IL PUNTO SULLA CRISI GRECA

tsipras-varoufakis-by-benny-686979Come commentare l’ultima messa in scena parlamentare greca? Il risultato è quello che un po’ tutti gli analisti politici del mondo si attendevano: il famigerato Terzo Memorandum approvato con i voti dell’opposizione, spaccatura di Syriza, cambiamento nella natura politica del governo Tsipras, i leader dell’opposizione “responsabile” pronti a incassare il giusto compenso. Sotto la pressione dei «superiori interessi nazionali» e della minaccia di un’imminente ondata populista di destra può anche darsi che la ferita inferta dal Memorandum sul corpo del Partito del Premier greco possa rimarginarsi rapidamente. Ma può anche aprirsi uno scenario politico completamente diverso: tutto è estremamente fluido e caotico. Non ci resta che seguire gli eventi. Da spettatori, ahimè!

Ciò che invece appare sempre più chiaro è quello che è avvenuto nell’Unione Europea dopo il 5 luglio, ossia all’indomani dello «storico» referendum che ha visto trionfare alle urne i No (non si sa bene esattamente a cosa). I falchi tedeschi guidati da Wolfgang Schäuble hanno approfittato dell’azzardo tentato dall’ex strana coppia di Atene per prodursi nel più classico dei contropiedi. O, per rimanere nella metafora calcistica, Tsipras e Varoufakis sono stati protagonisti di un bellissimo autogol. Ma, come si dice, chi non fa non falla, chi non risica non rosica: si tratta piuttosto di vedere la natura del gioco, più che di criticare l’astratta volontà di giocare dei protagonisti.

Un azzardo, va detto subito a scanso di antipatici equivoci, concepito e realizzato, con i risultati che vediamo, interamente sul terreno delle compatibilità capitalistiche. Solo degli sprovveduti (alludo ad esempio ai socialsovranisti fissati con il neoliberismo o “liberismo selvaggio” e con la “filosofia austerica”*) possono scomodare, a proposito della strategia negoziale dell’ex strana coppia di Atene, i concetti di “rivoluzione”, “lotta di classe” e perle di simile conio. Oggi il simpatico Massimo D’Alema ha dichiarato in un’intervista che «Syriza ha una matrice eurocomunista»: ciò avvalora quanto da me sostenuto circa la natura “organicamente” borghese di quel partito. (Detto en passant, una buona parte di Piattaforma di sinistra, l’ala sinistrorsa di Syriza, ha una forte matrice «eurocomunista», ossia eurostalinis ta, e non a caso essa soffre molto la concorrenza del KKE).

Chiarito questo, bisogna brevemente considerare la dialettica interna all’ex strana coppia del Partenone: mentre per il Premier greco l’azzardo non doveva in ogni caso, nel modo più assoluto, spingersi oltre un certo limite, per non superare la soglia del non ritorno che avrebbe proiettato il Paese oltre l’attrazione gravitazionale dell’euro (e magari dell’Unione Europea), per l’ex Ministro “Marxista” delle Finanze il Game of chicken andava invece spinto fino alle estreme e necessarie conseguenze, e come egli stesso ha ammesso in un’intervista a l’Harry Lambert per New Statesman (13 luglio), all’interno del suo Ministero si era formato «un gruppo piccolo, un “gabinetto di guerra”, di cinque persone: abbiamo lavorato sulla teoria [della Grexit], abbiamo messo su carta tutto ciò che andava fatto. Ma una cosa è lavorare con quattro-cinque persone, un’altra è preparare il paese intero. Per preparare il paese serviva una decisione esecutiva, e questa decisione non è mai stata presa. La mia opinione era: dobbiamo stare molto attenti a non attivarla. Ma ho anche creduto che nel momento in cui l’Eurogruppo avesse fatto chiudere le banche, avremmo dovuto mettere in moto il processo». Ecco perché la stessa domenica del «trionfale successo referendario» Tsipras ha pregato gentilmente Varoufakis di farsi da parte.

«Non obbligo nessuno del mio partito a fare ciò che non vuole», ha dichiarato il Premier greco nella sua intervista televisiva del 14 luglio; «ma certe volte l’ideologia purista non serve». A cosa alludeva Tsipras con «ideologia purista»? Naturalmente al populismo sinistrorso che oggi ha nel bel tenebroso Yanis la sua nuova bandiera e forse il suo nuovo leader politico. «Essere un eccellente studioso non significa necessariamente essere un buon politico», ha detto di lui Tsipras dopo che l’ex sodale politico l’ha accusato praticamente di essere parte di un vero e proprio colpo di stato: «Nel 1967 le potenze straniere usarono i carri armati per mettere fine alla democrazia greca. Nel 2015 c’è stato un altro golpe delle potenze straniere, che hanno usato le banche invece dei carri armati». Qui l’ex Ministro sa di toccare corde sensibilissime: quelle che legano il «popolo greco» al carro del più ottuso nazionalismo, tipico dei popoli che hanno la ventura di vivere in Paesi tanto capitalisticamente deboli quanto ricchissimi di – infondate – velleità di potenza – magari chiamando in causa un lontanissimo retaggio storico.

Marcello Esposito esprime bene la confusione e lo stupore che dal 6 luglio regnano nella testa di gran parte degli analisti che da mesi seguono (non pochi indossando la casacca del tifoso) la crisi greca e che sono rimasti completamente spiazzati dall’esito dell’azzardo (o bluff, secondo alcuni critici): «Attaccare il premier greco Alexis Tsipras quando anche il suo ex ministro delle finanze Yanis Varoufakis e la “brigata méditerranée” gli voltano le spalle non fa molto onore. Ma la successione degli eventi in questi ultimi quattordici giorni e l’esito finale, peraltro ancora tutto da scrivere, sono così surreali da generare la sensazione di aver vissuto come in un sogno collettivo. Qualcuno dovrà prima o poi spiegare al popolo greco su cosa abbia votato domenica scorsa e perché lo stesso premier che aveva invitato a votare Oxi a un piano – peraltro scaduto – abbia poi trattato per ottenere condizioni ancora più dure di quelle originali» (Linkiesta, 14 luglio 2015). Io ho provato a dare una prima risposta in un post del 9 luglio, prima cioè che l’Asse del Nord guidato dalla Germania concretizzasse il contropiede ai danni del governo greco:

«Come si spiega l’improvviso “voltafaccia” di Tsipras? Probabilmente il Premier greco aveva paura di spaccare il suo partito, che ha cercato di ricompattare attraverso la drammatizzazione dello scontro. «Uno degli uomini più fidati di Alexis Tsipras riassume, sorseggiando un caffè in un bar di Monastiraki: “Abbiamo vinto il referendum, ricompattato Syriza, messo a tacere l’opposizione, che ci appoggia in tutto, e messo all’angolo la Germania» (Tonia Mastrobuoni, La Stampa, 8 luglio 2015). Il clima da ultima spiaggia che si è creato in Grecia potrebbe anche far ingoiare al Paese il rospo dell’”inaccettabile diktat” rifiutato solo ieri, magari in cambio di un riconoscimento politico delle ragioni del “popolo greco”, cosa che peraltro anche il Super Falco Wolfgang Schäuble non ha mancato di fare con la consueta teutonica schiettezza: «Rispettiamo l’esito del referendum ma, nel quadro delle regole dell’Eurozona, senza un programma non è possibile aiutare la Grecia. È chiaro però che la Ue ha anche una certa responsabilità verso la Grecia. Tutto dipende dal governo greco». Oggi Schäuble ha riproposto la sua ricetta, tutt’altro che provocatoria, per la Grecia: uscita del Paese dall’euro per un periodo congruo, ossia almeno cinque anni di dure riforme strutturali (rese sostenibili sul versante “umanitario” attraverso generosi finanziamenti dell’Unione e delle altre “Istituzioni”), di abbattimento del debito («un vero taglio del debito è inconciliabile con l’appartenenza all’unione monetaria») e di “rivoluzione culturale” idonea a introiettare nella società civile ellenica i principi che ispirano tutte le formiche del mondo. Sono sicuro che in Grecia non pochi la pensano come lui, anche se non lo direbbero nemmeno sotto tortura. D’altra parte, che il decrepito Capitalismo ellenico abbia bisogno di una radicale modernizzazione non lo nega nessuno, a cominciare da Varoufakis: «Fin dall’inizio io l’ho pensata così: la Grecia è un paese che si è arenato tanto tempo fa. È chiaro che dobbiamo riformare il paese – siamo d’accordo [con Tsipras] su questo punto» (New Statesman). Anch’io, nel mio infinitamente piccolo, l’ho sempre sostenuto: euro o dracma, Unione Europea o (più o meno chimerica) autonomia nazionale, per i nullatenenti e per tutti gli strati sociali rovinati dalla crisi si apre un orizzonte di più duri sacrifici.

new-drachma-goldcore_-620x291 (1)«Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male» (Alesina e Giavazzi, Il Corriere della Sera, 14 luglio 2015). Diciamo che i frutti della sponda geopolitica, che Tsipras (e chi verrà dopo di lui) non smetterà di coltivare, non si sono ancora visti. E diciamo anche che probabilmente l’ex strana coppia greca ha gravemente sottovalutato il decisionismo tedesco, il quale non si è (ancora) lasciato intimorire dal fuoco di sbarramento proveniente dalla concorrenza imperialistica: Stati Uniti e Russia, in primis.

Scrive il filosofo “marxista” Alain Badiou: «Sullo sfondo, si agitano timori geopolitici. E se la Grecia si rivolgesse verso qualcun altro di diverso dai padri e dalle madri fustigatori dell’Europa? Allora, io direi: ogni governo europeo ha una politica estera indipendente. Contro le pressioni alle quali è sottomessa, la Grecia può e deve avere una politica altrettanto libera. Siccome i reazionari europei vogliono punire il popolo greco, quest’ultimo ha il diritto di cercare degli appoggi esteriori, per diminuire o impedire gli effetti di questa punizione. La Grecia può e deve rivolgersi alla Russia, ai paesi dei Balcani, alla Cina, al Brasile, e anche al suo vecchio nemico storico, la Turchia». Cito questa posizione perché essa esprime bene l’esatto opposto di quanto vado predicando – inutilmente, lo so – io: l’autonomia di classe, sul terreno nazionale come su quello internazionale. Molti “marxisti” credono di poter fare la storia della lotta di classe nello stesso momento in cui partecipano alla storia della lotta interborghese e interimperialistica, ossia alla lotta che il Dominio fa all’umanità in generale e alle classi subalterne in particolare. Non si insisterà mai abbastanza sulla sindrome della mosca cocchiera in guisa “marxista”.

Sul famigerato Terzo Memorandum ho davvero poco da dire, anche perché il testo è talmente chiaro, soprattutto nelle sue intenzioni e implicazioni politiche, che difficilmente esso si presta a equivoci, se non sul terreno della propaganda politica, come in questi giorni ha cercato di fare penosamente Tsipras per vendere in patria una pessima merce. «Abbiamo dato una lezione di dignità», ha detto oggi il Premier greco; la «dignità nazionale» è l’ultima merce politico-ideologica che rimane da vendere alla gente in momenti di acuta crisi sociale. Certo, dovremo fare dei sacrifici, pure duri, ma nessuno potrà toglierci la nostra dignità, mai! Magari le mutande sì, ma la dignità… Ovviamente più penoso di Tsipras c’è solo il suo fan italiano che cerca di difenderlo “a prescindere”. Si capisce, anche quelli che volevano usare Tsipras come un Cavallo di Troia antieuropeo e adesso lo accusano di essere diventato (eterogenesi dei fini? astuzia della storia?, destino cinico e baro?) un Cavallo di Troika al servizio di Berlino e Bruxelles non scherzano quanto a penosità, se così posso esprimermi.

merkel-grexit-grecia-tsipras-cavallo-troika-689649Scrive Federico Fubini sul Corriere della Sera: «Tsipras è tornato solo da una serie di vertici a Bruxelles. In che misura sia ancora vivo per la politica ellenica ed europea, lo potranno dire solo i prossimi mesi. Ma la domanda alla quale fin da subito vorrebbero poter rispondere in molti attorno a lui è ancora più spiazzante: a soli 40 anni, un leader è abbastanza duttile per potersi trasformare in 20 giorni da una versione europea di Hugo Chávez in una di Ignacio Lula da Silva?». La domanda può spiazzare solo chi ha visto nell’ex caudillo venezuelano un modello del «socialismo del XXI secolo», e non una variante altrettanto reazionaria del vecchio populismo latinoamericano. Non c’è dubbio che il populismo in salsa sinistrorsa messo in piedi da Syriza per cavalcare il disagio sociale ha presentato a Tsipras un conto da pagare in termini di realismo, perché come gli ha detto il perfido Schäuble «non puoi fare alla tua gente promesse che sai di non poter mantenere». Intanto «La Bce ha alzato la liquidità d’emergenza (Ela) alla Grecia perché “le cose sono cambiate” con il voto al Parlamento greco, ha detto Mario Draghi» (Ultim’ora ANSA). Il “realismo” paga?

schaeuble-schauble-tsipras-grexit-grecia-689651* Un solo esempio: «Personalmente, devo ancora capire se Tsipras sia un erede di Marx o se sia l’ennesimo personaggio degno dello shakespeariano “tanto rumore per nulla”. Tutto questo farebbe ridere, se non facesse piangere. Di pagliacci della sinistra del gruppo Bilderberg ce ne sono già troppi in giro. È una tragedia storica di portata epocale. A giudicare dal suo operato nelle ultime ore, che ha mai a che fare il signor Tsipras con Marx e Gramsci? Nulla, ovviamente. Tsipras ha assistito al genocidio finanziario del suo popolo causato dall’euro e dalle folli politiche finanz-naziste dell’austerità selvaggia: egli stesso è greco [oh, vile traditore della Sacra Patria!]. E, non di meno, vuole mantenere l’euro: non passa giorno senza che egli rassicuri le élites finanziarie circa la propria volontà di non toccare l’euro. E, in questo modo, offre una fulgida testimonianza – se ancora ve ne fosse bisogno – del fatto che Marx e Gramsci stanno all’odierna “sinistra Tsipras” venduta al capitale come Cristo e il discorso della montagna stanno al banchiere Marcinkus. Il solo modo di riscattarsi da parte di Tsipras sta – non v’è dubbio – nel rovesciare la gabbia eurocratica guidando il suo popolo fuori dal deserto chiamato Unione Europea. [Non v’è dubbio]. È sempre più difficile, purtroppo, pensare che si vada in quella direzione» (Diego Fusaro). Difficoltà per difficoltà, tanto vale lavorare per un’uscita dell’umanità dal Capitalismo (sans phrase, come scrivono i filosofi colti)! Scherzo, si capisce. Giusto un “marxista” come Fusaro, teorico – tra le altre dialettiche cose – dell’assetto multipolare dell’Imperialismo Mondiale, poteva farsi delle illusioni sulla «sinistra Tsipras», lodata fino al 5 luglio come fulgido esempio di socialsovranismo.

A proposito della crisi greca citare il celebre aforisma marxiano sulla ripetizione della storia è quasi d’obbligo, e nemmeno Gideon Rachman ha resistito: «L’intera saga ricorda un detto di quel grande tedesco, Karl Marx: “La storia si ripete, la prima volta come tragedia, la seconda come farsa“. La questione del debito greco riesce ad essere sia una farsa che una tragedia, allo stesso tempo» (Financial Times, 13 luglio 2015). La stessa cosa si può senz’altro dire per molti ex tifosi di Tsipras, mutatis mutandis: la prima volta come farsa, la seconda come macchietta.

143220388-4975abf8-45e7-4705-b673-c1c26890a340Aggiunta del 23 luglio

TIFOSERIA SUL SOFÀ

Il blogger greco Alex Andreou, scrittore e artista sostenitore di Tsipras («un uomo buono, onesto e coraggioso»), ha scritto qualche giorno fa: «Ci scusiamo con i marxisti di tutto il mondo se la Grecia si è rifiutata di commettere un suicidio uscendo dall’euro. So che avete sofferto, dai vostri divani». Qui per «marxisti» occorre intendere i sovranisti di “sinistra”, i quali peraltro sono sostanzialmente identici ai sovranisti di “destra”, salvo che per un piccolissimo ma molto antipatico aspetto: i socialsovranisti di solito amano definirsi col nome del vecchio comunista di Treviri.

Naturalmente anche rimanendo nell’euro le classi subalterne della Grecia non hanno di che gioire, esattamente come accade nel resto d’Europa e del capitalistico mondo. Ma il blogger qui menzionato rivendica un punto di vista rigorosamente patriottico («Si è coraggiosamente combattuto. E astutamente, perché la Grecia vive per combattere un altro giorno»*), non “internazionalista-proletario”, e di certo non sarò io a smuoverlo da quella ultrareazionaria posizione. Ai miei occhi egli ha solo il merito di non scomodare l’animaccia del noto Tedesco (no, non alludo a Schäuble!) per difendere il governo greco.

A proposito di tifoseria comodamente accucciata sul sofà! Scrive Paul Krugman: «Ho avuto uno choc. Non mi era passato per la testa che quelli del governo greco potessero prendere una posizione così dura senza un piano di riserva». Ma non era lui (insieme all’altro collega geniale Joseph Stiglitz) che tutti i giorni donava illuminati consigli all’ex strana coppia del Partenone Tsipras-Varoufakis? Vatti a fidare dei premi Nobel!

Continua Andreou: «Sembrava che ci fosse una fervente, irrazionale, quasi evangelica credenza che un piccolo paese, affogato nei debiti e a corto di liquidità, avrebbe in qualche modo (e quel qualche modo non viene mai specificato) sconfitto il capitalismo globale, armato solo di bastoni e pietre». No, i “marxisti” con cui polemizza Andreou non sono poi così esigenti: il loro nemico non è il «capitalismo globale», qualunque cosa questa locuzione voglia dire per il blogger greco, ma la sua variante ideologizzata come «neoliberismo» o «liberismo selvaggio». Il massimo cui aspirano questi cosiddetti “marxisti” è il vecchio Capitalismo di Stato, una rancida merce che essi cercano di vendere sul mercato politico reclamizzandola con una terminologia pseudo postmoderna (tipo: economia dei beni comuni) che per adesso inganna solo loro.

Il nostro amico greco invita comunque i “marxisti” (e i premi Nobel per l’economia) a non scoraggiarsi: «Non abbiate paura. L’accordo potrebbe rivelarsi impraticabile comunque. Syriza potrebbe spaccarsi dall’interno, il Grexit potrebbe essere forzato da coloro che hanno cercato per anni di farlo accadere. Poi valuterete quale sarà stato il migliore risultato». Dal modesto punto di vista di chi scrive la salvezza del malridotto Capitalismo greco è un pessimo risultato, sotto qualsiasi bandiera politico-ideologica tale obiettivo verrà conseguito: europeista, sovranista, neoliberista, statalista, “socialdemocratica”, “marxista”. Non c’è dubbio, comunque vada chi scrive non avrà nulla da festeggiare. Salvo imprevisti sociali che oggi non riesco nemmeno a scorgere. E non è detto che si tratti solo della mia confessata miopia! Ma, come amiamo dire col bravo artista di Poggio Bustone, lo scopriremo solo vivendo. Il guaio è che vivere non basta…

* «Il dettaglio dell’accordo resta da vedere, ma se contiene ristrutturazione, tre anni di finanza e il pacchetto di sviluppo, penso che fondamentalmente è un affare migliore [che il Grexit]. Per lo meno, ora che l’opinione sta cambiando, esso darà alla Grecia la possibilità di respirare, di valutare, riorganizzarsi e, eventualmente, pianificare un’uscita ordinata». Quando si dice onesta realpolitik!

Ultim’ora Ansa: «Il Parlamento greco ha approvato in tarda notte il secondo pacchetto di riforme concordato da Tsipras con l’Ue. Vota sì anche Varoufakis. Il premier guadagna consensi in Syriza». La realpolitik (qui contrapposta alla pura e semplice demagogia dei populisti di “destra” e di “sinistra”) si sta facendo strada anche fra i “marxisti”, più o meno irregolari, presenti in Syriza?

GRECIA. LA POSTA IN GIOCO

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Scritto oggi

La situazione è talmente confusa che la stessa tenuta del referendum previsto per il 5 luglio non è data per scontata nemmeno in Grecia, anche se a questo punto la frittata appare ormai fatta, cotta e servita. Si tratta di capire per chi essa si rivelerà più indigesta o persino avvelenata. In un’intervista rilasciata alla BBC, il Super Ministro Yanis Varoufakis ha dichiarato che «un accordo con i creditori della Grecia è sicuro al cento per cento», a prescindere dall’esito del referendum di domenica. Anche se, ha aggiunto il sofisticatissimo Varoufakis, la vittoria del No darebbe al governo di Atene più forza contrattuale mentre la vittoria del Si lo indebolirebbe e comunque sancirebbe la sua personale sconfitta politica, cosa che ne determinerebbe le immediate dimissioni. Anche Tsipras aveva detto qualche giorno fa di non essere un uomo per tutte le stagioni. Staremo a vedere. Nel frattempo, i convocati al referendum “epocale”, bombardati da tutte le parti da ogni sorta di informazione, più o meno credibile e/o verificabile, appaiono sempre più confusi e frastornati, vittime di una  propaganda interna e internazionale sempre più gridata e minacciosa. La verità è che informazione e disinformazione si rincorrono, si accavallano, si intrecciano, si fondono in una sola ciclopica menzogna messa in piedi contro i dominati, chiamati a schierarsi in uno dei due fronti che si fronteggiano. All’ombra di questa menzogna leggo l’ennesimo sondaggio, di qualche ora fa: «Il 74% dei greci vuole che il paese resti nell’eurozona: lo evidenzia il sondaggio della Alco per il quotidiano Ethnos, che ha invece mostrato una sostanziale spaccatura a metà degli elettori ellenici su cosa votare al referendum di domenica. Secondo l’indagine statistica, il 15% vorrebbe tornare ad una moneta nazionale, mentre l’11% non sa o non risponde» (ANSA).

«In Grecia non c’è un referendum tra euro e dracma», ha detto Nichi Narrazione Vendola, «ma un referendum tra l’austerità che ha impoverito milioni di europei e una Europa solidale». È la menzogna declinata da “sinistra”, dai sostenitori del Capitalismo dal volto umano, tutti schierati per il NO. L’austerità sotto l’euro e sotto il controllo dei vecchi creditori e dei vecchi “poteri forti” (con al centro la Germania); l’austerità sotto la dracma e sotto il controllo di nuovi creditori e di nuovi “poteri forti” (con al centro la Russia e/o la Cina?): lo spazio di “agibilità democratica” del popolo greco in realtà sembra estendersi nei limiti di queste due poco rincuoranti opzioni. Padella o brace: fate la vostra scelta! Il Partito dei sacrifici è unico, o “trasversale”, per usare il gergo politichese. Salvare la baracca capitalistica greca costerà carissimo alle classi subalterne greche, in ogni caso, e non a caso il “compagno” Tsipras ha usato il mese scorso parole che ricordano la Seconda guerra mondiale: «Amiamo la pace, ma quando ci dichiarano guerra siamo capaci di combattere e vincere». Lacrime e sangue, per la Patria! Chi mi conosce sa cosa penso della Patria, comunque e ovunque “declinata”.

«Per adesso la Grecia è mantenuta in vita artificialmente dall’azione decisa di Mario Draghi e la sua Banca centrale europea, grazie all’erogazione di liquidità che continua a pompare soldi nelle banche greche. Ma il deflusso di capitali dalle banche greche è sempre più veloce e il panico si è diffuso nel Paese. Le code agli sportelli bancari sono state lunghissime nell’ultima settimana e il governo ha deciso di porre per i prelievi dai bancomat un limite giornaliero di 60 euro. Anche il bancomat del Parlamento greco è andato in sofferenza e gli stessi parlamentari di Syriza hanno dovuto subire una lunga attesa nel ritiro del denaro contante. La borsa rimarrà chiusa fino a dopo il referendum e in Grecia il clima è diventato irrespirabile» (Panorama, 8 luglio 2015). Una situazione da tempi di guerra che molti non credevano possibile nell’Europa del XXI secolo. Mai dire mai! D’altronde lo stesso Mario Draghi, normalmente assai parco di immagini suggestive, aveva detto che la questione greca (che è a tutti gli effetti una questione europea) rischia di farci entrare in una «terra incognita». «Ad Atene e Salonicco è come in tempo di guerra, mentre nelle zone rurali si vive meglio. Quasi tutti hanno un orto, è più facile trovare latte e formaggio. La fame e la miseria si sentono nelle grandi città» (Viki Markakis, Linkiesta). Una volta si diceva: «anello debole della catena capitalistica». Molti guardano solo l’anello debole, e dimenticano o non vedono la catena, che si estende da Atene a Berlino, da Roma a Parigi, da Mosca a Washington, da Pechino a ovunque nel capitalistico pianeta. E difatti il peripatetico di Treviri diceva: Proletari di tutto il mondo, unitevi! «La parola dignità torna spesso [nella comunità greca che vive a Roma]. I greci sono un popolo orgoglioso della propria identità, non fanno nulla per nasconderlo. “Siamo un paese patriottico” spiega Trianda. “Da noi sui confini della nazione non si discute”» (Linkiesta). Ecco! Lo ammetto, il mio “internazionalismo” è patetico.

Intanto un altro teutonico, il Super Ministro Wolfgang Schäuble, vola nei sondaggi di popolarità: oltre il 70% dei tedeschi intervistati dagli istituti di sondaggio appoggiano la sua linea intransigente, cosa che inquieta la stessa Angelona Merkel, la quale vuole ancora usare la carota, insieme al bastone, per riportare a casa la pecorella greca.

Riprendendo le posizioni di Paul Krugman sulla Grexit («La Grecia dovrebbe votare No e il governo ellenico dovrebbe tenersi pronto, se necessario, a lasciare l’euro»), Federico Fubini ha evidenziato un dubbio che serpeggia fra i socialisti europei (nel senso del PSE): «Per la verità Krugman non è il solo premio Nobel newyorkese e liberal, nel senso del progressismo cosmopolita americano, a offrire il suo sostegno incondizionato a questo governo greco. […] Ieri l’ex ministro delle Finanze greco George Papaconstantinou ha preso carta e penna e ha scritto al New York Times: “Non è esagerato dire che la Grecia oggi sta scivolando verso un nuovo totalitarismo e un No al referendum sarebbe un passo in quella direzione. I progressisti non dovrebbero dargli sostegno”, ha scritto. E lo spagnolo Angel Ubide, consigliere speciale del candidato premier socialista Pedro Sanchez, ha notato qualcosa di simile in un articolo per il Peterson Institute di Washington, criticando l’infatuazione dei liberal americani per Varoufakis e il premier Alexis Tsipras: per Ubide, il loro appoggio fa parte di una “Proxy war”, combattuta sulla pelle dei più poveri fra i greci, per affermare una certa idea molto americana sull’insostenibilità di fondo dell’euro» (Il Corriere della Sera, 3 luglio 2015). Syriza e Podemos come (oggettivi) “amici del Giaguaro”? come (oggettivi) utili idioti al servizio dell’imperialismo americano, da sempre ostili al progetto di una Grande Europa a egemonia tedesca? Il sospetto è lanciato (dai socialisti europei, non dal sottoscritto)!

Se di «lotta di classe» si deve parlare a proposito del referendum di domenica, ebbene si tratta della lotta che il Capitale (la cui dimensione internazionale è sempre più evidente) fa ai nullatenenti e agli strati sociali della piccola e media borghesia risucchiati in un processo di rapida e violenta proletarizzazione.

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Tsipras, Varoufakis e la malafemmina

Scritto ieri

Dall’estrema destra all’estrema sinistra, passando per Renato Brunetta, Matteo Salvini e Beppe Grillo: vasto, composito e frastagliato appare il partito italiano che tifa per Tsipras, l’ultimo eroe della dignità nazionale prodotto dal Mezzogiorno d’Europa, in vista dell’epocale referendum del 5 luglio – nei riguardi del quale qualche politologo non particolarmente amante della popolarità fa osservare con qualche malignità che non raramente democrazia fa rima con demagogia (1). (E questo, aggiungo io, soprattutto in tempi di acuta crisi sociale). «Tutto, davvero tutto mi divide da Tsipras», ha dichiarato ieri in Parlamento Brunetta, «ma egli oggi rappresenta la risposta di libertà al dominio tedesco e alla burocrazia europea, e per questo io sto dalla sua parte». Detto en passant, l’altro giorno il politico di notevole statura internazionale aveva parlato della necessità di contrastare a ogni costo «l’imperialismo tedesco e la burocrazia di Bruxelles», cosa che pare abbia fatto sussultare non poco le anime dannate di Lenin e Trotsky, ancora in attesa di credibili eredi.

Democrazia e libertà versus dominio e burocrazia: di questo si tratta nella sempre più ingarbugliata, e per molti versi davvero tragicomica, vicenda greca? Democrazia o dispotismo economico-burocratico: è questa la posta in gioco nel Vecchio Continente? Certamente è questo che cercano di venderci i tifosi di «Atene la rossa» (strasic!).

Riferendosi al partito che tifa per Tsipras molti analisti politici hanno parlato nei giorni scorsi di contraddizioni e paradossi; la mia lettura è diversa. Quell’accozzaglia politica che si è coagulata intorno al governo greco dimostra che il mondo del conflitto sociale non si divide, in radice, tra destri e sinistri, ma piuttosto tra anticapitalisti e sostenitori a vario titolo dello status quo sociale – appartenenti alle più disparate, e non raramente disperate, correnti politico-ideologiche: si va dai “comunisti” più o meno vetero/post, ai fascisti più o meno vetero/post, dai sovranisti, agli europeisti, dai liberisti più o meno “selvaggi”, ai benicomunisti di stampo francescano piuttosto che negriano, e via di seguito. Non a caso il virile Putin fa stragi di cuori tanto nell’estrema destra quanto nell’estrema sinistra. E ciò non a dimostrazione del fatto che, in fondo, fascisti e comunisti sono ugualmente attratti da modelli politici e personali autoritari (senza contare la loro comune adorazione feticistica per lo Stato come imprenditore unico), né che oggi le “grandi ideologie” sono ormai tramontate; ma a conferma che i cosiddetti “comunisti” non sono mai stati davvero tali, bensì non più che zelanti servitori del dominio sociale capitalistico. Ma non divaghiamo!

L’illustre economista nonché premio Nobel Joseph Stiglitz si schiera risolutamente (ma no c’era da dubitarne) con il No al prossimo referendum greco: «Un sì alla nuova austerity vorrebbe dire depressione quasi senza fine», mentre «un no aprirebbe invece per lo meno la possibilità che la Grecia, con la sua tradizione democratica, possa essere padrona del suo destino». A parte la balla colossale, in questi giorni ripetuta ossessivamente a destra e a manca, sulla «tradizione democratica» della Grecia, sulla Grecia come «culla della democrazia e della civiltà occidentale»: come se il tempo che ci separa da Pericle, da Socrate e da Aristotele fosse passato invano!; a parte questa demagogia pro-greca d’accatto, come si può credere davvero che un Paese come la Grecia «possa essere padrona del suo destino» nel Capitalismo globalizzato del XXI secolo? (2) Ma davvero si vuol vendere all’opinione pubblica greca e internazionale questa mastodontica menzogna? Pare di sì.

Naturalmente i primi a non crederci, in questa balla speculativa, sono Tsipras e Varoufakis, i leader «dell’esperimento politico bolscefighetto» di Atene (la definizione purtroppo non è mia, ma di Fabio Scacciavillani) (3), i quali infatti stanno cercando di far pesare sul tavolo delle trattative con i “poteri forti” internazionali la delicata posizione geopolitica del Paese, strizzando l’occhio ora alla Russia, ora alla Cina, vedendo l’effetto che la cosa fa a Berlino, a Washington e ad Ankara. La posta in gioco geopolitica, più che economica, è stata messa nel cono di luce con il consueto realismo da Robert Kagan sul Wall Street Journal Europe di ieri. Come la moglie Victoria Nuland (vicesegretario di Stato per l’Europa, particolarmente ostile alla Russia e contrariata da certi atteggiamenti ambigui esibiti dai partner europei sulla questione ucraina), Kagan ha preso molto sul serio l’accordo di cooperazione e finanziamento firmato dal governo greco con la Russia il 18 giugno.

Anche Silvio Berlusconi, a suo tempo vittima del «colpo di Stato» ordito dall’asse franco-tedesco (i sorrisini complici della Merkel e di Sarkozy lo tormentano ancora: altro che Ruby rubacuori!) con la complicità del Presidente Napolitano (Brunetta docet!), oggi fa interessanti considerazioni geopolitiche sulla crisi dell’Unione Europea, anche nel tentativo di agganciare la posizione centrista di Renzi e per questa via smarcarsi dal populismo antieuropeo di Salvini e Meloni. Dopo tutto egli si considera ancora uno stimato leader del Partito Popolare Europeo.

Ma ritorniamo a Stiglitz: «Atene ha la chance di avere un futuro che, anche se non sarà prospero come il suo passato, sarà più ricco di speranza rispetto alla tortura senza scrupoli del presente». Capito classi subalterne greche? Dovrete comunque affrontare duri sacrifici, ma in compenso vi si offre l’occasione di essere più ricchi non in termini di euro (che trivialità, nevvero Santo Padre?) ma di speranza: quasi mi commuovo! Però subito mi riprendo: scusatemi la trivialità, please. La «tortura senza scrupoli del presente» si chiama Capitalismo, e questo ad Atene, a Berlino, a Roma, a Washington, a Mosca, a Pechino e altrove nel mondo. Ed è precisamente questa tortura, questo dominio sociale che ha ormai le dimensioni del pianeta, che ha generato la crisi economica internazionale esplosa nel 2007, la quale ha impattato duramente soprattutto in quei Paesi del Mezzogiorno d’Europa travagliati da decenni da gravi magagne strutturali, gestite soprattutto con la leva della spesa pubblica. D’altra parte nessun politico “meridionale” era – ed è – così elettoralmente masochista da intaccare interessi consolidati, rendite di posizione e parassitismi sociali di varia natura. «Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis sono passati da rivoluzionari a difensori di sprechi e privilegi» (Panorama, 1 luglio 2015). Ora non esageriamo: quando mai la strana coppia di Atene è stata rivoluzionaria?

Ma, prima o poi, i nodi vengono al pettine, soprattutto quando le “formiche” si rifiutano di essere generose con le “cicale”, per riprendere uno stilema polemico interborghese molto in voga qualche anno fa. Detto di passaggio, le “formiche” nordiche votano esattamente come le “cicale” meridionali, come ha fatto rilevare ieri con teutonica malignità la Cancelliera di Ferro parlando al Bundestag. È la democrazia (borghese, e nella «fase imperialista» del Capitalismo!), bellezza! (4).

Chi oggi sostiene che i creditori della Grecia sono moralmente colpevoli per aver consentito a quel Paese di vivere per molti anni al disopra, molto al disopra dei propri mezzi (organizzando persino un’olimpiade nel 2004 e vincendo addirittura un Campionato europeo di calcio nello stesso anno: che bei tempi!) o è in malafede oppure non capisce assolutamente nulla di come funziona il capitalistico mondo. In ogni caso quel personaggio politicamente corretto, sicuramente devoto a Francesco, dice e scrive moralistiche balle.

A proposito dell’evocato compagno Papa! «Se fossi greca? Al referendum di domenica voterei No». È quanto dichiara al Fatto Quotidiano Naomi Klein, «giornalista e scrittrice canadese icona dell’anti-capitalismo del XXI secolo». Anche qui devo dire di non aver nutrito dubbi di sorta, lo giuro. Tutta l’intellighentia che piace vota No. Ora, per capire la natura dell’anticapitalismo (sic!) venduto dalla Signora No Logo in giro per il mondo è sufficiente leggere la sua risposta alla domanda, abbastanza scontata, di Andrea Valdambrini («Papa Francesco come leader del movimento anti-capitalista?»): «Sì, lo è. È una voce importante che ricorda al mondo come non può esistere economia senza la morale. Le persone e il bene del pianeta vengono prima dei profitti». Non c’è dubbio: di questi tempi basta pochissimo per accreditarsi presso l’intellighentia progressista occidentale come «leader del movimento-anticapitalista». E questo certamente non testimonia a favore delle mie capacità! Nella mia più che modesta critica all’Enciclica francescana avevo comunque citato anche Naomi Klein fra i punti di riferimento “dottrinari” del Santo Ecologismo elaborato dal Papa.

Non c’è dubbio che ultimamente il Vaticano, una delle più antiche e potenti agenzie politico-ideologiche al servizio dello status quo sociale planetario, si è di molto rafforzato.

Il populismo di Syriza pare essersi ficcato dentro un cul-de-sac; qualunque sia l’esito del referendum, usato dai capi di quel partito come strumento di pressione politica da far valere nelle trattative  dei prossimi giorni e come comodo alibi per pagare il minor prezzo politico possibile in caso di capitolazione (ad esempio, nel caso vincessero i Sì), appare chiaro che rischiano di venir risucchiati nel vortice della disillusione e della disperazione quella consapevolezza politica e quella combattività che in qualche modo, scontando i limiti di una situazione sociale che depone a sfavore delle classi subalterne in tutto il mondo, si sono fatte strada negli ultimi anni in certi strati del proletariato e della stessa piccola borghesia azzannata dai morsi della crisi.  L’«esperimento politico bolscefighetto» di Tsipras e company può costare molto caro a chi in buona fede si è fidato della loro proposta politica tutta interna alla dialettica interborghese – la quale, com’è noto, può arrivare fino al bagno di sangue (5). Il 30 giugno il quotidiano greco I Kathimerini, schierato per il Sì e molto critico nei confronti del Premier greco («Tsipras sta sfruttando la disperazione della popolazione, ritenendo che una buona parte di essa sia disposta ad accettare qualsiasi cosa, perfino un ritorno alla dracma), paventava la possibilità che «la gente [possa cadere] preda di forze distruttive». Quando la catastrofe incombe e la “coscienza di classe” latita, le «forze distruttive» sono sempre in agguato, pronte a vendicare le offese degli ultimi: non è la vichiana storia che si ripete, si tratta piuttosto della coazione a ripetere del Dominio sociale capitalistico. Del resto, dal mio punto di vista anche Syriza è, nella sua qualità di partito borghese, parte organica delle «forze distruttive», e distruttive nel peculiare significato che tali forze non solo saccheggiano le condizioni di esistenza dei nullatenenti, ma ne annichiliscono anche la capacità di reazione, anche attraverso l’illusionismo democratico. Sotto questo aspetto, sbaglia di grosso chi individua solo in Alba Dorata il nemico da combattere, secondo la vecchia e falsa alternativa tra fascismo e democrazia.

Certo, per una volta potrei affettare un po’ di ottimismo (tanto non costa nulla e si fa sempre bella figura) e dire di sperare che la disillusione possa convertirsi presto in crescita politica. Certamente se fossi in Grecia lavorerei in quel senso. Nel mio infinitamente piccolo, si capisce. E soprattutto senza coltivare, per me e per gli altri, false speranze. Finisco ricordando la mia posizione sul referendum del 5 luglio: si tratta a mio avviso di rifiutare tutte le opzioni vendute alle classi subalterne come le sole ricette in grado di salvarle da una miseria ancora più nera di quella che stanno sperimentando oggi, ossia per legarle più strettamente al carro dei sacrifici («avete scelto voi!»), che comunque esse dovranno fare, non importa se nel nome del “sogno europeista” o in quello, altrettanto reazionario e disumano, del “sogno” sovranista.

(1) «La paura aiuta i demagoghi populisti che la coltivano di mestiere, se non lo si fosse ancora capito. Che Tsipras sia stato un demagogo a ricorrere al referendum chiedendo la fiducia dei greci a lui, non dovevamo scoprirlo certo all’ultimo momento. I populisti demagoghi fanno così, e chi non lo è e non sa mettere in conto le loro mosse perderà» (Oscar Giannino). Ma anche il fronte del Sì, a quanto pare, sa ben giocare con le paure: «Com’è possibile convincere anche queste persone a votare una cosa contro il proprio interesse? Facile, si crea un clima di terrore, paventando l’uscita dall’euro, dall’Europa, il fallimento e il disastro economico e sociale del paese, la perdita di tutti i propri soldi ecc. in caso di vittoria del “no”. In questo sporco lavoro aiutano molto le tv private greche che a ciclo continuo trasmettono servizi che hanno lo scopo di terrorizzare il popolo greco, molte volte riciclando in maniera forviante fotografie ed immagini del passato e magari provenienti da altri paesi. […] L’esempio del primo ministro Matteo Renzi è eclatante, ha dichiarato: “Sarà un referendum tra la Dracma e l’Euro”. In questo carosello di dichiarazioni non è solo, ma ben inserito in un fronte che fa di tutto per terrorizzare il popolo greco. In tanti hanno fatto dichiarazioni in cui la vittoria del “no” coincide con l’uscita dall’euro e dall’Europa. Cosa, che non è vera ed è proprio il più accanito nemico del governo greco a dichiaralo pubblicamente, infatti proprio il ministro delle finanze tedesco W. Schäuble ha dichiarato ieri che anche con la vittoria del “no” la Grecia resterà nell’’uro e si continuerà a trattare» (http://sopravvivereingrecia.blogspot.it/). Il Blog qui citato coltiva un’alta opinione della democrazia diretta referendaria che personalmente non condivido. Come non condivido il suo giudizio sulla dichiarazione di guerra referendaria firmata da Tsipras il 26 giugno: «è di una fierezza rara».

(2) Scrive Paolo Guerrieri: «L’eurozona non è una piccola economia aperta, ma il secondo spazio a livello mondiale per dimensioni di reddito, prodotto e di ricchezza accumulata. […] Per vincere la crisi economica è necessaria più Europa. Non sarà facile in un’era di euroscetticismo crescente. Ma è un dato di fatto che gli Stati nazione europei non hanno più gli strumenti adeguati per governare le loro economie, perché troppo piccole nella nuova economia-mondo. E se vogliamo un rilancio del modello europeo di economia sociale di mercato questo sarà possibile solo in un’ottica europea. Ma bisogna fare presto, prima di vedere definitivamente compromesse le prospettive future dell’intero progetto di integrazione europea» (È fondamentale un cambio di passo in Italia e in Europa, in  Economia italiana, 2014/3). Rimane inteso che questo progetto non può che avere la Germania, ossia lo spazio capitalistico sistemicamente più forte, più strutturato e più dinamico d’Europa, come proprio centro-motore. Hic Rhodus, hic salta!

(3) «Il plebiscito farsa, ultimo rifugio dei demagoghi, rappresenta il capolinea dell’esperimento politico bolscefighetto quale che sia il risultato. […] Quelli che lamentano una moneta senza basi politiche vivono fuori dalla realtà e ignorano la Storia: è sempre l’economia a determinare la politica. Senza la zavorra greca l’euro è economicamente e dunque politicamente più forte» (F. Scacciavillani, Il Fatto Quotidiano, 30 giugno 2015).

(4) Cito da un mio post del 5 giugno: Com’è noto, anche il Ministro tedesco Schäuble si è pronunciato in termini positivi circa la possibilità di sottoporre il piano di riforme che sarà concordato tra Atene e l’ex Troika a un referendum popolare: «Se il governo greco pensa di dover tenere un referendum, allora lasciamogli tenere un referendum – ha dichiarato Schäuble –. Potrebbe essere una misura perfino utile per il popolo greco per decidere se è pronto ad accettare quello che è necessario o se vuole qualcosa di diverso» (Corriere della Sera, 12 maggio 2015). Elettori greci, preparate la corda: da tutte le parti vi si vuol… consultare. Della serie: Decidi tu, oh popolo sovrano, l’albero a cui desideri impiccarti.

(5) E qui viene sempre utile ricordare Schopenhauer: «Ogni povero diavolo, che non ha niente di cui andare superbo, si afferra all’unico pretesto che gli è offerto: essere orgoglioso della nazione alla quale ha la ventura di appartenere. Ciò lo conforta; e in segno di gratitudine egli è pronto a difendere a pugni e calci, con le unghie e coi denti tutti i suoi difetti e tutte le sue stoltezze» (A. Schopenhauer, Il giudizio degli altri, pp. 31-32, RCS, 2010). Ecco la merce nazionalista venduta il 26 giugno da Alexis Tsipras al “popolo greco”: «Vi chiamo tutti e tutte con spirito di concordia nazionale, unità e sangue freddo a prendere le decisioni di cui siamo degni. Per noi, per le generazioni che seguiranno, per la storia dei greci. Per la sovranità e la dignità del nostro popolo». Segue ovazione e orgasmo da parte dei sovranisti, non importa se di “destra” o di “sinistra”, di tutto il mondo. E magari qualche socialsovranista ha in passato urlato (evidentemente a pappagallo) lo slogan: Il proletariato non ha patria! «Se gli levi anche quella…». Mi rendo conto. E allora, più Patria per tutti! Così va bene? Sono stato abbastanza “amico del popolo”?

SLAVOJ ŽIŽEK E LA SINDROME DELLA MOSCA COCCHIERA

L’incipit dell’intervento di Slavoj Žižekalla convention di Syriza pubblicato dal Manifesto è, come spesso capita alle produzioni del filosofo sloveno, brillante e accattivante: «Al termine della sua vita Sigmund Freud, il padre della psicoanalisi, fece la famosa domanda “che cosa vuole una donna?”, ammettendo la perplessità di fronte all’enigma della sessualità femminile. Una simile perplessità sorge oggi: “Che cosa vuole l’Europa?” Questa è la domanda che voi, il popolo greco, state rivolgendo all’Europa. Ma l’Europa non sa quello che vuole» (Alla fine la Grecia ci salverà, Il Manifesto, 8 giugno 2012). Tuttavia, usare la citazione freudiana come metafora in grado di illuminare la problematica “sessualità” della Vecchia Europa, se può suonare in qualche modo suggestivo, rischia di mettere subito su una falsa pista il pensiero non pago delle riflessioni mainstream – di “destra” o di “sinistra” che siano – intorno alla scottante questione europea. Ma forse è proprio il pensiero del filosofo sloveno a essere  completamente sconnesso dal reale processo storico-sociale.

Innanzitutto l’Europa posta nei termini in cui li ha messi Žižek semplicemente non esiste, mentre esiste uno spazio geosociale chiamato Europa nel cui seno si “dialettizzano” capitali e sistemi-paese da sempre concorrenti fra loro. Ripeto: da sempre. La crisi economica ha semplicemente reso evidente ciò che tutti i più seri analisti politici ed economici (chissà perché quasi tutti “conservatori”) del mondo hanno detto e scritto nel corso dell’ultimo mezzo secolo, in barba alle elitarie e pasticciate chimere vendute al mercato delle ideologie dai federalisti europei «senza se e senza ma».

Ancora fino al 2008 il politico europeo (in Italia quasi sempre leghista o berlusconiano) che osava denunciare tutte le contraddizioni insite nella costruzione dell’Unione Europea e, soprattutto, dell’Eurozona, veniva subito zittito con una valanga di insulti politicamente corretti (cioè rigorosamente europeisti). «Lei è un euroscettico, s’informi!»: ecco la sanguinosa accusa. Il dogma tecnocratico di Jacques Delors (la moneta unica europea come base dell’edificio politico-istituzionale europeo) era il paradigma del buon politico europeo. Ma già nel corso della crisi finanziaria del 1992 si rese evidente come la Germania rimanesse «l’unica potenza in grado di farsi carico degli impegni richiesti per una più profonda unificazione economica e politica europea» (Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, p. 206, Università Bocconi Editori, 2000). L’integrazione economica dei diversi paesi dell’Unione non poteva non porre la questione della Sovranità Nazionale, la quale nei dibattiti fra le persone colte del Vecchio Continente veniva trattata alla stregua di un cane morto. Salvo poi scoprire che il Leviatano nazionale non ne vuole sapere di tirare le cuoia, per lasciare il posto al Moloch Sovranazionale in grado di competere ad armi pari con le altre creature mostruose che devastano l’umanità: Stati Uniti, Cina, India e via di seguito.

Come ho scritto altre volte, nel «sogno europeista» storicamente convergono (si “scaricano”) diverse e contrastanti esigenze. In primis quella di controllare da vicino la Germania: «Naturalmente, le “ambizioni egemoniche” che l’integrazione europea si riprometteva di contenere erano in particolare quelle di una nazione: la Germania. L’averla integrata e ammansita è stata la grande conquista dell’Europa» (Robert Kagan, Paradiso e potere, p. 62, Mondadori, 2003). La stessa Germania, immersa peraltro in un senso di colpa alimentato ad arte dalle potenze vittoriose, ha accettato di buon grado la camicia di forza “europeista”, e le ragioni, di assai facile comprensione, si compendiano in due date: 1918 e 1945. Due catastrofi epocali nell’arco di un tempo così breve avrebbero spezzato la volontà competitiva (un tempo chiamata «volontà di potenza») di qualsiasi nazione. Ma la Germania, se può essere contingentemente spezzata e ridotta al rango di Paese reietto, non può venir privata della sua storia e del suo corpo sociale, ossia di quella che chiamo Potenza sistemica. Tanto alla fine della Prima quanto alla fine della Seconda Guerra Mondiale gli Stati Uniti hanno fatto di tutto per sostenere un’economia tedesca ridotta ai minimi tempi, e non l’hanno certo fatto per ragioni umanitarie, le quali nel contesto della competizione globale fra le Potenze mondiali si danno come mero strumento ideologico al servizio di obiettivi radicalmente disumani. Già Keynes, nel 1919 (Le conseguenze economiche della pace), sostenne che fiaccare la Germania significava mettere nelle condizioni l’Europa di produrre nuovi e più gravi disastri sociali.

La questione europea è la questione tedesca, e chi, come Žižek, si muove all’interno della dimensione europeista, sebbene da una prospettiva “di sinistra radicale”, non può fare a meno di confrontarsi con questa realtà. È la dimensione del conflitto sistemico fra i paesi europei che va recuperata in tutta la sua radicalità sociale e storica, e mi mette un po’ in imbarazzo doverlo “ricordare” all’autore de «La violenza invisibile».

Syriza non rappresenta affatto «una nuova eresia», come crede il filosofo sloveno, quanto piuttosto una strada percorribile dalla classe dominante greca, o da alcune sue fazioni, nelle odierne critiche circostanze: è una delle diverse opzione in campo, tutte egualmente pregne di lacrime e sangue per le classi dominate, schiacciate nella falsa alternativa tra europeismo e sovranismo. «La nostra libertà di scelta in effetti funge da mero atto formale di consenso alla nostra oppressione e al nostro sfruttamento» (Slavoj Žižek, La violenza invisibile, p. 150, Rizzoli, 2008). Anche con Syriza, il KKE e tutti gli altri raggruppamenti ellenici di sinistra e di estrema sinistra ci troviamo al centro della dimensione totalitaria illuminata dallo sloveno; essi, infatti, basano la loro azione politica a partire dai «veri interessi del Paese», o del «Popolo», ossia, tradotto in concetti non ideologici e al netto di ogni rognosa fraseologia pseudomarxista (il KKE propone «il potere popolare, il disimpegno dall’Unione europea e la socializzazione dei mezzi di produzione»: il socialismo in un solo Paese?), sulla base degli «autentici interessi nazionali». E dove c’è Nazione c’è Capitale, più o meno «di Stato» o «liberista-selvaggio».

Nei 40 punti del Programma elettorale di Syriza spiccano quelli dedicati alle nazionalizzazioni: «delle banche, delle imprese ex-pubbliche in settori strategici per la crescita del paese (ferrovie, aeroporti, poste, acqua), degli ospedali privati (Eliminare ogni partecipazione privata nel sistema pubblico sanitario)». Certo, chi associa la nazionalizzazione delle attività economiche al socialismo, o a qualcosa che gli somigli (secondo lo schema della «fase di transizione dal capitalismo al socialismo»), può pure gongolare dinanzi a una simile prospettiva – peraltro coltivata da non pochi partiti di estrema destra del Vecchio Continente: dal “socialismo” al nazionalsocialismo il passo può essere davvero breve… Come dimostra la storia del “secolo breve” (dallo stalinismo al fascismo, dal nazismo al keynesismo) nazionalizzare significa espande il potere di controllo sociale del Leviatano, magari in cambio di qualche briciola in più fatta cadere sulle masse proletarie: prima soddisfare i bisogni del corpo! È il triste «materialismo triviale» formato Diamat.

Può anche darsi che il nostro amico sloveno pensi di poter usare “tatticamente” Syriza per conseguire «più avanzati obiettivi», secondo quella che mi piace definire sindrome della mosca cocchiera. Purtroppo la mia indigenza in fatto di dialettica mi impedisce di cogliere il significato dell’ipotizzato “entrismo”, il quale a mio modesto avviso si risolve, puntualmente e necessariamente, in una politica al servizio di questo o quell’altro interesse capitalistico e/o nazionale: Grecia o Unione Europea, Euro o Dracma, Stato o Privato, Europa o America, Occidente o Oriente, e via di seguito. Quando si coltivano troppe illusioni, facilmente si corre il rischio di rimanere vittime dell’astuzia del Dominio.

Sic!

D’altra parte, cosa abbia in testa Žižek quando parla di rivoluzione lo si evince da quanto segue: «Permettetemi ora di finire con una nota personale. Odio la sinistra tradizionale, intellettuale, che ama la rivoluzione, ma la rivoluzione che avviene in qualche luogo lontano. Era così quando ero giovane: più lontano è, meglio è, Vietnam, Cuba, ancora oggi, Venezuela». Lasciamo stare, qui, il Vietnam e Cuba, anche per rispettare la speranzosa gioventù del filosofo; ma farsi ancora delle illusioni persino sul Venezuela di Chávez!

È proprio vero: per trasformare il mondo occorre prima capirlo. Ma anche: First as Tragedy, Then As Farce.