IL REALISMO STORICO E POLITICO DI ENRICO BERLINGUER

Luigi Berlinguer e Aldo MoroSecondo Fabio Vander, la storia del Pci, da Togliatti a Berlinguer, da Natta a Occhetto, fu parte integrante di quel moderatismo italiano, così incline all’arte del compromesso e alla politica trasformista, che da Cavour in poi rappresenta il vizio d’origine e la malattia della democrazia italiana. Una tesi che, sebbene da un punto di vista completamente diverso (direi opposto), mi sento in gran parte di condividere.

Il Pci, da Togliatti a Occhetto, non solo non fu mai un partito antiborghese, come da sempre sostiene – senza successo, mi duole riconoscerlo – chi scrive, ma non fu nemmeno un partito borghese “avanzato”, qualsiasi questo termine possa significare alle orecchie dell’intellettuale progressista. L’Occidente capitalisticamente sviluppato ha conosciuto partiti borghesi autenticamente riformisti e partiti borghesi autenticamente radicali; il Pci non fu mai né l’una n’è, tanto meno, l’altra cosa, o lo fu, tanto per essere anche noi inclini al compromesso, all’italiana, nell’accezione fortemente negativa che questa qualifica ha avuto e continua ad avere nel nostro Paese e all’estero.

Per molti versi, si può dunque applicare al Pci il concetto di «egemonia debole» sviluppato da Gramsci nei noti Quaderni per dar conto della debolezza ideologica e strutturale della borghesia italiana post-risorgimentale.

Ma veniamo a Vander, e alla sua interessante Introduzione al breve saggio di Enrico Berlinguer (si tratta di tre articoli scritti dal leader sassarese nel 1973, dopo il golpe militare in Cile) Per un nuovo grande compromesso storico (Castelvecchi, 2014): «Indubbiamente la continuità che Berlinguer rilancia fra il 1972 e il 1973, era quella con la politica di Togliatti. […] Fra “svolta di Salerno” del ’44 e “Compromesso Storico” c’è una linea retta. Una condivisione di cultura politica, di lettura dei processi di democratizzazione, di concezione della rivoluzione in Occidente e segnatamente in Italia». Condivido in linea generale la tesi della continuità e della condivisione; contesto invece il fatto che il Pci avesse un problema di lettura circa «la rivoluzione in Occidente e segnatamente in Italia», al di là delle solite fumisterie ideologiche e fraseologiche che potevano intrigare e/o ingannare solo degli intellettuali avvezzi all’italico amore per le frasi roboanti quanto prive di significato reale (inclinazione “parolaia” e “massimalista” già bastonato dal “tedesco” Antonio Labriola).

Ma andiamo avanti: «Una condivisione esiziale. Esiziale nel senso che implica una concezione della democrazia, del ruolo del Pci e della sinistra, che rimane tutta interna al vizio di fondo del nostro sistema politico. Vizio storico, ultracentenario, tale per cui mai c’è stata in Italia alternanza fra coalizioni e progetti politici distinti, ma sempre è stata necessaria la convergenza centrista per difendere una democrazia “imperfetta”, “debole”, “incompiuta”, ecc. Con questa storia si è andati avanti per oltre un secolo, da Cavour a Berlinguer (e Moro)» (p. 8). Naturalmente bisogna cogliere la differenza di epoca storica fra l’Italia di Cavour, che comunque attraversava un processo di rivolgimento sociale, sebbene gestito dall’alto e caratterizzato dalle tradizionali cautele antirivoluzionarie e dalle famigerate politiche compromissorie (a partire da quelle espresse dall’alleanza strategica tra grande capitale industriale del Nord e latifondismo meridionale), e l’Italia di Berlinguer e di Moro, un Paese da tempo inserito nel grande gioco capitalistico e imperialistico.

imageCon la scusa di «non spaccare in due il paese», di «non determinare la divisione verticale del paese» che avrebbe avvantaggiato solo «le forze reazionarie», il Pci di Berlinguer portò avanti una politica di moderazione a tutto campo: dalla politica economica, tesa a non intaccare più di tanto né gli equilibri fra le diverse fazioni del capitalismo italiano né, tanto meno, la struttura largamente parassitaria della società italiana, alla politica dei «diritti civili» (diritto di famiglia, divorzio, aborto, ecc.), e questo soprattutto per non urtare la suscettibilità dei colleghi democristiani e del Vaticano. Nel 1973, in piena crisi economica, Luciano Barca difese (su Rinascita) la moderatissima linea economica dei “comunisti”, che sosteneva la necessità di un certo compromesso fra rendita e profitto in modo da «ridurre il settore improduttivo» senza tuttavia ricorrere a «soluzioni punitive», tirando in ballo il solito spauracchio fascista: non bisogna creare, scrisse il responsabile economico del Pci, «un clima favorevole per le provocazioni fasciste». Quello di non provocare la reazione fascista con atteggiamenti «inutilmente radicali» è un mantra che il Pci, da Togliatti in poi, ha ripetuto fino all’ossessione, naturalmente non per sabotare o esorcizzare una rivoluzione sociale cui esso nemmeno pensava lontanamente, ma per imbrigliare le forze riformiste e “moderniste” (ad esempio, quelle che guarderanno con simpatia al PSI di Craxi) che nascevano nel suo seno.

Più che su una profonda ristrutturazione capitalistica in grado di rendere più moderne, efficienti e produttive le aziende italiane, per uscire dalla crisi economica il Pci puntò sulla svalutazione della lira e sulla moderazione salariale, e qui naturalmente la CGIL di Lama ebbe un ruolo molto importante. Alla fine la moderazione “comunista” e il “liberismo” confindustriale raggiunsero un compromesso, che lasciò praticamente immutate le magagne strutturali del capitalismo italiano e che venne in parte superato negli anni Ottanti dal “decisionismo” craxiano.

Ritorniamo a Vander: «Berlinguer tentò di accreditare la sua strategia [di “compromesso storico”] con la scusa (letteralmente) del golpe fascista che aveva rovesciato nel settembre 1973 il governo legittimo del socialista Allende)» (p. 9). Come ricorda Vander, il leader “comunista” si servì dei fatti cileni, che non avevano nessun rapporto con la situazione italiana («Il Cile, a rigore, c’entra poco»), per criminalizzare (letteralmente) la cosiddetta politica dell’alternativa, considerata evidentemente dal gruppo dirigente del Pci “troppo spinta” e quindi tale da offrire pretesti alle solite forze della reazione, sempre pronte a sbarrare la strada a chi si fosse messo sulla (mitica) «via italiana al socialismo».

Ben presto anche le Brigate Rosse saranno arruolate dal partito delle Botteghe Oscure nell’esercito delle «forze reazionarie», tanto più per il fatto che l’impianto ideologico del “terrorismo rosso” aveva molto in comune con quello del Pci: stalinismo (soprattutto nella sua variante cinese e chevarista) e resistenzialismo (secondo lo schema della «Resistenza tradita» elaborato nella “sinistra comunista”). I “quadri” del Pci e della CGIL dovettero faticare molto per far comprendere a una parte della base militante del partito e del sindacato “rosso” che le Brigate Rosse non erano costituite da «compagni che sbagliano», bensì da oggettivi fiancheggiatori del fascismo. Punto.

Quello di accampare scuse per legittimare una linea politica è tipico di Berlinguer: se il golpe cileno del 1973 doveva provare la giustezza del “compromesso storico” (naufragato definitivamente con l’uccisione di Moro), i ritardi nei soccorsi e gli scandali innescati dal terremoto in Irpinia del 1980 dovevano testimoniare a favore della “questione morale”. «Quello che nei primi anni Ottanta cerca una via d’uscita, è un uomo consapevole del fallimento del progetto della sua vita, anche se letteralmente impossibilitato a pensarne un altro. È il problema della “questione morale” che Berlinguer individuò come fulcro della nuova strategia» (p. 19).  Altro che «questione morale come alternativa etica al discorso del capitalista», come scrive (forse abusando fino al ridicolo del linguaggio lacaniano) lo psicoanalista di successo Massimo Recalcati! Berlinguer avrà pure «storicamente vinto su Deleuze», per dirla sempre con il berlingueriano senza se e senza ma Recalcati, ma certamente egli ha «storicamente» perso il confronto con Andreotti e Craxi, la cui iniziativa politica costrinse all’angolo il Pci, ormai incapace di «uscire dal guado» di una strategia sempre più ambigua: metà filosovietica e terzomondista («sostegno ai popoli che lottano contro l’imperialismo con l’aiuto fraterno dei paesi socialisti») e metà filoatlantica («riconosciamo la collocazione internazionale dell’Italia e la necessità dell’ombrello atlantico»), in parte tesa a conseguire il vecchio obiettivo del “compromesso storico” e in parte orientata verso “l’alternativa di sinistra” – beninteso di stampo moderato, per evitare di lanciare pericolosi segnali “avventuristici” alle forze sempre in agguato della reazione…

berlinguer-forattiniRicordo con piacere le gustose vignette di Forattini che caricaturavano un segretario del Pci indeciso a tutto e “antropologicamente” vocato alla quiete del salotto borghese. Per non parlare delle spassosissime imitazioni di Alighiero Noschese. Ma basta con i ricordi nostalgici!

«Nonostante gli sforzi di Berlinguer, una compiuta teoria dell’alternativa nel corso della sua lunga esperienza politica non ci fu mai. Per questo la denuncia morale, risolvendosi nella formula per altro ambigua del governo degli onesti, prese presto le tinte di un moralismo, di una “diversità” senza sbocco politico. […] Del resto Berlinguer, nel corso della stessa conferenza stampa in cui annunciò la svolta [dal “compromesso storico” alla “questione morale”], affermò chiaramente che il Pci restava comunque contrario ad ogni forma di “alternativa di sinistra”, la nuova proposta volendo essere “una prospettiva di governo anche con chi non è di sinistra e tuttavia è fedele alla Costituzione”» (p. 20). Giorgio Napolitano a più riprese, anche recentemente, ha confermato la tesi secondo la quale dopo l’abbandono del “compromesso storico” il Pci sarebbe in sostanza rimasto «privo di una strategia, né l’avrebbe ritrovata col cambiamento di parola d’ordine del 1980». In buona sostanza, il Pci non riuscì a tirarsi fuori dalla strategia del “compromesso storico” elaborata da Togliatti già prima della “svolta di Salerno”.

«La morte politica del Pci data a ben prima del 1989. Il crollo del Muro di Berlino fu una liberazione. Liberazione per il resto del mondo, non per l’Italia però. Nel senso che in Italia ci si liberò dal comunismo senza liberarsi dal comunismo italiano» (p. 21). Qui con «comunismo italiano» Vander intende certamente riferirsi al carattere moderato, trasformista e avvezzo al compromesso che la sinistra italiana post “comunista” ha continuato ad avere anche dopo la svolta decisa dal gruppo dirigente del Pci dopo il massacro di piazza Tienanmen. In questo senso D’Alema ha potuto legittimamente affettare fino a poco tempo fa pose togliattiane e deridere l’”americanismo” d’accatto di Veltroni.

«E poiché la storia si ripete, prima in tragedia e poi in farsa, dopo Moro e Berlinguer oggi c’è Matteo Renzi» (p. 25). Più che una farsa, a me sembra una perfetta sintesi – o “compromesso storico”?

Scrivevo su un post del dicembre 2013: «Macaluso ha ragione quando sostiene che il Pci non è morto con Renzi: “Il Pci non esiste più dal 1991, quando fu travolto dalle macerie del Muro crollato due anni prima”. Il Partito Comunista d’Italia nato a Livorno nel ’21 per promuovere la rivoluzione sociale in Italia (e non per «fare avanzare la democrazia» o per «costruire equilibri sociali più avanzati») morì invece con la sua stalinizzazione iniziata “diplomaticamente” da Gramsci nel ’24 e continuata con mezzi più sbrigativi dall’erculeo Palmiro Togliatti» (Renzi e Togliatti). Il fatto che oggi si celebri la «caduta del Muro di Livorno» per via elettorale, e si ricordi con molta enfasi che Livorno è «la città che ha visto nascere il Pci», come se questo evento avesse qualcosa a che vedere con l’attualità, ebbene tutto ciò la dice lunga sul concetto di “comunismo” passato alla storia grazie alla versione italiana dello stalinismo (a partire dal Togliatti dei «fratelli in camicia nera») e sul miserrimo senso storico di Miserabilandia.

Gli articoli di Berlinguer pubblicati alla fine del ’73 su Rinascita, la rivista teorica del Pci fondata da Togliatti, sono un vero e proprio saggio di togliattismo in salsa berlingueriana. Si inveisce contro l’imperialismo americano, sostenitore del golpe militare cileno, si esalta la lotta di liberazione dei popoli oppressi (vedi «l’eroica esperienza cubana e vietnamita») e l’appoggio che essi ricevono dai «paesi socialisti», si citano – ovviamente del tutto a sproposito – le parole di Lenin sulla strategia della ritirata («Bisogna comprendere che non si può vincere senza aver appreso la scienza dell’offensiva e la scienza della ritirata»), gli accordi di Brest-Litovsk del 1918 e la Nuova Politica Economica del ‘21: tutta questa fuffa ideologica, che tanto piaceva all’intellettuale “organico” che amava passeggiare con L’Unità e Rinascita sotto braccio, doveva veicolare  il tradizionale realismo dei “comunisti italiani”, ossia la richiesta alla Democrazia Cristiana di un governo dei responsabili.

«Si tratta di agire – scriveva Berlinguer riferendosi alla DC – perché pesino sempre più, fino a prevalere, le tendenze che, con realismo storico e politico, riconoscono la necessità e la maturità di un dialogo costruttivo e di un’intesa tra tutte le forze popolari. [Occorre] battere le forze reazionarie, aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico» (p. 88). Chi allora affermava la necessità e la possibilità di una secca «alternativa di sinistra» (cioè un governo PCI-PSI magari allargato alla “sinistra” dei partiti laici) si proponeva, secondo l’Onesto Enrico, «qualcosa di assurdo, di velleitario, di antitetico» alla grande strategia chiamata via italiana al socialismo. Capite adesso perché parlo tanto male del «realismo storico e politico» del Pci?

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LA QUESTIONE NON È “MORALE” MA “STRUTTURALE”. OVVERO: ECCHEPPALLE!

ghigliottinaFrastornata dagli ultimi scandali veneziani, la “sinistra” del PD rimpiange «la tenuta etica e morale del PCI», ossia di quel partito che durante la cosiddetta Prima Repubblica intascava, esattamente come tutti gli altri partiti dell’«Arco Costituzionale», la propria quota parte di tangenti attraverso un sofisticato sistema economico-politico che aveva nelle famigerate “cooperative rosse” il suo più importante e rodato centro direzionale. Personalmente non ho dovuto aspettare il paraguru Grillo per denunciare (invano, debbo ammetterlo) la «peste rossa» che ammorbava mezza Italia, in concorrenza, ma più spesso in sinergia, con la «peste bianca» democraticocristiana e con quella diversamente colorata dei cosiddetti partiti laici: PSI, PRI, PLI ecc.

Ovviamente la mia denuncia non nasceva sul terreno dell’indignazione etico-morale, ma si sforzava piuttosto di rendere evidente anche ai ciechi la natura ultrareazionaria (borghese, per usare un concetto tanto “vecchio” quanto vero) di un partito che contro ogni più elementare “legge” della politica si autodefiniva “comunista” senza che ciò suscitasse l’ilarità della stragrande maggioranza degli italiani. Anzi! «La diversità etica è finita col PCI»: questa clamorosa balla speculativa, oggi gonfiata soprattutto dai numerosi nostalgici del “comunismo italiano” (una variante nazionale dello stalinismo, attraverso la mediazione di Palmiro Togliatti) ma accreditata durante l’ultima campagna elettorale europea dal paraguru Casaleggio, è una merce di pessima qualità che difficilmente troverà successo presso le mitiche «larghe masse» tanto care a Cossutta, l’ultimo beneficiario dei finanziamenti occulti sovietici – pare in funzione antiberlingueriana: erano i giorni dell’invasione russa dell’Afghanistan.

Gli analisti economici e politici più intelligenti del Paese non hanno avuto difficoltà nel mettere in stretta relazione l’ultima ondata “corruttiva” che si dipana lungo l’asse Milano-Venezia con i dati economici (sfornati ad esempio ieri dal Censis) che attestano la perdurante relativa arretratezza della struttura capitalistica italiana. Lo stesso Carlo Nordio, il procuratore responsabile delle indagini sul Mose, ha dichiarato (vedi Il Messaggero e La stampa di oggi) che il problema “tangentizio” non sta nella mancanza di leggi né di pene che colpiscano severamente la corruzione, ma in un sistema-Paese generalmente considerato che rende possibile la continua generazione di corrotti e corruttori. Là dove la politica e la burocrazia hanno troppo potere in termini di controllo e di decisione, quasi spontaneamente si realizzano i presupposti della «condotta criminale».

trappola-ghigliottina-per-i-gatti-18270Se l’occasione fa di un politico, di un burocrate o di un imprenditore un potenziale ladro, non c’è ghigliottina, simbolica o reale che sia, che possa scongiurare la caduta del politico, del burocrate e dell’imprenditore nella «condotta criminale». In Cina, ad esempio, le pene contro la corruzione sono severissime, ma il partito-regime è così capillarmente infiltrato in ogni aspetto della prassi sociale che ogni anno sono migliaia i funzionari di partito di ogni ordine e grado che finiscono nelle maglie repressive della Giustizia con caratteristiche cinesi. Resistere al potere del denaro che dà ricchezza e potere sugli individui, è una prova davvero troppo dura per tantissima gente. Renzi sa benissimo che il problema è “strutturale”, ma all’opinione pubblica votante deve pur vendere qualcosa di politicamente indignato: «Cacceremo a pedate in culo i ladri dal PD». Auguri!

Giustamente Giuliano Ferrara osserva che «la pandemia delle mazzette nei sistemi democratici» è qualcosa di fisiologico; ciò che rende più governabile e meno devastante in termini di immagine pubblica la cosa negli altri Paesi è la loro capacità di «trasfigurarla», in modo da renderla più accettabile per l’opinione pubblica e meno nociva per l’erario pubblico. «Le regole ci sono», dice l’Elefantino, «il problema sono i ladri», ossia, dico io, la vetusta struttura sociale del Belpaese, che si esprime ad esempio attraverso quella cultura cattocomunista che stigmatizza come eticamente inaccettabile la prassi lobbistica di stampo angloamericano, salvo poi versare moralistiche lacrime quando vengono a galla le P2, le P3, le Pn e le Tangentopoli di turno.

Nulla irrita quel poco di coscienza critica che ho più di chi vuole eticizzare e moralizzare la società fondata sul profitto che ha nel denaro la potenza sociale più affascinante, dominante e ipnotica. Non saranno di certo il Santissimo Francesco e lo spettro dell’Onesto Enrico a mondare la vigente società dalla disumana brama di ricchezza: questo è poco ma sicuro, come si dice dalle mie parti.

Insomma, l’ultima ondata scandalistica non va rubricata come “Questione Morale”, ma deve essere collocata nell’annosa e sempre più capitalisticamente insostenibile questione afferente le famose  “Riforme Strutturali”. La questione non è “morale”, per riprendere la celebre formula berlingueriana che tanto successo ha avuto e continua ad avere nel “popolo di sinistra”, ma “strutturale”, nell’accezione più rigorosa del concetto. (Qui per “struttura” intendo anche l’«infrastruttura politico-istituzionale», per dirla con i sociologi, chiamata a servire le esigenze di competitività sistemica del Paese). Oppure date l’ultima parola a Giuliano Ferrara: «Smettetela di rubare, per favore, tregua; oppure la smettano di arrestarvi e vi lascino delinquere in pace, ché tanto nulla poi cambia e non se ne avvantaggia alcuno, neppure il dott. Gribbels. Tertium non datur. Eccheppalle» (Il Foglio, 4 giugno 2014). Già, eccheppalle!

SOGNANDO BERLINGUER. Massimo Recalcati e i «falsi miti edonistici del capitalismo».

214-620x322A pagina 48 del saggio Patria senza padri (Minimun fax, 2013), Massimo Recalcati ci regala una confessione che, credo, spiega molto delle sue inclinazioni politiche e psicoanalitiche: «Sognavo spesso Berlinguer. Lo sognavo proprio negli anni infuocati della mia giovane militanza politica». Recalcati ci informa che alla fine degli anni Settanta questo sogno era condiviso, con un certo imbarazzo, da molti altri suoi compagni di militanza politica (area Lotta Continua, con simpatie per il Partito Radicale e per il mondo “libertario” che stava “a sinistra” del PCI e “a destra” dell’Autonomia Operaia), ma che solo pochi lo presero sul serio, e fra questi bisogna ovviamente annoverare lui.

Per il noto psicoanalista, «massimo esponente italiano della scuola di Lacan», Enrico Berlinguer rappresentò una sorta di principio d’ordine che riuscì a salvarlo dalla folle deriva edipica che allora trascinò un’intera generazione di giovani contestatori nel buco nero del terrorismo: «I terroristi assomigliano al mostro che volevano combattere. Il terrorismo è stato la rivolta dei figli contro i padri» (p. 47). Questa tesi potrei pure sottoscriverla, anzi la sottoscrivo senz’altro, una volta però che sia stata fatta chiarezza circa il punto di vista da cui la cosa mi appare plausibile: «tutta la partita edipica si gioca all’interno della famiglia del comunismo». Non c’è dubbio.

Chiarito, beninteso, che ciò che Recalcati definisce «famiglia del comunismo» per me non ha nulla a che fare con il comunismo di Marx, da me sempre concepito come movimento di lotta delle classi dominate teso a conquistare per tutti gli individui il Regno dell’Umanità. Più che di «famiglia del comunismo» bisogna piuttosto parlare di «famiglia dello stalinismo» (maoisti compresi), e comunque è così che iniziai a pensarla proprio negli stessi anni in cui il giovane Massimo sognava l’Onesto Enrico, da me considerato, come egli scrive con massima riprovazione, «il cane da guardia del sistema capitalista» (p. 46). E la penso ancora così, nonostante l’eccellente psicoanalista mi metta in guardia intorno al fatto che «l’odio edipico offusca, rende ciechi, ammorba». La cosa, come si dice, non mi tange neanche un poco, giacché non solo non ho mai fatto parte della «famiglia del comunismo», ma che anzi l’ho sempre combattuta, ritenendola il miglior strumento di conservazione sociale proprio perché essa ha fatto passare fra i dominati l’idea che il “comunismo realizzato” (in realtà un Capitalismo a conduzione statale) è ancora più miserabile e oppressivo del capitalismo.

Mentre il nostro amico folgorato sulla via del Padre sognava l’austero di Sassari, io, evidentemente già allora irretito nella «dimensione più dissipativa e irrazionale dell’iper edonismo del discorso del capitalista», sognavo l’avvinazzato di Treviri (e altri freudiani soggetti privi di barba che stuzzicavano il mio desiderio ingovernabile): signori, i gusti non si discutono…

99572_sfintii_mucenici_episcopi_din_chersonChi è invece Berlinguer per Recalcati? È presto detto: «Nel ’77 il padre non era tanto il padre-padrone, il padre-borghese, ma era diventato il PCI, era diventato il segretario del Partito Comunista e la politica di austerità e di sacrificio, di rinuncia pulsionale, che Berlinguer prospettava come uscita dai falsi miti edonistici del capitalismo [sic!]. Potremmo leggere anche il caso Moro con queste lenti. In fondo Moro ha provato a incarnare una figura mite di paternità». Trattengo una crassa, nonché delirante, risata e sulla berlingueriana politica di austerità e di sacrificio rimando a Berlinguer, il tristo profeta dei sacrifici. Sul binomio “paterno” Berlinguer-Moro rimando invece a La “rimozione” di Massimo Recalcati.

Ma continuiamo a seguire il ragionamento di Recalcati: «Da una parte c’era Deleuze che diceva che nel capitalismo c’è qualcosa di cui dobbiamo appropriarci: la politica dei flussi, la deterritorializzazione, i concatenamenti molteplici e infiniti del desiderio [ahi!]; dall’altra parte c’era Berlinguer che mostrava, direi oggi a ragione,  il rischio immanente a questo discorso, cioè la sua collusione fatale con la dimensione più dissipativa e irrazionale dell’iper edonismo del discorso del capitalista. È un fatto ai miei occhi chiaro: Berlinguer ha storicamente vinto su Deleuze. La sua questione morale è oggi ancora una alternativa etica al discorso del capitalista, mentre le macchine desideranti di Deleuze sono state fagocitate dal discorso del capitalista, hanno dato luogo a quella “mutazione antropologica”, per usare un’espressione di Pasolini, che ha trasformato l’uomo in una macchina impersonale di godimento» (p.47).

Ora, non voglio diffondermi in un confronto tra Deleuze e Berlinguer, anche perché non sarei in grado di svolgerlo in modo appropriato; qui mi permetto solo di affermare, con la stessa sicumera di Recalcati, che a un Berlinguer anticapitalista, o quantomeno critico del «discorso del capitalista», può credere giusto un indigente in fatto di coscienza critica. E purtroppo questo “tipo umano” abbonda. Eccome se abbonda!

Fino a quale segno l’ideologia dello psicoanalista sia apologetica, lo si ricava anche da quanto segue: mentre negli anni Settanta il «rifiuto del lavoro» poneva il desiderio in alternativa al lavoro, si trattava invece, sempre secondo il nostro berlingueriano, di dare un senso al desiderio attraverso il lavoro, concepito anche simbolicamente ed esistenzialisticamente (secondo la concezione esposta da Sartre ne L’esistenzialismo è un umanesimo) come sforzo e responsabilità. La natura capitalistica, e dunque necessariamente disumana, del lavoro sfugge completamente alla riflessione di Recalcati, nonostante tutto il suo gran parlare di «discorso del capitalista»*. Di qui, il suo viscerale amore per la Costituzione più bella della nostra galassia, la quale nel suo primo articolo santifica il lavoro salariato come fondamento della società capitalistica (o «Repubblica democratica» che dir si voglia); ma anche il suo altrettanto invincibile disgusto per «l’estremismo politico di Berlusconi» («L’oscenità berlusconiana manifesta il disprezzo per l’ordine simbolico e le sue leggi»), il quale considera la forma partito (incarnazione politica collettiva della virtuosa funzione paterna), «come, del resto, la Costituzione stessa, un residuo del passato dal quale è necessario liberarsi» (p. 49).

La sola considerazione intelligente – ancorché meritevole di approfondimento critico – del saggio in questione è, sempre all’avviso di chi scrive, quella che invita a «pensare la democrazia non in alternativa al totalitarismo ma come la sua faccia inconscia» (p. 61). Ma mentre Recalcati si riferisce soprattutto al «totalitarismo del godimento» (incarnato, c’è bisogno di dirlo?, dall’ex Sultano di Arcore), io invito a riflettere piuttosto sul totalitarismo sociale, ossia sulla disumana e sempre crescente potenza espansiva del rapporto sociale capitalistico, quella potenza che tende a trasformare ogni territorio esistenziale (a partire dal corpo degli individui) in una funzione economicamente sensibile. È per questo che se vogliamo liberarci davvero dal maligno «discorso del capitalista» dobbiamo archiviare il dominio del capitale, il cui rapporto sociale, oggi di dimensione planetaria, è la vera grammatica che consente a tutti noi di relazionarci (nell’accezione più vasta del concetto) col mondo – a partire da quello che ci è più vicino: noi stessi.

PIC78O* Berlusconi e il discorso del capitalista. Qualche settimana fa mi è capitato di ascoltare le riflessioni di Lidia Ravera e Massimo Recalcati sollecitate da Lilli Gruber, la “rossa” sacerdotessa di Otto e mezzo, e mi si è rafforzata nella testolina un’idea che coltivo da sempre: la critica della società disumana che non è in grado di cogliere le radici storiche e sociali del grave disagio esistenziale che vive l’individuo dei nostri pessimi tempi, facilmente smotta verso una posizione reazionaria “a 360 gradi”: sul piano politico, su quello etico, filosofico e quant’altro. È un fatto che con oltre un decennio di ritardo, i due progressisti sono approdati sulle posizioni antisessantottine di Giuliano Ferrara, forse il più intelligente fra i reazionari (di “destra” e di “sinistra”) in circolazione nel Paese.

In particolare, Ravera e Recalcati non comprendono come «il godimento immediato e senza limiti», «la libertà che non conosce limiti né legge», che insieme danno corpo «a quello che in psicanalisi si chiama perversione», e, dulcis in fundo, «l’evaporazione del Padre» (ma anche la madre non sta messa bene, a quanto pare); come tutto ciò sia essenzialmente il prodotto di processi sociali che rispondono alla sola Legge che in questa epoca storica domina l’intera esistenza degli individui: la bronzea e sempre più totalitaria Legge del profitto.

È la dinamica capitalistica che ha reso obsoleta la tradizionale famiglia a conduzione patriarcale, relegando i genitori in un ruolo sempre più marginale e residuale rispetto alle funzioni educative formali e informali riconducibili allo Stato, al «sociale privato» e al mercato. Quando il Moro di Treviri, con un certo anticipo su Schumpeter, definì strutturalmente rivoluzionario il Capitalismo, egli non intese riferirsi solo alla dimensione dell’economico, tutt’altro. Il «linguaggio della struttura», per dirla con Lacan, è il linguaggio della prassi sociale dominata dall’economia capitalistica. Dove qui per struttura occorre intendere il corpo sociale colto nella sua complessa, conflittuale e contraddittoria totalità.

Il lacaniano «discorso del Capitalista», che Recalcati cita continuamente soprattutto come corpo contundente antiberlusconiano, ha una pregnanza concettuale e una radicalità politica che egli nemmeno sospetta. In bocca a Recalcati, quel «discorso» non supera il livello dell’impotente lamentela intorno alla nota mercificazione dell’intera esistenza (dis)umana, fenomeno che se è inteso nella sua vera essenza, e non alla maniera, banale e superficiale, degli intrattenitori da salotto, condanna senza appello l’odierno regime sociale qualunque sia la contingente forma politico-ideologica delle sue istituzioni: democratica, dittatoriale, autoritaria. Infatti, come ho scritto altre volte, il carattere necessariamente totalitario, e anzi sempre più totalitario, delle esigenze che fanno capo, magari attraverso mille mediazioni, alla sfera economica deve essere messo al centro di ogni riflessione politica, sociologica, ecc.. Altro che «epoca del berlusconismo», secondo lo stanco mantra dei progressisti: il Cavaliere Nero non vale nemmeno come metafora o sintomo dei nostri mercantilistici tempi.

Per capirlo, basta leggere quanto scriveva Robert Paul Wolff, sintetizzando il pensiero di Emile Durkheim, nel remoto 1965: «L’allentarsi della presa che i valori tradizionali e di gruppo esercitano sugli individui crea in alcuni di loro una condizione di mancanza di ogni legge, un’assenza di limiti ai loro desideri ed ambizioni. E poiché non v’è alcun limite intrinseco alla quantità di soddisfazione che l’io può desiderare, ecco che esso si trova trascinato in una ricerca senza fine del piacere, che produce sull’io uno stato di frustrazione. L’infinità dell’universo oggettivo è inafferrabile per l’individuo che sia privo di freni sociali o soggettivi, e l’io si dissolve nel vuoto che cerca di riempire» (Al di là della tolleranza).

Più che ripristinare i vecchi valori, o di crearne di nuovi a regime sociale invariato, a mio avviso è l’intero spazio sociale che occorre umanizzare. E ciò presuppone il superamento della società che ha fatto dell’atomo sociale chiamato cittadino una «macchina desiderante», una perfetta merce (una biomerce, un biomercato), una creatura fatta a immagine e somiglianza di una sempre più bulimica, insaziabile, onnivora economia. Un’economia che ha bisogno continuamente di creare nuove opportunità di profitto, e che per questo sposta sempre in avanti il confine dello sfruttabile e del desiderabile (leggi: acquistabile), fino a eliminare ogni confine, trascinando così l’intera società in un folle vortice che nessuno può controllare. Il dominio del godimento immediato di cui parla Recalcati, nostalgico o comunque ammiratore della Prima Repubblica di Moro e Berlinguer, cela in realtà il Dominio di un rapporto sociale altamente disumano (da Umiliati e offesi. I dolori del popolo antiberlusconiano, 19/01/2014).

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L’eccezionale potenza evocativa della parola paterna

IL COMMOVENTE «ATTO D’AMORE» DI VELTRONI

fotoarchivio«Il mio è un film per i giovani» ha detto Walter Veltroni presentando il suo film-documentario sull’onesto Berlinguer, forse l’ultimo Santino, in coppia con Francesco, rimasto nelle tremolanti mani dei progressisti di provenienza cattocomunista – in realtà molto catto e zero comunista. Ecco, essendo io ormai un diversamente giovane, diciamo così, la cosa non mi riguarda. Insomma, mi ritengo dispensato dal guardare la perla cinematografica confezionata dello scialbo Walter.

«Questo film farà piangere», ha sottolineato il nostro neoregista, il quale evidentemente ha voluto scientemente tenermi alla lontana dalla sua pregiata creazione politico-artistica. Infatti, piango già a sufficienza al solo pensiero che tanti giovani possano trovare  nell’onesto Enrico un modello da seguire: ma siate rivoluzionari, piuttosto! Se non ora, quando? Non capite che vi vogliono intellettualmente e spiritualmente vecchi anzitempo? Parole al vento, lo so bene. Questo è il tempo del grillismo, la cui parola d’ordine più “rivoluzionaria” è la seguente: «L’onestà tornerà di moda». Sic! Evidentemente molti trovano più attraente farsi massaggiare il fondoschiena da un bastone eticamente corretto.Tempi duri per quelli che, come chi scrive, vorrebbero che tornasse di moda la Rivoluzione Sociale anticapitalistica. E qui qualche lacrimuccia la verso pure, però in spregio a Veltroni e all’anima dell’onesto Enrico.

imagesUHAL7SV2In realtà volevo semplicemente dire ai giovani che Quando c’era Berlinguer il Bel Paese viveva dentro l’escrementizia dimensione sociale chiamata Capitalismo, esattamente come accade al tempo di Berlusconi, Grillo e Renzi. Non solo, ma l’onestissimo Segretario del PCI fu allora uno dei pezzi grossi dello status quo sociale, peraltro in collaborazione con il “compagno” Luciano Lama, infaticabile sostenitore della virtuosa (per gli interessi nazionali) politica dei sacrifici.

Ha scritto Mariateresa Conti sul Giornale del 18 marzo: «Il “lui”, questa volta, non è il duce. Anzi, è proprio l’opposto, bandiera rossa e falce e martello». Mi permetto di dissentire. Più che opposto, direi piuttosto un “diversamente servitore” della patria e del dominio sociale capitalistico. Quanto ai noti simboli, è dal tempo dello stalinismo trionfante che essi rimandano a una realtà opposta a quella immaginata da Marx e da Lenin. Ma queste scomode verità ai giovani non può certo “narrarle” il berlingueriano Veltroni. Buona visione a tutti, e mi raccomando: «preparatevi a piangere».

Vedi BERLINGUER, IL TRISTO PROFETA DEI SACRIFICI

WU MING: È PROPRIO QUEST’ACQUA QUA!

L’acqua putrida e di fogna del Capitalismo.

L’acqua putrida e di fogna del Capitalismo.

Nell’invettiva scagliata ieri da Wu Ming contro «il Partito cosiddetto democratico», dalla quale si possono ricavare interessanti elementi di valutazione circa il rapporto (di odio/amore?) che lega il noto «collettivo di scrittori italiani» alla cosiddetta sinistra italiana, si può leggere, tra l’altro, quanto segue: sul razzismo «la Lega lombarda prima e la Lega nord poi hanno costruito un intero percorso politico […] Il razzismo è da secoli un modo di pensare funzionale al mantenimento di un sistema di sfruttamento e discriminazione» (Il partito del non senso, Internazionale, 15 luglio 2013). In poche parole, nell’articolo in questione Wu Ming, prendendo spunto dall’ultima battuta razzista di Calderoli sulla ministra Cécile Kyenge, rinfaccia al PD (e soprattutto all’ex segretario Bersani) un atteggiamento quantomeno contraddittorio nei confronti dei leghisti, dai “democratici” disprezzati o blanditi secondo le mutevoli convenienze politiche. I «sedicenti democratici potrebbero almeno risparmiarci lo spettacolo ipocrita della loro chiassosa indignazione per le battute dei razzisti che fino a ieri consideravano buoni interlocutori». Che indignazione!

Com’è noto, già Massimo D’Alema parlò del movimento capeggiato da Bossi come di «una costola della sinistra». Era il tempo in cui si consumava la congiura ai danni del primo governo Berlusconi. Anche allora molti sinistri si scandalizzarono, ma alla fine abbozzarono e, togliattianamente, si acconciarono a baciare il rospo Lamberto Dini secondo le direttive calate dalla Segreteria. Anche allora parecchi “comunisti” tirarono fuori la tattica del Presidente Mao sul «nemico principale», che dal 1994 si chiama, come sanno tutti, Berlusconi. Stranamente Wu Ming non ricorda quell’illuminante episodio, e concentra il suo fuoco sulla croce rossa, ossia su Bersani e compagni.

Vale la pena ricordare l’episodio del ’95, in seguito negato, o quantomeno reinterpretato, dal protagonista: «Nell’intervista al Manifesto D’Alema esprime un’altra convinzione a proposito di una forza politica che può essere “collegata” alla sinistra: “La Lega c’entra moltissimo con la sinistra, non è una bestemmia. Tra la Lega e la sinistra c’è forte contiguità sociale. Il maggior partito operaio del Nord è la Lega, piaccia o non piaccia. È una nostra costola, è stato il sintomo più evidente e robusto della crisi del nostro sistema politico e si esprime attraverso un anti-statalismo democratico e anche antifascista che non ha nulla a che vedere con un blocco organico di destra”» (La Repubblica, 1 novembre 1995). Qui baffino mostrava di saperla più lunga, in materia di analisi politico-sociologica, di molti intellettuali schizzinosi appartenenti al suo stesso campo politico, i quali erano – e sono – avvezzi a pestare il mortaio pieno di schiuma, col risultato di creare una gigantesca poltiglia che impedisce loro di capire l’essenza dei problemi politici e sociali.

ELOGIO DELL’INCIUCIO

142626 RAVAGLI - CAMERA: IL PREMIER ENRICO LETTA PRESENTA IL PROGRAMMAVorrei rassicurare, per quanto mi è possibile, le anime in pena del popolo di sinistra che ancora fanno riferimento al partito dell’ex smacchiatore di giaguari, nonché pettinatore di calvi. Alle animelle sinistrorse che oggi si chiedono con la morte nel cuore se dopo il noto esecrabile «inciucio» col Nemico Assoluto il PD può ancora essere definito un partito di sinistra, o quantomeno di centro-sinistra, se non proprio di sinistra-centro, desidero offrire, per quel che vale, il mio conforto: sì, amici progressisti, il vostro è ancora un partito di sinistra, o di centro-sinistra. Tirate pure un grosso sospiro di sollievo e godetevi il profumo della primavera.

Amici democratici malpancisti seguite il consiglio di Eugenio Scalfari e di Re Giorgio, studiate la gloriosa storia del partito che fu di Togliatti e di Berlinguer, e allora l’inciucio di oggi, per usare la miserabile fraseologia di Miserabilandia, vi apparirà cosa davvero risibile, un gioco da ragazzi, non più di un cucchiaino di sciroppo amaro. Basta un po’ di zucchero e lo sciroppo va giù che è una meraviglia. Ingoiate dunque con serenità l’ennesimo rospo, amici sinistrati.

Patto-2Il partito che sventolava la bandiera rossa e che cantava l’Internazionale, non inciuciò forse persino con i nazifascisti ai tempi della grosse koalition russo-tedesca del 1939? Quanti sforzi fece allora il compagno Ercoli, il migliore degli stalinisti europei, per convincere un partito che si attardava sulla vecchia linea! E poi, mutatis mutandis, venne l’inciucio con Badoglio, e ancora dopo, e sempre cambiando quel che c’è da cambiare, ci fu l’inciucio, pardon: il «compromesso storico» con Moro (santificato dai “comunisti” solo dopo il suo assassinio) e Andreotti, seguì l’inciucio con il compagno Bettino, al quale l’onesto Enrico elemosinò l’appoggio in sede di Internazionale Socialista. E che sarà mai l’inciucio con il Caimano!

1980-07-07-berlinguer-andreotti_jpgHa scritto Scalfari sulla Repubblica del 28 aprile: «Badoglio nel ’44, Andreotti nel ’78, il Pci di Togliatti e poi quello di Berlinguer. Napolitano era a Napoli nel ’44 e a Roma nel ’78. Adesso ha responsabilità assai maggiori di quelle che allora ebbero i due leader comunisti». Tra le sue tante responsabilità vi è anche quella di salvare il PD, il quale rischia di spezzarsi almeno in tre parti: la renziana, la barchiana e la dalemiana.

Chi vuole fare il salto di qualità, e così emanciparsi, in un colpo solo, dalle beghe faziose di Miserabilandia e dalla mitologia “comunista” (in realtà uno stalinismo in salsa italiana), dovrebbe piuttosto interrogarsi sulla natura politico-sociale del Pci. Mettendosi su questo fecondo sentiero forse qualcuno scoprirà che sull’escrementizio terreno calpestato dal Pci, da Togliatti a Occhetto, “destra” e “sinistra” non sono che le due ultrareazionarie facce della stessa medaglia. Altro che Elogio del moralismo (Stefano Rodotà) e «lotta alla casta» nel santo nome dell’onesto Enrico! Buon inciucio a tutti.

TALE PADRE TALE FIGLIO. DA LUCIANO A FABRIZIO UNA BARCA AUSTERA

PRESENTAZIONE RAPPORTO SVIMEZ 2012Come il padre Luciano, responsabile del settore economico nel PCI di Berlinguer, nonché stretto collaboratore dell’onesto Enrico, il figlio Fabrizio, attuale Ministro della coesione territoriale nel governo Monti e candidato alla leadership del Partito Democratico, è alla ricerca della mitica terza via. Il padre condivideva l’idea di molti “comunisti” italiani circa la necessità di farla finita con l’alternativa secca fra Capitalismo e Socialismo, per orientarsi senza indugi in direzione di una più “originale” forma sociale, che si avvantaggiasse di ciò che di buono era possibile recuperare di quei due sistemi. Il bambino non va mai gettato insieme all’acqua sporca. Qui sorvolo sul fatto che tanto il Capitalismo quanto il cosiddetto «Socialismo reale» (a cui Barca padre e compagni avevano guardato con amore per decenni) fossero, più che acqua sporca, sostanze escrementizie dall’identica natura sociale. D’altra parte non si può vendere per decenni alla propria base la merce avariata del «Socialismo sovietico» e poi passare impunemente a offrire sul mercato politico-elettorale l’odiato – a parole – sistema socialdemocratico. Di qui quel rimanere «in mezzo al guado» che esponeva il PCI di Berlinguer alle facili ironie dei compagni socialisti.

Il figlio, servendosi di un linguaggio politologico – relativamente – nuovo («un ibrido tra il PCI e il M5S», come giustamente ha scritto Salvatore vassallo su Europa del 12 aprile), sostiene nella Memoria politica che ne ha segnato l’ufficiale discesa/ascesa in campo che se l’Italia vuole evitare la sindrome del «catoblepismo» sistemico (l’avvitamento nel circolo vizioso del controllato che controlla se stesso, dal sistema finanziario a quello politico-istituzionale: Abyssus vocat Abyssum); se il Paese vuole gonfiare le proprie fiacche vele con il vento virtuoso delle riforme strutturali “a 360 gradi”: dalla politica all’economia, dalle istituzioni all’etica pubblica e privata, esso deve senz’altro affrancarsi dalla «visione minimalista» (Stato minimo, liberismo ideologico) che avrebbe portato l’Occidente all’attuale crisi economica, guardandosi tuttavia dal  ripercorrere le vecchie strade care alla «visione socialdemocratica» (Stato forte, invadente e pervasivo), la quale avrebbe favorito, come una sorta di fallo di reazione, l’ascesa del thatcherismo e del reaganismo. È necessario rifiutare gli errori e gli eccessi di entrambe le visioni, ma non per questo bisogna disperdere ciò che di buono di entrambe è ancora possibile mettere a profitto.

Il pragmatico Fabrizio Barca ha chiamato «sperimentalismo democratico» la terza via 2.0. Di che si tratta? Detta in estrema e rozza sintesi si tratta di introdurre in Italia, con qualche decennio di ritardo (come si conviene al Bel Paese in generale e alla sua cosiddetta sinistra politica in particolare), le «riforme di struttura» che hanno segnato l’esperienza politica di Blair in Inghilterra (la cui azione politica, com’è noto, non contraddisse per l’essenziale la ristrutturazione sistemica avviata dalla Thatcher alla fine degli anni Settanta) e da Schröder in Germania. Com’è noto, L’Agenda 2010 messa a punto dal cancelliere socialdemocratico nel 2002, ai tempi della Germania «malata d’Europa», per molti aspetti ricalcò l’Agenda Blair, la quale non era affatto dispiaciuta alla recentemente scomparsa Lady di ferro. Il disprezzato – a chiacchiere, a uso puramente elettorale – thatcherismo fatto uscire dalla porta viene insomma invitato a rientrare dalla finestra, e anche questo ha il suono tipico dell’Italietta, soprattutto di quella in guisa sinistrorsa.

Scrive Antonio Funiciello su Europa del 13 aprile: «Non occorre precisare che Fabrizio Barca, diversamente da Berlinguer, non propone di superare il capitalismo in favore della concezione totalitaria di economia pianificata». In primo luogo la «concezione totalitaria di economia pianificata» di cui parla Funiciello non presuppone affatto il superamento del Capitalismo ma, semmai, evoca il passaggio al Capitalismo di Stato, magari sul modello stalinista; in secondo luogo Enrico Berlinguer già negli anni Settanta aveva abbandonato quella concezione, e se parlava di «Socialismo», intendendo sempre il Capitalismo di Stato, com’era d’uso tra gli stalinisti, lo faceva sempre per accarezzare la base filosovietica, ancora legata al devastante e miserabile mito del «Socialismo reale».

tAgli inizi degli anni Settanta, inaugurando una «opposizione di tipo nuovo» che avrebbe dovuto tirarlo fuori dal famigerato guado che lo teneva lontano dal governo nazionale, il PCI decise di seguire senza indugi la DC, il PSI e il PRI  sulla strada della ristrutturazione capitalistica e del risanamento della finanza pubblica. La Cgil naturalmente seguì a ruota, abbandonando la vecchia forma di collaborazionismo sindacale adeguata al precedente status politico del PCI. Molti militanti dell’estrema sinistra allora accusarono il PCI e la Cgil di aver voluto abbandonare definitivamente il terreno della lotta di classe anticapitalistica; questa infondata posizione sorvolava sulla natura ultraborghese acquisita tanto da quel partito quanto da quel sindacato nel momento in cui il gruppo dirigente “comunista” s’inchinò allo stalinismo alla fine degli anni Venti.

Racconta Toni Negri: «Ad agosto [del 1960] an­dai in Unione Sovietica per la prima ed unica volta, una sorta di viaggio premio. E lì mi ammalai, lette­ralmente: lo scontro con la realtà sovietica fu tre­mendo, mi prese un disturbo psico-somatico. Mi scontrai con una dittatura reale e una società buro­cratica. Erano le cose che detestavo qui, ritrovarle in Urss fu uno choc. Quel viaggio mi ha cambiato la vita: al ritorno sono uscito dal movimento operaio ufficiale e sono entrato nei Quaderni Rossi» (Corriere del Veneto.it, 6 aprile 2009). Se avesse letto i comunisti “maledetti”, quelli dichiarati «oggettivamente fascisti» dai togliattiani, l’intellettuale padovano si sarebbe risparmiato quello choc, con relative magagne psico-somatiche, e, soprattutto, avrebbe fondato meglio la sua critica del togliattismo e dello stalinismo, che infatti fa acqua da tutte le parti. Chiudo la breve parentesi “settaria”.

Scriveva Luciano Barca su Rinascita del marzo ’73: «Con il loro crescere le rendite stanno mettendo in pericolo la quanti­tà e la qualità dell’accumulazione in Italia … [Vi è una] quota crescente di plus-valore che viene assorbita dalle rendite, da tutte le rendite (urbana, fondiaria, monopolistiche di produ­zione e di distribuzione, burocratica, da speculazione, ecc.), che impediscono a quanto viene accumulato di diventare inve­stimento produttivo. Vi è la necessità assoluta di combattere la rendita e di ridurre il settore improduttivo, [perché] su questo terreno siamo distaccati di interi secoli dai paesi con i quali siamo via via costretti a competere in modo più ravvicinato». Ecco come si esprime il grande capitale industriale, pubblico e privato, cosciente di se stesso! Ma siccome la politica, soprattutto quella di marca ita­liota, ha l’obbligo della mediazione, giacché deve tener conto della «compatibilità del quadro generale», Barca concludeva il suo franco attacco alla rendita con parole più moderate, più rispettose appunto del «quadro sociale complessivo»: «La struttura so­ciale del nostro Paese … è tale da cointeressare forzatamente alle rendite stesse milioni di persone, [per cui] la necessità assoluta e prioritaria di combattere le rendite e di ridurre il settore improduttivo [non deve dar luogo] a soluzione punitive, [le quali creerebbero] un clima favorevole per le provocazioni fasciste». Con lo spauracchio del fascismo sempre incombente il PCI giustificava, davanti alla propria base, una politica di «destra socialdemocratica» per molti versi assai più moderata di quel­la proposta dalla «sinistra democristiana».

In uno dei suoi ultimi scritti, Togliatti si chiedeva: «In quale misura i gruppi dirigenti della grande borghesia italiana, industriale e agraria, sono disposti ad accogliere anche solo un complesso di moderate misure di riformismo borghese? In quale misura, cioè, è possibile in Italia un riformismo borghe­se?». In questa domanda si coglie tanto la relativa arretratezza sociale dell’I­talia, quanto il moderatismo riformista del partito borghese di «sinistra», del PCI. Sarà infatti la Democrazia Cristiana di Fanfani a risollevare – sempre con moderazione, senza eccessive «fughe in avanti» – le sorti del riformismo ita­liano.

Catoblepas.

Catoblepas.

Come il padre, Fabrizio Barca vuole attaccare il parassitismo sociale, pubblico e privato, e tutte le magagne politiche e strutturali che ingessano il Paese e ne depotenziano le capacità competitive. Un esempio: «Quando cambiamenti radicali nelle tecnologie o nel design mettono fuori gioco intere produzioni o professionalità operaie … l’assicurazione dalla disoccupazione non costituisce il ponte verso un altro lavoro. La risposta vera a questa situazione consiste nel consentire a individui e famiglie di auto-assicurarsi contro questi rischi acquisendo la capacità di trovare soluzioni» (C. Sabel citato da Barca). Dal Welfare al Workfare, per citare sempre Blair. Invece di difendere un posto di lavoro che il processo capitalistico ha reso obsoleto, come facevano i minatori inglesi negli anni Ottanta (questo in ricordo di Margaret), il sindacato, la politica e lo Stato devono piuttosto assecondare quel processo, creando non la solita rete di protezione assistenzialistica, ma una rete «cognitiva» di informazioni e conoscenze che possa riqualificare il «capitale umano» e così metterlo nelle condizioni di trovare un nuovo impiego. Solo nell’anchilosato e avvizzito Paese che ci ospita queste cose possono suonare come originali, e per la verità anche da noi il dibattito sulla flexsecurity e sul Workfare è  vecchio almeno di due decenni. Il fatto è che i partiti italiani non hanno mai voluto schiacciare con decisione il pedale delle «riforme strutturali», per non perdere consensi elettorali ed evitare forti conflitti sociali. I poco brillanti risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Scrive F. Barca: «La macchina delle politiche pubbliche del nostro paese è anacronistica in tutte le fasi del processo di costruzione dell’azione … In particolare mai abbiamo saputo realizzare una radicale ed efficace revisione della macchina pubblica uscita dal fascismo». Condivido. La continuità sostanziale fra regime fascista e regime post fascista è indiscutibile, soprattutto per ciò che riguarda il rapporto tra lo Stato e la sfera economica, con tutto quello che ne segue sul terreno politico-istituzionale. Nel suo saggio del 2011 (L’Italia: una società senza Stato?, Il Mulino) Sabino Cassese metteva in luce, sebbene da una prospettiva abissalmente distante dalla mia (come si intuisce anche dal titolo del saggio), la robusta continuità politico-istituzionale e sociale tra le diverse vicende storiche del Paese: tra la situazione postunitaria e quella preunitaria, tra il fascismo e lo Stato liberale, tra la Repubblica Democratica e il fascismo, tra la cosiddetta «Seconda Repubblica» e la «Prima». Sradicare problemi molto radicati nella struttura sociale di questo Paese (è sufficiente porre mente al gap sistemico, sempre più accentuato e dirompente, Nord-Sud per capire di cosa sto parlando) è difficile, e il prezzo da pagare è sempre più salato: tante lacrime e tanto sangue, da versare sull’altare del «Bene Comune». Il Ministro Barca questo lo sa benissimo.

La bellezza austera dell'onesto Enrico

La bellezza austera dell’onesto Enrico

Come il padre Luciano, anche Fabrizio è affezionato all’austerità, ma beninteso declinata “a sinistra”: «L’austerità che questa situazione domanda può essere declinata in due modi radicalmente diversi. Come scriveva Enrico Berlinguer in un passaggio poi mancato della nostra storia repubblicana, l’austerità “può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e sociale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia”. Il minimalismo promuove la prima strada. Lo sperimentalismo la seconda». Sull’austero Berlinguer rimando a un post di qualche tempo fa. Su Fabrizio Barca e sulla sua politica dei sacrifici “sperimentalisti” rimando alla rubrica delle bestemmie nient’affatto minimaliste.

LA COERENZA DI UN BRILLANTE ECONOMISTA BORGHESE

300x01357504863510Luigi_SpaventaScrive Emiliano Brancaccio nel suo interessante articolo di commiato e ricordo di Luigi Spaventa: «Nel 1981, con Mario Monti ed altri, Spaventa caldeggiò la proposta di “desensibilizzazione” dei salari. L’idea consisteva nell’indicizzare le retribuzioni ai soli aumenti dei prezzi di origine nazionale: in caso di inflazione proveniente dall’estero, i salari non dovevano più essere protetti. In tal modo il potenziale inflazionistico della scala mobile sarebbe stato attenuato. Le obiezioni furono numerose: perché mai adottare un meccanismo che avrebbe salvaguardato i profitti e avrebbe scaricato sui soli lavoratori il peso degli aumenti del prezzo del petrolio?» (La riscoperta della tradizione neoclassica da parte di un eretico, Il Manifesto, 8 gennaio 2013). Azzardo una risposta per così dire postuma: forse Luigi Spaventa intendeva sostenere gli interessi dell’Azienda Italia, ossia del Capitalismo nazionale. Forse.

D’altra parte, non ci vedo nulla di sorprendente o di scandaloso in questo benemerito (per le classi dominanti del Paese) impegno da parte di un economista che spese tutta la sua vita sul fronte della difesa degli interessi del Capitale, nazionale e internazionale. Occorre poi ricordare che il PCI, la CGIL e gli intellettuali “organici” – ancorché “indipendenti” – alla galassia politica “comunista” furono negli anni Settanta in prima linea nella patriottica guerra contro la cosiddetta inflazione importata, soprattutto quella derivante dall’importazione di materie prime, petrolio in testa. Allora l’inflazione galoppava a due cifre e il duo progressista Berlinguer-Lama predicava una politica d’austerità con i controfiocchi, al cui centro naturalmente spiccava una politica di moderazione salariale senza se e senza ma. «Solo noi comunisti possiamo riuscire a difendere gli inseparabili interessi della classe operaia e della nazione» (G. Amendola): fu il martellante mantra dei teorici del “compromesso storico”. Com’è noto, da Marx in poi gli anticapitalisti sostengono l’idea esattamente opposta: mettere insieme, per “armonizzarli”, gli interessi nazionali e quelli dei lavoratori significa, semplicemente e necessariamente, inchinarsi al Moloch capitalistico.

Giustamente Re Giorgio Napolitano ha reso «omaggio alla memoria dello studioso e dell’uomo pubblico, protagonista sapiente del dibattito internazionale sui problemi dell’economia, che ha come pochi altri negli scorsi decenni lasciato un’impronta inconfondibile nello sviluppo delle conoscenze economiche e nell’esercizio di responsabilità rilevanti per il progresso civile e culturale del Paese». Va da sé che chi rema contro il Capitalismo non si commuove dinanzi a certi discorsi intorno al «progresso civile e culturale del Paese», e anzi trova lo stimolo per rinvigorire il proprio “irresponsabile” impegno.

Fino a che punto Spaventa fosse impegnato sul fronte della contesa capitalistica mondiale, basti ricordare, tra l’altro, la sua partecipazione alla riunione di prestigiosi economisti (F. Modigliani, L. Klein, S. Marris, I. Miyazaki, ecc.) all’Institute for International Economics di Washington nell’inverno del 1987, giusto alla conclusione del vertice Reagan-Gorbaciov. Tema dell’incontro: come stabilizzare i cambi valutari e aggiustare le bilance commerciali, allora favorevoli al Giappone e all’Europa e sempre più sfavorevoli agli Stati Uniti. Che un simile tema dovesse avere delle conseguenze pratiche sulla vita di milioni di lavoratori in tutto il mondo è più che una legittima supposizione.

Continua Brancaccio: «Per Monti ed altri veniva istintivo cercare di difendersi da questa critica arrampicandosi al vecchio albero neoclassico, e da lì replicare che i salari andavano frenati poiché avevano oltrepassato l’equilibrio “naturale”. Ma per Spaventa, che negli anni precedenti aveva contribuito a segare il tronco di quella pianta, si apriva una contraddizione fra le sue origini teoriche e le proposte politiche che intendeva sostenere». A parte il vecchio linguaggio «neoclassico» di Monti, faccio sommessamente notare che l’attacco al prezzo del “capitale umano”, prima che rispondere a un’ideologia reazionaria, è soprattutto una vitale necessità immanente alla natura del Capitale, soprattutto quando il saggio del profitto entra in sofferenza. Quanto alle «contraddizioni» e alle «incongruenze» rilevate da Brancaccio nella vicenda dottrinaria e politica di Luigi Spaventa, ebbene esse possono avere un qualche significato solo se si prende sul serio la natura «eretica» del suo pensiero ai “bei tempi” dell’infatuazione sraffiana. Personalmente mi chiamo fuori.

Mi rendo conto che “eventi epocali” come la sfida di Spaventa all’ex Male Assoluto del progressismo italiano Silvio Berlusconi nel suo collegio elettorale ai tempi della mitica “gioiosa macchina da guerra”, come non hanno mancato di ricordare in questi giorni tutti gli opinionisti antiberlusconiani ancora in servizio; e la rude controversia dell’economista scomparso con il federalista Altiero Spinelli sulla piena integrazione economica dell’Italia all’Europa alla fine degli anni Settanta (salvo poi, come ricorda Brancaccio, diventare un arcigno sostenitore della moneta unica europea), rappresentano per taluni vere e proprie pietre miliari della politica sinistrese. Vale la pena ricordarlo: dalle mie parti questo spartito non commuove neanche un po’.

LA GUERRA MONDIALE E IL FRONTE INTERNO

1. Sotto i nostri occhi si dipana uno scontro politico-sociale senza precedenti, almeno negli ultimi trent’anni. La posta in gioco è, né più né meno, la radicale ristrutturazione del potere economico e politico in Italia. Il tutto, ovviamente, in stretta relazione a quanto sta avvenendo sul piano internazionale, a partire dal Vecchio Continente, certo, ma il processo che ci coinvolge come Sistema-Paese travalica anche quei limiti geopolitici. Siamo infatti immersi al centro di una inaudita guerra mondiale tra sistemi capitalistici per la conquista della leadership economica, politica (militarismo incluso) e ideologica del pianeta. La storia ha conosciuto pochi movimenti tellurici di simile potenza e ampiezza. L’urto tra le sfere geopolitiche e geoeconomiche del mondo dà luogo a un effetto di trascinamento «a cascata», del tipo «effetto domino», che ha come suo ultimo pezzo il singolo individuo. Qui la metafora ecologista della farfalla che battendo le ali in un punto del globo, provoca eventi imprevedibili nel suo antipode è perfettamente plausibile, e ci dà la misura dell’impotenza degli individui, sussunti sotto «poligoni di forze» che sfuggono totalmente al loro controllo e alla loro stessa capacità di comprensione.

Il fatto che la guerra mondiale sistemica si dispieghi su un terreno “pacifico”, non deve né sorprenderci né rassicurarci. Infatti, da sempre il «fatto bellico» ha come suo fondamento sociale di ultima istanza gli interessi che fanno capo alla sfera economica, e difatti un blocco imperialistico (il Patto di Varsavia) è andato in sfacelo e un grande Paese (la Germania) ha potuto ricomporre il proprio storico spazio geopolitico senza l’intervento di carrarmati, di fortezze volanti e di portaerei, ma in grazia di una potente pressione originata dal processo di accumulazione capitalistica. La potenza degli Stati moderni riposa sulla potenza economica, e questa semplice verità presto o tardi deve necessariamente affermarsi, mettendo fuori corso vecchie e nuove illusioni intorno al primato della politica o, addirittura, della cultura nell’ambito della società capitalistica. Certo, il processo economico è più lento nel dare i suoi necessari effetti geopolitici, ma la sua radice è la stessa che fa germogliare il «fatto bellico». Chi definisce irrazionale il comportamento della Germania a proposito della Grecia, il cui salvataggio dilazionato e a stillicidio comporta un costo sempre crescente anche per quel Paese «oggettivamente nazista», non comprende che chi vuole vincere una guerra non bada ai suoi costi, ma ai benefici futuri che il successo porterà, ripagando con gli interessi i sacrifici del presente. Chi non risica

EFFETTO DOMINIO

Per tutte queste ragioni ciò che accade sotto i nostri impotenti occhi di italiani e di «cittadini del mondo» deve allarmarci; la continuazione della guerra economico-politica con altri mezzi è assai più che una tesi suggestiva quanto storicamente superata, tanto più che la realtà che essa esprime non cessa invece di produrre effetti che noi non controlliamo, né come singoli individui, né come «volontà politica collettiva», ossia come ordinamento statuale. La stessa possibilità di una guerra guerreggiata, oltre ad essere un eccezionale sintomo, che rimanda direttamente alla radice del Male, produce fatti concreti su diversi piani, inclusi quelli afferenti la nostra stessa percezione del mondo. Anche se non si trasforma in atto, quella possibilità ci martella alle spalle, senza che ne avvertiamo la presenza, come un fantasma sempre sul punto di incarnarsi. Non per niente l’equilibrio politico mondiale del secondo dopoguerra fu definito «del terrore».

Quando ti chiedono sacrifici, mandali a… Ci siamo capiti!

2. A proposito di spettri. Il lettore distratto ha forse visto negli scritti che dedico a Enrico Berlinguer una sorta di accanimento terapeutico antiprogressista, ovvero una mia personale antipatia nei confronti di quel personaggio politico. Niente di tutto questo. Come il lettore attento avrà capito, non ho fatto dell’archeologia politica, magari perché mosso da antipatia – tanto più che il «sardo muto» mi faceva ridere, con la sua cadenza sassarese –, ma piuttosto cronaca della più stretta attualità. Ho voluto semplicemente mostrare il retroterra sociale degli eventi che stanno mettendo a soqquadro il Bel Paese, ponendo l’accento sulla vetustà delle magagne che ancora gravano su di esso. Proprio lo scenario mondiale appena abbozzato conferisce agli annosi problemi italiani, «strutturali» e «sovrastrutturali» (persino «antropologici», a dare ascolto agli Scienziati Sociali che oggi ci amministrano con piglio decisionista), una dimensione da ultima spiaggia: di qua la Salvazione, di là l’Abisso del default!

Effetto farfalla

La crisi strutturale del Paese ha messo in moto processi di ampia portata che investono tutti i livelli del potere sociale: dalla sfera economica a quella politica, dalla Confindustria al Sindacato, e persino il sismografo del Vaticano avverte le scosse che crepano il vecchio assetto politico-sociale della Nazione. La ridicola disputa intorno al colore politico del cosiddetto «governo dei tecnici» (è di «destra» o di «sinistra»?) e al futuro del suo leader («non dobbiamo regalare Monti alla destra», dice la “sinistra”; «non dobbiamo regalare Monti alla sinistra», dice la “destra”) ci fa capire quanto inessenziali e oziosi siano i ragionamenti della «vecchia politica», costretta a manifestare tutta la propria impotenza dinanzi a necessità che fanno capo alla prassi sociale chiamata a sorreggere l’intero edificio. Alludo ovviamente all’economia.

Come ho già scritto diverse volte, se non riparte l’accumulazione capitalistica in grande stile, la crisi del debito si avviterà in un circolo sempre più vizioso, il Welfare esalerà l’ultimo respiro, l’occupazione non crescerà, nemmeno nel lungo periodo, e il Bel Paese sprofonderà nell’irrilevanza economica e politica. Per riprendere la metafora «olistica» della farfalla, un operaio che produce un computer in Cina, o un nigeriano che spinto dalla disperazione lascia il suo Paese per «cercar fortuna» (vedete quanta ironia c’è nel Male?), generano uno “spostamento d’aria” che ci investe sempre più immediatamente.

Effetto farfalla

3. Che questa dialettica sociale di respiro storico mondiale non debba avere delle pesanti conseguenze sull’economia, sulla politica, sulle istituzioni e sulla stessa esistenza dei singoli individui del nostro Paese, soprattutto su quella di chi campa di salario, può pensarlo solo uno sciocco. E difatti Mario Monti non lo pensa, e di certo non lo pensa Marchionne, come peraltro dimostra il suo appoggio alla candidatura del «falco» Bombassei a futuro presidente di una Confindustria sempre più lacerata, mentre Bersani e la Camusso, per ragioni facilmente comprensibili, fanno finta di non cogliere la radicalità dei processi sociali in atto sul fronte interno e su quello internazionale – una distinzione che peraltro vacilla ogni giorno di più: vedi la Grecia!

In tempi di crisi anche chi collabora rischia il licenziamento.

La ristrutturazione del potere politico e sociale del Paese non può non coinvolgere il Sindacato, da sempre importante stampella delle classi dominanti, ma legato a un assetto sistemico e a una dimensione geopolitica e geoeconomica da tempo superati. Soprattutto la reazione della CGIL si spiega, certo con l’esigenza di controllare le spinte che la crisi genera sul mondo dei salariati; ma soprattutto con la paura di perdere il suo rilevante potere politico, che ha permesso a quel Sindacato collaborazionista di avere voce in capitolo anche su importanti scelte di natura economica (dalla politica di programmazione economica dello Stato alla struttura del Welfare, tanto per fare due soli esempi), cosa facilmente comprensibile anche alla luce del «perverso intreccio» tutto italiano (nell’ambito dell’«Occidente liberale»)fra Stato ed economia. La disputa intorno all’Art. 18 dello Statuto del lavoro ha soprattutto questo significato politico, e ha poco a che fare con i reali interessi dei lavoratori.

Guardati dal padrone socialdemocratico!

La forte presenza del Sindacato in ogni sfera della società italiana non si spiega con la forza del «Movimento Operaio», né con la natura democratica della «Repubblica nata dalla Resistenza», ma appunto con la funzione conservatrice dello status quo che quell’organizzazione parastatale ha avuto nel corso del mezzo secolo che ci sta alle spalle. Proprio la forza di quel tipo di Sindacato testimonia l’estrema debolezza politica e sociale dei lavoratori salariati, legati mani e piedi all’imperativo categorico della «politica nazionale» sancito nell’Art. 49 della Santissima Costituzione Democratica di questo Paese. Chi non vuole «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» è, con piena legittimità democratica e con pieno Diritto, qualificato come Nemico della Nazione e trattato come tale. È la guerra sociale, appunto.

BERLINGUER, IL TRISTO PROFETA DEI SACRIFICI

Ho riletto, trentacinque anni dopo, quel vero e proprio manifesto dei sacrifici che raccoglie i due famosi – o famigerati: come sempre è una questione di punti di vista – interventi che Enrico Berlinguer fece nel gennaio del 1977 (al «Convegno degli intellettuali», a Roma, e all’«Assemblea degli operai comunisti», a Milano), e pubblicati da Editori Riuniti lo stesso anno col titolo di Austerità. Occasione per trasformare l’Italia. È impressionante osservare come, al netto del maleodorante ciarpame ideologico pseudo comunista (quello che manda in visibilio chi si appaga di qualche parolina “dura e pura” intercalata nei discorsi più reazionari che si possono fare) che li appesantisce, i ragionamenti, e spesso perfino le parole, del leader “comunista” sembrino freschi di giornata. E in realtà lo sono. Sembra di ascoltare un discorso del Presidente del Consiglio Mario Monti, o di Re Giorgio, e invece si tratta dell’onesto Enrico. Lungimiranza? Non scherziamo! Il fatto che un anno fa, proprio nel corso della celebrazione dell’opera berlingueriana sull’Austerità, l’ex ministro Tremonti l’abbia definito «un profeta», è una ragione in più per dubitare delle qualità divinatorie del sobrio sassarese. Piuttosto, si tratta della plastica dimostrazione di come i problemi strutturali che il Bel Paese oggi si trova dinanzi, rimontino a molti lustri fa, come ben sanno i volponi dell’italica politica.

Secondo Berlinguer, «L’austerità è un imperativo a cui non si può sfuggire» (p. 49), «una scelta politica obbligata e duratura»: «L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia» (p. 13). Quando i politici parlano di «Giustizia sociale» la fregatura è dietro l’angolo, soprattutto se prima si sono intrattenuti sulla necessità di versare lacrime e sangue per il «reale interesse generale del paese». Più realista del Re, più reazionario – e non di poco – di Andreotti, Berlinguer accusa la Democrazia Cristiana di praticare una «politica di austerità viziata da carenza di vigore, di coraggio e di respiro», e accoglie con entusiasmo il tentativo del «compagno Craxi» di sganciarsi dalla «fallimentare» stagione del centro-sinistra. Ma più che al PSI di Craxi, la politica dell’austerità di Berlinguer si richiamava al rigore economico del Partito Repubblicano di Ugo La Malfa, il quale «giustamente sottolinea da tempo» l’urgenza di intervenire sul «dissesto della finanza pubblica e del settore pubblico», sui «meccanismi di dilatazione crescente, incontrollata e spesso improduttiva della spesa pubblica» (p. 42). Questa urgenza vi ricorda qualcosa?

In effetti, l’arcigno segretario del PRI già dalla seconda metà degli anni Sessanta, da quando l’apice del boom economico stava alle spalle del ciclo economico, martellava sulla necessità di ristrutturare profondamente il Capitalismo italiano, e non trovando sponde «riformiste» nella Democrazia Cristiana, timorosa di incrinare la sua solida base sociale-elettorale di riferimento (radicata soprattutto nel settore statale e parastatale), rivolse le sue attenzioni a sinistra, criticandone innanzitutto l’impianto ideologico. Ecco ad esempio cosa scriveva La Malfa nel 1968: «L’antiamericanismo di de Gaulle, la lotta contro il dollaro e la sterlina, sono accettati e applauditi [dalla sinistra]; la prudenza su questi due temi di Wilson, la sua politica di austerità e di sacrifici attuati per il bene futuro, per avere i mezzi per costruire la nuova società tecnologica, sono respinte» (Prefaziona al saggio di J-J Servan La sfida americana, p. 71, Longanesi, 1969). Con qualche anno di ritardo, Berlinguer atterrerà sulle posizioni dei repubblicani.

Alla fine del 1975, su Rinascita, Amendola delineò chiaramente la strategia dell’austerità: occorre «imporre una riconversione produttiva, un aumento della produttività generale, ma anche aziendale, l’attuazione di un piano a medio termine che comporta necessariamente, mutamenti, trasferimenti, sacrifici, la mobilità, la lotta all’assenteismo e al corporativismo: solo in questo modo noi comunisti possiamo riuscire a difendere gli inseparabili interessi della classe operaia e della nazione». Berlinguer saltò immediatamente sul carro della «destra amendoliana», che aveva nel futuro Re Giorgio I d’Italia il suo massimo esponente, il solo “comunista” che potesse vantare un certo credito a Washington, grazie anche ai buoni auspici di Andreotti.

Enrico e Giulio oggi sposi. Aprile 1977

Tra l’altro, il leader del PCI accusò i democristiani di aver contribuito al lento rotolare dell’Italia verso il precipizio, in grazia della loro politica spendacciona, che aveva promosso clientelismi, sprechi e parassitismo sociale. Qui però il buon Enrico non la raccontava secondo verità, visto che oltre il novanta per cento delle «leggi di spesa» furono votate anche dal PCI, pienamente integrato in quella che Marco Pannella chiamò «partitocrazia». Tanto la DC quanto il PCI erano l’espressione del Capitalismo di Stato italiano e del grande capitale, che trovava nel primo, direttamente o attraverso il «sistema dei partiti» e il «sistema dei sindacati», appoggi e coperture davvero invidiabili. Dal punto di vista del Capitalismo italiano Berlinguer aveva perfettamente ragione: allora (come oggi!) bisognava moderare la dinamica salariale, tagliare la spesa pubblica improduttiva, ristrutturare il settore pubblico, accrescere la produttività non solo delle imprese ma di tutto il sistema-Paese (quello che negli anni Ottanta il «compagno Bettino» chiamerà, assai correttamente, Azienda-Italia), e per questa via investire nel processo di accumulazione, per ripristinare la perduta condizione di competitività con gli altri sistemi capitalistici.

In effetti, la politica di austerità di quegli anni va inserita nel quadro della crisi economica internazionale che investì i maggiori paesi capitalistici del pianeta agli inizi degli anni Settanta, con la chiusura del lungo ciclo espansivo reso possibile dalla seconda guerra mondiale. Alla fine di quel decennio nero soprattutto la Germania e il Giappone mostrarono di poter uscire dalla crisi con un grande balzo in avanti, basato sull’implementazione di nuove tecnologie e di nuovi modelli organizzativi, e l’Italia non poteva rimanere a guardare, con la certezza di perdere la dignitosa quota di mercato conquistata nell’agone della competizione capitalistica mondiale negli anni Cinquanta e Sessanta. Ancora una volta il capitale italiano puntò le sue fishes soprattutto sul basso costo del lavoro, sul «lavoro nero», sull’economia «sommersa», sull’evasione fiscale e sulle «svalutazioni competitive», rimandando a tempi migliori un radicale ammodernamento tecnologico della produzione e la resa dei conti con un settore statale diventato troppo obeso e improduttivo. E qui siamo già all’anno di grazia 2012.

Tra l’altro, a onore del vero e a scorno della mitologia operaista e pansindacalista, c’è da dire che tutto il movimento rivendicativo degli anni Sessanta comportò lo spostamento di ricchezza sociale a favore dei salariati quantificabile nell’ordine dell’uno per cento. Quando Berlinguer teorizzò la politica della moderazione sindacale, praticata dalla trimurti sindacale già da anni, i salari operai languivano sotto la sferza dell’inflazione, balsamo su profitti andati in sofferenza. «Il problema della dinamica del costo del lavoro deve essere considerato e affrontato, ma in un quadro di valutazioni più vasto e rispondente alla realtà» (p. 42). Egli non negò – anzi! – l’imperativo categorico dei sacrifici, ma disse che a farli non dovevano essere solo i lavoratori: e anche questa è musica dei nostri giorni.

L’indicazione “austera” del sassarese si inchiavardava nella storica necessità del Capitalismo italiano di ridimensionare il peso degli strati sociali medi e piccolo-borghesi sulla spartizione del bottino (leggi plusvalore), in modo di realizzare le condizioni per la formazione di un capitale addizionale destinato ad accelerare il ritmo dell’accumulazione. Dopo trentacinque anni, il circolo vizioso costituito dall’alta spesa pubblica e privata improduttiva (che drena plusvalore senza crearne di nuovo), e dal basso ritmo dell’accumulazione (dovuto anche a quella spesa) è ancora lì, e tutti fanno finta di non capire che se non riparte l’accumulazione capitalistica in grande stile, non ci sarà più trippa da spartire. La Grecia, più che un monito, è una cartina al tornasole, niente che possa sconvolgere chi non ha mai creduto al mito della cornucopia finanziaria, o alla «solidarietà europeista».

Naturalmente il PCI aveva allora tutto l’interesse a dipingere a tinte ancora più fosche la pessima situazione economico-sociale del Paese, per accreditarsi in Italia e all’estero (Stati Uniti) come affidabile partito di governo, e così far cadere una volta per sempre quel «fattore K» che gli sbarrava la strada per il governo del Paese, nonostante i crescenti suffragi elettorali (oltre il 34 per cento nel “mitico” 20 giugno 1976). Solo la classe operaia, rappresentata sul piano elettorale dal PCI, può salvare l’Italia dall’abisso nel quale rischia di precipitare: è questo il mantra che Berlinguer sciorina continuamente nei due discorsi del 1977. Ma non potendo fare a meno dello zoccolo duro costituito dai militanti e dai simpatizzanti filosovietici, molto legati alla tradizione stalinista e togliattiana del PCI, il segretario «del più grande partito comunista occidentale» (sic!) non poté superare il «guado» rappresentato dalla collocazione geopolitica dell’Italia.

Infatti, ancora nel ’77 egli dichiarava quanto segue: «Rispondiamo no a chi vuol portarci alla rottura con altri partiti comunisti; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono nei paesi socialisti … Noi affermiamo che il mercato, l’impresa, il profitto possano e debbano mantenere una funzione anche nel quadro di una economia che si sviluppa ed è orientata da una volontà pubblica democratica. Ma ci guardiamo bene dall’accettare i consigli di coloro che vorrebbero portarci a diventare paladini del capitalismo o addirittura assertori della sua superiorità sul socialismo» (p. 59). Se si tiene presente che per «socialismo» il poverino intendeva, come d’altra parte tutti i “comunisti” sparsi per il mondo, il Capitalismo di Stato, il cui modello «reale» si poteva osservare nell’Unione Sovietica, o in Cina, ovvero nel Vietnam di Phan Van Dong (l’ultima infatuazione ideologica berlingueriana), si capisce di quale escrementizia pasta fosse fatta la base del PCI. Sul fondamento di quella pasta il partito di Berlinguer poté perorare la causa della salvezza nazionale e criminalizzare coloro che si opponevano alla politica dei sacrifici, qualificati come «provocatori» e «servi della destra reazionaria». Ma si poteva allora essere più destri e reazionari del PCI? Davvero un’impresa difficile!

«L’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione può essere adoperata come strumento di repressione politica» (p. 14): fu esattamente ciò che si verificò alla fine degli anni Settanta, con la scusa della lotta al terrorismo. (Detto di passaggio, la miserrima ideologia dei «terroristi rossi» era radicata nella storia del PCI stalinista e togliattiano. Il loro atteggiamento nei confronti di quel partito somiglia molto a quello del figlio che si sente tradito dal Padre. Proprio questa vicinanza “genetica” spiega l’accanimento repressivo del PCI nei confronti dei figli che lo criticavano da “sinistra”). Quando affermi «l’obbligo di una politica di austerità», che risponda «a non procrastinabili interessi generali del paese», hai di fatto accettato la violenza sistemica della società basata sullo sfruttamento, e sostenuto il Diritto alla violenza da parte dello Stato. Violenza contro chi è sordo ai patriottici richiami della sirena chiamata Austerità.

Leggi anche Il realismo storico e politico di Enrico Berlinguer.

SPETTRI DI BERLINGUER

A circa ventisette anni dalla sua morte, Enrico Berlinguer non smette di mietere suffragi nel seno del progressismo italiota. Ultimamente ne ha parlato in TV Bertinotti (nel programma In Onda, La7) osservando che il leader sardo era uno che «di comunismo se ne intendeva». E se lo dice lui bisogna credervi… L’acuirsi della crisi economico-sociale, con il necessario corollario di politiche tutte lacrime e sangue, e la diffusione in settori del progressismo italiano dell’ideologia decrescista, hanno fatto ritornare in auge il pensiero politico berlingueriano, a testimonianza dei tristi e confusi tempi che ci tocca vivere. Qui di seguito mi esercito in una breve spigolatura critica della famosa intervista che il capo del PCI rilasciò a Eugenio Scalfari il 28 luglio 1981 per La Repubblica. L’intenzione politica è piuttosto chiara e non merita ulteriori chiarimenti.

«I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali».
Naturalmente il leader del PCI lasciava intendere che solo il suo partito non faceva parte di quella che Pannella chiamò, già nei primi anni Settanta del secolo scorso, «partitocrazia», proprio in riferimento al «bipolarismo imperfetto» DC-PCI. Non solo il PCI era coinvolto a pieno titolo nel «regime partitocratico», con una fortissima influenza sul capitalismo pubblico e privato (anche attraverso la CGIL e le cosiddette «cooperative rosse»), ma continuava a ricevere finanziamenti da parte dell’Unione Sovietica. Basta chiedere lumi a un tal Armando Cossutta. Insomma, il PCI di Berlinguer era, per così dire e ponendomi sullo stesso piano degli odierni manettari, un partito «diversamente corrotto», e la cosiddetta «questione morale» non fu che un suo maldestro tentativo di screditare la DC e il PSI (soprattutto quest’ultimo, a causa del forte e aggressivo «autonomismo» craxiano) nel momento in cui la dinamica politico-sociale italiana e internazionale rendeva palese l’obsolescenza della politica «comunista».

«Il costo del lavoro va anch’esso affrontato e, nel complesso, contenuto, operando soprattutto sul fronte dell’aumento della produttività».
In termini marxiani si tratta di incrementare lo sfruttamento dei lavoratori, in modo da massimizzare l’estorsione del «plusvalore relativo», il quale è reso possibile dall’uso di più moderne tecnologie e dall’implementazione di una più razionale ed efficiente organizzazione del lavoro. A parità di orario di lavoro, o addirittura con un suo decremento, la singola unità produttiva crea più merci o parti di esse, e l’insieme del processo produttivo risulta più dinamico, più flessibile e più economico. Marx associava questa modalità di sfruttamento della capacità lavorativa all’epoca della sussunzione reale del lavoro al capitale, la quale sul piano della società nel suo complesso si declina nei termini di un totalitario dominio degli interessi economici, e in una sempre più crescente obliterazione dell’umano, ridotto allo status di residualità.

«Voglio dirle però con tutta franchezza che quando si chiedono sacrifici al paese e si comincia con il chiederli – come al solito – ai lavoratori, mentre si ha alle spalle una questione come la P2, è assai difficile ricevere ascolto ed essere credibili. Quando si chiedono sacrifici alla gente che lavora ci vuole un grande consenso, una grande credibilità politica e la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi. Se questi elementi non ci sono, l’operazione non può riuscire».
La solita demagogia «populista»: per vendere meglio la politica dei sacrifici alle classi subalterne, bisogna accreditarsi ai loro occhi come i fustigatori dei «poteri forti» nonché nemici irriducibili di ladri, corrotti, mafiosi, piduisti e luogocomunismi vari. Sparare sul Quartier Generale per meglio attaccare le condizioni di vita e di lavoro dei salariati: una strategia che in ogni tempo e in ogni luogo ha fornito prova di grande efficacia.

«Noi comunisti abbiamo sessant’anni di storia alle spalle».
Sessant’anni di stalinismo italiano, ossia di togliattismo. Tra i leader del cosiddetto «Comunismo Internazionale» Togliatti si distinse in zelo e intelligenza; egli fu il migliore esecutore della linea politica tesa a legittimare e a sostenere l’iniziativa imperialista della «Patria Sovietica» e a propagandarne l’ideologia di Stato (il cosiddetto «Marxismo-Leninismo», con rispetto parlando…). Dopo il patto Molotov-Ribbentrop del 1939 Togliatti non lesinò energie nell’opera di giustificazione, e sollecitò i «compagni italiani» a tentare di dialogare con la «corrente di sinistra» del Fascismo. In fondo si trattava di coordinare l’azione delle «Nazioni Proletarie» con l’obiettivo di tagliare le unghie alle «Nazioni demoplutocratiche», assetate di profitti e di sangue. A quel punto trotskisti, bordighisti e anarchici furono additati al proletariato italiano ed europeo come i nemici più pericolosi della «causa comunista». Quando l’Unione Sovietica fu costretta a cambiare cavallo sul terreno delle alleanze imperialistiche a causa del tradimento nazista, naturalmente anche il Partito di Togliatti si adeguò alla nuova situazione. Le «Potenze plutodemocratiche» di ieri diventeranno magicamente le «Nazioni Democratiche» con le quali i «comunisti» dovevano allearsi per sconfiggere il «mostro nazifascista». Il cinismo politico di Togliatti faceva impallidire qualsiasi teorico della più spregiudicata realpolitik. Naturalmente gli intellettuali del partito tiravano in ballo la dialettica hegeliana…

Il Partito di Berlinguer fu la continuazione di quella ultrareazionaria storia politica con altri mezzi e in circostanze nazionali e internazionali diverse (l’appartenenza dell’Italia al «Blocco Occidentale» sancita dagli accordi russo-americani depotenziarono il filosovietismo ). Stessa cosa può dirsi per gran parte dei movimenti politici (lottarmatisti compresi) che lo contestarono da «sinistra». La politica del PCI tesa a cercare un «compromesso» con la Democrazia Cristiana di Moro e Andreotti non segnò alcuna cesura di significato storico: infatti, di «Comunista» il Partito di Togliatti-Longo-Berlinguer aveva solo il nome. Di qui, la mia presa di distanza critica dal nome della cosa per poterne sviscerare meglio il concetto essenziale. Se Vendola, Bertinotti, Ferrero, Diliberto e compagni di simile fattura sono «comunisti», ebbene io non lo sono affatto!

«Fummo i soli a sottolineare la necessità di combattere gli sprechi, accrescere il risparmio, contenere i consumi privati superflui, rallentare la dinamica perversa della spesa pubblica, formare nuove risorse e nuove fonti di lavoro».
Qui è ben sintetizzato il piano politico-economico di attacco ai lavoratori in vista di una ristrutturazione nella produzione e nel Welfare, in modo da innescare un nuovo circolo virtuoso nel processo capitalistico di accumulazione. Solo in parte questo piano fu attuato dai governi DC-PSI con la preziosa collaborazione della triplice sindacale. Oggi siamo nuovamente a questo punto.

Vediamo la copertura ideologica di quel piano: «Dicemmo che anche i lavoratori avrebbero dovuto contribuire per la loro parte a questo sforzo di raddrizzamento dell’economia, ma che l’insieme dei sacrifici doveva essere fatto applicando un principio di rigorosa equità e che avrebbe dovuto avere come obiettivo quello di dare l’avvio ad un diverso tipo di sviluppo e a diversi modi di vita (più parsimoniosi, ma anche più umani)».
Qui siamo al tradizionale «cattocomunismo» dei progressisti italiani, ovunque essi militino. Quando un «comunista» parla di «umanità», o di «socialismo» («Noi vogliamo costruire sul serio il socialismo») la mia mano cerca subito il lanciafiamme: è più forte di me! A Berlinguer piaceva tanto una società capitalistica moralmente sana («La diffusione della droga tra i giovani è uno dei segni più gravi della “civiltà dei consumi”»), esteticamente in bianco e nero (come la TV che difendeva, insieme a Ugo La Malfa, contro i «consumisti» che sostenevano il demoniaco media colorato) e poco incline ai «consumi privati superflui»: probabilmente egli rimase per tutta la vita legato al modello di «socialismo reale» basato sulla miseria sociale generalizzata (classe dominante esclusa, ovviamente). Per questo la critica che gli rivolgeva il «modernizzatore» Craxi penetrava come il coltello nel burro tra i «miglioristi», i quali avevano da tempo scelto tra il modello capitalistico «Sovietico» e quello «Occidentale». Ancora oggi in Italia c’è chi si sogna la «Terza Via», quello che ci dovrebbe condurre al Capitalismo equo e solidale, nonché ecosostenibile e bla, bla, bla, sciorinando il grigio e chimerico vocabolario dei decrescisti d’ogni risma e colore.

Ora che il Puttaniere Nero di Arcore ha detto che non pronuncerà mai, nemmeno sotto tortura, la parola «austerità», non c’è dubbio che le quotazioni di Enrico Berlinguer sono destinate a crescere nella Borsa Valori dei poveri di spirito e di pensiero. In tempi burrascosi come quelli che viviamo la classe dominante ha bisogno di punti fermi politico-ideologici seri (altro che Silvio!) su cui far leva nell’esercizio del suo dominio.