchio di nessuno.

Purtroppo continua a latitare la solidarietà di classe tra oppressi e sfruttati d’ogni “razza e colore”, che sarebbe il solo antido efficace contro il veleno razzista e contro la guerra tra poveri che tanto ingrassa il Dominio sociale. «Non siamo contro i bianchi come tali, ma contro lo sfruttamento, contro l’oppressione e contro la degradazione», disse una volta Malcolm X, il quale non incitava alla violenza contro i “bianchi” ma rivendicava piuttosto per i “neri” il diritto di difendersi con tutti i mezzi necessari se attaccati dai razzisti e dalla polizia – spesso le due cose coincidevano, come peraltro accade anche oggi. Politici, analisti e media di tutto il mondo si chiedono quanto i fatti seguiti all’omicidio di George Floyd danneggeranno la corsa presidenziale di Trump e avvantaggeranno quella del suo scialbo avversario. Come sempre il dramma sociale troverà il suo momentaneo sfogo nel rito della democrazia che preserva la continuità del regime sociale. Morto (?) un Presidente, se ne elegge un altro!

«Per una volta non lo fare, non far finta che non sia un problema in America. Non pensare che questo non ti riguardi, non restare in silenzio, non pensare che non puoi essere parte del cambiamento. Cerchiamo tutti di essere parte del cambiamento» (Nike). Calzando le scarpe sportive della Nike la via del Progresso umano e civile può essere percorsa con maggiore comodità e speditezza? Come sempre il cinismo va attribuito in primo luogo alla realtà, non alle sue vomitevoli fenomenologie. Il marketing non è solo l’anima del commercio: esso è soprattutto l’anima di questa società disumana basata sui valori di scambio. E questo dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Europa all’Africa. Ovunque.

I DIRITTI DELLA CINA SU HONG KONG E TAIWAN

Hong Kong non ha mai perso il suo status di
colonia. Siamo semplicemente passati da un
padrone imperialista a un altro (Joshua Wong).

Gli economisti borghesi vedono soltanto che
con la polizia moderna si può produrre meglio
che, ad es., con il diritto del più forte. Essi
dimenticano soltanto che anche il diritto del più
forte è un diritto, e che il diritto del più forte
continua a vivere sotto altra forma nel loro
Stato di diritto (Karl Marx).

 

Alla vigilia dei giorni che ricordano la strage di Tienanmen, vorrei ricordare in estrema sintesi la mia posizione sul movimento di opposizione politica che ormai da diversi anni scuote la vita sociale di Hong Kong con le molteplici implicazioni, di natura interna e internazionale, che qui è inutile ricordare. In particolare cercherò di definire la natura storico-sociale dei diritti che la Cina rivendica su Hong Kong – e, mutatis mutandis, su Taiwan. Anticipo la conclusione: il ritorno di Hong Kong – e in prospettiva di Taiwan – alla madrepatria cinese si configura nel XXI secolo come un processo di espansione imperialista.

A differenza di quello che hanno pensato alcuni miei superficiali lettori, io non sostengo affatto il movimento autonomista/indipendentista/separatista/democratico, o come altro lo si voglia definire, di Hong Kong. In generale, e in linea di principio, non sostengo alcun tipo di separatismo: per quanto mi riguarda ha un significato apprezzabile solo l’autonomia di classe, ossia la separazione delle classi subalterne dal punto di vista delle classi dominanti, difeso dallo Stato (considerato in tutte le sue articolazioni politico-istituzionali) ed espresso in mille forme dagli intellettuali e dagli artisti di regime. Per questo non ho sostenuto, ad esempio, il movimento separatista catalano, né sosterrei, per mera ipotesi, un analogo movimento separatista che nascesse negli Stati Uniti o in Italia – vedi la mitica Padania. Ma non per questo nel 2017 ho “tifato” per l’azione repressiva messa in campo dal potere centrale spagnolo contro l’indipendentismo catalano, né sosterrei Washington o Roma nella loro ipotetica opera repressiva volta a salvaguardare l’unità nazionale statunitense e italiana. Ci mancherebbe altro! Anzi, come ho fatto a proposito dei fatti catalani denuncerei il carattere violento e reazionario di quell’opera, e ne individuerei le contraddizioni, così da scagliare frecce critiche contro l’orgoglio nazionale (sia quello che fa capo ai separatisti, sia quello che fa capo ai centralisti), il quale rappresenta un vero e proprio veleno politico, ideologico e psicologico che i funzionari del dominio sociale inoculano sempre di nuovo nelle vene del corpo sociale, così da poterlo stordire, controllare e mobilitare (in vista delle urne o delle armi) più facilmente.

Non è per ideologia, ma per puntuale visione storica e sociale che i comunisti sostengo il carattere internazionale del proletariato e delle sue lotte, mentre i funzionari del Dominio fanno di tutto per fornirlo di una patria da rispettare e da onorare soprattutto quando il Nemico bussa alle porte. Ma per il proletariato che ha coscienza, il Nemico si chiama Patria, si chiama Paese, si chiama interesse nazionale, si chiama unità nazionale, si chiama rapporto sociale capitalistico. Questo è un inderogabile principio che l’anticapitalista fa valere ovunque: negli Stati Uniti, in Cina, in Russia, in Italia: ovunque.

Naturalmente il regime cinese ha tutto il diritto di reprimere il movimento separatista hongkonghese, esattamente come lo ha avuto il regime spagnolo nei confronti dei catalani e lo avrebbero, sempre per riprendere l’esempio precedente, i regimi statunitense e italiano. Si tratta, per la precisione, di un diritto capitalistico, del diritto esercitato – anche manu militari, all’occorrenza – dallo Stato capitalistico per salvaguardare l’unità nazionale, dovere sacro per ogni soggetto politico-istituzionale devoto ai “superiori interessi” della Patria. «La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino», recita l’Art. 52 della Costituzione Italiana. Si tratta insomma dell’ultrareazionario diritto borghese che da sempre gli anticapitalisti considerano ultrareazionario e che combattono con ogni mezzo necessario adeguato alla situazione.

La “narrazione” messa in piedi dal regime cinese, e propagandata in Occidente dai miserabili tifosi del “Socialismo con caratteristiche cinesi”, a proposito di Hong Kong e di Taiwan parla di compimento dell’unità nazionale e di chiusura definitiva con l’epoca della secolare umiliazione (1839-1949) patita dalla Cina vittima del colonialismo occidentale e dell’imperialismo giapponese. Si tratta di un’operazione politico-ideologica che trova un terreno molto fertile nel crescente nazionalismo della popolazione cinese. Dal punto di vista “storico-materialista” il nuovo “Risorgimento cinese” ha una base sociale totalmente e violentemente reazionaria: nel 2020 non abbiamo a che fare con il nazionalismo borghese-rivoluzionario in salsa maoista culminato nel 1949 con la proclamazione della Repubblica Popolare Cinese (osteggiata prima dagli Stati Uniti e poi anche, e ancor di più, dall’Unione Sovietica) (1), ma con il nazionalismo di una Cina giunta ai vertici della competizione capitalistica e imperialista mondiale. Ancora nella prima metà degli anni Sessanta del secolo scorso la Cina di Mao poteva vantare verso la storia mondiale qualche credito progressista (sempre di natura nazionale-borghese), ma già agli inizi del decennio successivo essa entrò a pieno titolo nella dinamica interimperialistica rivendicando per sé uno spazio sempre più ampio nel grande gioco del potere mondiale. Dico questo per sottolineare quanto reazionario sia oggi sostenere il diritto della Cina, potenza imperialista di primissimo rango, di integrare pienamente Hong Kong e Taiwan nel suo spazio nazionale.

Ovviamente la stessa attiva e radicale ostilità va praticata nei confronti dell’imperialismo occidentale (Stati Uniti e Unione Europea), il quale peraltro è tutt’altro che unito in un solo “blocco di civiltà” nei confronti dell’attivismo sistemico (economico, tecnologico, politico, ideologico, militare, “sanitario”) cinese. Germania, Francia e Italia guidano il fronte “filocinese” europeo (2) che tanto irrita il Presidente Trump, il quale com’è noto è molto sensibile ai “diritti umani” – violati negli altri Paesi: «Se fossero riusciti a superare la cancellata, i dimostranti [di Washington] sarebbero stati accolti dai cani più feroci e dalle armi più minacciose» (Donald Trump). Nei media cinesi, tutti controllati più o meno direttamente dal regime, in questi giorni circola la seguente battuta: «Anziché occuparsi di Hong Kong, il Presidente americano farebbe bene a preoccuparsi di Minneapolis». Come dire che ogni regime è legittimato a occuparsi, per ciò che riguarda il conflitto sociale e politico, solo di quanto avviene nel proprio spazio nazionale: «Padroni di reprimere a casa nostra!»

La stessa classe dominante americana non è totalmente schierata a favore delle sanzioni economiche promesse da Trump contro una Hong Kong ormai “cinesizzata”; le due economie, quella cinese e quella americana, sono fra loro così fortemente integrate e “sinergiche” sul piano finanziario, logistico e produttivo, che sarà difficile per Washington assestare dei seri colpi alla Cina senza danneggiare almeno in parte gli interessi del capitale americano. Molti politici e analisti geopolitici statunitensi spingono dunque per una politica estera americana più realistica e accomodante nei confronti della Cina, rinviando a un momento successivo la resa dei conti con un Paese che in ogni caso rimane il principale nemico strategico degli Stati Uniti (su questo punto negli USA si registra l’unanimità delle opinioni) (3); insomma, qualche lacrimuccia “democratica” e “umanitaria” da versare sui «coraggiosi giovani di Hong Kong e Taipei così attaccati ai valori occidentali», e molta realpolitik geopolitica e affaristica, sperando che la Seconda Guerra Fredda (4) minacciata da Washington e Pechino non si trasformi rapidamente in una Terza Guerra Mondiale.

Concludo questa breve riflessione. Quando, nel giugno del 1989, il Partito-Regime decise di mettere fine con una brutale repressione al movimento studentesco – in realtà definirlo semplicemente studentesco è riduttivo – centrato soprattutto nella capitale cinese, esso fece valere contro la piazza il proprio ultrareazionario diritto di preservare lo status quo politico e sociale che aveva permesso alla Cina di accelerare in modo prodigioso lungo la strada dello sviluppo capitalistico che l’avrebbe portata ai vertici del potere mondiale. Per il capitalismo/imperialismo cinese si trattò allora della scelta più giusta. Per il capitalismo/imperialismo cinese, appunto (5). Il processo storico-sociale procede verso una piena integrazione di Hong Kong (e probabilmente di Taiwan) nel gigantesco corpo del continente cinese; ma la violenza, le tensioni, le sofferenze e le contraddizioni politiche e sociali che questo processo genera, o che potrebbe generare, non trovano l’anticapitalista in una posizione di indifferente fatalità, tutt’altro.

Come ho scritto su un precedente post, il “diritto di ingerenza” che rivendico su quanto accade a Hong Kong, a Minneapolis e in ogni altra città del mondo «non ha nulla a che fare né con il diritto internazionale, che è la continuazione del diritto capitalistico su scala planetaria, né con la cosiddetta difesa dei “diritti umani”, tirata in ballo soprattutto dai Paesi occidentali come strumento politico-ideologico posto al servizio dei loro imperialistici interessi». Questo “diritto di ingerenza” si fonda piuttosto sulla coscienza circa la natura di classe dei conflitti sociali e politici che sorgono ovunque nel mondo: una volta si chiamava “internazionalismo proletario”, e personalmente mi piace chiamarlo ancora così.

 

(1) Sulla natura nazionale-borghese della rivoluzione cinese ho scritto da ultimo un post centrato soprattutto Sulla Campagna cinese. Sulla rivoluzione cinese e sul maoismo rinvio anche a Tutto sotto il cielo – del Capitalismo e al post Žižek, Badiou e la rivoluzione culturale cinese.
(2) «È una questione di principi e valori liberali da difendere. Ma l’Occidente non lo ha capito. L’Italia è l’esempio perfetto: è come cedere alla mafia, perché per qualcuno conviene di più rispetto ai valori dello Stato. Ecco, il partito comunista cinese è una mafia: non ci sono individui, ma membri che giurano fedeltà totale. Non va meglio in Francia, Regno Unito e soprattutto in Germania. La Germania è la prima a beneficiare dei rapporti con il regime cinese, a livello industriale, commerciale, bancario. Poi però in Europa vuole ergersi a paladina della moralità. Che scandalo. La Germania non critica mai la Cina, neppure quando la gravità del coronavirus è stata inizialmente insabbiata. Berlino ha svenduto il suo futuro a Pechino. E così il resto dell’Occidente sta collassando perché ha rinunciato ai suoi valori» (Ai Weiwei, La Repubblica). A me non sembra che l’Occidente abbaia rinunciato ai suo valori. Di che valori parlo? Dei valori di scambio, è ovvio! Sono i valori che dominano in tutto il mondo: a Occidente come a Oriente, a Nord come a Sud.
(3) A questo proposito segnalo l’interessante documento reso pubblico il 20 maggio dall’Amministrazione statunitense riguardante l’approccio strategico statunitense alla Repubblica Popolare Cinese. Cito alcuni passi: «Da quando gli Stati Uniti e la Repubblica popolare cinese hanno stabilito relazioni diplomatiche nel 1979, la politica degli Stati Uniti nei confronti della Repubblica popolare cinese è stata in gran parte fondata sulla speranza che un impegno più profondo avrebbe portato a una fondamentale apertura economica e politica nella Repubblica popolare cinese e al suo emergere come uno stakeholder globale costruttivo e responsabile, con una società più aperta. Più di 40 anni dopo, è diventato evidente che questo approccio ha sottovalutato la volontà del Partito comunista cinese di limitare la portata delle riforme economica e politica in Cina. Negli ultimi due decenni, le riforme sono state rallentate, bloccate o invertite. Il rapido sviluppo economico della Repubblica popolare cinese e il maggiore impegno verso il mondo non hanno portato alla convergenza con l’ordine libero, aperto e incentrato sui cittadini come speravano gli Stati Uniti. Il Partito comunista cinese ha scelto invece di sfruttare il mondo libero e aperto e di tentare di rimodellare il sistema internazionale a suo favore. Pechino riconosce apertamente che sta cercando di trasformare l’ordine internazionale in linea con gli interessi e l’ideologia del Partito comunista cinese. L’uso crescente dei poteri economico, politico e militare da parte del Partito comunista cinese per costringere al consenso gli Stati nazionali danneggia i vitali interessi americani e mina la sovranità e la dignità di Paesi e individui in tutto il mondo.
(4) «Stati Uniti e Cina: in marcia verso un nuovo tipo di guerra fredda? I legami della Cina con gli Stati Uniti per la maggior parte degli ultimi 40 anni sono stati fondati su un’equazione intrinsecamente instabile. Ciascuna parte era disposta a minimizzare le differenze ideologiche e le tensioni strategiche al fine di beneficiare della cooperazione economica. Per decenni, questo atteggiamento ha prodotto notevoli guadagni commerciali a entrambi. Molti a Pechino attribuiscono le tensioni alle insicurezze di una superpotenza in declino: a Washington temono la crescente fiducia di una grande potenza in espansione» (Financial Times).
(5) «Qualche giorno fa Berlusconi ha scritto un “impegnato” articolo centrato sulla necessità, per l’Occidente, di contenere e rintuzzare «l’imperialismo comunista cinese»; ieri il quotidiano spagnolo El País ospitava un lungo articolo dedicato al pericoloso «capitalismo comunista cinese»: più che parlare di ossimoro, bisognerebbe scomodare il concetto di… minchiata! Il problema, almeno per come la vedo io, è che la stragrande maggioranza delle persone crede davvero che la popolazione cinese sia governata da una mostruosità politico-sociale mai vista prima: un “regime comunista” basato su un iper capitalismo. Tra l’altro questa “mostruosità”, la cui natura sociale beninteso non supera di un millimetro la dimensione capitalistica, sta offrendo a tutto il mondo standard e modelli di controllo e di repressione sociale davvero eccellenti, sicuramente all’avanguardia. Ed è anche per questo che seguo con interesse le vicende di Hong Kong – ma anche quelle che riguardano il Tibet e lo Xinjiang» (Da Hong Kong a Minneapolis: mi riguarda! Mi “ingerisco”).

DA HONG KONG A MINNEAPOLIS: MI RIGUARDA! MI “INGERISCO”!

Com’è noto ieri l’Assemblea Nazionale del popolo della Cina, «massima autorità legislativa della Repubblica popolare», ha approvato quasi all’unanimità (2.877 voti favorevoli, un solo voto contrario e sei astenuti: la chiamano «democrazia con caratteristiche cinesi») la legge sulla sicurezza nazionale che estende a Hong Kong la prassi di controllo e repressione sociale in vigore sul continente cinese. Ne è nato il putiferio locale e internazionale che sappiamo (1). Qui intendo tirare un solo filo della questione, che cercherò di affrontare più estesamente quanto prima.

«”Non tollereremo nessuna ingerenza nei nostri affari interni”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian; “Qualsiasi tentativo di ostacolare la nuova legge sulla sicurezza nazionale della Cina a Hong Kong è destinato a fallire». «Il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov ha affermato pubblicamente che la questione di Hong Kong rappresenta un affare puramente interno della Cina». «Noi in questo momento non vogliamo interferire nelle questioni altrui e per quanto ci riguarda abbiamo un approccio di non ingerenza nelle questioni di altri paesi»: così scriveva il Ministro degli Esteri italiano lo scorso novembre proprio in riferimento alla repressione cinese del movimento hongkonghese.

Con tutto il disprezzo di cui sono capace, intendo gridare in faccia ai funzionari politici del dominio sociale capitalistico, ovunque essi si trovino a svolgere il loro escrementizio ufficio, che tutto ciò che accade tra cielo e terra mi riguarda, e riguarda tutte le persone che non vogliono chinare il capo dinanzi allo sfruttamento, all’oppressione, alla repressione, alla violenza d’ogni tipo, al saccheggio ambientale (a cominciare dall’ambiente biologico a noi più prossimo: il nostro corpo) e a quant’altro questa Società-Mondo ci regala, bontà sua, ogni giorno. Il “diritto di ingerenza” che qui rivendico naturalmente non ha nulla a che fare né con il diritto internazionale, che è la continuazione del diritto capitalistico su scala planetaria, né con la cosiddetta difesa dei “diritti umani”, tirata in ballo soprattutto dai Paesi occidentali come strumento politico-ideologico posto al servizio dei loro imperialistici interessi.

«Fermo restando l’obbligo di rispettare i diritti umani e la condanna di qualsiasi forma violenta di protesta, ogni Paese sovrano ha il diritto e il dovere di garantire l’ordine pubblico sul suo territorio»: è ciò che ha dichiarato ieri Vito Petrocelli, presidente pentastellato della commissione Esteri del Senato. Ed è esattamente contro questo «diritto e dovere» che l’anticapitalista rivendica la solidarietà e l’azione di classe intese ad attaccare politicamente la sovranità di tutti i Paesi, quella italiana in primis. Dove per sovranità qui bisogna intendere l’esercizio del potere volto a difendere e consolidare lo status quo sociale, a cominciare dai rapporti sociali capitalistici responsabili della nostra pessima condizione umana.

Qualche giorno fa Berlusconi ha scritto un “impegnato” articolo centrato sulla necessità, per l’Occidente, di contenere e rintuzzare «l’imperialismo comunista cinese»; ieri il quotidiano spagnolo El País ospitava un lungo articolo dedicato al pericoloso «capitalismo comunista cinese»: più che parlare di ossimoro, bisognerebbe scomodare il concetto di… minchiata! Il problema, almeno per come la vedo io, è che la stragrande maggioranza delle persone crede davvero che la popolazione cinese sia governata da una mostruosità politico-sociale mai vista prima: un “regime comunista” basato su un iper capitalismo. Tra l’altro questa “mostruosità”, la cui natura sociale beninteso non supera di un millimetro la dimensione capitalistica (2), sta offrendo a tutto il mondo standard e modelli di controllo e di repressione sociale davvero eccellenti, sicuramente all’avanguardia. Ed è anche per questo che seguo con interesse le vicende di Hong Kong – ma anche quelle che riguardano il Tibet e lo Xinjiang.

(1) «Il provvedimento consentirà al governo cinese di reprimere più facilmente il dissenso, che ha registrato un’escalation a partire dalla scorsa estate a causa di un progetto di legge sull’estradizione (poi ritirato). L’epidemia di coronavirus ha poi arginato temporaneamente le tensioni nella regione. […] Nello specifico, la normativa dovrebbe riguardare gli atti di “tradimento, secessione, sedizione e sovversione” e dovrebbe impedire tra le altre cose l’interferenza di organizzazioni politiche straniere. La fazione pro-Pechino aveva tentato di introdurre questa legge già nel 2003, salvo poi rinunciare a causa delle proteste di massa. Dal 1997 in poi, molti hanno pensato che Hong Kong potesse diventare il laboratorio democratico della Cina. Eppure, la Repubblica Popolare non ha adottato la formula “un paese, due sistemi” per garantire agli hongkonghesi una democrazia “genuina”, dotata di suffragio universale. Si è trattato piuttosto di una mossa tattica. Obiettivo: convincere il Regno Unito a restituire i territori conquistati durante le guerre dell’oppio e assicurare a Hong Kong il fondamentale ruolo di punto di contatto (non solo finanziario) tra la Cina e il resto del mondo» (G. Cuscito, Limes).

Il regime cinese sta cercando di approfittare della situazione locale e internazionale creata dalla pandemia ancora in corso per regolare definitivamente i conti con la fazione ribelle di Hong Kong e lanciare messaggi (più o meno minacciosi) in tutte le direzioni. Inutile dire che Taiwan e gli Stati Uniti hanno colto subito il significato delle mosse fatte da Pechino: «Gli Usa appoggeranno la causa dell’ex colonia britannica per danneggiare il soft power cinese, forse con nuove sanzioni anti-Pechino. Potrebbero inoltre cogliere l’occasione per stringere ulteriormente i rapporti con Taiwan, anche sotto il profilo militare. La presidente Tsai Ing-wen promette “l’assistenza necessaria” agli hongkonghesi desiderosi di lasciare la regione. L’obiettivo di Taipei è mettere in cattiva luce Pechino e accrescere il proprio raggio d’azione internazionale ora che la Repubblica Popolare dibatte sui pochi pro e i molti contro della riunificazione manu militari nella fase attuale» (Limes).

Per Pechino si tratta di riprendere il filo (di seta…) della sua ambiziosissima strategia espansiva giocata a tutto campo, in ogni sfera della competizione interimperialistica (dall’economia alla tecnologia, dalla scienza alla geopolitica, dalla cultura alle armi, ecc.), “sfere” che peraltro oggi sono sempre più intrecciate le une alle altre, generando il concetto e la prassi di competizione sistemica, ossia totale. Non dimentichiamo che il “sogno cinese” di cui parla continuamente Xi Jinping prevede una sola Cina e il primato capitalistico mondiale del Paese entro il 2050. Per il Partito-Regime si tratta anche di riaffermare e consolidare la sua autorità politica e “morale” sull’opinione pubblica interna, scossa dalla grave crisi sanitaria dei mesi scorsi.

(2) Ultimamente ho affrontato la questione in uno scritto (Sulla campagna cinese) a cui rinvio.

Ieri ho postato su Facebook quanto segue

IN DEBITO D’OSSIGENO

Breathe, breathe in the air. Don’t be afraid to care.

1. I can’t breathe!

«”Non posso respirare, mi state uccidendo”. George Floyd ha ripetutamente implorato il poliziotto di lasciarlo respirare ma ben presto è svenuto ed è morto dopo essere stato trasportato in ospedale. Un video integrale dell’arresto dimostra come l’afroamericano non abbia opposto nessuna resistenza agli agenti ma, al contrario, sia stato sempre collaborativo nei loro confronti» (Fanpage). «Un nuovo video girato da una telecamera a circuito chiuso, mostra il momento dell’arresto di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis. Prima della morte per soffocamento, dopo che un poliziotto gli ha fatto perdere il respiro con un ginocchio sul suo collo, l’afroamericano è stato fatto scendere dall’auto e sedere sul marciapiede. In questo caso non sembra aver opposto resistenza agli agenti» (CorriereTV).

2. Primato militare USA

«Una nave da guerra americana ha testato una potente arma a raggio laser in grado di raggiungere e abbattere obiettivi come aerei in volo alla velocità della luce. La rivoluzionaria arma è stata testata in un punto imprecisato dell’Oceano Pacifico il 16 maggio scorso e la Marina americana ha diffuso un breve video del test in cui si vede un raggio di luce molto luminoso che viene “sparato” da una nave e poi un velivolo – apparentemente un drone – in fiamme. “Con questa nuova capacità avanzata, stiamo ridefinendo la guerra in mare per la Marina”, ha detto il capitano Karrey Sanders della USS Portland, la nave usata per il test» (La Stampa).

Prodigi della tecnoscienza – orientata in senso antiumano, cioè capitalistico.

La «nuova capacità avanzata» della Marina Militare statunitense toglie davvero il fiato. Fatto reale e metafora credo che qui si incastrino perfettamente l’uno nell’altra, senza alcuna forzatura, a significare una condizione umana davvero pessima. D’altra parte viviamo nell’epoca del bavaglio “sanitario”, il quale di certo non aiuta la respirazione…

SULLA CAMPAGNA CINESE

Qiao Wanying, il pittore contadino

Ho raccolto in questo scritto gli appunti che mi sono stati “sollecitati” dalla lettura di un breve saggio sulla Cina scritto nel 2013 da Samir Amin, l’economista franco-egiziano scomparso nel 2018, e pubblicato da Antiper il 16 marzo 2020.

Come spesso mi capita, anche questa volta non ho avuto il tempo di rivedere il testo, per eliminare errori e ripetizioni, e di questo naturalmente mi scuso con i lettori. Anche la scansione temporale degli eventi qui trattati non segue sempre una direzione cronologicamente lineare, anche perché ciò che qui mi interessa mettere in primo piano è la dimensione storico-sociale essenziale di quegli eventi, più che il loro concatenarsi e susseguirsi nel tempo, cosa che d’altra parte è possibile trovare in moltissime e perlopiù assai apprezzabili ricostruzioni storiche, passate e recenti, dedicate alla Cina. Il titolo che ho dato a questo scritto è puramente indicativo, proprio in ragione della complessa trama di questioni (economiche, politiche, geopolitiche, teoriche), intimamente intrecciate tra loro, qui affrontata – spero con risultati non del tutto disprezzabili: come sempre le mie aspettative sono realistiche… Non si può capire il presente senza capire il passato: è, questa, un’affermazione che certamente suonerà banale a molti lettori, ma alla quale nessuno può negare almeno un briciolo di verità. D’altra parte, la comprensione del passato ha sempre bisogno di una strumentazione (mediazione) concettuale che naturalmente non è politicamente neutra, ed è per questo che sulla storia passata non esiste un solo punto di vista, ma diversi, non di rado troppi, e spesso essi sono più radicati su ciò che siamo e pensiamo oggi, che sugli effettivi fatti del passato più o meno remoto che ci troviamo ad analizzare e commentare. C’è chi dice che non esistono fatti, ma solo una loro interpretazione, la quale in ogni caso non può fare a meno di fare i conti con l’oggettività delle cose, secondo quella dialettica di oggetto e soggetto che a mio avviso realizza la sola realtà a cui possiamo accedere. Inutile dire che anche il mio punto di vista “storico” sulla Cina moderna deve essere giudicato secondo quanto ho appena sostenuto, e mi auguro solo che in ogni caso esso sia di un qualche interesse per chi avrà la bontà di prenderlo in considerazione.

Scrive Samir Amin: «Dire, come si sente alla nausea, che il successo della Cina dovrebbe essere attribuito all’abbandono del maoismo (il cui “fallimento” era ovvio), e all’apertura verso l’esterno, con l’ingresso di capitali stranieri è semplicemente idiota. La costruzione maoista ha posto le basi senza le quali l’apertura non avrebbe raggiunto il suo noto successo». Concordo! ». Chi scrive non ha mai né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”.

«La Cina non ha seguito un percorso particolare solo dal 1980, ma dal 1950, sebbene questo percorso abbia attraversato fasi che sono fra loro diverse sotto molti aspetti. La Cina ha sviluppato un progetto sovrano coerente, adeguato alle proprie esigenze. Questo non è certamente il capitalismo, la cui logica richiede che la terra agricola sia trattata come una merce. Questo progetto rimane sovrano in quanto la Cina rimane al di fuori della globalizzazione finanziaria contemporanea. Il fatto che il progetto cinese non sia capitalista non significa che sia “socialista”, ma solo che consente di avanzare sulla lunga strada del socialismo. Tuttavia, è ancora minacciato da una deriva che lo sposta da quella strada e finisce con un ritorno, puro e semplice, al capitalismo». Concordo sulla sostanziale continuità storico-sociale della Cina da Mao Tse-tung a Xi Jinping, mentre le altre tesi di Samir, a cominciare dalla supposta deriva che minaccerebbe il «progetto cinese», mi appaiano del tutto infondate, a dir poco. Qui di seguito cercherò di spiegare perché. Non prima di aver detto, con una certa ironia, che esattamente come la Cina, tutti i Paesi capitalisticamente avanzati del pianeta hanno una struttura economico-sociale che, “oggettivamente” parlando, consente loro «di avanzare sulla lunga strada del socialismo». Ed esattamente come negli altri Paesi del mondo, anche in Cina la splendida possibilità dell’emancipazione umana è violentemente negata dalle classi dominanti, in primis mediante il loro cane da guardia più terribile e minaccioso: lo Stato capitalistico. Com’è noto, in Cina lo Stato coincide con il cosiddetto Partito Comunista Cinese, un Partito-Regime con spiccatissime caratteristiche orwelliane – un modello molto apprezzato anche in Occidente, come abbiamo visto durante la recente crisi pandemica.

Qui il testo in formato PDF

1. Scrive l’economista franco-egiziano: «In realtà la domanda “la Cina è capitalista o socialista?” è mal posta, è troppo generale e astratta perché qualsiasi risposta abbia senso nei termini dell’alternativa assoluta posta da quella domanda. In effetti, la Cina ha effettivamente seguito un percorso originale dal 1950, e forse anche dalla rivoluzione Taiping nel diciannovesimo secolo» [1]. A mio avviso invece quella domanda è perfettamente legittima, sia sul piano storico come su quello politico-sociale, mentre convengo sull’originalità di cui parla Samir. Si tratta piuttosto di afferrare la natura storica e sociale di quell’originalità, di comprenderne la dinamica e la direzione di marcia. L’obiezione di Samir lascia tuttavia intendere che nel caso della Cina le categorie storico-sociali di capitalismo e socialismo non colgono, o lo fanno solo parzialmente e in modo non adeguato, la reale dinamica del processo sociale che ha radicalmente cambiato il volto della Cina dopo la Liberazione del 1949. Personalmente concordo anche sul carattere estremamente complesso e contraddittorio di quel processo sociale, soprattutto per ciò che concerne il primo decennio del regime maoista, e tuttavia ritengo che esso possa venir ricondotto senza alcuna forzatura nell’alveo dell’alternativa secca (“la Cina è capitalista o socialista?”) rifiutata da Samir.
Gli Stati Uniti d’America sono un Paese capitalista o socialista? Ecco, questa “bizzarra” domanda, che ad alcuni può suonare come provocatoria, per molti e fondamentali aspetti ha per me la stessa consistenza (o inconsistenza) della domanda che Samir giudica «mal posta», e tra poco si capirà il senso di questa polemica affermazione.

Approcciamo il problema prendendola alla lontana, come si dice, per cercare di dare alla “problematica” un inquadramento teorico generale. Com’è noto, quando alla fine degli anni Settanta, inizio anni Ottanta del XIX secolo Marx si rese conto che nel movimento che si richiamava alle sue opere si stava affermando una tendenza volgarmente determinista, egli subito cercò di precisare il suo punto di vista sulla necessità storica dello sviluppo del modo di produzione capitalistico in ogni parte del mondo. Marx negò questa necessità considerata in senso astratto, a prescindere dalla storia reale dei vari Paesi e Continenti, e lo fece ad esempio, e nel modo più chiaro, in relazione alla proprietà comune della terra nella Russia zarista.

Soprattutto Marx fu assai sfavorevolmente colpito nel costatare che Il Capitale stava diventando in Russia una sorta di “Bibbia” dei sostenitori dello sviluppo capitalistico, i quali lo usavano soprattutto per sostenere la fatalità storica della trasformazione in senso capitalistico della campagna russa. «Signor redattore», scriveva Marx nel novembre del 1877 alla redazione di Otiecestvennye Zapiski, «l’autore dell’articolo Karl Marx al tribunale di Shukovskij, è evidentemente un uomo di spirito, e se egli avesse trovato nella mia esposizione dell’accumulazione originaria, un solo passo in appoggio alle sue conclusioni, l’avrebbe citato. […] Infine, poiché non mi piace lasciare adito a supposizioni, parlerò senza ambagi. Per poter giudicare con cognizione di causa lo sviluppo economico della Russia, ho appreso il russo, e ho studiato, durante lunghi anni, le pubblicazioni ufficiali e altre che riguardavano questa materia. Sono arrivato a questo risultato: se la Russia continua a camminare sul sentiero percorso dopo il 1861, essa perderà la più bella possibilità che la storia abbia mai offerto a un popolo, e subirà tutte le fatali peripezie del regime capitalista». Le «fatali peripezie» hanno dunque per Marx un ben preciso presupposto («se la Russia continua a camminare sul sentiero percorso dopo il 1861») che non ha nulla di deterministicamente necessitato. «Il capitolo sull’accumulazione originaria», continua Marx, «vuole solo tracciare la via attraverso la quale, nell’Europa occidentale, l’ordinamento economico capitalistico è uscito dal seno dell’ordinamento economico feudale. Esso espone quindi il movimento storico che, separando i produttori dai loro mezzi di produzione, trasforma i primi in salariati (proletari nel senso moderno della parola), e i detentori dei mezzi di produzione in capitalisti. […] Il mio critico ha assolutamente bisogno di trasformare il mio schizzo storico della genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica del cammino generale, fatalmente imposto a tutti i popoli, quali che siano le circostanze storiche in cui essi si trovano, per arrivare infine a questa formazione economica che assicura, col più grande sviluppo delle capacità produttive del lavoro sociale, lo sviluppo più integrale dell’uomo. […] Avvenimenti la cui analogia colpisce, ma che si svolgono in ambienti storici differenti, conducono a dei risultati del tutto differenti. Studiando a parte ognuno di questi processi, e paragonandoli poi, si troverà facilmente la chiave di questo fenomeno, ma non si arriverà mai col grimaldello di una teoria storico-filosofica generale, la cui suprema virtù consiste nell’essere sopra-storica» [2]. Altro che determinismo economico! Contro i limpidi chiarimenti di Marx circa la sua concezione materialistica (non deterministica) della storia, nel cosiddetto “marxismo” degli epigoni iniziò ad affermarsi una corrente di pensiero contraria a quella concezione e che farà della stessa transizione dal capitalismo al socialismo una “inevitabile fatalità storica” che altrettanto fatalmente non verrà mai ricercata da quegli epigoni – un nome su tutti: Karl Kautsky.

Interrogato da Vera Zasulič circa i destini della comune agricola russa (Obščina) nel contesto dello sviluppo economico-sociale della Russia [3], Marx rispose che la sua analisi  esposta nel Capitale non poteva venir semplicemente generalizzata in guisa di schema valido per tutte le situazioni storico-sociali: la sua analisi era da lui «espressamente limitata ai paesi dell’Europa occidentale. […] L’analisi presente nel Capitale non offre dunque ragioni né pro né contro la vitalità della comune rurale» [4]. Tuttavia, ciò che a Marx appariva chiaro e incontestabile era che, al punto in cui si trovava il processo sociale capitalistico considerato da una prospettiva mondiale, la sola dimensione geosociale adeguata alla natura di quel processo, l’Obščina avrebbe dovuto comunque, in ogni caso, conoscere una sua radicale trasformazione: si trattava di vedere sotto quali condizioni storico-sociali sarebbe potuta avvenire questa trasformazione: sotto il capitalismo o sotto il socialismo? Marx chiarì la sua posizione nel gennaio del 1882, nella Prefazione alla nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista: «In Russia, accanto all’ordinamento capitalistico, che febbrilmente si va sviluppando, e assieme alla proprietà fondiaria borghese, che si sta formando solo ora, oltre la metà del suolo si trova sotto forma di proprietà comune dei contadini. Si presenta, quindi, il problema: la comunità rurale russa, questa forma – è vero – in gran parte già dissolta dell’originaria proprietà comune della terra, potrà passare direttamente a una più alta forma comunistica di proprietà terriera? O dovrà attraversare, prima, lo stesso processo di dissoluzione che ha costituito lo sviluppo storico dell’Occidente? La sola risposta oggi possibile è questa: se la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista» [5]. Come si vede, se uno si chiedesse quale fosse il retroterra concettuale delle strategie rivoluzionarie da applicare alla Russia elaborate da Lenin («doppia rivoluzione») e da Trotsky («rivoluzione permanente») nei primi anni del Novecento, è in Marx che troverebbe la risposta.

Come scrive Marcello Musto, «Diversi sono stati gli autori che hanno proposto una lettura “terzomondista” dell’elaborazione dell’ultimo Marx, con conseguente presunto mutamento del soggetto rivoluzionario dagli operai delle fabbriche alle masse delle campagne e delle periferie» [6]. Presunto, appunto. Come afferma giustamente Marian Sawer, citata dallo stesso Musto, «Ciò che accade, in particolare nel corso degli anni Settanta, non fu che Marx cambiò la sua opinione sul carattere delle comuni di villaggio, né decise che esse avrebbero potuto diventare la base del socialismo così com’erano; piuttosto egli prese a considerare la possibilità che le comuni avrebbero potuto essere rivoluzionate non dal capitalismo, ma dal socialismo. […] Con l’intensificazione della comunicazione sociale e la modernizzazione dei metodi di produzione, il sistema di villaggio avrebbe potuto essere incorporato in una società socialista. Nel 1882, questo appariva a Marx ancora come una genuina alternativa alla completa disintegrazione dell’Obščina sotto l’impatto del capitalismo» [7]. Le cose andarono altrimenti, ed è possibile analizzare il processo di trasformazione della campagna russa leggendo il ricco materiale prodotto dalla socialdemocrazia russa, perlopiù in polemica con il populismo. Al tempo in cui il giovane Lenin scriveva i suoi saggi dedicati allo sviluppo capitalistico in Russia (e alla critica dell’ideologia populista), «la più bella possibilità» colta da Marx era sostanzialmente tramontata.

Qui mi sembra di poter rimarcare due punti importanti: in primo luogo Marx respinse ogni concezione determinista del processo storico basata su una metafisica (nell’accezione dispregiativa del termine) «teoria storico-filosofica del cammino generale»; in secondo luogo, egli legò strettamente e indissolubilmente il “destino” della comune rurale russa al più vasto movimento rivoluzionario internazionale, perché già ai suoi tempi la prospettiva del «socialismo in un solo Paese», tanto più se socialmente arretrato, appariva del tutto infondata e risibile.

Mutatis mutandis, e in realtà non poco, la prospettiva marxiana qui appena considerata conserva la sua forza analitica anche per ciò che riguarda la Cina della seconda metà del XIX secolo. Infatti, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, cioè da quando la Cina (insieme al Giappone) venne trascinata a forza nel vortice del processo sociale mondiale dalle potenze imperialiste/colonialiste del tempo,  andò progressivamente chiudendosi per la Cina la possibilità di evitare lo sviluppo economico con caratteristiche occidentali, cioè capitalistiche. Il futuro capitalistico di quel grande (in tutti sensi) Paese non era dunque iscritto nel destino; esso non era nelle mani delle leggi fatali e inesorabili del Progresso, e solo da un certo momento in poi la trasformazione della società cinese dovette necessariamente imboccare la strada del capitalismo. In Russia, per un breve periodo (1917-1921), sembrò potersi realizzare la “profezia marxiana” («la rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente»); in Cina le cose andarono fin dall’inizio (disfatta del movimento contadino-operaio del 1927, Rivoluzione nazionale-borghese del 1949) in tutt’altro modo. Intanto ho introdotto, quasi di soppiatto, il concetto di Rivoluzione nazionale-borghese in riferimento all’esperienza maoista. È lo stesso Mao che ci mette sulla pista corretta: «La nostra rivoluzione è sostanzialmente una rivoluzione contadina e l’attuale resistenza antigiapponese è la resistenza contadina antigiapponese. […] L’80 per cento della popolazione cinese è costituito da contadini; il problema contadino è diventato perciò il problema principale della rivoluzione cinese e la forza dei contadini è la forza principale della rivoluzione cinese» [8]. Se la «forza principale» di una rivoluzione che prende corpo nel XX secolo è costituita dai contadini; se «il problema contadino» rappresenta il motore propulsivo di quella rivoluzione, ebbene essa deve essere necessariamente una rivoluzione borghese, perché dalla campagna si sviluppano le condizioni “naturali” dell’accumulazione capitalistica: non si tratta di ideologia, ma di processi sociali materiali [9]. La Rivoluzione d’Ottobre del 1917 può essere definita proletaria, e non contadina, perché essa aveva al centro il programma politico del proletariato, e non solo di quello russo, ma del proletariato internazionale; a questo programma fu subordinato «il problema contadino», che per il proletariato russo (e quindi internazionale) rappresentò, al contempo, un fattore di estrema forza (perché rese possibile il suo rapido successo) e un fattore di estrema debolezza, perché ne condizionò fin da subito la politica e alla fine ne determinò la sconfitta. Su questo punto ritornerò dopo.

Nella seconda metà del XIX secolo la Cina appare – ed è – un Paese ritardatario non in assoluto, non in relazione a un mitico Calendario della Storia e del Progresso, che ovviamente non esiste, ma rispetto ai Paesi occidentali che con sempre maggiore insistenza e violenza si adoperarono ad “aprirla al mondo”, ossia  ai loro traffici mercantili. Com’è noto, la millenaria storia cinese fa segnare invece molti e significativi “anticipi” rispetto alla storia occidentale, a cominciare dal precocissimo sviluppo in Cina del feudalesimo, quando l’Occidente era ancora immerso in piena epoca schiavista, con il passaggio già nel III secolo a.C.  dal feudalesimo aristocratico, che apparirà in Europa dopo parecchi secoli, a quello che alcuni storici hanno definito «feudalesimo di Stato», attraverso la soppressione della vecchia e rissosa aristocrazia terriera e la presa in carico di tutta la terra da parte della celebre burocrazia statale (imperiale) cinese. Per farsi un’idea anche solo approssimativa della civiltà cinese considerata nel momento in cui l’Europa usciva a fatica dai secoli più bui seguiti al disfacimento dell’Impero Romano, è sufficiente leggere la famosa testimonianza resa da Marco Polo, che visitò la Cina dal 1275 al 1291 [10]. Ma facciamo adesso un grande balzo in avanti nella storia!

Per tutto il Settecento la Cina dei Qing rivaleggiò con successo con la Russia e con i maggiori Paesi europei per il controllo dell’Asia, ma già all’inizio del secolo successivo apparve chiaro che il Celeste Impero non riusciva più a reggere il confronto con i più dinamici Paesi occidentali, il cui dinamismo economico sopravanzava di molto l’espansionismo cinese, il quale aveva il suo motore principale nell’esigenza di rafforzare i confini terrestri dell’Impero per tenere a bada la pressione esercitata su di essi dai popoli “barbari”, la cui stessa esistenza minacciava la struttura sociale della Cina. Con la guerra dell’oppio (1840-1842) imposta dagli inglesi [11], alla classe dominante cinese apparve drammaticamente chiaro che la tradizionale economia autarchica non poteva più reggere, e che la piena integrazione della Cina nella divisione internazionale del lavoro era diventata solo una questione di tempo. Si trattava piuttosto di capire quale posizione il Paese avrebbe occupato in essa. A differenza del Giappone però la Cina non seppe rispondere prontamente e adeguatamente all’epoca mutamento dei tempi.

Da sempre la figura del «piccolo produttore di merci» ha avuto un ruolo molto importante nella struttura economico-sociale della Cina, soprattutto nelle sue campagne. «Il piccolo produttore di merci può essere considerato, in prima approssimazione, come una “categoria sociale mediana”, cioè né capitalista né proletario» Il piccolo produttore di merci sfrutta se stesso e la propria famiglia (moglie e figli sottomessi al marito-padre-padrone): egli è, per così dire, il capitalista e il proletario di sé stesso, e in ciò risalta il carattere impersonale, astratto (e potentemente concreto) del rapporto sociale capitalistico. La piccola produzione di merci è dominata da quel rapporto esattamente come lo sono la grande produzione agricola e quella industriale – posto che tale distinzione abbia un senso nel moderno capitalismo. «Tale categoria è caratterizzata da lavoro familiare, proprietà privata dei mezzi di produzione, e dipendenza dai mercati per la sua produzione e riproduzione» [12]. Qui abbiamo il concetto di piccola produzione come “incubatrice” di capitalismo, di borghesia, di rapporti sociali capitalistici; concetto che, a mio avviso, invita a non contrapporre schematicamente piccola e grande produzione di merci, ma a considerarle piuttosto nella loro intima, dinamica e complessa dialettica. Beninteso, si tratta di una dialettica sociale non priva di contraddizioni, come del resto ogni altra dialettica capitalistica.

La penetrazione economica occidentale in Cina mise in crisi la struttura economico-sociale della campagna cinese, la quale per molti versi assomigliava molto alla struttura del mondo rurale giapponese, a cominciare appunto dalla presenza dei cosiddetti «piccoli produttori di merci»: «L’analisi del rapido sviluppo del Giappone dal 1868 in poi ha a lungo sottovalutato la funzione che l’accumulazione non solo di ricchezza, ma anche di conoscenze tecnico-scientifiche e di esperienza manageriale, ha avuto nelle campagne giapponesi durante il periodo Tokugawa (1603-1868) [13]. Alla metà dell’800 quando lo scontro con l’Occidente e poi la decisione di una classe dirigente decisa ad evitare la colonizzazione iniziarono la modernizzazione del Giappone, le campagne giapponesi avevano già subito una trasformazione che, nonostante la formale assenza di proprietà privata della terra, aveva determinato una vivace commercializzazione e una marcata differenziazione sociale. Questa diffusa “piccola produzione di merci” sarà alla base dopo il 1868 di un vasto fenomeno di accumulazione di capitale riversato nell’industria locale; fino alla fine della Seconda guerra mondiale le tasse pagate dalle campagne hanno finanziato tutta la modernizzazione del Giappone. Dalla “piccola produzione di merci”, per effetto di una politica fiscale che penalizzava gli strati rurali più poveri, emerse una miriade di padroncini di piccole aziende industriali e di terre date in affitto che gestì in modo autoritario e paternalistico il potere nelle campagne. Il capitale accumulato dai “piccoli produttori di merci” fu così la molla indispensabile per rendere possibile lo sviluppo moderno che fu poi gestito al centro da uno strato superiore della classe dirigente  dotato di una cultura cosmopolita e dalla conoscenza dei meccanismi finanziari internazionali» [14]. Una simile modernizzazione capitalistica in Cina non ebbe modo di verificarsi per il “combinato disposto” realizzato dall’aggressiva politica imperialista/colonialista dell’Occidente e dalla risposta che le classi dominanti cinesi diedero alle sfide sistemiche che piombarono addosso al Paese. Forse l’essere stata per lunghissimo tempo al vertice della civiltà mondiale, condusse la Cina a un’imperdonabile sottovalutazione del pericolo che veniva da Ovest.

Come si legge nel Manifesto del 1848 di Marx ed Engels, «La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classi», e nessun Paese si presta meglio della Cina come esempio e conferma di quella tesi, con lo straordinario numero di guerre contadine e di rivolte sociali, più o meno vaste e generalizzate, che ne hanno costituire il vero motore del progresso sociale. Ancora oggi uno degli obiettivi dichiarati ufficialmente dallo Stato cinese in sede di programmazione economica annuale, è quello di evitare a tutti i costi la formazione di presupposti economico-sociali (carestie, epidemie, disoccupazione, sovrappopolazione, ecc.) che possano originare rivolte sociali. In passato il tramonto delle dinastie imperiali era legato, in modo più o meno diretto, a peridi di gravi turbolenze sociali che scuotevano il Paese dalle fondamenta, e questo retaggio storico evidentemente continua a pesare sul suo presente. Le rivolte contadine hanno sempre funzionato da monito nei confronti delle dinastie cinesi che si sono succedute nel tempo, sviluppando tra l’altro la concezione del mandato popolare conferito dai sudditi ai governanti e revocato tutte le volte che questi ultimi non riuscivano a soddisfare i bisogni primari del popolo. «Il popolo cinese non può essere conquistato e dominato se non con il suo consenso»: era un po’ questo il principio tradizionale universalmente accettato in Cina dai tempi più remoti e che, dietro la sottilissima (ma molto funzionale ed efficace) patina del “consenso”, confermava la struttura di dominio e di sfruttamento delle classi inferiori della società. «Tu Sovrano mi puoi dominare e sfruttare ma solo con il mio consenso, che io suddito ti accordo fin quando garantisci a me e alla mia famiglia un vitto sufficiente, un alloggio adeguato e quanto occorre per sostenere un’esistenza dignitosa e onesta». Naturalmente il concetto di «vita dignitosa» (o di «tenore di vita») mutava con il tempo, anche se molto lentamente, soprattutto nel mondo rurale cinese, i cui tempi di cambiamento si misuravano in secoli. Ancora oggi il Partito-Regime tiene fermo quel principio di consenso/revoca del mandato.

2. «Mao – scrive Samir Amin descrisse la natura della rivoluzione attuata in Cina dal suo Partito Comunista come una rivoluzione antimperialista/antifeudale che guardava al socialismo. Mao non ha mai pensato che, dopo aver affrontato l’imperialismo e il feudalesimo, il popolo cinese avesse “costruito” una società socialista. Ha sempre caratterizzato questa costruzione come la prima fase del lungo percorso verso il socialismo». Questo è il punto di vista maoista sulla rivoluzione cinese come lo presenta Samir. Tra poco cercherò di spiegare qual è invece il mio punto di vista. Per l’economista franco-egiziano è possibile individuare nell’esperienza cinese post 1949 una «specificità cinese» (ad esempio rispetto all’esperienza rivoluzionaria russa del 1917) che ci impedirebbe nel modo più assoluto di caratterizzare la Cina contemporanea (anche nel 2013) come “capitalista”: «La terra non è stata trasformata in una merce». Secondo il Nostro la mancata mercificazione della terra in quel grande Paese asiatico non ci permetterebbe di poter parlare della «Cina contemporanea» come di una società capitalistica, quantomeno in senso stretto, e ciò appunto «perché la strada capitalistica si basa sulla trasformazione della terra in merce». Qui credo che ci si riferisca alla possibilità di scambiare liberamente la terra in cambio di denaro. Per Samir in Cina «la terra delle comunità del villaggio» rimane «un bene comune», le cui forme di utilizzo sono state nel tempo le più diverse. Ciò che egli definisce come «stato di non merce della terra» (mi scuso se dovessi tradurre in modo non del tutto corretto dall’inglese) si riferisce in realtà alla natura statale della proprietà della terra, la quale ha conosciuto nel tempo diverse fenomenologie – come quella cosiddetta collettiva rappresentata dalle comuni di villaggio. Il supposto principio della non mercificazione della terra si base dunque sulla natura statale della proprietà terriera: è sufficiente la forma statale di quella proprietà per negare alla terra il carattere mercantile e a escludere la Cina dal novero dei Paesi pienamente capitalistici? A mio avviso no, nel modo più assoluto. Ciò che determina la natura sociale dell’agricoltura non è né la forma giuridica della proprietà della terra, né la sua contingente condizione giuridica legata alla possibilità di essere alienata in cambio di denaro, ma piuttosto la relazione sociale che stringe il capitale agricolo (privato, statale o “collettivo” [15] che sia) al lavoratore della terra. Se il capitale agricolo, cioè il capitale che sfrutta direttamente i lavoratori della campagna, coincide con il proprietario fondiario, magari in forma monopolistica, come nel caso della proprietà statale della terra, ciò significa semplicemente che il capitale agricolo incamera interamente il plusvalore estorto ai lavoratori, senza spartirlo con un proprietario fondiario.

La proprietà fondiaria è un titolo giuridico che dà il diritto a chi lo possiede di intascare una parte del valore creato dal lavoro [16]. Che la rendita sia intascata dal “privato” o dallo Stato, sempre in pieno capitalismo rimaniamo. Anche se la proprietà della terra è interamente nella disponibilità dello Stato, il quale si oppone a che essa diventi un articolo di commercio, il lavoratore agricolo salariato rimane in ogni caso separato dalle condizioni materiali della propria esistenza, a partire dalla prassi lavorativa, ed è questo, come sostiene giustamente Marx [17], che fa di quel lavoratore un salariato, ossia un individuo asservito ai rapporti sociali di dominio e di sfruttamento peculiari dell’epoca capitalistica. Questi rapporti sociali determinano la natura storico-sociale della proprietà capitalistica, non la sua contingente e cangiante espressione formale/giuridica.

Scrive Marx: «Se il modo di produzione capitalistico presuppone in generale che i lavoratori siano espropriati delle condizioni di lavoro, esso presuppone per l’agricoltura che i lavoratori rurali vangano espropriati della terra e subordinati a un capitalista, il quale esercita l’agricoltura in vista del profitto» [18]. Queste due condizioni si realizzano in una precisa epoca storica (quella capitalistica) e prescindono, in linea di principio (senza cioè prendere in considerazione la storia di ogni singola nazione), dalla natura del «capitalista» – che per Marx non è una persona fisica, ma una funzione sociale, che può venir assolta dal “privato” come dallo Stato. «Il capitalista è il funzionario non solo necessario, ma dominante della produzione. Invece il proprietario fondiario è, in questo sistema di produzione, del tutto superfluo. Ciò che è necessario, è che la terra non sia proprietà comune, che essa si contrapponga alla classe lavoratrice come mezzo di produzione che non le appartiene, e questo scopo è completamente raggiunto quando essa diventa proprietà statale, e quindi lo Stato percepisce la rendita fondiaria. Il proprietario fondiario, agente essenziale della produzione nel mondo antico e medievale, nel mondo industriale è un’escrescenza inutile. Il borghese radicale, che segretamente vagheggia la soppressione di tutte le altre imposte, arriva quindi teoreticamente alla negazione della proprietà fondiaria privata, di cui egli vorrebbe fare, sotto la forma di proprietà statale, la proprietà comune della classe borghese, del capitale» [19]. Qui il comunista di Treviri non potrebbe essere più chiaro circa la sua concezione della proprietà statale; una concezione che rappresenta la critica più radicale dell’ideologia statalista che informa la concezione e la prassi di molti suoi supposti epigoni – maoisti compresi [20].

Lungi dall’essere una misura di “stampo socialista”, la nazionalizzazione della terra (e la conseguente abolizione della rendita fondiaria pagata dai capitalisti agricoli alla classe dei proprietari terrieri, rendita che storicamente ha agito da freno sull’accumulazione capitalistica) è una misura che rientra nello schema ideale dello sviluppo capitalistico, schema che si ritrova nei grandi teorici dell’economia classica, da Quesnay a Ricardo. Questo schema ideale classico prevedeva lo sviluppo di un prevalente settore industriale, fortemente concentrato sul piano finanziario, la presenza di grandi aziende agricole assoggettate ai moderni metodi di produzione e l’esistenza di un assai ristretto strato sociale intermedio capitalisticamente improduttivo. Si trattava appunto di uno schema ideale, contraddetto in parte o in tutto dal reale processo di sviluppo capitalistico che ha avuto luogo nei diversi Paesi del mondo in periodi diversi. Lo stesso capitalismo di Stato reale come quello che ad esempio abbiamo conosciuto in Unione Sovietica, differiva da quello ideale per la presenza nella sua economia di un’assai diffuso settore cosiddetto informale, quando non “illegale”, la cui produzione (soprattutto agricola e artigianale) non rientrava nelle statistiche ufficiali pur essendo molto importante – anche ai fini della stabilità sociale. È stato nel settore agricolo che il quadro reale del processo economico si è maggiormente allontanato da quello ideale: l’agricoltura capitalistica ha visto, infatti, la compresenza di differenti forme proprietarie e organizzative: grande conduzione, piccola conduzione, mezzadria, cooperativa, grande azienda meccanizzata statale, piccola proprietà familiare, ecc.

Sul populismo cinese, che in parte sarà incarnato dal Partito di Mao, e su tutte le idee egualitarie (molte delle quali del tutto illusorie) coltivate dai contadini cinesi affamati di terra, vale a mio avviso la riflessione che Lenin dedicò nel 1912 a Sun Yat-sen, che si conclude affrontando proprio lo scottante problema della nazionalizzazione della terra. Scriveva Lenin: «L’esempio di Sun Yat-sen ci mostra in che cosa consiste “il significato sociale” delle idee nate da un profondo movimento rivoluzionario di centinaia e centinaia di milioni di uomini i quali sono oggi definitivamente entrati nella corrente della civiltà mondiale capitalistica. Uno spirito democratico combattivo, sincero pervade ogni riga della piattaforma di Sun Yat-sen. […] Una democrazia integrale con la rivendicazione della repubblica. Una impostazione netta del problema delle masse, un’ardente simpatia per i lavoratori e gli sfruttati, la fede nel loro diritto, nella loro forza. Dinanzi a noi sta effettivamente la grande ideologia di un popolo effettivamente grande, il quale sa non soltanto lagnarsi della sua secolare schiavitù, sa non soltanto sognare la libertà e l’uguaglianza, ma anche battersi contro i secolari oppressori della Cina. […] Il rappresentante principale o il principale appoggio sociale di questa borghesia asiatica, ancora capace di un’opera storicamente progressiva, è il contadino» (Lenin, Democrazia e populismo in Cina, Opere, XVIII, p. 152, Editori Riuniti, 1966). E tutto questo quadro, continuava Lenin, appare agli occhi dei marxisti tanto più significativo e apprezzabile se messo a confronto con la «putrefatta borghesia occidentale», con i «Paesi a civiltà progredita», ossia pienamente capitalistici e artefici della politica imperialista che saccheggiava le risorse fisiche e umane di molte regioni del mondo tenendole politicamente in uno stato di minorità nazionale.

Per Lenin il populismo è dunque l’ideologia della democrazia borghese che si appoggia sui contadini. La sostanza oggettiva (storica, sociale) di questa ideologia è «la distruzione del solo sfruttamento feudale», e ciò rappresenta un fatto rivoluzionario in un Paese «arretrato, agricolo, semifeudale come la Cina».Ecco adesso il risvolto, per così dire, reazionario del populismo, sempre secondo Lenin: «Ma questa ideologia della democrazia militante si accoppia, nel populismo cinese, innanzi tutto con dei sogni socialisti, con la speranza di risparmiare alla Cina la via del capitalismo, di prevenire il capitalismo, e, in secondo luogo, col progetto e con la propaganda di una riforma agraria radicale» (p. 154). Lenin giudica in primo luogo «assolutamente reazionaria, piccolo-borghese l’illusione che in Cina sia possibile “prevenire” il capitalismo».  Fin quando il linguaggio del populismo rimane sul terreno della rivoluzione borghese radicale, ed esprime un’oggettiva tendenza storica, il populismo appare ai marxisti un fenomeno storicamente rivoluzionario; non appena questo movimento politico-sociale affetta pose socialisteggianti e pone obiettivi irrealizzabili, esso svela tutti i suoi limiti oggettivi e soggettivi e si apre alla critica del proletariato rivoluzionario, il quale ha tutto l’interesse a chiarire i reali termini della “questione sociale” come si pone storicamente e nel presente. E questo non semplicemente per una questione puramente dottrinale, ma soprattutto per una ragione squisitamente pratica: la difesa dell’autonomia politica, organizzativa, ideale e psicologica dei lavoratori. Come sempre, teoria e prassi sono le due facce di una stessa medaglia, sono l’una la continuazione dialettica dell’altra.

Ancora Lenin: «In sostanza, a che cosa conduce la “rivoluzione economica” di cui parla Sun Yat-sen in modo così ampolloso ed oscuro all’inizio dell’articolo? Al passaggio della rendita fondiaria allo Stato, cioè la nazionalizzazione della terra, a trasmettere la proprietà della terra allo Stato. È possibile una simile riforma nel quadro del capitalismo? Non soltanto è possibile, ma rappresenta di per sé il capitalismo più puro, conseguente al massimo grado, idealmente perfetto. Marx lo rilevò nella Miseria della filosofia, lo dimostrò particolareggiatamente nel III volume del capitale e sviluppò questa tesi in modo particolarmente chiaro in polemica con Rodbertus nelle Teorie del plusvalore. […] L’ironia della storia sta nel fatto che il populismo, in nome della “lotta contro il capitalismo”, applica all’agricoltura un programma agrario la cui piena attuazione comporterebbe il più rapido sviluppo del capitalismo nell’agricoltura» (pp. 156-167).

La questione circa la natura giuridica e politica della proprietà della terra non ha dunque assolutamente niente a che vedere con quella della formazione della rendita fondiaria, la quale presuppone l’esistenza del lavoro agricolo salariato, ossia del rapporto capitalistico di produzione. Ad esempio, la rendita differenziale indagata da Marx, la quale dipende dalla fertilità e dalla posizione della terra, ha come suo esclusivo presupposto lo sfruttamento capitalistico del lavoro. Contro la famosa formula trinitaria, che faceva dipendere l’origine della rendita fondiaria, del profitto e del salario rispettivamente dalla terra, dal capitale e dal lavoro, Marx spiegò che solo il lavoro è il “fattore della produzione” capace di creare valore e plusvalore. «In una esatta concezione della rendita, la prima cosa era naturalmente il concetto che essa non deriva dalla terra, ma dal prodotto del lavoro, dal prezzo del prodotto del lavoro» [21]. Questo semplicemente per dire che la natura giuridica della proprietà fondiaria e la qualità della terra “in sé” [22] non ci dicono nulla intorno alla natura sociale che domina il lavoro umano in agricoltura. È qui che la famosa distinzione tra struttura (il rapporto sociale dominante) e sovrastruttura (la forma giuridico-istituzionale che tale dominio assume) mostra tutta la sua potenza concettuale. Molti cosiddetti “marxisti” hanno peraltro gravemente frainteso quei concetti dandone una lettura volgare e meccanicistica [23]. Per quanto mi riguardo, considero struttura la società capitalistica colta nella sua complessa, contraddittoria e inscindibile totalità.

La trasformazione dei rapporti di proprietà non ha dunque niente a che vedere con il passaggio dal capitalismo al socialismo, il quale presuppone invece la trasformazione dei rapporti sociali di produzione, ossia il superamento del rapporto capitale-lavoro salariato. I passi che seguono mostrano nel modo più chiaro la confusione maoista circa la differenza abissale che corre tra quelle due fondamentali categorie economico-sociali: «Alla riunione allargata dell’Ufficio politico del Partito comunista cinese, tenutasi a Chengtu nel marzo del 1958, fu presa la decisione di ristampare una parte delle note introduttive [agli scritti raccolti nel testo Alta marea del socialismo nelle campagne cinesi], e Mao Tse-tung il 19 marzo scrisse una nota esplicativa. Eccone il testo integrale: “Queste note introduttive si trovano nel libro Alta marea del socialismo nelle campagne cinesi e sono state scritte nel settembre e nel dicembre del 1955; alcune di esse anche oggi non hanno perso il loro significato. C’è tuttavia un punto in cui si afferma che il 1955 è stato l’anno in cui si è sostanzialmente conquistata la vittoria decisiva nella lotta tra socialismo e capitalismo: questa formulazione non è appropriata. Bisognava dire: il 1955 è l’anno in cui si è conquistata sostanzialmente la vittoria per quanto riguarda quell’aspetto dei rapporti di produzione che è il regime di proprietà; negli altri aspetti e in alcuni settori della sovrastruttura, ossia sul fronte ideologico e su quello politico, la vittoria non era stata essenzialmente conquistata, o non era completa: erano necessari ulteriori sforzi”» [24]. Secondo Mao la rivoluzione cinese aveva trionfato sul piano della “struttura” economico-sociale, mentre sul piano della “sovrastruttura” politico-ideologica «erano necessari ulteriori sforzi». In questo modo egli poteva anche giustificare le aspre battaglie politiche che le fazioni che esprimevano interessi diversi e linee politiche di sviluppo economico-sociali reciprocamente alternative conducevano nel seno del PCC, il quale era invece monolitico in primo luogo nei confronti e contro le classi subalterne del Paese, e in secondo luogo per quanto riguardava la difesa della sovranità nazionale: due fronti che facevano scomparire ogni dissidio interno.

Quando Lin Piao, che nel 1969 si affermò come leader del PCC al posto di Mao, scriveva in un suo Rapporto che «nel 1956 la trasformazione socialista della proprietà dei mezzi di produzione nell’agricoltura, nell’artigianato, nell’industria e nel commercio capitalistici era in complesso completata», egli registrava il processo si statalizzazione dell’economia cinese servendosi del consueto armamentario fraseologico “marxista-leninista”. Detto en passant, la nazionalizzazione della terra si trova anche nel primo programma di Sun Yat-sen. Arturo Peregalli mette in luce il retroscena, per così dire, di questa statalizzazione: «Nel giugno del ’56 il Congresso del Popolo approva che, come risarcimento ai vecchi proprietari, venga dato un interesse fisso sul capitale “espropriato” del 5% annuo per la durata di 7 anni, cioè sino al 1962. Ma giunta la scadenza del percepimento di questi interessi la borghesia pensò bene di prorogarsela. […] Il termine del rimborso è di nuovo scaduto ma nonostante ciò i capitalisti ricevono ancora il loro 5% di interesse che viene poi investito in obbligazioni di stato oppure in altri prestiti statali. […] La borghesia cinese ha cambiato la sua “forma”: da borghesia direttamente industriale è diventata borghesia “rentier”. Il vecchio si è mischiato e fuso, data la particolarità dello sviluppo sociale in Cina, col nuovo. Questo processo di trasformazione della borghesia nella fase dell’imperialismo mondiale avanzato è stato descritto magistralmente più di cent’anni fa da Engels nell’Antidühring. […] I dirigenti cinesi hanno presentato il processo di centralizzazione nell’industria e nell’agricoltura come progressiva introduzione del socialismo. Ma se si esamina storicamente il succedersi delle forme di produzione ed i rapporti sottostanti questo elemento ideologico viene smentito. […] I rapporti di produzione fondamentali della società cinese non sono mai usciti dai rapporti capitalistici di produzione» (A Peregalli, Introduzione alla storia della Cina, p. 86, Ceidem, 1976). Nella sua «Analisi critica della società cinese» Peregalli offre un quadro sinottico dei rapporti di produzione nell’industria e nell’agricoltura estremamente semplice, dettagliato ed esaustivo.

La rivista Chuang ha pubblicato nel 2015 un interessante studio sulla campagna cinese come si presenta oggi [25]; eccone una sintesi:

«L’articolo di Zhang Qian Forrest (Il posto centrale del cambiamento agricolo negli studi sulla Cina rurale) è un primo tentativo di sviluppare un’analisi di classe, che sottolinea gli aspetti dinamici della logica di classe del cambiamento capitalistico agricolo. Sostiene che la Cina rurale sta subendo una trasformazione drammatica, che manca alla maggior parte degli studiosi, sotto la pressione delle strategie di accumulazione capitalista. […] La premessa più importante dell’argomento di Zhang è che la Cina rurale sia capitalista. Uno dei motivi per cui alcuni sostengono ancora che la Cina sia socialista o almeno non capitalista è che la terra rurale è nominalmente di proprietà del collettivo rurale e non è una forma di proprietà privata. Nel complesso, Zhang sostiene che il capitale domina ciascuno dei quattro settori di mercificazione che osserva: terra, lavoro, produzioni e input. A causa di questo dominio, la società rurale cinese ha subito una rapida differenziazione di classe […] Le cinque classi rurali sono: datori di lavoro capitalisti (compresi gestori di aziende agricole e agricoltori imprenditoriali), piccoli agricoltori commerciali borghesi, famiglie a doppia occupazione, lavoratori salariati e agricoltori di sussistenza. Gli agricoltori imprenditori sono i preferiti dallo Stato, che li ha fortemente sostenuti finanziariamente e politicamente, anche a livello locale. […] Il sistema salariale è stato in altri termini usato per capitalizzare e mercificare l’agricoltura familiare e quella di sussistenza. Alcuni lavoratori salariati (la quarta classe rurale) “mantengono la proprietà nominale dei loro diritti sulla terra assegnata”, ma hanno preso in affitto la loro terra e diventano lavoratori a pieno titolo. Altri sono diventati lavoratori salariati a causa della perdita di tutta la loro terra. Zhang conclude che ciò che è ampiamente trascurato nelle discussioni sulla Cina rurale è che essa è stata fondamentalmente trasformata dal capitalismo, e sostiene che “l’agricoltura familiare nell’odierna Cina non è meno capitalistica dell’agricoltura aziendale organizzata che usa il lavoro salariato”. Sottolinea inoltre che non possiamo comprendere i disordini rurali senza prestare attenzione alle faglie delle classi rurali. […] Yan Hairong e Chen Yiyuan (Capitalizzazione agraria senza capitalismo? Dinamica capitalista dall’alto e dal basso in Cina) vedono la piccola produzione di merci come un “semenzaio per il capitalismo agricolo dal basso, che è stato sostenuto dallo Stato. Le fattorie familiari specializzate, che emergono dai piccoli agricoltori borghesi delle materie prime, rappresentano il “capitalismo dal basso”. Pertanto, le fattorie familiari di successo non rappresentano un’alternativa al capitalismo ma un agente chiave del suo sviluppo […] Ye Jinzhong (Il trasferimento di terra e la ricerca della modernizzazione agricola in Cina) cita le statistiche del Ministero dell’Agricoltura che indicano che alla fine del 2013 23 milioni di ettari, ovvero il 26% del totale dei terreni appaltati, erano stati trasferiti alla fine del 2013 a tutte le famiglie di contadini. La quantità di terreni trasferiti a imprese industriali e commerciali è aumentata di 40% dal 2012, dopo un aumento del 34% tra il 2011 e il 2012. Ciò ha effettivamente diviso la proprietà fondiaria, i contratti e i diritti d’uso, Per noi, i trasferimenti di terra rappresentano anche una nuova forma di mercificazione e accumulazione, guidata da un capitale urbano “esterno”, con conseguenze disastrose per i contadini. I trasferimenti di terra provocano cambiamenti nel reddito delle famiglie contadine, della mobilità del lavoro e della struttura sociale rurale, e quindi interrompono l’ordine dei villaggi convenzionali, differenziando i contadini e intensificando i conflitti all’interno dei villaggi. […] Il documento di Shaohua Zhan (Dal corporativismo statale locale al regime delle entrate fondiarie: l’urbanizzazione e la recente transizione dell’industria rurale in Cina) continua lo studio della dinamica della terra e dell’accumulazione. Egli osserva il fenomeno relativamente recente delle entrate fondiarie (tudi caizheng), in cui i governi locali generano surplus “espropriando terreni rurali e vendendoli a società molto grandi”. Secondo Zhan il regime delle entrate fondiarie rappresenta un allontanamento dal regime corporativo statale locale che lo ha preceduto.  Mentre il corporativismo statale locale ha promosso l’industria rurale sostenendo e coinvolgendo la maggior parte dei residenti rurali nella produzione industriale, il regime delle entrate fondiarie ha costretto a chiudere quasi tutte le imprese rurali basate sui villaggi e le ha sostituite con un piccolo numero di società molto grandi, concentrate in parchi industriali. Di conseguenza, i residenti rurali hanno perso le loro imprese e posti di lavoro mentre allo stesso tempo sono stati esclusi dalle grandi società industriali e dai settori urbani redditizi. […] Sotto il regime del corporativismo statale locale, i residenti rurali avevano il diritto di accedere alla terra e ai mezzi di sostentamento basati sulle risorse del villaggio. Quando un governo locale ha preso le risorse del villaggio come terra, acqua e materie prime per lo sviluppo dell’industria rurale, ha dovuto coinvolgere i residenti rurali perché i diritti e i mezzi di sussistenza di quest’ultimo erano collegati a tali risorse. In base ai regimi di entrate fondiarie i diritti e i mezzi di sussistenza dei residenti rurali sono separati dalle risorse del villaggio. […] Lo studio sull’acquacoltura di gamberetti a Leizhou di Huang Yu (Le fattorie capitaliste possono sconfiggere le fattorie familiari? La dinamica dell’accumulazione capitalista nell’acquacoltura di gamberetti nel sud della Cina) illustra come, negli ultimi dieci anni, la concorrenza abbia spinto la piccola produzione familiare a tentare dapprima aggiornamenti tecnici biologicamente rischiosi, e infine a rinunciare alla produzione domestica e diventare lavoratori salariati per l’agroindustria. Huang teorizza questo come un “passaggio del capitale agricolo dalla sottomissione formale del lavoro alla sua  sottomissione reale” [26]. La penisola di Leizhou è rinomata come “la capitale cinese dei gamberetti”, ma anche una delle parti più povere del Guangdong – la provincia più ricca della Cina e pioniera delle riforme economiche di Deng Xiaoping dagli anni ‘80. Leizhou è il più grande centro di acquacoltura di gamberi in Cina sia per la vendita interna che per l’esportazione; a partire dal 2011 l’industria impiega oltre un milione di persone (tra cui 400.000 coltivatori di gamberi). “La prosperità del settore e la difficile situazione dei produttori incarnano i due circoli viziosi in cui cadono i coltivatori di gamberetti: la concorrenza ha spinto gli agricoltori ad aumentare l’intensità di allevamento, portando a crisi sia ecologiche che economiche. Ecologicamente, l’agricoltura ad alta intensità ha degradato l’ambiente dello stagno e ha reso i gamberetti più stressati, rendendoli più vulnerabili alle malattie. […] Economicamente, la sovrapproduzione provoca un deprezzamento del valore dei gamberetti, rendendo difficile per gli agricoltori uscire dalla povertà”. Nel frattempo, le nascenti industrie agroalimentari della regione hanno tratto profitto da questa situazione affermando il controllo “del settore a monte dei crediti e degli input per i gamberetti ancora piccoli, i mangimi composti, le macchine di aerazione e i prodotti farmaceutici a base di gamberi, nonché il settore a valle della trasformazione, della commercializzazione e delle vendite”. Questo è ciò che Huang chiama la “sussunzione reale” del lavoro agricolo nell’industria dei gamberetti all’agro-capitale. […] Secondo Henry Bernstein (Alcune riflessioni sul cambiamento agricolo in Cina) le domande sulla mercificazione, differenziazione e accumulazione dal basso e dall’alto nella campagna cinese ”hanno rilevanza continua nei processi di cambiamento agricolo in corso in Cina”. […] Bernstein spiega innanzitutto il concetto di “cambiamento agricolo” o “transizione” (al capitalismo) introducendo una serie di dieci domande euristiche che riguardano: 1. la mercificazione della sussistenza degli “agricoltori (contadini)”; 2. la mercificazione dei terreni; 3. la formazione delle nuove classi (proprietà fondiaria capitalista, capitale agricolo e lavoro salariato); 4. il procedere dell’accumulazione del capitale in agricoltura (terra, mezzi di produzione, strumenti di lavoro); 5. la differenziazione di classe degli agricoltori attraverso l’accumulazione “dal basso” e “dall’alto”; 6. effetti della crescita della produzione in agricoltura; 7. effetti del capitale urbano che investe nella produzione agricola; 8. “significato del lavoro rurale oltre la fattoria, che determina l’industrializzazione rurale e la regolare migrazione del lavoro rurale come elementi vitali dei redditi e della riproduzione delle classi nelle campagne”; 9. i contributi dell’agricoltura all’industrializzazione; 10), “effetti della formazione e delle interazioni con la divisioni internazionali del lavoro nella produzione agricola, nel commercio internazionale di materie prime agricole e negli investimenti internazionali in agricoltura, e con il sistema statale internazionale”. […] Per quanto riguarda la prima domanda, secondo Bernstein “Dallo smantellamento delle comuni si è verificato un processo più o meno completo di mercificazione della sussistenza degli agricoltori, con la necessità di pagare per i servizi di istruzione e sanitari forniti in precedenza dalle comuni e anche per l’acquisto dei nuovi beni di consumo; e, non ultimo, con l’enorme portata dell’occupazione salariale sia nell’industria rurale, sia attraverso la migrazione dei lavoratori rurali in luoghi distanti”» [27].

Ma ritorniamo a Samir Amin. «La prima etichetta che viene in mente per descrivere la realtà cinese è il capitalismo di stato. Molto bene, ma questa etichetta rimane vaga e superficiale fintanto che il contenuto specifico non viene analizzato. Si tratta davvero di capitalismo, nel senso che la relazione a cui i lavoratori sono soggetti alle autorità che organizzano la produzione è simile [semplicemente “simile”?] a quella che caratterizza il capitalismo: lavoro sottomesso e alienato, estrazione di lavoro in eccesso [plusvalore, per dirla con Marx]. Esistono forme brutali di estremo sfruttamento dei lavoratori in Cina, ad esempio nelle miniere di carbone o nel ritmo furioso degli stabilimenti che impiegano donne». C’è bisogno di aggiungere altro per qualificare come pienamente capitalista la società cinese? A me pare di no, ed è per questo che trovo risibile, per non dire altro, il «simile» di cui sopra. «Questo è scandaloso per un paese che afferma di voler avanzare sulla strada del socialismo»: in buona sostanza, il mio interlocutore accetta come oro colato le affermazioni del Partito-Regime cinese, il quale appunto «afferma di voler avanzare sulla strada del socialismo». Lo scandalo esiste dunque solo nella testa di chi dà come quantomeno plausibili (mentre per chi scrive sono semplicemente risibili) le dichiarazioni dei leader cinesi intorno alla millenaria transizione della società cinese al socialismo – d’altra parte, la Cina è il Paese dai tempi lunghissimi… Ma non si tratta affatto di malafede! Coloro che guardano con simpatia al “socialismo con caratteristiche cinesi” credono davvero che il “socialismo” non sia altro che un capitalismo che veda lo Stato come unico padrone; essi sconoscono del tutto l’abissale distinzione che corre tra statalizzazione e socializzazione, e quindi credono in ottima fede che la socializzazione dei mezzi di produzione ecc. si realizza quando la loro proprietà passa allo Stato (possibilmente autodefinitosi “socialista” o “comunista”): che volgare e ultrareazionaria sciocchezza! Purtroppo questo veleno ideologico di marca stalinista è ancora in circolazione nelle vene del corpo sociale mondiale.

L’accumulazione “socialista” nella fraseologia che Mao riprese interamente dallo stalinismo: «Il fine della rivoluzione socialista è quello di liberare le forze produttive. La trasformazione della proprietà individuale in proprietà collettiva socialista negli ambiti dell’agricoltura e dell’artigianato, e quella della proprietà capitalista in proprietà socialista nell’industria e nel commercio privati porteranno necessariamente a una considerevole liberazione delle forze produttive. Verranno cosi create le condizioni sociali per un enorme sviluppo della produzione industriale e agricola» [28]. Per Mao «Il fine della rivoluzione socialista» non sarebbe dunque l’eliminazione del rapporto sociale capitalistico Capitale-Lavoro, con ciò che ne segue in ogni ambito della prassi economico-sociale, ma la «liberazione delle forze produttive», ossia il compito storico che, com’è noto, Marx individuò nel capitalismo: «Se il modo di produzione capitalistico è quindi un mezzo storico per lo sviluppo della forza produttiva materiale e la creazione di un corrispondente mercato mondiale, esso è al tempo stesso la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i rapporti di produzione sociali che gli corrispondono. […] Lo sviluppo delle forze produttive del lavoro sociale costituisce la missione storica e la ragione d’essere del capitale» [29]. Mao non dice «liberare le forze produttive» dal dominio capitalistico per assoggettarle alla volontà di un’umanità che intende emanciparsi dalla divisione classista degli individui; egli si limita invece a sottolineare, del tutto genericamente (ma in realtà assai significativamente), la necessità di liberare appunto le forze produttive da fattori pregressi e contingenti che ne impediscono il pieno sviluppo tanto nel settore industriale, quanto in quello agricolo, e ciò corrisponde esattamente alla situazione cinese ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese. Mao sottolinea infatti la necessità di  un «enorme sviluppo della produzione industriale e agricola», ossia di uno sviluppo capitalistico adeguato alle arretrate condizioni di partenza dell’economia cinese, e l’urgenza di passare dalla proprietà privata a quella statale, che lui in piena ortodossia stalinista definisce «proprietà collettiva socialista». Nella prospettiva maoista la statalizzazione dell’intera economia cinese avrebbe, per un verso, consentito un rapido decollo capitalistico della Cina, perché lo Stato avrebbe surrogato la mancanza di una robusta e indipendente borghesia nazionale; e per altro verso avrebbe reso possibile la trasformazione del PCC in un vero e proprio regime politico-istituzionale, consentendogli la permanenza al potere per molto tempo: previsione azzeccata!

Naturalmente chi non comprende i concetti che le parole dovrebbero esprimere, non può che prendere acriticamente atto della volontà maoista: «La trasformazione della proprietà individuale in proprietà collettiva socialista»: come no!

«Tuttavia», continua Samir Amin, «l’istituzione di un regime capitalista di stato è inevitabile e rimarrà tale ovunque. Gli stessi paesi capitalisti sviluppati non saranno in grado di entrare in un percorso socialista (che non è oggi all’ordine del giorno) senza passare attraverso questa prima fase. È la fase preliminare del potenziale impegno di qualsiasi società a liberarsi dal capitalismo storico sulla lunga strada verso il socialismo/comunismo. La socializzazione e la riorganizzazione del sistema economico a tutti i livelli, dall’impresa (l’unità elementare) alla nazione e al mondo, richiedono una lunga lotta durante un periodo storico che non può avere scorciatoie». Quindi Samir accredita la gigantesca panzana ideologica secondo la quale la Cina si troverebbe sul lunghissimo (quasi infinito…) cammino che potrebbe portarla «verso il socialismo/comunismo». Il fatto che Samir parli di Paesi, di imprese e di nazioni, e non di classi subalterne che si liberano del potere politico-sociale delle classi dominanti per poter iniziare a costruire le condizioni di un reale superamento dei rapporti sociali capitalistici, già solo questo fatto la dice lunga sui concetti di “socialismo”, “comunismo”, “rivoluzione” ecc. che egli aveva in testa. L’economista franco-egiziano parla genericamente di Stato; la natura di classe di questo Stato non sembra avere per lui nessuna importanza, mentre per me è un fatto dirimente: quale classe si pone alla testa della trasformazione rivoluzionaria della società, ossia al suo radicale superamento in vista della Comunità umana che non conosce la divisione classista degli individui? Forse il Nostro risponderebbe: «È il popolo che si mette alla testa di una simile rivoluzione sociale». Da Marx in poi, i comunisti sanno che quando si parla di “popolo” in relazione alla rivoluzione sociale anticapitalistica, si evoca un concetto che non supera i limiti concettuali e sociali del capitalismo. Il “popolo”, soprattutto nell’epoca del dominio totalitario e mondiale del rapporto sociale capitalistico, è una parola che rimanda direttamente alla conservazione dello status quo sociale. Dal punto di vista anticapitalista il termine “popolo” non è che una vuota e mistificante astrazione concettuale intesa a celare l’esistenza delle classi sociali, della complessa stratificazione sociale, fatta di sfruttatori e di sfruttati, di ricchi e di poveri, di garantiti e di precari, di dominanti e dominati, con cui ci confrontiamo nel XXI secolo. Ovviamente per chi ritiene che la divisione in classi sociali degli individui sia un dato storico-sociale ineliminabile, per forza di cose può tranquillamente sorvolare sulla maledetta (disumana) realtà sopra richiamata, o deve considerarla alla stregua di un mero dato sociologico/politologico, e non invece il cuore di tutti i problemi sociali – compresi quelli trattati dalla medicina e dalla psicoanalisi.

Nel XXI secolo tutti i più grandi Paesi del mondo sono oggettivamente maturi per la “transizione anticapitalistica”, né più né meno della Cina. Francamente mi riesce difficile capire come qualcuno, soprattutto se dice di essere un “marxista”, possa davvero credere che il PCC abbia qualcosa a che fare, anche solo lontanamente, con quella transizione. La cosa si spiega in un solo modo: quel qualcuno ha in testa un “socialismo” che in realtà non solo non ha niente a che fare con ciò che personalmente penso debba essere il socialismo, ma ne è l’esatto contrario. Il “socialismo” di cui parlano i simpatizzanti del “socialismo con caratteristiche cinesi” non è in realtà che il capitalismo di Stato più o meno integrale.

«Ciò che il capitalismo di stato cinese ha raggiunto tra il 1950 e il 2012 è semplicemente sorprendente»: su questo concordo con Samir. «In effetti, è riuscito a costruire un sistema produttivo moderno sovrano e integrato alla portata di questo gigantesco paese, che può essere paragonato solo a quello degli Stati Uniti. È riuscito a lasciarsi alle spalle la stretta dipendenza tecnologica delle sue origini (importazione di modelli sovietici, quindi occidentali) attraverso lo sviluppo della propria capacità di produrre invenzioni tecnologiche»: sottoscrivo! «Tuttavia, non ha (ancora?) avviato la riorganizzazione del lavoro dal punto di vista della socializzazione della gestione economica»: qui invece mi metto a ridacchiare, anche se so che non è politicamente corretto farlo – e dirlo.

Come vedremo, la mia tesi è che quanto nella campagna cinese (e nella società cinese in generale) non fosse riconducibile, più o meno direttamente, al modo di produzione capitalistico non si trovasse oltre il capitalismo, ma piuttosto prima di esso. Detto in altri termini, molte forme economico-sociali presenti nella Cina di Mao, sia che fossero il retaggio della precedente epoca, sia che fossero realtà di nuovo conio, erano in ogni caso forme che attestavano una transizione del Paese non verso il socialismo, come sosteneva l’ideologia maoista, ma verso il capitalismo. La stessa proprietà cosiddetta collettiva fu una delle diverse forme che nella Cina maoista assunse la proprietà statale. Analogamente alla campagna russa dei tempi di Stalin, per quanto riguarda la campagna cinese ai tempi di Mao possiamo dire che tutte le forme “spurie” di proprietà contadina, ossia non riconducibili immediatamente alla “pura” forma capitalistica di proprietà (non importa se statale o privata), non andavano in direzione del socialismo, ma piuttosto in direzione di una condizione precapitalistica, realizzando cioè un relativo e momentaneo arretramento in vista di un futuro avanzamento, oppure in direzione del capitalismo. In ogni caso tali forme rimanevano confinate nel recinto dell’accumulazione “originaria” del capitale. Al netto dell’alluvionale propaganda politico-ideologica e della fraseologia pseudo rivoluzionaria che connotava il maoismo (in Cina e nel mondo), anche l’esperimento “comunardo” che prese corpo al tempo del cosiddetto Grande Balzo in Avanti (1958-1961) va inquadrato nel processo sociale che possiamo chiamare appunto via cinese all’accumulazione capitalistica – o accumulazione capitalistica con caratteristiche cinesi. Processo sociale questo, e ciò va precisato con cura, legato in mille modi alla contesa interimperialistica del tempo.

«La monografia di Wen Tiejun sull’origine del problema rurale in Cina, dimostra che dal XIX secolo l’aggressione imperialista straniera ha costretto la Cina ad imitare, per poter sopravvivere, i percorsi di industrializzazione degli  Stati capitalisti. Ma la Cina non poteva, così come i paesi “sviluppati” hanno fatto, saccheggiare altri paesi per acquisire il capitale necessario per iniziare l‘industrializzazione su scala nazionale. L’unica soluzione era “l’auto-sfruttamento”, cioè aumentare temporaneamente l’estrazione del surplus dal settore agricolo pre-industrializzato alfine di raggiungere un livello sufficiente per supportare la rapida espansione dell’industria» [30].  Anche posto in questi termini il problema dello sviluppo economico in Cina, la natura sociale dell’accumulazione primitiva capitalistica “con caratteristiche cinesi” non ha un solo atomo che possa venir definito in qualche modo socialista. A cominciare dal fatto che il cosiddetto “autosfruttamento” si concretizzò naturalmente in un brutale sfruttamento di contadini e operai, una prassi, questa, molto nazionale-borghese, e assai poco (per nulla!) socialista. Ma la rivista qui citata non può certo condividere questo punto di vista, dal momento che essa è nostalgica del periodo maoista, come ben si evince da quanto segue: «Allo stesso modo, riteniamo che i collettivi parzialmente “socialisti” di oggi, come Nanjie, dovrebbero essere studiati per trovare soluzioni ai problemi del mondo rurale, ma devono anche essere considerati come esperimenti limitati dal contesto capitalistico in cui operano. L’analisi di Liu Yongji su Nanjie, ci dice che i suddetti collettivi sono in primo luogo delle imprese commerciali concorrenti sul mercato capitalista. Per mettere la questione in termini marxiani, questi collettivi, se vogliono sopravvivere, devono operare secondo la logica capitalistica di costante accelerazione dello sfruttamento o di auto-sfruttamento dei loro membri. […] Tuttavia, come con le Comuni dell’epoca di Mao, riteniamo che i collettivi di maggior successo posseggano una duplice natura sia di sfruttamento che di comunitarismo e che quest’ultimo aspetto può essere liberato dal primo e addirittura rafforzato se si adottassero le riforme proposte da Liu. […] Pensiamo che le Comuni maoiste e alcuni dei collettivi rurali odierni offrano delle lezioni importanti circa l’egualitarismo, la partecipazione democratica e la gestione della produzione e della distribuzione orientate al miglioramento duraturo dello standard di vita dei membri in circostanze di risorse limitate e di terreni collettivizzati». Non c’è dubbio, lo standard di vita è un concetto assai relativo: «in circostanze di risorse limitate» (da chi? da cosa?) perfino una ciotola di riso può avere la consistenza di un ricco pranzo di gala. Bisogna moderare le proprie pretese, secondo una frugalità che si opponga al consumismo capitalistico. Scherzo! In ogni caso, secondo M. G. Longo, «L’egalitarismo non impedì il verificarsi di diseguaglianze tra varie arie del paese. Molte fonti mostrano ad esempio che il divario tra redditi rurali e urbani aumentò notevolmente durante il periodo maoista» [31].

A mio avviso, se si vuole parlare correttamente di trasformazione capitalistica della campagna cinese dopo la breve esperienza delle comuni agricole collettive (statali), e soprattutto a partire dalla fine degli anni Settanta del secolo scorso, si deve prima di tutto osservare il carattere precapitalistico che in parte ebbero le misure politico-economiche che stavano alla base del cosiddetto Grande Balzo in Avanti – il quale, com’è noto, si concretizzò in larga misura in un drammatico balzo all’indietro, con conseguenze nefaste su ogni aspetto della vita sociale, soprattutto nelle campagne cinesi. Lungi dall’andare oltre il capitalismo, in direzione del socialismo, la Comune rurale cinese fu per molti versi l’espressione, appunto, di un’economia precapitalistica posta al servizio di una rapida accumulazione capitalistica – rapida, beninteso, nella volontà dei decisori politici che allora dirigevano il Partito-Regime. La radice di questo apparente paradosso va ricercata nelle condizioni sociali della Cina del tempo e nella collocazione che questo Paese venne ad avere nello scenario geopolitico realizzato dalla Seconda guerra mondiale. Analogamente, quando si parla dell’integrazione della Cina nel capitalismo globale a partire da una certa data, non si deve intendere il passaggio dell’economia di quel Paese dalla forma socialista, che non ha mai preso corpo nemmeno in forma embrionale, a quella capitalistica, ma si deve piuttosto alludere alla definitiva integrazione del capitalismo nazionale cinese (o capitalismo con caratteristiche cinesi, tanto per fare il verso alla fraseologia cara ai leader cinesi e ai loro simpatizzanti occidentali) nel mercato mondiale e nella divisione internazionale del lavoro. In questo caso si tratta di una transizione tutta interna ai rapporti sociali capitalistici basati sul dominio e sullo sfruttamento dei salariati da parte del Capitale – che qui scrivo con la “c” maiuscola per evidenziarne la natura astrattamente e potentemente sociale, indifferente cioè alle forme giuridiche di proprietà che le imprese capitalistiche possono avere: che si tratti di impresa (industriale, agricola, terziaria, finanziaria) pubblica (statale) o privata, non cambia nulla ai fini della definizione della natura storico-sociale dell’economica che oggi crea e distribuisce la ricchezza in ogni parte del mondo. Anche nel caso della Cina, la “sovrastruttura” politico-istituzionale posta al servizio del mantenimento dello status quo sociale è perfettamente corrispondente e adeguata alla “struttura” economico-sociale: il cosiddetto Partito Comunista Cinese è al servizio del capitalismo cinese semplicemente perché è sempre stato (da Mao in poi, tanto per esser chiari) un partito nazionale-borghese. Naturalmente un conto è essere un Partito nazionale-borghese ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese, e un conto affatto diverso è esserlo ai tempi dell’accumulazione capitalistica, dello sviluppo economico e della piena maturazione del capitalismo – vedi alla voce imperialismo. Il Partito di Mao è stato un partito nazionale-borghese che ha dominato la scena politica, istituzionale e ideologico-culturale della Cina in questi tre diversi momenti storici, trasformandosi da partito borghese rivoluzionario (nazionale e antimperialista) quale era stato dagli anni Trenta fino agli inizi degli anni Sessanta, a partito borghese reazionario, esattamente come è accaduto per altri soggetti politici borghesi attivi in Occidente. La natura rivoluzionaria o reazionaria di un soggetto politico non è un dato ideologico, non ha a che fare con la coscienza che questo soggetto ha di se stesso, quanto piuttosto, ed essenzialmente, con la sua funzione storico-sociale nei diversi momenti storici. Che il PCC di Mao credesse in ottima fede di essere e di agire come un autentico partito comunista, questo bisogna darlo per scontato; si tratta piuttosto di capire il tipo di “comunismo” che quel Partito aveva in testa e la sua reale funzione nel processo sociale. Fare dello Stato, in tutte le sue articolazioni centrali e periferiche, il proprietario monopolista della terra, come accadde alla fine del Primo Piano Quinquennale, significò trasformare tutti i contadini cinesi in lavoratori salariati dallo Stato. Tutto questo però non ci porta al di là del capitalismo, ma ci fa vedere un processo di transizione verso il capitalismo, il cui sviluppo certamente realizza le condizioni materiali (e solo quelle) per la costruzione del socialismo.

Nel suo libro del 1966 L’orbita della Cina, Harrison E. Salisbury, allora prestigioso inviato speciale in Asia del New York Times, fornisce alla riflessione dei lettori un’interessante intreccio problematico che tiene insieme economia, politica (con la politica estera come continuazione della politica interna), geopolitica e ideologia. Scriveva Salisbury: «La popolazione cinese aumentava con tanta rapidità che sembrava in grado da sola di mutare il sistema d’equilibrio mondiale. Le enormi riserve di mano d’opera avrebbero fatto inevitabilmente della Cina la potenza mondiale numero uno, a patto che i suoi quadri dirigenti fossero in grado di controllare questo Niagara di umanità. Ma, mentre la popolazione si moltiplicava con rapidità malthusiana, la produzione dei viveri andava di male in peggio. Il paese si era riavuto dagli effetti più disastrosi dell’introduzione del sistema delle comuni e da certi tentativi rudimentali di organizzare sistematicamente la produzione agricola. I raccolti avevano raggiunto il livello precedente le inondazioni e le siccità del 1963 e del 1964. Nel 1965 produsse complessivamente circa 179 milioni di tonnellate di grano, più o meno quanto aveva prodotto nelle migliori stagioni degli anni cinquanta. Ma nel 1965 la Cina aveva da 75 a 100 milioni di abitanti più che nel 1955, e per alimentare questa popolazione doveva acquistare all’estero cinque o sei milioni di tonnellate di grano, a un costo variabile tra i 400 e i 500 milioni di dollari in valuta pregiata. Era il segreto dell’esistenza di Hong Kong. Scoprii con mia grande sorpresa che con le vendite a Hong Kong la Cina si procurava la quantità esatta di valuta pregiata che le serviva per comprare il grano. E se la procurava in gran parte con la vendita di commestibili. Il paradosso era soltanto apparente. La Cina vendeva a Hong Kong viveri costosi, come il latte, le uova, la frutta, il burro, le verdure e la carne. E le somme che incassava le adoperava per acquistare grano e riso. […]  Viaggiando nella Siberia orientale e nello splendido territorio agricolo delle Marittime [URSS] vidi chilometri di terra ricca e non ancora contaminata dall’aratro; intere province di terre vergini. Non si poteva attraversarle senza capire quanto dovessero irritarsi i cinesi nel vedere milioni di ettari di bella terra coltivabile ancora non toccati dallo sforzo umano, in regioni dove sarebbe stato possibile far crescere milioni di tonnellate di grano e di piante commestibili e insediare milioni di cinesi che ora vivevano nelle terre sovraffollate e sovraccoltivate delle regioni centrali e nordoccidentali. Poi c’era la Mongolia che ai cinesi suggeriva sostanzialmente lo stesso discorso. La steppa erbosa mongola, se fosse stata arata anziché essere adibita al pascolo, poteva diventare fertilissima. […] Ma non era soltanto a nord e a ovest che i cinesi tenevano d’occhio le regioni che avrebbero potuto contribuire ad alimentarli. Se si volgevano verso sud sud-ovest e se contemplavano le grandi regioni risicole, come il Vietnam, la Cambogia, la Tailandia e la Birmania, era ben difficile che non vedessero in esse un’arma utile ad affrontare la crisi che incombeva su di loro. […] Per quanto tempo una Cina affamata sarebbe rimasta quieta mentre i suoi deboli vicini avrebbero continuato a produrre quelle eccedenze di viveri necessarie alla sua sopravvivenza? Se prendevo in considerazione la dinamica della Cina, il grafico della sua crescente popolazione, gli inefficaci provvedimenti per diminuire il tasso di natalità, i sistemi relativamente inefficaci per aumentare la produzione di viveri, mi sembrava possibile indicare sulla carta l’anno in cui i dirigenti cinesi sarebbero stati costretti a un’azione aggressiva aldilà delle frontiere a cercarvi riso per le ciotole della loro gente. […] Non stupiva perciò che i russi avessero schierato nutriti contingenti di uomini su tutta la Siberia orientale e avessero aiutato la Mongolia a meglio presidiare la sua lunga frontiera con la Cina. […] Non potevamo già considerare la virulenza delle guardie rosse, la violenta xenofobia della politica cinese, la visione schizofrenica del mondo secondo Pechino, i primi sintomi di questo futuro cataclisma?» (H. E. Salisbury, L’orbita della Cina, pp. 191-193, Bompiani, 1967).

La rapida modernizzazione della campagna cinese si ripresentò come un’assoluta necessità alla fine del ciclo maoista, e ancora oggi lo sviluppo di una produzione agricola capitalisticamente avanzata rappresenta per il regime cinese un obiettivo centrale. Ancora Salisbury: «Soltanto tre o quattro anni prima i Cinesi sostenevano dogmaticamente che Malthus si era sbagliato, che non esisteva il problema della sovrappopolazione ma solo quello della sottodistribuzione. In questo prendevano le mosse dal marxismo più puro. […] L’incubo delle carestie li aveva però costretti a rinunciare alle teorie anti-malthusiane di Marx e a compiere qualsiasi sforzo pur di limitare l’incremento della popolazione. Li aveva costretti a rinunciare alle comuni per tentare di rendere più produttiva l’agricoltura. Li aveva costretti ad acquistare valute straniere e a trattare con gli odiati paesi capitalistici per ottenerne viveri» (pp. 185-192). In tutto questo il «marxismo più puro» non c’entra assolutamente nulla, mentre vengono in piena luce l’arretratezza capitalistica della Cina, con che ne seguiva anche in termini di pianificazione demografica, la disastrosa politica del Grande Balzo (Indietro) e la propaganda ideologica maoista intesa a cancellare la pessima realtà facendo ricorso alla fumisteria pseudomarxista intesa a magnificare il “socialismo con caratteristiche cinesi”, salvo poi ricorrere ai riti dell’”autocritica” o invocare la malvagità dei nemici interni ed esterni del “socialismo” cinese.

3. Il carattere antimperialista della rivoluzione cinese non contraddice in alcun modo la natura borghese di questa rivoluzione, né ha impedito alla Cina di diventare a sua volta un Paese imperialista di primissimo rilievo, fino a collocarsi al vertice della piramide del Potere Mondiale, in conflittuale coabitazione con gli Stati Uniti d’America. L’antimperialismo della rivoluzione cinese registra piuttosto un “ritardo storico”, nel senso che lo sviluppo capitalistico in Cina, come in tanti altri Paesi del mondo, si è realizzato nell’epoca imperialista del capitalismo internazionale, e ha dovuto fare i conti con la politica di sfruttamento e di dominio politico-militare perseguita in primo luogo dai Paesi occidentali. Nel caso cinese, soprattutto dopo la Liberazione del 1949 è stata la tenaglia rappresentata dall’imperialismo statunitense e da quello “sovietico” a rendere particolarmente difficile, contraddittoria e generatrice di vere e proprie catastrofi sociali (carestie, violente persecuzioni etniche e politiche, ecc.) la modernizzazione capitalistica della Cina. La rivoluzione cinese aderiva perfettamente alla teoria leniniana dell’ineguale sviluppo capitalistico. «È necessario lottare con energia contro il tentativo di applicare nei paesi arretrati un’etichetta comunista ai movimenti rivoluzionari di liberazione che tali non sono effettivamente» [32]. Anche questa preoccupazione leniniana colpisce nel segno, se pensiamo al cosiddetto “comunismo” del Partito di Mao.

L’antimperialismo maoista era radicato insomma sul terreno delle condizioni oggettive della Cina e del mondo dell’epoca, più che su un’astratta concezione ideologica, la quale in ogni caso non superava di un millimetro la concezione borghese (spesso piccolo-borghese, populista) del mondo, e questo sempre al netto della fraseologia pseudomarxista che la veicolava – che  peraltro il maoismo aveva ereditato in larghissima parte dallo stalinismo [33], e che aveva “aggiornato” con quegli innesti presi dalla millenaria cultura cinese che tanto piacevano agli intellettuali “marxisti” del tempo che non ne potevano più del rigido dogmatismo sovietico [34].

L’antimperialismo nelle parole di Sun Yat-sen: «La mia esperienza in quarant’anni di lotta mi ha convinto che per elevare la Cina ad una posizione di libertà e di eguaglianza tra le nazioni noi dobbiamo suscitare un completo risveglio del nostro popolo ed allearci in lotta comune con tutti quei popoli del mondo che ci trattino da eguali» [35]. Qui possiamo leggere la concezione – e il programma politico – maoista al netto della fraseologia pseudomarxista di cui sopra. «Noi abbiamo portato a termine la rivoluzione democratica che il dottor Sun Yat-sen aveva lasciato incompiuta e l’abbiamo inoltre sviluppata in una rivoluzione socialista, che è in via di attuazione» [36]. Naturalmente lo “sviluppo socialista” della rivoluzione democratica è una mera illazione maoista. Almeno così io credo.

Considerati storicamente, antimperialismo e internazionalismo, nel senso marxiano del concetto («Proletari di tutto il mondo, unitivi»; «I proletari non hanno nazione»), non sono affatto sinonimi, non sono due termini che esprimono lo stesso concetto, semplicemente perché l’antimperialismo può benissimo sposarsi con il più gretto e xenofobo dei nazionalismi, e questo abbiamo potuto verificarlo nelle diverse rivoluzioni anticoloniali che si sono succedute nel corso del tempo dopo la Seconda guerra mondiale, quando il vecchio sistema imperialista-coloniale centrato sulla Francia e sull’Inghilterra andò in frantumi. In Cambogia, appoggiata dalla Cina, il nazionalismo posto al servizio della guerra di liberazione antimperialista raggiunse punte  di parossismo xenofobo e di violenza (stiamo parlando di centinaia di migliaia di cambogiani uccisi perché sospettati di intelligenza con il nemico occidentale) mai viste prime.

Apro una parentesi. La Cambogia dei Khmer rossi, la Corea del Nord e l’Albania di Enver Hoxha rappresentano tre esempi di “indipendentismo nazionale” portato fino all’esasperazione e al parossismo. Certo, mutatis mutandis, anche la Germania dell’Est può insegnarci qualcosa in quel senso. Perché spesso la paura di venir ingoiati dal pesce più grosso si trasforma in paranoia, ed è a questo punto che la società diventa un vero e proprio inferno, o, nella migliore delle ipotesi (si fa per dire!), in un carcere a cielo aperto, e certamente in un incubo. Chiudo la parentesi.

L’antimperialismo della Cina ai tempi della rivoluzione nazionale-borghese pose dunque le basi per il futuro imperialismo cinese, che iniziò a manifestarsi nella seconda metà degli anni Sessanta, quando Pechino elaborò un’intelligente quanto spregiudicata strategia di espansione politico-ideologica che aveva come obiettivo il vasto mondo dei movimenti e dei Paesi in conflitto con l’imperialismo occidentale, i quali avevano trovato un sostegno politico, militare e finanziario nell’Unione Sovietica. La Cina decise insomma di fare concorrenza all’ex “amico fraterno”, di occupare almeno una fetta del “campo antimperialista” egemonizzato da Mosca, e ciò non poteva non portare i due Paesi del “socialismo reale” sulla strada del conflitto totale.

Per Lenin a suo tempo si trattò di “cavalcare” la rivoluzione democratico-borghese nel tentativo di portare il proletariato russo al potere in alleanza con i contadini poveri (che nel corso del 1917 avevano dato inizio alla guerra rivoluzionaria contro la grande proprietà terriera indipendentemente dal Partito Comunista Russo), così da imprimere alla rivoluzione sociale in Occidente un decisivo impulso. Com’è noto, Lenin concepiva la rivoluzione in Russia come parte della generale rivoluzione proletaria internazionale, secondo la teoria, già abbozzata da Marx, della Russia socialmente arretrata e baluardo reazionario come anello debole della catena capitalistica europea.

«La rivoluzione russa servirà come segnale a una rivoluzione operaia in Occidente, in modo che entrambe si completino», avevano scritto Marx ed Engels nella Prefazione alla nuova edizione russa (1882) del Manifesto del Partito comunista. Naturalmente per i due comunisti tedeschi si trattava di una possibilità, non di una certezza. Lenin si mosse secondo la complessa prospettiva della «doppia rivoluzione» (o «rivoluzione in permanenza», secondo la definizione che ne darà Trotsky) già nel 1905, all’epoca della prima rivoluzione russa.

Com’è noto, la Rivoluzione d’Ottobre del 1917 non innescò la sperata e vitale rivoluzione proletaria internazionale, e ben presto il fragile potere proletario centrato sui Soviet fu travolto dalla marea controrivoluzionaria (cioè dalle potenti forze sociali capitalistiche che premevano da tutte le parti), e lo stesso Partito Bolscevico ne rimase sotto le macerie, riconvertendosi come struttura organizzativa in un potente strumento al servizio dell’accumulazione capitalistica e della rinascente potenza Russa – chiamata nel frattempo “Sovietica”.

Niente di tutto questo accadde con Mao, nonostante alcune superficiali analogie con l’esperienza leniniana potrebbero far pensare il contrario. Il suo Partito si mosse ben dentro i confini della rivoluzione nazionale-borghese, e questo semplicemente perché la sua natura era nazionale-borghese (antimperialista). Soprattutto quando si parla di stalinismo e di maoismo bisogna fare una netta distinzione fra la realtà dei fatti e la propaganda ideologica, tra ciò che gli individui e i soggetti politici sono, e ciò che essi dicono e credono di essere, e questa è un’altra grande lezione politica che ci ha dato Marx. Il fatto che, all’opposto della strategia leniniana, quella maoista vedesse nei contadini, e non nel proletariato, il cuore pulsante della rivoluzione cinese, ciò non si spiega con una mera diversità tattica dovuta alle specifiche condizioni sociali della Cina, ma alla natura della rivoluzione che il PCC si trovò a organizzare e dirigere anche in concorrenza e in conflitto aperto con un altro soggetto nazionale-borghese, il Kuomintang [37], il quale uscì sconfitto dal confronto con i “comunisti” perché del tutto incapace di esercitare un controllo sulla campagna e troppo legato alla borghesia cinese in affari con l’imperialismo occidentale.

La teoria maoista dell’«accerchiamento delle città da parte delle campagne», non fu una trovata strategica dovuta al geniale e originale pensiero di Mao, così dialettico da impressionare le deboli menti dell’intellighenzia sinistrorsa occidentale, ma l’espressione ideologica della modernizzazione capitalistica della Cina come si dava concretamente in quel Paese in un peculiare momento storico.

Il Partito Comunista Cinese, nato nel 1921 come un promettente soggetto rivoluzionario proletario radicato nelle grandi città costiere, subì una completa “mutazione genetica” (cioè di classe) dopo la disastrosa disfatta subita dal giovane, ancora esiguo ma già molto combattivo proletariato cinese nel 1927 a Nanchino, a Canton e a Shangai. Dal 1920 al 1926 il proletariato cinese diede il solo esempio di lotta di classe indipendente nei movimenti anticoloniali che presero corpo tra le due guerre mondiali, pur con i non pochi limiti dovuti al reale contesto storico e sociale cinese. Mao fu il prodotto della sconfitta del movimento operaio internazionale (non solo cinese) degli anni Venti e il legittimo figlio del populismo nazionalista di Sun Yat-sen. Da embrionale soggetto rivoluzionario proletario, il PCC si trasformò rapidamente in un partito nazionale-borghese, e in questa radicale trasformazione molto peso ebbe l’Unione Sovietica stalinizzata, la quale con la sua politica di alleanza con il Kuomintang del generale Ciang-Kai-shek fu una delle cause dell’esito disastroso delle lotte di classe nella Cina degli anni Venti. Com’è noto, la politica moscovita subordinava gli interessi strategici del proletariato cinese agli interessi della rivoluzione nazionale-borghese, con un completo rovesciamento della politica comunista pensata per i Paesi capitalisticamente arretrati e assoggettati al dominio coloniale; tale politica è centrata sull’assoluta autonomia politico-organizzativa del proletariato, autonomia che i comunisti difendono come un principio al quale subordinare ogni singola scelta tattica[38]. Più che di un vero e proprio tradimento, per lo stalinismo si trattò piuttosto della prima eclatante dimostrazione della sua natura controrivoluzionaria, la quale non poteva non avere delle puntuali ricadute sul piano internazionale. Il calcolo degli interessi nazionali russi, codificati nella teoria del «socialismo in un solo Paese», portava il regime stalinista a cercare un’alleanza organica con il nazionalismo cinese.

Se noi osserviamo il processo rivoluzionario nella Francia del XVIII secolo, vediamo che la borghesia francese lasciò ai contadini l’iniziativa di prendersi e distribuirsi le terre appartenenti ai proprietari fondiari, in attesa che il processo economico (libero commercio, indebitamento dei piccoli e medi contadini, ecc.) portasse nelle sue mani gran parte di quella terra. In Cina le cose stavano altrimenti. In quel Paese da moltissimo tempo (stiamo parlando di decine di secoli) si praticava il libero commercio della terra, la quale in gran parte era dunque finita nelle mani non dei nobili feudatari o dello Stato, ma in quelle degli usurai di villaggio, i quali trafficavano con i commercianti europei i prodotti della terra e affittavano ai contadini cinesi microscopici lotti di quella terra. Questa realtà storica depotenziava il ruolo rivoluzionario della borghesia cinese, la quale non era in alcun modo interessata a una radicale riforma agraria, e anzi guardava con ostilità la prospettiva di una confisca e ripartizione della terra da parte dei contadini. La borghesia cinese manifestava una risoluta ostilità sia nei confronti degli operai che dei contadini, e la sua “missione rivoluzionaria” si esauriva nella ricerca dell’unità nazionale della Cina, presupposto per un suo ulteriore sviluppo in un contesto mondiale affollato di grandi potenze bramose di mercati e di materie prime. Tutte le volte che il movimento di unificazione nazionale incrociava il movimento sociale degli operai e dei contadini, la borghesia cinese lasciava che i “signori della guerra” provvedessero a reprimere nel sangue quel movimento, ed è per questo che la rivoluzione del 1911-1912, che mise fine alla dinastia imperiale con la proclamazione della Repubblica (Presidente Sun Yat-sen), si risolse in un sostanziale fallimento, anche grazie alla politica nazionalista/antimperialista di Sun Yat-sen che vedeva nei contadini poveri e negli operai solo una massa bruta da usare per conseguire l’obiettivo dell’unità nazionale, senza concedere loro nulla di significativo sul piano sociale e politico. Per questo nel 1922 Sun rifiutò il fronte Unico fra il PCC, non ancora stalinizzato, e il Kuomintang, che deteneva il potere a Canton. Le cose cambieranno con l’ascesa al potere dello stalinismo in Unione Sovietica. Già nel 1923 l’Internazionale Comunista capovolge l’impostazione leniniana della questione nazionale-coloniale (Tesi del 1920), e riconosce apertamente che la sola rivoluzione all’ordine del giorno in Cina era quella borghese-nazionale: «In considerazione del fatto che la classe operaia cinese non è ancora sufficientemente differenziata come forza completamente autonoma, L’Esecutivo [del 12 gennaio 1923] ritiene necessario che il giovane partito comunista cinese coordini le sue attività con quelle del Kuomintang». Col tempo questo “coordinamento”, giustificato con l’arretratezza sociale della Cina, con la debolezza del proletariato cinese e con l’esiguità numerica del PCC, si trasformerà in una completa subordinazione di quel Partito al Kuomintang. Il PCC era sì numericamente piccolo, ma era tutt’altro che ininfluente fra il proletariato urbano, che andava organizzandosi in sindacati molto combattivi, e i contadini poveri, che odiavano il Kuomintang che tanto li disprezzava e temeva.

4. Nel 1949 la strada che portava la Cina verso l’integrazione nel blocco del capitalismo di Stato sovietico, integrazione realizzata magari nei modi e nei tempi più consoni alla realtà del Paese, apparve al nuovo regime come la sola via praticabile per dotarlo di quel capitale fisso e di quelle conoscenze tecniche indispensabili per avviare la modernizzazione capitalistica della Cina (e soprattutto della sua campagna), e che essa non possedeva, se non in infima parte. E difatti, nel febbraio del 1950 Cina e Russia sottoscrivono un trattato di reciproca assistenza del valore di 300 milioni di dollari; ne seguirà un altro nel 1950, del valore di 430 milioni. I due Paesi individuarono nella ricostruzione della zona industriale della Manciuria il primo obiettivo da conseguire, e il Primo Piano Quinquennale sfornato a Pechino indirizzò in quel senso i crediti ricevuti dall’Unione Sovietica.

Gli Stati Uniti d’America, che nel 1945 avevano cercato di mediare fra Kuomintang e PCC, e che nel caso di un loro “ragionevole compromesso” [39] erano pronti a implementare un “generoso” Piano Marshall per la Cina, assistettero al trionfo del movimento maoista con sconcerto e frustrazione. Washington temeva ovviamente che l’intero Sud-Est asiatico cadesse nella sfera di influenza dell’imperialismo avversario, l’Unione Sovietica, la quale appariva allora in grado di poter ingoiare la Cina maoista in un sol boccone. La preoccupazione sembrò concretizzarsi quando, il 25 giugno del 1950, la Corea settentrionale cercò di unificare con la forza l’intera penisola coreana, impresa appoggiata dai sovietici e dai cinesi, che inviarono in Corea truppe di “volontari”. Com’è noto, il “mitico” generale Mac Arthur propose a Truman di bombardare (non escludendo l’impiego dell’arma atomica) le truppe cinesi che si erano concentrate oltre il confine, avendone come risposta il suo richiamo in patria il 10 aprile 1951 – ma dopo qualche esitazione da parte del Presidente, cosa che alimentò in tutto il mondo la paura per un’imminente Terza guerra mondiale. La forte e aggressiva inimicizia manifestata dagli americani nei confronti della nuova Cina rese più urgente agli occhi del PCC la necessità di stringere una forte e immediata alleanza con l’Unione Sovietica, il cui arsenale militare e il cui prestigio politico potevano costituire un valido deterrente nei confronti degli Stati Uniti.

Scrive Charles Reeve: «La guerra di Corea rappresenta una fase importante per il consolidamento dello Stato cinese. Corrispondendo allo sviluppo della Guerra Fredda e alla determinazione del capitalismo americano di bloccare l’espansione del Capitalismo di Stato nel Sud-Est asiatico, la guerra di Corea accentua il processo di centralizzazione del capitalismo cinese. […] Questo fenomeno può essere paragonato, per esempio, alla costituzione, durante le guerre rivoluzionarie del 1789, della ideologia e dell’apparato amministrativo che furono necessari all’avviamento del capitalismo francese: la Nazione Francese e il suo Stato centralizzato» [40]. Il paragone naturalmente regge mutatis mutandis, considerato che la formazione della Nazione cinese si colloca nell’epoca imperialistica dello sviluppo capitalistico.

La linea politico-economica stabilita da Mao all’indomani della liberazione è riassunta nei passi che seguono: «Per un lungo periodo, dopo la vittoria della rivoluzione, bisognerà utilizzare al massimo gli aspetti positivi del capitalismo privato delle città e delle campagne, per incrementare lo sviluppo dell’economia nazionale. Durante tale fase, tutti gli elementi capitalisti privati delle città e delle campagne, che non siano di ostacolo all’economia nazionale e che, al contrario, possono arrecarle beneficio, devono essere autorizzati a sopravvivere e svilupparsi […] Noi dobbiamo considerare la maggior parte dei democratici che stanno al di fuori del Partito, alla stregua dei nostri propri quadri; dobbiamo dar loro lavoro e concedergli posizione e autorità».

Le piccole aziende agricole a conduzione familiare rappresentavano la spina dorsale dell’economia rurale cinese, ed era dal loro sviluppo che il PCC dei primissimi anni di potere si attendeva una rapida modernizzazione della campagna cinese, la conditio sine qua dello sviluppo capitalistico cinese complessivamente considerato. La generale arretratezza in cui versava la campagna cinese all’indomani della proclamazione della Repubblica pesava come un macigno sulle prospettive di un rapido sviluppo industriale della Cina, il quale necessitava di un settore agricolo molto produttivo, così da realizzare un virtuoso scambio tra città e campagna, tra prodotti industriali e prodotti agricoli. La scarsa produttività della campagna e l’espansione demografica della popolazione rurale dovuta all’introduzione dei moderni criteri di profilassi e ad altre riforme sociali, rendevano impossibile l’accumulazione di un surplus da riversare nel settore industriale. L’agricoltura cinese ancora nel 1957, alla vigilia del cosiddetto Grande Balzo in Avanti, conosceva una condizione di estrema arretratezza, nella quale era prevalente l’economia di pura sussistenza. L’enorme massa di popolazione rurale giovanile in larghissima parte si limitava a consumare la produzione agricola, mentre l’industria non riusciva ad assorbirne che una minima parte, proprio perché non trovava nel settore agricolo un fattore di sviluppo: si trattava di un vero e proprio circolo vizioso che generava forti tensioni sociali, le quali trovavano una puntuale espressione nel vivace dibattito politico-ideologico interno al Partito-Regime – il cui monolitismo politico è sempre stato un mito. Proprio nel 1957 la componente agricola all’accumulazione di capitali registra una brusca frenata, la quale risalta ancor di più se messa a confronto con il relativo sviluppo del settore industriale. Per un Paese come la Cina, la modernizzazione capitalistica della campagna era (e in parte rimane, mutatis mutandis) un problema cruciale, decisivo, addirittura vitale, anche considerata la sua alta densità demografica.

Alla fine degli anni Cinquanta si rendevano disponibili per il mercato del lavoro cinese circa 10 milioni di giovani lavoratori all’anno, ma il settore industriale ne riusciva ad assorbire solo 500 mila, e quindi una grossa fetta della forza-lavoro di origine contadina rimaneva nella campagna in una funzione improduttiva, ossia come esercito di consumatori di una considerevole porzione del surplus agricolo. Sempre più cucchiai attingevano da una scodella che conteneva pressappoco sempre la stessa quantità di cibo. Questa metafora può forse ricordare Malthus, ma essa non ha niente a che fare con le sue teorie circa il naturale divario tra il tendenziale incremento della popolazione e l’aumento effettivo dei mezzi di sussistenza. Ma qui rimando alla critica marxiana di quella «insulsa» teoria. Come ho già accennato, il surplus consumato improduttivamente non si trasformava in investimenti idonei a far crescere la produzione agricola, e ciò influenzava assai negativamente l’intero processo di accumulazione del capitale. La forza-lavoro che si riversava nelle città andava invece a costituire un numeroso «esercito industriale di riserva» che andava a premere sui salari degli operai, le cui condizioni di vita infatti peggiorarono. Nel 1958 gli operai rappresentavano solo il 9% della popolazione in grado di svolgere un lavoro.

Alla luce delle condizioni economico-sociali della Cina del tempo, l’accumulazione capitalistica doveva necessariamente risolversi in una violenta e massiva estrazione di surplus agricolo, e a farne le spese furono soprattutto quegli strati contadini che più degli altri (borghesia nazionale, proletariato urbano, piccola borghesia, ecc.) avevano appoggiato la Rivoluzione cinese. Scriveva il già citato Charles Reeve nel suo importante saggio del 1973 dedicato allo «sviluppo del capitalismo in Cina dal 1949 al 1972»: «È interessante nella rivoluzione cinese, e nella sua ideologia, osservare come il ceto contadino, la base sociale più importante dalla quale ottenne il più valido appoggio durante la guerra civile (appoggio dovuto alla politica di distribuzione delle terre dei grandi proprietari) sia diventato la prima vittima dello sviluppo industriale “socialista”. Così la nuova Costituzione proclamata dal governo nel 1954 annuncia l’inizio della trasformazione “socialista” della società; ciò vuol dire nella pratica la nazionalizzazione dell’industria e la collettivizzazione (statalizzazione) dell’agricoltura. E, per ciò che concerne il controllo sulla produzione sociale, il ruolo del proletariato restava quello di produttore di plus-valore. Come è precisato nel testo stesso del Piano Quinquennale: “In Cina come in Unione Sovietica, spetta all’autorità centrale il compito di determinare la quantità e l’attribuzione delle risorse”» [41]. «In Cina come in Russia»: il carattere stalinista del Primo Piano Quinquennale è dunque affermato apertamente. D’altra parte per Mao «La teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin ha un valore universale» [42].

Come ho accennato, solo dopo, nell’estate del 1960, Mao prenderà le distanze per poi rompere del tutto con l’ex “Paese fratello”, e non per ragioni di natura ideologica, come chi non fosse stato ammalato di ideologismo “marxista-leninista” già allora poteva facilmente comprendere (e infatti comprendeva), ma in ragione di problemi che avevano a che fare con lo sviluppo capitalistico in Cina e con la sua collocazione internazionale, a partire dalla sua prossimità con l’ingombrante e aggressivo imperialismo russo, il quale da sempre aspirava a mettere le proprie zampe sul Paese confinante, approfittando delle sue divisioni interne. La Cina di Mao però si rivelò un osso troppo duro per i denti dell’orso sovietico, molto forte sul piano politico-militare, ma assai debole su quello, alla fine decisivo, della potenza economica. Come non farsi schiacciare dai due colossi imperialistici usciti trionfanti dalla Seconda guerra mondiale (USA e URSS): non si comprende la complessa, contraddittoria e spiazzante (sfuggente, “anguillosa”) politica estera maoista se non si pone mente a quella vitale necessità. Vitale, beninteso, per il dominio sociale capitalistico “con caratteristiche cinesi”. Dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, il sedicente antimperialismo maoista, fortemente polemico nei confronti del “revisionismo socialimperialista” di Mosca [43], mascherò l’ambizione del padre della patria di portare la Cina su un terreno geopolitico già occupato dall’Unione Sovietica

Alla fine degli anni Cinquanta si manifestò in tutta la sua problematicità il circolo vizioso dell’accumulazione accelerata del capitale basata fondamentalmente sull’estorsione di surplus agricolo attraverso gli strumenti della coercizione politica, delle misure erariali e della politica dei prezzi che avvantaggiava il settore industriale ai danni di quello agricolo – secondo la famosa “forbice dei prezzi” che a suo tempo molto inquietò i dirigenti sovietici alle prese con la cosiddetta “accumulazione socialista originaria” [44]. Nella fase finale del Primo Piano Quinquennale il processo di nazionalizzazione delle imprese e dell’agricoltura conobbe un’improvvisa accelerazione, e ciò rese possibile l’emarginazione dalle leve del potere politico della borghesia nazionale che aveva sostenuto il governo cinese secondo la teoria delle quattro classi. Nel 1957 oltre il 96% della produzione agricola era già controllata dallo Stato.

È in questo scenario complesso, contraddittorio e foriero di gravi tensioni sociali che la fazione maoista decise di imboccare la strada, per molti aspetti originale (per altri semplicemente obbligata), chiamata Grande Balzo in Avanti. Come vedremo, si trattò di un temerario e finanche azzardato tentativo inteso soprattutto a preservare l’autonomia e l’integrità della nazione evitando al contempo di farla precipitare nel più completo sottosviluppo economico-sociale, foriero di eventi catastrofici (carestie, epidemie, conflitti sociali, guerre separatiste, ecc.) che avrebbero messo la Cina dinanzi alla tragica necessità di inchinarsi senza riserve a una delle due superpotenze che dominavano la scena mondiale. L’ideologia populista in salsa “marxista-leninista” cucinata da Mao (e ingoiata dalla sinistra europea come una succulente pietanza dottrinaria che declinava il “marxismo” in termini creativi) si prestò come collante ideologico al servizio dell’ardua impresa.

Rispetto alla linea politica filosovietica che informò la stesura del Primo Piano Quinquennale (1953-1957), il cosiddetto Grande Balzo realizzò per alcuni e importanti aspetti un netto arretramento sul terreno del processo di accumulazione capitalistica, ma fu un passo indietro in parte obbligato e che intendeva creare le condizioni per un successivo passo in avanti, tentato sempre su quel terreno, che non pregiudicasse la stabilità sociale, l’unità nazionale e l’indipendenza della Cina, tre principi-guida che mettevano d’accordo tutte le fazioni del PCC; tre Moloch a cui il Partito-Regime era disposto a sacrificare qualsiasi cosa. Allora esattamente come oggi. Un Moloch che nel periodo maoista del regime ha divorato decine di milioni di vite tra carestie, conflitti sociali, conflitti etnici, conflitti politici interni al PCC – vedi la cosiddetta Grande Rivoluzione Culturale.

La strategia maoista intesa a sottrarre la Cina dalla divisione internazionale del lavoro e dalla sua piena integrazione nel mercato capitalistico mondiale, in attesa che il gracile corpo del capitalismo cinese si rafforzasse, non poteva durare in eterno, e soprattutto essa fu pagata a carissimo prezzo dalle masse contadine, in particolare, e da tutti gli strati sociali subalterni, in generale.

La Comune rurale cinese può anche essere considerata, in parte o in tutto, una forma economico-sociale non capitalista, ma non nel senso che essa uscisse fuori dai confini del capitalismo e andasse verso il socialismo, come da propaganda maoista nazionale e internazionale, ma in ben altro senso, ossia nel senso che la Comune rurale prese corpo sulla base di una struttura economica della campagna cinese ancora largamente precapitalistica, quella ereditata appunto dalla Cina moderna nata con la rivoluzione nazionale-borghese, e che su quel fondamento essa cercò di procedere in direzione del capitalismo organizzando un’accumulazione capitalistica “con caratteristiche maoiste”, per così dire.  Alla fine questo complicato e per molti aspetti drammatico tentativo si rivelò perlopiù fallimentare. Con la Comune rurale cinese non siamo insomma oltre il capitalismo, ma prima e verso di esso.

Per capire questa complessa e contraddittoria esperienza non bisogna tenere presente solo le condizioni economiche della Cina del tempo, ma anche il quadro geopolitico all’interno del quale era inserito quel Paese. Fu infatti l’impossibilità di trovare nell’Unione Sovietica un “Paese fratello”, una valida sponda in grado di arginare l’ostracismo americano, che alla fine degli anni Cinquanta costrinse la fazione maoista del PCC ad emarginare la fazione filosovietica e a puntare tutte le carte dell’accumulazione capitalistica a ritmi accelerati sul fronte interno: «Dobbiamo contare solo sulle nostre forze», si disse allora con la solita enfasi volontaristica tipica dei regimi di stampo stalinista. Fare di necessità virtù, come si dice. Mobilitare, razionalizzare e “mettere a valore” tutte le energie e le risorse a disposizione. L’importazione di beni strumentali per la modernizzazione agricola era ormai diventata quasi impossibile, dato il deterioramento delle relazioni della Cina con l’Unione Sovietica e i suoi alleati. L’ambiente internazionale ostile significava anche che sarebbe stato rischioso affidarsi ai pochi centri industriali esistenti in Cina per questo compito, dato che essi o si trovavano lungo il confine con l’Unione Sovietica, o insistevano lungo la costa, dove erano esposti al potere militare degli Stati Uniti. In quelle circostanze la tentazione di un ripiegamento autarchico, di una ritirata strategica “introvertita” diventò irresistibile, e per molti aspetti essa può forse essere interpretata come l’espressione di una “scelta obbligata”.

D’altra parte il regime di vita autarchico e introverso era parte integrante del retaggio storico della Cina imperiale, e il nuovo regime “socialista” poteva rifarsi a quel retaggio quantomeno sul piano ideologico e psicologico [45]. In realtà quel piano si dimostrò ben presto del tutto inconsistente nella realtà cinese del XX secolo, e la sbandierata autosufficienza della Cina si risolverà in una serie di politiche economiche in larga parte velleitarie e fallimentari, politiche che alla fine degli anni Settanta obbligheranno il Paese a un drammatico mutamento di rotta, il quale si sostanzierà soprattutto in una sua rapida apertura al commercio mondiale. Il processo sociale racchiuso nella metaforica bottiglia aveva raggiunto la sua pressione critica già da tempo, e il tappo doveva necessariamente saltare, se si voleva mettere in salvo il contenitore, ossia l’architettura politico-istituzionale del regime e la stessa unità nazionale della Cina. Per il PCC si trattava di rendere possibile un’esplosione controllata, per così dire, e le riforme economiche elaborate nel 1978 dalla fazione del PCC organizzata intorno a Deng Xiaoping riuscirono nell’ardua impresa, ottennero un completo e nient’affatto scontato successo. Il movimento sociale represso nel sangue nell’estate del 1989, testimonia dell’estrema complessità e criticità del “processo riformista” intrapreso dal Partito-Regime alla morte di Mao. Si trattava di passare, con una certa gradualità ed entro limiti geografici da ampliare gradatamente (vedi la creazione delle Zone economiche speciali), da un capitalismo di Stato integrale e “autarchico”, con non poche eccezioni nella campagna cinese, a un capitalismo dinamico, diffuso, controllato certamente dallo Stato, ma in larga parte non più diretto da esso e, cosa fondamentale, orientato quasi completamente all’esportazione. Le famose Tigri Asiatiche offrirono a Pechino il modello vincente da seguire. Si trattò insomma, e come già detto, di una transizione economica tutta interna al regime sociale capitalistico. Si passò dal “capitalismo eremita” di Mao Tse-tung al “capitalismo cosmopolita” di Deng Xiaoping. In realtà anche il capitalismo di Stato dei tempi di Mao subì le influenze del capitalismo globale e della contesa interimperialista, ma in quel periodo prevalsero in Cina le spinte a preservare l’autonomia esistenziale della nazione, la quale in quel momento storico avrebbe potuto integrarsi nell’economia mondiale solo pagando un caro prezzo in termini appunto di agibilità geopolitica. ««Anche se la vittoria della linea riformista può essere datata alla fine del 1978 (quando la minaccia sovietica sembrava estremamente intensa), essa si affermò nel corpo della società rurale a partire dal 1980, quando era apparso chiaro che l’URSS non poteva o non voleva mettere in discussione la sovranità cinese e gli Stati Uniti avevano ormai da dieci anni cessato di farlo. Da quel momento i privilegi reali che la gestione del potere aveva consentito ai “quadri” del PCC, potevano portare ai loro detentori maggiori vantaggi in una società aperta al mercato che in un regime collettivistico. […] Così si spiega l’immediato e largo consenso in seno al partito alla scelta politica di consentire “ad alcuni contadini di diventare ricchi prima di altri”, cioè di dare pieno slancio alla “piccola produzione di merci”» [46].

Ma ritorniamo ancora una volta indietro. È alla fine del Primo Piano Quinquennale che la tendenza integralmente statalista si impone sulle altre tendenze politico-ideologiche presenti nel PCC – alcune delle quali non escludevano in linea di principio la ricerca di una conciliazione di interessi perfino con l’imperialismo americano: «Non importa il colore dell’imperialismo, purché esso faccia affari con noi e non voglia trasformarci in una sua colonia!». Lo stesso Mao dopotutto cercherà agli inizi degli anni Settanta di “fare sponda” con gli Stati Uniti in funzione antisovietica.

La Comune rurale fu la forma che assunse la proprietà statale nella cellula economico-sociale fondamentale della campagna cinese: il villaggio. «Vi erano due grandi categorie d’impresa: in primo luogo le imprese pubbliche, che per lungo tempo avranno una posizione largamente dominante, poi le imprese collettive, i cui metodi di gestione non sono affatto differenti, ma che non gravano sul bilancio dello Stato, hanno generalmente un giro di affari modesto e sono poste sotto la tutela delle autorità locali» [47]. La proprietà cosiddetta collettiva («corporativismo statale locale», secondo la puntuale definizione di Shaohua Zhan) attiene dunque a questa particolare articolazione dello Stato; essa fu, come già detto, una delle forme che la proprietà statale ha assunto nella moderna società cinese – cioè dal 1949 in poi. In questo preciso senso non ha alcun senso porre la distinzione tra proprietà collettiva e proprietà statale, se non si chiarisce che entrambe sono la fenomenologia della stessa sostanza: lo Stato come padrone unico (o monopolista), come capitalista-collettivo. La collettivizzazione (statalizzazione) delle campagne determinò la rapida estensione del sistema salariale, fondamento del capitalismo, perché le famiglie che lavoravano un appezzamento di loro proprietà e che possedevano qualche capo di bestiame furono appunto costrette a passare al lavoro salariato delle fattorie collettive – cioè statali. Che questo salario venisse pagato dallo Stato (nella sua articolazione periferico-rurale) solo in parte in denaro, e in altra parte in derrate alimentari e servizi, ciò non muta minimamente la natura del rapporto capitalistico, e in ogni caso rimaniamo ben aldiquà del capitalismo, non oltre. Lungi dal rappresentare un decentramento della produzione, sempre come da propaganda ideologica (e come sempre accettata acriticamente dal sinistrismo occidentale), il sistema delle comuni rurali realizzò piuttosto le condizioni ideali per un controllo profondo, invasivo e capillare delle campagne da parte del Partito-regime. Infatti, la Comune venne organizzata su un modello di stampo militare; essa contava una media di 20 mila abitanti, e non era solo un centro di produzione agricola, ma aveva l’ambizione di poter sviluppare un sistema di piccola – e spesso piccolissima – produzione industriale legato al territorio. Soprattutto sotto quest’ultimo aspetto il risultato fu a dir poco pessimo, sotto ogni punto di vista – quantitativo, qualitativo, sociale [48]. Tra l’altro, il gonfiamento abnorme della bolla burocratica anche nella campagna ebbe come conseguenza l’estorsione di una rilevante quota di surplus generato dai contadini per il profitto personale dei burocrati delle sezioni locali del PCC. Una dinamica ancora attiva che produce periodiche campagne moralizzatrici che in realtà non sono che il pretesto per regolamenti di conti interni al Partito. L’asfissiante e capillare rete burocratica “comunista” rendeva impossibile lo svilupparsi di una reale discussione all’interno delle Comuni, soffocando sul nascere ogni forma di dissenso circa i metodi di lavoro, gli obiettivi, le condizioni di lavoro e di vita e così via. Altro che “modello di democrazia popolare dal basso”!

La Comune non aveva solo funzioni economiche e amministrative, ma come abbiamo accennato essa venne concepita anche in vista di esigenze militari, e la stessa coltivazione dei cereali fu considerata dal regime come un fondamentale settore strategico in vista di una sempre possibile guerra. «Le politiche radicali si basarono sulle due roccaforti ideologiche dell’autosufficienza e dell’egualitarismo. Il particolare, la politica dell’autosufficienza fu adottata in Cina anche nel timore di invasione da parte delle potenze occidentali. Il suo scopo principale era di rendere ogni provincia autosufficiente nella produzione di cereali. Il governo forzò l’adozione di questa politica nelle campagne attraverso una serie di misure, quali la soppressione dei mercati rurali, la riduzione delle vendite di grano alle province deficitarie da parte delle agenzie statali, la limitazione dei trasferimenti di cereali da una provincia all’altra, ed infine pretendendo il pagamento di tasse agricole sotto forma di cereali, piuttosto che in contanti o in altri prodotti. Ne conseguì che molte zone, precedentemente specializzate in coltivazioni industriali altamente redditizie o in altre attività agricole come l’allevamento, la pesca o la produzione di ortaggi ecc., furono costrette a produrre cereali su terreni le cui condizioni naturali non consentivano rese soddisfacenti. Perciò, non solo la disponibilità di altri prodotti agricoli diminuirono, ma persino le rese medie di cereali calarono drasticamente. Allo stesso tempo, i contadini che vivevano nelle zone specializzate nella produzione di cereali furono costretti a coltivare a coltivare altri prodotti agricoli per autoconsumo, a causa delle restrizioni negli scambi commerciali di questi prodotti tra le province. Si verificò di conseguenza un generale aumento dei costi di produzione nel settore agricolo, e una diminuzione della produttività dei fattori. In altre parole, le politiche di autosufficienza eliminarono la specializzazione e la differenziazione della produzione agricola, distruggendo tecniche agrarie vecchie di secoli, e trasformando molte zone precedentemente ricche e prospere, in aree sottosviluppate e a basso reddito» [49]. Le esigenze extraeconomiche ebbero dunque un impatto assai negativo sullo sviluppo economico della Cina, in primo luogo sulla sua enorme realtà rurale.

Una rilevante percentuale dei contadini cinesi per vivere non poteva contare su quello che gli spettava per il lavoro svolto sulle terre collettive (statali), e questi contadini integravano il loro magro reddito coltivando piccoli lotti privati di terra e allevando non più di una vacca, di un maiale e di pochi polli. Le nuove direttive maoiste tendevano a ridurre drasticamente l’entità di quei lotti e ad eliminare ogni scorta supplementare di cibo a disposizione dei contadini. Lo scopo era quello di costringere i contadini a lavorare esclusivamente le terre collettive, ed essere quindi alle complete dipendenze dello Stato-Padrone, oppure ad abbandonare la campagna per trasferirsi nei centri urbani, così da alimentare l’esercito di forza-lavoro a disposizione dell’industria.

«Un’altra conseguenza negativa della mobilitazione di massa della forza rurale nelle attività industriali ed infrastrutturali fu che un gran numero di contadini venne sottratto al normale lavoro dei campi. Secondo C. Y. Cheng (1963, negli anni 1958 e 1959 si verificò una carenza di forza lavoro pari fino al 30-50% durante la stagione dei raccolti. Il calo della produzione agricola fu perciò dovuto anche alla poco cura prestata in attività quali la mietitura, la trebbiatura e l’immagazzinamento delle derrate. Inoltre, i campi furono infestati da insetti nocivi e da erbacce, poiché i contadini, impegnati in altre attività, non avevano avuto il tempo di curarsene. Nonostante questi problemi, le fonti ufficiali registrarono cifre altissime, ovviamente gonfiate, per la produzione agricola. Nel 1958 per la produzione agricola nel 1958, e obiettivi ancora più irrealistici furono fissati per gli anni successivi. […] La quantità di cereali pro capite che rimaneva a disposizione delle aree rurali in seguito all’aumento degli approvvigionamenti pubblici, unito al calo della produttività, era ben al di sotto del livello medio di sostentamento. […] Di conseguenza, fame e carestie iniziarono a colpire molte zone della Cina rurale fin dall’autunno del 1959. […] L’abolizione degli orti familiari e delle produzioni collaterali tolse ai contadini l’unica fonte integrativa dei propri redditi. Quest’ultima misura, in particolare, si dimostrò un enorme spreco di risorse, poiché la terra che era stata precedentemente usata per gli orti familiari spesso non era adatta alla produzione di cereali, e perciò rimaneva in coltivata. […] Inoltre, in seguito all’abolizione degli orti familiari e della conseguente scarsità di foraggi, vi fu una drastica riduzione nel numero di suini. Questo costituì un problema anche per la produzione di cereali, perché la quantità di fertilizzante organici disponibile diminuì sensibilmente. Tutto ciò contribuì ad instaurare un circolo vizioso, per cui la produzione agricola diminuiva anno dopo anno» [50]. Dopo un’accesa discussione interna al PCC, come sempre rappresentata dalle fazioni in lotta in guisa di battaglia ideologica per il trionfo dei sacri principi socialisti/comunisti, nel settembre del1962 il Partito-Regime riaffermò l’importanza per l’economia cinese degli orti familiari, delle occupazioni sussidiarie e dei mercati privati rurali. La resistenza dei contadini al supersfruttamento nei campi e nelle piccole industrie rurali fu notevolissima e si manifestò in più modi, e ciò spinse il governo a cambiare repentinamente la sua politica economica per prevenire un’ennesima rivolta contadina, cosa che avrebbe destabilizzato l’intera società cinese. Ancora una volta la questione contadina dettava l’agenda politico-sociale del Paese, e ciò manifestava nel modo più evidente la sua perdurante arretratezza.

«Il divario rurale-urbano ha definito il regime di sviluppo ed è stato regolato da un alto tasso di accumulazione, in cui i consumi sono stati mantenuti bassi in modo che gli investimenti, in particolare nell’industria pesante, potessero essere mantenuti elevati. L’aumento dei consumi è stato costantemente mantenuto al di sotto del tasso di crescita del PIL; durante il Primo piano quinquennale iniziato nel 1953 la quota dell’industria sul PIL è aumentata dal 25,9 percento al 43,2 percento. Un altro modo di vedere questo fatto è che, sebbene oltre l’80% della popolazione lavorasse nell’agricoltura, quel settore ha ricevuto meno del 10% degli investimenti in tre decenni, dal 1953 al 1985, mentre nello stesso periodo il 45% è andato all’industria pesante. Mentre lo Stato cinese ha tentato di sviluppare rapidamente l’industria pesante, la produzione agricola è rimasta un limite molto grave all’industrializzazione. La riforma agraria intrapresa nei primi anni del regime ha rimosso il principale consumatore rurale in grado di competere con lo Stato per il surplus agricolo: l’élite rurale (compresi proprietari terrieri, funzionari locali, commercianti e contadini relativamente benestanti). Alla fine del 1953, lo Stato ha istituito un meccanismo per estrarre questo surplus. Chiamato “acquisto unificato e marketing”, il sistema implicava il controllo completo dello Stato sul mercato del grano, schiacciando tutti i commercianti privati. Questa era considerata la migliore tra le varie opzioni imperfette all’epoca, necessaria se il la fase di sviluppo doveva rimanere indipendente dal mercato globale del dopoguerra saldamente nelle mani degli Stati Uniti. Ecco come Chen Yun, che faceva parte del comitato di redazione del Primo Piano, spiegò la logica alla base del controllo Statale sul grano all’epoca: “Ci sono carenze? Sì. Potrebbe smorzare l’entusiasmo della produzione, perseguitare le persone fino alla morte […] e provocare insurrezioni in alcune aree. Ma sarebbe peggio se non lo implementassimo. Ciò significherebbe percorrere la vecchia strada della Cina che importava grano”. Dopo l’implementazione del monopolio di Stato, i dibattiti politici tra il 1955 e il 1980 si spostarono sulla questione di come sviluppare la produzione agricola per produrre un surplus maggiore. […] Il Grande Balzo in Avanti del 1958-1961 fu un tentativo di rispondere a questa domanda. L’autosufficienza e la mobilitazione del lavoro rurale in eccedenza avrebbero dovuto compensare la mancanza di investimenti statali nella produzione agricola attraverso la partecipazione collettiva alla costruzione del capitale agricolo. Nel frattempo, ciò avrebbe consentito un elevato tasso di accumulazione, senza rischiare un rilancio dei mercati rurali. Tale politica di sviluppo si basava sulla collettivizzazione rapida e su larga scala, egualitarismo, industrializzazione rurale di successo e motivazione politica. Su molti di questi obiettivi, il tentativo è stato un chiaro fallimento. Al contrario, una politica di modernizzazione agricola che si basasse su investimenti più consistenti da parte dello Stato, con la creazione di condizioni idonee all’agricoltura scientifica, meccanizzata e su larga scala, era un’altra opzione possibile. Tuttavia, ciò inizialmente avrebbe rallentato il processo di industrializzazione, poiché gli investimenti statali in agricoltura sarebbero stati molto più elevati, limitando in tal modo i fondi disponibili per l’industria pesante. In definitiva, la pressione della rapida industrializzazione nel contesto di una guerra fredda che spesso diventava calda ha spinto la leadership nella prima direzione, anche se non senza disaccordi. […] Poiché la carestia ha devastato il paese per tre anni a partire dal 1959, i leader centrali hanno identificato non solo le sale da pranzo pubbliche e le fornaci in acciaio del cortile, ma anche la svolta verso le attività non agricole in generale come cause essenziali del disastro, piuttosto che il sequestro statale di grano e la sua esportazione in URSS anche dopo che la carestia era diventata evidente. […] All’alba del nuovo regime nel 1949, il valore della produzione rurale “secondaria” (principalmente artigianato tradizionale) ammontava a 1,16 miliardi di yuan ai prezzi del 1957. Il movimento di riforma agraria ha aiutato tali industrie a riprendersi un po’ e persino a crescere su base familiare, con oltre dieci milioni di contadini che lavoravano a tempo parziale nell’artigianato commerciale a partire dal 1954, e con una produzione quasi raddoppiata del valore di 2,2 miliardi di yuan. L’introduzione nel 1953 del sistema unificato di acquisto e commercializzazione ha interrotto il “legame organico” tra queste attività agricole e la commercializzazione dei prodotti agricoli trasformati, causando la caduta dei redditi rurali in aree specializzate nella produzione artigianale. Quando lo Stato stabilì il monopolio sui prodotti agricoli, le imprese di trasformazione rurale furono inevitabilmente tagliate fuori dalle loro forniture. Grano, cotone, seta, arachidi e semi di soia – le forniture di base delle imprese non agricole – sono stati confiscati dallo Stato immediatamente dopo il raccolto. In effetti, durante gli anni ‘50 la campagna divenne deindustrializzata. La creazione delle Comuni e delle Brigate di produzione ha segnato il primo tentativo sistematico dello Stato di promuovere l’industria rurale in quanto tale. Se l’artigianato aveva precedentemente intrecciato le economie familiari dei contadini con i mercati locali e regionali attraverso la trasformazione dei prodotti agricoli, le comuni hanno sostanzialmente trasformato l’industria rurale rendendola asservita ai mutevoli dettami della politica statale, politica che rispondeva a sua volta al mutare delle condizioni internazionali. La carestia ha devastato il paese per tre anni a partire dal 1959; il sequestro statale di il grano e la sua esportazione in URSS continuarono anche dopo che la carestia era diventata evidente. […] Dopo due anni di forti cali della produzione agricola (1959 e 1960), l’agricoltura ha ripreso a crescere dal 1961, quando i prezzi degli acquisti agricoli statali sono stati aumentati di oltre il venti per cento, incentivando gli investimenti del lavoro. Tuttavia, dall’inizio degli anni ’60 fino alla fine degli anni ‘70, è stato provato un sistema di retribuzione del lavoro dopo l’altro al fine di mantenere intensi gli input di lavoro necessari per aumentare i rendimenti. Con una politica di autosufficienza locale che è rimasta forte negli anni ‘60 e nei primi anni ‘70 a spese della modernizzazione agricola, tuttavia, gli investimenti statali nella costruzione di capitali agricoli sono rimasti sostanzialmente stagnanti, essendo stato il 1964 l’unico anno con un significativo aumento degli investimenti. La mobilitazione del lavoro insieme a nuove varietà di sementi provocò tassi di crescita agricola relativamente elevati tra il 1962 e il 1966, ma questa crescita non fu sostenuta alla fine degli anni ‘60, con il 1968 che in realtà registrava un declino. Né la produttività del lavoro è aumentata significativamente durante questo periodo» [51].

Il divario di produttività fra le diverse forme organizzative esistenti nella campagna cinese emerge molto chiaramente da quanto segue: «Secondo stime ufficiali, nel 1974, il settore collettivo “fornì, sull’88,8% della terra arabile, il 66% della produzione di cereali, patate e ortaggi; le aziende agricole di Stato, sul 4,8% della terra arabile, il 4% della produzione, e i contadini, nei loro orti familiari, corrispondenti al 6,4 della terra arabile, il 30% della produzione” (J. Domes, 1980)» [52]. In fin dei conti, lo statalismo con caratteristiche cinesi dei tempi di Mao, considerato in tutte le sue forme più o meno originali, si è dimostrato non più che una tigre di carta.

Sempre secondo M. Giura Longo, «Un conclusivo argomento a favore degli orti familiari è rappresentato dalla constatazione che, durante l’era maoista, tutte le volte che era possibile, i contadini cercarono di allargare i loro orti, o di aprirne di nuovi. […] In sostanza, l’agricoltura familiare, quella che noi chiamiamo piccola produzione di merci, riuscì non solo a sopravvivere ai molti attacchi del regime maoista, ma persino ad aumentare e a migliorare la propria efficienza economica, dimostrando di essere più potente e persistente dell’ideologia marxista che tentò di abolirla. Paradossalmente, si potrebbe affermare che, nel lungo periodo, non sia stato il comunismo a cambiare i rapporti di produzione nelle campagne cinesi, ma piuttosto furono i contadini a cambiare il comunismo» [53]. Naturalmente il supposto paradosso esiste solo nella testa di chi accredita la natura “comunista” della società cinese complessivamente considerata e «dell’ideologia marxista» di cui parla l’autrice nel suo peraltro interessante saggio. Piuttosto si deve dire che, come accadde in Unione Sovietica, il settore privato, più o meno tollerato e sostenuto dallo Stato, rivaleggiò con successo con il settore statale, il quale si dimostrò largamente inefficiente e poco produttivo, anche perché esso rispondeva soprattutto ad esigenze di natura sociale (stabilizzare il regime, prevenire l’insorgere di gravi tensioni sociali garantendo alla massa dei lavoratori il minimo vitale indispensabile) e geopolitica: è con l’industria pesante che si costruiscono navi militari, carri armati, fucili, aerei e via di seguito.

Bisogna anche dire che il modello agricolo sovietico si dimostrò per lo più inapplicabile alla campagna cinese, e quando venne applicato forzando la realtà, esso creò solo danni al corpo economico e sociale del mondo rurale; danni che richiesero molto tempo per venir in qualche modo riparati.

«L’impiego massiccio di una mano d‘opera non qualificata, della semplice forza-lavoro, è presentato ufficialmente come un nuovo aspetto della formazione dell’”uomo comunista”. I lavori di irrigazione, i cantieri pubblici e il sistema di vie di comunicazione erano sempre stati, in Cina, compiuti nello stesso identico modo sotto le diverse dinastie. La differenza risiede nel fatto che questa immensa forza-lavoro prepara ora la via ad un accrescimento della produttività del lavoro. La proliferazione delle piccole imprese e delle piccole industrie nelle Comuni è più un segno dell’arretramento delle forze produttive che di una qualunque “decentralizzazione”. La mancanza di capitali da investire in grossi complessi industriali fu all’origine di questa “soluzione”, che permise anche di assorbire sul posto il surplus di mano d’opera agricola. […] Nel primo anno del Grande Balzo in Avanti, nel 1958, la produzione agricola raggiunse un buon livello, e si può dire che questa utilizzazione massiccia di forza-lavoro si dimostrò produttiva. Ma presto i problemi cominciarono ad accumularsi più rapidamente dell’accumulazione stessa. I contadini che avevano già perso tutti i loro appezzamenti privati ed erano obbligati a lavorare esclusivamente nei campi come nelle piccole industrie da poco create, cominciarono a eludere il super-sfruttamento. […] Verso l’autunno 1960 la situazione divenne catastrofica sul piano nazionale. Nelle zone rurali i contadini rifiutavano il lavoro intenso, e anche il tentativo di creare una piccola industria decentralizzata svanì: la sua scarsa produttività, la qualità  eccessivamente mediocre dei suoi prodotti (al punto che essi erano praticamente inutilizzabili) divenivano sempre più evidenti» [54] (pp.64-65). La propaganda ideologica del Partito-Regime intesa ad esaltare «la politica al posto del comando», il «lavoro socialista» e i «premi di incoraggiamento ideologico» [sic!] evidentemente non riuscì a far breccia nella massa dei contadini, i quali in tutti i modi possibili iniziarono a  rifiutare il super-sfruttamento. Anche la classe operaia delle città iniziò a dimostrarsi sempre più insofferente nei confronti di una situazione che vedeva il rapido deteriorarsi delle sue condizioni di vita e di lavoro.

5. Nel dicembre del ’58 Mao si vide costretto a fare un passo indietro, e lasciò il suo posto di Capo di Stato a Liu Shao-ci, decisione che sarà ratificata e ufficializzata nel marzo del 1959. Liu Shao-ci era un classico uomo d’apparato tutt’altro che ostile a Mao, cosa che lascia intendere quanto l’intero Partito temesse una troppo brusca uscita di scena di quello che dal 1935 era stato l’indiscusso leader della rivoluzione nazionale, e che ancora godeva di un vasto consenso popolare, sebbene tale consenso stesse entrando in una fase declinante. L’ideologia maoista poteva ancora svolgere una preziosa funzione al servizio del controllo sociale, tanto più nel momento in cui la catastrofica situazione economico-sociale aveva di molto indebolito il regime. Mao poteva e doveva recitare la sua parte di leader carismatico e di padre della patria, ma la sua influenza politico-ideologica non doveva avere alcun peso nelle future scelte di politica economica. In ogni caso le fazioni più ostili a Mao lasciarono al maresciallo Peng Dehuai, una figura per certi versi leggendaria e popolare quasi quanto lo stesso Mao, il rischioso compito di assestare un duro colpo alla fama di infallibilità di quest’ultimo.

Nel luglio del 1959, nel corso di una “sessione plenaria” dell’VIII Comitato Centrale del PCC tenutosi a Lushan, Peng lasciò circolare una lettera indirizzata a Mao dal significato inequivocabile, sebbene redatta secondo tutti i crismi del galateo “comunista”: «Nel 1958, la trasformazione dei centri rurali in Comuni, fu un fatto che ha rivestito un grandioso significato. […] Il Grande balzo in avanti del 1958 ha risolto il problema della disoccupazione. In un paese sovrappopolato come il nostro e con un’economia tanto arretrata, la rapida soluzione di questo problema non è cosa di poco conto e costituisce, anzi, un risultato considerevole. […] Nel movimento di mobilitazione delle masse per la produzione dell’acciaio, la moltiplicazione dei piccoli altiforni improvvisati, ha provocato uno spreco di risorse (materie prime, investimenti e mano d’opera), cosa che costituisce, naturalmente, una perdita non insignificante. […] Quando si tratta di prendere delle decisioni in materia di costruzione economica, nel complesso siamo ancora ben lontani dal possedere quella sicurezza che invece abbiamo in campo politico (si tratti, ad esempio, di bombardare Quemoy o di sedare l’insurrezione tibetana). Per quanto concerne, invece, i fattori obiettivi, il nostro paese è in uno stato di miseria (c’è ancora una parte della popolazione che non si nutre a sufficienza) e di arretramento tali, da determinare nella popolazione una pressante esigenza di rinnovamento . […] Secondo il modo di vedere di certi compagni, basterebbe dare “la priorità al politico”, per disporre della panacea universale. Ma la “priorità al politico” non può sostituire le leggi economiche e soprattutto le misure pratiche di attuazione degli impegni economici; al principio “precedenza al politico”, bisogna abbinare delle misure realmente efficaci di natura economica» [55]. Mao reagì alle critiche dicendo che «se l’esercito popolare di liberazione dovesse schierarsi dalla parte di Peng Dehuai [definito «scaltro», «ambizioso» e «ipocrita»], altro non mi resterebbe che ridarmi alla macchia». Il messaggio non ammetteva interpretazioni dubbiose.

A dimostrazione di quanto fosse ancora lontana la resa dei conti finale con Mao, evidentemente sottovalutato da non pochi notabili del PCC, l’attacco di Peng rimase isolato e lui stesso fu costretto a un’umiliante lettera di “autocritica” indirizzata a Mao, la cui lettura è davvero preziosa per chi intendesse farsi un’attendibile idea del clima ideologico che regnava nel PCC dell’epoca e, più in generale, della concezione “comunista” di quel Partito di stampo stalinista/orwelliano: «Signor Presidente, l’ottava sessione plenaria dell’VIII Comitato Centrale e la riunione allargata della Commissione militare, hanno per esteso esposto e denunciato i miei crimini; e così facendo, hanno eliminato una piaga, fomite di discordie all’interno del Partito. […] La denuncia storica e sistematica delle mie colpe, operata dal Partito, era assolutamente necessaria. Solo in questo modo era possibile farmi prendere realmente coscienza del carattere incredibilmente letale dei miei crimini e neutralizzare la loro esecrabile influenza nel Partito. […] In passato, sotto la diabolica influenza delle mie concezioni borghesi, avevo sempre considerato come altrettanti attacchi personali, le denunce sincere che avete avuto la bontà di formulare contro di me. Ho offeso il Partito, ho offeso il popolo ed ho offeso persino voi stesso. D’ora in poi dovrò applicarmi con gran fervore onde portare a termine l’esame approfondito delle mie colpe, e studiare con zelo la teoria marxista, in modo da emendarmi sotto il profilo ideologico» [56]. La cosa mi appare, al contempo, agghiacciante e farsesca. L’Inquisizione cattolica e il culto della personalità di stampo stalinista impallidiscono dinanzi a questa ideologia portata al parossismo. Ma i vertici di questa “deriva orwelliana” verranno toccati durante la cosiddetta Rivoluzione Culturale Proletaria (giugno 1966), la quale non fu mai né rivoluzionaria, né culturale, né proletaria. Già nel 1962 Mao avviò il suo contrattacco che sarebbe culminato nel 1966, con l’avvio appunto della “Rivoluzione Cultura”, alla fine della quale il Paese si ritrovò nuovamente sull’orlo della catastrofe economica e sociale.

«L’andamento economico complessivo dei primi 30 anni della Repubblica popolare cinese è stato piuttosto deludente, e ciò è vero in particolare per il settore agricolo. Ad eccezione degli anni immediatamente successivi alla liberazione, e del periodo 1952-57, in cui si registrò un certo progresso, i due decenni di vera e propria collettivizzazione (1957-77) non comportarono alcun miglioramento sostanziale. In questo periodo, la produzione agricola pro capite fu quasi stagnante. Il reddito pro capite derivante dalle attività collettive nelle zone rurali passò dai 57 yuan del 1957 a solo 65 nel 1977. Anche la produttività del lavoro aumentò molto poco. La produttività per lavoratore aumentò solo dell’1% durante il periodo 1852-77, ed ebbe un andamento negativo durante gli anni 1957-77 (-0,5% secondo la Banca Mondiale). Inoltre, la superficie coltivata diminuì da 112 milioni di ettari nel 1957 a 100 milioni di ettari nel 1977» [57].

[1] S. Amin, China 2013, Antiper, 16 marzo 2020.
[2] K. Marx, lettera alla redazione di Otiecestvennye Zapiski del novembre 1877, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale,  pp.155-158, Laterza, 1971.
[3] Vera Zasulič aveva scritto a Marx il 16 febbraio 1881: «Quale servizio Lei ci renderebbe, se ci dicesse la Sua opinione sul possibile destino della nostra comune rurale e sulla teoria secondo la quale tutti i paesi del mondo devono attraversare tutte le fasi della produzione capitalistica con necessità storica» (ivi, p. 164).
[4] Lettera di K. Marx a V. Zasulič dell’8 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere sul Capitale,  p. 165.
[5] K. Marx, F. Engels, Prefazione alla nuova edizione russa del Manifesto del partito comunista, Opere, VI, p. 663, Editori Riuniti, 1973.
[6] C. Musto, L’ultimo Marx, 1881-1883, p. 68, Donzelli, 2016.
[7] M. Sawer, Marxism and the Question of the Asiatic of Production, ivi.
[8] Mao Tse-tung, La nuova democrazia, 1940, in Scritti scelti, III, p. 177, Editori Riuniti, 1955.
[9] Scriveva Zinoviev nel 1927, proprio a proposito della rivoluzione cinese e in aspra polemica con la linea politica sostenuta da Stalin e Bucharin sulla “questione cinese”: «Tutti i movimenti nazional-rivoluzionari sono movimenti borghesi, come tutte le rivoluzioni contadine sono rivoluzioni borghesi, ma non viceversa» (G. Zinoviev, Tesi sulla rivoluzione cinese, in AA. VV. Cina 1927, p. 75, Iskra, 1977).
[10] «Quando l’uomo si parte di qui e va verso iscirocco quindici miglia, l’uomo truova una città ch’ha nome Sigui (Singiu): ma non è troppo grande, ma è di grande mercatanzia e di grande navilio. E sono del Gran Cane. La moneta hanno di carta. E sappiate ch’ell’è sul maggiore fiume del mondo, ch’è chiamato Quian (Chian). […] Questo fiume e questa città hanno molte navi, che sono del Gran Cane; è di grande rendita per la mercatanzia che v’ha molta, che va su e giù e quivi si riposa. E per molte città, che sono lungo quel fiume, vi va più mercatanzia che per tutti gli altri fiumi de’ cristiani, e più cara mercatanzia; e fu nel loro mare, ch’io vidi una volta quindicimila navi che trasportavano mercatanzia» (M. Polo, Il Milione, p. 191, Astra Editrice, 1956).
[11] Il trattato di Nanchino (1842), spezzava il monopolio commerciale di Canton e apriva al commercio ben cinque porti: Shamian, Xiamen, Fuzhou, Ningbo e Shanghai con il libero accesso ai prodotti delle province meridionali con basse tariffe doganali. Il commercio dell’oppio vene liberalizzato e, cosa fondamentale, venne regolarizzata anche la situazione diplomatica, in quanto fu stabilito che gli inglesi potessero risiedere nelle aree dei porti aperti e prendervi in affitto le terre e costruirvi. Fu imposto, inoltre, un pagamento di ben 21 milioni di dollari e per i danni di guerra e per risarcire i commercianti che avevano subito le confische di Lin Zexu. Infine fu ceduta in perpetuo agli inglesi l’isola di Hong Kong. In virtù della clausola della “nazione più favorita” veniva estesa alla Gran Bretagna qualunque privilegio concesso ad altra potenza. Si capisce perché le guerre dell’oppio esacerbarono fino al parossismo (e alla xenofobia) l’umiliato nazionalismo cinese .
[12] M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme: la piccola produzione di merci in Cina, 1842-1996, p. 39, FrancoAngeli, 1998 ).
[13] «Per oltre due secoli e mezzo, prima della Restaurazione del 1868, il Giappone visse sotto un regime chiamato comunemente lo shogunato dei Tokugawa. Il regime si costituì formalmente nel 1603, dopo la battaglia di Sekigahara (1600), nella quale la famiglia dei Tokugawa guidò alla vittoria una coalizione di signori feudali. […] In breve, nel periodo dei Tokugawa la conservazione del modo di produzione feudale si combinò con il rapido sviluppo del controllo borghese sull’accumulazione del capitale» (J. Halliday, Storia del Giappone contemporaneo, dal 1850 a oggi, pp. 4-12, Einaudi, 1979 ).
[14] E. Collotti Pischel, Introduzione a, M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 13.
[15] Già Engels parlava dello «Stato capitalista [come] l’ideale capitalista complessivo» (o collettivo): «Recentemente, da che Bismarck si è gettato alla statizzazione, si è presentato un certo falso socialismo, il quale ogni monopolio, anche quello di Bismarck, dichiarò senz’altro socialista. […] Lo Stato moderno, quale che sia la sua forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, lo Stato capitalista, l’ideale capitalista complessivo. Quanto più si appropria di forze produttive tanto più esso diventa realmente il capitalista generale, tanto più sfrutta i cittadini. I lavoratori restano operai salariati, proletari. La categoria del capitale non è abolita, ma è spinta al contrario al più alto grado» (F. Engels, La scienza sovvertita dal signor Eugenio Dühring, pp. 237-238, Avanti Edizioni, 1925).
[16] «La proprietà fondiaria diventa, al pari del capitale, un assegno su lavoro non pagato, su lavoro gratuito, […] che mette in grado il suo proprietario di strappare al capitalista una parte del lavoro non pagato. Ciò spiega la moderna rendita» (K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 190, Einaudi, 1955). «Il prezzo della terra non è altro che la rendita capitalizzata e quindi anticipata» (K. Marx, Il Capitale, III, p. 920, Editori Riuniti, 1980).
[17] «È sempre nel rapporto diretto tra i proprietari delle condizioni di produzione e i produttori diretti che noi troviamo l’intimo arcano, il fondamento nascosto di tutta la costruzione sociale e quindi anche della forma politica del rapporto di sovranità e dipendenza, in breve della forma specifica dello Stato in quel momento» (Ivi, p. 903).
[18] K. Marx, Il Capitale, III, pp. 713-714, Editori Riuniti, 1980.
[19] K. Marx, Storia delle teorie economiche, II, p. 192.
[20] La volgare convinzione che il socialismo equivalga sostanzialmente alla proprietà statale dei mezzi di produzione e al controllo statale di ogni tipo di attività economica (e non solo economica), all’interno del movimento operaio si è fatta strada assai precocemente, e ciò è testimoniato dal fatto che Marx ed Engels si videro costretti a prendere apertamente le distanze dal cosiddetto «socialismo di Stato» (di lassalliana memoria), criticandolo aspramente in quanto espressione di una concezione borghese (e/o piccolo borghese) che niente a che fare aveva con l’emancipazione del proletariato. «Definire “socialismo” le intromissioni dello Stato nella libera concorrenza – ovvero dazi protettivi, corporazioni, monopolio del tabacco, statalizzazioni di rami dell’industria, commercio marittimo, regia manifattura di porcellane – è una mera falsificazione voluta dalla borghesia di Manchester. Noi non dobbiamo credere a tutto ciò, ma criticarlo. Se ci crediamo e intorno a essa costruiamo una teoria, quest’ultima crollerà insieme alle sue premesse […] quando si dimostrerà che questo presunto socialismo non è altro che, da un lato, una reazione feudale e, dall’altro, un pretesto per estorcere denaro, con il secondo fine di trasformare il maggior numero possibile di proletari in funzionari e stipendiati dallo Stato, così da organizzare, a fianco dell’esercito disciplinato di funzionari e di militari, un analogo esercito di operai. Il suffragio obbligatorio imposto dai superiori statali invece che dai sorveglianti di fabbrica… che bel socialismo!» (Lettera di F. Engels a E. Bernstein, 12 marzo 1881, in Marx-Engels, Lettere 1880-1883, p. 60, Lotta Comunista, 2008).  «Secondo Marx, ad accomunare tutte queste figure di pseudo-socialisti vi era l’intento di “lasciare il lavoro salariato, e quindi anche la produzione capitalistica, volendo far credere a se stessi e al mondo che, con la trasformazione della rendita fondiaria in imposta pagata allo Stato, scompariranno automaticamente tutte le ingiustizie della produzione capitalistica”» (lettera di Marx a F. A. Sorge del 20 giugno 1881, in M. Musto, L’ultimo Marx, pp. 38-39).
[21] Ivi, p. 303.
[22] Per Marx «La terra si trova ad essere, senza contributo dell’uomo, l’oggetto generale del lavoro umano. […] La terra stessa è un mezzo di lavoro, eppure presuppone a sua volta, prima di poter servire come mezzo di lavoro nell’agricoltura, tutta una serie di altri mezzi di lavoro e uno sviluppo della forza lavorativa relativamente già elevato». Per Marx la terra è, di volta in volta, oggetto di lavoro, mezzo di lavoro, materia prima (carbone, petrolio, gas, ecc.), e così via.
[23] Su questa importante questione si può consultare il breve ma assai interessante saggio di Ludovico Silva Lo stile letterario di Marx (Bompiani, 1973).
[24] Introduzione a Opere di Mao Tse-tung, Vol. XIII, PDF, p. 2.
[25] La trasformazione capitalista della Cina rurale: prove del “cambiamento agricolo nella Cina contemporanea”, Chuang, 18 agosto 2015. Mi scuso per la traduzione “non impeccabile” dall’inglese. «Ai comunisti di oggi, tra i quali siamo inclusi, la pratica, la strategia e la teoria del PCC (così come altri all’interno di questa corrente comunista storica) sembrano nella migliore delle ipotesi aliene e, nella peggiore delle ipotesi, disgustose. Nonostante i duri limiti materiali del tempo, possiamo dire chiaramente che molte azioni del PCC sono semplicemente ingiustificabili. Altre sono arcane o incomprensibilmente troppo fiduciose. Ma questo tipo di giudizi di valore ha poca funzionalità analitica. Numerosi resoconti sono già stati scritti su quella realtà descrivendola in termini di “falsi” comunisti che tradiscono quelli “veri”, o semplicemente come il prodotto di leader zelanti e avidi. La storia che esaminiamo non è una storia morale. Per il nostro approccio materialista, le domande di tradimento o rettitudine hanno solo il minimo di rilevanza. Il progetto comunista cinese era un fenomeno collettivo, creato dallo sforzo e dal sostegno di milioni di persone. Tentiamo di scrivere una storia di questo progetto collettivo e della sua fine definitiva» (Chuang). Anch’io non ne faccio una questione di rettitudine morale o di coerenza ideologica, ma di dinamica sociale, di interessi materiali, di lotta di classe; solo che per il mio “approccio materialista”  il PCC, da Mao in poi, non ha avuto nulla a che fare con il comunismo. Salvo che per «corrente comunista storica» non si intenda lo stalinismo internazionale, del quale infatti il “comunismo” maoista fu la traduzione cinese.
[26] Per Marx si può parlare di capitalismo nell’accezione moderna del concetto solo con l’uso metodico e sempre più diffuso della scienza e della tecnologia – una distinzione peraltro molto relativa e anzi sempre più evanescente – nel processo allargato della produzione. È questa rivoluzione tecnoscientifica che, sempre secondo Marx, segna il passaggio dalla «sottomissione formale del lavoro al capitale» (caratterizzata dall’estorsione di plusvalore assoluto) a quella «reale» (caratterizzata dall’estorsione di plusvalore relativo): «Nel caso della sottomissione reale del lavoro al capitale, […] si sviluppano le forze produttive sociali del lavoro e, con il lavoro su grande scale, si sviluppa l’applicazione di scienza e macchina nel processo di produzione immediato» (K. Marx, Il Capitale, capitolo VI inedito, p. 63, Newton, 1976).
[27] Chuang, http://chuangcn.org/2015/08/jac-review
[28] Mao Tse-tung, Discorso alla conferenza suprema dì Stato, 25 gennaio 1956, da Il libro delle guardie rosse, p. 5, PDF.
[29] K. Marx, Il Capitale, III, pp. 303-313, Editori Riuniti, 1980.
[30] La privatizzazione delle terre in Cina, China Left Review, 2008.
[31] M. G. Longo, Contadini, mercati e riforme: la piccola produzione di merci in Cina, p. 120.
[32] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, 14 luglio 1920, Opere, XXXI, p. 164, Editori Riuniti, 1967. Come fece notare con ironia Zinoviev nel 1927, l’Internazionale Comunista tendeva a presentare al movimento operaio internazionale il Kuomintang come la Comune cinese, degna erede della Comune di Parigi. «L’organo dei comunisti tedeschi, la “Rote Fahne”, il 17 marzo 1927 ha pubblicato una foto di Chiang Kai-shek presentandolo come il capo degli operai rivoluzionari in Cina, senza spiegare agli operai tedeschi chi sia veramente Chiang Kai-shek» (G. Zinoviev, Tesi sulla rivoluzione cinese, p. 112).
[33] «In Unione Sovietica coloro che un tempo avevano portato alle stelle Stalin, ora di colpo lo hanno cacciato nell’inferno. Da noi c’è gente che segue le loro orme. Il Comitato centrale del nostro partito sostiene che gli errori di Stalin ammontino solo al 30 per cento del totale e i suoi meriti al 70 per cento e che tutto sommato Stalin resta un grande marxista» (Mao Tse-tung, Sui dieci grandi rapporti, 25 aprile 1956, Opere, XIII, p. 154). Chi sono io per mettere in discussione le percentuali date a suo tempo dal Comitato centrale del PCC?
[34] Se uno legge senza alcun pregiudizio politico-ideologico gli scritti di Mao, si rende conto che la sua “dialettica” non supera il livello della logica più elementare, del tipo: dal male può nascere il bene, la sconfitta di oggi può porre le basi per una vittoria futura, «ciò che è grande è destinato a essere rovesciato da ciò che è piccolo, ciò che è piccolo diventerà grande», e altre simili perle “dialettiche”; ed è davvero incredibile come non pochi intellettuali occidentali avvezzi alla profondità del pensiero dialettico di un Hegel, tanto per fare un esempio, per tacere di quello materialistico-dialettico di un Marx, si siano invaghiti degli scritti del Grande Timoniere.
[35] Sun Yat-sen, Testamento, marzo 1925, in E. Collotti Pischel, Le origini ideologiche della rivoluzione cinese,  p. 117, Einaudi, 1979.
[36] Mao Tse-tung, In memoria del Dottor Sun Yat-sen, 12 novembre 1956, Opere, Vol. XIII, p. 214.
[37] Il partito rivoluzionario nazionale-borghese fondato da Sun Yat-sen (1866-1925). Il Kuomintang nasce formalmente nel 1912 ma diventa attivo come effettivo Partito/Fronte rivoluzionario a partire dal suo Primo Congresso nazionale del 1923. Nel 1923, su consiglio di Sun Yat-sen, Chiang Kai-shek arrivò a Mosca, per studiare l’arte militare occidentale e le istituzioni politiche del Paese. Al suo ritorno dall’URSS, Sun e Chiang riorganizzarono il Kuomintang. Nel 1925, alla morte di Sun, Chiang fu il leader del Kuomintang e capo dell’esercito.
[38] Per Trotsky, Zinoviev, Vujovič e per gli altri oppositori della linea stalinista si trattava in primo luogo di salvaguardare appunto l’autonomia politica, organizzativa e psicologica del proletariato cinese, ma anche di radicalizzare la rivoluzione nazionale-borghese in alleanza con i contadini poveri per strappare quanti più diritti e quanta più agibilità politica fosse possibile, in modo da arrivare alla Repubblica borghese in una posizione di autonomia e di forza. Questa politica avrebbe saggiato la vocazione autenticamente di classe del partito comunista, il quale quando agisce in un Paese capitalisticamente arretrato deve assumere la strategia della “doppia rivoluzione” come una seconda pelle, una seconda natura, come un “istinto naturale”, e ciò a prescindere dalla sua reale praticabilità nella contingenza. D’altra parte, quel soggetto non deve escludere in linea di principio che si possano creare situazioni idonee al perseguimento di quella strategia, e deve agire di conseguenza, senza naturalmente scivolare nel volontarismo e nelle forzature irrealistiche di stampo ideologico, e sempre con gli occhi spalancati sul movimento operaio internazionale di cui è parte.
[39] La tregua conclusa fra le due parti nel gennaio del 1946 già nell’aprile dello stesso anno venne rotta, e nel 1948 l’esercito contadino rivoluzionario guidato da Mao conquistò la Manciuria e tutta la Cina settentrionale. Il 15 gennaio 1949 le forze rivoluzionarie occuparono Pechino, il 20 aprile attraversarono lo Yang Tse e occuparono Nanchino, shanghai e, il 12 ottobre, Canton.
[40] C. Reeve, La Tigre di carta, p. 51, La Fiaccola, 1974.
[41] C. Reeve, La Tigre di carta, pp. 52-53.
[42] «La teoria di Marx, Engels, Lenin e Stalin ha un valore universale. Non va considerata come un dogma, ma come una guida per l’azione. Non bisogna accontentarsi di imparare la terminologia e la fraseologia marxista-leninista, ma studiare il marxismo-leninismo in quanto scienza della rivoluzione» (Mao Tse-tung, Il ruolo del Partito Comunista cinese nella guerra nazionale ottobre 1938,  da Il libro delle guardie rosse, p. 55). Della rivoluzione nazionale-borghese, mi permetto di aggiungere; una pratica rivoluzionaria propagandata con una terminologia e fraseologia prese in prestito dallo stalinismo – o “marxismo-leninismo” che dir si voglia. Com’è noto, alla quaterna «Marx, Engels, Lenin e Stalin» si aggiunse proprio il nome del Caro Leader cinese, del Grande e Celeste Timoniere. Ancora Mao: «Vorrei dire qualcosa sul ventesimo Congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Secondo me ci sono due spade: una è Lenin, l’altra è Stalin. Adesso i russi hanno gettato via quella spada che è Stalin. I partiti comunisti di diversi paesi europei criticano anche loro l’Unione Sovietica e il cosiddetto stalinismo. Il loro leader è Togliatti. […] Noi non abbiamo fatto come certuni che hanno cercato di screditare e distruggere Stalin, abbiamo agito in base alla situazione reale» (Discorso alla Seconda sessione plenaria del CC del PCC, 15 novembre 1956, Opere di Mao Tse-tung, Vol. XIII, p. 217).  Mao ebbe indubbiamente ragione a prendersela con Togliatti, un tempo giustamente definito il Migliore degli stalinisti, il quale da perfetto opportunista con caratteristiche italiane passò subito sul carro del nuovo padrone dell’Unione Sovietica. Tuttavia anche lui agì «in base alla situazione reale».
[43] «Dobbiamo impedire ad un revisionismo alla Kruscev di manifestarsi in Cina. […] Insomma, la questione è d’importanza estrema, è una questione di vita o di morte per il nostro Partito e per il nostro Stato. E interessa la causa rivoluzionaria del proletariato per un periodo di cento, mille o diecimila anni [nientedimeno!]. I cambiamenti avvenuti nell’Unione Sovietica hanno indotto i profeti imperialisti a riporre le loro speranze di “evoluzione pacifica” nella terza o quarta generazione del Partito cinese. Dobbiamo far risultare menzognera questa profezia imperialista. Le nostre organizzazioni, ovunque, dai gradi superiori a quelli inferiori, debbono dedicare un’ininterrotta attenzione all’educazione e alla formazione dei continuatori della causa rivoluzionaria. Quali sono le condizioni richieste per essere degni continuatori della causa rivoluzionaria del proletariato? Debbono essere autentici marxisti-leninisti e non, come Kruscev, revisionisti che si fanno belli con le penne del marxismo-leninismo. Debbono essere rivoluzionari che si dedicano corpo ed anima al servizio della schiacciante maggioranza della popolazione della Cina e del mondo, e non agire come Kruscev che serve gli interessi di un pugno di persone, il ceto borghese privilegiato del suo paese, oltreché gli interessi degli imperialisti e dei reazionari del mondo intero» (Mao Tse-tung, Lo pseudo-comunismo di Kruscev e le lezioni storiche che esso impartisce al mondo (14 luglio1964), Il Libro delle guardie rosse, p. 51). Tutta fuffa ideologica, peraltro molto apprezzata dagli intellettuali occidentali delusi da Mosca, intesa a sostenere la battaglia maoista contro gli interessi russi e contro la forte fazione filosovietica interna al PCC.
[44] «Per quanto riguarda il problema dell’agricoltura, l’esperienza di alcuni paesi socialisti dimostra che, dopo la collettivizzazione dell’agricoltura, se non si procede in modo giusto non si riesce lo stesso ad aumentare la produzione; lo stesso succede dopo la meccanizzazione. Il motivo fondamentale per cui alcuni paesi non riescono ad aumentare la produzione agricola sta nei difetti della politica adottata dallo Stato verso i contadini: la politica fiscale assegna oneri troppo pesanti ai contadini; per quanto riguarda i prezzi, i prodotti agricoli sono troppo a buon mercato e quelli industriali troppo cari. Per sviluppare l’industria, e specialmente l’industria pesante, dobbiamo attribuire un posto adeguato all’agricoltura e adottare una giusta politica per l’imposta agraria e per i prezzi dei prodotti industriali» (Mao Tse-tung, Sui dieci grandi rapporti, 25 aprile 1956, Opere, XIII, p. 157).
[45] «Un secondo aspetto che caratterizzò l’indirizzo del “Grande balzo”, è costituito dal suo rifiuto del mondo esterno, della modernità; la sua aspirazione a reintrodurre i costumi della vecchia provincia cinese autarchica, quella terra antica di cui lo stesso Mao era un puro prodotto. […] È in questo universo, antico e chiuso, che Mao si sente completamente a suo agio; è lì che si è svolta tutta la parte più brillante della sua carriera; lì non conosce rivali, l’intuizione soggettiva del suo genio coincidendo naturalmente con l’oggettività del reale. Ma questo stesso radicamento psicologico nel provincialismo della vecchia Cina, se aveva costituito il suo punto di forza prima del 1949, doveva rivelarsi il suo handicap dopo quella data. Tutto ciò è stato messo in luce dalla crisi dei “Cento fiori” [1956]» (S. Leys, Gli abiti nuovi del presidente Mao, p. 22, Ed. Antistato, 1977).
[46] E. Collotti Pischel, Introduzione a M. G. Longo, Contadini, mercati e riforme: la piccola produzione di merci in Cina (1842-1996), p. 20.
[47] F. Lemoine, L’economia cinese”, Il Mulino, 2005.
[48] «Una delle parole d’ordine durante il Grande Balzo in Avanti fu quello di dare priorità alla quantità a scapito della qualità» (M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 112).
[49] Ivi, pp. 126-130.
[50] Ivi, pp. 113-119.
[51] Red Dust, Chuang.
[52] M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 40.
[53] Ivi, pp. 135-136.
[54] C. Reeve, La Tigre di carta, pp. 64-65.
[55] Lettera aperta di Peng Dehuai a Mao Tse-tung, in S. Leys, Gli abiti nuovi del Presidente Mao, pp. 289-292.
[56] Ivi, p. 294.
[57] M. Giura Longo, Contadini, mercati e riforme…, p. 126.

 

SOCIAL CONTAGION

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro-insurrezione (Chuang).

 

Con “colpevole” ritardo ho letto e oggi pubblico uno scritto (Social Contagion) apparso il 27 febbraio sulla rivista Chuang, una rivista indirizzata a coloro che «vogliono superare i vincoli dell’attuale mattatoio chiamato capitalismo». Trovo molto interessante questo testo, nonostante io sia per diversi e rilevanti aspetti distante dalla concezione “dottrinaria” che lo ispira, e che informa, se ho ben compreso, l’indirizzo politico di fondo della rivista di cui sopra (*). Un solo esempio: «I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato». Come sa chi conosce questo Blog, io nego la natura socialista della Cina, da Mao a Xi. Ciò che Chuang chiama socialismo, io lo chiamo capitalismo di Stato “con caratteristiche cinesi”. Ma ci sarà modo di riprendere la questione. Intanto auguro una buona lettura ai lettori e mi scuso per l’imperfetta traduzione del testo.

 

Le fornaci

Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Sembra che le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.

A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in particolare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering e il disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina, e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.

Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nonostante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist». Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insabbiamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime.

Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisamente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza? Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali riflessioni sullo stato attuale della società cinese.

Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mostrando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana. Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.

L’origine delle pestilenze

Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.

L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroalimentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola (1). Queste epidemie possono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la seconda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo. I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamentate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socioecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali (2).

Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre. Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.

Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» (3). Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi: «Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza (4).

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’aumento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.

Storia ed eziologia

Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili precapitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi, vediamo i primi casi di queste piaghe squisitamente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa.

Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus. Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applicazione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un precipizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.

Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna.

Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetsè che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa (5). E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratteristiche.

Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro delle prime iniziative riformiste liberal-progressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per denunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccupandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi. Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevoli per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo.

Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [6]. In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali.

Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra furono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applicazione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione della produzione agricola, sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia: vedi Furore, 1939, di John Steinbeck], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma.

Se, le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.

Gilded Age

Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra tutta la popolazione cinese. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali, destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al consumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age.

Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melanina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH [virus del papilloma umano]. Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.

Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista5, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.

Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie] risultano residenti permanenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.

Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statunitensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.

Non c’è più la natura selvaggia

Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?

La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epidemia. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici.

In altri casi, le catene di valore agro-ecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano. Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accumulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli ambienti, che «possono aumentare le connessioni tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus maggiori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».

Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi precapitalistici e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causalità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambientale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia, in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo, al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contemporanei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso possiamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore.

L’isolamento come esercizio dell’arte di governo

A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesantemente su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.

Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi generalizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti ). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del governo cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare.

La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini. In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di persone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la quarantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.

Incapacità

Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus12, scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.

Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.

A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni economiche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impossibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile, questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1° marzo è stata stabilita come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.

Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabilmente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.

Una guerra surreale

Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la profonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costruzione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre province – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.

In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.

 

(*) Si tratta di un blog di ricercatori cinesi all’estero. «Chuang è un collettivo di comunisti che considera la “questione della Cina” di importanza centrale per le contraddizioni del sistema economico mondiale e le potenzialità per il suo superamento. Il nostro obiettivo è formulare un corpus di teoria chiara in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. […] Speriamo di vedere la Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è iniziare con un’indagine sulla creazione della “Cina” in quanto tale. Qui, la nostra storia non inizia con una storia presumibilmente antica, né inizia con il romanticismo del progetto rivoluzionario cinese, alternativamente glorificato e demonizzato da quelli di sinistra». Chi scrive, che di “sinistra” non è mai stato, non ha né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”. Se ho ben compreso, secondo Chuang si può parlare di un «progetto comunista» praticato in Cina «durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50: «Durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50, ci riferiamo a questo processo come a un “progetto comunista”. Questo progetto è stato incredibilmente vario durante la sua esistenza ed è stato sempre definito dal suo status di movimento di massa con profonde radici nella popolazione. All’inizio, il suo fondamento teorico e la direzione strategica erano prevalentemente quelli dei comunisti anarchici. Nel tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbe guadagnato l’egemonia, ma ciò significava anche che il PCC stesso assorbiva parte dell’eterogeneità del movimento, che avrebbe assunto la forma di fazioni (e purghe) all’interno del Partito stesso. Questa egemonia non è stata imposta al progetto, tuttavia. Era il risultato di un mandato popolare conferito al PCC, che era stato parte integrante della formazione di un esercito contadino di successo e di un movimento di lavoratori sotterranei durante l’occupazione giapponese. Il PCC mantenne la sua egemonia del progetto comunista nei primi anni del dopoguerra dirigendo campagne di ridistribuzione popolare nelle campagne e ricostruendo le città. Con i fallimenti della fine degli anni ‘50 (carestia nel paese e scioperi nelle città costiere), non solo fu messo in discussione il mandato popolare del PCC, ma il progetto comunista stesso iniziò a ossificarsi. Quando la partecipazione popolare è evaporata in risposta a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si è ridotto ai suoi mezzi: il regime di sviluppo. Questo regime stesso poteva essere mantenuto solo dal sempre più ampio intervento del Partito, che li fondeva entrambi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico di fatto) e ne spezzava il legame con il progetto comunista». Qui mi limito a rinviare i lettori ai miei scritti sulla Cina: TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO); SULLA CAMPAGNA CINESE; ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE; DA MAO ZEDONG A XI JINPING. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi

(1) Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Robert G. Wallace. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
(2) R. G. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, New York, 2016. P. 52.
(3) Ibid, p. 56.
(4) Ibid, pp. 56-57.
(5) Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
(6) Vedi: JF. Brundage, GD Shanks, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections L’importanza delle infezioni batteriche secondary, The Journal of Infectious Diseases, Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719.