L’INTELLIGENZA DEL VIRUS…

Infinite forme bellissime e meravigliose
si sono evolute e continuano a evolversi.
C. Darwin

Variante americana (in realtà dal marzo 2020 se ne contano almeno due: D614G e B.1.526), variante inglese, variante brasiliana, variante sudafricana, ecc.: quale variante del ceppo originario (cinese?) del Coronavirus è più intelligente? Vallo a sapere! Ho anche letto e ascoltato da virologi di “chiara fama” che le varianti virali sono certamente più infettive rispetto al ceppo originario, ma quasi sempre sono anche meno letali, perché in linea di principio un virus «non ha alcun interesse» a uccidere l’ospite che lo nutre e lo fa prosperare.

Insomma, ascoltando molti virologi, infettivologi, immunologi e affini, cioè le celebrità di questo pessimo tempo, l’ignorante della materia virale (eccomi!) è portato a credere che i virus possano contare su un’invidiabile intelligenza e su una ancor più ammirevole volontà di potenza – proprio nell’accezione nietzschiana (e anche spinoziana: «Poter esistere è potenza») del concetto!

«Abbiamo a che fare con un virus estremamente intelligente che diversifica continuamente le sue strategie di sopravvivenza adeguandole alle risposte immunitarie della sua vittima»: mi è capitato molte volte di ascoltare e di leggere simili asserzioni. A dire il vero alcuni esperti della rognosissima materia attribuiscono la grande capacità di adattamento del virus all’ospite non a una sua particolare intelligenza, ma al contrario alla sua spiccatissima stupidità, la quale si rivelerebbe essere la sua autentica carta vincente. Così la pensa ad esempio Roberto Burioni [1]: «Insomma, un virus è stupidissimo e fa un enorme numero di errori, ma ha un asso nella manica: il mondo esterno gli seleziona quelli che sono utili per la sua replicazione, e butta via gli altri. Il virus è come un incapace giocatore di scacchi che fa tutte le mosse possibili su un numero altissimo di scacchiere; poi però arriva un maestro bravissimo che butta via tutte le scacchiere, tranne quella in cui ha fatto la mossa migliore. In queste condizioni, anche se non si sa giocare a scacchi è più facile vincere!» (Mediclfacts). La stupidità messa al servizio della sopravvivenza: geniale! Il grande Hegel avrebbe – forse – chiosato: «È l’astuzia del virus, bellezza!». Ma questo disegno intelligente, questo sopraffino quanto astuto (dialettico!) modo di costruire le strategie di sopravvivenza è da attribuirsi al virus in quanto tale, o non piuttosto alle Leggi della Natura che presiedono al processo naturale considerato nella sua ricca e complessa totalità (planetaria, cosmica, universale)? Oppure, ed ecco il mio assillo, si tratta di nostre mere proiezioni concettuali, di un nostro più o meno maldestro tentativo di razionalizzare ciò di cui ci sfugge l’intima ragione? L’umanizzazione (antropomorfismo) dei fenomeni naturali è forse stata la prima forma di “razionalizzazione scientifica” praticata dalla comunità umana, e quindi non bisogna accostarsi alla “problematica” qui confusamente evocata con altezzosità scientista, ma piuttosto con l’umiltà di chi desidera capire ciò che ci accade senza pregiudizi e con autentico spirito critico.

Seguendo soprattutto lo scienziato cha ama la divulgazione (che non raramente smotta nella più crassa delle volgarizzazioni), spesso è difficile capire dove finisce il ragionamento analogico e metaforico messo al servizio di quell’eccellente causa, e dove inizia la vera e propria teoria (concezione) dei processi naturali. Sorge perfino il sospetto che ciò che dovrebbe essere solo un’analogia, un modo di parlare per metafore a beneficio dei non addetti ai lavori, sia in realtà l’essenza del pensiero scientifico coltivato dal divulgatore.

Ora, per quel poco che ho letto – e capito – su ciò che riguarda la dinamica dell’evoluzione animale e vegetale, non sono l’intelligenza e la volontà che presiedono ai mutamenti dei viventi, ma molto più semplicemente e più spesso di quanto si creda, la casualità, l’accidentalità. Il concetto di casualità, beninteso, non rimanda affatto a un evento del tutto privo di cause, com’è ovvio (e come sapeva Spinoza: «Di ciascuna cosa esistente ci dev’essere necessariamente una causa determinata in virtù della quale essa esiste» [2]), ma piuttosto a qualcosa che si dà al di là di una puntuale e riconoscibile necessità. Ad esempio, una mutazione genetica è – ci appare – casuale quando essa non deriva da una risposta coerente di un organismo vivente ai problemi posti dall’ambiente esterno, risposta adattiva che trova una corrispondenza nel patrimonio genetico dell’organismo. Nel caso della mutazione casuale sarà invece il meccanismo della selezione naturale a determinare il successo o meno dell’organismo mutato; mutazione che, come osservò Darwin, di solito si conserva quando apporta un miglioramento alla specie, quando si dimostra a essa utile, mentre viene eliminata nell’arco di qualche generazione nel caso contrario. Il più adatto (non il più forte) sopravvive e prospera, il meno adatto si estingue più o meno rapidamente.  Le mutazioni si introducono nel patrimonio genetico di una specie del tutto casualmente: la selezione naturale fa il resto. Secondo un Piano? Ma non scherziamo! Mi correggo: personalmente non penso che ci sia un Piano di qualche tipo, ma un processo oggettivo di cui noi legittimamente cerchiamo di afferrare il senso.

Soprattutto i microrganismi vanno incontro a rapide mutazioni, più o meno significative, a causa della loro struttura biologica estremamente elementare e alla loro incredibile velocità di replicazione [3]. Se nel processo di replicazione del patrimonio genetico qualcosa va storto, per così dire, assistiamo alla mutazione genetica di una cellula, di un virus, di un batterio, eccetera. Se, ad esempio, il virus mutato casualmente mostra di possedere una maggiore infettività e una maggiore capacità di adattamento a determinate condizioni biologiche (un corpo animale di qualche tipo) rispetto al virus di partenza, è ovvio che nel giro di qualche tempo il virus modificato soppianterà, in tutto o in larga parte, il ceppo virale originario, e così via, lungo una catena di modificazioni del tutto casuali. Siamo noi che razionalizziamo questo processo naturale come «intelligente strategia di adattamento del virus», rendendo operativo una concettualizzazione del reale non molto dissimile dal modo di pensare mitologico. D’altra parte, il pensiero mitologico fu il primo sofisticato tentativo umano di dare un senso ai fenomeni naturali e sociali.

Gli organismi complessi sono dotati di un sistema di feedback proteico che controlla la delicata operazione di sintesi degli acidi nucleici, in modo da “correggere” eventuali errori nella replicazione genetica, o di restringerli a un numero molto limitato, tale che la quantità degli errori non generi un – hegeliano – salto qualitativo. Gli scienziati chiamano questa attività di controllo «correzione delle bozze» (proof-reading). Soprattutto per questo gli organismi cosiddetti superiori mutano con estrema lentezza, vantano per così dire una grande inerzia genetica, mentre scendendo nella scala della complessità bio-strutturale cresce esponenzialmente la velocità di replicazione e, quindi, di “errore”.

«Il virus non ha alcun interesse a uccidere l’ospite»: ma le cose non stanno affatto così! Semplicemente accade che il ceppo che annienta l’ospite molto rapidamente altrettanto rapidamente si estingue, mentre quello che lo lascia – di fatto, “oggettivamente”, non in virtù di una scelta – in vita più a lungo si conserva nel tempo. È quello che ad esempio è accaduto all’HIV, che oggi sopravvive come specie virale soprattutto nei suoi ceppi – relativamente – meno virulenti e in grado di adattarsi continuamente al processo di cronicizzazione della malattia a essi associata (AIDS) realizzato dai farmaci. Questo feedback da parte del virus, che si sostanzia in una sempre più rapida moltiplicazione (che fa aumentare le probabilità di un virtuoso “errore”) non ha nulla che si possa anche solo lontanamente definire intelligente – o stupido. L’intelligenza – o stupidità – sta solo dalla parte umana.

Il pensiero di molte persone semplicemente si rifiuta di accettare l’idea che gli effetti profondi e durevoli dovuti alle mutazioni genetiche possono avere come loro causa un evento del tutto casuale. Anche quando non si arriva a dargli una formalizzazione nominalistica, un nome e un cognome, in quel modo di concepire la realtà il concetto del Piano Intelligente si affaccia da tutte le parti. Quando Darwin sottopose L’origine della specie (1859) all’attenzione di John Herschel, che egli considerava il suo eroe scientifico, ne ricevette in cambio una dolorosa stroncatura. Soprattutto Herschel liquidò come «legge alla rinfusa» l’idea della variazione spontanea o casuale. «L’obiezione più ostinata di Herschel alla teoria darwiniana era la sua sensazione che nuovi caratteri favorevoli non sarebbero mai potuti apparire dalla semplice variazione casuale. In vari scritti pubblici sostenne che quelle caratteristiche avrebbero sempre richiesto “una mente, un piano, un progetto”, semplicemente, e ovviamente escludendo la visione accidentale della questione e il concorso casuale degli atomi”» [4]. Ad Herschel ripugnava l’idea che si potesse tirare in ballo la casualità in questioni così importanti per l’uomo e per la scienza: che cosa bizzarra! Il “bizzarro” Darwin ovviamente non sapeva nulla di DNA, il portatore dell’informazione genetica, e di RNA, anch’esso coinvolto nella trasmissione del contenuto genetico, ma aveva capito benissimo il meccanismo casualità-selezione che stava alla base delle mutazioni delle specie e che, come oggi sappiamo, chiama in causa la «biochimica delle catene polipeptidiche che formano le proteine che si ripiegano a forma di elica» (James D. Watson). Senza la comprensione del meccanismo darwiniano quella biochimica ci restituisce un semplice dato di fatto, il sostrato biologico di un processo che va in ogni caso spiegato.

La casualità ha avuto nella storia dell’uomo un ruolo importantissimo.  Come sappiamo, molte scoperte (ad esempio in agricoltura o nella farmacopea) hanno avuto un’origine del tutto casuale, e si sono conservate solo perché l’uomo ne ha riconosciuta la bontà. Si deve piuttosto osservare che la casualità non si dà nel vuoto, in un astratto ambiente naturale e sociale, ma come essa debba relazionarsi con qualcosa –  un contesto – concreto, e quindi come ciò che accade per puro caso spesso non rimane privo di conseguenze. In ogni caso, nessun evento rimane privo di conseguenze. Per questo mi pare più interessante riflettere sulle condizioni ambientali (di qualsiasi natura esse siano: naturali o sociali) che fanno da sfondo all’evento casuale, piuttosto che sull’evento in sé, colto nella sua (impossibile) autonomia rispetto alla totalità del reale.

«La generazione di varianti virali contenenti una o più mutazioni rispetto al progenitore è quindi un fatto atteso, scontato e perseguito»[5]. Scontato (per noi) e atteso (da noi), non c’è dubbio; ma «perseguito» da chi?

Perché sentiamo il bisogno di attribuire una volontà e un’intenzione a qualsiasi cosa, o di stabilire un’immediata relazione di causa-effetto anche nei casi in cui è evidente, a uno sguardo solo un po’ più avvertito, che è ridicolo tirare in ballo i concetti di volontà e di causalità? Per renderci più facile la vita? Non posso escluderlo, tutt’altro. Per ragioni di “economia di pensiero”? Probabile. Ma ciò che a mio avviso è importante rilevare, non è tanto l’uso “economico” dei concetti e della logica, cui spesso siamo costretti per ragioni pratiche; quello che ai miei occhi è degno di considerazione è il fatto che a un certo punto perdiamo il controllo dell’operazione “mentale” che eseguiamo, e questo ne causa la fissazione e cristallizzazione nel nostro modo di concettualizzare la realtà e di rapportarci con essa. Lo strumento cessa insomma di essere al nostro servizio e noi stessi ci facciamo, senza averne la minima contezza, a sua immagine e somiglianza: ragionare “economicamente” diventa il solo modo di ragionare che conosciamo, e a questo punto il pensiero critico non trova appigli, e scivola come chi andasse a piedi nudi su una lastra di vetro bagnata posta in verticale: impossibile!

Come si è capito questa breve riflessione ha poco a che fare con i virus o con altre “problematiche” scientifiche in senso stretto, anche perché chi scrive si muove in esse da perfetto ignorante; essa ha piuttosto a che fare con lo sforzo di capire il modo in cui ragioniamo, come noi razionalizziamo la realtà, cosa che il più delle volte facciamo usando acriticamente schemi logici e concettuali che solo ai nostri occhi si mostrano perfettamente in grado di dar conto di ciò che accade intorno a noi. Spesso è sufficiente riflettere un po’ più criticamente del solito sulle parole che usiamo per esprimere i concetti, per renderci conto di quanto sia assurda la nostra razionalizzazione dei fatti: come può un virus essere intelligente, stupido, cattivo e via di seguito? Come può un virus scegliere una strategia di adattamento, di replicazione e di diffusione piuttosto che un’altra? Semplicemente non può.

Per quanto riguarda la natura essenzialmente sociale – tanto nella sua genesi quanto nelle sue conseguenze – della pandemia che ormai da oltre un anno imperversa sul mondo, rimando al PDF Il Virus e la nudità del Dominio.  Detto en passant, dal vaccino russo a quello americano; dal vaccino cubano a quello cinese e così via, sulla nostra pelle si sta giocando una schifosissima partita geopolitica. Ma su questo aspetto della questione ci sarà modo di ritornare.

 

[1] «”A margine del dibattito sull’opportunità o meno dell’obbligo vaccinale si è sviluppata in Italia una più generale discussione su una questione davvero non semplice: la scienza è democratica? È stato soprattutto Roberto Burioni a sostenere presso il grande pubblico una risposta negativa. Secondo il noto scienziato del San Raffaele, “la scienza non è democratica”, perché in ogni suo settore (ad esempio quello dei vaccini) l’opinione degli esperti – una volta verificato il consenso nella comunità scientifica – deve senza incertezze prevalere su quella di chi non ha studiato la materia” (AA. VV., Fake news in ambito medico-scientifico e diritto penale, p. 26, Filodiritto Editore, 2019). Cercherò di criticare questa posizione autoritaria, che postula l’obbligo vaccinale, non dal punto di vista dell’astratta democrazia, del cosiddetto principio di maggioranza, bensì da quello che contesta radicalmente – alla radice – la stessa divisione sociale del lavoro come si configura nella società capitalistica, a cominciare dalla divisione sociale tra lavoro intellettuale e lavoro manuale. L’immunità di gregge che hanno in testa gli scienziati che pensano come Burioni presuppone l’esistenza degli individui come gregge, come massa di individui atomizzati privi di un punto di vista generale sulla società che pure essi stessi riproducono giorno dopo giorno, sempre di nuovo» (Il Virus e la nudità del Dominio, p. 121).
[2] B Spinoza, Etica, p. 69, Fratelli Melita, 1990.
[3] «Batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana» (R. M. Nesse, G. C. Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999).
[4] D. Kingsley Dagli atomi ai caratteri, Le scienze, n. 486, 2009.
[5] Varianti virus, quando un fenomeno naturale e atteso diventa una notizia, Infezioni obiettivo zero, 2021.

IL NOME DELLA MALATTIA E QUELLO DELLA CURA

La distruzione degli ecosistemi attraverso la deforestazione, l’inquinamento, il riscaldamento e quant’altro ha creato in alcune aree del nostro pianeta un habitat favorevole alla vita dei pipistrelli, i quali hanno, come ormai sappiamo, «una tragica peculiarità: veicolano circa 3000 tipi diversi di coronavirus. La maggior parte dei quali non si trasmettono agli esseri umani, con qualche eccezione: Mers, Sars e ora Covid-19» (La Repubblica, 5/02/2021).

L’ultimo studio scientifico che dimostra quanto appena affermato è di qualche giorno fa, e ieri ne parlavano tutti i maggiori quotidiani italiani. «I ricercatori del Dipartimento di Zoologia dell’Università di Cambridge suggeriscono che negli ultimi 100 anni l’innalzamento delle temperature globali abbia portato a una esplosione di specie di pipistrelli nella provincia cinese dello Yunnan, a confine con Myanmar e il Laos. Quella stessa area da cui, secondo gli studi genetici, si sarebbe originato il Sars Cov-2, passato probabilmente ai pangolini e poi agli esseri umani. Nello studio pubblicato sulla rivista Science of the Total Environment si specifica che ben “40 specie di pipistrelli si sono trasferite nell’ultimo secolo verso la provincia cinese meridionale dello Yunnan, specie che ospitano circa 100 tipi diversi di coronavirus”. Ma qual è il meccanismo che ha portato alla concentrazione in una stessa area di così tanti mammiferi alati e dei loro parassiti virali? “Il cambiamento climatico degli ultimi cento anni ha trasformato questa provincia cinese in un habitat ideale per i pipistrelli”, risponde Robert Beyer, zoologo a Cambridge e primo autore dello studio. Più nel dettaglio, i ricercatori del team inglese hanno dimostrato come le variazioni, verificatesi da inizio Novecento a oggi, di temperatura, luce solare e anidride carbonica presente nell’atmosfera abbiano trasformato un’area caratterizzata da arbusti tropicali in savane e boschi di latifoglie. Un ambiente perfetto per molte specie di pipistrelli che vivono nelle foreste. […] Non sarebbe in sé una notizia clamorosa: il riscaldamento globale sta innescando migrazioni in tutto il mondo animale, dagli orsi polari ormai senza ghiaccio ai pesci che inseguono il mutare delle correnti» (La Repubblica).

Purtroppo per noi, i pipistrelli (*) sono portatori della «tragica peculiarità» riportata sopra. Comunque sia, pipistrelli o meno, non c’è dubbio che oggi siamo esposti al rischio di malattie infettive molto di più che in passato. Ma a chi attribuire la responsabilità “ultima” (ma anche “prima”, a ben vedere) di questa sciagurata esposizione? È una domanda che rivolgo a tutti, anche ai “complottisti”, ai “negazionisti” e ai loro critici più spietati – quelli che amano sparare sulla Croce Rossa, per intenderci.

Secondo David Quammen, l’autore dell’ormai famoso e celebrato Spillover, «Dobbiamo raccoglierci, tutti, intorno allo stesso falò intellettuale, e costruire una comunità di persone consapevoli» (Il Corriere della Sera). Esatto! Ma in che senso? Sempre secondo Quammen, «la scomparsa della biodiversità, i nuovi patogeni e i cambiamenti climatici non sono l’una la causa dell’altra, ma sono fenomeni collegati», ed è anche per questo che, a mio avviso, non ha alcun senso attribuire una nazionalità ai patogeni che minacciano la nostra salute e la nostra stessa vita. Il Coronavirus che ci tormenta non parla una lingua nazionale (il cinese, ad esempio), ma la lingua del rapporto sociale di produzione oggi dominante in ogni parte del mondo: dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Europa all’Africa, ecc. Chi desidera usare un linguaggio meno “ideologico”, “vecchio” e politicamente connotato del mio, può sempre parlare di “attività antropiche” non meglio definite sul piano storico e sociale: non c’è problema! O no?

«La Terra è malata. Lo sappiamo da anni. Quello che non sappiamo è quale livello abbia raggiunto il suo malessere. I segnali ci sono. Basta guardarsi in giro, vedere e assistere alle reazioni di una natura che si ribella al riscaldamento globale, agli uragani che si abbattono con furia devastando cose e uomini; al disboscamento selvaggio che provoca gli incendi; alle piogge battenti che sommergono interi territori lasciando sul lastrico chi sulla terra ci lavora e ci campa, costringendo a esodi intere popolazioni. Adesso, c’è un elemento in più. Nuovo. Che spinge gli esperti e gli scienziati a redigere un rapporto allarmante: ci sono sempre più specie di animali selvatici che hanno contratto strane forme di infezione. Micosi, funghi, escoriazioni cutanee e del pelo. Sono aggredite da nuovi virus. Il rischio è che lo possano trasmettere ai loro fratelli e sorelle domestiche e da questi ai noi umani. Un “salto di specie”, quello che si chiama zoonosi e che i virologi, ma non solo loro, considerano il veicolo con cui i misteriosi microrganismi ci aggrediscono per nutrirsi, sopravvivere e espandersi. Il Covid-19 è l’ultimo esempio devastante. La malattia del Pianeta sembra aver raggiunto anche la vita silvestre. La fauna selvatica è sempre più aggredita a seconda dell’attività umana» (La Repubblica, 20/11/2020).

Come si chiama la malattia che affligge il nostro pianeta? E qual è, a mio modesto avviso, il solo “programma specifico” in grado di guarirlo intervenendo sulle radici stesse della malattia? Non intendo rispondere a queste due impegnative domande; non per un’improvvisa défaillance cognitiva, o per paura di incorrere in una censura algoritmica (l’Intelligenza Artificiale è troppo sofisticata per curarsi delle mie riflessioni analogiche), ma per non essere ripetitivo.

(*) «In tutto il sudest asiatico il guano di pipistrello costituisce un’importante risorsa economica per le popolazioni locali. Per esempio, in Cambogia, ove il guano di pipistrello è considerato “oro nero”, esso viene raccolto sia direttamente nelle grotte, da appositi minatori, i quali a mani nude e senza nessuna protezione riempiono sacchi della preziosa merce, sia stendendo delle reticelle al di sotto delle rotte frequentate dai pipistrelli, per raccogliere il guano da essi rilasciato in volo (e quindi fresco), come spiegato in un’intervista apparsa sul South-East. Il guano di pipistrello è così apprezzato, che anche l’agricoltura biologica dei ricchi paesi occidentali vi ha accesso, ed è possibile comprarlo direttamente sia su Amazon sia dalla sua controparte cinese, il sito di vendite online AliBaba. Esso, quindi, non solo sostiene l’agricoltura locale – specialmente di riso – ma alimenta una economia che rimpingua le magre casse dei locali, i quali, giustamente, lo valorizzano come una risorsa pregiata per sbarcare il lunario» (E. Bucci, Il Foglio, 3/8/2020). Quando si dice economia di merda!

Leggi:

Il Virus e la nudità del Dominio
E se Greta avesse ragione? Rivoluzione!
L’apocalisse al tempo di Greta Thunberg
Lettera di un anticapitalista a Greta Thunberg
Appesi alle opposte “evidenze scientifiche”
Salvare il pianeta! Ma da quale catastrofe esattamente?

CONTAMINAZIONI…

Quello che oggi vediamo saltare in diretta televisiva è solo l’anello più debole della catena sociale, e annuncia quello che potrebbe verificarsi tra qualche giorno o tra qualche settimana se la crisi sociale in corso dovesse acuirsi ulteriormente in termini economici, sanitari, psicologici, “esistenziali”, in una sola parola: sociali. In questi giorni si stanno facendo sentire i soggetti economici e sociali che vivono perlopiù di ristorazione, di servizi alla persona, di traffici più o meno legali (dal punto di vista dello Stato e dei governanti, s’intende), di lavori più o meno “neri” e “abusivi” (gli esperti parlano eufemisticamente di “economia informale”); ma si tratta solo dell’avanguardia della disperazione, della punta di un gigantesco iceberg che galleggia su un mare di preoccupazioni, di frustrazioni e  di bisogni insoddisfatti che forse preannuncia l’arrivo di una tempesta sociale d’altri tempi. Che poi sono esattamente i nostri tempi. Certo, forse; niente è certo in questi cupi tempi, salvo la vigenza di un dominio sociale che getta con cieca e ottusa determinazione gli individui nel tritacarne delle compatibilità economiche, con quel che necessariamente ne segue in ogni aspetto della nostra vita quotidiana.

In ogni caso, quello che è successo e sta succedendo in molte città italiane è già più che sufficiente per allarmare la classe dirigente di questo Paese – sindacati “responsabili” inclusi. «È stato un attacco eversivo», ha dichiarato ad esempio il democratico ed ex Ministro degli Interni Marco Minniti: «Quando dei gruppi organizzati assaltano proditoriamente le forze di polizia è già in sé drammatico. Se poi questo avviene in una fase di emergenza estrema c’è una sola parola per descrivere l’accaduto: eversione» (La Repubblica). Minniti forse non è un esempio probante, visto che il “simpatico” personaggio vede atti “eversivi” anche nei bambini che per gioco si rincorrono dentro un parco; non c’è dubbio però che le sue parole danno voce alle preoccupazioni che serpeggiano nella classe dirigente. Al suo compare di partito Graziano Delrio preoccupa invece, e più intelligentemente, «la rabbia degli uomini miti», cioè la massa dei cittadini non abituati a scendere in piazza ma che adesso potrebbero farlo loro malgrado perché spinti da una condizione sociale (non solo economica) non più sostenibile. In molti bravi cittadini cova anche una certa delusione: «Ma come, non eravamo il modello che tutto il mondo ci invidiava? Da mesi non si parla d’altro che di “seconda ondata”, e adesso che l’ondata è arrivata non abbiamo nemmeno i salvagenti per tenerci a galla? Che cosa ha fatto il governo in tutti questi mesi mentre parlava di “seconda ondata”?». Roberto Saviano dà voce alla frustrazione dei bravi cittadini (e quindi non sto parlando di me): «A Conte, il primo ministro che ha avuto forse più potere negli ultimi decenni, tutto quel che sta accadendo ha finito per dare una sorta di “intoccabilità”: tutti ci raccogliamo attorno al capo. Un capo che non ci sta proteggendo» (La Stampa). Al gregge manca dunque un buon pastore?

A proposito di gregge, Andrea Macciò ha scritto qualche giorno fa un interessante articolo sul «virus del vittimismo»: «Sentirsi vittime bisognose di protezione, eternamente infantilizzate, senza diventare mai adulti responsabili delle proprie scelte, porta a lasciarsi governare dalla paura e con la paura. La paura resta un metodo efficacissimo di governo. La paura di morire o essere intubati. Nulla è più irrazionale e prepolitico della paura di morire» (BlogLeoni). Non c’è dubbio. Ma, come si legge su alcuni cartelli portati nelle piazze italiane in questi giorni, non si muore solo di Coronavirus ma anche di estrema indigenza e di mancanza di prospettive. Massimo Cacciari, dall’alto della sua prospettiva filosofica, conferma: «Non esiste solo il coronavirus. Esistono decine di altre cause di morte, compresa la fame. Dunque, o ci sono gli aiuti o mi pare inevitabile che la rabbia esploda» (Libero Quotidiano). E se lo dice lui…

Come sempre accade in casi simili, i politici e i media nazionali denunciano i mestatori che approfittano del disagio sociale, «che è reale e che va rispettato e ascoltato» (bontà loro!), per destabilizzare l’ordine sociale e compromettere la coesione nazionale. «Camorristi, mafiosi e professionisti della ribellione, di destra e di sinistra, stanno cercando di cavalcare l’onda della paura e della disperazione per perseguire i loro criminali obiettivi». Camorristi, mafiosi, “ribelli” di varia tendenza politico-ideologica e “professionisti del caos” sono messi dunque nello stesso sacco criminale, tutti ugualmente additati all’opinione pubblica come il male da cui guardarsi. In ogni caso, «l’onda della paura e della disperazione» esiste, è un fatto oggettivo che si presta a diverse interpretazioni e a differenti (anche opposti, si spera) atteggiamenti politici.

La natura composita della stratificazione sociale di questa “opposizione dal basso” ai provvedimenti governativi, come la sua completa estraneità a una posizione radicalmente antagonista, credo non debbano consigliare l’anticapitalista “senza se e senza ma” a sottovalutarne quantomeno la natura sintomatica, cosa che certamente non fa la classe dirigente, per ovvi motivi. E non bisogna certo essere un Roberto Saviano (sempre lui!) per capire che nella prima manifestazione napoletana «c’era la disperazione del Sud che sta scoppiando», e che «è ovvio che nelle confuse manifestazioni di rabbia popolare finisca per entrare di tutto». Ma adesso il “virus della protesta” minaccia anche il Nord del Paese (vedi Milano e Torino), dove è più facile che si realizzi una saldatura tra la classe operaia “tradizionale” e la massa dei lavoratori precari impiegati perlopiù nei servizi. Tu chiamale se vuoi, contaminazioni…

Come ben sappiamo, molte cosiddette “partita iva” non sono che lavoratori sotto mentite spoglie dal punto di vista fiscale. C’è anche da dire che molti lavoratori “in nero” che prima arrotondavano il loro bilancio con il Reddito di Cittadinanza, a ottobre non percepiranno il sussidio (perché di questo si tratta: altro che “politiche attive del lavoro”!) e non sanno se la loro richiesta di rinnovarlo sarà accettata dall’INPS.

Per adesso i titolari delle attività economiche messe in ginocchio dagli ultimi provvedimenti governativi scendono in strada insieme ai loro dipendenti, molti dei quali peraltro lavorano “in nero”, ma non è detto che la situazione non possa cambiare, che questa solidarietà “interclassista” non possa spezzarsi o evolvere in qualche cosa d’altro, sempre posto che il movimento di lotta non abbia una vita effimera.

Il Presidente della Repubblica ci ricorda continuamente che «il nemico di tutti è il virus», e che quindi contro questo nemico tutti dobbiamo stringerci a coorte: ma tutti chi? In ogni caso io mi chiamo fuori dall’unità nazionale, come proletario, come anticapitalista e come individuo che subisce l’irrazionalità di una società che pure vanta il controllo teorico e pratico dell’atomo e la capacità di guardare negli occhi, per così dire, il Big Bang. Eppure questa stessa società trova, ad esempio, più conveniente investire in sofisticatissimi sistemi d’arma piuttosto che in forniture mediche, e così mentre gli Stati e le imprese finanziano guerre attuali e potenziali, gli ospedali non sono attrezzati per gestire una crisi sanitaria che solo a certe condizioni (le abbiamo sperimentate e continuiamo purtroppo a farlo) poteva diventare una catastrofe sociale. Ma sulla vera identità del nostro nemico rinvio ai miei precedenti post dedicati alla crisi sociale chiamata Pandemia.

IL VIRUS E LA NUDITÀ DEL DOMINIO

Non c’è niente da fare: se «l’uomo in quanto uomo» non esiste, tutto il male concepibile (e anche quello che oggi non riusciamo nemmeno a immaginare) è possibile e altamente probabile – anche sotto forma di virus…

 

Una lettrice ha così commentato su Facebook il mio ultimo post dedicato al Coronavirus e al feticismo associato alla malattia che esso causa: «Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole. È anche con i virus, diventati parte di noi, che ci siamo trasformati nel corso dell’evoluzione». Non c’è dubbio.

Su quest’ultimo aspetto proprio un mese fa ho letto un libro scritto da due scienziati americani teorici del punto di vista evoluzionista nello studio delle malattie e nella profilassi medica: le malattie (cause e sintomi) come adattamento del corpo plasmato dalla selezione naturale, come adattamento evolutivo sempre esposto ai mutamenti ambientali – molto spesso causati dal puro caso. Un testo che consiglia di andarci piano con antibiotici e vaccini, senza ovviamente negarne la validità in termini assoluti: «È sbagliato non prendere l’aspirina solo perché sappiamo che la febbre può essere utile, ed è un errore non trattare sintomi spiacevoli di alcuni casi di nausea da gravidanza, allergia e ansia. […] Un approccio evolutivo suggerisce però che molti trattamenti potrebbero non essere necessari, e che dovremmo chiarire se i benefici siano superiore ai costi» (1). Il problema, continuano gli autori, è che «batteri e virus possono evolversi in un giorno più di quanto possiamo noi in mille anni. Questo è un handicap ingiusto e grave nella corsa agli armamenti: non possiamo evolvere abbastanza velocemente da sfuggire ai microrganismi. […] Da un punto di vista immunologico, un’epidemia può cambiare drasticamente una popolazione umana». A questo punto potremmo esclamare abbastanza sconsolati, o semplicemente armati di “sano realismo”: È l’adattamento evolutivo, bellezza!

Ma l’uomo non solo non subisce passivamente la cieca pressione esercitata dall’ambiente esterno sul suo corpo e sulla sua comunità, ma col tempo ha imparato ad affinare strategie di sopravvivenza sempre più efficaci, finendo per trasformare la stessa natura in una sua gigantesca riserva di cibo, di strumenti e di creatività. La storia naturale è insomma intimamente intrecciata alla storia umana, e non a caso diverse nostre malattie (a cominciare dalla comune influenza) risalgono agli albori della nostra civilizzazione, quando abbiamo iniziato ad addomesticare piante e animali. Questo semplicemente per dire che ormai da migliaia di anni il nostro processo evolutivo si dà necessariamente all’interno di società (con “annessa” natura) storicamente caratterizzate, e non in un ambiente puramente naturale o comunque socialmente neutro: tutt’altro! Tanto è vero che molte malattie (morbillo, tubercolosi, vaiolo, pertosse, malaria) sono state debellate o grandemente ridimensionate nei Paesi capitalisticamente sviluppati del mondo, mentre altre si sono diffuse in stretta connessione al nostro cosiddetto “stile di vita”. Si assiste poi proprio nei Paesi di più antica tradizione capitalistica al sempre più allarmante fenomeno della resistenza agli antibiotici, per cui batteri sensibili alla penicillina che negli anni Quaranta del secolo scorso sembravano aver imboccato la strada dell’estinzione (con la produzione industriale dei vaccini e la moderna profilassi), nel corso dei decenni hanno invece sviluppato enzimi in grado di degradare la penicillina: «Oggi, il 95 per cento dei ceppi di stafilococco mostra una certa resistenza alla penicillina» (Perché ci ammaliamo).

Per virus e batteri il nostro corpo è il loro ambiente esterno che li sfida, e non hanno altra “strategia di sopravvivenza” che non sia quella di mutare, di evolvere, di adattarsi a circostanze sempre mutevoli: è la «corsa agli armamenti» tra “creature aliene” e “ospite” cui accennavo prima. Per l’uomo l’adattamento a virus, batteri e quant’altro è sempre e necessariamente socialmente mediato. «Questa asserzione non significa negare che batteri e virus facciano ammalare il corpo biologico e siano conseguentemente causa di infezioni, ma che quando bisogna pensare al lamento, al disagio e al dolore nella clinica medica e nella psicoanalitica, è necessario considerare e valutare gli effetti del linguaggio e del discorso» (2), ossia, detto nei “miei” termini, della prassi sociale umana e delle «relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale» (3).

Mi si consenta a questo punto una brevissima digressione sotto forma di una metafora abbastanza rozza e banale. Una pistola spara un proiettile che colpisce a morte una persona: a chi o a cosa attribuire la responsabilità del triste evento? Al proiettile? alla pistola? alla mano che la impugna? Ovviamente al soggetto che ha sparato, che ha messo in moto la catena degli eventi. Qui i motivi dell’insano gesto non ci riguardano. Ecco, il Covid-19 ci è stato sparato contro da una società che distrugge foreste e ciò che rimane delle nicchie ecologiche, che fa un uso sempre più intensivo degli allevamenti, che investe nel settore sanitario secondo parametri di economicità e non di pura umanità (4), che di fatto mette al centro delle sue molteplici attività la ricerca del profitto e non la sicurezza delle persone, che fa dei lavoratori, dei disoccupati e in generale dei senza riserve, i soggetti di gran lunga più vulnerabili alle malattie e alle sciagure, e potrei continuare su questa strada lastricata di miseria sociale – “materiale” e “spirituale”.

La mia tesi è che il calcolo economico (legge del profitto e legge delle compatibilità tra “entrate” e “uscite”) che domina nella società capitalistica realizza una prassi sociale che nella sostanza è del tutto irrazionale, nonostante la scienza e la tecnica vi abbiano un ruolo a dir poco fondamentale. Oggi davvero l’umanità potrebbe avere nelle sue mani il proprio destino, eliminando le cause oggettive (che cioè prescindano da qualsivoglia intenzione e volontà umane) che generano sempre di nuovo irrazionalità (“disfunzionalità”) d’ogni genere, con ciò che ne segue in termini di crisi economiche, di disagio sociale, di precarietà esistenziale, di sofferenze fisiche e psicologiche, di crisi ecologiche, eccetera, eccetera, eccetera. Ciò che stiamo vivendo nell’ormai famigerata Epoca del Coronavirus (da d.C. a d.C.) la dice lunga sul carattere irrazionale (disumano e disumanizzante) della nostra società. Da anni si parlava della possibilità di una pandemia del tipo che stiamo sperimentando, ma il “sistema” ha ritenuto più opportuno non allocare risorse finanziarie nella prevenzione, sperando che quella possibilità non si trasformasse in una realtà, almeno a breve scadenza, e intanto continuare nella solita vita fatta di lavoro, di vendite, di acquisti, di viaggi, di affari, di investimenti, di speculazioni, eccetera. Lo spettacolo del Capitale deve continuare!

Mutuando Spinoza enuncio quanto segue: Dicesi schiavitù l’incapacità umana di dominare le cause e gli effetti della prassi sociale. Questa schiavitù non ha dunque a che fare direttamente con la sfera politico-istituzionale di un Paese, ma essa chiama in causa direttamente il suo fondamento sociale, la sua “struttura” economico-sociale. Di qui il concetto di totalitarismo sociale che secondo me è la chiave che apre alla comprensione dell’attuale crisi sociale.

La responsabilità “ultima” della pandemia ancora in corso è dunque della società capitalistica, la quale ha oggi una dimensione mondiale – e, com’è noto, scienziati particolarmente “visionari” e capitalisti dal “pensiero lungo” (almeno quanto il loro conto in banca) operano per allargarne i confini oltre l’angusto orizzonte del nostro pianeta: si vuol portare il virus capitalistico su altri mondi! Ma è possibile, e non solo auspicabile, un altro mondo? Personalmente non ho alcun dubbio su questa eccezionale possibilità, e il fatto che essa oggi sia negata dalla realtà nel modo più radicale e doloroso, e che certamente io non la vedrò mai realizzarsi, ebbene questo non cambia di un solo atomo il fondamento oggettivo (storico e sociale) di questa splendida alternativa al cattivissimo presente.

Io non chiedo di immaginare la società perfetta, la società che non conosce la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto, ecc.; si tratta piuttosto di concepire la possibilità di una comunità che sappia affrontare in termini umani (umanizzati) la sofferenza, la malattia, la morte, l’imprevisto e così via. Concepire l’inconcepibile, mettere radicalmente in discussione l’idea che per un qualche motivo l’umanità non possa affrancarsi dalla divisione classista della società e costruire una Comunità nel cui seno fratelli e sorelle collaborano alla felicità di tutti e di ciascuno. In fondo lo dice anche il Papa: Fratelli tutti! Il pensiero deve reagire al torpore della routine che lo intrappola nel cerchio stregato dell’ideologia dominante, e giungere a questa straordinaria conclusione: Si può davvero fare! Dobbiamo offrire al pensiero la possibilità di vedere finalmente nudo il Dominio, un po’ come il bambino della celebre favola di Anderson; e così capire che nella sua vigenza non c’è nulla di naturale o di sovrannaturale, di inevitabile o di assolutamente necessario, ma solo una questione di coscienza (o incoscienza: la nostra) e di rapporti di forza. Io cerco di dare il mio modestissimo contributo a questa vera e propria rivoluzione del pensiero, sperando ovviamente che essa non rimanga solo nel pensiero.

DAMMI TEMPO…
«Non riteniamo di introdurre una norma vincolante ma vogliamo dare il messaggio che se si ricevono persone non conviventi anche in casa bisogna usare la mascherina» (Premier G. Conte).
«Quando c’è una norma, questa va rispettata e gli italiani hanno dimostrato di non aver bisogno di un carabiniere o di un poliziotto a controllarli personalmente. Ma è chiaro che aumenteremo i controlli, ci saranno le segnalazioni» (Ministro R. Speranza).

L’esperienza della Pandemia sta portando altra velenosissima acqua alla tesi secondo cui oggi ci riesce più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. La rivoluzione sociale appare anche ai miei anticapitalistici occhi abissalmente lontana; ma penso anche che se per un qualche motivo essa diventasse improvvisamente possibile nella testa di molte persone, altrettanto repentinamente quello straordinario evento diventerebbe talmente vicino nella realtà, da poterne quasi avvertire l’odore, per così dire. Come ho scritto altrove, non ho la pretesa di pensare che con me debba finire la storia, e che altri dopo di me non possano conoscere la rivoluzione sociale e la Comunità umana; bisogna essere davvero arroganti, presuntuosi e soprattutto deboli di immaginazione, per cristallizzare in eterno (fortunatamente solo nel pensiero!) il pessimo presente. Intanto, così come respiro, mangio, dormo, eccetera, rinnovo sempre di nuovo la mia irriducibile ostilità nei confronti di questa società disumana: più che di scelta, dovrei piuttosto parlare di fisiologia!

Fin dall’inizio della crisi sociale chiamata Pandemia ho cercato di mettere in luce il carattere oggettivo del processo sociale in corso su scala mondiale, il quale ha peraltro approfondito e accelerato tendenze economiche, tecnologiche, geopolitiche, politiche e istituzionali già da molto tempo attive – e produttive di fatti – in tutti i Paesi capitalisticamente più avanzati del mondo. Come sempre, la realtà non crea mai nulla a partire dal nulla, ma impasta, per così dire, materiale sociale già esistente aggiungendone dell’altro solo in parte o interamente nuovo; il problema è piuttosto quello di capire fino a che punto abbiamo il controllo della situazione e la natura (la “qualità”) della realtà che contribuiamo a creare giorno dopo giorno.

Il carattere autoritario, per non dire altro, delle misure politiche prese in questi asfissianti e alienanti mesi pandemici dal governo italiano a mio avviso si connette in primo luogo a processi che per l’essenziale sfuggono anche al controllo degli stessi decisori politici, i quali sono stati chiamati a un rapido adattamento alla situazione che si è venuta a creare di volta in volta su scala nazionale e globale. Sappiamo poi come i politici nostrani eccellano nell’arte dell’adattamento, e come essi sanno approfittare delle situazioni emergenziali per intascare lauti dividenti elettorali e cementare il loro consenso e il loro potere – due facce della stessa medaglia democratica. Tuttavia, il “complotto” ai nostri danni non è da ricercarsi nella volontà di Tizio piuttosto che di Caio, senza parlare dei soliti “poteri forti” (meglio se infiltrati da qualche “lobby ebraica”): è questa società che complotta tutti i giorni contro gli individui, contro le classi subalterne, contro la possibilità di relazioni autenticamente umane. Per questo non si tratta, per chi scrive, di cambiare governi e governanti, ma di mettere la parola fine a questa società e iniziare la storia della Comunità umana, la storia dell’«uomo in quanto uomo». Vasto Programma, non c’è dubbio, e per questo qui conviene mettere un bel punto.Ogni Paese ha cercato di gestire la “crisi sanitaria” ricercando un difficile bilanciamento tra protezione della salute del corpo sociale, per assicurare la continuità del sistema ed evitare una più grave catastrofe sociale (con relative tensioni generatrici di conflitti potenzialmente disastrosi per il vigente ordine sociale), e protezione della struttura economica, per evitare un collasso economico dagli esiti imprevedibili ma certamente destabilizzanti. Il tutto naturalmente sulla base delle strutture sociali e delle configurazioni politico-istituzionali dei diversi Paesi, nonché delle loro diverse esperienze in materia di epidemie: negli ultimi venti anni la Cina e altri Paesi asiatici si sono confrontati molto spesso con le epidemie virali. È ovvio che nei Paesi a regime politico-istituzionale totalitario il lockdown viene meglio, per così dire, è di più facile, rapida e sicura implementazione, soprattutto se sono in grado di servirsi di un’avanzata tecnologia idonea al controllo e alla repressione dei comportamenti sociali. Non per niente la Cina si è subito proposta all’attenzione dell’Europa come il modello da seguire, sebbene con adattamenti e innesti “democratici”. Il lockdown con caratteristiche europee, insomma. Quello italiano è stato particolarmente duro, tale da evocare lo spettro del “fascismo sanitario”. Certo è che sentir parlare di «dittatura sanitaria» da parte di personaggi che sostengono i regimi di Cina, Cuba, Venezuela e non so di quanti altri Paesi rigorosamente antiamericani, fa davvero sorridere, diciamo così. Sto per caso alludendo anche al noto filosofo-comico Diego Fusaro? Fate un po’ voi! (5)

Per usare un’analogia medica, visto che parliamo di virus e di “crisi sanitaria”, nel caso italiano è come se una parte assai consistente dell’economia fosse stata messa in una condizione di coma artificiale o farmacologico, in attesa che i parametri sociali, stressati dallo shock, iniziassero a rientrare nella normalità. In questa delicata operazione l’interventismo statale ha avuto una parte decisiva, e gli effetti del «ritorno in grande stile dello Stato» nella sfera economica, osteggiato dalla minoranza liberista ancora presente nel Paese e applaudito dalla sua maggioranza statalista, saranno evidente solo tra qualche tempo. Com’è noto, spesso dal coma indotto artificialmente, si passa al coma vero e proprio, e non raramente segue il decesso del paziente: l’intervento è riuscito, ma il paziente è moto – di fame o di qualche altro accidente, ma vivaddio senza un solo Coronavirus in corpo! Quel che è certo è che molte aziende, soprattutto di piccole e medie dimensioni, non apriranno più, e già a giugno si parlava di “autunno caldo”, di disoccupazione dilagante, di gente pronta a pescare nel torbido. Il Ministro degli Interni da mesi non smette di lanciare segnali di allarme: «Andiamo incontro a una delicata situazione sociale. Dobbiamo prepararci». Preparaci a cosa? Come si dice, lo scopriremo solo vivendo – se il Coronavirus vuole!

Ho raccolto in questo PDF buona parte dei post dedicati alla “crisi epidemica” che ho pubblicato su questo Blog dall’inizio di questa crisi, la quale peraltro è lungi dall’essersi esaurita; il primo è del 5 gennaio, quando sembrava che il raggio d’azione del Coronavirus fosse circoscritto alla sola Cina, o ai soli Paesi asiatici, come avvenne per la Sars nel 2003/2004, e l’ultimo è del 6 ottobre, quando la temuta “seconda ondata” si è alla fine palesata anche in Italia, e con una forza che ha sorpreso molti degli stessi “esperti”. La “seconda ondata” si abbatte su un corpo sociale già provato fisicamente e psicologicamente, e per questo i soliti “esperti” ritengono che essa potrebbe essere ancora più devastante della “prima ondata”, con ciò che ne segue sul piano delle politiche “preventive” suggerite al governo. Se dipendesse dagli “esperti”, in Italia saremmo già al lockdown generalizzato. Vedremo cosa accadrà tra qualche settimana, o forse tra qualche giorno.

La scienza si pavoneggia per i suoi successi ottenuti nella ricerca del vaccino, ma a parte ogni altra considerazione (anche d’ordine geopolitico), non fa che riparare i guasti prodotti dalla società di cui essa è un potentissimo strumento di dominio e di sfruttamento – di “risorse” umane e naturali.

L’intreccio “problematico” che questi post offrono ai lettori è molto ricco, perché essi chiamano in causa, sebbene in forma estremamente semplice – spero non del tutto semplicistica – e sintetica molteplici questioni di natura politica, etica, geopolitica, economica, psicologica: sociale in senso generale. Purtroppo non ho potuto eliminare la ripetizione di temi, di concetti e di parole, e di questo mi scuso con i lettori.

«Il virus non chiede il permesso di fare quello che vuole»; anche noi dovremmo conquistare questa irriducibile volontà nei confronti del pessimo presente – con il futuro che certo non ci sorride, tutt’altro!

Qui il PDF

(1) R. M. Nesse, G. C., Williams, Perché ci ammaliamo. Come la medicina evoluzionista può cambiare la nostra vita, p. 67, Einaudi, 1999. «Il corpo umano è al contempo fragile e robusto. Come tutti i prodotti dell’evoluzione organica, è un insieme di compromessi, e ognuno di questi offre un vantaggio, anche se spesso il prezzo è la predisposizione a una malattia. Le debolezze non possono essere eliminate dall’evoluzione perché è stata la stessa selezione naturale a crearle. […] In medicina niente ha senso se non alla luce dell’evoluzione» (pp. 287- 301). E la società, qui genericamente intesa, in tutto questo che ruolo ha? Ed è corretto, nel trattamento dei cosiddetti “disordini mentali” associati alle emozioni, mettere da parte Sigmund Freud (qui inteso come “padre della psicoanalisi”) e chiamare senz’altro in causa gli «algoritmi darwiniani della mente»?
(2) A. Eidelsztein, L’origine del soggetto in psicoanalisi, p. 52, Paginaotto, 2020.
(3) K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Opere, V, pp. 21-22, Editori Riuniti, 1983.
(4) Secondo stime attendibili, dal 2009 al 2018 in Italia c’è stata una riduzione della spesa sanitaria di circa 26 miliardi, una diminuzione del 12%. Se consideriamo, oltre la spesa corrente, anche il calo degli investimenti pubblici nel settore sanitario, la riduzione si aggira intorno al 13%.
(5) «La Ue manda il Mes, gli USA mandano soldati, la Cina manda medici e mascherine. Solo uno dei tre è nostro amico. Gli altri due sono nemici da combattere. L’avete capito? Il potere vi fa apparire amici i nemici e nemici gli amici. E, così, nostri amici sarebbero UE e USA, che in questa crisi ci stanno ignorando, quando non apertamente ostacolando. E nostri nemici sarebbero Cina, Russia, Cuba e Venezuela, che ci stanno mandando aiuti e medici. L’alternativa continua ad essere tra socialismo e barbarie o, se preferite, tra socialismo e capitalismo» (D. Fusaro). Indovinate secondo chi scrive da quale parte dell’alternativa si colloca il simpatico intellettuale SocialSovranista? Solo in un mondo ottusamente nichilista nei confronti della verità, un personaggio ridicolo come Fusaro può cavalcare le escrementizie onde delle ospitate televisive in qualità di filosofo hegelo-marxista. Anche questo, nel suo infinitamente e comicamente piccolo, esprime la tragedia dei nostri tempi.

LA DITTATURA È SOCIALE, NON SANITARIA

Da più parti, ma soprattutto negli ambienti politico-culturali della “destra” e tra i cosiddetti “negazionisti”, si parla sempre più spesso di dittatura sanitaria, cioè di un regime autoritario imposto ai cittadini dal governo con la scusa della crisi sanitaria, e con l’attivo supporto degli “esperti”: virologi, infettivologi, medici, statistici, scienziati di varia natura. Non pochi in Occidente considerano il Covid una bufala pianificata a tavolino dal “sistema” (o dai “poteri forti”) per dare un’ulteriore stretta alle nostre già anoressiche e boccheggianti libertà individuali: la mascherina come metafora e simbolo di un bavaglio politico, ideologico, esistenziale. La paura del contagio come strumento di controllo e di governo: Foucault parlava di disciplinamento dei corpi e, quindi, delle menti.

Qualche giorno fa il Presidente della Repubblica francese ha dichiarato a proposito della “crisi sanitaria” che in Francia ha subito un’inaspettata escalation: «È vero, stiamo comprimendo la vostra libertà in aspetti molto importanti della vostra vita, ma siamo costretti a farlo per tutelare la vostra salute». Prendiamo per buona l’intenzione di Macron e riflettiamo sul contenuto “oggettivo” di quella dichiarazione: che realtà sociale ne viene fuori?

La dittatura di cui intendo parlare qui è in primo luogo un fatto, ossia una realtà che prescinde da qualsivoglia intenzione, da qualsiasi progettualità politica, da qualsiasi tipo di volontà; e come sempre al fatto segue il diritto, ossia la formalizzazione politica e giuridica di ciò cha ha prodotto la società. Naturalmente la politica cerca di approfittare in termini di potere e di consenso (due facce della stessa medaglia) della situazione, ma questo è l’aspetto che appare ai miei occhi il meno interessante, almeno in questa sede, anche perché esso mostra la superficie di un fenomeno, si muove nella contingenza, mentre ciò che ha significato è la radice, la dinamica e la tendenza dei fenomeni sociali.

«Siamo in una dittatura sanitaria? È un discorso che non sta in piedi. Con il virus non si po’ fare una trattative, né politica né sindacale»: affermando questo l’ormai noto infettivologo Massimo Galli dà voce a quello che mi piace definire, lo ammetto con scarsa originalità di pensiero, feticismo virale. Attribuire al virus una “crisi sanitaria” che ha una natura squisitamente sociale. Condizioni sociali considerate su scala planetaria hanno trasformato un virus in un vettore di malattie, di sofferenze, di contraddizioni sociali, ecc. Credere insomma che il problema sia il Virus, e non la società che l’ha trasformato in una fonte di malattia, di sofferenze e di crisi sociale (che coinvolge l’economica, la sanità, la politica, le istituzioni, la salute psicosomatica delle persone): ecco spiegato in estrema sintesi il concetto di feticismo virale. Pensare che la nostra vita sia minacciata da un invisibile organismo vivente, il quale avrebbe il potere di tenere sotto scacco l’economia e le istituzioni di interi Paesi: ebbene questa assurda idea la dice lunga sulla nostra impotenza sociale, sulla nostra incapacità di dominare con la testa e con le mani fenomeni che nulla o poco hanno a che fare con la natura, mentre hanno moltissimo a che fare con la prassi sociale capitalistica. Nella nostra società l’apprendista stregone lavora senza sosta, H24.

È vero, verissimo: la potenza che ci tiene sotto scacco è invisibile, e in un certo senso la sua natura può benissimo essere considerata come virale, ma in un’accezione particolarissima che non ha nulla a che vedere con la natura. Si tratta, infatti, degli impalpabili (ma quanto concreti!) rapporti sociali capitalistici, i quali realizzano un mondo che noi per l’essenziale non controlliamo e che subiamo come se fosse un’intangibile e immodificabile realtà naturale.

«Se tutto è connesso, è difficile pensare che questo disastro mondiale non sia in rapporto con il nostro modo di porci rispetto alla realtà, pretendendo di essere padroni assoluti della propria vita e di tutto ciò che esiste. Non voglio dire che si tratta di una sorta di castigo divino. E neppure basterebbe affermare che il danno causato alla natura alla fine chiede il conto dei nostri soprusi. È la realtà stessa che geme e si ribella»: così ha scritto Papa Francesco nella sua ultima Enciclica Fratelli tutti. Oggi ciò che connette tutto e tutti sono appunto i rapporti sociali di produzione capitalistici, i quali fanno del Capitale un Moloch che domina sulle nostre vite e sulla natura. Siamo tutti fratelli sottoposti alle disumane leggi della dittatura capitalistica. Si tratta di una dittatura sociale, oggettiva, sistemica, che si realizza giorno dopo giorno in grazia delle nostre molteplici attività sottoposte al dominio del calcolo economico.

Apro una piccola parentesi. Come ormai abbiamo imparato in questi mesi, se nella gestione della “crisi sanitaria” va tutto bene è merito del governo, se qualcosa invece va male, è colpa di quei cittadini irresponsabili che sono più inclini ai piaceri della movida che alla salute della comunità. Non solo siamo costretti a subire le conseguenze di una prassi sociale che non sbagliamo affatto a considerare complessivamente irrazionale proprio perché è informata dalle logiche economiche (capitalistiche), e non dal calcolo umano; ma chi ci amministra è pronto a infliggerci multe, punizioni di vario genere e una colata di stigma sociale e di sensi di colpa se nostro malgrado infrangiamo le ultime disposizioni governative in materia di sicurezza e di distanziamento asociale e dovessimo trasformarci, non sia mai, in “untori”! Non solo il danno, ma anche la beffa! Per favore, datemi un martello! «Che cosa ne vuoi fare?» Sono affari miei! Chiudo la parentesi.

Il Papa ovviamente non va oltre il solito (banale?) e ingenuo discorso intorno all’uomo astrattamente considerato che pretende di farsi Dio non avendone le capacità, ed essendo piuttosto vittima della demoniaca brama di profitti, mentre bisognerebbe «sviluppare una nuova economia più attenta ai principi etici, e una nuova regolamentazione dell’attività finanziaria speculativa e della ricchezza virtuale». Il “neoliberista” scuote la testa, il “progressista” applaude come da copione. Massimo Cacciari, dall’alto della sua filosofia katechontica, nicchia: «Il discorso di Bergoglio è un grande appello alla fraternità universale che resterà, lo sappiamo, purtroppo inascoltato. Egli sviluppa temi ormai classici nelle encicliche della Chiesa. Insomma è naturale che Bergoglio parli delle tragedie del mondo in questi termini» (La repubblica). Io invece penso che il mondo creato dal capitalismo non possa che essere disumano e disumanizzante, e che per questo esso non debba conoscere altra “riforma” che non sia la sua radicale distruzione in vista di un assetto autenticamente umano della Comunità dei fratelli e delle sorelle – finalmente affrancati dalla divisione classista. Ma questa è solo una mia bizzarra opinione che impallidisce al cospetto del buon samaritano di cui parla il Santissimo Padre nella sua Enciclica dedicata «alla fraternità e all’amicizia sociale».

La nostra minorità politica in quanto cittadini, così ben esemplificata dall’affermazione macroniana di cui sopra (vi amministriamo per il vostro bene), si può a mio avviso comprendere in tutta la sua tragica portata solo se considerata alla luce della dittatura sociale che qui mi sono limitato a richiamare all’attenzione di chi legge, e sul cui fondamento è possibile ogni tipo di “involuzione autoritaria”. Inclusa quella dei nostri giorni, di queste ore.

«Con il virus non si può fare una trattativa, né politica né sindacale», ci dice il saggio Galli pensando di infilzare con la sua “pungente ironia” i teorici del “negazionismo” (no virus, no mask, no vaccino); e infatti non si tratta di raggiungere un compromesso di qualche tipo con il virus: si tratta (si tratterebbe!) di farla finita una buona volta con una società che ci espone a ogni genere di rischio (da quello pandemico a quello idrogeologico, da quello ecologico a quello bellico, da quello economico a…, fate un po’ voi), a ogni sorta di preoccupazioni e sofferenze.

«Se qualcuno pensa che si trattasse solo di far funzionare meglio quello che già facevamo, o che l’unico messaggio sia che dobbiamo migliorare i sistemi e le regole già esistenti, sta negando la realtà» (Fratelli tutti). È quello che ho detto!

CATTIVISSIMI PENSIERI

Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi (Frankie HI-NRG MC).

Oggi è difficile concepire una forma di bestialità o di follia, di oppressione o di improvvisa devastazione che non possa essere credibile, che non possa rapidamente trovar posto nella realtà dei fatti. Moralmente e psicologicamente è terribile essere così poco inclini allo stupore. Inevitabilmente il nuovo realismo cospira con tutto ciò che è o dovrebbe essere meno accettabile nella realtà. Eppure, al tempo stesso, il nostro progresso materiale è immenso, evidentissimo. I miracoli della tecnica, della medicina e della ricerca scientifica sono appunto tali. Ma la realtà si ritorce contro di noi, si fa gioco di noi. Le conquiste della tecnica, grandiose in sé, si realizzano dialetticamente e parallelamente come male, come rottura degli equilibri non ricostituibili tra società e natura, come distruzione dei sistemi viventi primari e degli ecosistemi. Oggi possiamo concepire un’utopia tecnocratica e igienica operante in un vuoto di possibilità umane (G. Steiner, Nel castello di Barbablù, 1971).

 

Un infettivologo consulente del Governo: «Il virus lo veicoliamo noi, le misure di distanziamento sociale nei prossimi mesi saranno di aiuto per la salute di tutti noi e per gli anziani e fragili. Purtroppo ancora niente baci e abbracci, manifestazioni di affetto in famiglia. La curva epidemica dipende da noi».

Un sindaco: «Adesso però tutto dipende da noi e dai nostri comportamenti ed occorre quindi tenere alta la tensione e l’attenzione».

Questo maledetto e odioso mantra del “Tutto dipende da noi” ci perseguita ormai da due mesi. Personalmente non ne posso più! Quando un funzionario al servizio di questa escrementizia società, di questa società che ci sta esponendo tutti i giorni al rischio della malattia e della morte, di questa società che sta rendendo ancora più difficile e precaria la nostra condizione sociale/esistenziale; ebbene quando un simile odioso personaggio ci dice che «tutto dipende da noi», dai nostri comportamenti, mi viene l’irrefrenabile voglia di bastonarlo a sangue. E forse tutto sommato questo scatto d’ira non è poi un cattivo segnale, almeno per me. Forse uscirò persino migliorato da questa crisi. Una volta tanto voglio essere ottimista!

Non solo questa società ci rende difficile la vita anche nelle attività più elementari, ma i suoi funzionari (politici, esperti, intellettuali, artisti, ecc.) ci vogliono inoculare il virus del senso di colpa: «Stai a casa, non mettere a rischio la vita dei bambini e degli anziani. Segui comportamenti responsabili, perché la curva epidemica dipende da te». Dipende da me? Ma io afferro un bastone! Metaforico, signori tutori dell’ordine, metaforico.

Un deputato del PD ha detto l’altro ieri alla Camera che la famiglia italiana è stata eroica, perché ha dimostrato una responsabilità, una pazienza e una resilienza [sic!] che nessuno prima della crisi sanitaria immaginava possibile. Naturalmente per il deputato piddino eroi sono stati e sono soprattutto i medici e gli infermieri che hanno rischiato e che continuano a rischiare la vita tutti i giorni pur di salvare i cittadini contagiati. «Dobbiamo andar fieri di questo Paese!». Di merda! Mi è scappato e mi scuso! Ma dopo 153 medici morti, 34 infermieri, 18 operatori sociosanitari e 13 farmacisti morti…. E gli oltre 27mila morti per Coronavirus vanno messi tutti sulla “coscienza” di questa società, uno dopo l’altro. Ho detto società, non sul conto di questo o quel governo, di questa o quella regione, di questo o quel Paese (la Cina, ad esempio), ma della società capitalistica complessivamente e globalmente considerata.

Questa pandemia è stata ampiamente prevista e annunciata, ma prevenirla avrebbe avuto costi incompatibili con la società che fa del calcolo economico la sua ossessione. Nella società capitalistica deve necessariamente dominare il calcolo economico, al quale è tutto subordinato, a iniziare dall’uomo. Oggi in tutto il mondo deve dominare la “sacra legge del profitto”, non la legge dell’uomo: qualcuno lo faccia sapere anche a Sua Santità (e agli altri progressisti laici che lo venerano), le cui prediche “antiliberiste” diventano di giorno in giorno sempre più stucchevoli e infantili.

Massimo Cacciari: «Non c’è dubbio che la crisi del Coronavirus abbia portato alle estreme conseguenze tendenze già in atto da tempo. Si è rivelata come un formidabile acceleratore della trasformazione del lavoro e della sostituzione delle attività umane più “meccaniche” con la tecnologia. È come nella Grande Crisi del 1929, solo che stavolta stiamo assistendo a un cambiamento profondo dei rapporti di forza all’interno del capitalismo e tra Capitale e Lavoro. Ci sono settori distrutti e altri, come il sistema dei Big Data e l’e-commerce, che stanno realizzando guadagni strepitosi. Il gioco prevede vincitori e vinti» (La Stampa). Di certo da questa ennesima rivoluzione capitalistica il «Lavoro» (salariato, cioè sfruttato) uscirà con le ossa ancora più rotte. «Stiamo assistendo in corpore vivi a un esperimento di scomposizione totale dell’organizzazione del lavoro», continua il noto filosofo prestato alla politica – o viceversa. Soluzioni? «La politica deve mettersi gli stivaloni magici del gatto e dobbiamo tutti sperare che si metta a correre davvero. Perché, se non ce la fa, sarebbe l’infarto delle democrazie liberali e già si vedono i modelli che riscuotono più consenso: la Cina e la Russia sono davanti a noi. La sfanghiamo se tutti i leader europei diventano consapevoli del rischio». Contrapporre al modello autoritario-totalitario russo-cinese il modello democratico-liberale europeo: una prospettiva davvero affascinante e piena di promesse per l’umanità. Si scherza per non brandire il metaforico bastone. Quando le classi subalterne metteranno «gli stivaloni magici (leggi: rivoluzionari) del gatto»? Lo scopriremo solo vivendo? Mah! Anche perché nei tempi lunghi…

Mancano i più elementari presidi igienico-sanitari (personalmente solo da pochi giorni sono riuscito a trovare in farmacia due mascherine, che ho acquistato al modico prezzo di 8 euro!), e ci dicono che «tutto dipende da noi»! Negli anni hanno ridotto la spesa sanitaria, e ci vengono a dire che «tutto dipende da noi»! Ci sequestrano in casa perché non sanno che fare («State a casa e lavatevi spesso le mani»: e fin qui ci arrivavo pure io!), e ci dicono che «tutto dipende da noi!» Hanno trasformato ospedali e case di riposo in incubatori del Coronavirus, e ci dicono che «tutto dipende da noi»! Questa Società-Mondo ha distrutto gli ecosistemi scatenando contro gli animali e contro gli umani una vera e propria guerra batteriologica, e ci dicono che «tutto dipende da noi»! Ma i servitori di questo regime a chi vogliono prendere in giro? Come diceva il Sommo Artista, ogni limite ha una pazienza…

E qui arriviamo al vero punto dolente – e tragico – della questione. Il problema, almeno per come la vedo io, non è che i funzionari al servizio del Moloch provino, più o meno “oggettivamente”, a prenderci in giro con repellenti discorsi demagogici, ma che noi, noi come insieme di individui maltrattati dal “sistema” (capitalistico), ci lasciamo prendere in giro, siamo incapaci di opporre al discorso del Dominio una efficace e produttiva (cioè feconda di un nuovo mondo, di nuove e più umane possibilità) resistenza. Quel discorso penetra nelle nostre coscienze come una lama d’acciaio nel burro. Per quanto tempo ancora?

Ferruccio De Bortoli: «Al governo rimprovero la mancanza di chiarezza e l’eccessiva enfasi sulla responsabilità dei cittadini italiani, che in questi mesi sono stati bravissimi. Dobbiamo trattarli come persone adulte, non come adolescenti». Siamo stati «bravissimi»: ecco, appunto! Per quanto tempo ancora? Tutte le decisioni che riguardano fin nei minimi dettagli la nostra vita, sono prese da altri ed esse passano completamente sopra la nostra testa e alle nostre spalle. Abbiamo solo il “potere” della pazienza, della “responsabilità” e della “resilienza”, ossia dell’obbedienza. Ci trattano non «come persone adulte» ma «come adolescenti», ed è esattamente questo che siamo dal punto di vista sociale. Anche quando nell’ultimo post ho parlato di “gregge”, non si è trattato di un giudizio di valore astrattamente etico inteso a offendere la massa degli individui atomizzati, ma piuttosto di una critica politica a un dato di fatto, a un oggettivo comportamento sociale visto da una prospettiva che non lascia agli uomini la sola falsa alternativa tra il meno peggio e il peggio. È su questo terreno che si radica l’etica della responsabilità come la concepisco io: socialmente responsabile è accettare il rischio della rivoluzione anticapitalistica per farla finita con una società che ci espone a ogni sorta di pericolo e che fa degli individui e della natura risorse economicamente “sensibili”.

«Ho voluto rappresentare un uomo in ginocchiato perché credo che, mai come ora, ci sentiamo impotenti di fronte a quello che sta accadendo», confessa a Repubblica l’artista Sergio Furnari, autore di «una statua genuflessa nel cuore di Times Square con le mani rivolte al cielo, diventata il simbolo della lotta alla pandemia». Ma non sarebbe ora di alzarsi e di camminare, come Lazzaro, verso una nuova vita?

Enzo Soresi, chirurgo specializzato in oncologia polmonare e autore del bestseller Il cervello anarchico (Utet, 2005): «Se l’isolamento durasse troppo a lungo pagheremmo danni neurobiologici importanti per la mancanza di relazioni, per l’impossibilità di abbracciarci, di toccarci, di scambiare informazioni: noi viviamo di emozioni, sostenute da una serie di algoritmi nel cervello, che vanno rispettati e, se le perdiamo, siamo penalizzati a livello biologico». E questo potevo dirlo perfino io, che di «algoritmi nel cervello» ne conto davvero pochi. «Nell’uomo c’è una capacità di adattamento affascinante, come racconta Sacks in Un antropologo su Marte, a proposito di quel cieco che, dopo che la moglie gli ha fatto fare tanti interventi per riacquistare la vista, alla fine diventa un disadattato…» (Il Giornale). E se fosse proprio questa poco affascinante capacità di adattamento a fregarci? Vallo a sapere! In ogni caso la metafora proposta dal dottor Soresi ben si presta a evocare la tragedia dei nostri tempi, ossia la cecità che colpisce gli uomini proprio nel momento in cui essi sono – “oggettivamente” – a un passo dalla liberazione. «Le situazioni di dolore del corpo sono spesso legate a conflitti emotivi non liberati. Le sofferenze possono aumentare in un momento come quello che stiamo vivendo ed è per questo che dobbiamo fare attività fisica, per liberarci». Va bene, per adesso accontentiamoci di questa liberazione, bisogna essere realisti – diciamo così.

Ultimo pensiero cattivissimo. Dice il poeta: Scintilla, scintilla delle mie brame, dai fuoco a tutto il reame! Anche perché così uccidiamo una volta per sempre il maledetto Virus: altro che la calura estiva!

SI – PUÒ – FARE!

La cosiddetta “Fase 2” conferma sostanzialmente lo Stato di polizia confezionato brillantemente dal Governo italiano durante la cosiddetta “Fase 1”. L’esperimento sociale in atto da circa due mesi sta dimostrando che il gregge segue alla perfezione gli ordini impartiti dal Pastore e imposti capillarmente dai suoi cani da guardia. Salvo le solite eccezioni (del resto le pecore nere non mancano mai, ma non creano troppi disturbi all’economia della Sovranità), gli italiani hanno dato prova di possedere una capacità di sopportazione e di disciplina (chiamata anche “senso di responsabilità”, “senso civico” ecc.) che ha spiazzato non pochi osservatori politici e diversi intellettuali, di “destra” e di “sinistra”.

Questi personaggi sono stati sorpresi soprattutto dalla facilità con cui è stato possibile transitare da uno stato di “normalità” a uno di “eccezione” (1), anzi di Lockdown (2). Certo, la paura del virus, l’angoscia di morte ecc. hanno lavorato in profondità, hanno quasi azzerato la già indebolita “capacità di resistenza critica” delle persone; tuttavia il Moloch si è mosso su un terreno già preparato da tempo: un terreno continuamente arato, fertilizzato, seminato e innaffiato. Che bei frutti stiamo raccogliendo! La metaforica rana di Chomsky è da un pezzo che si lascia lentamente riscaldare dal “sistema”, e adesso che l’acqua inizia a bollire… «Ahi! Che succede?» Che peccato, si stava così bene al calduccio!

No, questa crisi sociale non sta inventando nulla che non fosse già presente nella società quantomeno sotto forma di tendenza, mentre essa accelera, frena e devia processi sociali in corso da molto tempo.

L’esperimento sta dunque riuscendo, almeno fino a questo momento; come diceva il dottor Frederick Frankenstein, «Si- può- fare!» Il Moloch ne prende nota, per la prossima emergenza. Giordano Bruno Guerri parla di «scintilla del possibile che si annida nel grigiore della quarantena»; si tratta di capire la natura di questa scintilla: quale incendio ci aspetta? Sempre che si tratti di un incendio, beninteso.

Forse è utile ripetere un concetto che ho cercato di esprimere nei miei post dedicati a questa crisi sociale: qui non si tratta di capire se siamo dinanzi a un complotto fabbricato dal Moloch (cioè dal dominio sociale capitalistico) o da una qualche “Entità” non ancora meglio identificata, oppure alla pessima volontà (o all’incapacità) dei decisori politici. Si tratta piuttosto di prendere atto di un fatto, di un risultato, di un processo sociale che realizza oggettivamente un ulteriore giro di vite esistenziale ai danni degli individui, in generale, e delle classi subalterne in particolare.

(1) «Il virus sta già cambiando il nostro modo di vivere e di pensare, anzi lo ha già fatto, è sotto gli occhi di tutti, e ci cambia apparentemente in peggio. Aumenta la diffidenza, cresce la lontananza fisica tra le persone. Non sarà facile tornare indietro. La scintilla del possibile si annida nel grigiore della quarantena. La possibilità più cupa che temo di più è quella del potere, il quale appena sente l’odore del sangue ci si affeziona. Il Coronavirus è stato il battesimo del sangue per tanti aspiranti autocrati. Ma ciò che mi ha più stupito non è il fatto che ci provini, ma la facilità con cui la gente è stata privata della libertà e si è lasciata privare della libertà. Questa è stata la scoperta più brutta di questi mesi. Ma altri mostri incombono; ad esempio il braccialetto elettronico, il controllo dei dati sensibili. Se ci pensate, agli aspiranti emuli del Grande Fratello mancava solo l’ultima frontiera: il controllo fisico, quello sulla mobilità delle persone. Ci siamo arrivati. Il controllo poliziesco mi spaventa anche quando diventa una necessità. Bisogna avere consapevolezza del rischio che corriamo» (G. B. Guerri, La Verità).

(2) «Lockdown è sulla bocca di tutti e viene usato per indicare l’isolamento e la chiusura forzata per l’emergenza sanitaria. In realtà – sostiene Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca – ci sono due parole equivalenti nella nostra lingua: “Confinamento” e “segregazione”. Il significato in inglese di “lockdown”, anzi in americano perché il termine non viene da Oxford, ha infatti origine dal linguaggio carcerario: vuol dire confinamento dei detenuti nelle loro celle durante una rivolta, misura che nel Nord America è in vigore dal 1983. Per estensione, poi, la parola ha assunto anche il significato di stato di isolamento o di restrizione per motivi di sicurezza. “Seppure i provvedimenti di lockdown siano stati presi molto tardi proprio dagli americani e dagli inglesi – prosegue – in Italia abbiamo sentito il bisogno di usare un’espressione loro, forse perché suonava meno spaventosa del più crudo “segregazione”, o forse si è messo in atto il solito procedimento: attribuire a una parola straniera assolutamente ignota agli italiani un significato tecnico molto specifico, e poi far circolare questa parola al posto delle nostre, chiare e trasparenti» (La Stampa). Come diceva quello, «Le parole sono importanti».

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ANDRÀ COME DEVE ANDARE…

La preghiera quotidiana

Walter Ricciardi, «consigliere del ministro della Salute Speranza ed esperto di sanità pubblica di fama internazionale»: «Uno studio presentato il 24 aprile dal sottosegretario alla sicurezza interna Usa alla Casa Bianca mostrerebbe che il virus soffre il caldo umido. Al chiuso, con 24° e 20% di umidità può resistere su una superficie per 18 ore, con 35°e un tasso di umidità dell’ 80% la sua permanenza non supera l’ ora. Se poi si è al sole bastano 24° e lo stesso livello di umidità perché scompaia in due minuti» (La Stampa). Amen!

«Nella nostra epoca, in cui gli scrittori e gli scienziati hanno così stranamente usurpato il ruolo dei sacerdoti, l’opinione pubblica, con una compiacenza che non ha un fondamento razionale, pensa che le facoltà artistiche e scientifiche siano sacre. […]L’opinione degli specialisti esercita un potere pressoché sovrano su ciascuno di noi» (Simone Weil, La persona è sacra?).

Come si cambia, per non morire…

«Non essendo un giurista, non so se questi decreti siano incostituzionali. A occhio, mi pare di sì. Il punto però non è questo. Il punto è l’ abitudine all’ illibertà. All’ emergenza permanente. Da due mesi stiamo vivendo un esperimento sociale disumano. Non abbiamo più vita sociale, di lavoro, un contatto con il mondo esterno. Siamo chiusi dentro quelle che a volte sono capsule, perché la stragrande maggioranza della gente non vive in delle regge. Molta gente comincia a pensare: “Che fortuna che arrivino le forze dell’ ordine a beccare uno che sta prendendo il sole in spiaggia!”. “Ah, maledetti runner!”. “Ah, maledetti bambini!”.”Ah, maledetti cani!”» (P. Battista, La Verità).

Anche io ieri, sull’autobus, ho odiato un tizio, salito a bordo con tanto di mascherina d’ordinanza e di guanti igienici, che ha iniziato a tossire. L’ho fulminato con uno sguardo pieno di disprezzo, come se il poverino fosse salito sull’autobus per attaccarmi il maledetto Virus, come se ce l’avesse personalmente con me. Di certo io non uscirò migliorato da questa catastrofe umana.

RIFLESSIONI DALLA QUARANTENA

«Ultimamente ho parlato con decine di esperti sul Covid-19 e appare chiaro che la malattia uccide di preferenza gli anziani, rispetto ai giovani; in maggioranza gli uomini, rispetto alle donne; ma si accanisce soprattutto contro i poveri» (Il Corriere della Sera). È questa l’eccezionale scoperta fatta qualche giorno fa dal noto “filantropo” americano Bill Gates. Non vorrei apparire ridicolo e irrispettoso dinanzi a cotanta celebrità, ma anch’io già da qualche settimana sono arrivato alle medesime conclusioni, e senza parlare «con decine di esperti sul Covid-19». La pandemia «si accanisce soprattutto contro i poveri»: ma va? Io non avrei mai potuto immaginare una simile cosa, e quindi sono grato alla scienza ai filantropi che la finanziano per queste perle di strabiliante saggezza che essi mi donano.

Ma il nostro caro – si fa per dire – filantropo ci regala anche una riflessione davvero “scottante”: «Su alcuni punti cominciano a convergere i consensi: per esempio, che gli operatori sanitari in prima linea dovrebbero essere i primi a sottoporsi a test diagnostici e ricevere tutti i dispositivi di protezione personale. Su scala mondiale, però, come si compie la scelta? Come vengono distribuiti mascherine e test diagnostici in una comunità o in una nazione rispetto alle altre? La risposta si traduce in un’altra domanda, assai sconcertante: Chi è disposto a offrire di più? Personalmente, seppur convinto sostenitore del capitalismo, sono il primo a riconoscere che in una pandemia i mercati non funzionano nel migliore dei modi, e l’esempio più drammatico è proprio il mercato delle forniture salvavita. Il settore privato svolge un ruolo importante, ma se la nostra strategia di lotta al Covid-19 si trasforma in un’asta al miglior offerente tra i vari Paesi, il virus causerà molte più vittime». Che straordinaria scoperta!

«In una pandemia i mercati non funzionano nel migliore dei modi»: sbagliato! In una pandemia «i mercati» (cioè il capitalismo) funzionano esattamente come devono funzionare, ossia secondo le leggi concorrenziali centrati sulla ricerca del massimo profitto, con tutte le contraddizioni che ciò comporta sul piano sociale, e che i decisori politici cercano in qualche modo di fronteggiare. Me essendo un filantropo «convinto sostenitore del capitalismo», Bill Gates auspica il sorgere di “mercati” dal volto umano, di “mercati” responsabili, ossia aperti alle richieste dei politici, degli esperti e delle organizzazioni umanitarie.

«Nella drammatica vicenda del Covid-19, gli spiragli di ottimismo sono stati rari, ma il principale riguarda indubbiamente la scienza. Tre anni fa la nostra fondazione Wellcome Trust, con l’appoggio di alcuni governi, ha lanciato la Coalition for Epidemic Preparedness Innovations (Cepi), un consorzio per finanziare progetti di ricerca per lo sviluppo di vaccini contro le malattie infettive emergenti. L’obiettivo era quello di velocizzare il processo di sperimentazione dei vaccini e finanziare le metodologie più rapide e innovative per il loro sviluppo». È facile dimostrare quanto preziosa sia per l’economia capitalistica presa nel suo insieme questa filantropica ricerca scientifica, la quale sviluppa nuove tecnologie, nuovi materiali, nuove metodologie produttive ecc.; senza poi contare che trovare vaccini significa 1. salvaguardare il “capitale umano” senza il cui lavoro questa società crollerebbe miseramente, e 2. mettere al riparo l’ordine sociale da pericolose crisi sociali. Questa società crea magagne di ogni tipo e poi ricava profitto anche dalla loro cura: è un circolo virtuoso per il Capitale e un circolo mostruoso (disumano) per l’umanità. Per l’umanità in generale, e per i senza riserve in particolare, perché come ha scoperto di recente Bill Gates, le magagne si accaniscono «soprattutto contro i poveri». In questo peculiare senso la scienza non è affatto la soluzione, ma è piuttosto parte organica del problema. Secondo l’epistemologo Gilberto Corbellini, «La visione antropocentrica fa perdere di vista l’effettiva natura del rapporto “ecologico” fra il mondo vivente macroscopico e quello microscopico» (Il Sole 24 Ore). A mio avviso, invece, è la visione che non mette al centro della riflessione sulla relazione Uomo-Natura la condizione umana, non in astratto ma come essa si dà nell’attuale società classista, che non permette di cogliere la reale natura e dinamica «del rapporto “ecologico” fra il mondo vivente macroscopico e quello microscopico». Anche perché il rapporto di cui si parla è in primo luogo sociale – dimensione “ecologica” compresa. Anche solo parlare di «visione antropocentrica», per criticarla, è del tutto insensato, il frutto di una preoccupazione interamente ideologica, e questo semplicemente perché oggi al centro del mondo, considerato sempre come un’unità di società e natura, non c’è l’uomo, tanto meno «l’uomo in quanto uomo», ma interessi sociali che in larga parte afferiscono al processo che crea e distribuisce la ricchezza sociale nell’attuale forma capitalistica. È solo attraverso questa disumana mediazione sociale che l’uomo compare sulla scena sociale e nella nostra riflessione.

Una società che mettesse davvero al centro l’uomo (il singolo individuo, e non la sua astratta totalità), il suo benessere, la sua felicità, i suoi molteplici bisogni concepiti e soddisfatti umanamente; una comunità di tal fatta avrebbe umanizzato anche il suo rapporto con la natura, oggi considerata soprattutto una risorsa da mettere a profitto, esattamente come nel caso del “capitale umano”.

«Questa pandemia agisce come la Livella di Totò: si trascina nella fossa ricchi e poveri»: quante volte abbiamo letto e ascoltato questa colossale panzana all’inizio della crisi – cosiddetta – sanitaria! No, la sventura non è uguale per tutti; essa invece lascia sul corpo sociale una profonda impronta classista. Qualche giorno fa Anthony Fauci, immunologo di fama mondiale e direttore (dal 1984) dell’Istituto nazionale di allergie e malattie infettive degli Stati Uniti, è stato costretto a dichiarare che a pagare il prezzo più caro, anche in termini di salute e di vite stroncate, della pandemia sono soprattutto gli afroamericani e i latinoamericani, nonché i più poveri d’ogni “razza e colore” – in molte città americane non si sa più dove seppellire i corpi dei morti non cercati da nessuno. Chi mangia male (gli obesi sono quasi tutti proletari: guarda il caso!), chi respira male (i fumatori incalliti già avvelenati dallo smog metropolitano), chi non ha la possibilità di accedere a cure mediche continue e appropriate, chi non può permettersi una quarantena “dignitosa” (a partire dagli homeless): ecco i soggetti prediletti e decimati dal virus negli Stati Uniti. Solo negli Stati Uniti?

«L’impatto del coronavirus sull’economia globale rischia di far precipitare, a breve termine, mezzo miliardo di persone sotto la soglia della povertà estrema. È l’allarme lanciato oggi da OXFAM attraverso il nuovo rapporto Dignità, non miseria, che denuncia come la contrazione dei consumi e redditi causata dallo shock pandemico rischi di ridurre in povertà tra il 6 e l’8% della popolazione mondiale» (La Repubblica). Intanto, in tutto il mondo dilaga poi la pandemia della disoccupazione. Secondo l’Organizzazione Mondiale del Lavoro la pandemia provocherà 25 milioni di disoccupati in tutto il mondo. «Oltre sei milioni di nuovi disoccupati in sette giorni e più di sedici milioni in tre settimane [negli Stati Uniti], ben più degli impieghi persi in due anni di grande recessione all’indomani della debacle finanziaria e economica del 2008. E un tasso di senza lavoro che potrebbe già avvicinarsi al 15%, percentuale che non si ricorda a memoria di analista. […] Jeff Schulze, investment strategist del fondo ClearBridge Investments, prevede una profonda recessione, pur se la speranza è che sia di breve durata, e si aspetta “ulteriori licenziamenti”. Le imprese, afferma, “taglieranno costi per far fronte a debiti”. E per dare le dimensioni di quanto sta avvenendo, di un evento che minaccia di lasciare in eredità drastiche trasformazioni nel tessuto economico e finanziario, ha scomodato Lenin: “Ci sono decenni in cui non succede nulla, e ci sono settimane in cui accadono decenni”» (M. Valsania, Il Sole 24 Ore). C’è da dire che all’orizzonte non si vede alcun Lenin che possa dare un significato rivoluzionario all’improvvisa accelerazione degli eventi. E anche questa constatazione coglie un aspetto particolarmente “problematico” (tragico?) della situazione.

«La crisi sanitaria rischia di trasformarsi in una vera e propria crisi sociale»: sbagliatissimo! Quella che stiamo vivendo è fin dall’inizio «una vera e propria» crisi sociale, perché sociali sono le sue cause immediate e indirette. Eccone un breve elenco: la distruzione degli ecosistemi, le scarse condizioni igieniche dei luoghi d’origine della pandemia, l’atteggiamento della politica dinanzi al pericolo incombente (non solo in Cina, dove per un certo – e decisivo – numero di giorni si negò l’esistenza di quel pericolo e si punirono severamente i medici e i “giornalisti di strada” che tentarono di dare l’allarme, ma anche altrove, Italia compresa, quando solo a pandemia conclamata i governi hanno cercato di tamponare la situazione); il taglio alla spesa sanitaria, la mancanza dei più elementari presidi medico-sanitari (mascherine, guanti, ecc.), la cui produzione è stata trasferita nei Paesi che possono produrli a minor costo.

E vogliamo parlare delle case di cura e dei ricoveri per anziani trasformati in Lombardia in incubatrici del contagio? La ricerca dei responsabili da punire in sede giudiziaria rientra nella ricerca del capro espiatorio da dare in pasto a un’opinione pubblica sempre più arrabbiata, frustrata e incattivita. Tutto già visto. Davanti all’ecatombe di medici e infermieri, mandati dalle autorità a mani nude (e non è solo una metafora!) contro il virus, come appare squallida e odiosa tutta quella retorica sui “nostri angeli ed eroi” e sul “modello italiano” di lotta al contagio che tutto il mondo ci invidia! Ancora una volta esprimo la mia solidarietà umana e politica, e non, nel modo più assoluto, patriottica, a tutti i lavoratori della sanità, della logistica, della vendita, delle pulizie, delle industrie ecc. che sono costretti a rischiare la salute per non perdere il lavoro. «Abbiamo l’opportunità di dimostrare al mondo intero che siamo un grande Paese»: si scrive Paese, si legge società capitalistica – certo, con “caratteristiche italiane”. L’orgoglio nazionale è sempre un veleno, e lo è soprattutto in tempi di crisi sociale, quando “l’amor patrio” impedisce a chi ne rimane vittima di vedere in faccia il vero nemico che lo minaccia. E non sto parlando del Coronavirus…

«L’uomo è in pericolo?», si chiedeva qualche giorno fa Alessandro Bergonzoni sulla Repubblica, e rispondeva: «No, l’uomo è il pericolo». È chiaro, almeno a chi scrive, che fin quando ragioniamo in termini così astratti, non verremo mai a capo del problema che ci travaglia e ci corrode. Di che “uomo” stiamo parlando? e di quale pericolo? pericolo per chi? Quello con cui abbiamo a che fare è il solo uomo possibile? Quali sono le condizioni sociali che possono permettere la comparsa di un’umanità che non costituisca più un pericolo né per se stessa, né per la natura? Se il pensiero che vuole essere critico si rifiuta di collocare la riflessione circa la presenza dell’uomo su questa Terra in una precisa (puntuale, concreta) dimensione storico-sociale, esso deve necessariamente naufragare, o in un “pessimismo cosmico” che trova conforto in un cieco nichilismo che affetta pose di superiorità etico-intellettuale, oppure in un ottimismo altrettanto impotente e inconcludente, magari travestito da “impegno sociale”.  Parlare in astratto di “uomo” nella società divisa in classi sociali, mi sembra quantomeno riduttivo, diciamo così. Ma si può sempre credere, del tutto legittimamente, in una “eterna natura umana”, ossia in una dimensione antropologica refrattaria a qualsiasi mutamento storico e sociale. Non condivido questo pensiero, ma naturalmente lo rispetto, anche perché esso trova nutrimento nella millenaria storia classista dell’umanità. Non è semplice scavare nella dura roccia della “datità” – del dato di fatto accettato acriticamente.

«Non vedo la luce in fondo al tunnel: ma devo diventare quella luce, dentro al tunnel. Non è importante solo uscirne ma come. È la fine del modo non del mondo»: così Bergonzoni chiude l’articolo appena citato. Niente da aggiungere e tutto da interpretare, mi sembra di poter dire; suggestioni magari da riempire con i concetti che più ci aggradano, che ci sembrano più significativi e appropriati in questa contingenza storica.

COMPLOTTISMI, SPILLOVER E “NUOVO PENSIERO COMUNISTA” (SIC!)

Chi c’è dietro la pandemia? In un editoriale di qualche giorno fa pubblicato dal Corriere della Sera, Paolo Mieli sferza da par suo (non si dice così?) gli italici esponenti delle teorie complottiste in materia di malattie virali, crisi sanitarie e loro inevitabili contraccolpi sul terreno politico-istituzionale – leggi alla voce controllo sociale a mezzo di panico e paura. Anche chi scrive, nel suo infinitamente piccolo, ha tenuto a confermare la propria ritrosia, diciamo così, nei confronti del complottismo, il quale non è che il “pensiero critico” dei poveri di spirito, per dirla con la critica adorniana dell’occultismo in quanto «metafisica degli stupidi».

Scrivevo su un post del 10 marzo: «No, nessun complotto, nessun progetto malvagio elaborato da qualche oscura Entità che ama agire, appunto, nell’ombra; il complottismo lasciamolo pure agli ingenui, diciamo così, a chi lo esibisce a se stesso e agli altri come la sola coscienza critica possibile oggi, e questo semplicemente perché il complottista non ha alcuna coscienza critica da mettere in azione per capire il complesso mondo del XXI secolo. Le cose di cui trattiamo in questi giorni e in queste ore sono maledettamente serie. Ciò che qui evoco è un processo sociale oggettivo la cui natura e le cui conseguenze probabilmente sfuggono alla comprensione dei suoi stessi protagonisti, a cominciare ovviamente dai decisori politici e dai loro consulenti “tecnici”: scienziati, tecnologi, economisti e quant’altro». Nulla da aggiungere. Certo mi piacerebbe sapere, per pura curiosità intellettuale (e non da intellettuale, cosa che non sono), come Mieli leggerebbe il «processo sociale oggettivo» di cui parlo: probabilmente mi metterebbe nel sacco dei complottisti, perché anch’io, in fin dei conti, cerco di puntare i riflettori dell’analisi critica non sul virus, sulle «forze della natura capaci di assassinarci con sublime indifferenza» (David Quammen), ma sulle condizioni sociali che hanno permesso la genesi e l’espansione della pandemia ancora in corso, nonché sulle devastazioni sistemiche che essa sta producendo nella società. Certo non è imputabile al virus se, ad esempio, nel corso degli anni il sistema sanitario italiano ha subito quella pesante “razionalizzazione” dei costi che sta mostrando i suoi frutti avvelenati. Né al virus possiamo attribuire la colpa di aver spostato la produzione dei più elementari presidi igienico-sanitari in quei Paesi dove i “fattori totali della produzione” hanno un costo minore: già Adam Smith parlava della divisione mondiale del lavoro secondo la teoria dei costi di produzione comparati. In base a questa teoria, confermata sempre di nuovo dalla prassi, personalmente per un mese non sono riuscito a procurarmi una sola mascherina! Quando poi sono riuscito a trovarla in farmacia, l’ho pagata al modico prezzo di 4 euro. Ma cosa sono 4 euro in confronto alla salute, se non anche alla vita? Anche qui, comparazione dei costi e dei benefici. Siamo immersi in un relativismo esistenziale che farebbe orrore perfino a George Orwell. E qui naturalmente evoco anche lo scambio che ci viene gentilmente proposto da chi ci amministra tra tutela della cosiddetta privacy e tutela della nostra salute: un ricatto che ci viene somministrato sotto forma di libera e democratica scelta.

In un altro post ho anche affermato che dal mio punto di vista non ha alcuna importanza stabilire il luogo d’origine, il “punto zero” della diffusione dell’epidemia da Coronavirus che poi si è molto velocemente trasformata in una pandemia che ha investito l’intero pianeta, secondo i tempi e le dimensioni geosociali del capitalismo “globalizzato” del XXI secolo. «L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di esso (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso». Il virus non parla in cinese, o in inglese: esso parla tutte le lingue del mondo, ossia, in estrema e metaforica sintesi, la disumana lingua del Capitale. Ed ecco apparire sulla scena da me confusamente allestita il vero artefice della crisi sociale che sta rendendo molto più difficile soprattutto la vita di chi normalmente conduce una vita difficile, e che solo questa condizione di quarantena può indurre a leggere con una certa nostalgia: «Com’erano belli i tempi in cui potevamo passeggiare e respirare liberamente!» Magari eravamo poveri, ma liberi di scambiarci un bacio al chiaro di luna senza la paura di contagiarci a vicenda o di infrangere un comma qualsiasi dell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri: come erano belli quei tempi lì. E come sarà, invece, la “nuova normalità”? Per non spargere altro pessimismo tengo per me la risposta. Che poi è un modo suggestivo di rispondere, me ne rendo conto. E mi scuso.

La relativizzazione della condizione umana secondo le circostanze ha sempre sorriso al Dominio, a chi ha interesse a difendere lo status quo sociale, e di questo ha molto parlato anche Primo Levi nel suo racconto della vita degli ebrei e degli altri reietti ai tempi dei campi di concentramento e di sterminio: «I migliori fra noi, i più umanamente sensibili, furono i primi a morire». «Dopo millenni di illuminismo, il panico torna a calare su una umanità il cui dominio sulla natura, in quanto dominio sugli uomini, supera di gran lunga, in fatto di orrore, tutto ciò che gli uomini ebbero mai a temere dalla natura» (T. W. Adorno, Minima Moralia). Perché ciò che minaccia la nostra vita e la nostra sempre più precaria e volatile serenità non è la natura, la quale si starebbe finalmente vendicando per tutto il male che le abbiamo arrecato soprattutto negli ultimi due secoli, secondo una concezione “naturista” e “animalista” più diffusa di quanto si pensi in certi ambienti culturali; a minacciarci ogni giorno è la totalità sociale che ci tiene in pugno sempre più strettamente, e che ci trascina e ci sballotta in ogni direzione come fossimo dei manichini privi di vita e incapaci di provare dolore. Ma qui per fortuna – faccio dell’ironia – ci “soccorre” la scienza medica, con i suoi meravigliosi ritrovati chimici e psicologici. Nella cura delle anime offese e doloranti i professionisti della religione hanno a che fare con una temibilissima concorrenza.

Scrive Paolo Mieli: «David Quammen, l’autore di Spillover (Adelphi), il libro che dieci anni fa previde quel che sta accadendo adesso, definisce questo genere di teorie cospirazioniste lo “zucchero del web”: più se ne legge, più se ne vorrebbe leggere; “una droga”. Una droga anche per i filosofi». E Agamben (ma anche Diego Fusaro, che ha parlato di una «guerra batteriologica da parte degli Stati Uniti») è sistemato!

«Dimentica le teorie cospirazioniste», ammonisce giustamente Quammen in un’intervista rilasciata qualche giorno fa al Fatto Quotidiano: «Noi dobbiamo resistere all’ossessione di sapere l’ultimo dato, l’ultima notizia. È giusto prestare attenzione al virus, ma abbiamo bisogno anche di altre storie»: è il contributo che, sempre nel mio infinitamente piccolo (le dimensioni di un virus!), cerco di dare anch’io. Come non mi stanco di ripetere, e so benissimo di essere ripetitivo (spero non fino alla noia!), qui chi organizza il complotto ai nostri danni non è né il governo, né la solita Potenza straniera (ognuno scelga quella che più gli aggrada: l’America di Trump, la Cina di Xi Jinping, la Russia di Putin), né i medici in combutta con le multinazionali dei farmaci (le quali ovviamente sfruttano al meglio la nostra sventura: è il capitalismo, bellezza! ): si tratta piuttosto dei vigenti rapporti sociali di dominio e di sfruttamento – degli uomini e della natura. Il complottista non ha un volto ma ha certamente un nome: si tratta di azzeccare quello giusto.

«In che modo i cambiamenti che l’uomo impone all’ambiente rendono la vita facile ai virus? Diciamo che ogni volta che distruggiamo una foresta estirpandone gli abitanti, i germi del posto svolazzano in giro come polvere che si alza dalle macerie. Più distruggiamo gli ecosistemi, più smuoviamo i virus dai loro ospiti naturali, offrendoci a nostra volta come ospiti alternativi. Il virus così vince la lotteria! Ha una popolazione di quasi 8 miliardi di individui attraverso cui diffondersi» (D. Quammen ). Non c’è dubbio. Ma ha senso qui parlare genericamente e astrattamente di «uomo»? Non ha piuttosto senso chiarire in quale concreta dimensione storico-sociale si svolge l’attività umana? Chi distrugge «gli ecosistemi»?

Ancora l’autore di Spillover, la Bibbia del momento: «Non abbiamo investito risorse nella sanità pubblica: più posti letto, più terapie intensive negli ospedali, più formazione del personale. Perché non l’abbiamo fatto? Perché come cittadini siamo poco informati e tendenzialmente apatici, mentre i nostri leader sono cinici e avari, concentrati solo su loro stessi. Questa pandemia è il risultato delle cose che facciamo, delle scelte che prendiamo. Ne siamo responsabili tutti». Si può essere degli eccellenti scrittori, e Quammen lo è di certo, ma questo di sicuro non basta a spingere il pensiero verso una prospettiva in grado di cogliere la reale dinamica dei processi sociali, e sempre Quammen ne è la dimostrazione vivente. Quando non si è in grado di capire la natura classista di questa società, con tutto quello che questa disumana realtà presuppone e pone sempre di nuovo con assoluta necessità in ogni ambito della nostra vita sociale e individuale, il pensiero intelligente, ma non cosciente (in un’accezione politicamente e dottrinalmente peculiare del concetto), deve per forza di cose naufragare nel mare delle banalità che arridono al pensiero dominante – che, come diceva il virologo sociale che spesso cito, è il pensiero della classe dominante.

Al contrario di chi scrive, Slavoj Žižek è ottimista (beato lui!): «Un nuovo senso di comunità: ecco cosa vedo emergere da questa crisi. Una sorta di nuovo pensiero comunista, diverso però dal comunismo storico. Stiamo scoprendo che per battere il virus servono coordinamento e cooperazione globale. Ci accorgiamo di aver bisogno gli uni degli altri come non era mai accaduto prima. Persone e nazioni» (La Repubblica). Per capire il tipo di «nuovo pensiero comunista» che ha in testa il celebre intellettuale sloveno, è sufficiente leggere quanto segue: «La realtà è già cambiata. Vediamo governi conservatori mettere in atto misure che in altri tempi avremmo chiamato socialiste: Donald Trump ordina a industrie private cosa produrre. Boris Johnson nazionalizza temporaneamente le ferrovie. Stiamo vivendo in un modo che pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. C’è chi teme che i governi approfitteranno del virus per controllarci tutti. Ma io non credo a nuovi totalitarismi. Ho paura, semmai, che aumenti la sfiducia verso le istituzioni: perfino in Cina abbiamo assistito a proteste. Dovremmo trovare un modo per ricostruire la fiducia».  Appena lo statalista (altro che “nuovo pensiero comunista”!) sente in giro odore di statalismo, si eccita come quando Dracula annusa nell’aria l’odore del sangue! «Perfino in Cina abbiamo assistito a proteste»: come si permettono i sudditi cinesi di sfiduciare il regime che li sta proteggendo dall’epidemia? Un’altra perla ascrivibile al «nuovo pensiero comunista» [sic!]: «Gli sforzi delle singole nazioni non bastano. Solidarietà globale e cooperazione sono l’unica via. Dovremo però affrontare il futuro dell’Unione europea: è stata ridicolmente passiva». Invece definire questa posizione ultrareazionaria come l’espressione di un «nuovo pensiero comunista» non sarebbe ridicolmente farsesco! In ogni caso, se questo è il «nuovo pensiero comunista» ai tempi del Coronavirus, io mi tengo felicemente quello mio, anche se vecchio e rigorosamente non comunista – certamente non nel senso di Žižek e compagni, i quali riescono a far convivere il “comunismo” con il sostegno al polo imperialista europeo chiamato Unione Europea: che inarrivabili capacità dialettiche!

È davvero commovente, diciamo così, osservare lo sforzo con cui molti di noi cercano di farsi piacere questa situazione escrementizia; sforzarsi di far buon viso a pessimo gioco: non è uno spettacolo gradevole alla vista, diciamo così. Si tratta, a mio modesto parere, di un ottimismo – più o meno “rivoluzionario” – degno di miglior causa.

Aggiunta del 10 aprile

CONTRADDIZIONI IN SENO AL POPOLO …

«Mentre il mondo si interroga sul ritorno dello Stato, della sanità pubblica e delle stesse idee socialiste; mentre il filosofo Slavoj Zizek, intervistato qualche giorno fa da Repubblica, si diceva convinto che in questa crisi stia emergendo “un nuovo senso di comunità, una sorta di nuovo pensiero comunista”, due campioni della sinistra mondiale escono di scena. In Gran Bretagna Jeremy Corbyn, ex leader del Partito laburista, sostituito dal più moderato Keir Starmer, e Bernie Sanders ha invece abbandonato l’altroieri la corsa per la nomination presidenziale lasciando il campo libero a Joe Biden, vice di Obama e ormai quasi sicuro front-runner di Donald Trump» (S. Cannavò, Il Fatto Quotidiano).

Cercasi campioni della sinistra mondiale, disperatamente! Tanto più che il socialismo è sempre più a portata di mano: non si parla forse in Italia dell’urgenza di una “Nuova IRI”? «Ma l’IRI fu una creazione del regime fascista!». Appunto!!

L’ETICA DELLA RESPONSABILITÀ AL TEMPO DEL CORONAVIRUS

Oggi lo storico israeliano Yuval Noah Harari ritorna sulla sua “inquietante” tesi, esposta in diverse interviste rilasciate nei giorni scorsi ai più accreditati quotidiani europei: l’attuale «crisi sanitaria» pone l’umanità, sempre più esposta all’aggressione di «agenti patogeni sconosciuti» che ne minacciano la salute e la stessa esistenza su questo pianeta, dinanzi alla seguente drammatica alternativa: o essa avanza con passo spedito verso la «sorveglianza totalitaria», sul “modello cinese” (ma anche quello “coreano” non scherza!), oppure impara a praticare, e non più solo predicare, l’aureo ideale della «responsabilità individuale», il quale suggerisce agli individui comportamenti adeguati nelle diverse circostanze della vita. Ad esempio, si accetta con stoica rassegnazione la quarantena quando dilaga un’epidemia non perché costretti dal Leviatano, ma perché è la cosa giusta da fare in quella circostanza.

A ben guardare, l’alternativa proposta da Harari è tutt’altro che un’autentica alternativa, e comunque essa si riduce alla “scelta” tra l’accettare con cattiva disposizione d’animo (diciamo così) la pessima realtà, oppure accettarla di buon grado, e magari con zelo, delegando di fatto a noi stessi l’autorità di segregarci in casa per un tempo indefinito. «Liberamente decido di non essere libero». In questo secondo caso, si tratterebbe non di una sorveglianza totalitaria, ma di una totale vittoria delle esigenze sociali (capitalistiche: un dettaglio!) sull’individuo, che diventa appunto il sorvegliante di se stesso. Il nodoso bastone del Sovrano si fa carne e spirito, sangue e psiche. In realtà la doppia sorveglianza (“esterna” e “interna”) dell’individuo è da tempo un fatto compiuto, come del resto aveva già “profetizzato” lo stesso Sigmund Freud, ed è questo a conferirle un carattere totalitario di natura squisitamente sociale (esistenziale, “biopolitica”), prim’ancora che di natura politico-istituzionale.

Rick DuFer si rifiuta di piegarsi alla logica del «Credere, obbedire, guarire»: «O si obbedisce ciecamente, oppure si è degli anarchici irresponsabili e privi di qualsiasi valore umano. O si mostra sui social la propria perfetta aderenza ad ogni dettame, ogni regola, ogni norma, anche la più inspiegabile, oppure si fa parte del non-popolo dei disobbedienti, degli incoscienti. Ma non c’è nulla di più incosciente, nel Paese del “fascismo eterno”, che obbedire ciecamente a quello che decide un burocrate. […] Io non sto “obbedendo” all’imposizione di restare il più possibile a casa: io decido di stare a casa nei limiti delle mie necessità primarie. Io non sto “obbedendo” alla prudenza nella relazione con gli altri: io decido di prestare attenzione al modo con cui conduco i miei rapporti per evitare di farci del male. Io non sto “obbedendo” alla norma secondo cui bisogna evitare assembramenti: io ho capito, leggendo e informandomi, che stare in gruppo è rischioso e decido di non correre quel rischio. E tutto questo ben prima che la legge arrivi ad impormelo. Non credo, non ho mai creduto e mai crederò nell’obbedienza ad alcunché» (Blog Bruno Leoni).

Questo sfoggio di “etica antiautoritaria” ai tempi del coronavirus, elude la domanda che a me pare fondamentale: perché siamo costretti alla quarantena? E più precisamente: di chi è la responsabilità della pandemia che impazza in tutto il mondo? Perché nel nostro Paese nel corso degli anni la spesa sanitaria ha subito continui e pesanti tagli? Perché la «crisi sanitaria» sta già scatenando una crisi economica? Quest’ultima domanda può suonare banale, ma non lo è affatto, perché investe il cuore pulsante del meccanismo che rende possibile la nostra stessa nuda esistenza.

Ebbene, tutte queste domande chiamano in causa non questo o quel governo, ma la natura stessa di questa società, la quale nel volgere di poco tempo ci ha fatto conoscere una devastante crisi economica internazionale, che ha lasciato sul terreno molti morti e moltissimi feriti (sotto forma di disoccupati, precarizzati, supersfruttati, declassati, ecc.), e una crisi cosiddetta sanitaria (che invece è un’autentica crisi sociale sotto tutti i punti di vista), le cui conseguenze sulle nostre condizioni di vita e di lavoro si annunciano ancora più devastanti di quelle prodotte dalla crisi economica del 2008.  Altro che “agente patogeno sconosciuto”: qui l’agente patogeno che corrode la nostra fibra sociale-esistenziale è conosciutissimo! Di più: l’agente patogeno è la società stessa, è la società capitalistica tout court, la quale è dominata dal calcolo economico.

Proprio ieri il leader della Cigil Maurizio Landini dichiarava che questa crisi sanitaria ci dice che «dobbiamo dire basta alla logica del profitto fine a se stesso»: ai progressisti piace la logica del profitto piegata alle necessità del “bene comune”. Questa colossale sciocchezza è benedetta e santificata da Papa Francesco. Per me invece si tratta di dire basta alla “logica del profitto” in quanto tale, e quindi al rapporto sociale oggi dominante in tutto il mondo. Se l’umanità non esce fuori dalla disumana dimensione del calcolo economico (bisogna far quadrare i conti nell’azienda “privata” come in quella “pubblica”, nella famiglia come ovunque si faccia sentire il problema della “sostenibilità economica”), essa si espone a ogni sorta di magagna, “agenti patogeni sconosciuti” compresi.

Parlare di “etica della responsabilità” senza aggredire la radice sociale del problema, significa a mio avviso chinare il capo e decidere come ci conviene subire la cattivissima realtà: subirla da cittadini responsabili che sanno come comportarsi in vista del “bene comune” (sic!), oppure da sudditi recalcitranti che obbediscono solo per timore della legge, e non certo per convinzione. Che bella alternativa!

Come ho scritto altre volte, poste le odierne condizioni sociali, socialmente e umanamente responsabile è, a mio giudizio, ogni azione orientata in direzione del radicale (rivoluzionario) superamento di quelle condizioni: è, questa, la sola etica della responsabilità che personalmente riesco a concepire nell’epoca del dominio totalitario dei rapporti sociali capitalistici e che, nel mio infinitamente piccolo, mi sforzo di praticare.

SOCIAL CONTAGION

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro-insurrezione (Chuang).

 

Con “colpevole” ritardo ho letto e oggi pubblico uno scritto (Social Contagion) apparso il 27 febbraio sulla rivista Chuang, una rivista indirizzata a coloro che «vogliono superare i vincoli dell’attuale mattatoio chiamato capitalismo». Trovo molto interessante questo testo, nonostante io sia per diversi e rilevanti aspetti distante dalla concezione “dottrinaria” che lo ispira, e che informa, se ho ben compreso, l’indirizzo politico di fondo della rivista di cui sopra (*). Un solo esempio: «I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato». Come sa chi conosce questo Blog, io nego la natura socialista della Cina, da Mao a Xi. Ciò che Chuang chiama socialismo, io lo chiamo capitalismo di Stato “con caratteristiche cinesi”. Ma ci sarà modo di riprendere la questione. Intanto auguro una buona lettura ai lettori e mi scuso per l’imperfetta traduzione del testo.

 

Le fornaci

Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quarantena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribattezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Sembra che le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.

A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in particolare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering e il disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina, e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.

Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nonostante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato direttamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo? Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’esperienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist». Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insabbiamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discussione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime.

Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisamente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza? Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali riflessioni sullo stato attuale della società cinese.

Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mostrando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pandemia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana. Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.

L’origine delle pestilenze

Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.

L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroalimentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola (1). Queste epidemie possono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la seconda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo. I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamentate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre continenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socioecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali (2).

Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre. Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.

Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» (3). Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi: «Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza (4).

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’aumento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.

Storia ed eziologia

Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili precapitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi, vediamo i primi casi di queste piaghe squisitamente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa.

Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus. Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applicazione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un precipizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla devastazione.

Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghilterra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna.

Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetsè che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa (5). E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratteristiche.

Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro delle prime iniziative riformiste liberal-progressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per denunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccupandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi. Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contaminazione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevoli per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo.

Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia. Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [6]. In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali.

Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra furono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applicazione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione della produzione agricola, sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia: vedi Furore, 1939, di John Steinbeck], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma.

Se, le epidemie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.

Gilded Age

Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra tutta la popolazione cinese. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali, destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al consumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age.

Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melanina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH [virus del papilloma umano]. Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.

Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (principalmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista5, come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovettero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a essere smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti, l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.

Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie] risultano residenti permanenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.

Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statunitensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.

Non c’è più la natura selvaggia

Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?

La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epidemia. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici.

In altri casi, le catene di valore agro-ecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano. Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accumulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli ambienti, che «possono aumentare le connessioni tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus maggiori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricoltura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».

Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi precapitalistici e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causalità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambientale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia, in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo, al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contemporanei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso possiamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore.

L’isolamento come esercizio dell’arte di governo

A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesantemente su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.

Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi generalizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frattempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti ). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del governo cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare.

La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la possibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini. In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di persone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la quarantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.

Incapacità

Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus12, scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.

Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.

A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni economiche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle strutturalmente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impossibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile, questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1° marzo è stata stabilita come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.

Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabilmente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.

Una guerra surreale

Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolarmente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la profonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie, l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costruzione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre province – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitalistica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, come giustificazione per estendere il controllo statale, e la risposta a nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali servirà come un’occasione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.

In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.

 

(*) Si tratta di un blog di ricercatori cinesi all’estero. «Chuang è un collettivo di comunisti che considera la “questione della Cina” di importanza centrale per le contraddizioni del sistema economico mondiale e le potenzialità per il suo superamento. Il nostro obiettivo è formulare un corpus di teoria chiara in grado di comprendere la Cina contemporanea e le sue potenziali traiettorie. […] Speriamo di vedere la Cina con chiarezza e intento comunista. Ma l’unico modo per comprendere la Cina contemporanea e le sue contraddizioni è iniziare con un’indagine sulla creazione della “Cina” in quanto tale. Qui, la nostra storia non inizia con una storia presumibilmente antica, né inizia con il romanticismo del progetto rivoluzionario cinese, alternativamente glorificato e demonizzato da quelli di sinistra». Chi scrive, che di “sinistra” non è mai stato, non ha né glorificato né demonizzato l’esperienza cosiddetta maoista. Il merito storico e politico di Mao fu quello di aver consegnato ai suoi eredi un Paese certamente prostrato sul piano economico e molto lacerato su quello sociale e politico, ma tuttavia un Paese ancora unito sul piano nazionale (anche in virtù di pesantissime repressioni ai danni delle minoranze etniche che vivono nell’area cinese) e pronto al decollo sulla scena mondiale. Un successo, quello di Mao, interamente ottenuto sul terreno dello sviluppo capitalistico e della costruzione di una potenza imperialistica, non certo sul terreno della costruzione del “socialismo con caratteristiche cinese”, come blateravano ai “bei tempi” i maoisti europei e come continuano a blaterare i non pochi sostenitori italioti del “socialismo cinese”. Se ho ben compreso, secondo Chuang si può parlare di un «progetto comunista» praticato in Cina «durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50: «Durante tutto il periodo rivoluzionario e verso la fine degli anni ’50, ci riferiamo a questo processo come a un “progetto comunista”. Questo progetto è stato incredibilmente vario durante la sua esistenza ed è stato sempre definito dal suo status di movimento di massa con profonde radici nella popolazione. All’inizio, il suo fondamento teorico e la direzione strategica erano prevalentemente quelli dei comunisti anarchici. Nel tempo, la particolare visione e strategia del PCC avrebbe guadagnato l’egemonia, ma ciò significava anche che il PCC stesso assorbiva parte dell’eterogeneità del movimento, che avrebbe assunto la forma di fazioni (e purghe) all’interno del Partito stesso. Questa egemonia non è stata imposta al progetto, tuttavia. Era il risultato di un mandato popolare conferito al PCC, che era stato parte integrante della formazione di un esercito contadino di successo e di un movimento di lavoratori sotterranei durante l’occupazione giapponese. Il PCC mantenne la sua egemonia del progetto comunista nei primi anni del dopoguerra dirigendo campagne di ridistribuzione popolare nelle campagne e ricostruendo le città. Con i fallimenti della fine degli anni ‘50 (carestia nel paese e scioperi nelle città costiere), non solo fu messo in discussione il mandato popolare del PCC, ma il progetto comunista stesso iniziò a ossificarsi. Quando la partecipazione popolare è evaporata in risposta a questi fallimenti, quello che era stato un progetto comunista di massa si è ridotto ai suoi mezzi: il regime di sviluppo. Questo regime stesso poteva essere mantenuto solo dal sempre più ampio intervento del Partito, che li fondeva entrambi con lo Stato (come apparato amministrativo burocratico di fatto) e ne spezzava il legame con il progetto comunista». Qui mi limito a rinviare i lettori ai miei scritti sulla Cina: TUTTO SOTTO IL CIELO (DEL CAPITALISMO); SULLA CAMPAGNA CINESE; ŽIŽEK, BADIOU E LA RIVOLUZIONE CULTURALE CINESE; DA MAO ZEDONG A XI JINPING. 70 anni di capitalismo con caratteristiche cinesi

(1) Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Robert G. Wallace. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
(2) R. G. Wallace, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of Science, Monthly Review Press, New York, 2016. P. 52.
(3) Ibid, p. 56.
(4) Ibid, pp. 56-57.
(5) Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
(6) Vedi: JF. Brundage, GD Shanks, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The importance of bacterial secondary infections L’importanza delle infezioni batteriche secondary, The Journal of Infectious Diseases, Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719.

LA LINGUA DEL VIRUS

«Mentre il coronavirus stravolge la vita di milioni di persone anche negli Usa, i cinesi-americani affrontano una doppia minaccia. Non solo stanno lottando come tutti gli altri per evitare il virus, ma stanno anche lottando con il crescente razzismo. Anche altri asiatici-americani – con famiglie coreane, vietnamite, filippine, del Myanmar e di altri paesi – sono sotto minaccia. Nelle interviste della scorsa settimana, circa due dozzine di americani asiatici in tutto il paese hanno dichiarato di avere paura: di fare la spesa, di viaggiare da soli in metropolitana o in autobus, di far uscire i propri figli. Molti hanno raccontato di essere stati insultati in strada. Un’improvvisa ondata di odio che ricorda quella affrontata da musulmani americani e da altri arabi dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001. Trump sta usando un linguaggio che secondo gli asiatici americani sta provocando attacchi razzisti. Trump parla di “virus cinese”, e martedì ha detto ai giornalisti che chiama il virus “cinese” per controbattere alla campagna di disinformazione da parte di Pechino, affermando che i cinesi sono la fonte dell’epidemia» (Dagospia).

Anche in Italia, prima che cominciasse il nostro turno nella sperimentazione dell’evento epidemico, e prima che in tutto il mondo ci schifassero come portatori del maledetto “virus cinese”, si diffuse una certa ostilità, per così dire, nei confronti dei cinesi (e “affini”) presenti sul sacro suolo nazionale, percepiti come potenziali untori e costringendoli a una precoce “quarantena autoimposta” – di certo caldeggiata (ordinata?) anche dal regime cinese, allora in debito di popolarità presso l’opinione pubblica internazionale, oltre che su quella nazionale. Detto en passant, dopo aver accusato, più o meno velatamente, gli Stati Uniti di essere all’origine dell’epidemia esplosa a fine novembre dello scorso anno a Wuhan, da qualche giorno Pechino sembra aver cambiato capro espiatorio propagandistico, visto che sta cercando di accreditare, manipolando dichiarazioni rilasciate da noti virologi italiani, la tesi secondo cui è l’Italia, non la Cina, il Paese responsabile della pandemia targata COVID-19.  La misericordiosa e filantropica Via della Salute Roma-Pechino si è già interrotta? Di certo una simile “antipatica” manovra propagandistica da parte dei “compagni” cinesi, il governo italiano non se l’aspettava.

Naturalmente il Coronavirus non è né cinese, né americano, né italiano: esattamente come il rapporto sociale capitalistico oggi dominante in tutto il mondo, quel virus (e la malattia a esso correlata) non ha nazione, ed anche per questo non ha alcun senso stabile il punto zero geografico della pandemia. Per dirla volgarmente, tutto il mondo è Paese, ovvero: il mondo è diventato un solo grande Paese – capitalistico, e per questo radicalmente ostile all’umanità e alla natura. Le peculiarità nazionali (locali) che hanno contribuito alla genesi della famigerata pandemia (le contraddizioni e i limiti del gigantesco e devastante sviluppo capitalistico che ha interessato la Cina negli ultimi quattro decenni, la struttura politico-istituzionale del regime cinese, ecc.), non bastano, a mio avviso, a connotare come “cinese” il Coronavirus. Esattamente come le mitiche “catene del valore” che si aggrovigliano intorno alla nostra sempre più precaria esistenza, anche le malattie virali hanno una dimensione globale, non conoscono confini nazionali. Il virus che minaccia i nostri polmoni parla la lingua del Capitale, ossia del Moloch che lo ha gettato nella mischia sociale – il metaforico dito non indica il pipistrello, o un altro “vettore animale”, ma una peculiare relazione sociale.

L’analogia con la guerra mondiale non potrebbe essere più adeguata e stringente: non ha alcuna importanza, al fine della ricerca delle “vere e ultime” responsabilità del conflitto bellico, quale Paese ha fatto la prima mossa (ad esempio, la Germania o il Giappone), perché le ragioni di quel conflitto (ad esempio, la spartizione delle materie prime e dei mercati internazionali) chiamano in causa il Sistema Imperialista Mondiale nel suo complesso.

Non abbiamo insomma a che fare con il supposto nemico invisibile di cui parlano tutti i governi del mondo e che la scienza medica cerca di contenere e distruggere – dando nuova linfa ai teorici del governo dei competenti; abbiamo a che fare con la ciclopica realtà di una Società-Mondo in grado di renderci difficile, e a volte perfino impossibile, la vita in tutti i modi possibili e immaginabili – anche se l’immaginazione spesso non riesce a tenere il passo della realtà. Ma ci vogliono occhiali speciali per vedere la sostanza sociale del virus; ci vuole un pensiero non ancora del tutto piegato alla “cultura del realismo”, per capirne il linguaggio. Perché la Cosa qualcosa ci dice, anzi ci grida.

Ieri sul Financial Time  Gideon Rachman, riflettendo sulle conseguenze economiche e politiche della pandemia in corso, faceva sfoggio del suo proverbiale ottimismo: «Il problema è quando lo stato-nazione sfocia in un nazionalismo incontrollato, che porta a un crollo nel commercio globale e al quasi abbandono della cooperazione internazionale. Gli scenari peggiori da questo punto di vista riguarderebbero il collasso dell’Unione Europea e la rottura delle relazioni tra Stati Uniti e Cina, che potrebbe plausibilmente culminare in una guerra». Plausibilmente. Non si tratta di capire quanto sia realistica la “profezia” di Rachman, ma di comprendere quanto pessima sia la nostra condizione, “qui e subito”; una condizione che rende plausibile ogni genere di catastrofe. Certamente ci aspettano tempi di “lacrime e sangue”, di sacrifici imposti dalla crisi economica innescata dalla pandemia (ma già a fine gennaio l’economia italiana tendeva alla recessione), e non a caso nel nostro Paese si parla sempre più spesso di un futuro “governo di unità/solidarietà nazionale” – magari con Mario Draghi investito di “pieni poteri”… Più in generale, da tutte le parti ci spronano ad accettare l’idea che niente sarà più come prima, che dobbiamo cambiare i nostri “stili di vita”, adeguarli alle minacce che ci giungono da un mondo sempre più complesso ed enigmatico, nel quale anche una stretta di mano può risultaci fatale. Impariamo a respirare con moderazione: l’aria potrebbe essere infetta. Che brutti tempi!

Scrivevo su un post di qualche giorno fa: «A proposito di cigni neri e di opportunità offerte dall’attuale crisi sociale, ho l’impressione che la “nuova normalità” post-crisi sarà peggiore di quella vecchia, come vuole la pessimistica (ma quanto realistica!) tesi secondo cui, posta questa disumana società, il peggio non conosce alcuna saturazione». Il problema è che le nostre capacità di adattamento sembrano quasi illimitate – come ebbe a dire anche Primo Levi, riflettendo sull’infernale vita nei lager nazisti: «I migliori di noi, i più sensibili, erano tutti morti già da un pezzo».

Mi rendo conto di aver depresso alquanto i lettori e quindi desidero concludere questa triste riflessione con una nota positiva. Inutile dire che il Paese può contare sulla responsabilità e sulla solidarietà del sottoscritto: dai, ridiamo! Pare che ridere aiuti a irrobustire il nostro sistema immunitario: per dirla con Vasco Rossi, voglio dare un senso a questo post! Vediamo se ci riesco toccando un ben diverso registro.

Il leader della CGIL Maurizio Landini ha dichiarato oggi: «L’interlocuzione con il governo sta andando bene. Dobbiamo salvaguardare la salute dei lavoratori e l’economia del Paese. Come sindacato il nostro obiettivo è evitare che la paura possa trasformarsi in rabbia. Oggi si tratta di unire questo Paese, non di dividerlo». L’obiettivo degli anticapitalisti è invece quello di trasformare in coscienza rivoluzionaria la paura e la rabbia dei lavoratori e di chiunque vive con sofferenza la disumana e irrazionale realtà di questa società. Il fatto che questo obiettivo oggi appaia completamente “fuori scala”, irrealistico, ebbene ciò non toglie nulla alle ottime ragioni dell’anticapitalista e testimonia piuttosto della tragedia che stiamo vivendo come umanità. L’estrema debolezza (“rarefazione”) politica degli anticapitalisti non è solo un loro problema, tutt’altro.