LA POTENZA FATALE DELLA GERMANIA. La Questione Tedesca come Questione Europea

«La Germania è uscita dalla crisi più forte di quando ne è entrata e anche l’Europa deve uscirne più forte». Così parlò Angela Merkel. La Cancelliera esprime qui un fatto e un auspicio, il quale peraltro ha il non vago aspetto di una mera clausola di stile. Ecco declinata la perenne Questione Tedesca nei nostri agitati tempi.

La Questione Tedesca del secondo dopoguerra inizia il 7 maggio 1945, anno in cui le Potenze Alleate sanzionarono la capitolazione di quel che residuava del possente esercito tedesco. Il confronto politico-militare Est-Ovest mise per alcuni anni in ombra quell’esplosivo problema, ma non poteva eliminarlo, semplicemente perché le sue radici coincidevano e coincidono con l’essenza ontologica, per dirla filosoficamente, della Germania: con la sua storia, con la sua struttura sociale, con la sua collocazione geopolitica. La Germania è un problema, suo malgrado!


Assai precocemente la potenza sistemica (economica, politica, scientifica, culturale, ideologica, psicologica) della Germania è diventata, per lo stesso Paese collocato al centro del Vecchio Continente, una sorta di maledizione. Nata piuttosto in ritardo come compatta entità nazionale (in questo molto simile all’Italia e al Giappone, non a caso suoi amici di sventura nell’ultima guerra mondiale), essa si trovò a dispiegare il proprio enorme potenziale economico-sociale all’interno di un mondo già da molto tempo presidiato dalle vecchie potenze coloniali, le quali ovviamente mal sopportavano le pretese imperialistiche dell’ultima arrivata. La rivendicazione tedesca di un posto al sole nel salotto buono delle potenze imperialistiche minava alla base lo status quo geopolitico e geoeconomico (approvvigionamento di materie prime e investimenti di capitali) costruito nel corso di molti decenni soprattutto dall’Inghilterra e dalla Francia. Di qui, il tratto oggettivamente aggressivo assunto dalla politica estera tedesca già subito dopo la proclamazione del Reich nel 1871, e mantenuto, tra alti e bassi, fino al 1945.

Quando, nel 1956, un referendum popolare rigettò l’accordo franco-tedesco del 1954 per la Saar, che prevedeva l’autonomia di quell’importante bacino siderurgico-minerario-industriale sotto il controllo della CEE (ossia, di fatto, della Francia), la Questione Tedesca postbellica fece un primo, grande salto di qualità, e mise bene in luce la natura tutt’altro che pacifica del «rapporto privilegiato» che unisce finora quei due pilastri della Comunità Europea. A prima vista il rapporto tra Germania e Francia, così centrale nel sistema delle relazioni tra gli Stati europei, sembra un rapporto tra potenze di pari status, ma a ben guardare si tratta di un rapporto tra una forza e una debolezza. Scrive Gian Enrico Rusconi: «Per il suo peso oggettivo, economico e politico, la Germania ha una posizione decisiva in Europa. E’ di fatto la nazione egemone dell’Unione anche se cautelativamente e dimostrativamente si appoggia alla Francia dando informalmente vita al cosiddetto “direttorio”» (La Stampa, 27 Ottobre 2011).

Per un verso la Francia ha “marcato” da molto vicino La Germania, facendo valere quella superiorità politico-militare che le deriva dall’esito della Seconda Guerra mondiale; e per altro verso ha cercato di usare la potenza economica tedesca per dare surrettiziamente massa critica strutturale alla sua tradizionale politica estera molto velleitaria. L’Inghilterra non poteva che sostenere questa politica antitedesca. Tuttavia, all’ombra della politica estera e militare delle potenze vittoriose, la potenza sconfitta non ha smesso di crescere, dando nei fatti più di una lezione di dialettica materialistica. Naturalmente a chi sa intenderla.

È nei primi anni ottanta del secolo scorso che in Germania si inizia a parlare senza reticenze e sensi di colpa di «nuovo patriottismo»; si prende cioè coscienza del fatto che il Paese ha degli interessi strategici da difendere, i quali non necessariamente coincidono con quelli degli Stati Uniti. Nella misura in cui l’Unione Sovietica mostra tutta la sua debolezza strutturale e la potenza capitalistica americana subisce i contraccolpi dell’ascesa economica della Germania e del Giappone, si aprono per la classe dominante tedesca nuove opportunità sia sul piano della competizione economica, sia su quello dell’iniziativa politica. Due piani peraltro strettamente legati l’uno all’altro. La cosiddetta Ostpolitik nei confronti dei paesi oltrecortina segnala il nuovo dinamismo politico tedesco. Washington osteggiò questa politica perché sintomatica di una pericolosa tendenza neutralista che oggettivamente avrebbe fatto il gioco di Mosca. In realtà l’Ostpolitik fece solo gli interessi di Bonn, e poi di Berlino. Come scrisse la Frankfurter Allgemeine Zeitung del 21 settembre 1982, «Le cause di tutta una serie di punti discordanti fra Washington e Bonn derivano direttamente dalle trasformazioni che sono avvenute dai tempi in cui la Repubblica federale di Germania veniva considerata un “anello modello” e gli Stati Uniti erano la potenza guida accettata da tutto il mondo occidentale». Erano.

Mitterrand e Helmut Kohl nel 1987

Alla vigilia dell’Unificazione Tedesca Mitterrand evocò la possibilità di una terza guerra mondiale, per prevenire la quale occorreva realizzare un asse franco-russo-britannico in grado di contenere la straripante potenza germanica. Un ex ministro degli esteri francese, il gollista Michel Jobert, si disse indignato per come la Germania usasse la propria potenza economica «per ricomprare la sua unità nazionale». Già Andreotti nel 1984 aveva sentenziato, con la solita italica sicumera: «Esistono due Stati tedeschi e due devono restare». Quando alla fine il muro di Berlino cadde (anche sulle teste indigenti degli irriducibili filosovietici) il longevo statista del Bel Paese se ne uscì con un tranquillizzante «l’equilibrio politico mondiale non subirà grossi traumi». Nell’aprile del 1988 Die Zeit, interpretando gli umori antitedeschi delle classi dirigenti europee, scrisse: «È raro incontrare una franchezza come quella dimostrata a suo tempo dal francese Mauriac, con la celebre frase: “Io amo la Germania al punto da essere contento che ne esistano due”». Evidentemente due sole non bastano…

Thomas Mann nel 1929

Una volta Thomas Mann invitò gli studenti di Amburgo a battersi «non per un’Europa tedesca, ma per una Germania europea». Nonostante i tedeschi abbiano fatto di tutto per onorare l’appello del grande scrittore, sotto i nostri occhi si sta consumando il fallimento dell’illusione europeista. L’Europa o sarà tedesca o non sarà! «Il sogno europeista come emancipazione dall’incubo nazista» è svanito dinanzi alla prima seria difficoltà: «La Germania tedesca è altrettanto legittima della Francia francese, dell’Italia italiana. È normale. Non è normale che tedeschi, francesi, italiani e altri europei, paralizzati dalla crisi, continuino a non decidere. Alla fine saranno i fatti a decidere» (La Germania nella crisi europea, editoriale di Limes, 4-2011). Sono sempre «i fatti» a decidere; la politica può assecondarli più o meno bene, può legittimarli, e può sperare di orientarli per il verso giusto (che è sempre quello favorevole alle classi dominanti di un Paese), ma non può produrli a partire da astratte idealità. L’Europa tedesca si sta imponendo alle spalle degli stessi tedeschi, i quali da sempre vivono con una certa inquietudine la potenza «oggettiva» della loro patria, fonte di straordinarie imprese ma anche causa di dolorosissime sciagure. Alla Germania calza a pennello la frase: «Scusate se esisto!»

«La Germania – scrive Rusconi – si fa carico di far uscire l’Unione europea dalla crisi attuale a condizione che la politica monetaria e finanziaria degli Stati membri si rimodelli secondo criteri e norme che sono promosse sostanzialmente dalla Germania stessa. Angela Merkel interpreta perfettamente questa strategia che è insieme di intransigenza e di opera di convincimento, di attesa e di azione di logoramento. E’ la nuova formula dell’egemonia tedesca». Non c’è dubbio. Siamo alla vigilia del Quarto Reich tedesco?