L’ITALIA POPOLARE SI ERGE COME UN SOL UOMO CONTRO LA FRANCIA NEOCOLONIALISTA! RIUSCIRÀ ROMA A SPEZZARE LE RENI ANCHE ALLA PERFIDA PARIGI?

Questa mattina ho registrato sul Blog un certo interesse intorno a un post che ho pubblicato la scorsa estate sul cosiddetto Franco CFA. Insomma, il tema toccava una questione che oggi si ritrova sotto forma di polemica “politico-diplomatica” su tutti i quotidiani, e non solo su quelli nazionali. Dinanzi all’odierna sguaiatissima e per molti aspetti risibile propaganda degli italici sovranisti, che con qualche decennio di ritardo hanno scoperto l’opera di saccheggio, di sfruttamento e rapina che la Francia ha praticato, insieme a molti altri Paesi europei (Italia compresa!), e che, mutatis mutandis, cerca di continuare a praticare (esattamente come l’Italia!) in Africa; dinanzi a questa escrementizia canea demagogica che cerca di additare all’opinione pubblica nazionale l’ennesimo capro espiatorio su cui investire elettoralmente (le elezioni europee si approssimano), e con cui alzare una fitta nuvola di polvere mediatica per nascondere le magagne che si stanno addensando intorno al cosiddetto Governo del cambiamento (in peggio); dinanzi a tutto questo, dicevo, particolarmente interessante mi sembra la parte del mio post che adesso cito.

«È giusto farsi quattro crasse risate sulla presunzione «dell’ex banchiere Macron» di rappresentare la – supposta – superiorità morale della Francia e i veri valori dell’Occidente progressista e illuminista, ma l’ondata francofoba che osserviamo montare in alcuni ambienti politici e sociali è altrettanto farsesca e molto pericolosa se guardata dal punto di vista autenticamente antimperialista. «Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia»: così recita Il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Essendo chi scrive un proletario italiano, ne consegue che il suo nemico principale è l’imperialismo italiano (e tutti i politici e gli intellettuali che in qualche modo ne sostengono gli interessi), per quanto esso possa apparire o essere modesto se confrontato con gli imperialismi che stanno al vertice della contesa intercapitalistica mondiale. Nel suo piccolo, l’imperialismo italiano partecipa al Sistema Imperialista Mondiale, ne è parte non trascurabile, ed è da questa peculiare prospettiva che osservo i movimenti e i conflitti interni a quel Sistema, che personalmente rigettato in blocco, come una sola, compatta, mostruosa e disumana entità sociale. Insomma, con questo post sono lungi dal voler portare acqua al mulino degli italici sovranisti che oggi attaccano il “neocolonialismo francese” un po’ come Mussolini attaccava l’imperialismo delle plutodemocrazie ai tempi delle “inique sanzioni”. Io metto la Francia e l’Italia dentro lo stesso sacco, anche se sul piano politico ho un occhio particolarmente critico e sensibile nei confronti della seconda, per il motivo, tutt’altro che ideologico, summenzionato».

Oggi i sovranisti d’accatto Made in Italy denunciano le mire espansionistiche della Francia sulla Libia: «Macron ci vuole rubare il petrolio e il gas. La Libia è nostra!» E, sia chiaro, la stessa, identica cosa pensano anche i partiti che oggi stanno all’opposizione. D’altra parte, bisogna ricordare che la Nuova Politica Immigratoria dell’Italia è stata inaugurata dall’ex Ministro degli Interni Marco Minniti.

Per me non è tanto importante quel che dicono quei “signori” (chi se ne frega delle fregnacce quotidiane sparate dai Salvini, dai Di Battista e dai Di Maio!), quanto il fatto che le loro odiose/merdose parole trovano ascolto soprattutto presso gli strati sociali economicamente più “disagiati” del Paese, a dimostrazione che il veleno politico-ideologico (nazionalismo, razzismo, ecc.) inoculato nel corpo sociale non è la causa dei mali, ma piuttosto la conseguenza del “male supremo”: questa società, a prescindere da chi contingentemente ci amministra. Ovviamente causa ed effetto interagiscono l’una sull’altro in modo “produttivo” (e “dialettico”), alimentando un circolo vizioso che innalza di molto la soglia di quella violenza sistemica che osserviamo dilagare in ogni ambito della società. È soprattutto su questo aspetto che, a mio avviso, deve riflettere chi non vuole subire passivamente il pessimo (capitalistico) mondo che ci ospita.

Leggi anche: È FACILE ESSERE “BUONISTI” ACCUSANDO L’IMPERIALISMO DEGLI ALTRI!

ULTIM’ORA!

«Il problema dei migranti ha tante cause, c’è chi in Africa sottrae ricchezza a quei popoli e a quel continente e la Francia è tra questi». Così ha dichiarato il Truce Salvini, evidentemente per marcare a uomo il suo solidale di governo Di Maio. L’Italia ovviamente è molto attiva in Africa per nobilissimi motivi: «”Finanzieremo uno studio di fattibilità per finanziare le più importanti infrastrutture di cui l’Etiopia necessita e ci faremo latori del coinvolgimento delle più importanti istituzioni finanziarie internazionali, perché ricevano il sostegno economico che meritano». Lo annuncia il presidente del Consiglio Giuseppe Conte dopo l’incontro a Palazzo Chigi con il primo ministro della Repubblica federale democratica di Etiopia, Abiy Ahmed Ali. Conte ha anche aggiunto che “C’è una insistita attenzione verso la regione del corno d’Africa che si completa anche con l’attenzione verso altri Paesi di importanza strategica per l’interesse dell’Italia e dell’intera Ue. L’Italia non vuole agire da sola, ma incitare l’intera Ue a prestare attenzione allo sviluppo sociale ed economico alla regione del Corno d’Africa e degli altri paesi dell’Africa» (Il Messaggero). Che generosità! Altro che l’antipatica ed egoista Francia!

Ancora il Truce degli italiani: «In Libia la Francia ha interessi opposti a quelli italiani». E questo lo avevo capito anch’io! «La Francia non ha alcun interesse a stabilizzare la situazione». Verissimo. «Dunque ha poco da arrabbiarsi perché ha respinto migliaia di migranti, comprese donne e bambini, alla frontiera. Lezioni di umanità e generosità da Macron non ne prendo». In effetti, uno “statista” vale l’altro: sono tutti al servizio di questa escrementizia società.

FRANCE À FRIC

«Nel linguaggio comune esiste un gioco di parole, ossia France à fric: la pronuncia è la stessa di Françafrique ma la forma scritta deriva dall’espressione argotica pompe à fric (macchina da soldi), chiaramente riferita al saccheggio delle ricchezze e risorse naturali africane da parte della Francia» (1).

 

«”Perché un continente così ricco di risorse naturali è anche così povero? Perché quelle terre vengono depredate da multinazionali e governi come quello francese, che con la sua politica neocoloniale si accaparra materie prime e terre rare causando disastri ambientali e desertificazione. 14 stati africani pagano ancora il pizzo alla “madrepatria” attraverso il Franco CFA. La Francia dell’ex banchiere Macron, con il suo neocolonialismo predatorio è una delle maggiori cause dell’immigrazione e invece di farsi carico dei danni che crea chiude le frontiere. Dovrebbe avere la decenza di starsene in silenzio”. È quanto dichiara Giorgia Meloni leader di Fratelli d’Italia» (Agenpress, 3 agosto 2018). «Che fine ha fatto la missione italiana in Niger che i francesi hanno bloccato? Bella domanda. I francesi sono un problema, perché la loro è una strategia economica, non umanitaria. I francesi hanno un approccio imperialista e colonialista che non è apprezzato in Africa e quindi qualche paese è disponibile a ragionare di fronte a investimenti veri. Mi piacerebbe che il ministro Salvini, brutto, sporco, cattivo, razzista, fascista, fosse quello che investe seriamente in Africa. Per permettere a quei ragazzi di restare lì a lavorare»» (Matteo Salvini, intervista rilasciata a Quotidiano.net). Com’è umano lei! E com’è ingiusto che qualcuno lo accusi di razzismo e di fascismo! Insomma, oggi è soprattutto la “destra” che denuncia, del tutto strumentalmente, il neocolonialismo francese, accusato di affamare i popoli dell’Africa costringendoli a lasciare i loro Paesi devastati dall’avidità di Parigi e a “invaderci”. Come ho scritto altrove, è facile fare i “buonisti” accusando l’imperialismo dei concorrenti.

È giusto farsi quattro crasse risate sulla presunzione «dell’ex banchiere Macron» (e magari, gratta gratta, è possibile scoprire qualche sua discendenza poco raccomandabile dal punto di vista razziale…) di rappresentare la – supposta – superiorità morale della Francia e i veri valori dell’Occidente progressista e illuminista, ma l’ondata francofoba che osserviamo montare in alcuni ambienti politici e sociali è altrettanto farsesca e molto pericolosa se guardata dal punto di vista autenticamente antimperialista. «Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima di tutto con la sua propria borghesia»: così recita Il Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels. Essendo chi scrive un proletario italiano, ne consegue che il suo nemico principale è l’imperialismo italiano (e tutti i politici e gli intellettuali che in qualche modo ne sostengono gli interessi), per quanto esso possa apparire o essere modesto se confrontato con gli imperialismi che stanno al vertice della contesa intercapitalistica mondiale. Nel suo piccolo, l’imperialismo italiano partecipa al Sistema Imperialista Mondiale, ne è parte non trascurabile, ed è da questa peculiare prospettiva che osservo i movimenti e i conflitti interni a quel Sistema, che personalmente rigettato in blocco, come una sola, compatta, mostruosa e disumana entità sociale. Insomma, con questo post sono lungi dal voler portare acqua al mulino degli italici sovranisti che oggi attaccano il «neocolonialismo francese» un po’ come Mussolini attaccava l’imperialismo delle plutodemocrazie ai tempi delle “inique sanzioni”. Io metto la Francia e l’Italia dentro lo stesso sacco, anche se sul piano politico ho un occhio particolarmente critico e sensibile nei confronti della seconda, per il motivo, tutt’altro che ideologico, summenzionato.

Alla Conferenza degli ambasciatori francesi di fine agosto 2017 il Presidente Emmanuel Macron disse che «è in Africa che si gioca il futuro del mondo». Esagerava? Può darsi. Rimane il fatto che è in Africa che la Francia si gioca ciò che rimane del suo status di potenza imperialista di un qualche rilievo. E certamente il continente africano rappresenta oggi una delle aree più dinamiche e problematiche del mondo dal punto di vista sociale, economico e geopolitico, ed è proprio questa effervescente complessità che sta mettendo sotto pressione la presenza francese nelle sue ex colonie, che Parigi non cessa di considerare il proprio cortile di casa. Non c’è dubbio che è stata l’avanzata in grande stile dell’imperialismo cinese in Africa a mutare completamente il vecchio scenario e i vecchi rapporti di forza tra le diverse Potenze che si contendono le materie prime (oro, uranio, petrolio, gas, cacao, caffè) di cui sono ricchissimi molti Paesi africani, a cominciare da quelli che ancora oggi fanno parte dal punto di vista finanziario e monetario all’area francese. Forse non tutti sanno che molti Paesi del Centro Africa e dell’Area Subsahariana (Camerun, Ciad, Gabon, Guinea Equatoriale, Repubblica Centrafricana, Repubblica del Congo, Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo) hanno come moneta ufficiale il franco CFA, una moneta stampata in Francia e garantita dal Tesoro Francese, il quale drena il 50% delle riserve monetarie di quei Paesi. «In pratica, quando uno dei 14 Paesi del franco Cfa esporta verso un paese diverso dalla Francia, e incassa dollari o euro, ha l’obbligo di trasferire il 50% di questo incasso presso la Banca di Francia. In origine la quota da trasferire in Francia era pari al 100% dell’incasso, poi è scesa al 65% (riforma del 1973, dopo la fine delle colonie), infine al 50% dal 2005. Così, per esempio, se il Camerun, previo un esplicito permesso francese, esporta vestiti confezionati verso gli Stati Uniti per un valore di 50mila dollari, deve trasferirne 25 mila alla Banca centrale francese. Un sistema al quale non sfugge neppure un soldo, in quanto gli accordi monetari sul franco Cfa prevedono che vi siano rappresentati dello Stato francese, con diritto di veto, sia nei consigli d’amministrazione che in quelli di sorveglianza delle istituzioni finanziarie delle 14 ex colonie. Grazie a questo trasferimento di ricchezza monetaria, la Francia gestisce a suo piacimento il 50% delle valute estere delle 14 ex colonie, investendoli massicciamente in titoli di Stato emessi dal proprio Tesoro, grazie ai quali ha potuto finanziare per decenni una spesa pubblica generosa, sovente ignara dei vincoli di Maastricht» (Italia Oggi). Si parla di un trasferimento di ricchezza da quei Paesi al sistema capitalistico francese globalmente considerato di circa 500 miliardi di dollari l’anno. Non è una cifra disprezzabile, diciamo.

In vigore dal 1945, in seguito agli accordi di Bretton Woods, il franco coloniale ha conservato l’acronimo CFA, pur con diverso significato “semantico” (ma con identico significato economico e politico): da Franco delle Colonie Francesi d’Africa a Comunità Francese d’Africa. La continuità dell’acronimo segnala in modo fin troppo scoperto la continuità del rapporto di sfruttamento e di rapina che Parigi intende mantenere fino all’ultimo con le sue ex colonie, pur adattandolo al nuovo mondo globalizzato. «Sostanzialmente, la Francia si fa garante della credibilità del franco CFA come valuta e ne controlla, direttamente o indirettamente, l’intera politica monetaria, dai consigli d’amministrazione delle banche centrali alla creazione monetaria. Ciò permette, inoltre, alla Francia di rimanere perfettamente informata sulla struttura degli scambi monetari, quindi degli investimenti esteri realizzati. La zona franco è quindi, secondo l’economista Samuel Guérineau, uno strumento di influenza che dà potere allo Stato francese; si tratta di un “soft-power”, il quale permette di conservare una relazione particolare con l’Africa». Si scrive “soft-power”, si legge imperialismo. Ma completiamo la citazione: «In tempi più moderni e in un contesto oggi più globalizzato, la Françafrique non ha tuttavia cessato di esistere, bensì si è adattata ed evoluta sfruttando una più vasta rete di influenza data dall’era in cui viviamo. Anche il sistema di depredazione del continente africano si è evoluto in seno al capitalismo francese: in termini di appropriazione delle ricchezze si è, infatti, progressivamente passati da un’oligarchia erede diretta della colonizzazione, ad una più globalizzata ma che mantiene gli atout istituzionali e le reti ufficiose della prima» (2).

Quando parliamo dell’Africa francofona (Françafrique) ci riferiamo dunque a una vastissima area geografica popolata da oltre 150 milioni di persone. In quell’area il capitale francese, pubblico e privato, ha un diritto di prelazione su tutti gli affari economici, e solo se i francesi si dichiarano non interessati a una certa iniziativa economica, i partners africani possono rivolgersi al capitale di altri Paesi per riceverne l’indispensabile sostegno. «In molte delle ex colonie francesi, tutti i maggiori asset economici dei paesi sono nelle mani degli espatriati francesi. In Costa d’Avorio, per esempio, le società francesi possiedono e controllano le più importanti utilities – acqua, elettricità, telefoni, trasporti, porti e le più importanti banche. Lo stesso nel commercio, nelle costruzioni e in agricoltura. […] C’è qualcosa di psicopatico nel rapporto che la Francia ha con l’Africa. La Francia è molto dedita al saccheggio e allo sfruttamento dell’Africa sin dai tempi della schiavitù. Poi c’è questa mancanza di creatività e di immaginazione dell’elite francese a pensare oltre i confini del passato e della tradizione» (3). Ma quale psicopatia, ma che mancanza di creatività e di immaginazione: si tratta della normalissima e vecchissima prassi neocolonialista, una prassi che personalmente mi sembra più corretto definire, con una certa mancanza di creatività e di immaginazione, senz’altro imperialista.

In quell’area geopolitica ogni significativo avvenimento politico e sociale (guerre, colpi di Stato, carestie, disastri ecologici connessi allo sfruttamento delle miniere, corruzione e quant’altro) ha in qualche modo a che fare con la Francia, la quale sta cercando di estendere i propri tentacoli verso la Libia per consolidare ed estendere la sempre più traballante Françafrique. L’ex Presidente francese Jacques Chirac una vola si lasciò andare a questa candida ammissione: «Dobbiamo essere onesti e riconoscere che una gran parte dei soldi nelle nostre banche provengono dallo sfruttamento del continente africano». Inutile dire che tutti i Presidente francesi si impegnano anno dopo anno a «superare definitivamente l’anacronistico e immorale» sistema neocoloniale  istituito alla fine degli anni Cinquanta, quando il generale De Gaulle era al potere, e che altrettanto puntualmente non se ne fa un bel niente. I Presidenti di “sinistra” giustificano la gradualità del processo di superamento del sistema Françafrique tirando in ballo la necessità della “fraterna cooperazione economica” tra la Francia e i Paesi sottoposti al suo controllo, mentre i Presidenti di “destra” chiamano in causa soprattutto questioni legati alla sicurezza e alla stabilità sociale tanto della Francia quanto dei Paesi africani. Ultimamente la lotta al terrorismo jihadista è l’argomento più forte, soprattutto in chiave di politica interna, perché l’opinione pubblica francese è molto sensibile a quel problema. Ed è servendosi di quell’argomento che i francesi sono intervenuti militarmente in Mali nel gennaio 2013 (Operazione Serval), dopo aver dichiarato più volte di non voler immischiarsi nel conflitto malese scoppiato nel 2012. Macron non ha fatto mancare la sua “autocritica” riguardante la perdurante prassi neocoloniale della Francia, ed ha anzi invitato la gioventù africana ad alzare la testa e a porsi all’avanguardia del processo di sviluppo dei loro Pesi, senza peraltro proferir parola circa il franco CFA, con ciò che esso implica sul piano economico e politico, e sull’appoggio politico-militare che Parigi garantisce ai regimi delle sue ex colonie. «Contrariamente a quanto i discorsi ufficiali vogliano far apparire, la Françafrique è ben lontana dall’essersi dissolta. Vi è piuttosto una reiterazione delle strategie e delle pratiche di influenza e persino una riaffermazione e istituzione di questi strumenti e di questa politica, attraverso delle dichiarazioni che danno a intendere un presunto “cambiamento” o che forniscono delle giustificazioni razionali allo status quo. Da queste traspare una Françafrique “necessaria”, che deve farsi carico dell’ordine politico e militare, come all’epoca coloniale. La recente differenza consiste nel riconoscere l’importanza funzionale della diaspora africana in Francia e di utilizzarla come mezzo più sottile di perpetrazione delle pratiche neocoloniali» (4).

Proprio qualche giorno fa Macron ha riconosciuto ciò che i francesi avevano sempre negato con sdegnata indignazione, e cioè che ai tempi della guerra in Algeria (1954-1962) l’esercito e i servizi segreti francesi sequestravano, torturavano e uccidevano i patrioti algerini obbedendo a una prassi che allora Parigi considerava assolutamente legittima, normale, adeguata alla situazione. Il Presidente ha chiesto ufficialmente scusa per conto della civilissima Francia al popolo algerino e alle famiglie delle vittime. Un gesto, che sa molto di risciacquo a freddo delle coscienze, che non costa nulla e che può invece avere un buon ritorno in termini di propaganda politica, anche considerando che Macron tende ad accreditarsi in Europa e nel mondo come il nuovo leader dell’Occidente liberale.

A proposito del franco CFA e del sistema monetario-finanziario che lo rende possibile, la Germania e i Paesi del Nord che aderiscono all’Unione Europea più volte hanno sollecitato Parigi a prendere atto dell’esistenza di una Banca Centrale Europea, la quale non può venir bypassata per linee esterne, attraverso un Tesoro controllato solo dalla Banca Centrale Francese, ma ovviamente i francesi hanno fatto orecchie da mercante: il retaggio coloniale rappresenta per loro un pezzo di sovranità nazionale a cui non intendono assolutamente rinunciare, anche per continuare ad assicurare al Paese quelle briciole di ricchezza “esotica” che cadendo sulle classi subalterne ne smussano la potenziale rabbia. Vero è che per la Francia il bilancio tra ricavi e perdite riguardanti la sua presenza in Africa non è affatto privo di “criticità”, di ombre, perché le spese che lo Stato francese deve sostenere per difendere le sue posizioni “africane” sono tutt’altro che trascurabili. Questo anche in considerazione del fatto che Paesi come la Cina, la Germania e la stessa Italia mostrano di rispettare solo fino a un certo punto gli interessi economici e strategici francesi consolidatasi in un tempo molto lungo. D’altra Parte la Francia e l’Inghilterra nel 2011 non ci pensarono su due volte quando si presentò l’occasione di indebolire gravemente la presenza italiana in Libia, Paese che per l’Italia ha un’importanza che forse non si esagera a definire vitale. Ultimamente, a proposito del conflitto politico tra Roma e Parigi sulle sorti della Libia, molti analisti hanno scritto giustamente che in altri tempi avremmo assistito a una guerra “tradizionale”; un tempo tra le nazioni si arrivava alle mani anche per molto meno. Oggi il contesto internazionale e lo stesso retaggio storico (la Francia ha “vinto” la Seconda guerra mondiale ed è fornita di armi atomiche, l’Italia…, meglio non parlarne per non ferire l’orgoglio dei sovranisti!) non consentono questo esito, ma, come si dice, mai dire mai. In ogni caso, sempre di guerra (economica e politica) si tratta. Una contesa per il potere economico e politico (geopolitico): si tratta insomma di un “classico” (né “vecchio” né “nuovo”) confronto imperialistico.

Ma per la Francia un conto è avere a che fare in Africa con l’Italia, un conto assai diverso è vedersela con la Cina e la Germania, Paese, quest’ultimo, che ha sì perso la Seconda guerra mondiale, ma che ha vinto la Guerra Fredda, e senza sparare un solo colpo di fucile, a dimostrazione che la potenza di una nazione risiede soprattutto nella sua economia, come peraltro aveva già capito Adam Smith analizzando l’inarrestabile ascesa della produttiva Gran Bretagna e l’inesorabile declino delle parassitarie nazioni Iberiche.  A marzo dello scorso anno la Cancelliera inaugurò a Berlino il Primo Forum Economico Germania-Africa dedicato alle piccole e medie imprese tedesche interessate a far profitti in terra africana. Sulla presenza del Celeste imperialismo in Africa rimando ai miei diversi post dedicati al tema.

È evidente che nel corso degli anni è andata formandosi nei Paesi che costituiscono la Françafrique un ceto di borghesia nazionale interessata a farla finita con il sistema di sfruttamento economico, di controllo politico e di egemonia culturale messo in piedi dalla Francia, ma questo strato sociale non ha ancora acquisito sufficiente forza economica ed esperienza politica, tali da rappresentare, almeno nel medio periodo, un serio pericolo per i francesi. Il problema è che sono soprattutto le masse diseredate di quei Paesi a fornire il materiale combustibile che alimenta le guerre tra le diverse fazioni che aspirano, chi a mantenere il potere, magari appoggiandosi a Parigi, chi a conquistarlo, magari appoggiandosi a Pechino, o a Berlino. Le classi subalterne dell’Africa versano sangue per gli interessi di coloro che li opprimono oggi o che si preparano a opprimerle domani: è una tragedia che le accomuna alle classi subalterne di tutti i Continenti di questo capitalistico pianeta.

(1) E. Ruggero, La presenza francese nell’Africa subsahariana, dalla decolonizzazione ai giorni nostri: una forma di neocolonialismo contemporaneo, p. 16, Tesi di laurea, Università Ca’ Foscari Venezia, 2017, PDF.
(2) Ibidem, pp. 61-65. «Nei paesi africani francofoni l’appoggio della Francia ai dirigenti “amici” prende la forma tradizionale del neocolonialismo: la diplomazia francese copre le farse elettorali che permettono a regimi dittatoriali di avvalersi di una legittimità “democratica”, mentre le loro forze repressive beneficiano della cooperazione militare e della forze armate; altresì, le stesse autorità francesi approfittano della propria influenza in seno alle istituzioni internazionali per garantire ai propri partner africani delle agevolazioni di finanziamento attraverso i meccanismi di aiuto allo sviluppo, mentre le risorse locali vengono razziate a favore di interessi stranieri» (p. 64).
(3) Dal Blog di Davi Luciano.
(4) E. Ruggero, La presenza francese nell’Africa…, p. 99.

LA FRANCIA DI MACRON. Un primo tentativo di approccio non ideologico al “fenomeno-Macron”

Non mi convince affatto la chiave di lettura che ci presenta il nuovo Presidente francese nei panni dell’ennesima creatura tecnocratica creata a tavolino dai soliti “poteri forti mondialisti” generati dal Finanzcapitalismo. Burattino e burattinai, insomma. Per Massimo Franco «Macron è il prodotto di un esperimento tecnocratico della banca d’affari Rotshild, [è] figlio dell’élite tecnocratica [che] incarna una strategia europeista e centrista che ha fatto tabula rasa sia del gollismo, sia della sinistra» (Il Corriere della Sera): troppo semplice per i miei gusti. Questo senza nulla togliere alla forte connotazione tecnocratica e “finanzcapitalistica” del nuovo inquilino dell’Eliseo, matrice che sono ben lungi dal negare. Anche l’interpretazione di Macron (cioè delle politiche “neoliberiste” che egli incarnerebbe alla perfezione) come la vera causa del successo che comunque il Front National ottiene nell’elettorato di estrazione operaia e proletaria (per cui chi ha votato per il candidato della «cupola finanziaria mondialista» di fatto avrebbe portato acqua al mulino della “destra populista”) mi appare troppo riduttiva e semplicistica, e in ogni caso essa non coglie tutta la complessità della crisi sistemica che ormai da anni travaglia in profondità la società francese. Né, ancor meno, mi convincono gli entusiasmi “europeisti” di chi in Italia (vedi Romano Prodi) pensa che in Macron la Cancelliera di Ferro basata a Berlino abbia finalmente trovato un argine, un freno, o quantomeno del pane meno morbido che in passato da masticare, e che questo non possa non favorire il nostro Paese, alla perenne ricerca di sponde che ne possano sostenere gli interessi nei numerosi tavoli negoziali aperti nell’Unione Europea. Come dimostra la vicenda del 1996 che ebbe proprio in Prodi e nell’allora Presidente del Consiglio spagnolo José Maria Aznar i suoi protagonisti (il primo cercò, invano, di convincere il secondo a fare fronte comune per ammorbidire i parametri di Maastricht sulle condizioni imposte dai trattati per l’ammissione al club dell’euro), le astuzie tattiche della classe politica italiana lasciano un po’ a desiderare, diciamo.

Condivido invece la tesi di chi vede nell’esibito europeismo di Emmanuel Macron una copertura politico-ideologica che cela il tentativo, almeno di una parte della classe dominante francese, di impostare in termini completamente nuovi, cioè a partire da rapporti di forza più favorevoli per la Francia, quell’asse Franco-Tedesco che anche in passato parlava assai più la lingua tedesca che quella francese, a dimostrazione che alla fine, e “materialisticamente”, è la potenza economica (tedesca) che detta le proprie regole alla potenza politico-militare (francese).

Scriveva l’altro ieri Angelo Panebianco sul Corriere della Sera: «La Germania è troppo forte, lo squilibrio di potenza fra Germania e Francia è troppo accentuato, perché i vecchi tempi possano ritornare. Resta il fatto che ci proverà». Diciamo pure che i «vecchi tempi» appartengono più alla leggenda che alla realtà, visto che l’asse (o motore) franco-tedesco è stato più un’invenzione propagandistica franco-tedesca, una  cortina fumogena politico-ideologica intesa a celare i reali e mai sopiti antagonismi sistemici fra i due Paesi, che qualcosa di tangibile sul piano politico e geopolitico. Per opposti interessi, tanto Berlino (e prim’ancora Bonn) quanto Parigi avevano  e hanno l’interesse ad accreditare l’esistenza di questo fantomatico asse (o “motore”), che in concreto si è risolto, come anticipato sopra, nel costante e mai riuscito tentativo francese di contenere e frenare la potenza espansiva del capitalismo tedesco, con ciò che ne segue necessariamente sul piano politico – e geopolitico. Scrivevo su un post del maggio 2013 (Francia e Germania ai ferri corti): «La Francia ha perso il confronto sistemico con la Germania che va avanti, sotto la miseranda copertura del “progetto europeista”, dalla fine della Seconda guerra mondiale, e la sua perdita di peso sul mercato mondiale, la sua crisi economico-sociale che rischia di farla scivolare verso Sud, verso la periferia dell’Euro, sono fatti che non possono più essere nascosti dietro il sempre più fantomatico asse franco-tedesco. Alla fine la potenza capitalistica tedesca ha avuto la meglio su tutte le illusioni europeiste e su tutti i calcoli politici fatti a tavolino a Parigi, a Berlino e a Bruxelles. Per dirla con il filosofo, la volontà di potenza del Capitale (non importa in quale guisa nazionale) trova sempre il modo di affermarsi».

Macron sembra aver preso sul serio la profonda crisi sistemica che da anni infierisce sulla Francia, e ha capito che per evitare al suo Paese una deriva “meridionalista” che lo trascinerebbe verso il poco ambito Club Med (a tener compagnia ai famigerati Pigs: Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) egli deve avvinghiarsi con decisione alla Merkel, e che per farlo senza sminuire il ruolo – residuale – della Francia in Europa e nel mondo deve in parte “germanizzarne” l’organizzazione economico-sociale. Da qui non si scappa! Hic Rhodus, hic salta! Non c’è possibilità alcuna, per qualsiasi statista francese, di sottrarsi a questo circolo, che oggi per l’Esagono è fortemente vizioso. Per esorcizzare l’eterno mito/spauracchio francese della sottomissione alla Germania, i francesi devono emulare quanto di buono sono riusciti a fare i tedeschi. Invece di fingere di essere grande, magari esibendo di tanto in tanto qualche muscolo militarista, come è accaduto anche durante la Presidenza dello scialbo Hollande (1), la Francia deve diventare grande, e per farlo deve affrontare e risolvere le sue non poche magagne sistemiche. Forse è questa visione “strategica”, che ho cercato di sintetizzare alla meglio, che orienta la politica macroniana.

L’agenda delle “riforme strutturali” è comunque fissata da tempo; essa prevede che si metta mano quanto prima al mercato del lavoro, all’organizzazione del lavoro, alla struttura economica del Paese (che continua a “vantare” un cospicuo settore pubblico), al welfare, al sistema pensionistico, e così via. Tre perle macroniane illustrano bene la situazione che si va delineando per i lavoratori francesi: «La disoccupazione di massa in Francia è dovuta al fatto che i lavoratori sono troppo protetti»; «gli operai che pretendono il posto sicuro nel mondo globalizzato di oggi sono già morti»; «i britannici hanno la fortuna di aver avuto Margaret Thatcher». C’è del lavoro sporco da fare al servizio del Capitale, e il giovane Presidente francese è pronto alla bisogna, in modo che in futuro qualche sfigato leader europeo potrà dire con invidia che «i francesi hanno la fortuna di aver avuto un Emmanuel Macron». Dagli anni Ottanta la Lady di Ferro è il punto di riferimento di ogni leader europeo che voglia “modernizzare” il proprio Sistema-Paese. Sapranno reagire i lavoratori, i disoccupati, i precarizzati, i marginali d’ogni tipo al progetto “riformista” che Macron, buon ultimo, cercherà di implementare in Francia senza nulla concedere alle sirene “populiste”, sovraniste e protezioniste di “destra” e di “sinistra”? C’è da sperarlo, è ovvio dalle mie parti, ma i dubbi che ciò possa davvero accadere sono molto forti. Molto.

Macron sostiene il progetto “europeista” centrato sulla necessità, per i Paesi del Vecchio Continente, di costruire un polo imperialista europeo in grado di reggere il confronto con gli altri poli (statunitense, cinese e russo), ma teme che la perdurante debolezza francese, per un verso indebolisca quel progetto, intaccando di fatto anche gli interessi del suo Paese, e per altro verso spinga i tedeschi a considerare definitivamente i “cugini” d’oltre Reno incapaci di affiancarli degnamente nella sua realizzazione. La dialettica politico-sociale tra la Francia e la Germania qui appena abbozzata è tutt’altro che nuova: essa caratterizza i rapporti franco-tedeschi dell’ultimo secolo, quantomeno. Per capirlo basta rileggere il dibattito che negli anni Trenta vide in Francia misurarsi i filo-tedeschi e gli anti-tedeschi (2).

Macron sembra ora dire ai suoi compatrioti: «Abbandoniamo la nostra malcelata invidia verso la Germania, la cui potenza è tutta opera del duro lavoro dei tedeschi, della loro disciplina, della loro coesione sociale, e facciamo in modo che anche noi possiamo affrontare con successo e ottimismo le sfide del nostro tempo. Non si tratta di diventare anche noi tedeschi, ma di diventare anche noi forti e seri come lo sono indubbiamente loro».

Inno alla gioia!

Il sovranista (o lepenista) di “sinistra” Jean-Luc Mélenchon si batte per una «Francia non sottomessa»: esattamente come Macron. Si tratta di vedere, alla luce non delle sparate ideologiche vetero o post staliniste ma del reale processo sociale che oggi ha una dimensione mondiale, quale sia la strada più realistica, più praticabile e più fruttuosa per conseguire quell’obiettivo che scalda i cuori di ogni buon patriota francese. Come sanno i miei lettori, quando si parla di Patria (fosse anche quella europea, con tanto di Inno alla gioia!) e di interessi nazionali la mia mano corre subito alla pistola, in mancanza di meglio. La mia “Patria” non è di questo – capitalistico – mondo. Ma questo non è il luogo giusto per parlare delle mie utopie.

Ciò che intendo dire è che anche Macron, e non solo gli opposti “populismi” di “destra” e di “sinistra”, è una verace espressione della crisi generale (economica, politica, identitaria, sociale nel senso più vasto del concetto) che da anni azzoppa la Francia. Egli ritiene, non a torto, che la chiusura sovranista e protezionista proposta da Marine Le Pen e da Mélenchon (3) rappresenti la passiva accettazione da parte di tanti francesi di un declassamento del Paese nel rating delle grandi nazioni: una Francia grande sola a chiacchiere, insomma, ma di fatto piccolissima e inconsistente sullo scenario europeo e mondiale. Probabilmente il nuovo Presidente considera se stesso come la sola, e forse anche ultima, possibilità che rimane al Paese di recuperare il tanto terreno perduto soprattutto nei confronti della Germania, nazione che da sempre rappresenta il modello di riferimento della parte capitalisticamente più dinamica della società francese. Che poi egli ci riesca, questo è tutta un’altra storia. Ad esempio, il citato Panebianco è piuttosto pessimista su questo punto: «Comunque vadano le elezioni tedesche del prossimo settembre, la speranza francese è destinata a essere frustrata. Macron non riuscirà a ricostituire il “governo” franco-tedesco dell’Europa, come non ci sono riusciti alcuni presidenti (come Sarkozy) che lo hanno preceduto». L’atro ieri sul Financial Times Gideon Rachman avanzava molti dubbi circa la fattibilità del progetto “riformista” di Macron, il quale ben presto si troverà a dover fare i conti con la reazione di quella consistente parte della società francese che si sente minacciata da quel progetto e che si illude che un ripiegamento sovranista e protezionista della Francia costituisca il male minore per i cosiddetti perdenti della globalizzazione. L’alternativa “populista”, osserva Rachman, ha perso una battaglia, certo importante, ma non la guerra, ed è pronta a prendersi la rivincita al più tardi fra quattro anni.   Alla vigilia del ballottaggio lo scrittore e filosofo francese Didier Eribon aveva dichiarato: «Una votazione per Macron oggi è un voto per Marine Le Pen tra quattro anni». Che paura!

Le Legislative di giugno chiariranno meglio la reale portata politica del fenomeno-Macron, che fin qui ha potuto contare sulla tradizionale Union Sacrée antilepenista. C’è anche da chiedersi fino a quando possa durare questa Union Sacrée “Repubblicana”. Una domanda che peraltro non mi inquieta neanche un po’

Magari!

(1) «Per Toni Negri le elezioni francesi sono molto importanti anche in chiave europea, perché insiste all’ordine del giorno la necessità di “un rinnovamento democratico dell’Unione”, e, sotto questo aspetto, il Front National di Marine Le Pen “costruisce un ostacolo serio” all’implementazione di “programmi di rifondazione dell’Europa”. Negri apprezza il convergere dell’estrema sinistra francese “verso Hollande”, che dopo un momento di pericolosa oscillazione ha lasciato alla sola destra gollista e nazionalista la demagogia antieuropea; e poi si chiede, con il consueto gesuitismo: “Ma ciò è sufficiente a garantirci un rinnovamento del processo dell’unità europea?” Dall’”Europa dei banchieri” all’Europa del Comune? Gran bella speranza, niente da dire. Dimenticavo: sono ironico, per usare un eufemismo» (Francia. Per chi vota Toni Negri?, 28/04/2012).
(2) Come ha dimostrato Robert Paxton nel suo studio sul regime di Vichy, l’impresa tedesca degli anni Quaranta «ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle élite francesi», perché esse videro nella Germania dell’epoca, «per quanto fosse malvagio il suo spirito», una via d’uscita da quella «Francia chiacchierona» che nascondeva la sua profonda crisi di sistema dietro una grandeur che ormai mostrava tutta la sua inconsistenza strutturale. Ai sogni di gloria, molti francesi preferirono il semplice ma concreto programma di Pétain: «Travail, Famille, Patrie». «Attribuire la disfatta, e poi il regime di Vichy, al tradimento o al complotto non porta a nulla. […] Il nuovo regime non fu il risultato di un intrigo. Cercherò di dimostrare che ebbe l’appoggio delle masse e la partecipazione delle èlite. I suoi programmi s’ispiravano non tanto al modello tedesco o a quello italiano [questo è da escludersi in linea di principio!], quanto alla soluzione di conflitti interni di lunga data. […] Tutte le iniziative prese a Vichy furono in certo senso una reazione alle paure suscitate dalla sua decadenza. Più in particolare, la sconfitta fornì la motivazione e l’opportunità di misure più radicali volte a rovesciare quel lungo declino» (R. Paxton, Vichy, 1940-1944. Il regime del disonore, pp. 32-143, Il Saggiatore, 1999). Alla fine degli anni Ottanta Willy Brandt ricordava (soprattutto per giustificare la tiepida «epurazione antinazista» del dopoguerra messa in opera dal suo Paese), come al suo ritorno in patria il generale De Gaulle si stupisse della gran massa di antinazisti che vi incontrò: «Se avesse contato i francesi che erano stati contro Pétain, sarebbero stati più di quanti cittadini avesse il paese» (W. Brandt, Non siamo nati eroi, Editori Riuniti). Evidentemente al generale i conti non tornavano. (3) Su un post di qualche mese fa scrivevo: «Il politologo francese Dominique Moïsi ha dichiarato al Corriere della Sera del 6 febbraio quanto segue: “Bisogna capire che sui temi della globalizzazione il Front National oggi è un po’ l’equivalente di quel che un tempo era il partito comunista. Ha un’ideologia anti-capitalista [sic!] molto vicina all’estrema sinistra. I discorsi di Jean-Luc Mélenchon e di Marine Le Pen, sul piano dell’economia e dell’avversione nei confronti del mondo globalizzato, sono abbastanza vicini”. Non c’è dubbio. Come ho scritto altre volte, gli estremi si toccano quando condividono lo stesso terreno di classe, per usare un vecchio ma non logoro gergo “critico-radicale”. Ad esempio, rispetto ai “comunisti” di cui parla lo scienziato della politica appena citato chi scrive non è né “più a sinistra” né “più a destra”: è piuttosto altrove, si muove appunto su un diverso e anzi opposto terreno di classe, non importa con quale capacità (davvero minima!) in fatto di dottrina politica e con quale successo (lasciamo perdere…). Ai tempi di Marx e di Lenin i termini “destra” e “sinistra” identificavano la differenza abissale che corre tra reazionari e rivoluzionari, tra oppressori e oppressi, tra sfruttatori e sfruttati; ormai da tempo la politologia e il personale politico che ci amministra li applicano invece ai diversi partiti e movimenti che a diverso titolo e con diverse funzioni sono al servizio dello status quo sociale. Perché, com’è noto, questo regime sociale si può sostenerlo da “destra”, dal “centro” e da “sinistra”: è una gara a chi lo sostiene con maggiore efficacia! Frattanto, con le parole di Moïsi ci troviamo per l’ennesima volta dinanzi alla castroneria più insulsa, ridicola e menzognera che sia mai uscita dal cervello umano negli ultimi millenni: il “comunismo” concepito alla stregua di un capitalismo nazionalista, protezionista, statalista. Se qualcuno può scrivere senza temere di cadere nel ridicolo che Jean-Luc Mélenchon e Marine Le Pen esprimono, sebbene da posizioni politiche diverse, “un’ideologia anti-capitalista”, allora è proprio vero che viviamo nell’epoca della post-verità».