TANTO PEGGIO PER MARX!

Ma volete lasciarmi in pace!

Un gentile lettore mi scrive: «Mi piacerebbe che Sebastiano Isaia, implacabile critico dello stalinismo, maoismo, castrismo, etc., potesse descriverci almeno qualche squarcio del “vero comunismo”. Lo hai fatto? Lo farai, Sebastiano? Con stima, ti saluto». Di qui, quanto segue.

Carissimo, intanto ti ringrazio per l’attenzione e per la stima. Detto questo, non è che qualche frammento del famigerato muro è finito anche dalle tue parti? Nel caso, me ne dispiaccio. Ma tu puoi sempre rinfacciarmi il fatto che a pensarla come te sono tantissimi (un intero popolo, quello di sinistra), mentre a pensarla come me… Lasciamo perdere, nevvero? Ora, dal mio infinitamente piccolo e ultra minoritario presidio, io non debbo descriverti proprio nulla, anche perché, almeno in questo simile a Marx, non frequento le bettole nelle quali, tra un sorso di pessimo vino e l’altro, si mettono a punto arditi progetti futuristici. Piuttosto ti chiedo: ti convince di più il mio cosiddetto “punto di vista umano”, che elaboro attraverso i miei modestissimi scritti, ovvero il Comunismo (nota: senza virgolette!) che forse hai appreso alla scuola di Stalin, Togliatti, Mao, Castro, Guevara e compagnia cantando? Scegli! Sei indeciso? Continua a seguirmi.

Ma sì, andate tutti a quel paese!

Se vuoi sapere qualcosa del Comunismo marxiano, non hai che da leggere Marx. Lo hai già fatto, e quello che hai letto ti sembra coerente con il «Socialismo Reale», dalla Russia stalinista alla Cuba castrista, passando per la Cina maoista? Non c’è problema. Dalle mie parti si dice: «la vita è bella perché è varia!» Hai capito, sempre leggendo l’ubriacone di Treviri, che il torto sta dalla mia parte e la ragione da quella dei marxisti che con tanta goduria, ma forse con poca ragione, prendo di mira? Benissimo! Ti prendo sul serio, e dico: mi tengo il mio torto e tanto peggio per Marx!

Ciò non m’impedisce – e se non lo scrivessi non sarei “intellettualmente onesto” almeno con me stesso – di continuare a pensare che ai marxisti (nuovamente senza virgolette!) il Capitale dovrebbe costruire una statua d’oro, per i servigi che hanno reso all’opera di distruzione della stessa idea di emancipazione del proletariato. Dimostrami piuttosto che non ho ragione!

Attenzione: io NON SONO comunista!

Ho scritto che la Rivoluzione d’Ottobre è stata sconfitta già negli anni Venti (altro che muro di Berlino!), che le rivoluzioni in Cina e a Cuba sono state di natura contadino-borghese (perché, come scriveva Lenin, la campagna sviluppa spontaneamente e necessariamente rapporti sociali capitalistici). E ho scritto, in riferimento ai regimi nati da quei processi sociali tutt’altro che disprezzabili (a patto che se ne comprenda la vera natura storico-sociale), che non basta sventolare bandiere rosse, cantare l’Internazionale e proclamarsi comunisti per essere davvero tali. Non ti ho convinto? Continua a seguirmi, può darsi che al prossimo giro sarò più efficace. Viceversa, la vita è bella perché è varia!

«DESTRA» O «SINISTRA»? SOTTO. MOLTO SOTTO!

Dopo aver letto il mio post sull’ultradecennale politica collaborazionista della Cgil, un amico su Facebook mi ha scritto quanto segue:

«Non sono proprio sicuro che si possa liquidare 50 di storia del movimento operaio nel modo descritto nell’articolo. Non ci trovo niente di nuovo, né di proficuo, nell’attaccare “da sinistra” il PCI, il sindacato, Togliatti etc.».

Ecco la mia risposta, che pubblico anche sul Blog per far comprendere meglio il mio punto di vista sulla «sinistra» italiana:

Una storia abbastanza oscura

Non ho inteso «liquidare 50 anni di storia del movimento operaio», nel senso che ciò che tu definisci Movimento Operaio io l’ho sempre (almeno dal 1978: sì, sono “diversamente giovane”…) considerato parte integrante della storia e della prassi capitalistica, non anticapitalistica. In questo senso è sbagliato dire che faccio una critica «”da sinistra”», con o senza le virgolette. Se vogliamo usare vecchi ma ancora fecondi concetti (basta non usarli ideologicamente o per sentito dire, e men che meno «a pappagallo»), diciamo che la mia critica è «di classe», ossia elaborata a partire dal punto di vista critico-radicale che inchioda tanto la «sinistra», quanto la «destra» borghese – nell’accezione storico-critica, non sociologica, del termine.

D’altra parte, definire di «sinistra» (sempre borghese) l’azione politica del PCI da Togliatti in poi (senza ovviamente dimenticare l’adesione di Gramsci al nuovo corso stalinista(*): «la verità è rivoluzionaria», diceva Quello, prima di finire mummificato), anche su questo si possono esprimere seri e fondati dubbi. Basta pensare alla vera e propria idolatria statalista del togliattismo (versione italica dello stalinismo, come il maoismo lo fu per quella cinese), che lo rendeva più simile al Fascismo che alla tradizione “libertaria” del riformismo. Non a caso molti ex militanti e dirigenti fascistissimi finiranno, dopo aver sostituito la camicia nera con quella rossa, il teschio sepolcrale con la falce e martello (a dimostrazione che l’abito non fa il monaco), nel PCI, sentendosi perfettamente a casa loro, mentre pochissimi prenderanno la strada che portava al PSI. E non a caso molti militanti di «sinistra» oggi simpatizzano per Tonino “Manette” di Pietro e per il Fascio Quotidiano. Che dire poi, di quotidiani che si dicono «Comunisti» (vedi Il Manifesto e Liberazione), e che implorano lo Stato Capitalistico (Carletto Marx, non ridere!) di salvarli dal fallimento editoriale? Il defunto Montanelli parlava di Togliatti nei termini di un «rivoluzionario parastatale»: ecco, appunto! Di qui peraltro si evince la maggiore intelligenza storico-politica degli esponenti della «destra» borghese, i quali almeno non hanno mai preteso di parlare in nome del «Comunismo» e del «Movimento Operaio».

Ecco perché da tempo non mi definisco più «comunista» o «marxista»: per non collaborare anch’io all’inflazione di parole svilite, corrotte e private del loro autentico significato fino al parossismo (in Cina non c’è  forse il «Socialismo di Mercato»? e nella Corea del Nord non c’è «l’ultima dittatura comunista»? e Marco Rizzo non è «il più comunista degli italiani»?). Ho preso le distanze dal nome della cosa per meglio capirne e sviscerarne il concetto: per questo forse troverai strana o ambigua, o calata da un altro pianeta, questa mia riflessione. E non a torto. Infatti, rispetto alla «Sinistra», anche a quella più «estrema», sono un vero e proprio Alieno. Se mi vuoi far visita, mi trovi nella prospettiva chiamata PUNTO DI VISTA UMANO. Non cercarmi né a «sinistra» né a «destra», ma in basso, molto in profondità. Lì mi troverai, intento a rosicchiare le radici del Dominio Sociale Capitalistico. Non riuscirò a spezzarle, è chiaro; ma che goduria provarci!

***

NOTA:

(*) Difficile, se non impossibile, rintracciare anche solo un barlume di verità nella storiografia ufficiale scritta dagli intellettuali «organici» al PCI. Come scriveva Angelo Tasca, «Gli storici del partito non si lasciano scappare una verità neanche per sbaglio» (I primi dieci anni del PCI, p. 131, Laterza, 1971). Per quanto riguarda Gramsci, ecco cosa scriveva il gramsciano Paolo Spriano nella sua “classica” opera sulla storia del PCI: «L’unico riferimento a Stalin che contengano i quaderni suona appoggio di massima per lui nella controversia con Trockij. Sostanzialmente né in questi anni né dopo emerge un dissenso di Gramsci dagli orientamenti o meglio dallo sviluppo storico del movimento comunista quale concretamente si manifesta in URSS e nell’internazionale, qualcosa che muti la scelta di fondo a favore della maggioranza del PCI russo operata nel 1926» (Storia del PCI,IV, p. 275, L’Unità Einaudi ed., 1990).  Certo, se poi si vuol dire che il leader sardo si compromise con lo stalinismo meno di Togliatti, si può sostenerlo, a patto che non si dimentichi che il primo si trovò nelle patrie galere fin da 1926, e il secondo a Mosca, alle dirette dipendenze di Baffone, che ne fece un «comunista» più realista del re, più stalinista di Stalin. Non pochi comunisti italiani scappati in Russia negli anni Venti, e refrattari allo stalinismo trionfante, ne faranno la dura esperienza. Nei gulag siberiani, per lo più. Passare dalla mitologia alla storia significa mettersi nelle condizioni di comprendere meglio il presente.

OMSA, CHE STATALISTI!

Tre brevi esempi di statalismo conclamato per chiudere in bellezza – si fa per dire – l’anno dello Spread.

Dio, com’è noto, non esiste. Odifreddi, purtroppo, sì.

Matematica impotenza

Ieri mattina (ore 6) ho visto la simpatica faccia del famoso matematico italiano Piergiorgio Odifreddi comparire al TG3 dopo l’intervento di Enrico Cisnetto. Della seria: sentiamo le due campane (liberale e progressista) su come venire fuori dalla crisi. La campana statalista ha prima stigmatizzato Obama e la BCE, rei di aver salvato il Sistema Finanziario a suon di trilioni di dollari e di euro; e poi ha concluso con un capolavoro concettuale di matematica limpidezza, questo: «Le banche private non vanno salvate col denaro pubblico, ma nazionalizzate. Lo Stato in fondo esiste per difendere i deboli». Ho sempre pensato che la comprensione del meccanismo sociale non sia un fatto di intelligenza o, men che meno, di scienza, ma piuttosto di coscienza («di classe»). Si può benissimo essere geni della matematica o della fisica, persino capaci di dare scacco macco a Dio attraverso formule ed esperimenti, e tuttavia rimanere, sul piano dell’interpretazione della prassi sociale, degli emeriti indigenti, bambini che ancora credono alle favole raccontate dai grandi. «C’era una volta il Leviatano. Non era un mostro, come lo stolto pensava, ma una dolce creatura che difendeva i più deboli». La società è una questione troppo seria per lasciarne l’interpretazione e la trasformazione agli scienziati. Prima i «più deboli» lo capiranno, e prima essi avranno la possibilità di aprire gli occhi sul mondo.

«Qui giace Palmiro Togliatti, impiegato modello di rivoluzioni parastatali» (Indro Montanelli).

“Comunisti” parastatali

Il giornale “Comunista” Liberazione rischia la chiusura, sia perché vende pochissime copie, sia perché il Governo ha dato un taglio alle sovvenzioni della stampa e dell’editoria. Ci sono anche magagne interne al suo editore di riferimento (Rifondazione Statalista), ma su questo sorvolo. Naturalmente la mia solidarietà ai lavoratori di Liberazione è, come si dice in questi casi, incondizionata. Non voglio sollevare una questione sindacale, né un problema immediatamente politico, quanto piuttosto porre in rilievo la seguente “problematica” filosofica: quanto grande può essere l’abisso che separa la Cosa dal suo Nome? Infatti, come può un Soggetto Comunista appellarsi allo Stato Capitalista affinché dal Pubblico Tesoro gli arrivino i vitali capitali? Non può, è ovvio. È una domanda puramente retorica che mi ha fatto venire in mente le parole di Winston: «Se egli crede davvero di sollevarsi dal pavimento, e io, nello stesso tempo, credo di vedere che lo fa, allora la cosa succede» (G. Orwell, 1984). Poste alcune ideologiche condizioni, 2 + 2 può dare 5. Gli stalinisti ne sanno qualcosa!

A Winston i conti non tornano mai!

Statalismo di fine stagione

Leggo sul Manifesto di oggi: «Licenziamento collettivo per le 240 lavoratrici della Omsa, storico marchio italiano delle calze, malgrado gli accordi per riconvertire la produzione ed evitare la delocalizzazione. Vittime, più che della crisi, della sete di ulteriori profitti». I “comunisti” del Manifesto rimproverano a Mario Monti di non essersi posto il problema di come mettere al riparo dalla crisi e dalla sete snodata di profitti l’economia e la cultura industriale del Paese. Anche qui il Leviatano è presentato all’opinione pubblica nazionale alla stregua del cane da guardia degli interessi dei più deboli. Anche qui s’invita a credere che 2 + 2 = 5. Occhio alle gambe, gente: il Cane morde! E ingoia pure le calze…

SOTTO IL PELO DELL’ACQUA

Nella sua interessante inchiesta (pubblicata dall’Internazionale, 23/29 Dicembre 2011), Die Zeit parla di «Fine del Capitalismo». Ai tedeschi è sempre piaciuto scherzare con la catastrofe, forse per esorcizzarne la perenne imminenza – e immanenza. Nel 1930 Ferdinand Fried (pseudonimo di Ferdinand Friedrich Zimmermann, futuro programmatore economico del Nazismo) pubblicava La fine del capitalismo, e individuava nella «Filosofia del denaro» la causa del pervertimento economico ed etico che aveva portato la società capitalistica al tramonto. «Il ricco, l’uomo che ha molto denaro, sogna un paradiso della rendita fissa garantita; il povero invece, trova, come disse Max Weber, “la sua posticcia felicità nel grande emporio di merce» (La fine del capitalismo, p. 50, Bompiani, 1932). Fried si fece sostenitore del ritorno all’artigianato, perché «l’artigiano imprenditore produce una merce con amore e abnegazione», mentre il capitalista fa parlare solo il prezzo e insegue ossessivamente il profitto, prescindendo da qualsivoglia considerazione. L’artigiano «cerca di soddisfare un bisogno esistente», il capitalista «lavora lusingando le cupidigie che sonnecchiano nell’uomo». Naturalmente l’«americanismo», concetto equivalente a quello oggi di gran moda di «liberismo selvaggio», venne additato dall’intellettuale tedesco come il paradigma del nuovo capitalismo senz’anima e senza umanità che aveva portato la Civiltà Occidentale al disastro della Crisi di tutti i valori, non solo di quelli azionari.

Lo stesso anno John Maynard Keynes scriveva Prospettive per i nostri nipoti, un breve saggio “visionario” nel quale tra l’altro si legge quanto segue: «L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali» (tratto da La fine del “laissez faire” e altri scritti economico-politici, Bollati Boringhieri, 1991). In poche parole, uno dei maggiori esponenti della Scienza Economica individuava nel denaro un mero strumento al servizio dei «piaceri della vita», e non l’espressione più alta e peculiare dei rapporti sociali capitalistici, basati su quello sfruttamento del lavoro sociale da parte del Capitale che appunto nella forma denaro trova la sua naturale cristallizzazione. A ragione Marx individuò nel denaro come equivalente universale delle merci (e quindi come espressione-rappresentante del lavoro sociale astratto), nel denaro che tutto misura e che tutto compra, la quintessenza del feticismo (vedi La Cosa ha il Diavolo in corpo! e Denaro-Denaro-Denaro: feticismo al cubo).

Nelle Prospettive Keynes si augurava che, nel momento in cui «i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua», l’economia venisse sottratta alla cura di gente impreparata per diventare «un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso». Molto tempo è passato dalle previsioni dell’economista inglese, e la reputazione degli economisti presso l’opinione pubblica mondiale non è mai stata di così infimo conio. Solo il pensiero che essi possano mettere davvero le mani sulle leve del comando fa venire il mal di denti. Come ho più volte scritto su questo Blog, dove esiste il Denaro – forma suprema del Capitale – non può esistere l’Uomo, e viceversa. Si tratta, a mio avviso, di portare al potere «i piaceri della vita», e configurare l’intera esistenza umana (a partire dalla prassi economica) sulla base dei bisogni umanizzati. Certo, se uno pensa, con Keynes, «che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no», le mie Prospettive devono necessariamente apparire assurde.

Ottant’anni sono trascorsi dagli anni più bui della grande depressione seguita al crack del ’29, eppure il dibattito sull’attuale crisi economica internazionale sembra avvitarsi intorno agli stilemi concettuali appena richiamati. La prosa si è fatta più sofisticata e apparentemente meno intrisa di ideologia, ma al fondo i concetti masticati son sempre quelli, e la crisi viene spiega soprattutto tirando in ballo magagne rintracciate al di là del meccanismo dell’accumulazione. I mercati, scrive ad esempio Die Zeit, sono stati saturati dal crescente consumo finanziato col debito. Vero. Ma questa è solo una parte del discorso, è solo un pezzo della filiera del profitto e della crisi. La parte essenziale, il tratto iniziale della filiale, ossia il processo di produzione di valore attraverso l’uso sempre più intensivo e scientifico della capacità lavorativa, questo vero e proprio lato oscuro dell’economia non viene illuminato. E invece è proprio lì che bisogna puntare i riflettori, se si vuole comprendere la crisi nella sua essenza capitalistica, se si vuole cogliere ciò che accade «sotto il pelo dell’acqua». Infatti, il crescente consumo finanziato col debito privato e pubblico ha nel capitale industriare il suo più potente impulso, perché è soprattutto nell’interesse di quel capitale espandere sempre di nuovo i limiti del mercato. E lo fa in modo sempre più scientifico, ampliando mostruosamente – nell’accezione filosofica e non moralistica del termine – la capacità di consumo degli individui, ridotti a esseri bulimici che nella merce si identificano sempre più totalmente e necessariamente. Ingoiare fino a scoppiare! è l’imperativo categorico del Capitale, il quale ha un rimedio anche per chi fa indigestione e avverte tutto il disagio di una «condizione umana» interamente impigliata nel meccanismo sociale orientato verso il maggior profitto possibile. Infatti, mai così ricco di articoli in offerta speciale è stato il mercato delle religioni, della spiritualità, delle “filosofie”, dei rimedi farmacologici e psicologici, e così via. Ammacca e ripara. Qualsiasi bisogno capace di pagare non ha che da recarsi «nel grande emporio delle merci», materiali e immateriali. La stessa differenza proposta da Keynes tra «bisogni assoluti» (quelli connessi alla sopravvivenza fisica degli individui) e «bisogni relativi» (quelli legati al «desiderio di superiorità», ossia al prestigio, all’autopromozione, alla simulazione, al «consumo vistoso», ecc.) non regge più alla prova del Capitalismo del XXI secolo. Per la verità essa non aveva molto senso già all’epoca in cui l’economista britannico elaborava le sue teorie, e solo l’irruzione della depressione economica mondiale le conferì una qualche decorosa apparenza.

Zygmunt Bauman, teorico della Vita Liquida

Anche Zygmund Bauman, il teorico della Vita Liquida, batte i soliti tasti della critica al consumismo: «Consumare di più è la nuova religione», con ciò che ne segue anche in termini di sostenibilità ambientale, disagio esistenziale e quant’altro. Siamo passati dalla «società solida dei produttori, alla società liquida dei consumatori». Un tempo il profitto scaturiva «dall’incontro tra capitale e lavoro», oggi viene fuori dal consumo delle merci. «Il potere è il consumo» (intervista a Z. Bauman di Giuliano Battistin, Micromega, 8/2011). No caro sociologo di fama mondiale: il Potere Sociale che ci maltratta in ogni senso continua a chiamarsi Capitale, sans phrase, Capitale in quanto rapporto sociale che fa degli individui mere «risorse umane» da sfruttare come produttori e come consumatori, e delle merci puri contenitori di valori di scambio da realizzare. Consumare di più è sempre stata la «religione» imposta dal Capitale, e in ogni epoca troviamo i soliti intellettuali che se ne lamentano. Bisogna mettere il naso sotto il pelo dell’acqua. Ci si bagna, ma si comprende di più.

Ancora una volta Benedetto XVI ha ripetuto che l’errore fondamentale commesso dall’uomo, che spiega anche la crisi economica, è stato quello di aver voltato le spalle al Signore Misericordioso, e di aver guardato solo a se stesso. Ma la Scienza, la Tecnica e il successo economico non potranno mai parlare al cuore dell’uomo, il quale finisce per smarrire anche la strada della retta prassi economica. La mia “Teologia Politica” osserva invece che il mondo non sta pagando l’assenza di Dio, ma quella dell’Uomo. Mi creda Santità Eminentissima: se l’Uomo non esiste, tutto il peggio è possibile, anche la macellazione di ebrei, di cristiani e di atei nelle camere a gas, nelle città bombardate dalle fortezze volanti, nei gulag e ovunque la voce dell’Uomo non ha modo di farsi sentire. Per questo mi permetto umilmente di tradurre nei termini di una Rivoluzione Sociale la Trascendenza che Lei, dall’alto del Santissimo Scranno Romano, evoca Urbi et Orbi come rimedio impellente per salvarci dal materialismo di un mondo sempre più mercificato. Solo rapporti sociali umanizzati possono rendere del tutto superfluo, anzi inconcepibile, l’attuale Mondo-Merce.

«Mi sa tanto che finisco prima io!»

Alla fine della sua interessante inchiesta Die Zeit si domanda, del tutto retoricamente, se esiste un’alternativa al Capitalismo. C’è bisogno di svelare la risposta? Eccola, comunque: «Le alternative al capitalismo sono naufragate perché si sono rivelate meno efficaci di esso». Ovviamente la rivista tedesca si riferisce al «socialismo reale», il quale di reale aveva solo la sua natura sociale capitalistica. Ma a pensarla così siamo in quattro gatti. Pazienza!

IN MEMORIA DEL GENERALE INVINCIBILE E SEMPRE TRIONFANTE

Il Grande Sole della vita si è spento.

Ammetto un peccato, piuttosto grave. Ero lì sul Web a compulsare le spassose notizie sulla morte di Kim Jong-il, l’ex «Generale invincibile e sempre trionfante» della Corea del Nord (i titoli attribuiti al leader di quel miserabile Paese ricordano Fantozzi: «Era il Mega Presidente Eccellentissimo Giovanni Vien Dal Mare!»), quando mi sono imbattuto nella seguente notizia: «Marco Rizzo ha presentato le proprie condoglianze al Popolo Nordcoreano». Sì, Marco Rizzo, il pelatone ex sodale di Vendola, Bertinotti, Diliberto e compagnia cantando ai bei tempi della Rifondazione dello Statalismo – e non solo! Un tipo come me avrebbe dovuto dare per scontato un simile “evento”, ma per un eccesso d’indulgenza verso l’”umana intelligenza”, ho voluto verificare la notizia, dando una – chimerica – chance a chi merita solo di finire sulla tavola di un popolo ridotto allo stremo (dopotutto, i “comunisti” non mangiano i bambini?). Carletto Marx mi perdoni!

Se questo è un comunista, io sono il Delon di Rocco e i suoi fratelli!

Ecco cosa ho letto sul Blog dei Comunisti Sinistra Popolare: «Il Segretario del Partito Marco Rizzo e il Responsabile esteri Alfonso Galdi, hanno espresso dolore e presentato le proprie condoglianze al popolo nordcoreano per la morte di Kim Jong-il, guida della causa rivoluzionaria dell’ideologia Juche e del Partito, dell’esercito e del popolo della Repubblica Democratica Popolare di Corea». La realtà è sempre un passo avanti dal mio nasino! E soprattutto supera qualsiasi immaginazione. Si vede che il Caro e Lungimirante Come Nessuno Segretario di quel Partito vuole accreditarsi come il vero e unico comunista «puro e duro» in circolazione nel Bel Paese. E questo la dice lunghissima sul «Comunismo Italiano» dei tempi andati, quando i dirigenti del PCI andavano regolarmente a far visita alla «Stella splendente della Montagna Baitou», nonché «Raggio di sole che ci guida». Insomma, a Kim Il-Sung.

Masse adoranti dinanzi al Presidente Eterno.

Ho letto anche di gente (di sinistra) sconvolta dalla notizia secondo la quale Cuba ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale in memoria del «Carissimo Leader», nonché la «Più alta incarnazione dell’amore cameratesco della rivoluzione». Forse i poveretti non sapevano che Cuba e Corea del Nord, insieme all’URSS e alla Cina, erano «Paesi Fratelli» nel Fronte Stalinista Internazionale. A volte Mosca e Pechino si pizzicavano, qualche volta si scambiavano anche dei morsi, ma queste «contraddizioni in seno al Popolo» non hanno mai fatto venire meno la solidarietà tra l’Avana e Pyongyang. Tra il barbuto dell’Avana e Kim Il-Sung, il «Caro Leader, perfetta incarnazione dell’apparenza che dovrebbe avere un leader», c’è sempre stato feeling. D’latra parte, il 13 luglio 2010 Fidel Castro apparve alla TV cubana, dopo quattro anni di silenzio, solo per difendere l’Iran e la Corea del Nord. È l’imperialismo a misura del «socialismo cubano». A proposito: il «Garante dell’unione delle terre dei padri» scomparso nel 1994 è morto solo fisicamente, visto che secondo la Costituzione Nordcoreana Egli vive in Spirito. Nella «Corea Comunista» il Presidente è Eterno non solo per modo di dire, e sembra che Benedetto XVI abbia avuto qualcosa da eccepire a tal proposito.

Continuando a vagare sul Web mi sono imbattuto su un video di You Tube, intitolato Il Presidente Eterno, il quale ha scatenato un significativo botta e risposta tra un personaggio di “destra” e uno di “sinistra”. Eccone la sintesi:

Destra: «Certo, ora tutti a dire che la Corea del Nord non è comunista… Ma se quando c’era Stalin quei bastardi rossi infami dei comunisti italiani dicevano che quella in URSS era la vera democrazia… Questa situazione è quasi uguale idioti (ancora più opprimente ed ereditaria)… Purtroppo in Italia è ancora legale l’esistenza del Partito degli stronzi rossi mangiabambini, ma tornerà qualcuno che ve la farà pagare e allora saranno cazzi».

Sinistra: «Avrai lavorato in Romania con i padroncini puttanieri italiani nelle loro fabbrichette, oppure in Cina con il suo capitalismo selvaggio senza stato sociale. Lavorare a piani quinquennali vuol dire non sbattersi troppo prendendosela comoda con molto tempo libero per sé a disposizione…. Sei un bugiardo e se non lo sei puoi solo essere cretino!»

C’è chi ancora beve la balla del «Socialismo Reale»!

Destra: «Una dittatura di destra? Ne ho sentite e lette di puttanate, ma questa è la più grande di tutte. Ho vissuto in Cina; ho lavorato in Romania… So benissimo cos’è il comunismo. Tu no sicuramente. Kim Jong-il, Nicolae Ceausescu, sono alcuni dei leader comunisti che hanno portato tristezza e morte nei loro paesi. Ti spedirei in Corea del Nord per un mese. Torneresti in Italia, gridando: “rimettete Berlusconi”.

Capite cosa hanno fatto i “comunisti” alla gente?

ANALISI LOGICA DELLA SITUAZIONE

A quattro anni dalla sua entrata in scena, la crisi economica internazionale non sembra proprio intenzionata a togliere il disturbo. Anzi, col passare del tempo sembra averci preso gusto, a impazzare sulla scena sociale, e mese dopo mese non smette di sorprenderci con le sue inquietanti performance. Nata ufficialmente – e apparentemente – come crisi finanziaria, essa ha ben presto mostrato il suo aspetto industriale, e da ultimo ama vestire i panni del Debito Sovrano, sempre sul punto di trascinarci nel baratro del default. Considerata la sua dimensione sociale, la sua profondità strutturale e la sua durata, la crisi economica doveva necessariamente investire la sfera politico-istituzionale dei diversi Paesi, mettendo a dura prova vecchie categorie, quali l’autonomia del politico, la democrazia, lo Stato-Nazione.

Un altro keynesiano che piange sulla democrazia versata…

Chi ha in pugno lo scettro del Sovrano, la Politica o i «Mercati»? In Europa comanda «il Popolo», attraverso i suoi rappresentanti democraticamente eletti, ovvero, nell’ordine, la Germania «prussianizzata», la Banca Centrale Europea, i soliti – e fantasmagorici – «Mercati», la Tecnocrazia? Regge ancora il concetto e la prassi dello Stato-Nazione nel mondo globalizzato del XXI secolo, sempre più rigato da interessi e da potenze (economiche, politiche, sistemiche) sovranazionali?

A parere di chi scrive, chi continua a parlare genericamente di «Mercati» svela tutta la sua abissale incomprensione del meccanismo economico-sociale chiamato capitalismo. I «Mercati», di qualsivoglia natura essi siano, non sono mere tecnologie economiche al servizio dell’umanità, salvo «errori», «aberrazioni» e «abusi», sempre possibili nel mondo concreto: (l’imperfezione umanizza la tecnica, si dice); essi sono soprattutto la fenomenologia di peculiari rapporti sociali radicati nel processo di formazione e di distribuzione della ricchezza.

CHE PAURA!

Chi, invece, versa calde lacrime sulla democrazia (o sulla politica tout court) «sospesa» o «commissariata» dai cosiddetti poteri forti nazionali e transnazionali, mostra la sua ingenuità e le sue illusioni rispetto a un regime sociale che da sempre è stato dominato dai funzionari (economici, politici, ideologici, spirituali, ecc.) del Capitale. Quest’ultimo, a sua volta, non è un demoniaco complotto finanziario, non è la Spectre né lo Stato Imperialista delle Multinazionali, ideologico concetto tornato di moda presso alcuni vecchi tromboni nostalgici dell’estremismo «Rosso» (in realtà solo Rozzo!) degli anni Settanta; esso è, in radice, un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento, qualcosa di immateriale che viene prima del denaro e delle merci, e che rende possibile l’esistenza dell’uno e delle altre. In questo peculiare senso Marx scrisse che «il capitale è una potenza sociale, non è una potenza personale».

A differenza di quanto sostengono i tifosi del capitalismo di Stato e del dirigismo vetero o post keynesiano, l’attuale crisi economica non sancisce il fallimento delle «politiche neoliberiste» sponsorizzate dalla «bieca destra reazionaria»; la crisi è infatti immanente al concetto stesso di Capitale, e la prassi capitalistica degli ultimi due secoli conferma questa fondamentale nozione. Espansione e contrazione, creazione e distruzione di valori («capitale umano» compreso): è così che la bestia respira, e per vederla rantolare ci vuole ben altro che un crollo dei suoi meccanismi puramente economici.

Nel momento in cui lo strapotere degli interessi economici (cristallizzati nella forma-denaro e nella forma-merce) annichilisce qualsiasi barlume di umanità e di autonomia degli individui, i quali esercitano il loro cosiddetto «libero arbitrio» dentro i confini di uno spazio esistenziale che somiglia a una prigione; in questo contesto la democrazia mostra la sua reale dimensione storica e sociale, la sua natura di forma politico-ideologica del dominio sociale vigente. Con o senza democrazia gli individui in generale, e le classi subalterne in particolare, non hanno alcun potere reale, e la loro «libertà politica» si estrinseca nella periodica e sempre più rituale “scelta” del personale politico che deve amministrarli, condurli, controllarli e, se del caso, reprimerli.

È soprattutto in tempi di crisi economica acuta, quando le potenze sociali si scaricano con particolare brutalità sulle classi che vivono di salari e sul ceto medio declassato e impoverito, che gli individui intuiscono di non aver mai contato niente per ciò che concerne l’essenziale nella vita di un Paese, di essere stati solo dei numeri, dei codici fiscali, delle risorse economiche («capitale umano») da sfruttare o da scartare, secondo la «congiuntura economica». Le illusioni coltivate ingenuamente e ostinatamente nel corso di una vita mostrano tutta la loro vacuità, ed evaporano come gocce di acqua gettate sul fuoco. Ed è precisamente a questo punto che la crisi economico-sociale si apre alla possibilità di eventi radicali, fecondi di nuova storia. Altro che passaggio dalla «Prima» alla «Seconda Repubblica»!

Certo, si tratta di vedere il senso, la direzione e la natura di quegli eventi; ma si tratta anche, e per chi scrive soprattutto, di avere voce in capitolo su quel senso, su quella direzione, su quella natura. Ciò che scrivo su questo Blog non ha altro significato se non quello di dare forza a questa eccezionale possibilità, a prescindere da quanto distante sia oggi l’Avvento dell’Evento, se mi è permesso civettare con la teologia. Anche perché solo pensarla, questa possibilità, rappresenta ai nostri tempi quasi un miracolo. Ciò che comunque è certo, è che i corifei della democrazia e i teorici del «conflitto sociale» come esercizio della «vera democrazia» avvelenano sempre di nuovo i pozzi dell’iniziativa autonoma delle classi subalterne e di chiunque avverta in qualche modo il disagio di vivere nella Civiltà a misura di Capitale.

Evidentemente depresso dalla crisi economica internazionale, nel suo intervento alla tavola rotonda organizzata la scorsa settimana da Altra Mente e dall’Associazione Rosa Luxemburg (povera Rosina!) per discutere sul «perché la Sinistra europea ha perso», un “post comunista” si è lasciato scappare il seguente lamento: «Il comunismo ha perso. Se adesso perde anche il capitalismo, cosa ci resta?» Ai nipoti, più o meno “critici”, di Stalin, Mao, Togliatti e Berlinguer consiglio una bella eutanasia di gruppo (che costa pure meno: in tempi di crisi…); agli altri ho da comunicare una bella notizia: il Comunismo, in quanto comunità umana, non ha perso semplicemente perché non ha mai giocato. Per dirla con l’ex Cavaliere Nero di Arcore, il Comunismo non è mai sceso in campo.

A Natale puoi regalarti questa eccezionale verità storica comprando Lo Scoglio e il mare. Come dice la nota canzoncina che allieta i cuori dei consumatori (e i profitti delle aziende), A Natale si può capire di più, a Natale puoi, se vuoi!

 

IL BRUTTO DEL BELLO

Vidi per la prima volta Lucio Magri in un comizio molto “sinistrorso” che si tenne nel ’77 nella mia città. La cosa che subito mi colpì fu la grande bellezza di quest’uomo, soprattutto gli occhi e il coloro della pelle. Più tardi con gli amici, pardon: con i compagni, ironizzammo sull’ineguale distribuzione della bellezza nel capitalismo. Reso omaggio alla bellezza di Magri, e detto che la goccia di cicuta viene sempre a cadere su un vaso ricolmo di veleno (la politicizzazione della sua dipartita la lascio volentieri a Valentino Parlato, che non ha sciupato l’occasione per dire le solite fregnacce progressiste), veniamo, molto brevemente, al brutto.

Addavenì!

Il brutto è rappresentato dal pensiero politico di Magri, interamente radicato nella storia del «comunismo italiano», ossia nella versione italiana dello Stalinismo Internazionale. Non a caso nel suo ultimo saggio, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI(2009), egli ricostruisce, a ragione, la storia del PCI non a patire dal 1921, anno di nascita del PCd’I largamente egemonizzato dal gruppo di ex giovani socialisti che aveva in Amadeo Bordiga il suo leader, ma dalla cosiddetta «svolta di Salerno», che permise al PCI di costituire un fattore importante di coesione nazionale nel momento in cui il Paese fece uno dei suoi abituali e famigerati (per le altre Potenze) «giri di valzer», schierandosi con le Potenze Alleate. Scrivo «a ragione» perché nel 1921, pur con tutti i limiti teorici e politici, si diede effettivamente la possibilità di un Partito autenticamente comunista nel nostro Paese, mentre nel 1944 Palmiro Togliatti guidava un partito che di comunista aveva solo il nome. Tra l’altro, è anche in grazia di questa abissale discrepanza tra cosa e nome che preferisco non definirmi comunista: “comunista” era, invece, Lucio Magri. Chiudo la parentesi.

La continuazione della guerra imperialista con altri mezzi (la Resistenza) nel contesto delle nuove alleanze e dei nuovi equilibri internazionali postbellici stabiliti dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica, ebbe nel «Partito nuovo» di Togliatti forse il suo più importante “coefficiente” politico-organizzativo. L’epopea resistenziale, non a caso coltivata soprattutto dal PCI e rivendicata da Magri come l’evento che fa del «comunismo italiano» un’esperienza originale nell’ambito del «Movimento Comunista Internazionale», cela il vero significato della cosiddetta «guerra di liberazione», la quale per un verso registrò il dato di fatto della strapotenza dei due imperialismi vincenti (USA e URSS; Inghilterra e Francia, di fatto, uscirono dal conflitto mondiale come Potenze sconfitte), e per altro verso rappresentò per l’Italia la sola via d’uscita per evitare un finale di partita quale toccò in sorte alla Germania e al Giappone.

Lucio Magri rimase sempre ancorato a una storia politica tutt’altro che comunista e rivoluzionaria, anche quando criticò «da sinistra» (da Pechino, per così dire) il PCI e l’Unione Sovietica, per fondare Il Manifesto. Il fatto che molti militanti del PCI abbiano dovuto aspettare i fatti polacchi e ungheresi degli anni Cinquanta per scoprire che in Unione Sovietica qualcosa fosse andato storto, la dice lunga sulla loro concezione del «comunismo». Ecco perché non si può accusare Magri di contraddizione rinfacciandogli la decisione di rientrare nel PCI dopo la morte di Berlinguer: chi si collocava a «sinistra» di questo Partito in fondo si limitava a rivendicare un «ritorno alle origini» (al «Genoma Gramsci», come lo chiamava Magri, e all’epopea «Nazional-Popolare» della Resistenza). Se non è zuppa, è pan bagnato!

STATALISTI, NON COMUNISTI!

«Una parte della borghesia cerca di portar rimedio ai mali sociali, per mettere in sicurezza l’esistenza della società borghese» (Marx-Engels, Il Manifesto del Partito Comunista).

L’articolo di Sergio Cesarotto (Liberisti, non riformisti) comparso oggi sul Manifesto è davvero sfizioso, soprattutto perché offre un’ennesima testimonianza di cosa è stato, e di cos’è nella sua fase residuale e, speriamo, finale, il cosiddetto «comunismo italiano».

Cesarotto prende le distanze dalla «destra liberista del PD», la quale cerca di impadronirsi del partito di Bersani sulla scia del «governo di responsabilità nazionale» di Monti, e rampogna severamente coloro che in quel partito hanno l’impudenza di scomodare il termine «riformista» per alludere a politiche che nulla avrebbero a che fare con quella parola «gloriosa del movimento operaio internazionale», «marxismo» compreso. Personaggi alla Ichino, al centro della polemica che si è accesa nel PD intorno alla sua natura politica (trattasi di partito «riformista»? o «liberista?» ovvero «liberalsocialista?»), sono, secondo il Nostro, «liberisti, non riformisti».

Un onesto Riformista, senza se e senza ma.

Il riformismo dei bei tempi, scrive Cesarotto, era un programma di governo basato su «riforme di struttura», mentre la «destra liberista» che ama presentarsi come «riformista» ha come suo obiettivo specifico il superamento dello Stato Sociale e la distruzione dell’architettura dei diritti conquistati dai lavoratori nei decenni che ci stanno alle spalle. Ichino, a ragione, obietterebbe che quest’ultimo programma configura delle «riforme di struttura».

«Qui giace Palmiro Togliatti, impiegato modello di rivoluzioni parastatali» (Indro Montanelli).

In effetti, le mitiche «riforme di struttura» vaneggiate prima dall’ala «riformista» della socialdemocrazia alla fine del XIX secolo, e poi dai cosiddetti «comunisti» fedeli a Mosca nel secondo dopoguerra, avrebbero dovuto trasformare «dall’interno» e pacificamente il capitalismo, fino a farlo capovolgere in socialismo: oplà! Se consideriamo che tanto i socialisti quanto gli stalinisti concepivano il «Socialismo» nei termini di un capitalismo di Stato più o meno «ortodosso», si comprende bene la qualità politica e sociale di quelle «riforme». Sotto quest’aspetto, ad esempio, si può senz’altro dire che Mussolini, incalzato dalla crisi del ’29, attuò non poche «riforme di struttura», e che il suo programma «anticapitalistico» di Salò va preso molto sul serio proprio alla luce del suo retaggio socialista e dell’esperienza della Russia di Stalin che egli non smise mai di lodare. «Fare come in Russia!» aveva avuto un preciso significato nel 1917, quando anche in Italia si stava formando un nucleo di veri comunisti, e il significato diametralmente opposto nel 1943, ai tempi della Repubblica Sociale Italiana e dello Stalinismo Internazionale.  Ma questo i «comunisti» che pregavano col viso rivolto verso Mosca (e poi anche verso Pechino) non potevano certo capirlo. È in questo «equivoco teorico» che bisogna inquadrare l’articolo di Cesarotto.

D’altra parte, ricordo benissimo che Il Manifesto stigmatizzò la scelta di Fini di dar vita ad Alleanza Nazionale, perché in fin dei conti il vecchio MSI conservava «un’anima sociale» che mal si conciliava con lo spirito liberista del Gran Puttaniere di Arcore. Dopo il Partito che fu di Berlinguer, anche il Partito che fu di Almirante si era convertito alla nuova religione «neoliberista»: che tempi! Con ciò il cosiddetto «Quotidiano Comunista» mostrava il suo stretto legame con la «gloriosa» tradizione del «movimento comunista italiano», da Togliatti a Berlinguer.

Il Manifesto preferito dal Nostromo.

Il riformismo, di «sinistra» o di «destra», è, al contempo, una prassi sociale e un’ideologia, con la quale la classe dominante esercita il suo controllo sulle classi subalterne. In Italia c’è stata poca prassi riformista, e molta ideologia riformista, e questo soprattutto a causa della struttura sociale del Paese (pensiamo solo alla secolare «questione meridionale», con le sue “ricadute” sociali e politiche di ampio spettro). Oggi le «riforme di struttura» segnano la differenza tra la ripresa e l’ulteriore decadenza del capitalismo italiano. Gli italici riformisti fanno dunque bene a tifare per Giavazzi, Ichino, Monti e Marchionne. Per quanto riguarda quelli del Manifesto, essi sono «statalisti, non comunisti».

SPETTRI DI BERLINGUER

A circa ventisette anni dalla sua morte, Enrico Berlinguer non smette di mietere suffragi nel seno del progressismo italiota. Ultimamente ne ha parlato in TV Bertinotti (nel programma In Onda, La7) osservando che il leader sardo era uno che «di comunismo se ne intendeva». E se lo dice lui bisogna credervi… L’acuirsi della crisi economico-sociale, con il necessario corollario di politiche tutte lacrime e sangue, e la diffusione in settori del progressismo italiano dell’ideologia decrescista, hanno fatto ritornare in auge il pensiero politico berlingueriano, a testimonianza dei tristi e confusi tempi che ci tocca vivere. Qui di seguito mi esercito in una breve spigolatura critica della famosa intervista che il capo del PCI rilasciò a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981 per La Repubblica. L’intenzione politica è piuttosto chiara e non merita ulteriori chiarimenti.

«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali».
Naturalmente il leader del PCI lasciava intendere che solo il suo partito non faceva parte di quella che Pannella chiamò, già nei primi anni Settanta del secolo scorso, «partitocrazia», proprio in riferimento al «bipolarismo imperfetto» DC-PCI. Non solo il PCI era coinvolto a pieno titolo nel «regime partitocratico», con una fortissima influenza sul capitalismo pubblico e privato (anche attraverso la CGIL e le cosiddette «cooperative rosse»), ma continuava a ricevere finanziamenti da parte dell’Unione Sovietica. Basta chiedere lumi a un tal Armando Cossutta. Insomma, il PCI di Berlinguer era, per così dire e ponendomi sullo stesso piano degli odierni manettari, un partito «diversamente corrotto», e la cosiddetta «questione morale» non fu che un suo maldestro tentativo di screditare la DC e il PSI (soprattutto quest’ultimo, a causa del forte e aggressivo «autonomismo» craxiano) nel momento in cui la dinamica politico-sociale italiana e internazionale rendeva palese l’obsolescenza della politica «comunista».

«Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività».
In termini marxiani si tratta di incrementare lo sfruttamento dei lavoratori, in modo da massimizzare l’estorsione del «plusvalore relativo», il quale è reso possibile dall’uso di più moderne tecnologie e dall’implementazione di una più razionale ed efficiente organizzazione del lavoro. A parità di orario di lavoro, o addirittura con un suo decremento, la singola unità produttiva crea più merci o parti di esse, e l’insieme del processo produttivo risulta più dinamico, più flessibile e più economico. Marx associava questa modalità di sfruttamento della capacità lavorativa all’epoca della sussunzione reale del lavoro al capitale, la quale sul piano della società nel suo complesso si declina nei termini di un totalitario dominio degli interessi economici, e in una sempre più crescente obliterazione dell’umano, ridotto allo status di residualità.

«Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli – come al solito – ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire».
La solita demagogia «populista»: per vendere meglio la politica dei sacrifici alle classi subalterne, bisogna accreditarsi ai loro occhi come i fustigatori dei «poteri forti» nonché nemici irriducibili di ladri, corrotti, mafiosi, piduisti e luogocomunismi vari. Sparare sul Quartier Generale per meglio attaccare le condizioni di vita e di lavoro dei salariati: una strategia che in ogni tempo e in ogni luogo ha fornito prova di grande efficacia.

«Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle».
Sessant’anni di stalinismo italiano, ossia di togliattismo. Tra i leader del cosiddetto «Comunismo Internazionale» Togliatti si distinse in zelo e intelligenza; egli fu il migliore esecutore della linea politica tesa a legittimare e a sostenere l’iniziativa imperialista della «Patria Sovietica» e a propagandarne l’ideologia di Stato (il cosiddetto «Marxismo-Leninismo», con rispetto parlando…). Dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 Togliatti non lesinò energie nell’opera di giustificazione, e sollecitò i «compagni italiani» a tentare di dialogare con la «corrente di sinistra» del Fascismo. In fondo si trattava di coordinare l’azione delle «Nazioni Proletarie» con l’obiettivo di tagliare le unghie alle «Nazioni demoplutocratiche», assetate di profitti e di sangue. A quel punto trotskisti, bordighisti e anarchici furono additati al proletariato italiano ed europeo come i nemici più pericolosi della «causa comunista». Quando l’Unione Sovietica fu costretta a cambiare cavallo sul terreno delle alleanze imperialistiche a causa del tradimento nazista, naturalmente anche il Partito di Togliatti si adeguò alla nuova situazione. Le «Potenze plutodemocratiche» di ieri diventeranno magicamente le «Nazioni Democratiche» con le quali i «comunisti» dovevano allearsi per sconfiggere il «mostro nazifascista». Il cinismo politico di Togliatti faceva impallidire qualsiasi teorico della più spregiudicata realpolitik. Naturalmente gli intellettuali del partito tiravano in ballo la dialettica hegeliana…

Il Partito di Berlinguer fu la continuazione di quella ultrareazionaria storia politica con altri mezzi e in circostanze nazionali e internazionali diverse (l’appartenenza dell’Italia al «Blocco Occidentale» sancita dagli accordi russo-americani depotenziarono il filosovietismo ). Stessa cosa può dirsi per gran parte dei movimenti politici (lottarmatisti compresi) che lo contestarono da «sinistra». La politica del PCI tesa a cercare un «compromesso» con la Democrazia Cristiana di Moro e Andreotti non segnò alcuna cesura di significato storico: infatti, di «Comunista» il Partito di Togliatti-Longo-Berlinguer aveva solo il nome. Di qui, la mia presa di distanza critica dal nome della cosa per poterne sviscerare meglio il concetto essenziale. Se Vendola, Bertinotti, Ferrero, Diliberto e compagni di simile fattura sono «comunisti», ebbene io non lo sono affatto!

«Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro».
Qui è ben sintetizzato il piano politico-economico di attacco ai lavoratori in vista di una ristrutturazione nella produzione e nel Welfare, in modo da innescare un nuovo circolo virtuoso nel processo capitalistico di accumulazione. Solo in parte questo piano fu attuato dai governi DC-PSI con la preziosa collaborazione della triplice sindacale. Oggi siamo nuovamente a questo punto.

Vediamo la copertura ideologica di quel piano: «Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani)».
Qui siamo al tradizionale «cattocomunismo» dei progressisti italiani, ovunque essi militino. Quando un «comunista» parla di «umanità», o di «socialismo» («Noi vogliamo costruire sul serio il socialismo») la mia mano cerca subito il lanciafiamme: è più forte di me! A Berlinguer piaceva tanto una società capitalistica moralmente sana («La diffusione della droga tra i giovani è uno dei segni più gravi della “civiltà dei consumi”»), esteticamente in bianco e nero (come la TV che difendeva, insieme a Ugo La Malfa, contro i «consumisti» che sostenevano il demoniaco media colorato) e poco incline ai «consumi privati superflui»: probabilmente egli rimase per tutta la vita legato al modello di «socialismo reale» basato sulla miseria sociale generalizzata (classe dominante esclusa, ovviamente). Per questo la critica che gli rivolgeva il «modernizzatore» Craxi penetrava come il coltello nel burro tra i «miglioristi», i quali avevano da tempo scelto tra il modello capitalistico «Sovietico» e quello «Occidentale». Ancora oggi in Italia c’è chi si sogna la «Terza Via», quello che ci dovrebbe condurre al Capitalismo equo e solidale, nonché ecosostenibile e bla, bla, bla, sciorinando il grigio e chimerico vocabolario dei decrescisti d’ogni risma e colore.

Ora che il Puttaniere Nero di Arcore ha detto che non pronuncerà mai, nemmeno sotto tortura, la parola «austerità», non c’è dubbio che le quotazioni di Enrico Berlinguer sono destinate a crescere nella Borsa Valori dei poveri di spirito e di pensiero. In tempi burrascosi come quelli che viviamo la classe dominante ha bisogno di punti fermi politico-ideologici seri (altro che Silvio!) su cui far leva nell’esercizio del suo dominio.

MISERIA DEL «POPOLO LAVORATORE»

Mario Tronti vuole salvare «l’idea di popolo»: già solo questa poco allettante – almeno per chi scrive – intenzione «culturale» e politica è sufficiente a qualificarlo come ideologo borghese – nell’accezione politica e non sociologica del predicato, ovviamente.

Salvare l’idea di popolo significa, quindi, mettere in sicurezza anche l’idea (e la prassi!) di Stato. Nonché quella di Nazione, perché, come egli giustamente osserva, «Non c’è nazione senza Stato». D’altra parte «non c’è popolo senza Stato» (Popolo, da Sinistrainrete, 26 Ottobre 2011). Nel momento in cui per un verso la globalizzazione capitalistica, e per altro verso il leghismo stressano la Sovranità della Repubblica Democratica fondata sul lavoro (salariato), gli intellettuali dai «lunghi pensieri» sentono il bisogno di solide certezze. «Non c’è nazione senza Stato. Ma non c’è popolo senza Stato. Questo è importante, da un lato per capire, dall’altro per stringere il problema ai tempi che ci riguardano e ci impegnano. Perché il tema è eterno. Biblico, prima che storico». Nella misura in cui fa del popolo, della Nazione e dello Stato delle categorie eterne, metastoriche, Tronti si colloca di diritto tra gli apologeti dello status quo.

D’altra parte, cosa ci si deve aspettare da un intellettuale che considera il Partito di Enrico Berlinguer un soggetto politico nel cui seno batteva ancora il cuore del «popolo comunista»? Cosa può sostenere di teoricamente e politicamente fecondo un ideologo che non comprende l’abissale distanza che separa il populismo a suo tempo combattuto da un certo Vladimiro Lenin, un movimento politico storicamente progressivo-borghese, con il populismo – di «destra» e di «sinistra» – ultrareazionario dei nostri confusi tempi? L’abisso non permette di azzardare nemmeno delle analogie! Ma tant’è…

Scrive Tronti: «E’ il punto di vista di classe che fa del popolo un soggetto politico. Senza classe non c’è politicamente popolo. C’è socialmente. O c’è nazionalmente. Due forme di neutralizzazione e di spoliticizzazione del concetto di popolo». Questo civettare maldestramente con Marx e con Carl Schmitt non ha reso un buon servizio al suo pensiero.

A proposito di Carl Schmitt, e per parlare un attimo di cose serie, ecco cosa scrive Gian Enrico Rusconi: «“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione”. Questa perentoria sentenza è stata coniata da uno dei più controversi giuristi e politologi del secolo scorso, Carl Schmitt, con il sottinteso che le democrazie liberali non sanno decidere in casi di seria emergenza. Che cosa direbbe oggi il politologo tedesco? Identificherebbe oggi uno “stato d’eccezione” in Europa? In questa Europa diventata insicura nei suoi apparati istituzionali, dov’è la sovranità?» (Un’Italia a sovranità autolimitata, La Stampa, 27 Ottobre 2011). Professore, la Sovranità è lì dov’è sempre stata, ossia nel dominio totalitario degli interessi economici. Con tutto ciò che necessariamente segue sul piano politico-istituzionale, sul fronte interno come su quello dei rapporti tra gli Stati. La risposta è estesa a Tronti, il quale si chiede: «Chi decide nello stato normale, visto che lo stato d’eccezione si colloca ormai fuori dall’Occidente?»

«Il punto di vista di classe» rende possibile, per Marx e, se mi è concesso, per chi scrive, la trasformazione della massa informe dei proletari salariati in una Classe cosciente dei propri interessi e della propria funzione storica. Popolo è un «concetto-realtà» borghese che rimane tale nonostante le astruserie dottrinarie del noto intellettuale operaista, o post-operaista. Ai tempi del comunista di Treviri quel concetto conservava ancora una forte valenza progressiva, e così anche nell’arretrata Russia di Lenin; ma tirare in ballo nel XXI secolo «il punto di vista di classe» per accostarlo al Popolo, per «declinare» questo vecchio arnese concettuale in termini “movimentisti” e nuovisti, è degno della tradizione «comunista» del Bel Paese.

Ecco perché quando il Nostro afferma, a proposito del vero significato delle rivoluzioni del 1848, che Marx commise un errore, ancorché «geniale», bisogna quantomeno mettere mano alla pistola. E di fatti, il suo discorso («Popolo ed élite non porta al populismo. Porta al populismo capo ed élite») è tutto interno alla riflessione della classe dirigente italiana, di «destra» e di «sinistra», su come far fronte all’ondata «antipolitica» che rischia di creare mostri sociali e politici difficilmente gestibili, soprattutto in tempi di acuta crisi economica.

Scrive Tronti: «La classe operaia, nella sua orgogliosa rivendicazione di essere parte, nel rifiuto del lavoro, che nient’altro era che rifiuto di essere classe generale, è stata un soggetto rivoluzionario sconfitto. Perché la sconfitta politica non si traduca in fine della storia, è necessario riafferrare il filo là dove si è spezzato, riannodarlo e ripartire e proseguire». Il filo concettuale da seguire, per non perdersi nella postmodernità capitalistica, sarebbe il «Popolo lavoratore: nuovissima parola antica». Non avevo dubbi: la continuazione del putrefatto «Comunismo Italiano» (con tanto di esaltazione «operaista» del lavoro) con altri mezzi.

FRESCO DI STAMPA! Lo Scoglio e il Mare – Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924)

«Socialismo reale» o reale Capitalismo (più o meno di Stato)? La seconda che ho detto!

Il libro che svela la radice storico-sociale della più grande menzogna del XX secolo è ora in vendita.


Lo Scoglio e il Mare
Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924)

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Ma siamo proprio sicuri che il «comunismo realizzato» abbia fatto fallimento? E se non ci fosse mai stato nel vasto mondo alcun «comunismo realizzato»? E se il cosiddetto Libro nero del comunismo non fosse, in realtà, che un capitolo particolarmente tragico del Libro nero del capitalismo? È la tesi originale che l’autore di questo saggio sostiene, per dimostrare la quale egli fa i conti con la madre di tutte le rivoluzioni del XX secolo: la Rivoluzione d’Ottobre. Secondo l’autore questa Rivoluzione cessò di respirare – in senso politico, più che cronologico – insieme a Lenin, ossia già nell’inverno del 1924.

Nel momento in cui la crisi economico-sociale che investe vaste aree del Pianeta evoca chimerici «Nuovi Mondi Possibili» e fa straparlare la politica e la Scienza Sociale di «Rivoluzioni» e di «Primavere», questo saggio mostra di essere assai più puntuale di quanto non sembri a prima vista.


Lo Scoglio e il Mare
Riflessioni sulla sconfitta della Rivoluzione d’Ottobre (1917-1924)

Brossura, pp. 224, formato 12 x 18.
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MISERIA DEL COMUNE

Francesco Francesco Ubertini detto il Bachiacca, La raccolta della manna (1540-1555)

Le righe che seguono risalgono al Settembre 2010. Le “socializzo” come contributo al dibattito che sul concetto di Bene Comune si è avviato tra gli amici di Facebook. Rimando anche a La manna non cade dal cielo! (2008) e a La notte buia e la vacca sacra (2010), scaricabili dal Blog. Le faccio precedere da una citazione tratta dall’ultimo saggio di Carlo Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, la cui estesa critica al pensiero di Antonio Negri mi appare abbastanza fondata, salvo che per alcuni aspetti politici, peraltro tutt’altro che secondari, su cui adesso sorvolo.

«Il dilemma da cui Negri e soci non riescono a districarsi è se sia oggi possibile tracciare un confine fra ciò che sta fuori e ciò che sta dentro il rapporto di sfruttamento capitalistico. La loro risposta è – più che ambigua – paradossale, nel senso che è, al tempo stesso, negativa e positiva. Da un lato, si dice che nulla ormai può esistere al di fuori del capitale, coerentemente con l’assunto in base al quale la totalità delle relazioni umane viene sussunta nel processo di valorizzazione capitalistico; al tempo stesso si afferma che tutta la produzione sociale – in quanto produzione biopolitica di soggettività – è esterna al capitale e si auto-organizza attraverso forme di cooperazione spontanee e autonome. In altre parole: il biopotere, inteso come potere sulla vita, e la biopolitica, intesa come potere della vita coesistono in un unico piano di immanenza» (C. Formenti, Felici e sfruttati. Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro, p. 102, Egea, 2011.)

Nell’ultimo prodotto editoriale di successo, la coppia Hardt-Negri ritorna a maltrattare indegnamente un concetto marxiano di grande significato teorico e politico: il General Intellect (*). Ho provato a criticare il punto di vista economico dell’ex «cattivo maestro» (ma solo di marxismo, beninteso) nei miei appunti di studio intitolati La vacca sacra e la notte buia. Il capitale da dove smunge il plusvalore?, e perciò in queste poche pagine non mi diffonderò sulla questione, e ne farò cenno solo en passant.

Il nuovo best seller dell’intellettuale italiano s’intitola Comune. Oltre il privato e il pubblico, ed esce in Italia sotto gli auspici del grande successo ottenuto negli Stati Uniti, non ultimo anche in grazia della crisi economica che ancora travaglia il paese del Presidente abbronzato. Confesso di non averlo ancora letto, ma avendo seguito con attenzione quanto ha avuto modo di scrivere e dichiarare il Professore padovano intorno alla sua «monumentale costruzione teorica» (esternando peraltro concetti e ragionamenti tutt’altro che nuovi per il sottoscritto), è come se l’avessi fatto.

L’oltrismo, si sa, è da sempre il mantra di Negri (oltre Marx, oltre la legge del valore, oltre il socialismo, oltre l’imperialismo, oltre il postmoderno, oltre… l’oltre, forse per dare l’impressione di essere sempre al passo coi tempi, anzi: decisamente oltre). Ma che significato dare al concetto di Comune? Perché lo Scienziato Politico tanto celebrato dai media che contano parla di Comune? «Perché tutto, essendo prodotto da tutti, appartiene a tutti»: questa risposta, di sconvolgente ingenuità e di abissale indigenza teorico-politica, si trova in una recensione al libro Il saccheggio (di Ugo Mattei e Laura Nader) firmata da Negri e apparsa sul Manifesto del 4 maggio 2010 con questo significativo titolo: Quel diritto politico di saccheggiare i beni comuni.

La mia tesi – fuori moda, lo ammetto – è che, invece, non esiste alcun Bene Comune, giacché tutto quello che esiste sotto il vasto cielo della società capitalistica mondiale (o «globale») appartiene con Diritto – ossia con forza, con violenza – al capitale, privato o pubblico che sia. Il capitale non si appropria arbitrariamente il Comune, non lo «privatizza», ma estende piuttosto continuamente la sua capacità di trasformare uomini e cose in altrettante occasioni di profitto, e può farlo perché l’intero spazio sociale gli appartiene, è una sua creatura, una sua naturale riserva di caccia. Questa mostruosa vitalità espansiva – in termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi – rappresenta il tratto più significativo e «rivoluzionario» (vedi Marx e Schumpeter) del capitalismo.

Il lavoro (quello «materiale» e quello «immateriale», quello produttivo di «plusvalore» e quello produttivo di solo «profitto» o di sola «rendita»), la scienza, la tecnologia, l’arte, la cultura e la stessa natura hanno, nel nostro tempo, un’essenza necessariamente capitalistica, cioè a dire al contempo essi esprimono e riproducono sempre di nuovo il rapporto sociale dominante in questa epoca storica. È precisamente questo rapporto sociale di dominio e di sfruttamento che riempie di contenuti una «categoria economica antidiluviana» (Marx) come quella di proprietà (proprietà privata, proprietà statale, proprietà collettiva), e il concetto di Diritto a esso correlato. «La proprietà di capitale presenta la prerogativa di esercitare un comando sul lavoro degli altri»(K. Marx, Il Capitale, III, p. 1172, Newton, 2005.): questa è la forma peculiare della proprietà capitalistica, la quale si regge, fondamentalmente, non sul possesso di cose materiali, ma su un rapporto sociale, sul cui fondamento prende corpo la società-mondo che conosciamo.

Per gente abituata ad associare il socialismo allo statalismo, al capitalismo di Stato (la cui forma «sovietica» diventò celebre sotto il giustamente famigerato nome di «socialismo reale»), persino il Comune di Negri può apparire quanto di più «sovversivo» e «radicale» si possa trovare sul mercato delle ideologie, come un «Manifesto del Partito Comunista versione 2.0», per dirla col prestigioso Wall Street Journal. Nientemeno! In mezzo a tanti microbi, persino un nano può accreditarsi – in primo luogo presso se stesso – come un gigante del pensiero.«Gli oltranzisti di destra guidati da Sarah Palin e Glenn Beck hanno questo in comune con Negri: sono convinti anche loro che il comunismo sia attuale, praticamente dietro l’angolo. Quello della Casa Bianca»(F. Rampini, La Repubblica del 14 settembre 2010.).

Il successo di Negri si spiega, tra l’altro, con la sua capacità di creare nella «Moltitudine» (a dire il vero, una «moltitudine» assai elitaria, e persino «radicalchic») l’illusione (che aspetta solo di venir frustrata – cosa che peraltro accade puntualmente) di rappresentare una potenza sociale, «qui e ora». Sentirsi sempre al centro del Mondo, eternamente motori delle trasformazioni sociali, avanguardie forever: ecco ciò che promette l’articolo ideologico venduto dal Nostro. Quando poi i clienti capiscono (ed è già un miracolo) di essere stati piuttosto alla retroguardia del reale processo sociale, saranno già trascorsi almeno venti anni. Come si dice: non è mai troppo tardi…

Antonio Negri, (cattivo) maestro fumista

Il nebuloso concetto di «Bene Comune» sembra essere stato fabbricato apposta per avvolgere in una spessa coltre fumogena concetti scottanti e scabrosi quali quelli di violenza, di rivoluzione, di potere politico e così via; forse anche perché in passato l’ex teorico dell’Autonomia Operaia non ha mostrato di saperli padroneggiare bene, questi concetti, né sul piano teorico né su quello pratico. È anche in questa fumisteria ideologica, che fa passare come profondo ciò che è semplicemente vuoto, la vuota profondità di un pensiero solo apparentemente critico, che probabilmente occorre individuare la causa non meno importante della sua «fascinazione».

Spinto dalla curiosità, la quale è notoriamente maschia (o no?), in una libreria ho dato una rapida scorsa al nuovo capolavoro di Negri, e l’occhio non ha potuto fare a meno di posarsi su questa perla: «Una volta che si è adottato il punto di vista del comune le categorie fondamentali dell’economia devono essere ripensate. In questo nuovo contesto, ad esempio, la valorizzazione e l’accumulazione si declinano in una dimensione sociale anziché in una dimensione strettamente privatistica e individualistica. Il comune si costituisce ed è messo al lavoro da un’ampia e aperta rete sociale» (M Hardt, A. Negri, Il Comune, p. 284, Rizzoli, 2010.). Una perla tutt’altro che originale, nell’ambito della riflessione negriana.

Ora, che la dimensione sociale della valorizzazione e dell’accumulazione è per Marx un punto di vista assolutamente certo e dirimente, per chiunque abbia dimestichezza con le sue opere cosiddette economiche è qualcosa che suona ovvia e persino banale, e desta davvero meraviglia che uno Scienziato della fatta del Nostro non se ne sia accorto, o che non lo abbia capito: possibile?

Basta leggere soltanto la «Prima sezione. La conversione del plusvalore in profitto» e la «Seconda sezione. La conversione del profitto in profitto medio» del Libro Terzo del Capitale per capire di cosa parlo. Una sola citazione: «Ciò che così [ossia con lo sviluppo della produttività sociale] torna a vantaggio del capitalista rappresenta dal suo canto un guadagno che è il risultato del lavoro sociale, anche se non degli operai direttamente sfruttati dal capitalista stesso. Quello sviluppo della forza produttiva è dovuto in ogni caso al carattere sociale del lavoro messo in opera, alla divisione del lavoro all’interno della società, allo sviluppo del lavoro intellettuale, innanzi tutto alle scienze naturali. Il capitalista trae vantaggio dai risultati del sistema della divisione sociale nel suo complesso»(K. Marx, Il Capitale, III, p. 965.). In poche parole, Negri chiama Comune ciò che l’uomo di Treviri chiamava Capitalismo.

«Ricordate la legge classica del valore-lavoro? Il capitale variabile diventa forza lavoro produttiva solo quando era sotto il capitale. Tutto questo è finito. Pur restando al centro di ogni processo di produzione, il lavoro è il risultato di un’invenzione e i suoi prodotti sono quelli della libertà e dell’immaginazione» (La comune di Toni Negri, intervista del 29 marzo 2010 a Negri comparsa sul sito di Comunismo e Comunità). Siamo andati oltre il capitalismo e non me ne sono accorto: chiedo umilmente venia! Il fatto è che, essendo ancora impigliato nella barba del Grande Vecchio, pensavo che l’invenzione non fosse che «capitale costante», un formidabile strumento capitalistico di dominio e di sfruttamento della natura e dell’uomo (dell’individuo tout court, e non solo del «capitale variabile»). E invece siamo finiti – sia lode alla Santa Astuzia della Storia! – nel Regno della libertà e dell’immaginazione. Il Sessantotto ha vinto, dunque?

Naturalmente ognuno è libero di pensarla come vuole, sul capitalismo, sul «Comune» e su Marx, del cui pensiero peraltro non intendo essere né un difensore d’ufficio (il Tedesco si difende bene da solo, basta leggerlo con intelligenza critica, non con intelligenza ideologica) né, tanto meno, un interprete autentico – incombenza che lascio di buon grado ai «marxisti». Mi riprometto anzi di comprare il libro di Negri e socio, e chissà se leggendolo con l’attenzione che sicuramente merita io non possa andare oltre il mio pregiudizio. Non bisogna mai opporre resistenza alla Divina Provvidenza.

(*) «Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità ad esso; fino a quale forma le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale» (K. Marx, Lineamenti, II, p. 403, La Nuova Italia, 1978). A mio avviso, quella prassi e quel processo hanno «il diavolo in corpo», sono cioè sussunti sotto l’imperio sempre più intransigente (totalitario)delle esigenze economiche, le quali oggi ruotano ossessivamente intorno alla forma più astratta della ricchezza sociale: il Denaro.

Il Comune di Catania