Cuba. Annuncio dell’ennesima “riforma economica” da parte del regime. Ogni volta che l’isola caraibica si trova a un passo dal baratro, ecco spuntare all’orizzonte la prospettiva di una «più coraggiosa apertura» di Cuba al capitalismo privato. L’ultima “grande riforma” risale a 13 anni fa, e venne lanciata dall’ex presidente Raúl Castro. Risultato? La crisi che abbiamo dinanzi. Non è facile ristrutturare radicalmente un’economia senza mettere in discussione vecchi e assai radicati interessi, rendite di posizione e, soprattutto, la struttura del regime politico vigente. E infatti l’opposizione al regime cubano pensa che l’ennesimo annuncio “riformista” non sia che un segnale lanciato dall’Avana soprattutto agli Stati Uniti, per catturarne la benevolenza. «Per José Daniel Ferrer, leader dell’Unpacu, la principale associazione di resistenza dal basso al castrismo, oggi appoggiata da un numero crescente di contadini, è indubbio che “l’intenzione è quella di far innamorare il neopresidente degli Stati Uniti Joe Biden con una presunta apertura economica interna, ma l’unico obiettivo è che gli Usa eliminino le sanzioni e aprano il flusso delle rimesse, dei voli e dei viaggiatori, che poi è la formula che piace ai comunisti: farsi mantenere al potere dai soldi del capitalismo» (Il Giornale). Chi associa Cuba al comunismo, o anche a qualcosa di lontanamente assimilabile a una società non capitalista, ha in testa un concetto di “comunismo” e di “anticapitalismo”che personalmente trovo di una comicità (diciamo così) davvero irresistibile. Sulla natura nazionale-borghese della mitica Rivoluzione cubana rimando a qualche mio post dedicato al tema (*).
Per La Stampa, «La nuova Revolución [sic! ] non guarda più al Che, ormai un monumento per i turisti, il modello è la Cina di Xi Jinping»; dal fatiscente e sgangherato capitalismo con caratteristiche cubane al capitalismo ultra organizzato e tecnologizzato con caratteristiche cinesi? Sarebbe davvero una miracolosa transizione!
Ma di “modello cinese” (e vietnamita) per Cuba si parlò già nel 2012: «Nei piani di Raúl Castro la transizione a Cuba seguirà il modello di Pechino e Hanoi: apertura al capitalismo ma non alla democrazia. La Cina sta abbracciando il capitalismo e da anni invita Cuba a fare lo stesso – addirittura lamentandosi privatamente della lentezza con cui il regime dell’isola caraibica introduce i cambiamenti. La cooperazione cinese è da anni improntata anche alla creazione di capacità industriali e di un tessuto imprenditoriale a L’Avana. Pechino è da qualche anno il secondo partner commerciale di L’Avana, dopo il Venezuela di Hugo Chávez. L’espansione dell’economia di mercato è da sempre una priorità della politica estera statunitense; come non gioirne se si verifica a pochi chilometri dalle coste della Florida? La Cina non farebbe per Cuba quanto fece a suo tempo l’Unione Sovietica. Per Pechino una relativa stabilità nei rapporti con gli Usa è più importante della solidarietà dettata da ormai sbiadite affinità ideologiche; dal canto suo L’Avana dovrebbe aver imparato subito dopo il collasso dell’Urss quanto sia rischiosa la dipendenza economica da un solo partner. Per quanto gli Stati Uniti e la Repubblica Popolare Cinese possano collaborare però, ci saranno aree e temi nei quali – pur non arrivando necessariamente a un confronto armato – resteranno rivali» (Limes, 11/07/2012). Dopo undici anni, siamo ancora a parlare di una “via cinese al capitalismo” per Cuba. La transizione di Cuba verso un capitalismo più moderno e prospero è davvero lenta, fin troppo lenta.
L’arretrata società cubana è tormentata da una lunga e grave crisi economica, aggravata dalle sanzioni imposte dall’ex presidente americano Donald Trump e, ancor più recentemente, dalla pandemia. «Dopo anni di stagnazione, nel 2020 l’economia cubana ha conosciuto una contrazione dell’11 per cento (il peggior calo in quasi tre decenni) e la popolazione ha dovuto fare i conti con scarsità di beni di base e file interminabili per ottenerli. Ad oggi, il cosiddetto settore “non statale”, con l’esclusione dell’agricoltura tenuta in piedi da centinaia di migliaia di fattorie, è composto principalmente da piccole cooperative attive nel turismo, nell’artigianato e nel trasporto locale. Secondo la ministra Feito, citata da Granma, l’organo di stampa del Partito comunista [rido!], si tratta di circa 600 mila lavoratori, ossia il 13 per cento della popolazione attiva. La nuova riforma dovrebbe aprire ai privati quasi tutti i settori dell’economia: “Soltanto 124 rimarranno parzialmente o del tutto controllati dallo Stato”, ha riferito ancora la ministra Feito, senza però specificare quali» (La Stampa). Di certo c’è che l’umore della popolazione cubana si fa di giorno in giorno sempre più nero. Nell’ultimo mese l’inflazione ha dimezzato il potere d’acquisto del 90 per cento dei cubani, ossia di tutti quelli che non possono spendere in dollari. Il peso cubano è una valuta nazionale sempre più leggera, mentre il velleitario CUC (convertibile in perfetta parità con il dollaro) creato negli anni Novanta è stato eliminato. «Il CUC seppellirà l’egemonia del dollaro», aveva detto allora il mitico Fidel, subito festeggiato dai castristi di mezzo mondo – i quali ancora oggi associano Cuba alla Revolución, costringendo in tal modo il modestissimo personaggio che scrive a immaginarsi un genio della scienza sociale: tutto è relativo! Per fortuna di solito mi confronto con persone che mettono in riga il mio principio di realtà, riconducendomi alla modesta dimensione intellettuale che mi compete: mannaggia!
«Cuba non fa parte della Banca Mondiale né del Fondo Monetario Internazionale, per cui non ha accesso ad alcun finanziamento. Con un probabile avvicinamento, gli Stati Uniti potrebbero presentarsi come un “consigliere” in materia finanziaria. E le attività economiche private potrebbero accedere a fondi americani per operare e crescere sull’isola. Ma saranno vere le intenzioni del regime castrista? Secondo il Financial Times, John Kavulich, presidente del Consiglio economico e commerciale Usa-Cuba, se Cuba promuove la liberalizzazione del tasso di cambio ed espande il settore privato, ciò creerebbe incentivi per Washington a impegnarsi: “La chiave è che l’amministrazione Biden deve credere che l’amministrazione Díaz-Canel sia seriamente intenzionata a ristrutturare l’economia. L’unico modo per dimostrare serietà è sopportare i sacrifici della trasformazione”» (Formiche.net). Si tratta anche di vedere la postura che la Russia e la Cina assumeranno nei confronti di un seppur piccolo riavvicinamento tra Cuba e Stati Uniti. Di certo possiamo dire che, “trasformazione” o meno, sono tanti e gravosi i sacrifici che i senza riserve di Cuba stanno sopportando.
«Secondo Harold Cárdenas Lema, professore universitario, analista e fondatore del blog La joven Cuba, però si è rotto “il contratto sociale” per cui “la gran maggioranza della popolazione cubana chiudeva gli occhi di fronte alla repressione dell’opposizione e del dissenso ritenuti annessionisti o nel libro paga degli Usa”» (Il Manifesto, 12/12/2020). D’altra parte il regime è stato chiaro circa il trattamento che verrà riservato agli oppositori politici e sociali che minacciano di scendere in strada: «All’interno della Rivoluzione tutto, contro la Rivoluzione niente». Abbasso la “Rivoluzione”! Viva la Rivoluzione!
(*) Riflessioni sulla rivoluzione cubana; Fidel Castro; Sul fallimento del “laboratorio politico-sociale” latinoamericano.
Per quanto riguarda Ernesto “Che” Guevara, al di là della sua fraseologia pseudo-rivoluzionaria che tanto ammaliò i “marxisti” europei della sua epoca (e purtroppo anche di quella successiva, fino ai nostri giorni), egli a mio avviso va collocato interamente dentro l’esperienza ultrareazionaria del cosiddetto “socialismo reale”, ossia del reale capitalismo vigente in Unione Sovietica, in Cina e negli altri Paesi “socialisti”. Questo senza nulla togliere al suo ruolo nella rivoluzione nazionale-borghese cubana. La sua ideologia piccolo-borghese risalta soprattutto nella strategia guerrigliera che egli propose a tutti i Paesi dell’America Latina, anche a quelli forniti di un proletariato urbano e di un contadiname salariato interessati, almeno potenzialmente, a una lotta di classe autenticamente anticapitalista – la sola che si possa definire antimperialista in senso proletario, non nazionale-borghese. «Ecco la prima impressione del Che in visita in Urss: “Anche io, arrivando in Unione Sovietica, mi sono sorpreso perché una delle cose che si nota di più è l’enorme libertà che c’è (…) l’enorme libertà di pensiero, l’enorme libertà che ha ciascuno di svilupparsi secondo le proprie capacità ed il proprio temperamento.” (E. Guevara, Scritti, discorsi e diari di guerriglia, Einaudi 1969, pag. 946). Queste parole furono pronunciate nel 1961, cinque anni dopo la repressione della rivoluzione operaia ungherese da parte delle truppe di Mosca. E sulla strategia di sviluppo del socialismo, parlando ancora dell’Urss, si può notare quanta confusione era presente nelle idee del rivoluzionario argentino: “Mi ascolti bene, ogni rivoluzione, lo voglia o no, le piaccia o no, sconta una fase inevitabile di stalinismo, perché deve difendersi dall’accerchiamento capitalista.” (K. S. Karol, La guerriglia al potere, Mondadori 1970, pag.53). Lo stalinismo qui viene trattato come una malattia dell’infanzia. In realtà è stato un processo di controrivoluzione politica [e sociale, aggiungo io] portato avanti da una casta, la burocrazia di cui Stalin era appunto il rappresentante, che non si esaurì affatto con la morte di quest’ultimo. Comportò l’eliminazione fisica di tutta la vecchia guardia bolscevica, quella della rivoluzione d’Ottobre» (R. Sarti, Note sul pensiero del Che). A mio avviso lo stalinismo fu, nell’essenza, l’espressione di una controrivoluzione capitalistica che si spiega anche, se non soprattutto, alla luce del contesto internazionale dell’epoca; l’esistenza di una «casta burocratica» posta al servizio del capitalismo e dell’imperialismo con caratteristiche “sovietiche” si spiega alla luce di quella controrivoluzione antiproletaria, e non viceversa. Ma questo è un altro discorso.